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ROGER ZELAZNY IL CAVALIERE DELLE OMBRE (The Knight Of Shadows, 1990) 1. Il suo nome era Julia, ed ero dannatamente certo che fosse morta quel 30 Aprile in cui tutto era cominciato. La mia scoperta dei suoi macabri resti e l'eliminazione da parte mia della bestia simile ad un cane che avevo pensa- to l'avesse uccisa, era la simpatica maniera in cui era cominciata la cosa. Eravamo stati insieme, e suppongo che fosse proprio per quel fatto che era iniziato tutto. Molto tempo prima... Forse avrei dovuto fidarmi maggiormente di lei. Forse non avrei mai do- vuto farle fare quella passeggiata tra le Ombre che aveva provocato il suo rifiuto e l'aveva allontanata da me, spingendola lungo strade oscure e nello studio di Victor Melman, uno sgradevole Occultista che in seguito avevo dovuto eliminare: quello stesso Victor Melman che era stato il burattino di Luke e di Jastra. Ma adesso, forse — soltanto forse — avrei potuto essere nella posizione di perdonare me stesso per quello che pensavo di aver fat- to, perché sembrava che non avessi fatto proprio un bel niente, dopotutto. O quasi niente... O meglio, avevo saputo di non esserne stato il responsabile nel momento in cui lo avevo fatto. Fu quando affondai il pugnale nel fianco del miste- rioso Mago Maschera, che aveva incrociato per un certo periodo la mia strada, che scoprii che Maschera era in realtà Julia. Il mio fratellastro Jurt — il quale cerca di uccidermi con una costanza che nessun altro ha mostra- to nell'intera faccenda — la portò via furtivamente, e poi entrambi scom- parvero subito dopo la sua trasformazione in un Trionfo vivente. Mentre lasciavo di corsa la Fortezza della Cittadella dei Quattro Mondi in fiamme, il crollo di un timpano mi obbligò a scansarmi rapidamente, in- trappolandomi in un vicolo cieco pieno di rottami e di raggi brucianti. Una pallina scura di metallo in quel momento luccicò sorpassandomi, dando l'impressione di ingigantire nello sfrecciare. Colpì il muro e lo attraversò, lasciando un buco in cui ci si poteva intrufolare, un suggerimento questo che non tardai a seguire. Ritrovatomi all'esterno, saltai il fossato, usando le mie estensioni del Logrus per buttare giù una sezione della palizzata e sba- ragliare un drappello di soldati, prima di voltarmi indietro e gridare: «Mandor!»

Roger Zelazny - Il Cavaliere Delle Ombre

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ROGER ZELAZNY IL CAVALIERE DELLE OMBRE

(The Knight Of Shadows, 1990)

1. Il suo nome era Julia, ed ero dannatamente certo che fosse morta quel 30

Aprile in cui tutto era cominciato. La mia scoperta dei suoi macabri resti e l'eliminazione da parte mia della bestia simile ad un cane che avevo pensa-to l'avesse uccisa, era la simpatica maniera in cui era cominciata la cosa. Eravamo stati insieme, e suppongo che fosse proprio per quel fatto che era iniziato tutto. Molto tempo prima...

Forse avrei dovuto fidarmi maggiormente di lei. Forse non avrei mai do-vuto farle fare quella passeggiata tra le Ombre che aveva provocato il suo rifiuto e l'aveva allontanata da me, spingendola lungo strade oscure e nello studio di Victor Melman, uno sgradevole Occultista che in seguito avevo dovuto eliminare: quello stesso Victor Melman che era stato il burattino di Luke e di Jastra. Ma adesso, forse — soltanto forse — avrei potuto essere nella posizione di perdonare me stesso per quello che pensavo di aver fat-to, perché sembrava che non avessi fatto proprio un bel niente, dopotutto. O quasi niente...

O meglio, avevo saputo di non esserne stato il responsabile nel momento in cui lo avevo fatto. Fu quando affondai il pugnale nel fianco del miste-rioso Mago Maschera, che aveva incrociato per un certo periodo la mia strada, che scoprii che Maschera era in realtà Julia. Il mio fratellastro Jurt — il quale cerca di uccidermi con una costanza che nessun altro ha mostra-to nell'intera faccenda — la portò via furtivamente, e poi entrambi scom-parvero subito dopo la sua trasformazione in un Trionfo vivente.

Mentre lasciavo di corsa la Fortezza della Cittadella dei Quattro Mondi in fiamme, il crollo di un timpano mi obbligò a scansarmi rapidamente, in-trappolandomi in un vicolo cieco pieno di rottami e di raggi brucianti. Una pallina scura di metallo in quel momento luccicò sorpassandomi, dando l'impressione di ingigantire nello sfrecciare. Colpì il muro e lo attraversò, lasciando un buco in cui ci si poteva intrufolare, un suggerimento questo che non tardai a seguire. Ritrovatomi all'esterno, saltai il fossato, usando le mie estensioni del Logrus per buttare giù una sezione della palizzata e sba-ragliare un drappello di soldati, prima di voltarmi indietro e gridare:

«Mandor!»

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«Sono qui,» disse la sua voce tranquilla da dietro la mia spalla sinistra. Mi girai in tempo per vederlo afferrare una sferetta metallica, che rim-

balzò una volta davanti a noi per poi cadere nella sua mano protesa. Lui si levò dallo sparato nero le tracce di cenere e si passò una mano tra

i capelli. Poi sorrise e si voltò a guardare la Fortezza in fiamme. «Hai mantenuto la promessa fatta alla Regina,» osservò, «e non credo

che ci sia altro da fare qui per te. Vogliamo andarcene, adesso?» «Jastra è ancora dentro,» risposi, «per farla finita con Sharu.» «Credevo che non ti servisse più.» Scossi la testa. «Sa ancora parecchie cose che io non conosco. Cose di cui avrò biso-

gno.» Una torre di fuoco cominciò a sollevarsi dalla Fortezza: fermandosi e

torreggiando per un momento, tornò a rialzarsi ancora più possente. «Non avevo capito,» disse. «Sembra che voglia ostinatamente il control-

lo di quella fontana. Se adesso dovessimo allontanarla, quello Sharu la re-clamerebbe per sé. Ha importanza?»

«Se non la porto via, potrebbe ucciderla.» Mandor scosse la testa. «Ho la sensazione che sarà lei ad avere ragione di lui. Accetteresti di fa-

re una piccola scommessa?» «Vorrei che tu avessi ragione,» disse, guardando la fontana che conti-

nuava la sua scalata verso il cielo. Feci un gesto nella sua direzione. «Quella cosa sembra un getto di petrolio. Mi auguro che il vincitore

sappia come soffocarla... se poi ci sarà un vincitore. Nessuno dei due può resistere ancora per molto, con l'intero edificio che sta crollando.»

Sogghignò. «Tu sottovaluti le forze che hanno generato per proteggersi,» disse. «E

sai che non è facile per un Mago far fuori un altro Mago a colpi di Incante-simi. Comunque, c'è un suo aspetto positivo quando si arriva alla fine del mondo. Con il tuo permesso...»

Annuii. Con un rapido movimento furtivo della mano, scagliò la sferetta di me-

tallo in direzione dell'edificio in fiamme. L'oggetto colpì il terreno e, dopo un rimbalzo successivo, parve ingigantire. Ogni volta che colpiva, produ-ceva un suono simile ad un cembalo, del tutto sproporzionato rispetto alla sua massa apparente ed alla sua velocità, e quel suono aumentava di volu-me ad ogni rimbalzo. Poi la pallina entrò nel fabbricato che costituiva l'e-

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stremità più vicina della Fortezza, e scomparve dalla vista per diversi se-condi.

Stavo per chiedergli cosa stava succedendo, quando vidi l'ombra di una grande sfera passare davanti all'apertura dalla quale ero scappato. Le fiamme — ad eccezione della colonna centrale che si innalzava dalla Fon-tana dissestata — cominciarono a scemare, e dall'interno provenne un suo-no profondo e rimbombante. Qualche istante dopo passò un'ombra circola-re ancora più grande, e cominciai a sentire il rimbombo sotto la suola delle scarpe.

Cadde un muro. In rapida successione ne crollò un secondo. Riuscivo a vedere l'interno abbastanza chiaramente. In mezzo alla foschia ed al fumo, sfrecciò nuovamente la sfera gigante. Le fiamme vennero soffocate. La mia Visione del Logrus mi consentì di vedere di nuovo le linee mobili di Potere che passavano tra Jastra e Sharu.

Mandor stese una mano. Dopo un minuto circa, tornò verso di noi una pallina metallica, rimbalzando, ed egli la prese.

«Torniamo dentro,» disse. «Sarebbe un peccato perdersi la fine.» Passammo attraverso una delle molteplici falle della palizzata: una quan-

tità sufficiente di pietrisco riempiva il fossato in un punto in cui riuscimmo ad attraversarlo. Allora sprecai un Incantesimo della Barriera per tenere a distanze le truppe che si stavano ricompattando e levarcele dai piedi per un pò.

Entrando attraverso il muro rotto, vidi che Jastra stava in piedi dando la schiena alla torre di fuoco, con le braccia sollevate. Rivoli di sudore le ri-gavano la faccia sporca di fuliggine a mò di zebra, e riuscivo a percepire il pulsare delle forze che le attraversavano il corpo. A circa dieci piedi di al-tezza da lei, con la faccia paonazza e la testa pendente da una parte come se il suo collo fosse spezzato, Sharu stava sospeso in aria. Ai non iniziati poteva sembrare che stesse levitando per forza di Magia. La mia Visione del Logrus mi permise di scorgere la linea di forza con la quale veniva te-nuto sospeso, vittima di quello che, suppongo, si sarebbe potuto chiamare un linciaggio magico.

«Bravo,» disse Mandor, battendo lentamente le mani. «Vedi, Merlin? Avrei vinto quella scommessa.»

«Sei sempre stato un miglior giudice di talenti di me,» gli concessi. «... e giura di obbedirmi,» udii dire da Jastra. Le labbra di Sharu si mossero. «Giuro di servirti,» ansimò il Mago.

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Lei riabbassò lentamente le braccia, e la linea di forza che lo teneva so-speso cominciò ad allentarsi. Quando scese verso il pavimento rotto della Fortezza, la mano sinistra di lei fece un gesto simile a quello che una volta avevo visto compiere da un direttore d'orchestra per incoraggiare gli stru-menti a fiato e, dalla Fontana, si librò una grossa lingua di fuoco che passò su di lui e si posò a terra. Era viscosa, anche se non scorgevo bene il pun-to...

La sua lenta discesa continuò, come se qualcuno in cielo stesse pescando dei coccodrilli. Mi ritrovai a trattenere il fiato mentre i suoi piedi si avvici-navano al suolo, anticipando comprensibilmente l'alleggerimento della pressione sul suo collo. La cosa, però, non si verificò.

Quando i suoi piedi raggiunsero il terreno, vi passarono attraverso, e la sua discesa continuò, come se lui fosse un ologramma nascosto. Le cavi-glie scomparvero, poi fu la volta delle ginocchia. Non sapevo se respirasse ancora. Le labbra di Jastra recitarono a bassa voce una litania di comandi, cui risposero lingue di fuoco che si separarono a turno dalla Fontana per abbattersi su di lui. Sharu si abbassò ulteriormente; prima la vita, poi le spalle. Quando solo la testa rimase visibile, con gli occhi aperti ma persi nel vuoto, lei eseguì un altro movimento con la mano, e la sua discesa nel-le viscere della terra venne bloccata.

«Adesso sei tu il Guardiano della Fontana,» gli disse, «e ne risponderai a me soltanto. Accetti?»

Le labbra annerite si corrugarono. «Sì,» arrivò la debole risposta. «Adesso và, e trattieni le fiamme», gli ordinò. «Comincia il tuo lavoro.» La testa sembrò annuire e, allo stesso tempo, parve sprofondare di nuo-

vo. Dopo un momento rimase visibile soltanto una ciocca cotonosa di ca-pelli, ma l'istante successivo il terreno inghiottì anche quella. La linea di forza scomparve.

Mi schiarii la gola. A quel rumore, Jastra lasciò cadere le braccia e si voltò verso di me. Sorrideva leggermente.

«È vivo o morto?», chiesi, e poi aggiunsi: «È una semplice curiosità ac-cademica.»

«Non ne sono del tutto certa,» rispose. «Ma è entrambe le cose, credo. Come tutti noi.»

«Guardiano della Fontana!», riflettei. «Un'esistenza interessante.» «Non è carino essere un attaccapanni,» osservò lei. «Direi di no.»

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«Suppongo che adesso, secondo te, dovrei mostrarti gratitudine per a-vermi liberata,» affermò.

Alzai le spalle. «A dirvi la verità, ho altre cose a cui pensare,» dissi. «Volevi porre fine al feudo,» disse lei, «ed io rivolevo questo posto.

Continuo a non nutrire pensieri gentili nei riguardi di Ambra, ma voglio farti sapere che siamo pari.»

«Mi accontenterò,» le dissi. «E c'è una piccola transazione che vorrei fa-re con voi.»

Mi studiò per un pò insospettita, poi sorrise. «Non preoccuparti per Luke,» disse. «Ma devo. Quel figlio di puttana di Dalt...» Continuò a sorridere. «Sapete qualcosa che io non so?», le chiesi. «Molte cose,» rispose. «Nulla di cui vorreste mettermi a parte?» «Le informazioni sono una merce di scambio,» osservò, mentre il terre-

no tremava leggermente e la colonna fiammeggiante ondeggiava. «Io vi offro di aiutare vostro figlio, e voi mi offrite di vendermi l'infor-

mazione su come farlo?», le chiesi. Rise. «Se pensassi che Rinaldo avesse bisogno di aiuto,» disse, «correrei all'i-

stante al suo fianco. Ritengo ti sia più facile odiarmi se pensi che manco perfino di amore materno.»

«Ehi: credevo che ci considerassimo pari,» dissi. «Questo non ci impedisce di odiarci,» rispose. «Suvvia, Signora! A parte il fatto che avete cercato di ammazzarmi per

tutti questi anni, non ho niente contro di voi. Si dà il caso che siate la ma-dre di qualcuno che mi è caro e che rispetto. Se si trova nei guai, voglio aiutarlo, e sono anche disposto a venire a patti con voi.»

Mandor si schiarì la gola, mentre le fiamme scendevano di dieci piedi, tremolavano e poi si abbassavano ancora.

«Ho degli interessanti Incantesimi Culinari,» osservò, «nel caso la re-cente ginnastica avesse stimolato in te un certo appetito.»

Jastra sorrise, quasi civettando, ed avrei giurato che sbattesse le ciglia per lui. Con quei capelli bianchi che creano uno stridente contrasto, non definirei Mandor esattamente una bellezza. Non ho mai capito perché le donne siano sempre tanto attratte da lui. Ho perfino pensato che ricorra a

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qualche Incantesimo particolare, per risultare irresistibile, ma non è così. Deve essere un tipo di Magia di tutt'altro genere.

«Gran bella idea!», rispose lei. «Io penserò all'ambiente, se tu ti occupe-rai del resto.»

Mandor le fece un inchino; le fiamme caddero a terra e si estinsero. Ja-stra gridò un ordine a Sharu, il Guardiano invisibile, dicendogli di mante-nerle a quella intensità. Poi si rivolse a noi e ci fece strada verso la scala che portava di sotto.

«È un passaggio sotterraneo,» spiegò, «per lidi più civili.» «Mi viene in mente,» osservai, «che, chiunque incontreremo, probabil-

mente sarà fedele a Julia.» Jastra rise. «Come lo erano verso di me prima di lei, e verso Sharu prima di me,» ri-

spose. «Sono dei professionisti. Si adattano alla situazione. Sono pagati per difendere i vincitori, e non per vendicare gli sconfitti. Vedrò di fare u-n'apparizione con relativo annuncio ufficiale dopo cena, e mi godrò la loro lealtà sincera ed unanime fino all'arrivo del prossimo usurpatore. Attenzio-ne al terzo scalino. C'è una pietra smossa.»

Così continuò a guidarci, prima attraverso la parete di un finto muro, poi in un tunnel buio, puntando in quella che credetti fosse la direzione nord verso l'area della Cittadella che avevo parzialmente ispezionato in maniera analoga in occasione del mio precedente arrivo. Era stato quel giorno in cui l'avevo liberata da Maschera/Julia e portata ad Ambra a fare per un pò da attaccapanni nella nostra cittadella.

La galleria in cui entrammo era completamente buia, ma lei evocò un puntolino dardeggiante, luminoso nonostante le sue dimensioni minuscole, che ci precedette nell'umida oscurità. L'aria era stagnante, ed i muri coperti di ragnatele. Il pavimento era di nuda terra, ad eccezione di una chiazza ir-regolare di mattoni verso il centro; su entrambi i lati spuntavano occasio-nali pozzanghere ristagnanti; e, di tanto in tanto, ci tagliavano la strada piccole creature scure... sia per terra che in aria.

In realtà non avevo alcun bisogno della luce. Probabilmente nessuno di noi l'aveva. Mi affidavo al Segno del Logrus, il quale mi consentiva una vista magica, garantendomi un'illuminazione argentea che potevo dirigere dove volevo. La conservai perché mi avrebbe fornito anche un avvertimen-to contro eventuali effetti magici, che potevano includere l'apertura di bo-tole nel pavimento o, restando sempre in tema di Incantesimi, qualche trucchetto da parte di Jastra. Un effetto che mi provocò quel tipo di vista fu

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il notare che il Segno era sospeso anche davanti a Mandor, il quale — per quel che ne so — non è mai stato troppo fiducioso. Qualcosa di nebuloso e vagamente somigliante al Disegno occupava una posizione analoga anche davanti a Jastra, completando la catena di sospetti. E la luce continuava a danzare davanti a noi.

Da dietro una fila di botti riemergemmo in quella che sembrava una can-tina ben fornita di vino. Mandor, dopo sei passi, si fermò, e rimosse con cautela una bottiglia impolverata dalla rastrelliera alla nostra sinistra. Con un angolo del mantello ne ripulì l'etichetta.

«È il mio!», osservò. «Che cos'è?» s'informò Jastra. «Se è ancora buono, posso costruirvi intorno un pranzo indimenticabi-

le.» «Davvero? Meglio prendere qualche altra bottiglia per essere sicuri,»

disse lei. «Queste risalgono a chi stava qui prima di me: forse anche prima di Sharu.»

«Merlin, tu prendi queste due,» disse lui, passandomene un paio. «Atten-to, adesso!»

Ispezionò il resto della rastrelliera prima di decidersi a sceglierne altre due, che portò lui stesso.

«Capisco perché questo posto viene frequentemente preso d'assedio,» disse a Jastra. «Ci avrei fatto su un pensierino pure io, se avessi conosciuto meglio queste parti.»

Jastra allungò una mano e la posò sulla spalla di lui. «Ci sono dei modi più semplici per ottenere quello che vuoi,» disse, sor-

ridendo. «Me ne ricorderò...», rispose lui. «Spero che allora penserai anche a me.» Mi schiarii la gola. Jastra mi guardò leggermente contrariata, poi proseguì. La seguimmo

fuori passando per una porta bassa, e poi risalimmo una rampa di scale di legno. Ci ritrovammo in una spaziosa dispensa ed attraversammo un'im-mensa cucina deserta.

«Non c'è mai un servitore, quando ne cerchi uno!», osservò lei, posando lo sguardo sulla stanza.

«Non ne avremo bisogno,» disse Mandor. «Trovatemi uno spazio adatto per cucinare e penserò a tutto io.»

«Benissimo!», rispose lei. «Da questa parte, allora.»

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Ci condusse attraverso la cucina; poi attraversammo tutta una serie di ambienti finché non trovammo una scala, e lì salimmo.

«Distese di ghiaccio?», chiese lei. «Distese di lava? Montagne? O un mare tempestoso?»

«Se state parlando del panorama,» rispose Mandor, «preferirei le monta-gne.»

Mi guardò, ed io feci cenno che mi andava bene. Jastra ci portò in una stanza lunga e stretta, dove aprimmo le persiane

per trovarci davanti la vista di una doppia catena di montagne dalle punte arrotondate. La sala era fredda ed un pò impolverata, con degli scaffali che percorrevano l'intera lunghezza della vicina parete. Contenevano libri, ar-nesi per scrivere, cristallerie, stupendi oggetti in vetro, vasetti dipinti, qualche semplice strumento magico, ed un microscopio. C'era un tavolo montato su cavalietti al centro della stanza, con due panche su entrambi i lati.

«Quanto tempo ci vorrà per preparare questo?», chiese Jastra. «Un minuto o due,» rispose Mandor. «In questo caso,» disse lei, «per prima cosa vorrei rinfrescarmi. Forse

anche voi.» «Buona idea,» dissi io. «Davvero!», acconsentì Mandor. Ci condusse in quella che doveva essere l'area destinata agli ospiti, non

troppo lontana, e ci lasciò lì con del sapone, degli asciugamani e dell'ac-qua. Decidemmo di riincontrarci mezz'ora dopo nella stanzetta.

«Credi che abbia in mente qualche scherzetto?», chiesi, mentre mi leva-vo la camicia.

«No,» rispose Mandor. «Voglio gratificare la mia vanità credendo che non intenda perdersi questo pranzo. D'altronde, non credo che si lascereb-be sfuggire l'occasione di farsi vedere al meglio, dopo esserci sempre ap-parsa in disordine. E poi, c'è la possibilità di fare due chiacchiere, di scam-biarsi qualche confidenza...» Scosse la testa. «Non hai mai potuto fidarti di lei prima, e potresti non fidarti mai più. Ma questo pranzo sarà un bel di-vertimento, se so giudicare.»

«Mi fido di te,» dissi, mentre mi bagnavo il viso e lo insaponavo. Mandor mi rivolse uno strano sorriso, poi fece apparire un cavatappi ed

aprì le bottiglie «per farle respirare un pò», prima di dedicarsi alla sua per-sona. Mi fidavo del suo giudizio, ma continuai ad avvalermi del Segno del Logrus nel caso avessi dovuto battermi con un Demone od evitare la cadu-

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ta di un muro. Non si videro Demoni, e non crollarono muri. Entrai nella sala da pranzo

dietro a Mandor, e lo guardai trasformarla con qualche parola e qualche gesto. Il tavolo sul cavalletto e le panche vennero sostituiti da un tavolo ro-tondo e da sedie dall'aspetto comodo: le sedie erano disposte in modo da farci godere la vista delle montagne. Jastra non era ancora arrivata, ed io stavo portando le due bottiglie di vino il cui aroma Mandor trovava tanto invitante.

Prima che riuscissi a posarle sul tavolo, Mandor aveva già fatto apparire una tovaglia e dei tovaglioli finemente ricamati, delicate porcellane che sembravano dipinte a mano da Mirò, e dell'argenteria finemente cesellata. Studiò l'apparecchiatura per un momento, mandò via l'argenteria, ed evocò un set di posate di diversa fattura. Mentre si spostava per vedere il tavolo da tutte le angolazioni possibili, canticchiava. Non appena feci per mettere le bottiglie in tavola, evocò un vaso di cristallo pieno di fiori ondeggianti come centrotavola. Feci un passo indietro ed allora apparvero dei calici di cristallo.

Emisi una specie di grugnito ed allora parve notarmi per la prima volta. «Oh, mettile lì, Merlin,» disse e, alla mia sinistra, apparve sulla tavola

un vassoio d'ebano. «Faremo meglio a sincerarci delle condizioni del vino, prima che arrivi

la nostra Signora,» disse poi, versando un pò di liquido rosso in due calici. Lo assaggiammo ed annuimmo soddisfatti. Era meglio del Bayle. E di

molto. «Mi sembra tutto perfetto,» osservai. Fece un giro intorno al tavolo, poi andò alla finestra e guardò fuori. Lo

imitai. Da qualche parte, su quelle montagne, c'era Dave nella sua grotta. «Mi sento quasi colpevole,» dissi, «a prendermi una pausa come questa.

Ci sono talmente tante cose di cui dovrei occuparmi...» «Forse anche più di quanto credi,» disse lui. «Considerala più una pausa

che un divertimento. Potresti anche venire a sapere qualcosa di utile dalla Signora.»

«È vero,» risposi. «Ma mi domando cosa...» Agitò il vino dentro il bicchiere, bevve un altro sorso, ed alzò le spalle. «Sa parecchie cose. Potrebbe lasciarsi sfuggire qualcosa senza volerlo, o

forse le nostre attenzioni la renderanno espansiva e diventerà generosa. Prendi le cose come vengono.»

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Bevvi un sorso, e mi dimostrerei scortese se dicessi che i miei pollici cominciarono a tamburellare. Ma in realtà fu la Visione del Logrus ad av-vertirmi della presenza di Jastra lungo il corridoio, mentre stava entrare in sala da pranzo. Non lo dissi a Mandor, poiché ero certo che se ne fosse ac-corto anche lui. Mi limitai a girarmi verso la porta, e lui imitò il mio mo-vimento.

Indossava un vestito bianco che lasciava una spalla scoperta (la sinistra): era allacciato con una spilla di diamanti, e portava una tiara, anch'essa di diamanti, che sembrava quasi irradiare una luce ultravioletta tra i suoi ca-pelli chiari. Sorrideva, ed aveva anche un buon profumo. Involontariamen-te raddrizzai la schiena, e mi ritrovai a controllare che le mie unghie fosse-ro ben pulite.

L'inchino di Mandor fu più galante del mio, come al solito, ed allora mi sentii obbligato a dire qualcosa di carino.

Così: «Siete molto... elegante,» osservai, lasciando parlare i miei occhi per enfatizzare il complimento.

«Mi capita di rado di pranzare con due Principi,» rispose lei. «Io sono Duca delle Marche Occidentali,» dissi, «e non un Principe.» «Mi riferivo alla Casa di Sawall,» replicò lei. «Sembra che abbiate fatto bene i compiti,» osservò Mandor, «di recen-

te.» «Non vorrei infrangere l'etichetta,» disse lei. «Uso di rado il mio titolo del Caos per questo tipo di cose,» le spiegai. «È un peccato,» mi disse lei. «Lo trovo più... elegante. Non sei il tredi-

cesimo in linea di successione?» Risi. «Anche a quella distanza la trovo un'esagerazione,» dissi. «No, Merle, ha ragione,» mi disse Mandor. «Le cose cambiano.» «Come è possibile?», chiesi. «L'ultima volta che ho controllato...» Riempii un calice di vino e lo porsi a Jastra. Lei lo accettò con un sorri-

so. «Non hai controllato recentemente,» disse Mandor. «Ci sono state altre

morti.» «Davvero? Così tante?» «Al Caos!», disse Jastra, alzando il calice. «Possa agitarsi a lungo.» «Al Caos!», si unì al brindisi Mandor, alzando il suo. «Al Caos!», ripetei anch'io e, toccati i bicchieri, bevemmo. Improvvisamente, sentii un effluvio di aromi deliziosi. Voltandomi, vidi

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che adesso sulla tavola erano comparsi i piatti da portata. Jastra si girò nel-lo stesso momento, e Mandor si spostò indietro e fece dei gesti, facendo spostare le sedie per farci accomodare.

«Sedete, prego, e lasciate che vi serva,» disse. Acconsentimmo, e il pranzo fu più che eccellente. Passarono diversi mi-

nuti e, a parte i complimenti al brodo, non venne detto altro. Non volevo essere il primo a cominciare la conversazione, anche se mi venne in mente che forse gli altri stavano pensando la stessa cosa.

Alla fine, Jastra si schiarì la gola, e noi due la guardammo. Mi sorprese che sembrasse improvvisamente un pò nervosa.

«Allora, come vanno le cose nel Caos?», chiese. «Al momento, in maniera caotica,» rispose Mandor. «Non per essere

spiritosi.» Rifletté un momento, poi sospirò ed aggiunse: «È la politica.» Lei annuì lentamente, come se stesse considerando la possibilità di chie-

dergli certi particolari che Mandor sembrava poco propenso a divulgare: poi decise per il no. Si rivolse a me.

«Sfortunatamente, non ho avuto l'opportunità di andarmene a passeggio, mentre ero ad Ambra,» disse. «Da quello che mi dici, la vita sembra al-quanto caotica anche là.»

Annuii con la testa. «È un bene che Dalt sia via,» dissi, «se è questo che intendete. Ma lui

non ha mai rappresentato una vera minaccia: giusto una seccatura. Parlan-do di...»

«No, ti prego,» mi interruppe lei, sorridendo con dolcezza. «Quello che avevo in mente era un'altra cosa.»

Le risposi con un identico sorriso. «Dimenticavo. Non siete una sua ammiratrice,» dissi. «Non è questo,» rispose lei. «Quell'uomo ha i suoi usi. È solo — sospirò

— politica,» finì di dire. Mandor rise, e noi ci unimmo a lui. Che stupido a non seguire quella li-

nea riguardo Ambra. Ora era troppo tardi. «Ho comprato un quadro mentre ero via,» disse, «da una signora chia-

mata Polly Jackson. È una Chevy rossa del '57, e mi piace molto. Adesso si trova in un deposito di San Francisco. Piaceva anche a Rinaldo.»

Jastra annuì, e guardò fuori dalla finestra. «Voi due vi fermavate sempre in qualche galleria,» disse. «Sì, ha trasci-

nato anche me in diverse occasioni. Ho sempre pensato che avesse buon gusto. Talento no, ma buon gusto sì.»

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«Cosa intendete, con 'talento no'?» «È un bravissimo disegnatore, ma i suoi dipinti non sono mai stati u-

gualmente interessanti.» Avevo tirato in ballo l'argomento per un motivo particolare, che non era

quello. Ma ero affascinato dalla descrizione di un lato della personalità di Luke che non avevo mai conosciuto, e decisi di proseguire su quell'argo-mento.

«Quadri!» Non sapevo che dipingesse.» «Ci ha provato innumerevoli volte, ma non ha mai raggiunto risultati

abbastanza buoni.» «Allora voi come fate a saperlo?» «Ho controllato periodicamente il suo appartamento.» «Quando era via?» «Certo! Una madre ne ha il diritto.» Alzai le spalle. Pensai nuovamente alla donna in fiamme giù alla Tana

del Coniglio. Ma non volevo dire cosa provavo, ed interrompere il discor-so adesso che avevo indotto Jastra a parlare. Decisi di tornare al punto ori-ginario.

«È qualcosa che ha a che vedere con la pittura, il motivo per cui ha co-nosciuto Victor Melman?», chiesi.

Mi studiò insospettita per qualche secondo, poi annuì e finì il suo brodo. «Sì,» disse poi, scansando il cucchiaio. «Ha preso qualche lezione da

quell'uomo. Gli erano piaciuti certi suoi quadri e lo stimava come pittore. Forse ha anche comprato qualcosa di suo, ma non so. Però, ad un certo punto, gli parlò del proprio lavoro, e Victor gli disse che voleva vederlo. Disse a Rinaldo che gli piaceva, e sostenne che avrebbe potuto insegnargli diverse cose che potevano tornargli utili.»

Sollevò il calice e lo portò alle labbra, quindi sorseggiò il vino e guardò le montagne.

Stavo per incoraggiarla a continuare, quando cominciò a ridere. Aspettai che la smettesse.

«Un vero imbecille!», disse poi. «Ma di talento. Bisogna riconoscerglie-lo.»

«Uh, cosa intendete dire?», chiesi. «Dopo un pò cominciò a parlare dello sviluppo di una sorta di potere

personale, usando tutti quei giri di parole che piacciono tanto a coloro che sono appena iniziati. Voleva che Rinaldo sapesse che era un Occultista e che aveva una particolare simpatia per lui. Poi cominciò ad accennare al

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fatto che desiderava trasmettere le sue conoscenze alla persona giusta.» Cominciò nuovamente a ridere. Io repressi una risata al pensiero di quel-

l'imbroglione inveterato che cercava di vendere un prodotto a chi ne sape-va più di lui in materia.

«Ovviamente perché aveva capito che Rinaldo era ricco,» proseguì Ja-stra. «A quel tempo Victor, come al solito, era pieno di debiti. Rinaldo pe-rò non mostrò alcun interesse alla cosa, e si limitò a smettere di prendere lezioni da lui subito dopo... visto che sentiva di aver imparato tutto il pos-sibile da lui. Quando comunque più tardi me ne parlò, compresi che quel Victor poteva diventare un perfetto burattino. Ero certa che una persona simile avrebbe fatto qualsiasi cosa per assaporare il vero potere.»

Annuii. «Allora voi e Rinaldo avete cominciato a fargli delle visite d'affari? Vi

siete presi la briga di montargli la testa e di insegnargli un pò di vera Ma-gia?»

«È quasi esatto!», disse lei. «Anche se sono stata io a provvedere in massima parte al suo addestramento. Rinaldo solitamente era troppo occu-pato a preparare gli esami per l'Università. I suoi voti generalmente erano un pò più alti dei tuoi, non è vero?»

«Di solito prendeva ottimi voti,» le concessi. «Quando parlate dell'adde-stramento di Melman per farne un docile strumento nelle vostre mani, non posso fare a meno di pensare che fosse per un solo motivo: voi gli imparti-vate lezioni per uccidermi in modi alquanto suggestivi.»

Sorrise. «Sì,» disse, «anche se probabilmente non come tu pensi. Sapeva di te, ed

era stato istruito a sostenere una certa parte nel tuo sacrificio. Ma poi ha agito di testa sua il giorno in cui ci ha provato: quel giorno in cui l'hai uc-ciso. Era stato avvertito di non provarci da solo, ed ha pagato il prezzo del suo sbaglio. Era smanioso di possedere tutti i poteri che pensava di poter acquisire con la tua morte, anziché condividerli con qualcun altro. Come stavo dicendo... era un imbecille.»

Volevo sembrare indifferente, per farla continuare. Continuare a man-giare mi pareva il modo migliore per mostrare tale atteggiamento. Quando però abbassai gli occhi, scoprii che il mio brodo era scomparso. Presi un panino, lo spezzai e feci per imburrarlo, quando mi accorsi che mi tremava la mano. Un momento dopo compresi il perché: volevo strangolarla.

Così tirai un profondo respiro e lasciai perdere, poi bevvi un altro sorso di vino. Davanti a me apparve un piatto appetitoso. Ma un debole aroma di

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aglio e di diverse erbette allettanti mi dissero di andarci piano. Ringraziai Mandor, e Jastra lo stesso. Un minuto dopo, imburrai il panino.

Diversi bocconi dopo, dissi: «Confesso che non capisco. Dite che Melman doveva recitare una parte

nella mia morte... Ma solo una parte?» Lei continuò a mangiare per circa mezzo minuto, poi tirò fuori un altro

sorriso. «Era un'occasione troppo splendida per rinunciarci,» mi disse poi, «quel-

la di quando hai rotto con Julia e lei ha cominciato ad interessarsi di Oc-cultismo. Intuii che dovevo affidarla a Victor, farla addestrare da lui, inse-gnarle qualche semplice trucchetto, e fare leva sulla sua infelicità perché te n'eri andato, incanalandola in un odio talmente forte da farle desiderare di tagliarti la gola quando fosse venuto il momento del sacrificio.»

Inghiottii qualcosa che altrimenti sarebbe stato ottimo. Un calice di cristallo pieno d'acqua fresca apparve accanto alla mia ma-

no destra. Lo presi e mandai giù il boccone che mi era rimasto di traverso. Bevvi un altro sorso.

«Ah, la tua reazione è comunque degna di qualcosa,» osservò Jastra. «Devi ammettere che avere come esecutore qualcuno che prima ti amava aggiunge sapore alla vendetta.»

Con la coda del'occhio vidi che Mandor annuiva. Ed anch'io dovetti ri-conoscere che aveva ragione.

«Devo ammettere che era una vendetta ben congegnata,» dissi. «Anche Rinaldo vi aveva una parte?»

«No, voi due eravate diventati troppo amici a quel tempo. Temevo che potesse avvertirti.»

Ci pensai su per qualche minuto, poi dissi: «Cos'è che è andato storto?» «L'unica cosa che non avrei mai potuto prevedere,» disse lei. «Julia ave-

va davvero talento. Qualche lezione con Victor, e già era più brava di lui in tutto quello che Victor sapeva fare... tranne dipingere. All'inferno! Forse sa pure dipingere. Non lo so. Avevo scelto una carta difficile, e quella carta aveva giocato da sola.»

Rabbrividii, poi ripensai alla mia conversazione con la ty'iga ad Arbor House, quando possedeva il corpo di Vinta Bayle. «Julia sviluppò i poteri che cercava?», mi aveva chiesto. Avevo risposto che non lo sapevo. Avevo detto che non aveva mai mostrato le sue capacità... E, di lì a poco, mi ero ricordato il nostro incontro al parcheggio del supermercato ed il cane al quale aveva detto di mettersi a cuccia e che forse non si era più mosso... Di

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questo mi ero ricordato, ma... «E non hai mai notato qualche indicazione sul suo talento?», chiese Ja-

stra. «Non è esattamente così,» le risposi, mentre cominciavo a capire perché

le cose erano come erano. «No, non direi questo.» ... Come quella volta da Baskin-Robbins in cui aveva provocato un mu-

tamento di sapori tra il cono e le labbra. O dell'acquazzone che non l'aveva bagnata pur se non aveva l'ombrello...

Jastra aggrottò un sopracciglio e mi guardò diffidente. «Non capisco,» disse. «Se lo sapevi, potevi addestrarla tu stesso. Ti a-

mava. Potevate diventare una squadra formidabile.» Mi ritirai dentro di me. Aveva ragione, e lo avevo sospettato, probabil-

mente perfino saputo, ma avevo continuato a rimuovere quel pensiero dal-la mia mente. Era possibile che fossi stato proprio io a far nascere in lei il talento, con quella passeggiata tra le Ombre, con le energie del mio cor-po...

«È una cosa delicata,» dissi, «e molto personale.» «Oh. Le faccende di cuore mi risultano sempre, o troppo semplici o del

tutto incomprensibili,» disse. «Sembra che non esista una via di mezzo.» «Accordiamoci sul semplice,» le dissi. «Stavamo già per rompere, quan-

do mi accorsi delle sue capacità, e non avevo alcun desiderio di suscitare dei poteri in un'ex-fidanzata che un giorno avrebbe potuto ritorcerli contro di me.»

«È comprensibile!», disse Jastra. «Molto. Ed anche ironico in fin dei conti.»

«Davvero!», commentò Mandor e, con un gesto, fece apparire davanti a noi degli altri piatti fumanti. «Prima che continuiate il vostro racconto di intrighi e di scavi nella psiche, vorrei farvi provare del petto di quaglia af-fogato nel Mouton Rothschild, con un pò di riso integrale e qualche punta di asparago.»

Compresi che le avevo mostrato un'altra faccia della realtà. E l'avevo al-lontanata da me perché non mi fidavo abbastanza di lei da dirle la verità su me stesso. Suppongo che questo la dicesse lunga sulla mia capacità di a-mare e di avere fiducia negli altri. C'era qualcos'altro. C'era di più...

«È delizioso!», annunciò Jastra. «Grazie.» Si alzò, girò intorno al tavolo, e le riempì manualmente il bicchiere anzi-

ché ricorrere ad un trucco levitazionale. Mentre lo faceva, notai che le dita

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della sua mano sinistra avevano sfiorato leggermente la spalla nuda di lei. Con il mio bicchiere abbondò come se avesse avuto un ripensamento, poi tornò a sedere al suo posto.

«Sì, davvero eccellente!», osservai, mentre continuavo la mia rapida i-spezione del bicchiere scuro che improvvisamente si era schiarito.

Avevo percepito, avevo sospettato qualcosa fin dall'inizio, adesso lo so. La nostra passeggiata tra le Ombre era stata soltanto la più spettacolare di una serie di test improvvisati che le avevo messo occasionalmente davanti, sperando di sorprenderla con la guardia abbassata, sperando di esporla co-me... cosa? Bè, una Maga potenziale! Era così?

Misi le posate da una parte e mi stropicciai gli occhi. Ero vicino, anche se l'avevo nascosto a me stesso per molto tempo, a...

«Qualcosa non va, Merlin?», sentii che mi chiedeva Jastra. «No. Mi sono solo reso conto di essere un pò stanco,» dissi. «Va tutto

bene.» Una Maga. Non una Maga potenziale. C'era sempre stata la segreta pau-

ra, adesso lo capivo, che ci fosse lei dietro gli attentati alla mia vita di ogni 30 di Aprile, ma l'avevo soffocata, continuando a pensare a lei. Perché? Perché avevo nutrito la mia possibile distruttrice e nascosto a me stesso l'evidenza? Perché, non solo mi ero innamorato come uno stupido, ma a-vevo anche nutrito un grande desiderio di morte che mi seguiva, che in-combeva su di me sogghignando, e con il quale adesso avrei potuto colla-borare ogni volta fino all'estremo.

«Starò benissimo!», dissi. «Non è nulla.» Significava che ero io, come si dice, il mio peggiore nemico? Speravo proprio di no! Non avevo davvero tempo di entrare in terapia, perlomeno non quando la mia vita dipendeva da tanti fattori esterni.

«Una monetina per i tuoi pensieri!», disse Jastra con dolcezza.

2. «Non hanno prezzo,» le risposi. «Come i vostri scherzi. Devo farvi un

applauso. Non solo a quel tempo non sapevo niente di tutto questo, ma ne-anche mi è passato per la testa, nonostante avessi tutti gli elementi da ri-mettere insieme. È questo che volevate sentire?»

«Sì,» disse lei. «Sono lieto che abbiate lasciato perdere quando le cose per voi vi sono

messe male,» aggiunsi.

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Sospirò, annuì, quindi bevve un sorso di vino. «Sì, abbiamo lasciato perdere,» riconobbe. «Non pensavo proprio di do-

vermi ritirare da una faccenda così semplice. Trovo difficile credere che ci sia ancora tanta ironia in giro per il mondo.»

«Se volete che apprezzi l'intera faccenda, dovete essere più esplicita,» suggerii.

«Lo so. In un certo senso, mi dispiace far cambiare quell'espressione va-gamente confusa che hai sul viso, in una faccia tutta contenta di vedermi irritata. D'altra parte, potrebbe ancora esserci del materiale in grado di di-sturbare te, per altri versi.»

«Vinci poco, perdi poco,» dissi. «Scommetterei che ci sono ancora alcu-ni particolari che riguardano quei tempi, che vi lasciano perplessa.»

«Del tipo?», chiese lei. «Del tipo perché nessuno di quegli attentati alla mia vita dei trenta di

Aprile sia riuscito.» «Presumo che Rinaldo abbia sabotato in qualche modo i miei tentativi,

ribaltando la situazione.» «Sbagliato!» «Allora che cosa è stato?» «La ty'iga. È obbligata a proteggermi. Dovreste ricordarvene, poiché a

quel tempo possedeva il corpo di Gail Lampron.» «Gail? La ragazza di Rinaldo? Mio figlio usciva con un Demone?» «Non bisogna avere pregiudizi. Gli era andata anche peggio il primo an-

no di Università.» Ci pensò su un momento, poi annuì lentamente. «Lì hai segnato un punto,» ammise. «Avevo dimenticato Carol. E tu non

hai ancora idea — a parte quello che l'essere ti ha rivelato ad Ambra — del perché succedeva questo?»

«Ancora non lo so,» dissi. «Getta una luce ancora più strana sull'intera faccenda,» rifletté. «Spe-

cialmente perché le nostre strade si sono incrociate di nuovo. Mi chiedo...» «Cosa?» «Se era lì per proteggere te o per ostacolare me: era la tua guardia del

corpo o la mia maledizione?» «Difficile a dirsi, dal momento che i risultati portano alla stessa cosa.» «Ma ti è stata continuamente intorno, di recente, il che sembrerebbe

comprovare la prima ipotesi.» «A meno che, naturalmente, non sappia qualcosa che noi non conoscia-

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mo.» «Del tipo?» «Tipo la possibilità che si verifichi un nuovo conflitto tra di noi.» Sorrise. «Avresti dovuto studiare Legge,» disse. «Sei contorto come i tuoi paren-

ti di Ambra. Ma ti assicuro che sono sincera se dico che non ho nulla del genere in mente.»

Alzai le spalle. «Era solo un'ipotesi. Vi prego, continuate la storia di Julia.» Jastra riprese a mangiare. Le feci compagnia, finché non scoprii che non

riusciva a smettere di mangiare. Guardai Mandor, ma lui rimase imper-scrutabile. Non ammetterà mai di avere l'abitudine di arricchire un sapore con la Magia o di obbligare i commensali a ripulire i propri piatti. Qualsia-si Incantesimo avesse usato, finimmo la pietanza prima che lei riprendesse a parlare. E non mi potevo lamentare, tutto sommato.

«Julia cominciò a studiare con diversi insegnanti, dopo che voi due rom-peste,» cominciò. «Una volta messo in atto il mio piano, era una faccenda molto semplice farle fare o dire cose che la disilludessero o scoraggiassero e spingerla a cercare qualcun altro. Non passò molto tempo che conobbe Victor, che era già sotto la nostra tutela. Gli ordinai di addolcirle la perma-nenza, di saltare molti dei soliti preliminari e di procedere ad insegnarle il necessario per l'Iniziazione che avevo prescelto per lei...»

«Vale a dire?», la interruppi. «Ci sono diversi tipi di Iniziazione, con una gran varietà di fini particolari.»

Sorrise ed annuì col capo, spezzando un panino e spalmandolo di burro. «La condussi personalmente in una versione di mia specialità: il Percor-

so del Disegno Interrotto.» «Sembrerebbe qualcosa di pericoloso, proveniente dal confine dell'Om-

bra di Ambra.» «Non posso negare la tua competenza in fatto di geografia,» disse lei.

«Ma non è affatto pericoloso, se sai quello che fai.» «Sapevo,» dissi, «che quei mondi dell'Ombra in cui si trovano Ombre

del Disegno possono fornire soltanto versioni imperfette, e che ciò presen-ta sempre un rischio.»

«È un rischio soltanto se non sai come trattarlo.» «E voi avete fatto perporrere a Julia questo... Disegno Interrotto?» «La mia conoscenza in merito a quello che tu chiami 'percorrere il Dise-

gno', si limita a ciò che il mio ultimo marito e Rinaldo mi hanno detto in

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proposito. Ritengo che tu segua le linee da un punto di inizio esterno defi-nito fino ad un punto interno, e che da lì ti derivi il Potere?»

«È così,» ammisi. «Nel Percorso del Disegno Interrotto,» mi spiegò, «entri nell'imperfe-

zione e ti fai strada fino al centro.» «Come riesci a seguire le linee, se sono interrotte o imperfette? Il vero

Disegno ti distruggerebbe, se abbandonassi il percorso.» «Non devi seguire le linee. Segui gli interstizi!», disse. «E quando esci... da qualche parte?», chiesi. «Porti l'immagine del Disegno Interrotto dentro di te.» «E come ne ricavi della Magia?» «Attraverso l'imperfezione. Evochi l'immagine, ed è come un pozzo scu-

ro al quale attingi il Potere.» «E come fai a viaggiare tra le Ombre?» «In un modo molto simile al tuo... da quel che capisco,» dissi. «Ma l'in-

terruzione è sempre con te.» «L'interruzione? Non capisco.» «La rottura nel Disegno. Ti segue attraverso l'Ombra. È sempre vicino a

te mentre viaggi, talvolta come un capello spezzato, talvolta come una grande voragine. Si sposta; può apparire improvvisamente, dovunque: è un'interruzione nella realtà. È questo il rischio per coloro che seguono il Percorso Interrotto. Cadervi dentro significa la morte.»

«Allora esiste un pericolo anche durante i vostri Incantesimi, una specie di tranello.»

«Ogni professione ha i suoi rischi,» disse lei. «Evitarli, fa parte dell'Ar-te.»

«E questo è il tipo di iniziazione cui avete sottoposto Julia?» «Sì.» «E Victor?» «Sì.» «Capisco cosa state dicendo,» risposi, «ma dovreste sapere che i Disegni

Interrotti traggono il loro Potere da quello originale.» «Naturalmente. Ma che importanza ha? L'immagine è buona quasi come

quella del Disegno originale, se stai attento.» «Per la memorizzazione, quante immagini utili ci sono?» «Utili?» «Devono degenerare da Ombra a Ombra. Dov'è che tracciate la linea e

dite: 'Oltre questa immagine interrotta non voglio rischiare di rompermi il

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collo'?» «Capisco cosa vuoi dire. Forse puoi operare con le prime nove. Non mi

sono mai spinta oltre. Le prime tre sono le migliori: il cerchio delle tre successive è ancora governabile. Le ultime tre sono un pò più rischiose.»

«C'è una voragine progressivamente sempre più grande?» «Esattamente.» «Perché mi state dando tutte queste informazioni esoteriche?» «Tu sei un Iniziato di un livello più alto, perciò non ha importanza. Inol-

tre, non potresti far niente per danneggiare lo schema. E, infine, devi cono-scerle, per poter apprezzare il resto della storia.»

«Va bene,» dissi. Mandor picchiò sulla tavola e, davanti a noi, apparvero delle piccole

coppe di cristallo con dei sorbetti al limone. Accettammo il suggerimento e ci sciacquammo il palato prima di riprendere la nostra conversazione. Di fuori, le nuvole si infilarono tra i pendii delle montagne. Da un punto lon-tano del corridoio provenne una musica soffusa. Dei tintinnii e dei rumori raschianti, simili al suono combinato di una pala e di un piccone, ci rag-giunsero da qualche parte là fuori: probabilmente dalla Fortezza.

«Così avete iniziato Julia,» la incoraggiai. «Sì,» disse Jastra. «Cosa è successo poi?» «Imparò ad evocare l'immagine del Disegno Interrotto e ad usarla per

evocare la Vista Magica e ricorrere agli Incantesimi. Imparò a convogliare Potere grezzo dalla sua interruzione. Imparò a trovare la sua strada nel-l'Ombra...»

«Mentre controllava la voragine?», suggerii. «Esattamente, ed aveva una particolare bravura in questo. Ha una note-

vole predisposizione per qualsiasi cosa, a dire la verità.» «Sono sorpreso che una mortale riesca a percorrere addirittura un'imma-

gine interrotta del Disegno e sopravviva.» «Solo pochi di loro sono in grado di farlo,» disse Jastra. «Gli altri si

fermano davanti ad una linea o muoiono misteriosamente nell'area interrot-ta. Ci riesce un dieci per cento, forse. Non è male. In un certo senso fa di loro degli individui particolari. Tra questi, solo pochi riescono ad acquisire le giuste abilità divinatorie che li mettono sullo stesso piano di un Adep-to.»

«E voi dite che era davvero più brava di Victor, una volta appreso di che si trattava?»

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«Sì. Non mi resi conto della sua bravura finché non fu troppo tardi.» Sentii il suo sguardo su di me, come stesse verificando una mia reazione.

Alzai gli occhi dal piatto ed inarcai un sopracciglio. «Sì,» proseguì, apparentemente soddisfatta. «Non sapevi che era Julia

che stavi attaccando alla Fontana, vero?» «No,» ammisi. «Continuavo a lambiccarmi su Maschera. Non riuscivo a

trovare una ragione per quello che stava succedendo. I fiori erano un tocco particolarmente curioso, e non ho mai capito veramente se c'eravate voi o Maschera dietro alla faccenda delle pietre azzurre.»

Rise. «Le pietre azzurre, e la grotta dalla quale provengono, sono una specie

di segreto di famiglia. Il materiale è una sorta di isolante magico, ma due pezzi — una volta messi insieme — mantengono un legame, grazie al qua-le una persona sensitiva tenendone uno può rintracciare l'altro...»

«Attraverso l'Ombra?» «Sì.» «Anche se la persona che segue il tracciato non ha particolari abilità con

queste linee?» «Anche allora,» disse lei. «È come seguire qualcuno che si sposta con

l'ombra mentre è in movimento. Chiunque può farlo se è abbastanza rapi-do, abbastanza sensitivo. Bisogna seguire il tracciato di chi si sposta, anzi-ché colei che si sposta.»

«Colei, colei... state cercando di dirmi che è stato messo addosso a voi?» «Esatto.» La guardai in viso, in tempo per vederla arrossire. «Julia?», dissi. «Cominci a capire.» «No,» dissi. «Bè, forse un pò. Aveva più talento di quello che credevate.

Me lo avete già detto. Ho l'impressione che vi abbia imbrogliato su qual-cosa: ma non sono sicuro sul dove o sul come.»

«La portai qui,» disse Jastra, «per prendere un certo equipaggiamento che volevo portarmi dietro nel primo cerchio di Ombre di Ambra. In quel-l'occasione dette un'occhiata alla mia stanza da lavoro della Fortezza. For-se ero troppo loquace, allora, ma come potevo venire a sapere che stava prendendo mentalmente nota di tutto, e che probabilmente stava formulan-do un piano? La credevo troppo femminuccia per avere certi pensieri. De-vo ammettere che era davvero un'attrice perfetta.»

«Ho letto il diario di Victor,» dissi. «Immagino che eravate mascherati

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od incappucciati e che usavate qualche Incantesimo per distorcere le vostre voci.»

«Sì ma, anziché sottomettere Julia con la paura, credo che alimentai la sua sete di conoscenze magiche. Penso che si sia impossessata di uno dei miei tragoliti — le pietre azzurre — in quell'occasione. Il resto è cronaca.»

«Non per me.» Mi apparve davanti un vassoio fumante di verdure sconosciute, ma dal-

l'odore estremamente invitante. «Pensaci un attimo.» «La portaste al Disegno Interrotto e vi deste alla sua iniziazione...», co-

minciai. «Sì.» «Alla prima occasione,» proseguii, «usò il ... tragolite per tornare alla

Fortezza e scoprire altri vostri segreti.» Jastra applaudì piano, assaggiò le verdure, e poi prese a mangiarle di gu-

sto. Mandor sorrise. «Dopodiché, ho davanti il vuoto,» ammisi. «Fai il bravo ragazzo e mangia il tuo contorno,» disse lei. Ubbidii. «Basando le mie conclusioni in merito a questo divertente racconto uni-

camente sulla mia conoscenza della natura umana,» osservò inaspettata-mente Mandor, «direi che desiderasse provare le unghie, oltre alle ali. Scommetterei che tornò indietro a sfidare il suo primo maestro — quel Victor Melman — ingaggiando un duello magico con lui.»

Non sentii Jastra riprendere fiato. «È davvero solo una supposizione?», chiese. «Davvero,» rispose lui, girando tra le mani il calice colmo di vino. «E

scommetterei anche che una volta voi avete fatto la stessa cosa con il vo-stro primo insegnante.»

«Chi diavolo te l'ha detto?», chiese lei. «Ho solo tirato a indovinare che Sharu fosse il vostro maestro... forse

qualcosa di più,» disse. «Ma la mia supposizione spiegherebbe sia come avete fatto ad impadronirvi di questo posto, sia la vostra abilità nel coglie-re alla sprovvista il precedente Signore. Prima di essere sconfitto potrebbe anche avere avuto un momento di smarrimento augurandovi che un giorno vi aspettasse lo stesso destino. E, anche se non è andata così, queste cose talvolta hanno la specialità di creare il caos intorno alle persone con cui siamo in rapporti.»

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Jastra ridacchiò. «Il Diavolo chiamato Ragione, allora,» disse lei, con una nota di ammi-

razione nella voce. «Però lo hai chiamato con l'intuito, il che la rende u-n'arte.»

«Fa piacere sapere che viene ancora, quando lo chiamo. Suppongo però che Julia fosse sorpresa dall'abilità di Victor di opporsi a lei.»

«Vero! Non aveva previsto che di solito avvolgiamo gli Apprendisti in uno o due strati di protezione.»

«Eppure le sue difese si dimostrarono adeguate... alla fine.» «Giusto. Anche se questo, naturalmente, equivaleva alla sconfitta. Per-

ché sapeva che avrei saputo della sua ribellione e che sarei andata da lei presto per riportarla alla disciplina.»

«Oh!», feci io. «Sì,» disse lei. «È per questo che ha inscenato la sua morte, ed io, per un

pò — devo ammetterlo — ci sono cascata.» Ricordai il giorno in cui mi ero recato nell'appartamento di Julia ed ave-

vo trovato il suo corpo dilaniato dalla bestie. Il volto del cadavere era par-zialmente sfigurato, e quel che ne restava era tutto insanguinato. Ma il cor-po della donna aveva le misure giuste, e dava l'idea di una generale rasso-miglianza. E soprattutto era nel posto giusto. Poi ero diventato oggetto del-le attenzioni della creatura somigliante ad un cane, che mi aveva distratto parecchio da un'indagine più accurata sull'identità della salma. Quando la lotta per la mia vita si era conclusa, con accompagnamento di sirene in ar-rivo, avevo pensato più a scappare che a svolgere altre indagini. In seguito, ogni volta che riandavo col ricordo a quella scena, era il cadavere di Julia quello che vedevo.

«Incredibile!», dissi. «Allora, di chi era quel cadavere che trovai?» «Non ne ho idea,» rispose lei. «Poteva appartenere ad un suo doppio del-

l'Ombra o ad una sconosciuta presa per la strada. O forse era un cadavere rubato dall'obitorio. Non ho modo di saperlo.»

«Aveva addosso una delle vostre pietre azzurre.» «Sì. E la compagna era sul collare della bestia che tu hai ucciso: è lei che

gli ha aperto la via per passare.» «Perché? E che c'entra la faccenda del Guardiano della Porta?» «Come il cacio sui maccheroni. Victor era convinto che l'avesse uccisa,

ed io pure. Pensava che io avessi aperto un'entrata dalla Fortezza ed avessi mandato la bestia assassina ad aggredirla. Io credevo che fosse stato lui a farlo, e mi ero irritata perché mi aveva nascosto i suoi veloci progressi.

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Quelle creature hanno di rado buone intenzioni.» Annuii con la testa. «Allevate quelle creature qua intorno?» «Sì,» mi rispose, «e le faccio apparire anche in diverse Ombre adiacenti.

Ne ho alcune che portano dei nastri azzurri.» «Mi difenderò con i tori da combattimento,» le dissi. «Sono molto più

aggrazziati e si comportano meglio. Così, lasciò un corpo ed un corridoio segreto per accedere a questo posto, e voi invece credeste che l'avesse fatta fuori Victor e che stesse preparando un assalto al vostro sancta sancto-rum.»

«Più o meno.» «E lui credette che fosse diventata sufficientemente pericolosa per voi

— per via del corridoio — da farvi risolvere ad ucciderla?» «Non posso sapere con certezza se trovò mai il corridoio. Era nascosto

benissimo, come hai visto. In tutti i modi, nessuno di noi due era consape-vole di quello che Julia aveva veramente fatto.»

«E sarebbe?» «Aveva nascosto un tragolite anche addosso a me. In seguito, dopo l'Ini-

ziazione, usò il compagno per seguirmi attraverso l'Ombra fino a Begma.» «Begma? Che diavolo ci facevate lì?» «Niente di importante,» mi disse. «L'ho menzionata soltanto per farti ca-

pire quanto fosse astuta. A quel tempo non mi avvicinò. Lo so, in realtà, soltanto perché me lo disse in seguito. Poi mi seguì dal perimetro del Cer-chio Dorato fin qui nella Cittadella. Il resto lo sai.»

«Non ne sono del tutto sicuro.» «Aveva dei progetti su questo posto. Quando mi trovò, rimasi piuttosto

sorpresa. Fu così che divenni un attaccapanni.» «E lei si impadronì di questo posto, mettendosi la maschera da portiere

per darsi alle pubbliche relazioni. Restò qui per un pò di tempo, a rafforza-re i propri poteri, ad accrescere le sue capacità, e ad appendere ombrelli addosso a voi...»

Jastra ringhiò piano, ed io mi ricordai che il suo morso era molto perico-loso. Mi affrettai a tirare fuori un nuovo argomento di conversazione.

«Non capisco ancora perché mi spiava, e perché certe volte mi lanciava dei fiori.»

«Gli uomini sono esasperanti,» disse Jastra, sollevando il suo bicchiere e bevendo il vino. «Sei riuscito a capire tutto tranne le sue motivazioni.»

«Il Potere le aveva dato alla testa,» le dissi. «Cosa c'è da capire oltre a

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questo? Ricordo perfino una lunga discussione che facemmo una volta sul Potere.»

Sentii Mandor ridacchiare. Quando lo guardai, distolse gli occhi, scuo-tendo la testa.

«Ovviamente,» disse Jastra, «tu le importavi ancora. E probabilmente molto. Giocava con te. Voleva suscitare la tua curiosità. Voleva che tu le andassi dietro, che la trovassi, e probabilmente voleva provare i suoi poteri contro di te. Voleva dimostrarti che era degna di tutte quelle cose che tu le avevi negato negandole la tua fiducia.»

«Così sapete anche questo.» «C'erano delle volte in cui mi parlava liberamente.» «Così io le importavo talmente da spingerla a mandarmi contro — ad

Ambra — degli uomini con i tragoliti per ammazzarmi. E ci sono quasi riusciti!»

Jastra guardò dall'altra parte, ridendo. Mandor si alzò immediatamente, girò intorno al tavolo, e le riempì nuovamente il bicchiere, mettendosi tra di noi. In quel momento, mentre era completamente nascosta alla mia vi-sta, la sentii dire piano:

«Bè, non esattamente. I sicari erano... miei. Rinaldo non era in giro e non poteva avvertirti, come immaginavo stesse facendo, e pensai che ave-vo ancora un conto da saldare con te.»

«Oh!», esclamai. «Altri ripensamenti?» «È stata l'ultima volta,» mi disse. «È un sollievo.» «Non mi sto scusando. Mi sto solo spiegando, per chiarire le nostre dif-

ferenze. Sei disposto a cancellare anche questo conto? Vorrei saperlo.» «Vi ho già detto che desideravo considerare pari la faccenda. L'offerta è

ancora valida. Quando è entrato Jurt in tutto questo? Non capisco come si siano incontrati, e cosa sono l'un per l'altro.»

Mandor versò dell'altro vino nel mio bicchiere prima di tornare a sedersi. Jastra incrociò il mio sguardo.

«Non lo so,» mi disse. «Non aveva alleati quando abbiamo lottato. Deve essere accaduto mentre ero ancora irrigidita.»

«Avete idea di dove possano essere scappati lei e Jurt?» «No.» Guardai Mandor, che scosse la testa. «Nemmeno io,» disse. «Però, mi è venuta in mente una cosa.» «Sì?»

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«A parte il fatto che ha negoziato con il Logrus e ottenuto i suoi poteri, secondo me è indispensabile notare che Jurt — a parte le cicatrici e qual-che pezzo mancante — ha una forte somiglianza con te.»

«Jurt? Con me? Vuoi prendermi in giro?» Guardò Jastra. «Ha ragione,» disse lei. «È evidente che voi due siete parenti.» Deposi la forchetta e scossi la testa. «Assurdo,» dissi, più per autodifesa che perché ne fossi convinto. «Non

l'ho mai notato.» Mandor alzò leggermente le spalle. «Vuoi una lezione sulla psicologia della negazione?», mi chiese Jastra. «No,» le dissi. «Voglio un pò di tempo per sistemare le cose.» «Ma c'è ancora tempo per un'altra portata,» annunciò Mandor e, facendo

un ampio gesto, la fece apparire. «Avrai dei guai con i tuoi parenti per avermi liberata?», mi chiese Jastra

dopo un pò. «Per quando scopriranno che ve ne siete andata, spero di avere pronta

una buona storia da raccontar loro,» le risposi. «In altre parole, la risposta è sì.» «Forse avrò qualche guaio.» «Vedrò che cosa posso fare.» «Cosa volete dire?» «Non mi piace essere debitrice di nessuno,» disse, «e tu hai fatto per me

più di quanto io abbia fatto per te. Se mi verrà in mente un sistema per al-lontanare la loro ira da te, lo porrò in atto.»

«E cosa potrebbe venirvi in mente?» «Lasciamo andare. Certe volte, è meglio non sapere troppo.» «Tutto questo non mi piace affatto.» «Un ottimo motivo per cambiare argomento,» mi disse. «Quanto è di-

ventato pericoloso Jurt, per te?» «Per me?», le domandai. «O vi state chiedendo se tornerà qui per pren-

dersi qualche altra cosa?» «Entrambe le cose, se la metti così.» «Ritengo che mi ucciderà, se gli sarà possibile,» le dissi, lanciando uno

sguardo a Mandor, che annuì. «Ho paura di sì,» dichiarò lui. «Quanto alla possibilità che torni qui per avere di più di quello che ha

già ottenuto,» proseguii, «siete voi il miglior giudice. Quanto dovrebbe

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mancargli per impossessarsi dei pieni poteri che potrebbe trarre dalla Fon-tana?»

«È difficile stabilirlo con esattezza,» disse lei, «visto che li stava pro-vando in condizioni estremamente difficili. Il cinquanta per cento, forse. Ma è solo un'ipotesi. Questo lo soddisferà?»

«Forse. Quanto lo rende pericoloso?» «Molto, quando si impadronirà di tutte le cose. Però capirà che questo

posto sarà troppo sorvegliato — perfino per un uomo come lui — in caso decidesse di tornare. Sospetto che resterà lontano. Solo Sharu — nelle sue attuali condizioni — costituirebbe un grosso ostacolo.»

Continuai a mangiare. «Julia probabilmente gli consiglierà di non provarci,» proseguì lei, «dato

che conosce così bene il posto.» Approvai la sua supposizione annuendo con il capo. Ci saremmo incon-

trati quando fosse giunto il momento. Per ora non potevo fare nulla per impedirlo.

«Ora posso farti una domanda?», disse lei. «Prego.» «La ty'iga...» «Sì?» «Perfino nel corpo della Figlia del Duca di Orkuz, sono sicura che non si

limiterà a passeggiare nel palazzo ed a salire nei tuoi appartamenti.» «Difficile!», replicai. «È con un seguito ufficiale.» «Posso chiedere quando è arrivato il seguito?» «La mattina presto,» le risposi. «Ma temo di non poter mi spingere in al-

tri dettagli quanto a...» Scosse la mano ben fornita di anelli in un gesto di negazione. «Non mi interessano i segreti di stato,» disse, «ma so che Nayda di soli-

to accompagna il padre in qualità di segretaria.» «E allora?» «È venuta anche la sorella o è rimasta a casa?» «Intendete dire Coral, vero?», le chiesi. «Sì.» «È venuta anche lei,» le risposi. «Grazie,» disse, e riprese a mangiare. Maledizione! Che c'entrava tutto quello? Sapeva qualcosa sul conto di

Coral di cui io non ero al corrente? Qualcosa che poteva influire sulla sua attuale condizione indeterminata? Se era così, cosa poteva costarmi sco-

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prirlo? «Perché?», le chiesi allora. «Semplice curiosità,» mi rispose lei. «Conoscevo la famiglia in... tempi

più felici.» Jastra sentimentale? No. Perché, allora? «Credete che la famiglia abbia qualche problema?», le chiesi. «Oltre alla ty'iga che si è impossessata di Nayda?» «Sì,» dissi. «Mi piacerebbe saperlo,» disse lei. «Quale problema?» «Solo una cosa alquanto spiacevole che riguarda Coral.» Si sentì un rumore di stoviglie mentre le cadeva la forchetta dalla mano

andando a sbattere contro il piatto. «Di cosa stai parlando?», mi chiese. «Di una collocazione errata,» le dissi. «Di Coral? Come? Dove?» «Dipende in parte da quanto sapete veramente su di lei,» le spiegai. «Voglio bene a quella ragazza. Non giocare con me. Cosa è successo?» Era quasi sbalorditivo! Ma non era la risposta che cercavo. «Conoscevate abbastanza bene la madre?» «Kinta. L'ho incontrata ai ricevimenti diplomatici. Una signora affasci-

nante.» «Parlatemi del padre.» «Bè, è un membro della Casa Reale, ma di un ramo che non è in diretta

successione. Prima di diventare Primo Ministro, Orkuz era l'Ambasciatore di Begma presso Kashfa. La sua famiglia risiedeva con lui, perciò natu-ralmente lo vedevo in continuazione...»

Alzò gli occhi accorgendosi che la stavo osservando — mediante il Se-gno del Logrus — attraverso il suo Disegno Interrotto. I nostri sguardi si incrociarono, e lei sorrise.

«Oh. Mi avevi chiesto del padre,» disse. Poi si interruppe, ed annuì. «Così c'è del vero in quelle voci!», osservò alla fine.

«Davvero non lo sapevate?» «Si fanno talmente tante chiacchiere al mondo, la gran parte delle quali

non è verificabile! Come posso sapere quali corrispondono alla verità? E perché dovrei preoccuparmene?»

«Avete ragione, certamente,» le dissi. «Però...» «Un'altra birichinata di quel buontempone,» disse lei. «C'è qualcuno che

segna i punti? È sorprendente come trovasse il tempo per gli affari di Sta-

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to.» «Sta agli altri indovinare,» commentai. «Per essere sinceri, allora, oltre alle chiacchiere che avevo sentito, c'era

una rimarchevole somiglianza di famiglia. Ma non spettava a me giudica-re, visto che non conoscevo personalmente la gran parte della famiglia. Mi dici che c'è del vero?»

«Sì.» «Soltanto per via di quella somiglianza, o c'è qualcosa di più?» «Qualcosa di più.» Mi sorrise dolcemente e riprese la sua forchetta. «Mi sono sempre piaciute quelle favole che narrano della nascita del

mondo.» «Anche a me,» le dissi, e continuai a mangiare. Mandor si schiarì la gola. «Non è molto carino,» disse, «raccontare soltanto una parte della storia.» «Hai ragione,» convenni io. Jastra tornò a guardarmi e sospirò. «Va bene,» disse, «te lo chiederò. Come facevi a sapere che cer... Oh,

certo! Il Disegno.» Annuii con la testa. «Bene, bene, bene! La piccola Coral, Padrona del Disegno. È stato un

avvenimento recente?» «Sì.» «Suppongo che adesso se ne sia andata in giro in qualche Ombra... a fe-

steggiare.» «Vorrei saperlo.» «Cosa vuoi dire?» «Se n'è andata, ma non so dove. Ed è il Disegno che l'ha trasportata.» «Come?» «Ottima domanda. Non lo so.» Mandor si schiarì la gola. «Merlin,» mi disse, «forse ci sarebbero alcune cosette,» fece ruotare la

mano sinistra, «che, pensandoci bene, tu potresti...» «No,» gli dissi. Come Signore del Caos, sarebbe d'obbligo la normale

discrezione... forse anche con te, che sei mio fratello. E certamente nel ca-so di Vostra Altezza,» indicai Jastra, «a parte il fatto che conoscete la ra-gazza e forse nutrite dell'affetto per lei.» Decisi di non colpire troppo a fondo ed aggiunsi rapidamente: «O che perlomeno non avete nulla contro

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di lei.» «Come ho detto, voglio molto bene alla ragazza,» affermò Jastra, spor-

gendosi in avanti. «Bene,» replicai, «perché mi sento in parte responsabile di quello che è

successo, anche se non ne sapevo niente. Per questo mi sento obbligato a rimettere le cose a posto. Soltanto, non so come fare.»

«Cosa è successo?», mi chiese lei. «Mi trovavo in sua compagnia quando espresse il desiderio di vedere il

Disegno. Allora acconsentii. Mentre camminavamo, mi fece delle doman-de in proposito. Sembrava una conversazione innocente, e così soddisfai la sua curiosità. Non sapevo nulla delle chiacchiere sulla sua parentela, altri-menti avrei sospettato qualcosa. Sia come sia, quando arrivammo lì, mise un piede sul Disegno e cominciò a percorrerlo.»

Jastra trattenne il fiato. «Distrugge chiunque non sia del vostro Sangue,» mi disse. «Giusto?» Annuii. «E perfino uno di noi,» le dissi allora, «se dovesse commettere certi er-

rori.» Jastra ridacchiò. «Supponiamo che sua madre se la sia intesa con un servo o con il cuo-

co?», osservò. «È una figlia saggia,» le dissi. «Ad ogni modo, una volta che si entra nel

Disegno, non si può più tornare indietro. Fui obbligato a dirigerla, mentre proseguiva. Se non l'avessi fatto, sarei stato un ospite poco gentile, e senza dubbio avrei compromesso le relazioni diplomatiche tra Begma ed Am-bra.»

«E impedito un morbido negoziato?», mi chiese lei, semiseria. Proprio in quel momento mi venne il sospetto che avrebbe desiderato

una digressione in merito all'esatta natura della visita di Begma, ma non abboccai all'amo.

«Potremmo anche dire così,» le dissi. «Ad ogni modo, percorse tutto il Disegno, e poi prese la sua strada.»

«Il mio ultimo marito mi disse che, dal suo centro, si può ordinare al Di-segno di condurti ovunque desideri.»

«Temo di non capire.» «Nemmeno io, ma lei l'ha capito, e lo ha fatto.» «Volete dire che ha detto semplicemente 'Portami dovunque vuoi', e che

è stata istantaneamente trasportata in qualche luogo sconosciuto?»

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«Esatto.» «Il che implicherebbe una sorta di intelligenza da parte del Disegno.» «A meno che, naturalmente, non stesse rispondendo ad un desiderio in-

conscio da parte sua di visitare qualche luogo in particolare.» «Vero. Ritengo che una simile possibilità esista. Ma non hai alcun modo

per rintracciarla?» «Ho un suo Trionfo. Quando l'ho usato, l'ho raggiunta. Sembrava prigio-

niera in un posto buio. Poi abbiamo perso il contatto, e questo è tutto.» «E quando è successo?» «Qualche ora fa, secondo il mio computo personale,» le dissi. «Questo

luogo si avvicina al tempo di Ambra?» «Abbastanza, credo. Perché non hai riprovato?» «Sono stato molto occupato. Inoltre, ho pensato a qualche altro modo

per avvicinarla.» Si udì un tintinnio secco, e sentii odore di caffé. «Se mi stai chiedendo se sono disposta ad aiutarti,» mi disse Jastra, «la

risposta è sì. Soltanto non so come muovermi. Forse, se tu provassi nuo-vamente con il Trionfo — con me dietro a te — potremmo raggiungerla.»

«Bene,» dissi io, posando la tazzina e frugando in tasca alla ricerca delle carte. «Facciamo un tentativo.»

«Ti assisterò anch'io,» annunciò Mandor, alzandosi dal tavolo e metten-dosi alla mia destra.

Mi raggiunse anche Jastra che si mise alla mia sinistra. Tenni alto il Trionfo in modo da consentire a tutti e tre una visione chiara.

«Cominciamo,» dissi, ed iniziai a concentrarmi.

3. Una chiazza di luce che avevo preso per un raggio di sole errabondo si

spostò dalla sua posizione sul pavimento fino ad un punto vicino alla mia tazza di caffé. Era a forma di anello, e decisi di non rilevarlo poiché nessu-no degli altri due parve farci caso.

Cercai di raggiungere Coral, ma non trovai niente. Sentii che anche Ja-stra e Mandor facevano lo stesso tentativo, e provai di nuovo, unendo le mie forze alle loro. Era più difficile.

Qualcosa? Qualcosa... Mi venne in mente, con stupore, cosa provava Vialle quando

usava i Trionfi. Doveva essere una sensazione molto diversa da quella vi-

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siva con la quale il resto di noi è abituato. Poteva essere qualcosa del gene-re.

Qualcosa... Quello che sentivo era una debole percezione della presenza di Coral.

Guardai la sua immagine sulla carta, ma essa non volle prendere vita. La carta stessa era diventata sensibilmente più fredda, ma non era quel gelo pungente che sentivo normalmente ogni volta che mi mettevo in comuni-cazione con gli altri. Provai con più insistenza. Sentii Mandor e Jastra ac-crescere ancora i loro sforzi.

Poi l'immagine di Coral scomparve dalla carta, ma nulla apparve in sua sostituzione. Avvertii però la sua presenza come se affrontassi il vuoto. La sensazione divenne più simile a quella di un tentativo di contatto con qual-cuno immerso nel sonno.

«Non saprei dire se è semplicemente un posto difficile da raggiungere,» cominciò Mandor, «o...»

«Credo che sia sotto un Incantesimo,» comunicò Jastra. «Questo potrebbe spiegare in parte la situazione,» affermò Mandor. «Ma solo in parte,» disse una voce morbida e familiare vicino a noi. «Ci

sono degli spaventosi Poteri che la trattengono, Pà. Non ho mai visto nien-te del genere prima.»

«Il Timone Fantasma ha ragione,» disse Mandor. «Comincio a sentirlo.» «Sì,» iniziò Jastra, «c'è qualcosa...» E improvvisamente il velo venne strappato, e vidi il corpo inerte di Co-

ral, apparentemente incosciente, sdraiato su un piano scuro di un posto molto scuro: come unica illuminazione c'era quello che sembrava un cer-chio di fuoco sospeso intorno a lei. Non avrebbe potuto aiutarmi ad attra-versarlo, se avesse voluto, e...

«Fantasma, puoi portarmi da lei?», gli chiesi. L'immagine di Coral svanì prima che potesse rispondermi, e sentii una

corrente d'aria fredda. Passarono diversi secondi prima che mi accorgessi che sembrava cadermi addosso dalla carta, ormai ghiacciata.

«Non credo, non vorrei farlo, e potrebbe essere inutile,» mi rispose. «La forza che la trattiene ha capito il tuo interesse, e perfino adesso sta cercan-do di raggiungerti. Conosci un modo per girare quel Trionfo?»

Passai la mano sulla carta, un gesto che solitamente è sufficiente. Non accadde niente. Il vento freddo parve anzi aumentare di intensità. Ripetei il gesto con un ordine mentale. Cominciai a sentire che cosa si era concentra-to su di me.

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Poi il Segno del Logrus scese sul Trionfo, e la carta mi venne strappata di mano mentre venivo spinto a terra, andando a sbattere con la spalla con-tro l'angolo della porta. Mentre succedeva questo, Mandor si gettò sulla sua destra, afferrandosi al tavolo per non cadere. Con la mia Visione del Logrus avevo visto delle linee impazzite di luce irradiarsi dalla carta prima che questa cadesse.

«È stato il suo trucchetto?», gridai. «Ha interrotto il contatto,» mi rispose Fantasma. «Grazie, Mandor,» dissi. «Ma la Potenza che voleva raggiungerti via Trionfo, adesso sa dove sei,»

disse Fantasma. «Cosa ti fa credere che ne sia consapevole?», gli domandai. «È una supposizione, basata sul fatto che sta ancora cercando di rag-

giungerti. Sta però passando per la strada più lunga: lo spazio. Potrebbe metterci un quarto di minuto prima di raggiungerti.»

«L'uso che fai del pronome è alquanto vago,» disse Jastra. «È solo Mer-lin che vuole? O sta venendo per tutti noi?»

«Non è chiaro. Merlin è il fulcro: non ho idea di cosa farà con voi.» Durante quello scambio, mi trascinai in avanti e ripresi il Trionfo di Co-

ral. «Puoi proteggerci?», chiese lei. «Ho già cominciato a trasferire Merlin in un luogo lontano. Devo farlo

anche con voi?» Quando rialzai la testa dopo aver rimesso in tasca il Trionfo, mi accorsi

che la camera era diventata meno concreta, traslucida, come se ogni cosa fosse fatta di vetro colorato.

«Ti prego,» disse piano la sagoma a forma di finestra di cattedrale di Ja-stra.

«Sì,» arrivò la debole eco di mio fratello che scompariva. Poi venni spinto dentro un cerchio in un luogo buio. Sbattei contro un

muro di pietra. Fatto un quarto di rotazione, vidi un'area più illuminata da-vanti a me, costellata di puntolini lucenti...

«Fantasma?», chiamai. Nessuna risposta. «Non apprezzo molto queste conversazioni interrotte,» proseguii. Mi mossi in avanti finché non trovai quella che era ovviamente l'entrata

di una grotta. Davanti a me si spiegava un limpido cielo notturno e, quan-do uscii fuori, mi sferzò un vento freddo. Feci qualche passo indietro, rab-

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brividendo. Non avevo idea di dove potessi essere. Non che realmente importasse, se

mi veniva concesso un Incantesimo per respirare. Via Logrus, dovetti al-lungarmi abbastanza lontano, prima di trovare una coperta pesante. Avvol-gendomela intorno, mi misi seduto sul pavimento della caverna. Poi mi al-lungai di nuovo. Fu più facile trovare un pò di legna, e non mi occorse la Magia per farle prendere fuoco. Desideravo anche una tazza di caffé. Mi chiesi...

Perché no? Mi allungai ancora, ed il cerchio luminoso vortice in modo visibile davanti a me.

«Pà! Ti prego, smettila!», arrivò la sua voce risentita. «Mi ha creato un mucchio di problemi infilarti in quest'angolo oscuro dell'Ombra. Se ci sono troppe trasmissioni, richiamerai l'attenzione su di te.»

«Andiamo!», dissi. «Voglio solo una tazza di caffé.» «Te ne procurerò una io. Ma per un pò fai a meno di usare i tuoi Poteri.» «Perché mai il tuo intervento non dovrebbe richiamare l'attenzione?» «Sto girando in tondo. Ecco!» Una tazza fumante di terraglia scura era apparsa sul pavimento della

grotta vicino alla mia mano destra. «Grazie,» dissi, prendendola ed annusandola. «Cosa ne hai fatto di Jastra

e Mandor?» «Ho mandato ognuno di voi in una direzione diversa in mezzo ad un'or-

da di finte immagini che svolazzano su e giù. Tutto quello che adesso devi fare è startene giù per un pò. Non attiriamo la sua attenzione.»

«L'attenzione di chi? Quale attenzione?» «Della Potenza che tiene Coral. Non vogliamo che ci trovi.» «Perché no? Mi sembra di ricordare che una volta mi hai chiesto se eri

un Dio. Di cosa hai paura?» «Di quell'essere. Sembra più forte di me. D'altra parte, sembra che io sia

più veloce.» «È già qualcosa!» «Fatti un bel sonno. Domattina ti farò sapere se è ancora sulle tue trac-

ce.» «Forse lo scoprirò da solo.» «Cerca di non scoprirti, a meno che non sia una questione di vita e di

morte.» «Non era questo che intendevo. Supponi che mi trovi?» «Fai quello che ritieni giusto.»

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«Perché ho la sensazione che tu mi stia nascondendo qualcosa?» «Presumo che tu sia sospettoso per natura, Pà. Sembra tipico della tua

famiglia. Adesso devo andare.» «Dove?», gli chiesi. «A cercare gli altri. A fare qualche commissione. A controllare lo svi-

luppo della mia persona. A verificare i miei esperimenti. E altre cose del genere. Ciao.»

«E Coral?» Ma il cerchio di luce che era sospeso davanti a me mutò da uno stato di

lucentezza ad uno di opacità, per poi scomparire. Era un modo indiscutibi-le di porre fine alla conversazione. Fantasma stava diventando sempre più simile a tutti noi: subdolo e falso.

Sorseggiai il caffé. Non era buono come quello di Mandor, ma passabile. Cominciai a chiedermi dove fossero stati mandati lastra e Mandor. Decisi di rinunciare a raggiungerli. Anzi, poteva non essere un'idea malvagia, sta-bilii, quella di rafforzare la mia posizione contro ogni intrusione magica.

Richiamai il Segno del Logrus, che avevo lasciato scivolare via mentre Fantasma mi stava trasportando. Lo usai per erigere delle difese all'entrata della caverna e intorno a me. Poi lo liberai e bevvi un altro sorso. In quel mentre, mi resi conto che quel caffè poteva non essere sufficiente per te-nermi sveglio. Stava per venirmi un attacco di nervi, e improvvisamente sentii addosso tutto il peso delle mie attività. Altri due sorsi, e riuscii a ma-lapena a reggere in mano la tazza. Un terzo, e notai che, ogni volta che chiudevo le palpebre, i miei occhi avevano sempre più difficoltà a riaprirsi.

Misi da una parte la tazza, mi avvolsi meglio la coperta intorno, e trovai una posizione relativamente comoda sul pavimento di terra, essendo diven-tato una specie di esperto in materia nella grotta di cristallo. Le fiamme crepitanti disegnarono eserciti nemici dietro le mie palpebre. Il fuoco scop-piettò come un rumore di armi; l'aria odorò di pece.

Cedetti. Il sonno è forse l'unico tra i più grandi piaceri della vita a non essere necessariamente breve. Mi riempì, ed io fluttuai. Quanto lontano andai e per quanto tempo non saprei.

Non so neanche dire cos'è che mi svegliò. So soltanto che ero da qualche altra parte e che, un secondo dopo, ero ritornato. La mia posizione era leg-germente cambiata, avevo le punte dei piedi fredde, e mi accorsi di non es-sere più solo. Restai con gli occhi chiusi, e non modificai il ritmo del mio respiro. Era possibile che Fantasma avesse deciso semplicemente di farmi la guardia. O forse quell'essere stava saggiando le mie difese.

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Alzai impercettibilmente le palpebre, scrutando in alto e all'esterno die-tro lo schermo delle ciglia. Di fuori, all'entrata della caverna, c'era una fi-gura dai contorni incerti, e l'ultimo bagliore del fuoco illuminava debol-mente la sua faccia, stranamente familiare. C'era qualcosa di me nei linea-menti di quel viso e qualcosa di mio padre.

«Merlin,» disse piano. «Svegliati, adesso. Hai dei posti in cui andare e delle cose da fare.»

Aprii completamente gli occhi e li sgranai. Rispondeva ad una certa de-scrizione... Frakir pulsò, e gli imposi di stare calmo.

«Dworkin...?», dissi. Sorrise. «Mi hai chiamato,» rispose. Camminava da una parte all'altra dell'entrata della grotta, fermandosi

ogni tanto per tendere una mano verso di me. Ogni volta esitava e si tirava indietro.

«Che significa?», gli chiesi. «Che succede? Perché ti trovi qui?» «Sono venuto a riportarti al viaggio che hai interrotto.» «E quale viaggio sarebbe?» «La tua ricerca della signora che l'altro giorno ha percorso il Disegno,

smarritasi da qualche parte.» «Coral? Sai dove si trova?» Alzò la mano, l'abbassò, poi digrignò i denti. «Coral? È così che si chiama? Fammi entrare. Dobbiamo parlare di lei.» «Mi sembra che ne stiamo già parlando così come ci troviamo.» «Non hai alcun rispetto per un tuo antenato?» «Ce l'ho. Ma ho anche un fratello mutante che non vede l'ora di moz-

zarmi la testa ed appenderla al muro della sua caverna. E potrebbe farlo con estrema rapidità se solo gli fornissi la più piccola opportunità.» Mi mi-si a sedere e mi sfregai gli occhi, mentre le mie facoltà finivano di ripristi-narsi. «Allora, dov'è Coral?»

«Vieni. Ti mostrerò la strada,» mi disse, venendo avanti. Questa volta la sua mano superò le mie difese, e venne immediatamente circondata dal fuoco. Non sembrò accorgersene. I suoi occhi erano due stelle scure, che mi spingevano ad alzarmi, ad andare verso di lui. La sua mano cominciò a liquefarsi: la carne si sciolse come cera. Non c'erano ossa là sotto, piuttosto una strana geometria, come se qualcuno avesse sbozzato in tutta fretta una mano tridimensionale e poi vi avesse modellato intorno una specie di pelle per rivestirla. «Prendi la mia mano!», aggiunse.

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Mi ritrovai a tendergli la mano contro la mia volontà, protendendola ver-so i contorni di quelle specie di dita, verso i tondini delle nocche. Rise di nuovo. Potevo percepire la forza che mi stava attirando. Mi chiesi cosa sa-rebbe successo se avessi afferrato quella strana mano in un certo modo.

Perciò evocai il Segno dei Logrus e lo mandai avanti a stringere la mano al posto mio.

Forse non fu uno dei miei interventi più brillanti. Venni momentanea-mente accecato dal lampo sfolgorante e sfrigolante che seguì. Quando la mia vista si schiarì, vidi che Dworkin se n'era andato. Un rapido controllo mi assicurò che le mie difese erano ancora intatte. Ravvivai il fuoco con un rapido e semplice Incantesimo, poi notai che la mia tazza di caffè era se-mipiena, e riscaldai il suo contenuto tiepido con una versione abbreviata della medesima esecuzione. Poi mi rilassai, mi sistemai comodamente, e presi a sorseggiare il caffè. Pur sforzandomi di essere analitico, non riuscii a capire cosa fosse appena avvenuto.

Non avevo sentito di nessuno che avesse visto il demiurgo semi pazzo da anni anche se, secondo il racconto di mio padre, la mente di Dworkin doveva essere stata in gran parte curata quando Oberon aveva riparato il Disegno. Se era stato davvero Jurt, che aveva cercato di avvicinarmi con un trucco per finirmi, era stata una forma davvero molto strana quella che aveva scelto di assumere.

A pensarci bene, non era affatto certo che Jurt conoscesse l'aspetto di Dworkin. Mi chiesi se fosse saggio chiamare Fantasma per avere un'opi-nione non umana sulla faccenda. Prima però, che riuscissi a decidermi, le stelle all'entrata della grotta vennero nascoste da un'altra figura, più impo-nente di quella di Dworkin...

Un solo passo la portò vicino al fuoco e, quando vidi la sua faccia, feci rovesciare il caffè. Non ci eravamo mai incontrati, ma avevo visto il suo viso in molti posti nel Castello di Ambra.

«Sapevo che Oberon era morto nel ridisegnare il Disegno,» dissi. «Eri presente a quell'epoca?», mi chiese lui. «No,» risposi, «ma, arrivando come hai fatto tu sulla scia di un'appari-

zione piuttosto bizzarra come quella di Dworkin, devi perdonare i miei so-spetti sulla tua buonafede.»

«Oh, era un falso quello che hai incontrato. Io sono vero.» «Cos'era allora quello che ho visto?» «Era la forma astrale di un burlone: un Mago chiamato Jolos, del Quarto

Cerchio dell'Ombra.»

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«Oh!», risposi. «E come faccio a sapere che non sei la proiezione di qualcuno chiamato Jalas del Quinto Cerchio?»

«Posso snocciolarti l'intera genealogia della Casa Reale di Ambra.» «Qualsiasi bravo scrivano di casa mia è in grado di farlo.» «Ti posso dire anche i nomi degli illegittimi.» «Quanti erano, comunque?» «Quarantasette, che io sappia.» «Ah, prosegui! Come sei riuscito ad averli?» «Flussi diversi di tempo,» mi spiegò, sorridendo. «Se sei sopravvissuto alla ricostruzione del Disegno, come mai non sei

tornato ad Ambra per riprenderti il tuo regno?», gli chiesi. «Perché hai la-sciato che incoronassero Random ed hai confuso ulteriormente il quadro?»

Rise. «Ma non sono sopravvissuto,» mi rispose. «Venni distrutto nel processo.

Sono un fantasma, tornato a sostenere un campione vivente di Ambra con-tro il crescente potere del Logrus.»

«Dando per buono, arguendo che tu sia quello che dici di essere,» repli-cai, «sei ancora dalla parte sbagliata, Signore. Io sono un iniziato del Lo-grus e figlio del Caos.»

«Sei anche un iniziato al Disegno ed un figlio di Ambra,» rispose la fi-gura colossale.

«È vero!», dissi, «un ulteriore ragione per me per non schierarmi da nes-suna parte.»

«Arriva sempre il momento in cui un uomo deve scegliere,» affermò, «e quel momento per te è arrivato. Da che parte stai?»

«Anche se credessi che sei quello che dici, non mi sento obbligato a fare una simile scelta,» gli risposi. «Ed esiste una tradizione presso le Corti se-condo la quale Dworkin stesso era un Iniziato del Logrus. Se è vero, sto solo seguendo le orme di un venerabile antenato.»

«Ma egli rinunciò al Caos quando fondò Ambra.» Alzai le spalle. «Per fortuna, io non ho fondato niente,» dissi. «Se c'è qualcosa in parti-

colare che vuoi da me, dimmi che cos'è: dammi un buon motivo per farla, e forse collaborerò.»

Allungò la sua mano. «Vieni con me, e ti farò mettere i piedi sul nuovo Disegno che devi se-

guire, in una partita da giocare all'esterno, tra le Potenze.» «Ancora non riesco a capirti, ma sono sicuro che il vero Oberon non sa-

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rebbe fermato da queste semplici difese. Vieni tu a prendere la mia mano, ed io sarò lieto di seguirti, e di dare un'occhiata a qualsiasi cosa tu voglia mostrarmi.»

Eresse la schiena assumendo una statura ancora più alta. «Vuoi mettermi alla prova?», mi chiese. «Sì.» «Se fossi stato un uomo, le tue difese non mi avrebbero preoccupato,»

dichiarò. «Ma, dal momento che adesso sono fatto di sostanza spirituale, non so dirti. Preferirei non approfittare dell'occasione.»

«In questo caso, devo concordare con te riguardo alla tua proposta.» «Nipote,» mi disse portandosi alla mia altezza, mentre una luce rossastra

gli brillava negli occhi, «anche se sono morto, nessuno della mia discen-denza può permettersi di parlarmi così. Adesso vengo a prenderti senza tanti riguardi. Vengo a prenderti ora e, con questo viaggio, ti condurrò a forza tra le fiamme.»

Feci un passo indietro mentre avanzava. «Non devi prenderlo come un fatto personale...», cominciai. Mi schermai gli occhi mentre colpiva le mie difese, e cominciò l'effetto

«lampada da flash». Con le palpebre socchiuse, vidi accadere qualcosa di simile alla liquefazione della pelle di Dworkin quando la sua mano era sta-ta erosa dal fuoco. Oberon divenne trasparente in alcuni punti, in altri si sciolse. Dentro di lui, attraverso lui, mentre il suo aspetto esteriore scom-pariva, vidi vortici e curve, strettoie e canali... e righe nere, che disegnava-no una geometria astratta all'interno della sagoma complessiva di una figu-ra nobile e possente.

A differenza di Dworkin, però, l'immagine non svanì. Superate le mie difese, pur con movimenti rallentati, continuò lo stesso ad avanzare verso di me, e mi raggiunse. Qualunque fosse la sua vera natura, era una delle creature più spaventose che avessi mai incontrato. Continuai ad arretrare, alzando le mani, e chiamai nuovamente il Logrus.

Il Segno del Logrus si interpose tra di noi. La versione astratta di Oberon continuò a venire avanti: mani distorte ed incorporee che incontravano le membra contorte del Caos.

Non mi stavo allungando mediante l'immagine del Logrus per dirigerlo contro l'apparizione. Provavo un insolito terrore nei confronti di quell'esse-re, perfino a quella distanza. Quel che feci fu proiettare il Disegno contro l'immagine del Re. Quindi saltai entrambi, uscii dalla grotta, e rotolai, cer-cando a tentoni di aggrapparmi con le mani e con i piedi al pendìo contro

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cui andai a sbattere, risalendo poi a fatica con l'aiuto di un masso al quale mi afferrai non appena la caverna esplose con il rumore ed il lampo di un deposito di munizioni colpito.

Rimasi sdraiato lì, tremante, con gli occhi chiusi, forse per mezzo minu-to. Ancora un secondo, e mi sarei ritrovato qualcosa nel sedere... a meno che, forse, non fossi restato perfettamente immobile cercando di somiglia-re il più possibile ad una roccia...

Il silenzio era profondo e, quando riaprii gli occhi, la luce era svanita, e la forma dell'entrata della grotta era rimasta inalterata. Mi alzai lentamente in piedi, e mi mossi anche più piano. Il Segno del Logrus era scomparso e, per ragioni che non capii, fui restio a richiamarlo. Quando detti un'occhiata all'interno della caverna, vidi che non c'erano segni di quello che era suc-cesso, tranne il fatto che le mie difese erano cadute.

Entrai dentro. La coperta era ancora là dove era caduta. Allungai una mano e toccai il muro. Fredda pietra. Quell'esplosione doveva essere avve-nuta ad un altro livello. Il mio fuocherello bruciava ancora debolmente. Lo riattizzai. Ma l'unica cosa che vidi al suo chiarore che non avevo preceden-temente visto, fu la mia tazza di caffè, in pezzi là dov'era caduta.

Lasciai la mano addosso al muro. Mi appoggiai. Dopo un pò, il mio dia-gramma cominciò a stringersi incontrollabilmente. Cominciai a ridere, ma non sono sicuro del perché. Sentivo addosso tutto il peso di quello che si era verificato da quel 30 di Aprile. Era semplicemente successo che la risa-ta si era sostituita all'alternativa di battermi il petto ed urlare.

Credevo di conoscere tutti i giocatori di quella difficile partita. Luke e Jastra sembravano adesso dalla mia parte, insieme a mio fratello Mandor, che si era sempre preoccupato di me. Il mio folle fratello Jurt mi voleva morto, ed ora si era alleato con Julia, la mia antica findanzata, che non sembrava molto ben disposta nei miei confronti. C'era la ty'iga, un Demo-ne iperprotettivo che si era impossessato del corpo della sorella di Coral, Nayda, che avevo lasciato a dormire sotto un Incantesimo ad Ambra. C'era Dalt il mercenario, il quale — mi venne in mente in quel momento, era an-che mio zio — aveva rotto con Luke per scopi sconosciuti dopo averlo fat-to cadere ad Arden, mentre due eserciti guardavano il loro combattimento. Aveva dei disegni non molto gradevoli su Ambra, ma gli mancava la forza militare per effettuare qualcosa di più pericoloso di qualche azione di guer-riglia. E poi c'era il Timone Fantasma, il mio Trionfo e operatore ciberne-tico nonché semidio meccanico di basa lega, che sembrava essere passato da una fase esantematica e maniacale ad una razionale e paranoica: non ero

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del tutto certo dove se n'era andato dopo avermi lasciato, ma almeno mo-strava una sorta di rispetto filiale misto alla sua attuale vigliaccheria.

E questo sembrava tutto. Ma le ultime apparizioni sembravano provare che c'era anche qualcun

altro della partita, qualcuno che voleva spingermi ancora in un'altra dire-zione. Avevo la testimonianza di Fantasma che era forte anche se non a-veva idea di cosa realmente rappresentasse. E non avevo alcun desiderio di fidarmi. Le future relazioni non promettevano perciò molto bene.

«Ehi, ragazzo!», arrivò una voce familiare dal crepaccio. «Sei un uomo difficile da trovare. Non startene lì.»

Mi voltai immediatamente, mi mossi in avanti, poi guardai giù. Una figura solitaria si stava arrampicando sulla pendenza. Era un uomo

molto grosso, al quale brillava qualcosa vicino alla gola. Era troppo scuro per distinguere i suoi lineamenti.

Arretrai di qualche passo, avviando l'Incantesimo che avrebbe ripristina-to le mie difese saltate per aria.

«Ehi! Non scappare!», mi gridò dietro. «Devo parlarti.» Le difese scesero al loro posto, poi brandii la spada con la punta abbas-

sata, tenendola sulla mia destra, ma completamente nascosta alla sua vista quando mi girai con il corpo. Ordinai a Frakir di diventare invisibile alla mia sinistra. La seconda apparizione era stata più forte della prima, ed a-veva superato le mie difese. Se quest'altra si fosse dimostrata ancora più forte, avrei avuto bisogno di tutto quello che potevo mettere insieme.

«Sì?», gridai. «Chi sei, e cosa vuoi?» «Maledizione!», lo sentii dire. «Non sono nessuno in particolare. Solo il

tuo vecchio. Mi serve aiuto, e vorrei mantenere le cose in famiglia.» Dovetti ammettere, quando raggiunse la zona del fuoco, che era un'otti-

ma imitazione del Principe Corwin di Ambra, ossia mio padre, con tanto di mantello nero, stivali, pantaloni, camicia grigia, bottoni d'argento e cintura — quest'ultima perfino d'argento rosa — che mi stava sorridendo con lo stesso sorriso furbesco che aveva talvolta il vero Corwin quando mi rac-contava la sua storia, tanto tempo prima...

A quella vista mi sentii torcere le budella. Avrei voluto conoscerlo me-glio, ma era scomparso, e non ero mai riuscito a ritrovarlo. Adesso, con quell'essere — qualunque cosa fosse — che aveva assunto la sua persona-lità... ero decisamente un pò più che irritato da quel tentativo manifesto di manipolare i miei sentimenti.

«Il primo falso era Dworkin,» dissi, «e il secondo, Oberon. Stai riprodu-

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cendo l'intero albero genealogico della mia famiglia, vero?» Mi guardò insospettito, e sollevò la testa perplesso: un'altro tocco reali-

stico, mentre avanzava. «Non so di che cosa stai parlando, Merlin,» mi rispose. «Io...» Poi entrò nell'area protetta dalle mie difese ed ebbe un sobbalzo, come

se avesse toccato un filo rovente. «Merda!», disse. «Non ti fidi di nessuno, vero?» Rimasi perplesso, però, per il fatto che il contatto non avesse provocato

altri fuochi d'artificio. Inoltre, mi chiesi come mai la trasformazione di quell'essere in ricci non fosse ancora cominciata.

Con un'altra imprecazione, spostò il mantello sulla sua sinistra, avvol-gendoselo intorno al braccio; la sua mano destra fece per prendere un ec-cellente facsimile del fodero della spada mentre si inarcava in alto, poi sce-se verso il centro della mia difesa. Quando la incontrò, le scintille si alza-rono in uno schizzo di mezzo metro, e la lama sibilò come se fosse stata prima arroventata e poi immersa rapidamente nell'acqua. Il contorno della spada sfolgorò, e le scintille scoppiarono nuovamente — questa volta rag-giungendo l'altezza di un uomo — e, in quell'istante sentii che le mie dife-se cedevano.

Poi entrò, ed io l'affrontai, roteando la mia spada. Ma la lama che somi-gliava a Grayswandir si abbassò e si sollevò di nuovo, in un cerchio che mi strinse, spingendo la punta della mia arma sulla destra e facendola scivola-re dritta in direzione del mio petto. Feci una semplice parata di quarta, ma lui si abbassò, di nuovo pronto a venirmi addosso dall'esterno. Schivai di sesta, ma non era lì. Il suo movimento era stato soltanto una finta. Era tor-nato dentro, ed ora mi stava attaccando dal basso. Mi rivoltai e parai anco-ra, mentre si portava con tutto il peso sulla mia destra, abbassando la punta della spada, cambiando presa, ed agguantandomi la faccia con la mano si-nistra.

Vidi troppo tardi la sua mano destra che si alzava mentre la sinistra mi passava dietro la testa. Il pomo di Grayswandir era puntato direttamente contro la mia mascella.

«Sei davvero...», cominciai, ed allora capì. L'ultima cosa che ricordo di aver visto fu la rosa d'argento. Così è la vita: Fidati e vieni tradito, non fidarti e tradisci. Come la mag-

gioranza dei paradossi morali, ti mette in una posizione insostenibile. Ed era troppo tardi per optare per la mia consueta soluzione. Non potevo riti-

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rami dal gioco. Mi svegliai in un posto buio: ero perplesso e sospettoso. Come facevo sempre quando ero perplesso e sospettoso, restai perfetta-mente immobile e lasciai che il mio respiro seguisse il suo ritmo naturale. Ed ascoltai.

Nemmeno un suono. Aprii impercettibilmente gli occhi. Vidi dei disegni sconcertanti. Li richiusi. Sentivo con il corpo delle vibrazioni interne alla superficie di pietra sulla

quale ero adagiato. Nessun vibrafono. Aprii gli occhi completamente, soffocando l'impulso di richiuderli. Mi

alzai sui gomiti, poi raccolsi le ginocchia, raddrizzai la schiena, e girai la testa. Affascinante! Non ero rimasto così disorientato da quella volta che ero andato a farmi una bevuta con Luke ed il Gatto del Cheshire.

Intorno a me non c'erano colori. Era tutto nero, bianco, o con qualche sfumatura di grigio. Era come se fossi entrato in un negativo. Quello che presumetti fosse un sole pendeva come un buco nero diversi diametri sopra l'orizzonte, alla mia sinistra. Il cielo era di un grigio scurissimo, e nuvole color ebano vi passavano lentamente. La mia pelle aveva il colore dell'in-chiostro. Il terreno roccioso che avevo sotto e tutto intorno, però, splende-va di un bianco osseo quasi traslucido. Mi alzai lentamente in piedi, vol-tandomi. Sì. Il terreno sembrava luccicare, il cielo era scuro, ed io ero u-n'ombra in mezzo ad essi. Quella sensazione non mi piacque affatto.

L'aria era secca, gelida. Mi trovavo ai piedi di una candida catena mon-tuosa, di aspetto talmente desolato da suggerirmi un paragone con quella antartica. Le montagne si stendevano davanti a me e sulla mia sinistra. Verso destra — bassa e declinante — in direzione di quello che ritenni fosse un sole mattutino, si stendeva una pianura nera. Un deserto? Dovetti sollevare la mano e «schermarmi» contro il suo... cos'era? Un controlucci-chìo?

«Merda!» cercai di dire, ed immediatamente notai due cose. La prima, era che non mi usciva la voce. La seconda, che mi faceva male

la mascella dove mio padre, o il suo simulacro, mi aveva colpito. Ripetei in silenzio la mia esclamazione e presi i Trionfi. Si accettavano

scommesse quanto al momento in cui avrebbe interferito con le comunica-zioni. Presi dal mazzo il Trionfo per evocare il Timone Fantasma e vi con-centrai la mia attenzione.

Niente, Era completamente morto. Ma era stato Fantasma a dirmi di

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dormire, e forse stava semplicemente rifiutandosi di ricevere la mia chia-mata. Scorsi col pollice le altre carte. Mi fermai su quella di Flora. Di soli-to era sempre pronta a trasportarmi in un posto sicuro. Studiai quella bella faccia, inviai la mia chiamata...

Non un solo ricciolo biondo si mosse. Nemmeno la più piccola variazio-ne di temperatura. La carta restava solo una carta. Provai ancora, mormo-rando perfino un Incantesimo di Potenziamento. Ma a casa non c'era nes-suno.

Mandor, allora! Passai diversi minuti con la sua carta con il medesimo risultato. Provai con quella di Random. Di Ditto. Di Benedict, di Julian. Niente di niente. Provai con Fiona, con Luke, anche con Bill Roth. Altri tre tentativi a vuoto. Estrassi perfino una coppia di Trionfi del Giudizio, ma non riuscii a raggiungere né la Sfinge, né una costruzione di ossa sulla ci-ma di una montagna di cristallo verde.

Pareggiai le carte, le rimisi nel mazzo e le riposi via. Era la prima volta che incontravo un fenomeno del genere dalla volta della Grotta di Cristal-lo. I Trionfi possono essere bloccati in molti modi però e, per quel che mi riguardava, la questione al momento era puramente accademica. Mi inte-ressava di più spostarmi in un ambiente maggiormente salubre. Potevo ri-servarmi la ricerca in un momento di svago futuro.

Cominciai a camminare. I miei passi non producevano alcun rumore. Quando diedi un calcio ad un sasso che rimbalzò davanti a me, non udii il minimo suono.

Bianco alla mia sinistra, nero alla mia destra. Montagne o deserto. Girai a sinistra, camminando. Niente in movimento che riuscissi a vedere a parte le nuvole nere. A ridosso di ogni affioramento c'era un'area quasi accecan-te di raddoppiata lucentezza: folli contorni di una folle terra.

Giro ancora a sinistra. Tre passi, costeggio il burrone. Salgo. Il bordo. Scendo giù. Giro a destra. Improvvisa, una striscia rossa appare tra le rocce a sinistra...

No. La prossima volta allora... Breve fitta al seno frontale. Niente rosso. Vado avanti. Crepa a destra, prossima volta... Mi massaggiai le tempie quando cominciarono a farmi male nello sco-

prire che non si apriva nessuna crepa. Il mio respiro divenne pesante, e sentii del sudore scorrermi lungo la fronte.

Venature di grigio su fiori verdi e fragili, blu ardesia, sotto la prossima scarpata...

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Un doloretto al collo. Niente fiori. Niente grigio. Niente verde. Allora lascia che le nuvole si dividano e le tenebre scendano dal sole... Niente. ... e un suono di acque che scorrono da un piccolo ruscello, al prossimo

burrone. Dovetti fermarmi. Mi scoppiava la testa, e mi tremavano le mani. Allun-

gai un braccio e toccai la parete rocciosa alla mia sinistra. Sembrava abba-stanza solida. Perché tutto mi opprimeva?

E come ero arrivato li? E dov'era quel posto? Mi rilassai. Rallentai il respiro e feci rifluire le energie. Le fitte alla testa

diminuirono, si attenuarono, poi scomparvero. Cominciai nuovamente a camminare. Canto di uccelli e dolce vento... Un fiore in una piccola fenditura... No. E la prima fitta del dolore che tornava... Sotto quale Incantesimo potevo mai trovarmi, da farmi perdere il potere

di camminare nell'Ombra? Non avevo mai saputo che fosse una capacità che si poteva perdere.

«Non è divertente,» cercai di dire. «Chiunque tu sia, qualunque cosa tu sia, come ci sei riuscito? Cosa vuoi? Dove sei?»

Ancora una volta non sentii nulla; men che mai una risposta. «Non so come hai potuto farlo. O perché...», mossi la bocca e pensai.

«Non mi sento preda di un Incantesimo. Ma devo essere qui per qualche motivo. Fai un'altra mossa. Dimmi cosa vuoi.»

Nada. Proseguii, continuando con scarso entusiasmo a fare i miei tentativi di

spostarmi via Ombra. Mentre provavo, considerai la mia situazione. Avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di estremamente semplice nell'intera faccenda che mi stava sfuggendo.

... e un piccolo fiore rosso dietro ad una roccia, alla prossima volta. Girai, e trovai il piccolo fiore rosso che avevo evocato in stato di semi

coscienza. Corsi a toccarlo, per avere la conferma che l'universo era un po-sto benigno che amava Merlin.

Nella corsa, inciampai, sollevando una nuvoletta di polvere. Mi rialzai e mi guardai intorno. Devo essere rimasto così per i successivi dieci o quin-dici minuti, ma non riuscii ad individuare il fiore. Alla fine, bestemmiai e me ne andai via. Non piace a nessuno essere lo zimbello degli scherzetti dell'universo.

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Con un'ispirazione improvvisa mi frugai nelle tasche, in caso avessi ad-dosso un frammento di pietra azzurra. Le loro strane capacità vibrazionali avrebbero potuto guidarmi in qualche modo attraverso l'Ombra, riportan-domi alla loro fonte. Ma niente! Non c'era rimasta nemmeno una scaglietta di polvere azzurra. Erano tutte nella tomba di mio padre. Sarebbe stata una scappatoia troppo facile per me, suppongo.

Cosa mi mancava? Un falso Dworkin, un falso Oberon, ed un uomo che affermava di essere

mio padre, avevano cercato di condurmi in qualche strano posto... per par-tecipare ad una qualche lotta tra le Potenze, aveva detto la figura di Obe-ron, qualunque cosa intendesse dire con questo. La figura di Corwin appa-rentemente c'era riuscita, riflettei, mentre mi massaggiavo la mascella. Ma che razza di gioco era? E dov'erano le Potenze?

L'essere che aveva le sembianze di Oberon aveva detto qualcosa in meri-to ad una mia scelta tra Ambra ed il Caos. Ma allora aveva mentito su altre cose, durante la stessa conversazione. Al diavolo tutti! Non avevo chiesto di essere coinvolto nel loro gioco di poteri. Avevo già abbastanza problemi per conto mio. Non mi importava neanche di imparare le regole di qualun-que cosa stesse succedendo.

Detti un calcio ad un sassolino bianco, e lo guardai rotolare via. Tutto questo non sembrava essere opera di Jurt o di Julia. Sembrava piuttosto un nuovo fattore, oppure uno vecchio che si fosse notevolmente trasformato. Quando era entrato per la prima volta nello schema? Supposi che avesse a che fare con la forza che mi aveva inseguito dopo il nostro tentativo di contattare Coral. Potevo soltanto presumere che mi aveva localizzato e che quello era il risultato. Ma che diavolo poteva essere? Sarebbe stato prima di tutto necessario, arguii, che sapessi dove si trovava Coral nel suo cer-chio di fuoco. Qualcosa in quel posto, presumetti, doveva essere la causa della mia attuale situazione. Dove allora? Aveva chiesto al Disegno di mandarla ovunque dovesse andare... Ora non avevo modo di chiedere al Disegno dove poteva essere, e nessuno modo, al momento, di percorrerlo per farmi mandare da lei.

Era ora, perciò, di rinunciare alla partita e di impiegare nuovi sistemi per risolvere il problema. Visto che i miei Trionfi avevano fatto saltare un cir-cuito e la mia capacità di attraversare l'Ombra aveva incontrato un miste-rioso impedimento, decisi che era ora di aumentare il fattore potere con un ordine di grandezza in mio favore. Avrei chiamato il Segno del Logrus e continuato a percorrere l'Ombra, proteggendomi le spalle ad ogni passo

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con il potere del Caos. Frakir mi si strinse intorno al polso. Mi preparai subito ad un'imminente

minaccia, ma non vidi nulla. Rimasi all'erta per qualche altro minuto, e-splorando le vicinanze. Ma non successe niente, e Frakir si immobilizzò.

Era la prima volta che il suo sistema di allarme pulsava a vuoto, o a cau-sa di qualche erratica corrente astrale, o per qualche strano pensiero da me formulato. Ma in un posto del genere, non c'era tempo per stabilirlo. Il gruppo di rocce più vicino si alzava di circa quindici o venti metri, forse salendo di cento passi, sulla mia sinistra. Decisi di arrampicarmi lì, e co-minciai la scalata.

Quando raggiunsi finalmente la sua vetta, pallida come gesso, ordinai una visuale molto ampia in ogni direzione. Non vidi una sola creatura vi-vente in quello strano universo silenzioso yin-yang.

Così decisi che doveva essere stato un falso allarme, e ridiscesi. Allun-gai ancora una volta le membra del Logrus, e Frakir praticamente mi stri-tolò la mano. All'inferno! Lo ignorai, ed inviai la mia chiamata.

Il Segno del Logrus si alzò e corse verso di me. Volteggiò come una far-falla, poi arrivò come un camion. Il mio mondo in cinegiornale mutò da nero e bianco a nero.

4.

Dovevo riprendermi. Mi doleva la testa, ed avevo la bocca sporca. Ero sdraiato faccia a terra.

La memoria tornò a casa in mezzo al traffico, e riaprii gli occhi. Ancora nero, bianco e grigio tutto intorno. Sputai sabbia, mi stropicciai gli occhi, poi li socchiusi. Il Segno del Logrus non era presente, e non riuscivo a spiegarmi l'ultima esperienza che avevo avuto con lui.

Mi sollevai sulle ginocchia. Sembrava che fossi rimasto senza mezzi di trasporto, con ogni sistema di trasporto e di comunicazione ultraterreno bloccato. Non mi veniva in mente nient'altro da fare che rialzarmi, sceglie-re una direzione e cominciare a camminare.

Scrollai le spalle. Dove mi avrebbe portato? In un posto uguale in un al-tro paesaggio ugualmente monotono?

Si udì un debole suono, come una gola che deglutisse. Mi ritrovai in piedi in un secondo e, nell'alzarmi, ispezionai ogni dire-

zione. «Chi è là?», chiesi, dopo aver rinunciato ad articolare la voce.

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Mi parve di sentirlo di nuovo, vicinissimo. Poi, «Ho un messaggio per te,» sembrava che mi dicesse qualcosa nella

testa. «Cosa? Dove sei? Un messaggio?», cercai di chiedere. «Scusami», disse la voce soffocata, «ma sono nuovo a questo genere di

cose. A dirtelo con franchezza, sono dove sono sempre stato — intorno al tuo polso — e, quando il Logrus è esploso qui dentro, ha aumentato le mie capacità, in modo che potessi portarti il messaggio.

«Frakir?» «Sì. Il mio primo sviluppo, quel giorno in cui mi portasti nel Logrus,

aumentò la mia sensibilità al pericolo, la mia mobilità, i riflessi di batta-glia, e mi diede una limitata senzienza. Questa volta il Logrus ha aggiunto la comunicazione mentale diretta ed ha espanso la mia consapevolezza per rendermi capace di recare messaggi.»

«Perchè?» «Andava di fretta, e poteva restare in questo posto solo per un istante:

questo era l'unico modo che aveva per farti sapere cosa succede.» «Non sapevo che il Logrus fosse senziente.» Seguì qualcosa di simile ad uno schiocco di lingua. Poi, «È difficile classificare un'intelligenza di quella specie, e suppongo

che non abbia molto da dire generalmente,» fu la risposta di Frakir. «Le sue energie si espandono principalmente in altre aree.»

«E allora perché è piombato qui e mi ha bombardato?» «Senza volerlo. È stata una risultante del mio sviluppo, una volta che ha

visto che io ero l'unico mezzo per raggiungerti con qualcosa di più di qualche parola od immagine.»

«Perché la sua permanenza era così limitata?», chiesi. «È la natura di questa terra, che si trova tra le Ombre, di essere inac-

cessibile sia al Disegno che al Logrus.» «Una specie di zona neutrale?» «No, non è una questione di tregua. È solo che è estremamente difficile

per entrambi manifestarsi qui. Questo è il motivo per cui questo posto è immutabile.»

«È un posto che non possono raggiungere?» «È una questione di dimensioni.» «Come mai non ne ho mai sentito parlare prima?» «Probabilmente perché nessun altro può raggiungerlo tanto velocemen-

te.»

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«Allora qual è il messaggio?» «Sostanzialmente, che non devi provare a chiamare il Logrus mentre sei

qui. Questo luogo costituisce un veicolo di comunicazione che distorce a tal punto, da non esistere alcuna garanzia sulla maniera in cui una proie-zione energetica possa manifestarsi al di fuori di un recipiente adatto. Po-trebbe essere un pericolo per te.»

Mi massaggiai le tempie doloranti. Alla fine riuscii a liberare la mente dal dolore alla mascella.

«E va bene,» mi rassegnai. «Qualche suggerimento in merito a cosa do-vrei fare qui?»

«Sì, è una prova. Di che tipo, non saprei.» «Ho una scelta?» «Che vuoi dire?» «Posso rifiutarmi di partecipare?» «Penso di sì. Ma in questo caso non so dirti come potresti andartene di

qui.» «Perciò alla fine verrò liberato, se accetto il gioco?» «Se sarai ancora vivo, sì. Ed anche se non lo sarai, immagino.» «Perciò, in realtà non ho scelta.» «Una scelta ci sarà.» «Quando?» «In un punto lungo la strada. Non so dove.» «Perché non mi ripeti tutte le tue istruzioni?» «Non posso. Non so che significato hanno. Le conoscerò soltanto in ri-

sposta ad una domanda o ad una situazione.» «Qualcosa di tutto questo interferirà con la tua funzione di strangolato-

re?» «Non dovrebbe.» «È già qualcosa. Molto bene! Hai idea di cosa dovrei fare adesso?» «Sì. Dovresti cominciare a salire sul monte più alto che si trova alla tua

sinistra.» «Quale... Va bene, credo sia quello,» decisi, fermando lo sguardo su

una dentellatura spezzata di una bianchezza abbacinante. Fu così che mi avviai verso quel monte, risalendo una parete che diven-

tava sempre più scoscesa. Il sole nero si alzò sul grigiore circostante. Lo spettrale silenzio non venne interrotto.

«Uh, sai cosa troveremo esattamente quando arriveremo dove stiamo andando?», cercai di dire a Frakir.

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«Sono sicuro che l'informazione esista,» fu la sua risposta, «ma non cre-do che sarà disponibile finché non raggiungeremo il luogo adatto.»

«Mi auguro che tu abbia ragione.» «Anch'io.» La strada continuò a farsi progressivamente più ripida. Anche se non a-

vevo modo di misurare esattamente il tempo, credo che passasse più di u-n'ora prima che mi fossi allontanato dai piedi della montagna bianca ed a-vessi cominciato a scalarla. Mentre osservavo che non c'erano impronte umane, né si vedeva alcun segno di vita, in diverse occasioni incontrai lunghe strisce di terreno che parevano viottoli di montagna naturali, che portavano sulla sommità di quell'interminabile parete decolorata. Doveva-no essere trascorse diverse ore, mentre mi arrampicavo su quel versante, ed il sole nero era salito a metà del cielo ed aveva cominciato la sua discesa verso un ovest che si trovava al di là della montagna. L'impossibilità di imprecare a voce alta, cominciava a darmi fastidio.

«Come faccio ad essere sicuro che ci troviamo dalla parte giusta? O che ci stiamo dirigendo nella zona esatta?», chiesi.

«Sei ancora nella direzione giusta,» mi rispose Frakir. «Ma non sai guanto sarà lontano?» «No. Ma lo saprò quando lo vedrò.» «Il sole tramonterà dietro la montagna, molto presto. Sarai in grado di

stabilirlo anche allora?» «Credo che qui il cielo si illumini quando se ne va il sole. Lo spazio ne-

gativo fa di questi scherzi. Comunque, c'è sempre qualcosa di illuminato e qualcosa di buio, qui. Ci sarà quello che serve per riconoscerlo.»

«Qualche idea su quello che stiamo realmente facendo?» «Una di quelle dannate cacce al tesoro, credo.» «Ad una visione? O a qualcosa di pratico?» «Mi sembrava di aver capito che tutte le ricerche sono al tempo stesso

visionarie e pratiche, anche se sento che questa è decisamente del secondo tipo. D'altro canto tutto ciò che incontrerai tra le Ombre probabilmente apparterrà all'allegorico, all'emblematico... tutta quella gente imbecille sepolta nella parte inconscia del proprio essere.»

«In altre parole, non lo sai.» «Non ne sono del tutto sicuro, ma mi guadagno da vivere facendo sup-

posizioni intuitive.» Raggiunta la vetta, trovai degli appigli, e mi sollevai su un'alta sporgen-

za. La seguii per un pò, quindi mi arrampicai di nuovo.

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Alla fine il sole scomparve, ma non fece differenza per la mia capacità visiva. Buio e luce cambiarono posto.

Scalai un'irregolarità di cinque o sei metri e mi fermai quando finalmen-te ebbi la visuale dell'area rientrante verso la quale saliva. C'era una spac-catura nella parte posteriore della parete della montagna. Esitai a definirla una grotta, perché mi sembrava artificiale. Sembrava che fosse stata scava-ta a forma di un arco, ed era sufficientemente grande per consentire il pas-saggio di un uomo a cavallo.

«Ma guarda un pò,» commentò Frakir, facendo un giro intorno al mio polso. «È qui.»

«La prima fermata,» mi rispose. «Tu ti fermi qui e sbrighi certe faccen-de prima di proseguire.»

«E sarebbero?» «È più semplice andare a guardare.» Mi arrampicai sull'orlo della sporgenza, mi alzai in piedi ed andai avanti.

La grande entrata era tutta illuminata da quella della luce priva di sorgente. Esitai sulla soglia, e scrutai all'interno.

Aveva l'aspetto di una normalissima cappella. C'era un piccolo altare, con sopra un paio di candele che giocavano a far tremolare le corone di te-nebre. Lungo i muri c'erano dei sedili di pietra ricavati nella roccia. Contai cinque entrate, oltre a quella sulle quale mi trovavo: tre nella parete op-posta, una in quella a destra, ed un'altra in quella a sinistra. Al centro della sala erano ammonticchiate due pile di attrezzature da battaglia. Non c'era alcun simbolo della religione che veniva praticata.

Entrai. «Cosa dovrei fare qui dentro?», chiesi. «Devi sederti e restare di guardia a sorvegliare per tutta la notte la tua

corazza.» «Aw, prosegui,» dissi, andando ad esaminare l'attrezzatura. «Qual è il

punto?» «Non rientra nelle informazioni che mi hanno dato.» Presi da terra una fantastica corazza bianca che mi avrebbe fatto somi-

gliare a Sir Galahad. Sembrava proprio la mia misura. Scossi la testa e la posai. Mi avvicinai alla seconda pila e presi un guanto di ferro grigio dav-vero curioso. Lo lasciai cadere immediatamente e rovistai tra gli altri og-getti. Era più o meno lo stesso. Sembravano fatti apposta per me, per di più. Solo...

«Che c'è che non va, Merlin?»

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«L'equipaggiamento bianco,» dissi, «sembra fatto proprio per me. L'al-tra armatura somiglia al tipo usato nelle Corti. Sembrerebbe adatta a me nel caso assumessi la mia forma del Caos. Perciò entrambe le armature mi andrebbero bene, a seconda delle circostanze. Ma posso usare soltanto un'armatura alla volta. Quale delle due dovrei sorvegliare?»

«Ritengo che sia proprio questo il punto cruciale. Credo che dovresti scegliere.»

«Ma certo!» Schioccai le dita, ma non sentii nulla. «Che stupido che so-no, a dovermi fare spiegare le cose da te!»

Mi accovacciai sulle ginocchia, quindi riunii le due armature e le armi in un unico mucchio dall'aspetto minaccioso.

«Se devo sorvegliarle,» dissi, «sorveglierò entrambe le armature. Non voglio fare preferenze.»

«Ho la sensazione che a qualcuno questo non piacerà,» mi rispose Fra-kir.

Mi allontanai e guardai la pila. «Parlami ancora di questa veglia,» dissi. «Che cosa implica?» «Devi stare sveglio tutta la notte e fare la guardia.» «Contro che cosa?» «Contro qualunque cosa cercherà di appropriarsene, penso. Le Potenze

dell'Ordine...» «... o del Caos.» «Sì, capisco che vuoi dire. Ammonticchiate in quel modo, chiunque po-

trebbe venire a rubarne un pezzo.» Mi sedetti sul sedile della parete posteriore, tra le due porte. Era piace-

vole riposare un pò dopo quella lunga scalata. Ma qualcosa nel mio cervel-lo continuò a macinare. Poi, dopo un pò: «Cosa mi aspetta?», domandai.

«Che vuoi dire?» «Mettiamo che resti seduto qui tutta la notte a sorvegliare quella roba.

Forse arriverà qualcuno e cercherà di prendersela. Mettiamo che lo scon-figgo. Arriva il mattino, la roba è ancora qui, ed io sono ancora qui. E poi? Cosa ci guadagno?»

«Allora indossi la tua armatura, prendi le tue armi e ti prepari al pros-simo appuntamento.»

Repressi uno sbadiglio. «Sai, credo di non volere nulla di quella roba,» dissi poi. «Non mi piac-

ciono le armature, e mi basta la spada che ho.» Portai la mano sull'elsa. Era strano, ma lo feci lo stesso. «Perché invece non lasciamo l'intera pila

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così com'è e non andiamo subito al prossimo appuntamento? E in che cosa consisterebbe, poi?»

«Non ne sono sicuro. Sembra che il Logrus mi fornisca le informazioni soltanto al momento opportuno. Non conoscevo nemmeno questo posto finché non ho visto l'entrata.»

Mi stiracchiai ed incrociai le braccia. Appoggiai la schiena al muro, al-lungai le gambe, ed incrociai le caviglie.

«Perciò siamo inchiodati qui finché non succede qualcosa o non ti viene un'altra ispirazione?»

«Esatto.» «Svegliami quando tutto è finito,» dissi, e chiusi gli occhi. La stretta al polso che seguì fu quasi dolorosa. «Hei! Non puoi farlo!» mi disse Frakir. «L'idea è che tu rimanga sveglio

per tutta la notte a fare la guardia.» «Una bella idea del cavolo!», dissi io. «Mi rifiuto di partecipare a que-

sto stupido gioco. Se qualcuno vuole la roba, gli farò un buon prezzo.» «Continua pure a dormire, se credi. Ma se arriva qualcuno e decide che

per prima cosa farebbe meglio ad eliminarti dalla scena?» «Tanto per cominciare,» replicai, «non credo che importerebbe a nessu-

no di quel mucchio di ferraglia medioevale, figuriamoci poi se potrebbe fare gola... E, per concludere, è compito tuo avvertirmi in caso di perico-lo.»

«Sì, sì, Capitano. Ma questo è un posto stregato. E se limitasse in qual-che modo la mia percettività?»

«Adesso ti stai davvero allargando,» risposi. «Suppongo che dovresti limitarti ad improvvisare.»

Sonnecchiai. Sognai di trovarmi in un cerchio magico e che diversi esse-ri cercavano di arrivare a me. Quando toccavano la barriera, però, veniva-no trasformati in baccalà, in personaggi da fumetto che rapidamente svani-vano. Eccetto Corwin di Ambra, che mi sorrise e scosse la testa.

«Prima o poi dovrai uscire da lì!», mi disse. «Meglio poi,» gli risposi. «E i tuoi problemi saranno ancora là, dove li hai lasciati.» Annuii col capo. «Ma mi sarò riposato,» risposi. «Allora è un compromesso. Buona fortuna.» «Grazie.» Il sogno svanì in immagini confuse. Mi sembra di ricordare che dopo un

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pò mi trovavo al di fuori del cerchio, pensando alla maniera di tornare den-tro...

Non fui certo di cosa mi svegliò. Non poteva essere stato un rumore. Ma improvvisamente divenni vigile e mi alzai in piedi, e la prima cosa che vidi fu un nano con la pelle del viso macchiata, le mani strette intorno alla gola, sdraiato in completa immobilità in una posizione contorta vicino al muc-chio delle armature.

«Che succede?», cercai di dire. Ma non ebbi risposta. Attraversai la stanza e mi inginocchiai accanto al nanetto dalle spalle

larghe. Con i polpastrelli ascoltai il battito della sua carotide, ma non riu-scii a localizzare nessuna pulsazione. In quel momento, però, provai una sensazione di solletico intorno al polso, e Frakir — passando alternativam-nete da uno stato di invisibilità ad uno di visibilità — si rimise in contatto con me.

«Hai fatto fuori tu quel tipo?», chiesi. Allora si sentì una debole pulsazione. «I suicidi non si strangolano da soli,» mi rispose. «Perché non mi hai avvertito?» «Avevi bisogno di dormire, e non avevo nulla a portata di mano. La no-

stra empatia è forte, però. Mi dispiace di averti svegliato.» Mi stiracchiai. «Quante ore ho dormito?» «Diverse ore, direi.» «Mi sento un pò dispiaciuto per tutto questo,» dissi. «Quel mucchio di

robaccia non vale la vita di nessuno.» «È ora,» rispose Frakir. «Vero. Adesso che qualcuno è morto per le armature, hai saputo cosa

dobbiamo fare prossimamente?» «Le cose sono un pò più chiare, ma non abbastanza da poter agire.

Dobbiamo restare qui fino al mattino per essere sicuri.» «L'informazione che hai dice qualcosa in merito ad un posto nei paraggi

in cui trovare da bere e da mangiare?» «Sì. Dovrebbe esserci una caraffa d'acqua dietro l'altare. Anche un pò

di pane. Ma è per la mattina. Dovresti digiunare per tutta la notte.» «Solo se prendo l'intera faccenda sul serio,» dissi, dirigendomi verso

l'altare. Feci due passi, e il mondo cominciò a separarsi. Il pavimento della cap-

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pella tremò, ed udii i primi suoni da quando ero arrivato; un rumore basso e raschiante provenne da qualche parte sotto di me. Un'orda di colori bale-nò nell'aria di quel luogo incolore, quasi accecandomi con la sua intensità. Poi i colori si dileguarono, e la stanza si divise. Il biancore divenne più in-tenso in prossimità dell'architrave da cui ero entrato. Dovetti alzare una mano e schermarmi gli occhi per difenderli. Nel bel mezzo di quel balugi-nio, scese un'oscurità profonda, che nascose le tre vie d'accesso nel muro.

«Che cos'è?», chiesi. «Qualcosa di terribile,» mi rispose Frakir. «Va oltre le mie capacità di

valutazione.» Afferrai l'elsa della spada che portavo e ripassai gli Incantesimi che ave-

vo ancora a disposizione. Prima che potessi fare qualcosa di più, la sensa-zione spaventosa di una presenza riempì il posto. Sembrava talmente po-tente che non ritenni molto saggio estrarre la spada o recitare un Incante-simo.

Solitamente avrei chiamato il Segno del Logrus, ma mi era vietato anche quello. Cercai di deglutire, ma dalla gola non mi uscirono suoni. Poi ci fu un movimento nel cuore della luce, una opalescenza.

La sagoma di un Unicorno, come la Tigre di Blake, bruciò luminosa fino a prendere forma: era talmente dolorosa da guardare che dovetti distogliere lo sguardo.

Spostai lo sguardo sulla fresca e profonda oscurità, ma per i miei occhi non ci fu pace neanche là. Qualcosa si agitò nelle tenebre, e si udì un altro suono... uno stridio, come se venisse sfregato del metallo su una pietra. Venne seguito da un potente sibilo, e il terreno tremò nuovamente. Delle linee curve fluttuarono in avanti. Perfino prima che la luce sprigionantesi dall'Unicorno mettesse in risalto i suoi contorni in quel potente chiarore, compresi che era la testa di un serpente con un occhio solo, entrato nella cappella.

Spostai lo sguardo su un punto in mezzo ai due, inquadrando entrambi nella mia visione periferica. Era molto meglio di qualsiasi tentativo di guardarli direttamente. Sentii i loro sguardi su di me: l'Unicorno dell'Ordi-ne ed il Serpente del Caos. Non era una sensazione piacevole, ed arretrai finché non mi ritrovai l'altare alle spalle.

Entrambi avanzarono nella cappella. La testa dell'Unicorno era bassa, il corno puntato direttamente contro di me. La lingua del Serpente dardeg-giava nella mia direzione.

«Uh, se entrambi volete questa corazza e questi vestiti,» azzardai, «cer-

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tamente io non ho alcuna obiezione...» Il Serpente sibilò e l'Unicorno sollevò uno zoccolo, facendolo poi rica-

dere a frantumare il pavimento della cappella, e la linea di frattura si allar-gò verso di me come un lampo nero fermandosi esattamente ai miei piedi.

«D'altronde,» osservai, «l'offerta non vuole assolutamente essere un in-sulto, Vostre Eminenze...»

«È una cosa sbagliata da dire... E sono due!», si intromise Frakir, a bas-sa voce.

«Dimmi cosa va bene,» dissi, tentando un bisbiglio mentale. «Non... Oh!» L'Unicorno indietreggiò, ed il Serpente si sollevò. Io caddi in ginocchio

e distolsi gli occhi, perché i loro sguardi erano diventati fisicamente dolo-rosi. Stavo tremando, e tutti i muscoli cominciavano a farmi male.

«Viene suggerito,» recitò Frakir, «che tu partecipi al gioco stabilito.» Quale metallo entrò nella mia spina dorsale non lo so. Ma alzai la testa e

la girai, guardando prima l'Unicorno, e poi il Serpente. Anche se gli occhi mi lacrimavano e dolevano come se stessi cercando di fissare il sole, riu-scii a fare un gesto.

«Potete farmi giocare,» dissi, «ma non potete farmi scegliere. La mia vo-lontà mi appartiene. Sorveglierò questa armatura tutta la notte, come mi viene richiesto. Al mattino me ne andrò via senza, perché non intendo in-dossarla.»

«Senza di essa potresti morire,» dichiarò Frakir, come se stesse tradu-cendo.

Alzai le spalle. «Se devo fare una scelta, scelgo di non mettere nessuno di voi due da-

vanti all'altro.» Soffiò un vento caldo e freddo, che parve un sospiro cosmico. «Sceglierai,» riferì Frakir, «che tu ne sia consapevole o no. Tutti lo fan-

no. A te viene semplicemente chiesto di formalizzare la scelta.» «Cosa c'è di speciale nel mio caso?», chiesi. Di nuovo quel vento. «La tua è un'eredità dualistica, associata ad un grande potere.» «Non ho mai voluto nessuno di voi due per nemico,», dichiarai. «Non è abbastanza,» fu la risposta. «Allora distruggetemi adesso,» risposi. «Non ci piace il tuo atteggiamento.» «È un fatto reciproco,» risposi.

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Il rombo di tuono che seguì mi rese incosciente. Il motivo per cui sentivo di potermi permettere una completa onestà era

il forte sospetto che i giocatori per questa partita dovevano essere difficili da trovare.

Mi risvegliai sdraiato di traverso sulla pila di gambiere, cotte, guanti di

ferro, elmi, ed un'altra buona quantità di oggetti simili, tutti forniti di corni o protuberanze, molti dei quali mi si erano conficcati nella schiena. Me ne resi conto solo gradualmente, perché ero rimasto stordito.

«Ciao, Merlin!» «Frakir,» risposi. «Quanto sono rimasto fuori gioco?» «Non lo so. Anch'io mi sono appena ripreso.» «Non sapevo che un pezzo di spago potesse essere messo fuori combat-

timento.» «Non lo sapevo nemmeno io. Non mi era mai accaduto.» «Allora fammi formulare meglio la domanda: hai idea di quanto tempo

siamo rimasti fuori gioco?» «Piuttosto a lungo, penso. Fammi dare un'occhiata fuori, e forse potrò

suggerirti un'idea migliore.» Mi rialzai lentamente in piedi, ma non riuscii a restare dritto, e caddi.

Strisciai verso l'entrata, notando nel passare che dal mucchio non sembra-va mancare niente. Il pavimento, invece, era rotto. C'era davvero un nano stecchito in fondo alla sala.

Guardai fuori, e vidi un cielo luminoso, dardeggiato di punti neri. «Ebbene?», chiesi dopo un pò. «Se non vado errato, dovrebbe fare mattino molto presto.» «È sempre più luminoso prima dell'alba, no?» «Qualcosa del genere.» Mi formicolarono le gambe mentre si riattivava la circolazione. Mi tirai

in piedi, appoggiandomi al muro. «Nuove istruzioni?» «Non ancora. Ho la sensazione che arriveranno con l'alba.» Mi trascinai sul sedile più vicino e mi ci buttai sopra. «Se adesso arriva qualcuno, tutto quello con cui posso colpirlo è uno

strano assortimento di Incantesimi. Dormire su un'armatura ti fa passare molti capricci. Fa quasi male come dormirci dentro.»

«Lanciami addosso il nemico: come minimo ti farò guadagnare un pò di tempo.»

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«Grazie.» «Fin dove arriva la tua memoria?» «A quando ero ragazzino, credo. Perché?» «Ricordo sensazioni provate quella prima volta che subii uno sviluppo,

nel Logrus. Ma tutto quello che è successo prima che arrivassimo qui mi sembra una specie di sogno. È come se cominciassi soltanto adesso a rea-gire alla vita.»

«Molte persone si sentono così.» «Veramente? Non potevo pensare, né comunicare così, prima.» «Vero.» «Credi che durerà?» «Che vuoi dire?» «Non potrebbe essere soltanto una condizione temporanea? Non po-

trebbe essere che mi sia stata concessa questa capacità esclusivamente per essere utile nelle attuali circostanze?»

«Non lo so, Frakir,» risposi, massaggiandomi il polpaccio sinistro. «Suppongo sia possibile. Ti stai affezionando a questa condizione?»

«Sì. È stupido da parte mia, credo. Come può importarmi di qualcosa di cui non sentirò la mancanza una volta che se ne sarà andata?»

«Ottima domanda, e non conosco la risposta. Forse avresti raggiunto questo stato in ogni caso, prima o poi.»

«Non credo. Ma non ne sono certo.» «Hai paura di regredire?» «Sì.» «Ti dico io cosa facciamo. Quando troveremo il modo di andarcene di

qui, vai per conto tuo.» «Non potrei farlo.» «Perché no? Mi sei stato utile in molte circostanze, ma posso badare a

me stesso da solo. Adesso che sei senziente, dovresti avere una vita tua.» «Ma io sono uno scherzo di natura.» «Non lo siamo tutti? Voglio solo farti sapere che capisco, e che non ho

problemi.» Una sola pulsazione e rimase in silenzio. Avrei preferito non aver paura di bere l'acqua. Rimasi seduto lì per un'ora buona, rianalizzando tutto quello che mi era

successo di recente, cercando finalità, indizi. «Riesco a sentire i tuoi pensieri,» disse improvvisamente Frakir, «e pos-

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so esserti utile per una cosa.» «Oh, E quale sarebbe?» «Quello che ti portato qui...» «L'essere che somigliava a mio padre?» «Sì.» «Che mi dici di lui?» «Era diverso dagli altri due visitatori. Era umano. Gli altri no.» «Vuoi dire che poteva essere veramente Corwin?» «Non l'ho mai conosciuto, perciò non posso dirlo. Però non era come le

altre due Strutture.» «Sai cos'erano?» «No. So soltanto una cosa su di loro, e non la capisco proprio.» Mi sporsi in avanti e mi massaggiai le tempie. Feci diversi respiri pro-

fondi. Avevo la gola molto secca, ed i muscoli tutti indolenziti. «Continua. Sto aspettando.» «Non so come spiegartelo, disse Frakir. «Ma quando non ero ancora

senziente, tu mi portasti incautamente intorno al polso quando percorresti il Disegno.»

«Me ne ricordo. Mi rimase una cicatrice per molto tempo, dopo la tua reazione.»

«Le creature del Caos e quelle dell'Ordine non vanno molto d'accordo. Ma io sopravvissi. E quell'esperienza la porto registrata dentro di me. A-desso che il Dworkin e l'Oberon ti hanno fatto visita nella grotta...»

«Sì?» «Sotto la loro apparente umanità pulsavano dei campi energetici entro

strutture geometriche.» «Questo somiglierebbe all'animazione di un computer.» «Forse è qualcosa del genere. Non saprei dirlo.» «E mio padre non era una di quelle?» «No. Ma non era a questo che miravo. Ho riconosciuto la fonte.» Improvvisamente mi allarmai. «Che intendi dire?» «Le spirali — le figure geometriche sulle quali erano costruite le Strut-

ture — riproducevano delle parti del Disegno di Ambra.» «Ti stai sbagliando.» «No. Quello che mi mancava in senzienza lo sostituiva la memoria. En-

trambe le figure erano curve tridimensionali di segmenti del Disegno.» «Perché mai il Disegno dovrebbe costruire dei simulacri per crearmi

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dei fastidi?» «Io sono solo un umile strumento di morte. Il ragionamento non è anco-

ra un mio punto forte.» «Se sono coinvolti l'Unicorno e il Serpente, presumo che potrebbe esse-

re implicato anche il Disegno.» «Sappiamo che il Logrus lo è.» «Mi era sembrato che il Disegno dimostrasse capacità senzienti, il gior-

no in cui lo percorse Coral. Ammettiamo che sìa vero ed attribuiamogli anche la capacità di creare modelli: è questo il posto in cui voleva che mi portassero? O forse Corwin mi ha trasportato altrove? E cosa vuole il Di-segno da me? E cosa vuole mio padre da me?»

«Invidio la tua capacità di scrollare le spalle,» mi rispose Frakir. «Sa-rebbero quelle che si chiamano domande retoriche?»

«Suppongo di sì.» «Mi stanno arrivando informazioni di un altro tipo, per cui presumo che

la notte stia finendo.» Mi misi in piedi. «Questo significa che posso mangiare... e bere?», chiesi. «Credo di sì.» Allora mi mossi in fretta. «Anche se sono nuovo a queste cose, non posso fare a meno di chieder-

mi se si possa considerare irriguardoso saltare su un altare in quel mo-do,» commentò Frakir.

Le fiamme nere brillarono quando vi passai in mezzo. «All'inferno! Non so neanche cosa sia un altare!», replicai. «Ed ho sem-

pre pensato alla mancanza di rispetto come qualcosa che dovesse essere specifico di un'identità.»

Il terreno tremò leggermente quando presi la caraffa e bevvi una lunga sorsata.

«Forse hai segnato un altro punto a tuo favore,» dissi, ridacchiando. Girai intorno all'altare portandomi dietro la caraffa e la pagnotta, superai

il nano morto stecchito e mi diressi verso il sedile ricavato nel muro poste-riore. Mettendomi seduto, cominciai a mangiare ed a bere più lentamente.

«Che cosa viene adesso?», chiesi. «Mi hai detto che ti stavano arrivan-do nuove informazioni.»

«Hai fatto la guardia con successo,» mi disse Frakir. «Adesso devi sce-gliere quello che può servirti tra le armi e le armature che hai sorvegliato, poi passare per una delle tre porte di questa parete.»

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«Quale?» «Una è la porta del Caos, una quella dell'Ordine, e non conosco la na-

tura della terza.» «Uh, come si può prendere una decisione appropriata in situazioni di

questo genere?» «Penso che le porte siano tutte sbarrate, eccetto quella in cui dovresti

passare.» «Perciò in realtà non esiste una scelta, vero?» «Credo che la faccenda delle porte possa essere risolta in base alla

scelta che si fa per quanto riguarda le armature.» Finii il pane e lo buttai giù con il resto dell'acqua. Poi mi alzai. «Bene,» dissi, «vediamo cos faranno se non effettuo nessuna scelta. Al

nano è andata male.» «Sapeva cosa faceva, e quali opportunità aveva.» «È più di quanto posso dire io.» Mi avvicinai alla porta di destra, visto che era la più vicina. Immetteva

in un corridoio illuminato che diventava sempre più splendente mano a mano che retrocedeva dalla vista alla distanza di qualche passo. Continuai a camminare, e fui anche sul punto di rompermi il naso. Era come se aves-si incontrato una parete di vetro: rende l'idea. Non riuscivo ad immaginar-mi come avrei fatto a digerire con quella luce.

«Stai diventando più cinico,» osservò Frakir. «Ho colto quel pensiero.» «Bravo!» Mi avvicinai alla porta centrale con più cautela. Era grigia, e sembrava

portare anch'essa in un lungo corridoio. Riuscivo a vedere più lontano del-la prima, anche se non si scorgevano che le pareti, il soffitto ed il pavimen-to. Allungai il braccio e scoprii che la strada non era sbarrata.

«Sembrerebbe quella giusta,» commentò Frakir. «È possibile.» Mi spostai sulla porta di sinistra, il cui passaggio era nero come l'interno

della tasca di Dio. Neanche là incontrai resistenza quando cercai eventuali barriere nascoste.

«Uhm. Sembra che io abbia una scelta.» «Strano. Non ho avuto istruzioni in merito.» Ritornai alla porta centrale e feci un passo avanti. Udendo un suono alle

mie spalle, mi girai. Il nano si era alzato, si stava tenendo la pancia e ride-va. Allora cercai di tornare indietro, ma adesso qualcosa me lo impedì. Poi la scena improvvisamente degenerò, come se stessi accelerando verso il

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fondo. «Credevo che il piccoletto fosse morto,» dissi. «Pure io. Ne aveva tutti i segni.» Ripresi a camminare nella direzione in cui mi ero precedentemente diret-

to. Non ci furono sensazioni di accelerazione. Forse era la cappella che si allontanava mentre io rimanevo fermo.

Feci un passo avanti, poi un altro. Neanche un rumore sotto i piedi. Co-minciai a camminare. Dopo qualche passo, allungai una mano per toccare la parete di sinistra. Non incontrai nulla. Provai di nuovo con quella di de-stra. Ancora niente. Feci un passo a destra e tentai nuovamente. Niente! Sembravo ancora approssimativamente equidistante dai due muri bui. Di-grignando i denti, li ignorai ed andai avanti.

«Che succede, Merlin?» «Avverti o no la presenza di muri alla nostra destra ed alla nostra sini-

stra?», chiesi. «No,» mi rispose Frakir. «Hai idea di dove ci troviamo?» «Stiamo camminando tra le Ombre.» «Dove siamo diretti?» «Ancora non lo so. Però stiamo seguendo la Via del Caos.» «Che cosa? Come fai a saperlo? Credevo che dovessimo scegliere dal

mucchio qualcosa che appartenesse al Caos, per essere ammessi qui.» A quel punto mi detti una bella guardata. Trovai lo stiletto infilato nel

mio stivale destro. Anche in quella fioca luce potei riconoscere l'esecuzio-ne di un manufatto di casa mia.

«In qualche modo abbiamo scelto,» dissi. «Adesso capisco perché il na-no stava ridendo. Mi ha messo questo addosso mentre passavamo.»

«Ma tu avevi ancora una scelta: tra questo corridoio e quello buio.» «Vero.» «Allora perché hai preso questo?» «La luce era migliore.»

5. Sei passi dopo, anche l'impressione che esistessero dei muri era svanita.

Idem per il soffitto. Guardando indietro, non vidi alcun segno del corridoio o della sua entrata. C'era solo una vasta area scura. Fortunatamente, il pa-vimento o il terreno erano rimasti stabili sotto i miei piedi. L'unico fattore

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mediante il quale potessi determinare la direzione in cui viaggiavo nell'o-scurità circostante, era la visibilità. Seguii un sentiero grigioperla attraver-so una valle d'Ombra, sebbene tecnicamente, suppongo, stessi camminan-do tra le Ombre. Qualcuno o qualcosa aveva fatto malvolentieri un pò di luce per guidarmi.

Camminai a fatica in quel silenzio soprannaturale, chiedendomi tra quante Ombre fossi passato, e poi chiedendomi se quella era una maniera troppo semplice di considerare il fenomeno.

Probabile. In quel momento, prima che potessi ricorrere alla matematica, mi parve

di vedere qualcosa in movimento alla mia destra. Mi fermai. Era sempli-cemente apparsa un'alta colonna d'ebano. Ma non si stava muovendo. Conclusi che era stato, il mio stesso movimento a creare l'impressione di moto. Era spessa, immobile, liscia: passai lo sguardo su quell'obelisco scu-ro finché lo persi di vista. Sembrava impossibile stabilire quanto fosse alto.

Cambiai direzione e feci qualche altro passo. Allora notai una seconda colonna, davanti a me, sulla sinistra. A quella riservai solo un rapido sguardo, mentre la superavo. Di lì a poco ne apparvero delle altre da en-trambe le parti. L'oscurità contro la quale sì stagnavano, non aveva nulla che somigliasse a delle stelle, positive o negative che fossero; la volta ce-leste del mio mondo era una semplice ed uniforme oscurità. Più avanti, le colonne apparvero in strani gruppi, alcuni molto vicini, e le loro dimensio-ni non sembravano più uniformi.

Mi fermai, ed allungai una mano verso un gruppetto alla mia sinistra che sembrava quasi alla mia portata. Ma non lo era. Feci un passo in quella di-rezione.

In quel mentre, sentii una veloce strizzata al polso. «Non lo farei se fossi in te!», osservò Frakir. «Perché no?», gli chiesi. «Potrebbe esser facile perdersi e cacciarsi in un mare di guai.» «Forse hai ragione.» Cercai di darmi una mossa. Qualunque cosa stesse succedendo, il mio

unico desiderio era quello di farla finita il più presto possibile, in modo da potermi rioccupare di quelle che consideravo faccende importanti, come ri-trovare Coral, liberare Luke, trovare il modo di trattare con Jurt e con Ju-lia, cercare mio padre...

Le colonne, situate a distanze variabili, scomparvero, e in mezzo a loro cominciarono ad apparire delle cose che non somigliavano a colonne. Al-

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cune erano tozze, asimmetriche, altre alte, affusolate; alcune si appoggia-vano a quelle vicine, facendo da ponte, oppure giacevano spezzate alla ba-se. Fu una specie di sollievo vedere che quella monotona regolarità era fi-nita, in un modo che dimostrava che delle forze giocavano con le forme.

Poi il terreno perse la conformazione piana, sebbene conservasse una peculiarità geometrica stilizzata nei vari livelli, fatti a gradini, mucchi e piani. La strada che stavo percorrendo rimase piatta e leggermente illumi-nata mentre passavo tra le rovine di un migliaio di Stonehenge.

Affrettai il passo, e ben presto mi ritrovai a superare di corsa gallerie, anfiteatri, luoghi di pietra simili a foreste. Mi parve di scorgere dei movi-menti lì in mezzo, ma poteva essere stato ancora una volta un effetto dovu-to alla velocità ed alla scarsa illuminazione.

«Avverti qualche presenza di vita qui intorno?», chiesi a Frakir. «No,» fu la sua risposta. «Credevo di aver visto muoversi qualcosa.» «Forse l'hai visto. Ma non significa che ci sia.» «Sai parlare soltanto da mezza giornata, e già hai imparato a fare del

sarcasmo.» «Mi dispiace dirtelo, capo, ma tutto quello che imparo lo apprendo dal

tuo vibrafono. Non c'è nessun altro qui intorno che mi insegni le buone maniere e cose simili.»

«Toccato!» dissi. «Forse farei meglio ad avvertirti se ci sono guai.» «Toccato, capo! Hei, mi piacciono queste battaglie metaforiche.» Qualche istante dopo rallentai l'andatura. Davanti a me c'era qualcosa

che luccicava verso destra. Nell'intensità cangiante di luce c'erano intermit-tenze azzurre e rosse. Mi fermai. I lampi durarono solo qualche secondo, ma furono più che sufficienti a rendermi guardingo. Fissai a lungo la loro apparente sorgente.

«Sì,» mi disse Frakir dopo un pò, «la cautela va bene. Ma non chiedermi cosa dobbiamo aspettarci. Avverto solo una vaga sensazione di minaccia.»

«Forse esiste un modo in cui potrei darci un'occhiata di nascosto.» «Dovresti lasciare il tracciato per farlo,» replicò Frakir, «e dal momento

che il tracciato passa per il circolo di pietre da cui proviene, direi di no.» «Nessuno mi ha detto che non posso lasciare il tracciato. Hai istruzioni

riguardo a questa eventualità?» «So che dovresti seguire il tracciato. Però non mi è stato comunicato

niente di specifico in merito alle conseguenze che ne deriverebbero.» «Hmm.»

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Il sentiero girava a destra, ed io lo seguii. Passava direttamente in mezzo al mastodontico circolo di pietre e, anche se rallentai l'andatura, non mi fermai. Comunque lo studiai mentre mi avvicinavo, e notai che, una volta entrato lì dentro, il tracciato non ne riusciva più.

«Hai ragione,» osservò Frakir. «È come la caverna del drago.» «Ma si aspettano che andiamo da questa parte.» «Sì.» «Allora lo faremo.» Avevo ridotto l'andatura ad una normale passeggiata, e seguivo la strada

luminescente tra due plinti grigi. All'interno il bagliore del circolo era diverso che dall'esterno. Era più in-

tenso, anche se il posto era uno studio in bianco e nero, con un tocco fiabe-sco in più. Per la prima volta vidi qualcosa che sembrava vivo. C'era una specie di erba, sotto ai piedi; era d'argento, e sembrava imbevuta di gocce di rugiada.

Mi fermai, e Frakir si restrinse in un modo stranissimo, più per una ma-nifestazione di interesse, pareva, che per un avvertimento. Alla mia destra c'era un altare che non somigliava affatto a quello su cui ero saltato dentro la cappella. Questo era una lastra di pietra ruvida montata su due massi tondeggianti. Niente candele, niente trine, né alcun altro apparato per tene-re compagnia alla donna che si trovava sdraiata su di essa, con i polsi e le caviglie legati.

Poiché ricordavo un'analoga situazione seccante in cui una volta mi ero ritrovato, tutte le mie simpatie andavano alla signora dai capelli bianchi, la pelle nera, e stranamente familiare, mentre tutto il mio odio era diretto contro l'individuo in piedi dietro l'altare, la faccia rivolta verso di me, una lama sollevata nella mano sinistra. La metà destra del suo corpo era com-pletamente nera: la sinistra, invece, era di una bianchezza accecante.

Immediatamente galvanizzato dalla scena, andai verso di loro. Il mio In-cantesimo Concerto per Arte Culinaria a Microonde, lo avrebbe triturato e precotto in un istante, ma non aveva alcuna utilità, visto che non potevo recitare le parole guida.

Mi parve di avvertire il suo sguardo su di me, mentre correvo verso di lui, anche se la sua prima metà era troppo scura e la seconda troppo abba-gliante per esserne sicuro. E poi, la mano col pugnale scese giù, e la lama entrò nel petto della donna sotto lo sterno, con un movimento arcuato. In quel momento ella gridò, il sangue schizzò, rosso tra tutto quel bianco e nero, ed io mi resi conto, mentre ricopriva la mano dell'uomo che, se aves-

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si tentato, avrei potuto pronunciare il mio Incantesimo e salvarla. Poi l'altare crollò, ed una tromba d'aria mi nascose l'intero quadro. Il

sangue vi vorticò intorno con un effetto da barbiere, spandendosi gradual-mente e poi attenuandosi per diventare rosa fumo, rosa forte, ed infine de-colorarsi nell'argento e svanire. Quando arrivai sul posto, l'erba scintillava, senza altare, senza sacerdote, senza sacrificio.

Mi arrestai con gli occhi sbarrati. «Stiamo sognando?», chiesi a voce alta. «Non credo di essere capace di sognare», rispose Frakir. «Allora dimmi che cosa hai visto.» «Ho visto un tizio che pugnalava una signora legata su una lastra di

pietra. Poi tutto è crollato ed è svanito. Il tizio era nero e bianco, il sangue rosso, la signora era Deirdre...»

«Cosa? Per Dio, hai ragione! Sembrava proprio lei... in negativo. Ma è già morta...»

«Devo ricordarti che io ho visto tutto ciò che hai creduto di vedere. Non conosco i dati reali, ma solo le interpolazioni che ha fatto il tuo sistema nervoso. Le mie particolarissime percezioni mi hanno detto che quelle non erano persone normali, ma due esseri dell'ordine delle immagini di Dwor-kin e di Oberon che ti hanno fatto visita nella grotta.»

Proprio allora mi venne un pensiero assolutamente terrorizzante. I simu-lacri di Dworkin e di Oberon mi avevano fatto pensare per un istante alle simulazioni tridimensionali fatte dal computer. E la capacità del Timone Fantasma di esplorare l'Ombra era basata su astrazioni digitate di parti del Disegno che ritenevo strettamente collegate a tale abilità. E Fantasma si era chiesto — quasi con desiderio, mi parve adesso — quali fossero gli at-tributi della divinità.

Era possibile che proprio la mia creazione stesse giocando con me? Po-teva essere stato Fantasma ad imprigionarmi in un'Ombra desolata e lon-tana, bloccando ogni mio tentativo di comunicazione, ed inventandosi un gioco raffinato con me? Se poteva battere il suo creatore, verso il quale sembrava nutrire una sorta di timore, non era possibile che avesse pensato di aver raggiunto una gratificazione personale, elevandosi al di sopra di me nel suo cosmo privato? Forse. Se continuate a incontrare simulazioni col computer, cherchez le deus ex machina.

Mi chiesi allora quanto fosse realmente potente Fantasma. Anche se il suo potere, in parte, era analogo a quello del Disegno, ero sicuro che non poteva eguagliare quello del Disegno, o del Logrus. Non riuscivo a vederlo

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capace di tagliare fuori entrambi da questo posto. D'altra parte, bastava bloccarmi. Poteva aver impersonato il Logrus, nel

mio breve incontro con lui al mio arrivo. Ma ciò avrebbe richiesto che Fantasma fosse stato in grado di potenziare Frakir, e non ritenevo che sa-pesse farlo. E l'Unicorno ed il Serpente?

«Frakir,» chiesi, «sei proprio sicuro che questa volta è stato il Logrus a potenziarti ed a programmarti con tutte le istruzioni che mi fornisci?»

«Sì.» «Cosa ti dà la certezza?» «Ho avuto la stessa sensazione del nostro primo incontro nel Logrus,

quando ho subito il primo sviluppo.» «Capisco. Altra domanda: È possibile che l'Unicorno ed il Serpente che

abbiamo visto nella cappella fossero dello stesso ordine delle immagini di Oberon e di Dworkin?»

«No, altrimenti lo avrei saputo. Non erano affatto simili. Erano terribili e potenti ed esattamente corrispondenti a quello che sembravano.»

«Bene,» dissi. «Mi preoccupavo che potessero essere il frutto di qualche raffinata messa in scena del Timone Fantasma.»

«Lo leggo nella tua mente. Però non riesco a capire perché la realtà dell'Unicorno e del Serpente confuterebbero la tesi. Potrebbero essere semplicemente entrati nell'apparato del Fantasma per dirti di smetterla di giocare a rimpiattino perché vogliono vedere iniziare questa partita.»

«Non ci avevo pensato.» «E forse il Fantasma era in grado di trovare ed accedere ad un luogo

che risulta alquanto inaccessibile sia al Disegno che al Logrus.» «Credo che tu abbia fatto centro. Sfortunatamente questo «alquanto i-

naccessibile» mi riporta al punto di partenza.» «No, perché questo posto non è una creazione di Fantasma. È sempre

stato qui. L'ho saputo dal Logrus.» «Suppongo che dovrei sentirmi in parte confortato, nel saperlo, ma...» Non terminai il pensiero perché un movimento improvviso richiamò la

mia attenzione sul quadrante opposto del cerchio. Li vidi un altare che in precedenza non avevo notato, una figura femminile dietro di esso, un uo-mo per metà in ombra e per metà in luce sdraiato e legato sopra. Sembra-vano molto simili alla coppia precedente.

«No!», gridai. «Basta!» Ma la lama scese mentre mi dirigevo in quella direzione. Il rituale venne

ripetuto, l'altare crollò, e tutto prese nuovamente a vorticare. Quando arri-

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vai sul posto, non vi era alcun segno che fosse accaduto qualcosa di strano. «Che mi dici di questo?», chiesi a Frakir. «Le stesse forze di prima, ma in un certo senso rovesciate.» «Perché? Che sta succedendo?» «È una riunione delle Potenze. Il Disegno ed il Logrus stanno tentando

entrambi di forzare questo posto. I sacrifici, come quelli che hai appena visto, li aiutano a creare ì varchi che gli occorrono.»

«Perché desiderano manifestarsi qui?» «È un campo neutrale. La loro antica tensione sta mutando in modi sot-

tili. Ci si aspetta da te che in qualche modo tu capovolga l'equilibrio del potere in un verso o nell'altro.

«Non ho la più pallida idea di come comportarmi in una faccenda simi-le.»

«Quando arriverà il momento, lo saprai.» Tornai sul tracciato e continuai a camminare. «Sono passato nel momento in cui i sacrifici erano dovuti?», dissi. «O i

sacrifici erano dovuti perché stavo passando?» «Dovevano verificarsi vicino a te. Tu sei un tramite.» «Allora tu credi che io debba aspettarmi...» Una figura uscì da dietro una pietra alla mia sinistra e ridacchiò. La mia

mano andò alla spada, ma le sue erano vuote, e lui si muoveva lentamente. «Parli da solo. Non è un buon segno!», osservò. L'uomo era un insieme di nero, bianco e grigio. In realtà, dall'ombra che

occultava i contorni della sua mano destra e dalla luce che dava risalto alla conformazione di quella sinistra, poteva essere l'esecutore del primo sacri-ficio. Non avevo modo di affermarlo. Chiunque o qualunque cosa fosse, non avevo un grande desiderio di fare la sua conoscenza.

Perciò alzai le spalle. «L'unica indicazione che mi interessa trovare in questo posto è la scritta

'uscita'», gli dissi, sorpassandolo bruscamente. La sua mano si posò sulla mia spalla e mi fece girare facilmente verso di

lui. Ancora quella risatina. «Devi stare attento a quello che desideri in questo posto,» mi disse, con

un tono basso e misurato, «perché i desideri qui in un certo senso vengono esauditi e, se colui che li concede è un depravato e interpreta come 'estin-zione' la tua 'uscita',... puff! Puoi cessare di esistere. Finire in fumo. Torna-re alla terra. Giù all'inferno e via!»

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«Sono già stato qui,» gli risposi, «ed ho acquisito molti punti strada fa-cendo.»

«Oh! Ma guarda! Il tuo desiderio è stato esaudito!», esclamò, mentre il suo occhio sinistro catturava un raggio di luce deflettendola verso di me. Anche se mi girai e socchiusi le palpebre, non riuscii a scorgere il suo oc-chio destro. «Laggiù!», concluse, indicando.

Voltai la testa dove mi aveva indicato, e lì, sulla pietra di un dolmen, splendeva un'indicazione di uscita esattamente uguale a quella che si trova sulla porta d'emergenza del teatro vicino all'Università dove andavo di so-lito.

«Hai ragione,» gli dissi. «Vuoi passarci?» «E tu?» «Non ne ho bisogno,» replicò, «già so cosa c'è là.» «Che cosa c'è?», domandai. «L'altra parte.» «Che simpatico!», risposi. «Se si ottiene un desiderio e lo si rifiuta, le Potenze possono offendersi.» «Lo sai per esperienza diretta?» In quel momento udii un rumore stridente ed a scatti, e mi occorsero di-

versi secondi prima di capire che stava digrignando i denti. Allora mi di-ressi verso l'insegna, dato che volevo vedere cosa rappresentasse da vicino.

C'erano due massi con una lastra piatta di pietra adagiata sulla sommità. L'uscita che formavano era sufficientemente larga per passarvi. Era in om-bra, però...

«Vuoi passarci, capo?» «Perché no? Questa è una delle poche volte nella mia vita che mi sento

indispensabile a chiunque stia allestendo lo spettacolo.» «Non sarei così spiritoso...», cominciò Frakir, ma io stavo già entrando. Tre passi veloci furono sufficienti a farmi ritrovare davanti ad un circolo

di pietre e a dell'erba scintillante, superando un uomo bianco e nero vicino ad un altro dolmen che recava la scritta Uscita. Fermatomi, arretrai di un passo e mi voltai. C'era un uomo nero e bianco che mi fissava, un dolmen alle sue spalle, ed una forma scura al suo interno. Alzai la mano destra so-pra la testa: la figura in ombra fece lo stesso. Ripresi la direzione che stavo seguendo inizialmente. La figura in ombra rimasta dall'altra parte alzò an-che lei la mano. Proseguii.

«Il mondo è piccolo,» osservai, «ma non vorrei ridipingerlo.»

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L'uomo rise. «Adesso ti è stato ricordato che ogni uscita è anche un'entrata,» mi disse. «Vedendoti qui, mi torna in mente piuttosto un'opera teatrale di Sartre,»

gli risposi. «Scortese,» rispose, «ma filosoficamente valido. Ho sempre constatato

che l'inferno sono gli altri. Solo che non ho fatto niente per suscitare la tua sfiducia, non trovi?»

«Eri o non eri tu la persona che ho visto sacrificare una donna qui vici-no?», gli domandai.

«Anche se fossi stato io, tu che c'entri? Non eri coinvolto.» «Credo di avere certe opinioni su alcune cose... come, ad esempio, il va-

lore della vita.» «L'indignazione costa poco. Perfino il rispetto che nutriva Albert

Schweitzer per la vita non includeva i vermi, la mosca tze-tze, e la cellula del cancro.»

«Hai capito benissimo cosa voglio dire. Hai sacrificato o no una donna su un altare di pietra qualche minuto fa?»

«Mostrami l'altare.» «Non posso. Non c'è più.» «Mostrami la donna.» «Non c'è più neanche lei.» «Allora non hai prove per accusarmi.» «Questo non è un tribunale, maledizione! Se vuoi fare conversazione, ri-

spondi ad una mia domanda. Se non vuoi, smettiamola di stuzzicarci.» «Ti ho risposto.» Scrollai le spalle. «Va bene,» dissi. «Non ti conosco, e ne sono davvero felice. Buona

giornata.» Feci un passo per allontanarmi da lui, tornando verso il tracciato. Allora

disse: «Deirdre. Si chiamava Deirdre, e l'ho uccisa davvero!» Poi tornò dietro al dolmen dal quale era uscito, e li scomparve.

Guardai immediatamente dall'altra parte della strada, ma non lo vidi ri-comparire sotto la scritta Uscita. Feci la faccia scura ed entrai nel dolmen. Quindi riuscii dall'altra parte ed attraversai la strada, vedendo me stesso entrare dalla parte opposta mentre lo facevo. Lungo la strada non vidi più lo sconosciuto.

«Che ne pensi?», chiesi a Frakir mentre tornavo sul sentiero. «Uno spirito locale, forse? Uno spirito antipatico per un posto antipati-

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co?», azzardò. «Non so, ma credo che fosse una di quelle dannate rico-struzioni: qui sono anche più forti.»

Abbassai lo sguardo sul sentiero, ci misi sopra un piede, e cominciai a seguirlo di nuovo.

«Il tuo modo di esprimerti è cambiato molto, dopo il tuo sviluppo,» commentai.

«Il tuo sistema nervoso è un bravo insegnante.» «Grazie. Se quel tizio compare di nuovo e ne avverti la presenza prima

che io lo veda, segnalamelo.» «Giusto. A dire la verità, tutto questo posto sembrerebbe una di quelle

ricostruzioni. Ogni pietra che è qui porta impresso un frammento del Di-segno.»

«Quando l'hai saputo?» «Quando siamo passati per la prima volta per l'uscita. Ho esaminato

eventuali pericoli.» Mentre ci avvicinavamo alla zona periferica del cerchio esterno, trovai

un sasso. Mi parve piuttosto concreto. «È qui!», mi avvertì all'improvviso Frakir. «Hei!», si udì una voce dall'alto, ed allora alzai la testa. Lo sconosciuto

nero e bianco era seduto in cima ad un masso, e fumava un sigaro sottile. Nella sinistra stringeva un calice. «Mi interessi, ragazzo,» proseguì. «Co-me ti chiami?»

«Merlin,» risposi. «E tu?» Invece di rispondere, si alzò dal masso, si mosse lentamente ed atterrò

davanti a me. Il suo occhio sinistro mi studiò sospettoso. Le ombre scorre-vano come acqua scura lungo la sua parte destra. Soffiò del fumo d'argento nell'aria.

«Tu sei uno vivo,» mi annunciò poi, «con l'impronta del Disegno e l'im-pronta del Caos. Hai il sangue di Ambra. Qual è il tuo lignaggio, Merlin?»

Le ombre per un momento si divisero, e mi accorsi che il suo occhio de-stro era nascosto da una benda.

«Sono il figlio di Corwin,» gli dissi, «e tu sei — in un certo senso — il traditore Brand.»

«Mi hai chiamato traditore,» disse, «ma non ho mai tradito quello in cui credevo.»

«Vale a dire la tua ambizione,» gli dissi. «La tua Casa, la tua Famiglia e le forze dell'Ordine non hanno mai significato niente per te, vero?»

Sbuffò.

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«Non intendo discutere con un poppante presuntuoso.» «Neanch'io desidero discutere con te. Per quello che conta, tuo figlio Ri-

naldo è probabilmente il mio migliore amico.» Mi voltai e cominciai a camminare. Sentii la sua mano sulle spalle. «Aspetta!», mi disse. «Che vai dicendo? Rinaldo è solo un ragazzino.» «Sbagliato!», risposi. «Ha quasi la mia età.» Levò la mano, ed allora mi voltai. Aveva gettato via il sigaro, che era

rimasto acceso sul sentiero, ed aveva spostato il calice sulla mano coperta dall'ombra. Si massaggiò la fronte.

«Che sia passato tanto tempo...», commentò. Per una specie di ispirazione, tirai fuori i miei Trionfi, cercai quello di

Luke, e lo tenni in alto per farglielo vedere. «Quello è Rinaldo,» gli dissi. Allungò la mano e, per un'oscura ragione, gli permisi di prenderlo. Ri-

mase a guardarlo per un pò. «Il contatto via Trionfo non sembra funzionare, da qui,» dissi. Alzò gli occhi, scosse la testa, poi mi restituì la carta. «No, non funzionerebbe,» dichiarò. «Come... com'è?» «Lo sai che ha ucciso Caine per vendicarti?» «No, non lo sapevo. Ma non mi sarei aspettato niente di meno, da lui.» «Non sei esattamente Brand, non è vero?» Tirò indietro la testa e rise. «Sono interamente Brand, e non sono il Brand che tu avresti potuto co-

noscere. Ogni cosa in più che vuoi sapere ti costerà.» «E cosa mi costerà sapere chi sei veramente?», volli sapere, mentre ri-

ponevo le carte. Sollevò il calice, e lo tenne davanti a sé con entrambe le mani, come la

ciotola di un mendicante. «Un pò del tuo sangue,» mi disse. «Sei diventato un vampiro?» «No, sono uno spettro del Disegno,» mi rispose, «Dammi un pò di san-

gue, e ti risponderò.» «Va bene,» dissi. «Sarà meglio che sia una buona storia, però,» e presi il

pugnale e mi incisi il polso, che avevo steso sul suo calice. Come una lampada a petrolio rovesciata a terra, salirono delle fiamme.

Nelle mie vene ovviamente non scorre fuoco. Ma il sangue di un Caosita è estremamente volatile in certi luoghi, e quello sembrava uno di quelli.

Schizzò per metà dentro e per metà fuori dalla coppa, bagnandogli la

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mano e l'avambraccio. L'uomo urlò e parve afflosciarsi su se stesso. Io ar-retrai, mentre egli veniva trasformato in un vortice — non diverso da quel-li che erano seguiti ai sacrifici cui avevo assistito, solo che questo aveva una varietà di fuoco — che sali in aria con un rombo e svanì un secondo dopo, lasciandomi frastornato, con gli occhi spalancati verso l'alto, ad e-sercitare una pressione diretta sul mio polso fumante.

«Uh, un'uscita sensazionale!», commentò Frakir. «È una specialità di famiglia,» risposi, «e, a proposito di uscite...» Sorpassai il macigno, allontanandomi dal cerchio. Le tenebre si mossero

nuovamente, più intense. Di riflesso, la mia strada parve illuminarsi. La-sciai il polso, e constatai che aveva cessato di fumare.

Poi mi misi a correre, ansioso di allontanarmi da quel posto. Quando mi voltai indietro, dopo un pò, non vidi più le pietre erette. C'era solo un pal-lido vortice che stava svanendo, alzandosi sempre più in alto.

Proseguii la mia corsa, e la strada cominciò gradualmente a diventare più scoscesa, finché non mi ritrovai a correre in discesa ad un'andatura spedita. Il tracciato si stendeva come un nastro di luce verso il basso, per-dendosi a distanza prima di scomparire di vista. Mi sorprese, però, vedere che intersecava un'altra linea luminosa non troppo lontano. Tali linee si af-fievolirono rapidamente alla mia destra ed alla mia sinistra.

«Istruzioni particolari in merito alle traverse?», domandai. «Non ancora,» mi rispose Frakir. «Presumibilmente, devi prendere una

decisione, senza sapere su che basi sceglierne una finché non sei arrivato lì.»

Sembrava un'ampia pianura oscura che si apriva di sotto, con dei punti isolati di luce: qualcuno era costante, qualcuno intermittente, e poi si spe-gnevano, ma tutti stazionari. Non c'erano altre linee, però, oltre a quella che stavo seguendo ed all'altra che l'intersecava. Non si udivano altri suoni oltre al mio respiro ed ai miei passi. Non c'era vento, né odori particolari, e la temperatura era così clemente da non richiedere commenti.

Di nuovo forme scure su entrambi i lati, ma non avevo alcun desiderio di scoprire cosa fossero. Tutto ciò che volevo era concludere la faccenda in corso, uscire da quell'inferno, e tornare ai miei affari il più presto possibile.

Poi delle chiazze di luce caliginose cominciarono ad apparire ad inter-valli regolari, su entrambi i lati del mio tracciato: ondeggiavano come usci-te dal nulla, a macchie, esplodendo e spegnendosi rapidamente. Parevano delle tende screziate leggere come garze sospese vicino alla strada, ed ini-zialmente non mi fermai a esaminarle, non finché le aree oscure non dimi-

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nuirono, venendo sostituite da ombreggiature sempre più distinte. Era co-me se fosse in atto un processo di sintonizzazione, con una crescente chia-rezza dei contorni, che indicavano degli oggetti familiari: sedie, tavoli, macchine parcheggiate, vetrine. Dopo un pò, dei colori sbiaditi comincia-rono ad apparire su questi quadri.

Mi fermai vicino ad uno di essi e sgranai gli occhi. Era una Chevy rossa del '57 parzialmente ricoperta di neve, parcheggiata in una strada dall'a-spetto familiare. Mi avvicinai di più.

Il mio braccio e la mia mano sinistri scomparvero non appena entrarono in quella fioca luce. Provai a toccare l'alettone di sinistra. Seguì una vaga sensazione di contatto ed un leggero freddo. Allora spostai la mano verso destra, eliminando un pò di neve. Quando la ritirai, c'era della neve. Im-mediatamente, l'immagine divenne nera.

«Ho usato di proposito la mano sinistra,» dissi, «sul cui polso ci sei tu. Cosa c'era lì?»

«Grazie tante. Sembrava una macchina rossa con un pò di neve.» «Era la ricostruzione di un qualcosa che è stato preso dalla mia mente. Il

mio quadro di Polly Jackson, portato a dimensioni reali.» «Allora le cose stanno peggiorando, Merlin. Io non ho saputo ricono-

scere che era una ricostruzione.» «Conclusioni?» «Chiunque stia agendo sta diventando sempre più bravo, o più forte. O

tutte e due le cose.» «Merda!», commentai, e ripresi la mia corsa. «Forse qualcosa vuole dimostrarti che adesso può ingannarti comple-

tamente.» «Allora c'è riuscito,» riconobbi. «Ehi tu, qualcosa!», urlai. «Mi senti?

Hai vinto! Mi hai completamente ingannato. Posso tornare a casa, adesso? Se è qualche altra cosa che stai cercando di fare, però, hai fallito! Non l'ho proprio capita!»

Il lampo sfolgorante che seguì, mi buttò a terra accecandomi per diversi secondi. Rimasi lì in tensione, i muscoli contratti, ma non ci fu nessun rombo di tuono. Quando la mia visione fu di nuovo chiara, ed i muscoli ri-lassati, mi ritrovai davanti una gigantesca figura reale, a pochi passi da me: Oberon.

Solo che era una statua, una copia di quella che occupava l'estremità più lontana della Passeggiata Principale di Ambra, o forse addirittura l'origi-nale, perché un esame più accurato mi rivelò la presenza di quella che

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sembrava una cacchetta di uccello sulle larghe spalle dell'uomo. «È vera o è una ricostruzione?», chiesi a voce alta. «Vera, direi,», rispose Frakir. Mi rialzai lentamente. «Devo presumere che questa sia una risposta,» dissi. «Solo che non ca-

pisco cosa significa.» Allungai una mano per toccarla, e scoprii che aveva la consistenza di

una tela, piuttosto che del bronzo. In quell'istante, l'immagine che avevo davanti in qualche modo si spostò, e mi ritrovai a toccare un dipinto più grande delle misure reali del Padre del Suo Paese. Quando i contorni co-minciarono a tremolare, il dipinto schiarì, e vidi che faceva parte di uno di quei quadri caliginosi che avevo superato. Poi si increspò e scomparve.

«Ci rinuncio,» dissi, camminando nello spazio che aveva occupato qual-che momento prima. «Le risposte mi confondono più delle situazioni che suscitano le domande.»

«Poiché stiamo passando tra le Ombre, non potrebbe essere un'afferma-zione che tutte le cose sono reali... da qualche parte?»

«Credo di sì. Ma questo già lo sapevo.» «E che tutte le cose sono reali in maniere diverse, in momenti diversi, in

luoghi diversi?» «Okay, quello che stai dicendo potrebbe essere benissimo il messaggio.

Dubito però che qualcosa stia arrivando a questi estremi soltanto per fare delle speculazioni filosofiche che per te potranno pure essere nuove, ma che altrove sono piuttosto scontate. Deve esserci una ragione speciale, una ragione che mi sfugge.»

Fino a quel momento, le scene che avevo superato erano delle nature morte. Adesso, però, ne comparvero diverse che contenevano delle perso-ne; certe altre delle creature. In queste ultime c'era azione: qualcuna vio-lenta, qualcuna piacevole, qualcuna semplicemente domestica.

«Sì, sembrerebbe una progressione. Potrebbe portare a qualcosa.» «Quando salteranno fuori e mi attaccheranno, saprò di essere arrivato.» «Chi lo sa? Apprendo che la critica d'arte è un settore complesso.» Ma le sequenze svanirono poco dopo, e venni lasciato a correre nelle te-

nebre sul mio tracciato luminoso una volta ancora. In giù, in giù, l'agevole pendenza scendeva verso gli incroci. Dov'era il Gatto del Cheshire quando la logica illogica del Coniglio era ciò di cui avevo veramente bisogno?

Un momento guardavo gli incroci ed avanzavo. Un battito di ciglia do-po, guardavo ancora gli incroci, solo che la scena era cambiata. Adesso

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c'era un lampione sul vicino angolo a destra. Una figura scura là sotto, fu-mava.

«Frakir, come hanno tirato fuori quello là?», chiesi. «Molto in fretta,» fu la sua risposta. «Cosa legge il vibrafono?» «Attenzione centrata su di te. Ancora nessuna intenzione malvagia.» Mentre mi avvicinavo, rallentai. La strada divenne pavimentata, con pa-

rapetti su entrambi i lati e al di fuori dei marciapiedi laterali. Uscii sul marciapiede di destra. Mentre vi camminavo, mi passò davanti una nebbia umida, che rimase sospesa tra me e la luce. Rallentai ulteriormente l'anda-tura. In breve mi accorsi che la pavimentazione era diventata umida. I miei passi risuonarono come se stessi camminando in mezzo a degli edifici. Ma poi la nebbia divenne talmente fitta che non riuscii a stabilire se c'erano davvero delle costruzioni accanto a me. La sensazione era che ci fossero, perché si intravedevano delle zone più scure qui e là.

Sulla schiena mi passò un vento freddo e, ad intervalli regolari, mi cad-dero addosso delle gocce di umidità. Mi fermai e sollevai il colletto del mantello. Da qualche parte, completamente fuori vista, sù in alto, provenne il debole ronzio di un areoplano. Quando se ne fu andato, ripresi a cammi-nare. Lievissimo allora, e soffocato, forse dall'altra parte della strada, si udì il suono di un pianoforte che suonava un motivo quasi familiare. Mi avvol-si bene nel mantello. La nebbia vorticò e si infittì.

Altri tre passi e, quando si schiarì, lei era davanti a me, la schiena ap-poggiata al lampione. Più bassa di una testa di me, portava un trench ed un berretto nero sui capelli lucidi, neri come l'inchiostro. Gettò per terra la si-garetta e la schiacciò lentamente con la punta di una scarpa a tacco alto di finta pelle nera. Intravidi la sua gamba, mentre lo faceva, e constatai che era perfetta. Poi, dall'impermeabile tirò fuori una scatola piatta d'argento, su cui era incisa una rosa, l'aprì, prese una sigaretta, se la mise tra le lab-bra, richiuse la scatoletta e la ripose. Quindi, senza guardarmi, mi chiese: «Hai da accendere?»

Non avevo fiammiferi, ma non intendevo farmi scoraggiare da una crea-tura come quella.

«Certo,» dissi, allungando lentamente la mano verso quel viso delicato. La tenni leggermente lontana perché non vedesse che era vuota. Mentre sussurravo la parola guida che avrebbe fatto uscire una scintilla dal mio polpastrello che avrebbe acceso la sigaretta, ella alzò la mano e toccò la mia, come se volesse tenerla ferma. E sollevò gli occhi — larghi, blu pro-

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fondo, ciglia lunghe — ed incontrò i miei. Poi rimasi allibita, e la sigaretta le cadde.

«Mon dieu!», esclamò e, messe le braccia intorno al mio collo, premette col suo corpo contro il mio, e cominciò a singhiozzare. «Corwin!», disse. «Mi hai trovata! È stato lunghissimo!»

La tenni stretta, non volendo parlare, non volendo spezzare la sua felicità con qualcosa di stupido come la verità. All'inferno la verità! Le accarezzai i capelli.

Dopo un momento molto lungo si allontanò da me e mi guardò. Qualche altro secondo, ed avrebbe capito che era solo una somiglianza e che stava solo vedendo quello che voleva vedere. Così, «Che fa una ragazza come te in un posto come questo?», le chiesi.

Rise dolcemente. «Hai trovato una via?», disse, e poi i suoi occhi si insospettirono. «Tu

non sei...» Scossi la testa. «Non ne ho avuto il cuore,» le dissi. «Chi sei?», mi chiese, arretrando di un passo. «Mi chiamo Merlin, e mi trovo coinvolto in una pazza ricerca che non

capisco.» «Ambra,» disse piano, le mani ancora appoggiate sulle mie spalle, ed io

feci cenno di sì con la testa. «Non ti conosco,» disse poi. «Sento che dovrei, ma... io ... non ...» Poi si appoggiò nuovamente a me, e posò la testa sul mio petto. Feci per

dire qualcosa, per cercare di spiegarle, ma lei mi mise un dito sulle labbra. «Non ancora, non adesso, forse mai,» disse. «Non dirmelo. Ti prego,

non dirmi altro. Ma tu dovresti sapere se sei un fantasma del Disegno.» «Se mi spieghi che cos'è un fantasma del Disegno...» «Un artifizio creato dal Disegno. Registra chiunque lo percorra. Può ri-

chiamarci quando vuole, come se fossimo in uno dei momenti in cui lo ab-biamo percorso. Può usarci a suo piacimento e mandarci dove desidera con un compito specifico... un geas, se preferisci. Distruggici, e lui può ricre-arci all'infinito.»

«Lo fa spesso?» «Non lo so. Non ho dimestichezza con la sua volontà, a parte le sue ope-

razioni con altri diversi da me.» Poi continuò: «Tu non sei un fantasma! Lo so!», annunciò improvvisamente, afferrandomi la mano. «Ma c'è qualcosa di diverso in te... diverso dagli altri che hanno il sangue di Ambra...»

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«Presumo di sì,» le risposi. «La mia genealogia risale sia alle Corti del Caos che ad Ambra.»

Si portò la mia mano alla bocca come se volesse baciarla. Ma le sue lab-bra si spostarono, sul punto del polso in cui mi ero tagliato su richiesta di Brand. Poi mi morse: qualcosa del sangue di Ambra deve avere un'attra-zione speciale per i fantasmi del Disegno.

Cercai di ritrarre la mano, ma anche lei aveva la forza di Ambra. «Le fiamme del Caos talvolta fluiscono in me,» le dissi. «Potrebbero fe-

rirti.» Rialzò lentamente la testa e sorrise. Aveva del sangue sulla bocca. Ab-

bassai lo sguardo e mi accorsi che anche il mio polso ne era bagnato. «Il sangue di Ambra ha potere sul Disegno,» cominciò, e la nebbia tur-

binò, avvolgendosi intorno alle sue caviglie. «No!», gridò allora, e si spor-se verso di me ancora una volta.

Il vortice le sali alle ginocchia, ai polpacci. Sentii i suoi denti sul mio polso, che tiravano. Non avevo Incantesimi per lottare contro quella cosa, perciò le passai un braccio intorno alle spalle e le accarezzai i capelli. Qualche secondo dopo si dissolse nel mio abbraccio, diventando una gi-randola di sangue.

«Vai a destra,» la sentii gemere mentre vorticava via da me: la sua siga-retta ancora si consumava sull'asfalto, ed il mio sangue gocciolava vicino.

Mi girai e mi allontanai. Debole, nella notte e nella nebbia, riuscivo an-cora a sentire il piano che suonava un motivetto di tempi andati.

6.

Presi la strada di destra, ed il mio sangue venne sparso un pò dapperttut-

to. Guarisco in fretta, però, e smisi di sanguinare molto presto. Smise an-che di battere, dopo un pò.

«Mi hai sporcato tutto di sangue, capo.» «Poteva essere fuoco,» osservai. «Mi sono anche un pò bruciacchiato, là al cerchio di pietre.» «Mi dispiace. Hai idea di cosa succederà adesso?» «Nessuna ulteriore istruzione, se è questo che intendi. Ma stavo pensan-

do, adesso che so come si fa, che questo posto diventa sempre più affasci-nante. Tutta la faccenda dei fantasmi del Disegno, per esempio. Se il Di-segno non può penetrare qui direttamente, perlomeno può ricorrere a de-gli agenti. Non credi che il Logrus possa avere un sistema analogo per fa-

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re lo stesso?» «Presumo sia possibile.» «Ho l'impressione che sia in corso una specie di duello tra loro due,

quaggiù, nel rovescio della realtà, tra le Ombre. E se questo posto è venu-to prima? Perfino prima dell'Ombra? E se stessero lottando quaggiù fin dai primordi, in qualche strana maniera metafisica?»

«Che rilevanza potrebbe avere?» «Ciò potrebbe fare dell'Ombra un'aggiunta successiva, un sottoprodotto

della tensione tra i due poli.» «Temo di non seguirti più, Frakir.» «Ipotizziamo che Ambra e le Corti del Caos siano stati creati soltanto

per fornire degli agenti per questa lotta.» «Ed ipotizziamo che questa idea sia stata instillata dentro di te dal Lo-

grus durante il tuo recente sviluppo.» «Perché?» «Sarebbe un altro espediente per farmi pensare che il conflitto sia più

importante delle persone. Un'ulteriore pressione per spingermi a scegliere una parte.»

«Non mi sento manipolato.» «Come tu hai rilevato, sei nuovo a questa faccenda del pensiero. Ed è

una linea di pensiero dannatamente astratta da seguire, per te che sei appe-na agli inizi del gioco.»

«Trovi?» «Ci puoi giurare.» «Questo con che cosa ci lascia?» «Con un'indesiderata attenzione dall'Alto.» «Farai meglio a misurare le parole, se questo è il loro campo di batta-

glia.» «Venisse un accidenti a tutte e due. Per qualche motivo che non riesco a

capire, hanno bisogno di me in questa partita. Sopporteranno.» Da un punto davanti a me provenne un rombo di tuono. «Capito cosa intendo?» «È un bluff,» risposi. «Di chi?» «Del Disegno, credo. I suoi fantasmi comandano la realtà in questo set-

tore.» «Sai che potremmo sbagliarci di grosso. È come sparare al buio.» «Veramente mi sento come se mi sparassero addosso dal buio. È per

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questo che rifiuto di giocare con regole stabilite da qualcun altro.» «Hai un piano?» «Rilassati. E se dico 'uccidi', fallo. Cerchiamo di arrivare dove stiamo

andando.» Ricominciai a correre, lasciandomi indietro la nebbia, lasciando i fanta-

smi a giocare ai fantasmi nella loro città fantasma. Una strada illuminata in una campagna buia, io che corro, ed uno spostamento contrario di ombre, mentre la terra cerca di cambiarmi. E là davanti un bagliore ed altri tuoni, immagine di una strada virtuale che appare e scompare vicino a me.

E poi fu come se superassi me stesso — scura figura saettante in una strada luminosa — finché non compresi che in realtà era una specie di ef-fetto speculare. I movimenti della figura alla mia destra che correva paral-lelamente a me imitavano i miei; immagini fluttuanti alla mia sinistra si ri-petevano alla mia destra.

«Che succede, Merle?» «Non lo so,» dissi. «Ma non sono in vena di simbolismi, allegorie e me-

tafore varie. Se vuoi significare che la vita è una corsa con te stesso, è u-n'idea già sfruttata, a meno che non siano delle Potenze che enunciano luoghi comuni quelle che stanno imbastendo questo spettacolo. Allora suppongo che sarebbe in carattere. Tu che ne pensi?»

«Penso che potresti essere ancora in pericolo di farti colpire da qualche fulmine.»

Il fulmine non arrivò, ma la mia riflessione sì. L'effetto di duplicazione continuò ai lati della strada molto più a lungo delle precedenti sequenze cui avevo assistito. Stavo per infischiarmene, per ignorarlo del tutto, quan-do la mia riflessione provocò un'accelerazione improvvisa ed un'esplosio-ne davanti a me.

«Uh-oh!» «Sì?», convenni, allungando il passo per colmare la distanza e portarmi

alla stessa andatura del mio oscuro doppio. Rimanemmo paralleli soltanto per pochi metri, quando lo ebbi ripreso.

Poi quello cominciò a spingere di più. Accelerai anch'io e lo raggiunsi di nuovo. Poi, seguendo un impulso, inspirai aria, la riemisi, e mi portai in te-sta.

Il mio doppio se ne accorse dopo un pò: si mosse più in fretta, e comin-ciò a riguadagnare terreno. Spinsi ancora più forte, mantenendo il vantag-gio. Perché diavolo eravamo in competizione?

Guardai avanti. Da lontano potei vedere una zona in cui il tracciato si al-

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largava. Sembrava che ci fosse un nastro, steso laggiù. Okay. Qualunque fosse il significato, decisi per il sì.

Mantenni il vantaggio forse per un centinaio di metri, prima che la mia ombra mi raggiungesse di nuovo. Per un pò riuscii a mantenere le distanze accorciate. Poi l'ombra accelerò di nuovo, riuscendo a riprendermi con un passo che giudicai difficile da mantenere per tutta la strada che restava fino al nastro. Però non era una di quelle intuizioni che uno aspetta di verifica-re. La detti per buona. Spinsi al massimo.

Quel figlio di puttana riconquistò terreno, mi raggiunse, mi passò avanti, poi incespicò per un istante. Fui di nuovo accanto a lui, in quel momento. Ma lui non vacillò più. Mantenne la spaventosa andatura alla quale stava-mo andando adesso, ed io non avevo alcuna intenzione di fermarmi, a me-no che non mi scoppiasse il cuore.

Continuammo a correre, dannatamente vicini, fianco a fianco. Non sa-pevo se mi restava la possibilità di un ultimo scatto. Non potevo determi-nare se ero leggermente in testa, semplicemente al suo fianco, oppure die-tro. Calcavamo i nostri tracciati luccicanti e paralleli verso la linea di luce, quando bruscamente la sensazione di un'interfaccia di vetro svanì. I due tracciati, che sembravano stretti, divennero un'unica strada larga. Le brac-cia e le gambe dell'altro si stavano muovendo diversamente dalle mie.

Ci ritrovammo progressivamente più vicini mentre ci avvicinavamo agli ultimi metri: abbastanza vicini, finalmente, per poterlo riconoscere. Non era una mia immagine quella verso la quale stavo correndo, perché i suoi capelli si spostarono all'indietro e vidi che gli mancava l'orecchio sinistro.

Riuscii a trovare lo sprint finale. E così anche l'altro. Eravamo tremen-damente vicini quando arrivammo al nastro. Ritengo che fossi io a tagliar-lo, ma non potei esserne certo.

Lo superammo e crollammo a terra, ansimanti. Mi rigirai velocemente, per non perderlo d'occhio, ma lui era lì, senza fiato. Posai la mano destra sull'elsa della mia spada, ed ascoltai il suono del sangue che mi batteva nelle orecchie.

Quando ebbi un pò recuperato, commentai: «Non sapevo che fossi così bravo a correre, Jurt.»

Fece una breve risata. «Ci sono molte cose che non sai di me, fratello.» «Ne sono sicuro,» dissi. Poi si terse la fronte con il dorso della mano, ed allora notai che il dito

che aveva perso nelle grotte di Kolvir era di nuovo al suo posto. O questo

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era un Jurt di una diversa linea temporale, o... «Allora, come sta Julia?», gli chiesi. «Le va tutto bene?» «Julia?», disse lui. «E chi è?» «Scusa,» gli dissi. «Sei il Jurt sbagliato.» «Adesso che significa quest'altra affermazione?», mi chiese, tirandosi su

un gomito e fissandomi con l'occhio buono. «Il vero Jurt non girava mai dalle parti del Disegno di Ambra...» «Io sono il vero Jurt!» «Tu hai tutte le dita. Lui ne ha perso uno, molto di recente. Ero presen-

te.» Distolse lo sguardo improvvisamente. «Devi essere un fantasma del Logrus,» continuai. «Probabilmente sta ri-

correndo agli stessi trucchetti del Disegno... registrando quelli che l'hanno percorso.»

«È questo... quello che è successo?», mi chiese. «Non riuscivo a ricorda-re bene... perché fossi qui, se non per competere con te.»

«Scommetto che l'ultima cosa che ricordi prima di essere arrivato in questo posto è di aver percorso il Logrus.»

Ci ripensò. Annuì con la testa. «Hai ragione. Che significa tutto questo?», mi chiese. «Non ne sono sicuro,» dissi. «Ma ho qualche idea in proposito. Questo

posto è una specie di eterno rovescio dell'Ombra. È dannatamente proibito sia al Disegno che al Logrus. Ma entrambi, sembra, possono penetrarvi mediante i loro fantasmi, delle strutture artificiali fatte sulle registrazioni delle persone che li hanno percorsi...»

«Vuoi dire che io sono soltanto una specie di registrazione?» Sembrava che stesse per piangere. «Appariva tutto così splendido, poco fa. Avevo superato il Logrus. Avevo ai miei piedi tutto ciò che apparteneva all'Om-bra.» Si massaggiò le tempie. Poi: «Tu!», sputò. «Sono stato portato qui per colpa tua per gareggiare con te, per batterti in questa corsa.»

«Ed hai fatto un buon lavoro. Non sapevo che sapessi correre in quel modo.»

«Cominciai ad allenarmi quando seppi che tu avevi cominciato a farlo all'Università. Volevo diventare talmente bravo da batterti.»

«Lo sei!», riconobbi. «Ma non sarei in questo maledettissimo posto se non fosse per te. O...»

Si morse un labbro. «Non è esattamente così, vero?», chiese. «Non sarei da nessuna parte. Sono soltanto una registrazione...» Poi mi fissò negli occhi.

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«Quanto duriamo?», disse. «Per quanto tempo resiste un fantasma del Lo-grus?»

«Non ho idea,» gli risposi, «di come venga creato e di quanto duri. Ma ho conosciuto diversi fantasmi del Disegno, e mi hanno dato l'impressione che il mio sangue li avrebbe in qualche modo sostenuti, conferendo loro una specie di autonomia, di indipendenza dal Disegno. Solo uno di loro — Brand — ha trovato il fuoco al posto del sangue, e si è dissolto. Deirdre ot-tenne il sangue, ma venne portata via in quello stesso istante. Non so se ne avesse avuto abbastanza.»

Scosse la testa. «Ho la sensazione — che non so da dove mi venga — che qualcosa del

genere funzionerebbe anche "con me, e che è il sangue per il Disegno, ed il fuoco per il Logrus.»

«Non so dirti in quali zone il mio sangue sia volatile,» dissi. «Qui si incendierebbe,» mi rispose. «Dipende da chi ha il controllo. Mi

sembra di saperlo, ma non so come.» «Allora perché Brand si è palesato nel territorio del Logrus?» Ghignò. «Forse il Disegno ha cercato di usare un traditore per sovvertire qualco-

sa. O forse Brand stava cercando di agire di sua iniziativa... per imbroglia-re il Disegno.»

«Sarebbe nel suo stile,» convenni, col respiro finalmente normalizzato. Estrassi dallo stivale il pugnale del Caos e mi incisi l'avambraccio:

quando vidi che sputava fuoco, glielo porsi. «Svelto! Prendilo, se puoi!», gridai. «Prima che il Logrus ti richiami!» Afferrò il mio braccio e mi dette l'impressione di inalare il fuoco che

sgorgava da me. Guardando in basso, vidi i suoi piedi diventare trasparen-ti, poi fu la volta delle gambe. Il Logrus sembrava ansioso di riprenderselo, come il Disegno con Deirdre. Vidi che cominciavano i turbini fiammeg-gianti dentro la nebbia nella quale si erano trasformate le sue gambe. Poi, all'improvviso, si spensero, e i contorni dei suoi polpacci tornarono ad es-sere visibili. Continuò a succhiare il mio sangue volatile, anche se non ve-devo più fiamme, mentre beveva alla maniera di Deirdre, direttamente dal-la ferita. Le sue gambe cominciarono a solidificarsi.

«Sembra che tu ti stia stabilizzando,» dissi. «Bevi ancora.» Qualcosa mi colpì al rene destro, ed allora mi gettai a terra, voltandomi

nella caduta. Accanto a me c'era un uomo scuro e alto, che si stava, risi-stemando lo stivale dopo avermi assestato il calcio. Portava pantaloni verdi

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e camicia nera, ed un fazzoletto colorato intorno alla testa. «Che razza di faccenda perversa è questa?», domandò. «E in un luogo

sacro, per giunta?» Rotolai sulle ginocchia e mi rialzai, il braccio destro piegato ed il polso

rivoltato, alla ricerca del pugnale davanti a me. Sangue, anziché fuoco, stava scorrendo adesso dall'ultima ferita.

«Niente che ti riguardi,» gli dissi, poi aggiunsi il suo nome, essendomi assicurato della sua identità mentre mi rialzavo, «Caine.»

Sorrise e mi fece un inchino, e le sue mani prima si incrociarono e poi si divisero. Erano vuote, mentre si inchinava, ma nella sua destra era spunta-to un pugnale. Doveva averlo preso da un fodero legato intorno all'avam-braccio sinistro, nascosto sotto al polsino rigonfio. Doveva essersi esercita-to in quel movimento più di una volta, per essere così veloce. Cercai di ri-cordare quello che avevo sentito sul conto di Caine e dei suoi pugnali, e poi rimpiansi di averlo fatto. Era ritenuto un maestro nel combattimento col pugnale. Maledizione!

«Hai un vantaggio su di me,» dichiarò. «Hai un aspetto familiare, ma non credo di conoscerti.»

«Sono Merlin,» dissi, «il figlio di Corwin.» Aveva cominciato a girarmi intorno, ma allora si fermò. «Mi perdonerai se stento a crederlo.» «Credi pure quello che vuoi. È vero.» «E quest'altro... si chiama Jurt, non è vero?» Indicò mio fratello, che si era appena rialzato. «Come fai a saperlo?», gli chiesi. Si fermò e corrugò la fronte, con uno sguardo sospettoso. «Io... non ne sono sicuro,» disse poi. «Io sì,» gli dissi. «Cerca di ricordare chi sei e come sei arrivato qui.» Arretrò di due passi. Poi urlò: «È lui!», nel momento preciso in cui capi-

vo che l'avevo riconosciuto e gridavo: «Jurt! Stai in guardia!» Jurt si girò e fuggì. Estrassi il pugnale: una cosa sempre molto poco sag-

gia da fare, a meno che non avessi una spada, come in quel caso, con la quale potessi colpire Caine prima che Caine colpisse me.

La velocità non aveva abbandonato Jurt, ed egli si trovò fuori pericolo in pochi secondi. Il pugnale, con mia sorpresa, prima penetrò nella spalla de-stra di Caine, poi entrò di circa un pollice nel muscolo. In quel momento, prima ancora che lui potesse voltarsi contro di me, il suo corpo esplose in una decina di direzioni diverse, emettendo una serie di vortici che risuc-

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chiarono ogni sua parvenza di umanità in un istante, producendo dei fischi acuti nel descrivere un'orbita l'uno intorno all'altro. Due di essi si ricompo-sero in un'entità più grande, la quale assorbì rapidamente le altre; il loro suono divenne progressivamente più basso ad ogni nuova acquisizione. Al-la fine ne rimase soltanto una. Per un momento ondeggiò davanti a me, poi esplose in cielo con una deflagrazione. Il pugnale venne rilanciato nella mia direzione, ed atterrò alla mia destra. Quando andai a recuperarlo, sco-prii che era caldo, e produsse dei deboli ronzii che durarono diversi secon-di prima che lo rimettessi nello stivale.

«Cosa è successo?», mi chiese Jurt, tornando indietro. «Sembra che i fantasmi del Disegno reagiscano violentemente alle armi

del Caos,» gli dissi. «Meno male che ne avevi una a portata di mano! Ma perché ha tentato di

aggredirmi in quel modo?» «Credo che il Disegno lo avesse mandato qui per impedirti di conquista-

re l'autonomia, oppure per distruggerti in caso l'avessi già ottenuta. Ho il sospetto che non desideri che gli agenti dell'altra parte acquisiscano forza e stabilità in questo posto.»

«Ma io non rappresento una minaccia. Non sto dalla parte di nessuno, se non dalla mia. Voglio uscire da questo inferno e pensare agli affari miei.»

«Forse questo stesso fatto costituisce una minaccia.» «E come?», volle sapere. «Chi sa che i tuoi inconsueti precedenti non facciano di te un agente in-

dipendente, alla luce di quello che sta succedendo? Potresti disturbare l'e-quilibrio tra le Potenze. Potresti conoscere o avere accesso a delle infor-mazioni che i tuoi capi non vogliono far circolare. Potresti essere una spe-cie di bruco, che non si sa quale effetto produrrà sull'ambiente finché non è uscito dal bozzolo. Potresti...»

«Basta!» Alzò una mano per farmi stare zitto. «Non mi importa un acci-dente di questa storia. Se mi lasceranno andare in pace, resterò fuori dai piedi.»

«Non sono io quello che devi convincere,» gli dissi. Mi fissò per un momento, poi si voltò, descrivendo un giro completo.

L'oscurità era tutto quello che potevo vedere oltre la luce della strada, ma lui gridò forte contro qualche cosa: «Mi senti? Non voglio essere coinvolto in questa faccenda. Voglio solo andarmene. Vivi e lascia vivere, conosci il detto? Sei d'accordo?»

Mi allungai, lo afferrai per un polso, e lo tirai con violenza contro di me.

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Lo feci perché avevo visto prendere forma nell'aria, sopra alla sua testa, una piccola replica fantasma del Segno del Logrus. Un secondo dopo si abbatté al suolo, lampeggiando come un fulmine, con l'accompagnamento di un suono simile ad un frustino spezzato: entrò nello spazio da lui prece-dentemente occupato, aprendo un vuoto nel tracciato mentre svaniva.

«Suppongo che non sia facile rassegnarsi,» disse lui. Guardò in alto. «Potrebbe avere in serbo un altro fulmine proprio adesso. Potrebbe colpire in qualsiasi momento, quando meno me lo aspetto.»

«Proprio come succede nella vita,» convenni. «Ma penso che dovresti prenderlo solo come un avvertimento. Hanno molta difficoltà ad arrivare qui. È più importante invece se riesci a sapere — visto che mi hanno fatto capire che questa è la mia ricerca — se dovresti aiutarmi oppure ostaco-larmi.»

«Adesso che me lo fai venire in mente,» mi disse, «ricordo di essere ar-rivato improvvisamente dov'ero, per batterti nella corsa, e poi ricordo an-che la voglia di lottare con te, subito dopo, o qualcosa del genere.»

«Ed ora come la vedi al riguardo?» «Non siamo mai andati molto d'accordo. Ma non mi piace neanche l'idea

di essere usato in questo modo.» «Vogliamo fare una tregua finché non riuscirò a capire le regole del gio-

co e ad andarmene da qui?» «Ed io cosa ci guadagno?», mi chiese. «Troverò un modo per uscire da questo dannato posto, Jurt. Vieni con

me e dammi una mano — oppure non intralciarmi — ed io ti porterò via con me quando me ne andrò.»

Rise. «Non sono sicuro che esista un modo per andarsene di qui,» disse, «a

meno che le Potenze non ci liberino.» «Allora non hai niente da perdere,» gli dissi, «e forse avrai anche la sod-

disfazione di vedermi morire nel tentativo.» «Conosci davvero i due tipi di Magia: il Disegno ed il Logrus?», mi

chiese. «Sì. Ma vedo meglio con il Logrus.» «Puoi usarli entrambi contro la loro fonte?» «Questa è un'interessante speculazione metafisica, ma non conosco la ri-

sposta,» dissi, «e non credo che riuscirò mai a scoprirla. È pericoloso evo-care le Potenze, in questo posto. Perciò non dispongo che di qualche In-cantesimo. Non penso che sarà la Magia a tirarci fuori da qui.»

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«Che cosa, allora?» «Non ne sono sicuro. Ho la certezza, però, che non riuscirò a vedere l'in-

tero quadro finché non arriverò alla fine di questa strada.» «Al diavolo... non so che dire. Questo non mi sembra il posto più saluta-

re per passare il tempo. D'altra parte, se fosse l'unico posto in cui uno co-me me può esistere? Se esistesse una porta, l'attraversassi, e mi dissolves-si?»

«Se i fantasmi del Disegno possono manifestarsi nell'Ombra, penso pro-prio che per te sarebbe lo stesso. I fantasmi di Dworkin e di Oberon mi so-no apparsi all'esterno, prima che arrivassi qui.»

«È incoraggiante. Ci proveresti al posto mio?» «Puoi scommetterci!», gli dissi. Fece una smorfia. «Ho deciso! Verrò con te e vedrò che succede. Non ti prometto di aiutar-

ti, ma nemmeno ti ostacolerò.» Gli porsi la mano, ma lui scosse la testa. «Non esageriamo,» mi disse. «Se la mia parola non vale senza una stret-

ta di mano, non viene considerata valida, è così?» «Credo di no.» «Ed io non mai avuto un gran desiderio di stringerti la mano.» «Spiacente di avertelo chiesto,» gli dissi. «Ti dispiacerebbe però spie-

garmi perché? Me lo sono sempre domandato.» Alzò le spalle. «Perché dovrebbe esserci una ragione?», disse. «L'alternativa è l'irrazionalità,» risposi. «O la privacy,» replicò, voltandosi. Ricominciai a camminare. Dopo un pò, Jurt si mise accanto a me. Cam-

minammo in silenzio per un pò. Un giorno forse imparerò a tenere la bocca chiusa o ad arrendermi. Il che poi è la stessa cosa.

La strada per un pò rimase dritta, ma sembrava scomparire in lontanan-za. Quando raggiungemmo il punto di dissolvenza, vidi il perché: il trac-ciato curvava dietro ad una piccola sporgenza. Seguimmo la svolta e ben presto ne facemmo un'altra. In breve ci ritrovammo in una serie regolare di tornanti, e comprendemmo subito che servivano ad agevolare una discesa molto ripida. Mentre continuavamo a percorrere questa strada a giravolte, improvvisamente scorsi una serpentina luminosa sospesa a metà distanza.

Jurt alzò una mano, la indicò col dito, e cominciò a dire «Cosa...?», nello stesso momento in cui diventava chiaro che era la continuazione del nostro

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tracciato, che in quel punto risaliva. Allora mi tornò per un secondo il sen-so dell'orientamento, e compresi che stavamo scendendo in quello che sembrava un immane pozzo. E l'aria mi parve più fresca.

Continuammo a scendere e, dopo un pò, qualcosa di freddo e di umido mi toccò il dorso della mano destra. Abbassai lo sguardo in tempo per ve-dere un fiocco di neve sciogliersi nel chiarore crepuscolare che ci circon-dava. Poi ne vidi degli altri. Qualche minuto dopo, scorgemmo una mag-giore luminosità, giù in basso.

«Non ho idea di cosa sia,» pulsò Frakir nella mia mente. «Grazie,» risposi col pensiero, avendo deciso di non parlare a Jurt della

sua presenza. Giù. Ancora giù. Una curva. Indietro. Avanti e indietro. La temperatura

continuava a scendere. Luccicarono dei fiocchi di neve. Le rocce della pa-rete che adesso stavamo discendendo assunsero un pò di quel luccichio.

Strano: non capii di che si trattava finché non scivolai per la prima volta. «Ghiaccio!», annunciò improvvisamente Jurt, sul punto di cascare e sor-

reggendosi alle rocce. Si udì un lamento lontano, che divenne sempre più forte, man mano che

si avvicinava. Fu solo quando arrivammo, che una folata fortissima ci fece capire che era il rumore del vento. E per giunta era assai freddo. Ci venne addosso con il respiro di un'età glaciale, ed allora alzai il bavero del man-tello per proteggermi dalle sue raffiche. Ci seguì, meno violento ma sem-pre persistente, mentre proseguivamo nella nostra discesa.

Quando raggiungemmo la fine della pendenza, faceva un freddo glacia-le, e le scale o erano completamente ghiacciate, o fatte proprio di ghiaccio. Il vento soffiava un canto incessante e lamentoso, e fiocchi di neve o frammenti di ghiaccio andavano e venivano.

«Che tempaccio orribile!», si lamentò Jurt, mentre i denti gli battevano. «Non credevo che i fantasmi fossero soggetti alle condizioni terrestri,»

dissi. «I fantasmi... all'inferno!», commentò. «Mi sento come sono sempre sta-

to. Almeno, chiunque sia ad avermi mandato sulla tua strada, avrebbe po-tuto fornirmi di vestiti adatti per questa eventualità.

«E questo posto non mi sembra molto terrestre,» aggiunse. «Se ci vo-gliono da qualche parte, potevano almeno indicarci una scorciatoia. Nelle attuali condizioni, saremo della merce ben danneggiata per quando arrive-remo lì.»

«Non credo proprio che il Disegno o il Logrus abbiano molto potere, su

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questo posto,» gli dissi, «Inoltre, preferirei che se ne stessero fuori dai pie-di.»

La nostra strada ci condusse in una pianura scintillante, così piatta e luc-cicante che temetti fosse completamente di ghiaccio. E non mi sbagliavo.

«Sembra scivolosa,» disse Jurt. «Ho intenzione di modificare la forma dei miei piedi, allargandoli.»

«Distruggerai gli stivali e resterai con i piedi egualmente gelati,» gli dis-si. «Perché non sposti invece verso il basso una parte del tuo peso, abbas-sando il tuo centro di gravità?»

«Hai sempre una risposta a tutto,» cominciò cupo. Poi: «Ma questa volta hai ragione,» concluse.

Restammo lì diversi minuti mentre accorciava la sua statura e diventava più tozzo.

«E tu non modifichi il tuo corpo?», mi chiese. «Mi limiterò a sfruttare il baricentro. Posso muovermi più in fretta, in

questo modo,» gli dissi. «Ma puoi anche finire con il sedere per terra, così.» «Vedremo.» Cominciammo a muoverci cercando di mantenerci in equilibrio. I venti

erano più forti rispetto a quelli che soffiavano sulla parete che avevamo appena disceso. La superficie della nostra strada ghiacciata, però, non era così liscia come ci era apparsa ad un primo esame. Presentava dei piccoli rilievi e dei corrugamenti idonei a creare un'aderenza. L'aria mi bruciava i polmoni; fiocchi bianchi si infrangevano contro diaboliche torri di neve vorticanti che svanivano in fretta come strane cime lungo il nostro cammi-no. Era un chiarore azzurrognolo quello che si irradiava dal tracciato, il quale conferiva una sfumatura di colore a quei fiocchi che entravano nella sua sfera. Proseguimmo la nostra camminata per circa un quarto di miglio, prima che apparisse una nuova serie di immagini fantasmagoriche. La prima sembrava che fossi proprio io, sdraiato su un mucchio di armature laggiù nella cappella; la seconda era Deirdre, sotto il lampione, che con-trollava l'orologio.

«Cosa sono?», chiese Jurt, mentre apparivano e scomparivano in un i-stante.

«La prima volta che le ho viste non l'ho capito, e continuo a non capir-lo,» risposi, «ma credevo che tu fossi una di loro, quando abbiamo comin-ciato la nostra gara. Vanno e vengono — alla rinfusa, sembrerebbe — sen-za un particolare motivo.»

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L'apparizione successiva fu una sala da pranzo, con un vaso di fiori po-sto sul tavolo. Non c'erano persone. Era lì e poi sarebbe svanita...

No. Non completamente. Scomparve, ma rimasero i fiori, su quella su-perficie ghiacciata. Mi fermai, poi andai verso di essi.

«Merle, stai uscendo dal tracciato...» «Oh, maledizione!», risposi, dirigendomi verso una lastra di ghiaccio

che mi fece ripensare a quel luogo somigliante a Stonehenge vicino al qua-le ero passato in precedenza. Assurdi sprazzi di colore risaltavano vicino alla base.

Ce n'erano molte... rose di ogni tinta. Ne raccolsi una. Il suo colore era quasi d'argento...

«Che fai qui, caro ragazzo?», sentii dire da una voce familiare. Rialzai immediatamente la schiena, per scoprire che l'alta figura scura

che era uscita alle mie spalle dal blocco di ghiaccio non si stava rivolgendo a me. Stava facendo cenno a Jurt, e gli sorrideva.

«Il servitore di un pazzo, certamente,» rispose Jurt. «E questo deve essere il pazzo,» rispose l'altro, «mentre sta cogliendo

quel fiore maledetto. La rosa d'argento di Ambra... la rosa di Lord Corwin, presumo. Salve, Merlin. Cerchi tuo padre?»

Presi una delle spille che tenevo all'interno del mantello e mi appuntai la rosa sul petto, a sinistra. La persona che aveva parlato era Lord Borel, un Duca della Casa Reale di Swayvill, ritenuto uno degli amanti di mia madre molto tempo prima. Era reputato uno dei più micidiali spadaccini delle Corti. Uccidere mio padre, Benedict o Eric, era stata la sua fissazione per anni. Sfortunatamente era Corwin che aveva incontrato, in una circostanza in cui Papà andava di fretta, e non avevano potuto incrociare le lame. Papà lo aveva fatto fesso ed ammazzato in quello che immaginavo fosse stato un incontro non esattamente corretto. Il che andava bene. Non mi era mai pia-ciuto molto, quel tizio.

«Tu sei morto, Borel. Lo sai?», gli dissi. «Sei soltanto il fantasma del-l'uomo che eri il giorno in cui percorresti il Logrus. Nel mondo reale non esiste più nessun Borel. Vuoi sapere perché? Perché Corwin ti ha ucciso il giorno della guerra che si scatenò dopo il danneggiamento del Disegno.»

«Menti, razza di piccolo sgorbio!», mi disse. «Uh, no,» si intromise Jurt. «Sei proprio morto. Trapassato da una spa-

da, a quanto so. Ma non sapevo che fosse stato Corwin.» «È stato lui,» dissi io. Allontanò lo sguardo, e mi accorsi che i muscoli della sua mascella si

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contraevano e si rilassavano, poi si contraevano e si rilassavano ancora. «E questo posto sarebbe una specie di aldilà?», chiese dopo un pò, con-

tinuando a non guardarci. «Credo che potresti chiamarlo così,» dissi. «Possiamo morire di nuovo, quaggiù?» «Credo di sì,» gli comunicai. «E quello cos'è?» Aveva abbassato improvvisamente gli occhi, ed io lo imitai. Sul ghiaccio

c'era qualcosa, ed allora mi avvicinai di più. «Un braccio,» risposi. «Sembra un braccio umano.» «Che ci fa, lì?», chiese Jurt, andandovi vicino e dandogli un calcio. Il braccio si mosse in un modo che ci rivelò che non era semplicemente

messo lì, ma che usciva fuori dal ghiaccio. In realtà, si contrasse e conti-nuò a tendersi spasmodicamente per diversi secondi, dopo il calcio di Jurt. Poi notai un altro pezzo, un pò più lontano, che mi sembrò una gamba. Più avanti una spalla, con il braccio attaccato, una mano...

«Sembra la ghiacciaia di un cannibale,» suggerii. Jurt rise. «Allora sei morto pure tu,» affermò Borel. «Niente affatto,» replicai. «Io sono reale. Mi trovo semplicemente da

queste parti per arrivare in un posto certamente migliore.» «E Jurt?» «Jurt è un problema interessante, sia da un punto di vista fisico che teo-

logico,» gli spiegai. «Sta beneficiando di una specie di bilocazione.» «Non direi proprio di starmela spassando,» commentò Jurt. «Ma, consi-

derando l'alternativa, suppongo di essere felice di trovarmi qui.» «Questo è quel modo di pensare positivo che negli anni ha creato tante

meraviglie nelle Corti,» dissi. Jurt rise di nuovo. Udii quel sibilo metallico che uno non scorda tanto facilmente. Sapevo

di non avere il tempo di estrarre la spada, girarmi e parare nel caso Borel volesse colpirmi alle spalle. D'altro canto, si inorgogliva molto nell'osser-vare ogni dettaglio quando doveva uccidere la gente. Combatteva sempre in maniera leale perché era così maledettamente bravo da non perdere co-munque. Era possibile che ci tenesse alla reputazione. Immediatamente al-zai entrambe le mani, comportandomi come se avessi pensato che mi stes-se attaccando alle spalle, per irritarlo.

«Rimani invisibile, Frakir. Quando mi girerò e muoverò il polso, lascia

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la presa. Attaccati a lui, quando ti lancio, e cerca di arrivargli alla gola. Tu sai cosa fare quando sarai lì.»

«Bene, capo!», mi rispose. «Estrai la spada e voltati, Merle.» «Non mi sembra molto sportivo, Borel,» risposi. «Oseresti accusarmi di slealtà?», disse. «È difficile stabilirlo se non posso vedere cosa stai facendo,» gli risposi. «Allora prende la spada e girati.» «Mi sto girando,» dissi. «Ma non sto toccando la spada.» Mi voltai rapidamente, scuotendo il mio polso sinistro, ed avvertendo

che Frakir se ne andava. In quel mentre, mi scivolarono i piedi. Mi ero mosso troppo in fretta su un punto perfettamente liscio di ghiaccio. Mentre cercavo di rialzarmi, vidi muoversi un'ombra davanti a me. Quando alzai la testa, vidi la punta della spada di Borel, a circa sei pollici dal mio occhio destro.

«Alzati lentamente,» disse, ed io eseguii. «Adesso estrai la spada,» mi ordinò. «E se rifiuto?», volli sapere, cercando di guadagnare tempo. «Ti dimostrerai indegno di essere considerato un gentiluomo, ed io mi

comporterò di conseguenza.» «Attaccandomi comunque?», chiesi. «Le regole lo permettono,» mi disse. «Cambia le regole,» replicai, passando il piede destro sotto al sinistro e

rialzandomi assai velocemente in piedi mentre estraevo la spada e l'abbas-savo in posizione di guardia.

Mi venne addosso in un secondo. Continuai la mia ritirata, arretrando verso la grossa lastra di ghiaccio dalla quale era spuntato fuori. Non avevo alcun desiderio di restare a scambiare colpi con lui, specialmente adesso che potevo vedere la rapidità di quegli attacchi. Pararli mi richiedeva meno sforzo, mentre arretravo. La spada tuttavia la sentivo un pò strana e, quan-do le detti una rapida occhiata capii il perché. Non era la mia.

Alla luce tremula irradiata dal tracciato, una volta eliminato il ghiaccio, vidi il complicato intarsio inciso su parte dell'arma. Esisteva una sola spa-da come quella, che io sapessi, e l'avevo vista proprio di recente, in quella che avrebbe potuto essere la mano di mio padre. Era Grayswandir, l'arma davanti a me. Sentii che sorridevo a quell'ironia. Era la stessa spada che aveva trafitto il Lord Borel reale.

«Sorridi alla tua stessa vigliaccheria?», mi chiese. «Alzati e combatti,

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bastardo!» Come in risposta al suo invito, sentii che mi veniva preclusa la ritirata.

Però mi accorsi di non essere stato colpito, quando mi detti una rapida con-trollata, e compresi dalla sua espressione che al mio attaccante era succes-so qualcosa di simile.

Le nostre caviglie erano state afferrate da alcune di quelle mani che u-scivano fuori dal ghiaccio e che ci tenevano saldamente fermi. E la cosa fece sorridere Borel, perché, anche se non mi poteva più attaccare, io non potevo più fuggire. Il che stava a significare...

La sua lama brillò, ed io parai di quarta, poi attaccai di sesta. Lui parò a sua volta e fintò. Poi si mise di nuovo in guardia di quarta, ed attaccò nuo-vamente. Risposi con una parata di sesta... No, era una finta. Lo sorpresi con un affondo di quarta. Poi feci una finta, ed un'altra finta. Colpito...

Qualcosa di bianco e di duro passò sulla sua spalla e mi colpì la fronte. Vacillai, ma le mani che mi tenevano mi impedirono di cadere a terra. Me-no male che barcollai, altrimenti la sua spada mi avrebbe trapassato il fega-to. I miei riflessi, o forse un tocco di Magia che avevo sentito dire al-bergava in Grayswandir, mi fecero tendere il braccio mentre le ginocchia tremavano. Sentii che la lama colpiva qualcosa, anche se non stavo nem-meno guardando in quella direzione, ed udii il grugnito sorpreso di Borel, poi un'imprecazione. Sentii anche un'imprecazione da parte di Jurt. Era fuori dal mio campo visivo.

Poi ci fu un lampo di luce, nel momento esatto in cui piegavo le gambe, ritrovavo l'equilibrio, schivavo un affondo sul collo, e cominciavo a rial-zarmi. Allora vidi che ero riuscito a ferire Borel all'avambraccio, e vidi schizzare dalla ferita una specie di fontana di fuoco. Il suo corpo cominciò ad illuminarsi, e i contorni esterni a schiarirsi.

«Non è stato merito tuo se hai avuto la meglio!», urlò. Alzai le spalle. «Non erano neanche le Olimpiadi Invernali, però!», gli dissi. Cambiò l'impugnatura dell'arma, tirò indietro il braccio, e scagliò la spa-

da contro di me, un momento prima che si dissolvesse in una torre di scin-tille e che venisse sollevato in alto per poi svanire.

Schivai l'arma, che mi superò a sinistra e si andò a conficcare parzial-mente nel ghiaccio vibrando, come una versione scandinava della famosa spada della leggenda arturiana. Jurt corse da me, prese a calci le mani che mi afferravano le caviglie finché non mi lasciarono, e dette un'occhiata al mio sopracciglio.

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Sentii cadermi addosso qualcosa. «Scusa, capo. Sono finito intorno al suo ginocchio. Prima che riuscissi a

raggiungere la gola era già scoppiato tra le fiamme,» mi disse Frakir. «È tutto bene quel che finisce bene,» risposi. «Non sei rimasto ustionato,

non è vero?» «Non ho neanche sentito il calore.» «Mi dispiace di averti colpito col quel pezzo di ghiaccio,» disse Jurt. «E-

ra a Borel che miravo.» Mi allontanai dal pianoro delle mani, ritornando verso il tracciato. «Indirettamente, mi hai aiutato,» dissi, ma non mi sentivo proprio di rin-

graziarlo. Come potevo sapere dove aveva veramente mirato? Mi rigirai un momento a guardare, e vidi che diverse mani che erano state prese a calci da Jurt ci stavano mostrando il dito medio.

Perché avevo addosso Grayswandirl Un'altra spada si sarebbe dimostra-ta egualmente efficace contro i fantasmi del Logrusl Era stato veramente mio padre, allora, a portarmi lì? Ed aveva intuito che avrei potuto aver bi-sogno della lama della sua spada? Volevo pensarlo, credere di aver visto qualcosa di più di un fantasma creato dal Disegno. E, se era proprio lui, mi chiedevo che parte aveva nell'intera faccenda. Cosa poteva saperne? E da quale parte sarebbe stato?

I venti tacquero non appena ci rimettemmo per strada, e le uniche brac-cia che vedemmo uscire dal ghiaccio sostenevano delle torce che ci ri-schiararono il cammino per un bel pezzo, fino ai piedi della lontana scarpa-ta, per essere esatti. Non successe nulla di strano mentre attraversavamo quel posto gelido.

«Da quello che mi hai raccontato e da ciò che ho visto,» disse Jurt, «ho avuto l'impressione che sia il Disegno a sponsorizzare questo viaggio e che sia il Logrus a volerci punzonare il biglietto.»

Proprio in quel momento il ghiaccio si ruppe in diversi punti. Le linee di frattura si propagarono verso di noi da molteplici direzioni, su entrambi i lati. Rallentarono, tuttavia, quando si avvicinarono al nostro tracciato, fa-cendomi notare per la prima volta che esso si era alzato sul livello generale della pianura. Adesso occupavamo una specie di strada rialzata, e il ghiac-cio si infrangeva senza provocare danni sulle due fiancate.

«Però...», commentò Jurt con un gesto. «Ma come ti sei messo in questo casino?»

«È iniziato tutto il 30 Aprile...», cominciai.

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7. Qualche braccio parve dirci arrivederci non appena cominciammo la

scalata una volta raggiunta la parete. Jurt gli fece marameo. «Vorresti biasimarmi perché voglio andarmene da questo posto?», mi

chiese. «Non potrei proprio.» «Se quella trasfusione che mi hai fatto fare mi ha veramente liberato dal

controllo del Logrus, allora potrei vivere qui per un periodo di tempo inde-finito.»

«Mi sembra possibile.» «Per questo devi credere che ho lanciato il ghiaccio contro Borel, e non

contro di te. A parte il fatto che sei più intelligente di lui e che potresti tro-vare il modo di andarcene di qui, lui era una creatura del Logrus, e non a-vrebbe avuto abbastanza fuoco da darmi in caso di necessità.»

«Su questo ho riflettuto anche io,» dissi, senza rivelargli un'altra cosa che avevo indovinato, per rendermi indispensabile. «Ma dove vuoi arriva-re?»

«Sto cercando di dirti che ti darò ogni aiuto possibile, perciò non la-sciarmi quaggiù quando te ne andrai. Lo so che non siamo mai andati mol-to d'accordo, ma vorrei riappacificarmi con te, se sei d'accordo.»

«È sempre stato il mio desiderio,» gli dissi. «Sei sempre stato tu a co-minciare le nostre lotte ed a mettermi nei guai.»

Sorrise. «Non l'ho mai fatto, e non lo farò,» disse. Poi aggiunse: «Bè, sì, hai ra-

gione. Non mi piacevi, e forse ancora non mi piaci. Ma non ti creerò nes-sun problema, adesso che abbiamo bisogno l'uno dell'altro.»

«Per come la vedo io, sei tu ad avere molto più bisogno di me, che non il contrario.»

«Non posso discutere su questo punto, e non posso convincerti a fidarti di me,» disse. «Ma lo vorrei.» Ci arrampicammo un altro pò, prima che continuasse, ed allora mi illusi che l'aria avesse cominciato ad essere più calda.

Poi proseguì: «Ma vedila in questo modo: somiglio a tuo fratello Jurt, e mi avvicino parecchio a quello che lui era una volta: molto, ma non del tutto. Ho cominciato ad allontanarmi dal suo modello all'inizio della corsa. Le mie sono circostanze diverse, ed ho riflettuto molto da quanto sono di-ventato indipendente. Il vero Jurt conosce delle cose che io non so, ed ha

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dei poteri che io non possiedo. Ma ho i ricordi che aveva quando si è im-padronito del Logrus, e sono la seconda autorità, quanto al suo modo di pensare. Ora, se è diventato così pericoloso come mi hai detto, potresti tro-varmi estremamente utile quando dovrai anticipare le sue mosse.»

«Hai segnato un punto a tuo favore,» riconobbi. «A meno che, natural-mente, voi due non dobbiate riunirvi.»

Scosse la testa. «Non si fiderebbe di me,» disse, «ed io non mi fiderei di lui. Ci cono-

sciamo bene. È un fatto di introspezione. Capisci cosa intendo?» «Significa che nessuno dei due è affidabile.» Aggrottò la fronte; poi annuì con la testa. «Bè, credo di no,» convenne. «Allora perché dovrei fidarmi di te?» «In questo momento perché mi hai tra le palle. In seguito, perché ti sarò

maledettamente utile.» Dopo qualche altro minuto di salita, gli dissi: «La cosa che più mi pre-

occupa di te è che non è passato poi molto tempo, da quando Jurt si è im-padronito del Logrus. Tu non sei una versione più vecchia e più gentile del parente che amo di meno: sei un modello molte recente. Quanto alla tua diversità con l'originale, non mi sembra che ci sia molta differenza.»

Alzò le spalle. «Cosa posso dirti che già non ti ho detto?», chiese. «Vediamo di limitar-

ci a trattare in termini di potere e di interesse personale.» Sorrisi. Sapevamo entrambi che era così. Ma la conversazione ci aiutava

a passare il tempo. Mentre ci arrampicavamo, mi venne un pensiero. «Credi che sapresti spostarti via Ombra?», gli domandai. «Non so,» mi rispose dopo un pò. «Il mio ultimo ricordo, prima di veni-

re qui, è che stavo completando il Logrus. Presumo che anche la registra-zione fosse ultimata in quel momento. Perciò non ricordo gli insegnamenti di Suhuy su come si viaggia nell'Ombra, né di averci provato. Ritengo che saprei farlo, non credi?»

Mi fermai per riprendere fiato. «È una faccenda così misteriosa che non mi sento autorizzato nemmeno

a fare illazioni. Credevo che ti fossero state date risposte già pronte per co-se del genere: una specie di consapevolezza preternaturale dei tuoi limiti e delle tue capacità.»

«Temo di no. A meno che tu non ritenga preternaturale un presentimen-

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to.» «Penso che lo farei, se tu ci azzeccassi abbastanza spesso.» «Maledizione! È troppo presto per dirlo.» «Hai ragione.» Ben presto ci ritrovammo nel banco di nebbia dal quale sembravano ca-

dere i fiocchi di neve. Qualche altro passo, e i venti si trasformarono in brezze. Ancora qualche passo, e anche le brezze si dileguarono. A quel punto, riuscimmo a scorgere il bordo della parete, ed in breve ci arrivam-mo.

Mi voltai a guardare in basso. Tutto ciò che riuscii a vedere fu un fioco bagliore nella nebbia. Nell'altra direzione il nostro tracciato diventava a zig-zag, somigliando in certi punti ad una serie di linee dell'alfabeto Mor-se: erano interruzioni regolari, forse formazioni rocciose.Lo seguimmo verso destra finché non svoltò a sinistra.

Tenni d'occhio Jurt, cercando dei segni di riconoscimento dalle caratteri-stiche del terreno. Una chiacchierata sono solo parole, e dopotutto era an-cora molto simile al Jurt con il quale ero cresciuto. Se poi si fosse reso re-sponsabile di una mia caduta in una qualche trappola, ero pronto ad infi-largli Grayswandir in corpo non appena ne avessi avuto l'avvertimento.

Un tremolio... C'era una formazione a sinistra, simile ad una grotta, come se l'apertura

nella roccia portasse in un'altra realtà. Sembrava una macchina dalla strana forma in movimento in un vicolo di città...

«Cosa...?», cominciò a dire Jurt. «Ancora non so il significato, ma ho già visto una successione disordina-

ta di sequenze come questa. In realtà, all'inizio credevo che tu fossi una di esse.»

«Sembra sufficientemente reale per entrarci.» «Forse lo è.» «Potrebbe essere la nostra via di uscita.» «Mi sembra troppo facile.» «Bè, facciamo un tentativo.» «Vai avanti,» gli dissi. Lasciammo il tracciato, avanzammo verso la realtà-finestra e non ci fer-

mammo. In un secondo si trovò sul marciapiede della strada sulla quale stava passando la macchina. Si voltò ed agitò la mano. Vidi che muoveva la bocca, ma non mi arrivò neanche una parola.

Se potevo levare la neve dalla Chevy rossa, perché non potevo entrare in

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una di quelle sequenze? E, se potevo farlo, non era possibile che riuscissi a spostarmi via Ombra da lì, andandomene per i fatti miei in un posto più congeniale, lasciandomi indietro quel mondo di tenebre? Mi mossi in a-vanti.

Improvvisamente ero lì, ed il suono era stato prodotto per me. Guardai gli edifici, la strada che si inclinava bruscamente. Ascoltai i rumori del traffico, annusai l'aria. Quel posto poteva quasi essere una delle Ombre di San Francisco. Corsi a raggiungere Jurt, che stava andando verso l'angolo.

Lo ripresi in fretta, ed uniformai il mio passo al suo. Arrivammo all'an-golo. Svoltammo, e rimanemmo gelati.

Non c'era niente. Ci trovavamo di fronte ad un muro di tenebre. O me-glio, non proprio tenebre, quanto un vuoto assoluto, dal quale ci ritraemmo immediatamente.

Allungai lentamente una mano. Non appena mi avvicinai alle tenebre, cominciò un tintinnio, poi una sensazione di gelo, seguita dalla paura. Mi ritrassi, e Jurt mi imitò. Poi si fermò bruscamente, raccolse una bottiglia rotta dalla strada, si voltò, e la scagliò contro una finestra vicina. Quindi cominciò a correre immediatamente in quella direzione.

Lo seguii e lo raggiunsi al pannello rotto: scrutai all'interno. Di nuovo tenebre. Non c'era niente dall'altra parte della finestra. «Leggermente sinistro...», commentai. «Uh-huh,» disse Jurt. «È come se ci venisse concesso un accesso estre-

mamente limitato alle varie Ombre. Tu che ne pensi?» «Comincio a chiedermi se non ci sia qualcosa che dovremmo cercare, in

questi posti,» dissi. Improvvisamente, l'oscurità oltre la finestra scomparve e, su un tavolino,

brillò una candela. Cominciai ad allungarmi verso di essa attraverso il ve-tro rotto. Scomparve immediatamente: c'erano di nuovo le tenebre.

«La prenderei come una risposta affermativa alla tua domanda,» disse Jurt.

«Credo che tu abbia ragione. Ma non possiamo metterci a cercare in o-gni posto del genere che incontriamo.»

«Forse qualcosa sta semplicemente cercando di attirare la tua attenzione, per farti capire che dovresti guardare un qualche cosa che probabilmente apparirà non appena l'avrai notato.»

Luce! Un tavolo completamente coperto di candele brillava ora oltre la finestra.

«Okay!», urlai. «Se è solo questo che vuoi, lo farò. C'è qualche altra co-

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sa che dovrei cercare qui?» Venne il buio. Strisciò intorno all'angolo e si mosse lentamente verso di

noi. Le candele scomparvero, e le tenebre si riversarono dalla finestra. Gli edifici lungo la strada svanirono dietro ad una cortina d'ebano.

«Interpreto la tua risposta come un no,» gridai. Poi mi girai e rientrai nel nostro nero tunnel dirigendomi verso il tracciato. Jurt era dietro di me.

«Bella pensata!», gli dissi, quando ci ritrovammo sul tracciato luminoso a guardare quella strada in salita schizzare via dalla realtà vicino a noi. «Credi che stesse tirando fuori quelle sequenze a casaccio finché non mi fossi deciso ad entrare in una di esse?»

«Sì.» «Perché?» «Ritengo che abbia maggior controllo in quei posti, e che in uno di essi

possa rispondere più prontamente alle tue domande.» «È opera del Disegno?» «Probabilmente.» «Va bene. La prossima che mi si apre davanti, entro. Farò tutto quello

che vuole se questo significa andarcene via prima.» «Sì, fratello. Tutti e due.» «Naturalmente!», risposi. Ricominciammo a camminare. Ma niente di nuovo o di intrigante appar-

ve accanto a noi. La strada cominciò a zigzagare, ed allora mi chiesi chi avremmo potuto incontrare da lì a poco. Se ero davvero nel territorio del Disegno e sul punto di fare qualcosa che voleva, allora era possibile che il Logrus mandasse qualcuno che conoscevo a cercare di dissuadermi. Ma non apparve nessuno: girammo all'ultima svolta, seguimmo una strada di-ventata improvvisamente dritta, e poi la vedemmo finire bruscamente entro una massa scura davanti a noi.

Continuando a camminare, mi accorsi che confluiva in una grossa massa montagnosa e scura. Provai un vago senso di claustrofobia soltanto a pen-sare alle possibili implicazioni, e sentii Jurt mormorare una bestemmia mentre avanzavamo a fatica verso di essa. Prima che riuscissimo a rag-giungerla, ci fu un brillio alla mia destra.

Voltandomi, vidi la stanza da letto di Random e Vialle, ad Ambra. Mi trovavo nel lato sud della camera, tra il divano ed il comodino, oltre una sedia, in mezzo ai cuscini adagiati davanti al caminetto situato tra le fine-stre che lasciavano trapelare la tenue luce del giorno. Non c'era nessuno sul letto, né su altre parti del mobilio, e i ciocchi di legna disposti sulla

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grata erano bruciati fino a diventare dei tizzoni incandescenti che fumava-no ad intermittenza.

«E ora?», chiese Jurt. «È questo!», risposi. «Deve esserlo, non capisci? Una volta afferrato il

messaggio, mi avrebbe mostrato l'idea originale. Devo anche sbrigarmi ad agire: penso... non appena riesco a capire che cosa...»

Una delle pietre vicino al caminetto cominciò ad infuocarsi. Mentre la guardavo, il rossore crebbe di intensità. Non era possibile che fosse opera dei tizzoni. Perciò...

Corsi avanti sotto l'influsso di un potente imperativo. Udii Jurt gridarmi qualcosa, ma la sua voce rimase tagliata fuori non appena entrai nella ca-mera. Sentii una ventata del profumo preferito di Vialle mentre passavo accanto al letto. Quella era davvero Ambra, ne ero certo, e non un facsimi-le. Mi spostai rapidamente sulla destra del caminetto.

Jurt irruppe nella stanza alle mie spalle. «È meglio prepararsi a combattere!», gridò. Piroettai su me stesso per vederlo in faccia ed urlai: «Stà zitto!», poi mi

portai un dito alle labbra. Mi raggiunse, mi afferrò il braccio, e mi sussurrò agitato: «Borel sta cer-

cando di rimaterializzarsi! Potrebbe essere corporeo, ed aspettarci all'usci-ta!»

Dal soggiorno udii la voce di Vialle. «C'è qualcuno?», chiamò. Liberai il braccio dalla stretta di Jurt, mi abbassai sul focolare ed afferrai

la pietra che luccicava. Sembrava intonacata nel camino ma, quando la ti-rai, venne via facilmente.

«Come facevi a sapere che si sarebbe tolta?», mormorò Jurt. «Il bagliore,» risposi. «Quale bagliore?», mi chiese. Non gli risposi: infilai invece una mano nel buco, sperando che non ci

fossero trabocchetti. L'apertura arrivava parecchio più in là della lunghezza della pietra. Poi la sentii, attaccata ad un chiodo o ad un uncino: era una catena. L'afferrai e la tirai. Sentii che Jurt tratteneva il fiato.

L'ultima volta che l'avevo visto, era stato al funerale di Caine, addosso a Random. Era il Gioiello del Giudizio quello che tenevo in mano. L'alzai velocemente e mi feci scivolare la catena sulla testa, lasciando che la pietra rossa mi cadesse sul petto, nel momento esatto in cui veniva aperta la porta del soggiorno.

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Portandomi un dito alle labbra, allungai nuovamente le braccia, presi Jurt per le spalle e lo feci girare verso il muro aperto che conduceva al no-stro tracciato. Cominciò a protestare, ma io gli detti una bella spinta e lo feci muovere in quella direzione.

«Chi c'è?», sentii chiedere a Vialle, e Jurt si voltò a guardarmi, un pò sorpreso.

Non ritenni opportuno spiegargli col linguaggio gestuale che era cieca. Perciò gli assestai un altro spintone. Questa volta però allungò una gamba, mi passò una mano dietro la schiena e mi spinse avanti. Una breve impre-cazione e poi caddi. Alle mie spalle sentii Vialle chiamare: «Chi...», prima che la sua voce venisse interrotta.

Ruzzolai sul tracciato, riuscendo ad afferrare la spada mentre cadevo. Rotolai su me stesso e mi rialzai con la punta dell'arma diretta contro la fi-gura di Borel, che sembrava aver ritrovato la forma.

Sorrideva, la spada ancora nel fodero, mentre mi guardava. «Non ci sono campi di braccia, qui,» dichiarò, «per creare un fortunato

incidente come quello che ti ha salvato l'ultima volta che ci siamo incon-trati.»

«Peccato!», dissi. «Se riuscirò a prendere quel ciondolo che porti al collo ed a farlo perve-

nire al Logrus, mi verrà assicurata un'esistenza normale, per rimpiazzare la mia controparte vivente... colui che fu ucciso da tuo padre con l'inganno, come tu hai rilevato.»

La visione degli Appartamenti Reali di Ambra era svanita. Jurt era rima-sto fuori dal tracciato, vicino a quello che era stato il suo interfaccia con questo strano regno. «Sapevo di non poterlo battere,» mi gridò quando si accorse del mio sguardo, «ma tu una volta sei riuscito a sconfiggerlo.»

Scrollai le spalle. Al mio gesto, Borel si rivolse a Jurt. «Tu tradiresti le Corti e il Logrus?», gli domandò. «Al contrario,» rispose Jurt. «Impedirei loro di commettere un grave er-

rore.» «Di quale errore si tratterebbe mai?» «Diglielo, Merlin. Digli che cosa mi hai raccontato mentre cercavamo di

uscire da quel gelo profondo,» disse. Borel spostò lo sguardo su di me. «C'è qualcosa di buffo in tutta questa faccenda,» gli dissi. «Ho la sensa-

zione che si tratti di un duello tra le due Potenze: il Logrus e il Disegno.

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Ambra e le Corti verrebbero al secondo posto nell'intera vicenda. Vedi...» «Ridicolo!», mi interruppe, sfoderando l'arma. «Stai tirando fuori un'as-

surdità per evitare il nostro duello.» Afferrai il pugnale con la sinistra ed impugnai Grayswandir con la de-

stra. «Allora và all'inferno!», dissi. «Vieni a cercartelo!» Una mano mi si posò sulla spalla, e continuò a spingere imprimendo una

specie di rotazione al polso; mi fece carambolare in una spirale orientata verso il basso che mi trascinò fuori dal tracciato, sulla sinistra. Con la coda dell'occhio vidi che Borel aveva fatto un passo indietro.

«Hai una certa rassomiglianza con Eric o con Corwin,» disse una voce bassa e familiare, «anche se non ti conosco. Ma porti il Gioiello, il che fa di te una persona troppo importante per permetterti di rischiare la vita in una sciocca disputa.»

La spirale si fermò e riuscii a girare la testa. Era Benedict quello che sta-vo guardando... un Benedict con due mani normali.

«Mi chiamo Merlin, e sono il figlio di Corwin,» dissi, «e questo è un Maestro d'Armi delle Corti del Caos.»

«Sembra che tu sia in missione, Merlin. Vai per la tua strada, allora!», disse Benedict.

La punta della spada di Borel mi si piantò contro a circa dieci pollici dal-la gola. «Tu non vai da nessuna parte,» dichiarò, «non con quel gioiello.»

Non si udì alcun suono mentre Benedict estraeva la sua lama ed allonta-nava quella di Borel dalla traiettoria.

«Come ho detto, segui la tua strada, Merlin!», mi ripeté Benedict. Mi alzai in piedi, mi portai velocemente fuori tiro, e li superai con molta

circospezione. «Se lo uccidi,» disse Jurt, «dopo un certo periodo di tempo è in grado di

rimaterializzarsi.» «Interessante!», osservò Benedict, fintando un attacco ed arretrando leg-

germente. «Dopo quanto tempo?» «Qualche ora.» «E quanto tempo vi servirà per completare la vostra missione?» Jurt mi guardò. «Non lo so per certo,» risposi. Benedict eseguì una curiosa parata, seguita da uno strano passo strasci-

cato e da un breve attacco di taglio. Dalla camicia di Borel saltò un botto-ne.

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«In questo caso farò durare il duello per un bel pò,» disse Benedict. «Buona fortuna, ragazzo!»

Mi fece un veloce saluto con la spada, e Borel colse l'opportunità per at-taccare. Benedict ricorse ad una parata di sesta all'italiana che fece spostare da una parte la punta della lama, avanzando al tempo stesso. Poi allungò rapidamente la mano sinistra ed agguantò l'altro per il naso. Quindi lo spinse da una parte, fece un passo indietro, e sorrise.

«Quanto prendi generalmente a lezione?», lo udii chiedere a Borel men-tre io e Jurt ci affrettavamo a correre giù per il sentiero.

«Mi chiedo quanto tempo occorre alle Potenze per materializzare un fan-

tasma,» disse Jurt, mentre correvamo verso la massa montuosa in cui stava entrando la strada.

«Diverse ore per Borel soltanto,» dissi, «e, se il Logrus vuole a tutti i co-sti il Gioiello, come immagino, ritengo che avrebbe chiamato un esercito di fantasmi, se avesse potuto. Adesso sono sicuro che questo posto è molto difficile da raggiungere per entrambe le Potenze. Ho la sensazione che possano manifestarsi unicamente con dei semplici trucchi d'energia. Se co-sì non fosse, non sarei mai arrivato tanto lontano.»

Jurt allungò una mano come se volesse toccare il Gioiello, ma poi parve ripensarci, e la ritrasse.

«Sembra che ora tu ti sia definitivamente alleato con il Disegno,» osser-vò.

«Anche tu, sembra. A meno che non stia progettando di pugnalarmi alla schiena all'ultimo momento,» dissi.

Ridacchiò. Poi: «Non sei spiritoso!», disse. «Devo stare dalla tua parte. Capisco che il Logrus mi ha creato per servirsi di me come uno strumento. Sarei stato liquidato come spazzatura una volta finito il lavoro. Ho il pre-sentimento che sarei già estinto, se non fosse stato per la trasfusione. Per-ciò sono con te, che ti piaccia o no, e la tua schiena è al sicuro.»

Corremmo sulla strada, adesso dritta, la cui fine si approssimava. Jurt al-la fine mi domandò: «Qual è il significato di quel ciondolo? Sembra che il Logrus lo voglia a tutti i costi.»

«Si chiama Gioiello del Giudizio,» risposi. «Si dice che sia più antico del Disegno stesso e che sia stato lo strumento della sua creazione.»

«Perché credi che ci abbiano guidati fino a lui e ci abbiano poi permesso di prenderlo tanto facilmente?»

«Non ne ho la minima idea,» dissi. «Se te ne viene in mente una, sarò fe-

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lice di sentirla.» Raggiungemmo ben presto il punto in cui il tracciato si perdeva nelle te-

nebre più fitte. Ci fermammo a guardare. «Nessuna indicazione,» dissi, controllando in alto e su entrambi i lati

dell'entrata. Jurt mi rivolse una strana occhiata. «Hai sempre avuto un senso macabro dell'umorismo, Merlin,» mi disse.

«Chi metterebbe una segnaletica in un posto come questo?» «Qualcun altro dotato del mio stesso umorismo macabro,» replicai. «Faremo meglio a proseguire,» tagliò corto, portandosi davanti all'entra-

ta. Una lucente insegna rossa, recante la scritta USCITA, era comparsa so-

pra l'ingresso. Jurt sgranò gli occhi per un momento, poi scosse lentamente la testa. Entrammo.

Ci infilammo in un dedalo di tunnel, la qual cosa mi mise un pò in ap-prensione. La natura artificiale del resto del posto mi aveva fatto pensare ad un percorso dritto attraverso una tromba dalle pareti lisce, geometrica-mente preciso in ogni suo tratto. Invece era come se stessimo attraversando una serie di grotte naturali., stalattiti, stalagmiti, piloni e bolle d'acqua un pò dovunque.

Il Gioiello gettava una luce sinistra su ogni cosa che mi giravo a guarda-re.

«Sai come si usa quella pietra?», mi chiese Jurt. Ripensai al racconto di mio padre. «Quando sarà il momento, credo che lo saprò,» gli dissi, sollevando il

Gioiello e studiandolo per un momento, per poi lasciarlo ciondolare sul collo. Mi preoccupava molto meno del percorso che stavamo seguendo.

Continuai a voltare la testa mentre ci facevamo strada da un'umida grotta verso un'alta camera a cattedrale, lungo stretti passaggi, scendendo su cu-muli di pietre cadute. C'era qualcosa di familiare lì, ma non avrei potuto giurarci.

«C'è qualcosa in questo posto che suscita in te dei ricordi?», domandai a Jurt.

«Non direi proprio,» mi rispose. Continuammo ad andare avanti, passando ad un certo punto in una grotta

che conteneva tre scheletri umani. Erano il primo segno concreto di vita — si fa per dire — da quando avevo cominciato quel viaggio, e lo commentai ad alta voce.

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Jurt annuì lentamente con la testa. «Comincio a chiedermi se stiamo ancora camminando tra le Ombre,»

disse, «o se potremmo aver lasciato quel posto ed essere entrati nell'Om-bra... forse l'abbiamo fatto quando siamo giunti in queste grotte.»

«Potrei scoprirlo cercando di chiamare il Logrus,» dissi, facendo pulsare immediatamente Frakir sul polso. «Ma, considerando la politica metafisica della situazione, preferisco evitarlo.»

«Stavo giusto osservando i colori dei minerali delle pareti,» disse. «Il posto che ci siamo lasciato dietro aveva una decisa preferenza per le tinte monocromatiche. Non che me ne freghi niente del paesaggio: voglio solo dire che abbiamo conquistato una specie di vittoria.»

Indicai il terreno. «Finché ci sarà il tracciato, non avremo conquistato un bel niente.» «E se ci stessimo allontanando proprio adesso?», mi chiese, girando a

destra e facendo un passo in quella direzione. Una stalattite vibrò e cadde a terra davanti a lui. Lo mancò per pochi

centimetri. Jurt mi fu nuovamente accanto in un secondo. «Certo, sarebbe davvero un peccato non poter sapere dov'è che siamo di-

retti,» osservò. «Le richieste sono così. Sarebbe male perdersi il divertimento.» Proseguimmo. Non successe nulla intorno a noi. Le nostre voci e i nostri

passi echeggiavano. Dell'acqua cadeva in qualche punto dove si raccoglie-va. I minerali brillavano, e la strada sembrava una lenta discesa.

Per quanto tempo camminammo non saprei dirlo. Dopo un pò, le sale di pietra assunsero lo stesso aspetto: come se passassimo regolarmente in un sistema di teletrasporto che ci riportava di nuovo nelle stesse grotte e negli stessi corridoi. Come conseguenza persi la cognizione del tempo. Le azioni che si ripetono hanno l'effetto di una ninnananna e...

All'improvviso, il nostro tracciato sboccò in un passaggio più largo, quindi girò a sinistra. Finalmente qualche variazione! Seguimmo la nostra linea di luce nel buio. Dopo un pò ci infilammo in un passaggio laterale a sinistra. Jurt guardò il soffitto e si sbrigò a passare.

«Potrebbe esserci qualunque cosa in agguato qui dentro,» commentò. «Vero,» riconobbi. «Ma non me ne preoccuperei tanto.» «E perché no?» «Credo di cominciare a capire.» «Ti dispiacerebbe dirmi cosa succede, allora?» «Ci vorrebbe troppo tempo. Abbi pazienza. Troveremo un'uscita molto

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presto.» Entrammo in un altro passaggio. Era simile, ma diverso. Ovvio! Aumentai l'andatura, ansioso di sapere la verità. Un altro cunicolo. Mi

misi a correre... Un altro... Jurt mi imitò facendo un gran fracasso, le cui eco rimbombarono intor-

no. Avanti! Presto! Un'altra svolta. E poi rallentai, perché il passaggio proseguiva davanti a noi ma il trac-

ciato no. Curvava a sinistra, scomparendo sotto una grossa porta chiodata di metallo. Allungai un braccio sulla destra per scoprire dove doveva esse-re il gancio: lo trovai, e tolsi la chiave che vi era appesa. La inserii nella toppa, la girai, poi la levai e la riappesi.

«Non mi piace questo posto, capo,» osservò Frakir. «Lo so.» «Sembra quasi che tu sappia cosa fare,» commentò Jurt. «Sì,» dissi, poi aggiunsi: «Dritti al punto!», quando capii che quella por-

ta dava sull'esterno, anziché sull'interno. Afferrai la grossa maniglia sulla sinistra e cominciai a tirarla. «Ti spiace dirmi dove siamo finiti?», mi chiese. La grossa porta scricchiolò, e si mosse lentamente mentre mi spostavo

indietro. «Somigliano in maniera sorprendente alle caverne di Kolvir che si tro-

vano sotto il Castello di Ambra,» gli risposi. «Grandioso!», disse. «E che c'è dietro la porta?» «È molto simile all'entrata della camera di Ambra che ospita il Dise-

gno.» «Stupendo!», disse. «Probabilmente scomparirò in una nuvola di fumo

non appena metterò piede lì dentro.» «Ma non è lo stesso,» proseguii. «Avevamo fatto venire Suhuy a con-

trollare il Disegno prima che io mi accingessi a percorrerlo. Non risentì di nessun effetto nocivo nelle sue vicinanze.»

«Nostra madre ha percorso il Disegno.» «Sì, questo è vero.» «Francamente, ritengo che chiunque abbia dei consanguinei nelle Corti

possa percorrere il Disegno... e, viceversa, i miei parenti di Ambra il Lo-grus. La tradizione dice che tutti in qualche modo veniamo dall'oscurità e dalla nebbia.»

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«Va bene. Entrerò con te. C'è spazio là dentro per muoversi senza tocca-re quella cosa?»

«Sì.» Aprii meglio la porta, la fermai con le spalle e guardai. Era lui. Vidi che

il nostro tracciato luminoso finiva a pochi centimetri oltre la soglia. Feci un grosso sospiro di sollievo e mormorai qualche parolaccia non

appena lo abbandonai. «Che cos'è?», mi chiese Jurt, cercando di vedere oltre le mie spalle. «Non quello che mi aspettavo,» gli dissi. Mi spostai da una parte e lo feci guardare. Rimase con gli occhi sgranati per qualche secondo, poi disse: «Non ca-

pisco.» «Non ne sono sicuro nemmeno io,» gli dissi, «ma intendo accertarme-

ne.» Entrai nella camera, e lui mi seguì. Quello non era il Disegno che cono-

scevo. O meglio, lo era e non lo era. Rispondeva alla configurazione gene-rale del Disegno di Ambra, ma era interrotto. C'erano alcune zone in cui le linee erano state cancellate, distrutte, rimosse in qualche modo... o forse non erano mai state disegnate correttamente. Le aree interlineari, solita-mente scure, erano luminose, bianco-azzurre, e le linee, nere. Era come se qualche essenza avesse prosciugato il diagramma per penetrare il campo. L'area illuminata sembrò crepitare lentamente, quando la guardai.

E, a parte tutto questo, c'era una grossa differenza: Il Disegno di Ambra non conteneva nessun cerchio di fuoco al suo centro, dove vidi una donna, o morta, o incosciente, o sotto un Incantesimo.

E quella donna, ovviamente, doveva essere Coral. Lo capii immediata-mente, anche se dovetti attendere più di un minuto prima di riuscire ad in-travedere il suo viso in mezzo alle fiamme.

La grossa porta si richiuse da sola alle nostre spalle mentre stavo lì a guardare. Jurt rimase immobile per un bel pezzo, prima di dire: «Quella Pietra certamente è diventata attiva. Dovresti vedere la tua faccia alla sua luce.»

Abbassai gli occhi ed osservai le sue pulsazioni purpuree. Tra il flusso bianco-azzurro sul quale posava il Disegno e il bagliore di quel cerchio di fuoco, non mi ero accorto dell'improvvisa attività della pietra.

Mi avvicinai leggermente, avvertendo un'ondata di freddo simile a quel-la prodotta da un Trionfo messo in funzione. Doveva essere uno di quei Disegni Interrotti di cui mi aveva parlato Jastra, che rappresentava uno di

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quei Percorsi ai quali lei e Julia erano state iniziate. Il che mi indicava che mi trovavo in una delle prime Ombre, vicino alla stessa Ambra. Nella mente cominciarono a vorticarmi freneticamente dei pensieri.

Solo da poco avevo saputo della possibilità che il Disegno potesse essere senziente. Il suo corollario — che anche il Logrus fosse senziente — di-ventava quindi assai probabile. Tale concetto mi era balenato alla mente quando Coral era riuscita ad accordarsi con il Disegno e gli aveva chiesto di essere trasportata dove doveva andare. Il Disegno lo aveva fatto, e que-sto era il luogo in cui ella era stata trasferita, e le sue attuali condizioni e-rano il motivo per cui non ero riuscito a contattarla via Trionfo. Quando avevo chiesto al Disegno di seguirla, quello — quasi per gioco, mi era par-so all'epoca — mi aveva spostato dalla sua camera all'altra, ap-parentemente per farmi capire che era senziente.

E non era semplicemente senziente, decisi, mentre alzavo il Gioiello del Giudizio e scrutavo nelle sue profondità. Era anche intelligente. Perché le immagini che vidi nella gemma, mostrandomi che cos'era che si voleva da me, mi indicarono qualcosa che non avrei mai voluto fare, in altre circo-stanze. Essendo uscito da quello strano regno in cui ero stato condotto nel corso della mia ricerca, avrei tirato fuori un Trionfo e chiesto a qualcuno di portarmi via al più presto da lì... o addirittura avrei evocato l'immagine del Logrus ed avrei lasciato che i due se la vedessero da soli mentre io me la svignavo via Ombra. Ma Coral dormiva in un cerchio di fuoco, nel cuore del Disegno Interrotto: era lei la vera presa che il Disegno esercitava su di me. Doveva aver capito qualcosa mentre lei lo percorreva, aveva quindi e-laborato un piano, ed aveva deciso per me in quell'occasione.

Voleva che riparassi quella sua particolare immagine, e che aggiustassi quel Disegno Interrotto, percorrendolo e portando il Gioiello del Giudizio con me. Era così che Oberon aveva riparato il danno arrecato all'originale. Ovviamente, la cosa era stata talmente traumatica da ucciderlo...

D'altro canto, il Re se l'era vista con il Disegno originale, mentre questo era solo una delle sue immagini. Inoltre, mio padre era sopravvissuto alla creazione del suo Disegno succedaneo, senza riportare neanche un graffio.

Perché, mi chiesi allora. Perché ero il figlio dell'uomo che era riuscito a creare un altro Disegno? C'entrava forse il fatto che avevo dentro di me sia l'immagine del Logrus che quella del Disegno? O semplicemente gli ero capitato a tiro ed ero coercibile? Erano tutti questi fattori, o nessuno di lo-ro?

«Che mi rispondi?», gridai. «Hai una risposta da darmi?»

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Sentii un pugno nello stomaco ed un subitaneo capogiro, mentre la stan-za girava, svaniva, poi restava lì, e vidi Jurt dall'altra parte del Disegno, con la grossa porta alle sue spalle.

«Come hai fatto?», urlò. «Non sono stato io,» replicai. «Oh!» Costeggiò lentamente sulla destra finché non arrivò al muro. Mantenen-

do il contatto con la parete, cominciò a spostarsi verso la periferia del Di-segno, come se temesse di avvicinarsi troppo o di allontanare lo sguardo.

Da quella parte riuscivo a vedere Coral più chiaramente dentro al suo cerchio fiammeggiante. Divertente! Non c'era un grosso coinvolgimento sentimentale! Non eravamo amanti, e nemmeno amici stretti. Ci eravamo conosciuti soltanto il giorno prima, avevamo fatto una lunga passeggiata insieme, avevamo visitato i sotterranei della città e del castello, avevamo mangiato insieme, bevuto un drink, e scambiato qualche risata. Se ci fos-simo conosciuti meglio, forse avremmo scoperto che non potevamo fare a meno l'uno dell'altro. Eppure avevo tratto piacere della sua compagnia, e mi resi conto che volevo avere il tempo di conoscerla meglio. In un certo senso mi sentivo responsabile della sua attuale situazione, per aver contri-buito con la mia negligenza. In altre parole, il Disegno mi teneva in suo potere. Se volevo che la liberasse, dovevo ripararlo.

Le fiamme si abbassarono e poi si rialzarono nella mia direzione. «È uno sporco trucco!», dissi forte. Le fiamme annuirono nuovamente. Continuai a studiare il Disegno Interrotto. Quasi tutto quello che sapevo

sul fenomeno l'avevo appreso casualmente dalla conversazione fatta con Jastra. Ma ricordai che mi aveva detto che gli Iniziati al Disegno Interrotto lo percorrevano camminando tra le linee, mentre l'immagine del Gioiello mi aveva detto di percorrere direttamente le linee, come avrei fatto nor-malmente con il Disegno stesso. La cosa aveva un senso, come ricordai in base al racconto di mio padre. Sarebbe servito a disegnare il giusto percor-so attraverso le interruzioni. Un'iniziazione approssimativa tra le linee non era esattamente quello che stavo cercando.

Jurt arrivò dall'altra parte del Disegno, si voltò, e cominciò a venirmi in-contro. Quando arrivò all'altezza di un punto di interruzione nella linea e-sterna, da esso fluì una luce che si propagò sul pavimento. La faccia che fece fu spettrale, quando venne sfiorato ad un piede. Urlò e cominciò a dis-solversi.

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«Fermati!», urlai. «O dovrai trovarti qualcun altro che ti ripari! Ristabili-scilo e lascialo andare, oppure non lo farò! Dico sul serio!»

Le gambe di Jurt, che si erano ritirate, tornarono alla loro lunghezza normale. Il fiotto incandescente bianco-azzurro che si era propagato nel suo corpo venne ritirato, mentre la luce defluiva da lui. L'espressione di dolore lasciò il suo viso.

«So che è un fantasma del Logrus,» dissi, «e che è stato fatto sul model-lo del mio parente meno preferito, ma lascialo stare, figlio di puttana, al-trimenti non ti percorrerò! Puoi tenerti pure Coral e rimanere rotto!»

La luce ritornò nella zona di interruzione, e le cose tornarono com'erano prima.

«Voglio una promessa,» dissi. Una gigantesca scia fiammeggiante si alzò dal Disegno Interrotto fino al

soffitto della camera, poi ricadde giù. «Lo interpreto come una risposta affermativa,» disse. Le fiamme fecero segno di sì. «Grazie,» udii che mormorava Jurt.

8. E così cominciai il percorso. La linea nera mi provocava delle sensazioni

diverse da quelle che mi davano le linee luminescenti del Disegno di Am-bra. I miei piedi si muovevano come se stessero calpestando un terreno morto, anche se sentivo una forza d'attrazione ed un crepitio non appena li sollevavo da terra

«Merlin!», gridò Jurt. «Che dovrei fare?» «Che vuoi dire?», gli risposi, sempre urlando. «Come faccio ad uscire di qui?» «Esci dalla porta e comincia lo spostamento d'Ombra,» dissi, «oppure

seguimi in questo Disegno e fatti mandare dove vuoi.» «Non credo che lo spostamento d'Ombra sia possibile, così vicino ad

Ambra: non credi?» «Forse siamo troppo vicini. Perciò allontanati con il corpo, e poi prova-

ci.» Continuai a spostarmi. Adesso si udivano dei piccoli rumori crepitanti

non appena alzavo i piedi. «Mi perderei nelle grotte, se ci provassi.» «Allora seguimi.»

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«Il Disegno mi distruggerà.» «Ha promesso di non farlo.» Rise sguaiatamente. «E tu ci credi?» «Se vuole che il lavoro sia fatto bene, non ha altra scelta.» Arrivai alla prima interruzione. Una rapida consultazione del Gioiello mi

mostrò dove doveva trovarsi la linea. Con una certa trepidazione feci il mio primo passo oltre il segno visibile. Poi un altro. Ed un altro. Volevo girarmi, quando finalmente trovai il buco. Allora attesi che la naturale cur-vatura del mio tracciato me ne permettesse la vista. Arrivato là, vidi che tutta la linea che avevo percorso fino a quel momento aveva cominciato a brillare, come il vero Disegno. Sembrava che la luminescenza che era af-fluita fosse stata assorbita al suo interno, scurendo l'area di terreno intersti-ziale. Jurt era arrivato vicino all'inizio.

I nostri sguardi si incrociarono. «Non so, Merlin...», mi disse. «Non so proprio.» «Il Jurt che conoscevo non avrebbe avuto abbastanza fegato per provar-

ci,» gli dissi. «Non ce l'ho nemmeno io.» «Come tu stesso hai ricordato, nostra madre l'ha fatto. Potresti avere i

suoi geni. Al diavolo! Se mi sbaglio, sarà finita prima che tu te ne accor-ga.»

Feci un altro passo. Udii una risata senza allegria. Poi, «Al diavolo!» disse anche lui, e mise il piede sulla linea. «Ehi, sono ancora vivo!», gridò. «E adesso?» «Continua ad avanzare,» dissi. «Seguimi e non fermarti. E non lasciare

la linea, altrimenti sono guai.» Poi il percorso girò nuovamente: lo seguii e persi di vista Jurt. Mentre

procedevo, mi accorsi di sentire un dolore alla caviglia destra: doveva es-sere il risultato di tutte le scarpinate e le arrampicate che avevo fatto, pen-sai. Aumentava ad ogni passo: bruciava, e poi divenne insopportabile. Mi ero forse rotto un legamento? Avevo...

Ma certo! Adesso sentivo l'odore del cuoio bruciato. Misi la mano dentro lo stivale e tirai fuori il pugnale del Caos. Irradiava

calore. Quella vicinanza al Disegno lo stava influenzando. Non avrei più potuto tenerlo con me ancora per molto.

Piegai il braccio e lanciai l'arma sopra al Disegno, nella direzione che stavo seguendo, vale a dire dove si trovava la porta, dall'altra parte della

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stanza. Il mio sguardo seguì automaticamente il suo passaggio. Ci fu un leggero movimento tra le ombre verso cui volò. C'era un uomo lì, che mi fissava. Il pugnale colpì il muro e cadde sul pavimento: allora l'uomo si chinò e lo raccolse. Sentii una risata soffocata. Fece un movimento im-provviso, e il pugnale ritornò con una traiettoria ad arco nella mia direzio-ne.

Atterrò davanti a me, sulla destra. Non appena entrò in contatto con il Disegno, venne inghiottito da una fontana di fiamme blu, che schizzarono oltre l'altezza della mia testa, crepitando e sfrigolando. Socchiusi gli occhi e rallentai, anche se sapevo che non mi avrebbe arrecato un danno perma-nente, poi continuai a camminare. Avevo raggiunto il lungo arco frontale dove si doveva procedere lentamente.

«Resta sulla linea,» urlai a Jurt. «Non preoccuparti di queste cose.» «Ho capito,» disse. «Chi è quel tizio?» «Miseria ladra se lo so!» Mi spinsi avanti. Adesso ero più vicino al cerchio di fuoco. Mi chiesi se

la ty'iga avrebbe pensato alla mia attuale situazione. Seguii un'ennesima svolta e riuscii a scorgere dietro di me una parte considerevole del Disegno che avevo percorso. Stava brillando regolarmente, e Jurt avanzava deciso, muovendosi come avevo fatto io, con le fiamme che adesso gli salivano ol-tre le caviglie. A me avevano quasi superato le ginocchia. Con la cosa del-l'occhio vidi un movimento nella zona della camera in cui si trovava lo sconosciuto.

L'uomo uscì dalla sua alcova di ombre, lentamente, con circospezione, dirigendosi verso la lontana parete. Almeno non sembrava interessato ad entrare nel Disegno. Andò verso un punto che si trovava quasi all'esatto opposto dell'inizio del percorso.

Non avevo altra scelta che andare avanti, e questo fece si che m'inoltras-si in curve e giravolte che lo fecero uscire dal mio campo visivo. Incontrai un'altra interruzione nel Disegno e, quando l'attraversai, percepii che si ri-compattava. Mi parve di sentire una musica appena udibile mentre lo fa-cevo. Anche il ritmo del flusso dell'area illuminata parve aumentare, men-tre il getto fluiva nelle linee, disegnando un tracciato lucente e molto nitido al mio passaggio. Urlai un breve consiglio a Jurt, che era rimasto diversi giri indietro, sebbene il percorso che aveva scelto lo portasse a momenti alla mia stessa altezza o abbastanza vicino da raggiungerlo in caso si fosse presentata la necessità.

Le fiamme azzurre adesso erano più alte: raggiungevano mezza altezza,

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ed i miei capelli si erano sollevati. Cominciai una lenta serie di giravolte. Sovrastando i crepitii e la musica, chiesi: Come stai, Frakir? Non ci fu ri-sposta.

Svoltai, avanzando in una zona di alta resistenza, poi ne uscii, ritrovan-domi davanti il muro fiammeggiante della prigione di Coral, lì al centro del Disegno. Non appena cominciai a girarvi intorno, l'altra parte del Dise-gno apparve lentamente alla vista.

Lo sconosciuto era lì in attesa, con il bavero del mantello sollevato. Tra le ombre che giocavano sul suo viso, mi accorsi che la sua bocca era atteg-giata ad un ghigno. Rimasi sorpreso dal fatto che si trovasse al centro del Disegno — a guardarmi avanzare, presumibilmente in mia attesa — finché non compresi che era entrato a causa di un'interruzione del Disegno che dovevo ancora riparare.

«Tra breve dovrai andartene fuori dai piedi,» gridai. «Non posso fer-marmi, e non posso permettermi di essere fermato da te!»

Non si mosse di un millimetro, ed allora ricordai che mio padre mi ave-va raccontato di una lotta che aveva dovuto sostenere nel Disegno origina-rio. Misi una mano sull'elsa di Grayswandir.

«Sto arrivando,» dissi. Al passo successivo, le fiamme bianco-azzurre diventarono ancora più

alte, e alla loro luce riuscii a vedere il suo volto. Era il mio. «No!», dissi. «Sì!», disse lui. «Tu sei l'ultimo dei fantasmi del Logrus con cui debbo misurarmi.» «Vero!», replicò. Feci un altro passo. «Però,» osservai, «se tu sei una mia ricostruzione che risale all'epoca in

cui percorsi il Logrus, perché batterti con me proprio qui? Il me stesso che ricordo di essere stato a quei tempi non si sarebbe assunto un compito co-me questo.»

Il suo ghigno scomparve. «Non sono te in quel senso,» dichiarò. «L'unico modo per farlo accadere

come deve essere, da quel che capisco, era sintetizzare in qualche modo la mia personalità.»

«Perciò tu sei me con una lobotomia e l'ordine di uccidere.» «Non dire così,» mi rispose. «Lo fai apparire sbagliato, mentre quello

che sto facendo è giusto. Abbiamo perfino molti ricordi in comune.» «Lasciami passare e poi parlerò con te. Penso che il Logrus si sia in-

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guaiato con le sue stesse mani, con questa trovata. Tu non vuoi uccidere te stesso, e non lo voglio nemmeno io. Insieme potremmo vincere questa par-tita, e c'è posto per più di un Merlin nell'Ombra.»

Avevo rallentato, ma dovevo fare un altro passo. Non potevo permet-termi di perdere velocità proprio in quel punto.

Le sue labbra si restrinsero in una linea sottile, e lui scosse la testa. «Mi dispiace,» disse. «Sono stato generato per vivere un'ora soltanto a

meno che non ti uccida. Se lo faccio, la tua vita passerà a me.» Estrasse la lama. «Ti conosco meglio di quanto tu creda,» dissi, «che tu sia stato ristruttu-

rato o meno. Non credo che lo farai. Inoltre, io potrei essere in grado di modificare quella sentenza di morte. Ho imparato certe cosucce su come funzionate voi fantasmi...»

Allungò la lama, che somigliava ad una spada da me posseduta molto tempo addietro, e la sua punta fu sul punto di raggiungermi.

«Mi dispiace,» ripeté. Estrassi Grayswandir al solo scopo di difendermi. Sarei stato un pazzo a

non farlo. Non sapevo che razza di lavoretto aveva fatto il Logrus sul suo cervello. Riandai con la memoria alle tecniche della scherma che avevo studiato da quando ero diventato un iniziato al Logrus.

Sì. Il duello di Benedict e di Borel me lo aveva ricordato. Avevo preso alcune lezioni di scherma all'italiana, in seguito. Uno stile che consentiva delle parate più ampie, apparentemente più imprecise, ma compensate da una maggiore estensione. Grayswandir balenò, batté sul tempo l'altra lama all'esterno, e si protese. Il polso di lui si fletté in una parata di quarta alla francese, ma io gli ero già sotto, il braccio ancora dritto, il polso teso, e fe-ci scivolare il piede destro in avanti, sulla linea, mentre il taglio della mia lama si abbatteva violentemente contro il taglio della sua dall'esterno, ed io mi ritraevo immediatamente indietro con il piede sinistro, indirizzando la spada contro il suo corpo finché le nostre guardie non si chiusero e la mia lama non continuò la sua discesa in quella direzione.

E poi la mia mano sinistra attaccò l'interno del suo gomito destro, in una mossa che mi aveva insegnato un amico del College, Maestro di Arti Mar-ziali: zemponage, credo l'avesse chiamata. Mi abbassai premendo al tempo stesso verso il basso. Poi mi girai in senso antiorario. Lui perse l'equilibrio, cadendo verso la mia sinistra, ma non potevo permetterlo. Se fosse finito sul Disegno vero e proprio, avevo la divertente sensazione che sarebbe e-sploso come un fuoco d'artificio. Perciò continuai a spingere la mia lama

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per qualche altro centimetro, spostai la mano sulla spalla di lui, e poi lo spinsi, in modo da farlo cadere nell'area interrotta.

Allora sentii un urlo, ed una forma sfavillante mi passò sulla sinistra. «No!» gridai, cercando di afferrarla. Ma era troppo tardi. Jurt era uscito dalla linea, superandomi come un

razzo, conficcando la spada nel mio doppio anche se il suo corpo roteava e fiammeggiava. Il fuoco sgorgò anche dalla ferita del mio doppio che cercò inutilmente di rialzarsi, e ricadde.

«Non dirmi che non ti sono mai servito, fratello,» affermò Jurt prima di venire trasformato in una tromba d'aria che salì fino al soffitto, dove si di-leguò.

Non riuscii a protendermi sufficientemente per arrivare al mio doppio e, qualche secondo dopo, fui lieto di non averlo potuto fare, perché venne trasformato rapidamente in una torcia umana.

Aveva gli occhi sollevati verso l'alto, per seguire lo spettacolare trapasso di Jurt. Poi mi guardò e sorrise torvo.

«Aveva ragione, e tu lo sai,» disse, poi anche lui venne inghiottito. Ci misi un pò a superare l'inerzia, ma alla fine ci riuscii, riprendendo la

mia danza rituale intorno al fuoco. Questa volta non c'erano tracce dei due, anche se le loro spade erano rimaste dove erano cadute, incrociate, sul mio percorso. Le spinsi fuori dal Disegno con un calcio. Le fiamme mi erano arrivate alla vita.

Intorno, di dietro, sopra. Di tanto in tanto guardavo il Gioiello per evita-re passi falsi e, pezzo dopo pezzo, rimisi insieme il Disegno. La luce veni-va condotta lungo le linee e, a parte la fiamma centrale, somigliava sempre di più al Disegno del sotterraneo di casa nostra.

Il Primo Velo mi portò ricordi dolorosi delle Corti e di Ambra. Rimasi distaccato, tremando, ed essi passarono. Il Secondo Velo fuse ricordi e de-sideri a San Francisco. Controllai il respiro e finsi di essere un semplice spettatore. Le fiamme danzavano intorno alle mie spalle, ed allora pensai ad una serie di mezzelune mentre attraversavo arco dopo arco, curva e con-tro curva. La resistenza crebbe, finché non mi ritrovai completamente ma-dido di sudore per via della lotta. Ma avevo già fatto quella strada. Il Dise-gno non era soltanto intorno a me, ma anche dentro di me.

Avanzai, e raggiunsi il punto in cui le giravolte diminuivano e le distan-ze si accorciavano. Continuavo a vedere la dissoluzione di Jurt e la mia stessa faccia, nonostante sapessi che quel flusso di ricordi veniva indotto dal Disegno. Mi tormentavo ancora, quando mi spinsi più avanti.

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Una volta girai intorno lo sguardo, mentre mi avvicinavo alla Grande Curva, e vidi che adesso quel Disegno era stato completamente riparato. Avevo ricollegato tutti i punti di interruzione con delle linee di connessio-ne, ed adesso brillava come una Ruota di Caterina gelata contro un cielo nero e senza stelle. Un altro passo...

Toccai il caldo Gioiello che portavo al collo. Il suo rosso bagliore mi in-vestì il viso con più potenza di prima. Mi chiesi se c'era un modo facile per riportarlo al posto cui apparteneva. Un altro passo...

Alzai il Gioiello e lo contemplai. Vidi una mia immagine che completa-va il percorso della Grande Curva e proseguiva dritta in mezzo al muro di fuoco come se non rappresentasse nessun problema. Pur se considerai quella visione un suggerimento sul da farsi, mi tornò in mente un'abitudine di David Steinberg che Droppa aveva fatto sua. Mi augurai che il Disegno non amasse i giochi pratici.

Le fiamme mi avvilupparono completamente non appena cominciai la Curva. Passo dopo passo, mi stavo avvicinando dolorosamente all'Ultimo Velo. Riuscii a sentirmi trasformato in un fulcro di volontà pura, come se tutto ciò che ero si concentrasse su un unico fine. Un altro passo: era come se mi fossi liberato di una pesante armatura. Ma erano proprio gli ultimi tre passi che ti portavano sull'orlo della disperazione.

Ancora... Poi arrivò il momento in cui perfino il movimento divenne secondario

rispetto allo sforzo. Non erano più i risultati ad avere importanza, ma il tentativo. La mia volontà era la fiamma; il mio corpo, fumo o ombra...

E ancora... Viste alla luce del crescente bagliore azzurro, le fiamme arancioni che

circondavano Coral divennero lance incandescenti grigio-argento. In quel crepitio e scoppiettio, udii nuovamente una specie di musica... solenne, un adagio, qualcosa di vibrante e profondo come il basso di Michael Moore. Cercai di seguire il ritmo, di muovermi con esso. Poi mi parve in un certo senso di esserci riuscito — o forse il mio senso del tempo si era distorto — mentre muovevo con una specie di fluidità i successivi passi.

O forse il Disegno sentiva di dovermi un favore, ed aveva diminuito qualche battito. Non lo saprò mai.

Passai attraverso l'Ultimo Velo, affrontai il muro di fiamme, improvvi-samente di nuovo arancioni, e continuai ad andare avanti. Il respiro succes-sivo lo feci nel cuore del fuoco.

Coral era sdraiata lì, al centro del Disegno, bella come la ricordavo l'ul-

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tima volta che l'avevo vista — con una camicia color rame e calzoncini verde scuro — a parte il fatto che sembrava addormentata, adagiata sul suo pesante mantello marrone. Piegai il ginocchio destro accanto a lei, e le po-sai una mano sulle spalle. Non si mosse minimamente. Le scansai dalla guancia una ciocca di capelli rossi, ed accarezzai diverse volte quella guancia.

«Coral?», chiamai. Nessuna risposta. Le rimisi la mano sulle spalle, scuotendola gentilmente. «Coral?» Emise un profondo respiro e poi lo riemise, ma non si svegliò. La scossi con più decisione. «Svegliati, Coral!» Le passai un braccio sotto le spalle, sollevandole il busto. I suoi occhi

non si aprirono. Ovviamente doveva essere sotto l'influsso di una specie di Incantesimo. Il centro del Disegno non era il posto più indicato per evoca-re il Segno del Logrus, a meno che non volessi farmi incenerire. Perciò provai il rimedio tipico dei libri di favole. Mi sporsi verso di lei e la baciai. Allora emise un piccolo gemito profondo, e le sue palpebre sbatterono, ma non riprese i sensi. Ci riprovai: stesso risultato.

«Maledizione!», esclamai. Volevo un pò di spazio per poter lavorare su un Incantesimo come quello, un posto in cui potessi usare i miei ferri del mestiere e chiamare la fonte dei miei poteri senza rischio.

La sollevai maggiormente ed ordinai al Disegno di riportarci nel mio appartamento di Ambra, dove la sorella, posseduta dalla ty'iga, dormiva in uno stato di particolare trance — opera di mio fratello — allo scopo di pro-teggermi da lei.

«Portaci a casa,» dissi con enfasi. Non accadde niente. Allora ricorsi ad una potente visualizzazione e provai ancora con un co-

mando mentale. Non ci muovemmo di un millimetro. Adagiai Coral dolcemente, mi alzai in piedi, e fissai lo sguardo sul Dise-

gno, su una zona che riuscii a individuare oltre il cerchio di fiamme. «Senti,» gli dissi, «ti ho appena fatto un grosso favore che mi ha fatto fa-

ticare parecchio ed ha implicato un notevole rischio. Adesso voglio che mi porti immediatamente fuori di qui insieme alla signora. Vuoi cortesemente eseguire?»

Le fiamme si abbassarono e, per qualche istante, si spensero. Nella di-

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minuita luce che seguì, mi accorsi che il Gioiello stava pulsando, come la luce spia del telefono di un albergo. Lo presi in mano e vi scrutai dentro.

Non mi aspettavo di certo di vedervi una faccia a raggi X, ma era pro-prio al dottore che stava giocando.

«Credo di stare ricevendo su un canale sbagliato,» dissi. «Se hai un mes-saggio da comunicarmi, indicamelo. Oppure fammi andare a casa.»

Non cambiò niente, a parte il fatto che mi resi conto di una forte somi-glianza tra le due figure riflesse nel Gioiello e me e Coral. Ce la stavamo mettendo tutta per arrivare a quello che mi sembrò il centro di un Disegno, in fiamme ed estendentesi all'infinito: una specie di versione più piccante della vecchia etichetta della scatola del sale, mi parve, se potevano vedere dentro il Gioiello che l'uomo stava portando addosso...

«Basta!», urlai. «È assolutamente ridicolo! Vuoi un rituale tantrico? Ti manderò dei professionisti! La signora non è nemmeno sveglia...»

Il Gioiello pulsò di nuovo, con una tale intensità che mi ferì gli occhi. Lo lasciai cadere, poi mi inginocchiai, tirai su Coral e rimasi in piedi.

«Non so se qualcuno ti ha mai percorso a ritroso, prima d'ora,» dissi, «ma non vedo perché non dovrebbe funzionare.»

Feci un passo in direzione dell'Ultimo Velo. Immediatamente, davanti a me si sollevò il muro di fiamme. Incespicai nel ritirarmi, e caddi sul man-tello spiegato. Tenni stretta a me Coral per non farla finire nel fuoco. Mi cadde addosso. Sembrava quasi che si fosse svegliata...

Le sue braccia mi passarono intorno al collo e, in un certo senso, mi si strofinò su una guancia. Adesso sembrava più insonnolita che in stato co-matoso. La tenni stretta e ci pensai su.

«Coral?», ritentai. «Mm...», disse. «Sembra che l'unico modo per uscire da qui sia fare l'amore.» «Credevo che non me lo avresti mai chiesto,» farfugliò, con gli occhi

ancora chiusi. Il che lo fece apparire un pò meno necrofilo, mi dissi, mentre giravo i

nostri corpi di fianco in modo da poter arrivare a quei bottoni di rame. Di-venne leggermente più loquace mentre la spogliavo, anche se i suoi mugo-lii non somigliavano molto ad una conversazione. Però il suo corpo non restò insensibile alle mie attenzioni, e l'incontro assunse ben presto le con-suete caratteristiche, troppo normali per interessare i più esigenti. Sembra-va un modo interessante di rompere un Incantesimo. Forse il Disegno ave-va il senso dell'umorismo. Non so.

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Le fiamme si spensero nello stesso momento in cui si consumarono le micce, per dirla così. Gli occhi di Coral finalmente si aprirono.

«Sembra che questo abbia risolto il problema del cerchio di fuoco,» le dissi.

«Quando ha smesso di essere un sogno?», mi chiese. «Ottima domanda,» risposi, «ma solo tu puoi rispondere.» «Mi hai forse liberata da qualcosa?» «Mi sembra il modo più semplice di metterla,» risposi, mentre lei ri-

prendeva qualcosa e posava lo sguardo sulla camera. «Vedi dove ti ha por-tato quando hai chiesto al Disegno di mandarti dove dovevi andare?», le dissi.

«Mi ha fregato,» rispose. «Esattamente.» Ci separammo e ci sistemammo i vestiti. «È un bel modo di approfondire la conoscenza...», avevo cominciato a

dire, quando la grotta venne scossa da una potente scossa tellurica. «Il tempo è davvero scaduto da queste parti,» commentai, mentre veni-

vamo sballottati su e giù e ci aggrappavamo l'un l'altro per trovare confor-to, se non sostegno.

Finì in un secondo, ed il Disegno tornò a risplendere con una lucentezza mai vista prima. Scossi la testa e mi stropicciai gli occhi. C'era qualcosa di sbagliato, anche se tutto sembrava perfettamente in ordine. Poi la grossa porta di metallo si aprì — all'interno! — e mi accorsi che eravamo nuo-vamente ad Ambra, la vera Ambra. Il mio tracciato luminoso conduceva ancora fino alla soglia, anche se stava svanendo in fretta, e su di esso c'era una piccola figura. Prima ancora di riuscire a socchiudere gli occhi per di-fenderli dalla luminosità del corridoio, provai un familiare senso di diso-rientamento, e ci ritrovammo nella mia camera da letto.

«Nayda!», esclamò Coral, quando vide la persona adagiata sul mio letto. «Non esattamente,» dissi. «Voglio dire che quello è il suo corpo, ma lo

spirito che lo anima è di diversa natura.» «Non capisco.» Stavo pensando intensamente alla persona che era stata sul punto di in-

vadere i confini del Disegno. Ero anche una massa di muscoli doloranti, di nervi urlanti e di vari veleni. Andai verso il tavolo dove avevo lasciato la bottiglia di vino che avevo aperto per Jastra — quanto tempo prima? — e che era ancora lì. Trovai anche due bicchieri puliti. Li riempii, e ne passai uno a Coral.

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«Tua sorella stava molto male prima del viaggio, vero?» «Sì,» mi rispose. Feci un'ampia sorsata. «Stava per morire. In quel momento il suo corpo venne posseduto da

uno spirito ty'iga — una specie di Demone — poiché a Nayda non sarebbe più servito.»

«Che vorresti dire?» «Intendo dire che è morta veramente.» Coral mi fissò negli occhi. Non trovò quello che cercava, così bevve del-

l'altro vino. «Lo sapevo che qualcosa non andava,» disse. «Non è più stata lei dalla

malattia.» «Era diventata antipatica? Sfuggente?» «No, molto più gentile. Nayda era una vera maledizione.» «Non andavate molto d'accordo?» «Non fino a poco tempo fa. Non sta soffrendo, vero?» «No, sta semplicemente dormendo. È sotto un Incantesimo.» «Perché non la liberi? Non mi sembra pericolosa.» «Adesso non credo che lo sia. È il contrario, in realtà,» dissi, «e la libe-

reremo presto. Ma dovrà farlo mio fratello Mandor. L'Incantesimo è suo.» «Mandor? Non so molto sul tuo conto — né su quello della tua famiglia

— non è vero?» «No,» dissi, «e viceversa. Ascolta: non so neanche che giorno è.» Attra-

versai la stanza e scrutai fuori dalla finestra. Era giorno. Ma era nuvoloso, e non riuscii a determinare l'ora. «C'è qualcosa che dovresti fare subito. Vai da tuo padre e digli che stai bene. Raccontagli che ti sei persa nelle grotte o che hai preso una strada sbagliata nel Corridoio degli Specchi e ti sei ritrovata in un altro piano di esistenza. Inventati quello che ti pare. Bi-sogna evitare incidenti diplomatici: d'accordo?»

Finì il suo vino ed annuì con la testa. Poi mi guardò, arrossì e si girò dal-l'altra parte.

«Ci riincontreremo prima che io riparta, vero?» Allungai una mano e le toccai la spalla, senza capire quali fossero i miei

veri sentimenti. Poi mi resi conto che così non andava: allora mi avvicinai a lei e l'abbracciai.

«Lo sai,» le dissi, accarezzandole i capelli. «Grazie per avermi mostrato la città.» «Lo rifaremo,» le dissi, «non appena diminuirà la tensione.»

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«Uh-huh.» Ci avviammo alla porta. «Voglio rivederti presto,» mi disse. «Mi sento a pezzi,» le risposi, mentre aprivo. «Sono stato all'inferno e

sono tornato.» Mi sfiorò una guancia. «Povero Merlin,» mi disse. «Dormi bene.» Inghiottii il resto del vino e presi i miei Trionfi. Volevo seguire il suo

consiglio, ma prima c'erano degli obblighi prioritari. Cercai la carta del Timone Fantasma, l'estrassi dal mazzo e la guardai.

Quasi subito, con un minimo calo di temperatura ed un desiderio appena accennato da parte mia, mi comparve davanti il Timone Fantasma: un cer-chio rosso che girava in mezzo all'aria.

«Uh, salve, Paparino,» disse. «Mi chiedevo dov'eri finito. Quando sono tornato nella grotta, eri scomparso, e nessuna delle mie procedure di sche-datura-Ombre è riuscita a farti riuscire fuori. Non mi è venuto in mente che potevi essere semplicemente tornato a casa. Io...»

«Dopo,» dissi. «Ora vado di fretta. Portami subito nella camera del Di-segno.»

«Prima c'è qualcosa che dovrei dirti.» «Cosa?» «Quella forza che ti ha seguito alla Fortezza, quella dalla quale ti na-

scondevi nella grotta...?» «Sì?» «Era il Disegno che ti stava cercando.» «L'ho capito,» dissi, «dopo. Abbiamo avuto il nostro incontro, e per il

momento ci siamo messi d'accordo. Portami subito laggiù: è importante!» «Signore, ho paura di quella cosa.» «Allora portami il più vicino possibile e fatti da parte. Devo controllare

una cosa.» «Benissimo. Vieni da questa parte.» Feci un passo avanti. Fantasma si alzò in aria, ruotò di novanta gradi

verso di me, e si abbassò velocemente, superando la mia testa, le spalle, il torso, e svanendo sotto i miei piedi. In quel momento le luci si spensero, ed allora evocai istantaneamente la mia Visione del Logrus. Mi mostrò che mi trovavo in un corridoio al di fuori della grande porta che dava sulla ca-mera del Disegno.

«Fantasma?», mormorai.

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Nessuna risposta. Mi mossi, girai l'angolo, mi avvicinai alla porta e mi ci appoggiai. Era

ancora aperta e, sotto la mia spinta, cedette. Frakir pulsò sul mio polso. «Frakir?» domandai. Nessuna risposta nemmeno da lui. «Hai perso la voce?» Due pulsazioni. L'accarezzai. Non appena la porta si aprì, fui certo che il Disegno era diventato più

luminoso. Ma la mia osservazione passò subito in secondo piano. Al cen-tro del Disegno c'era una donna dai capelli neri con la schiena voltata e le braccia sollevate. Quasi gridai il suo nome. Credevo che potesse rispon-dermi, ma era scomparsa prima che il mio sistema vocale riuscisse ad en-trare in funzione. Mi appoggiai pes"antemente al muro.

«Mi sento davvero usato,» dissi forte. «Mi hai preso in giro, hai messo in pericolo la mia vita più di una volta, mi hai obbligato a soddisfare il tuo voyeurismo metafisico, poi mi hai dato un bel calcio dopo aver ottenuto l'ultima cosa che volevi: una lucentezza un pò più forte. Immagino che gli Dei, o le Potenze, o quello che diavolo siete, non siano obbligati a dire 'Grazie', o 'Mi dispiace', o 'Và all'inferno', quando hanno finito di usare qualcuno. E, ovviamente, tu non senti alcuna necessità di darmi una spie-gazione. Bè, non sono una carrozzina per bambini. Non mi piace essere trasportato avanti e indietro da te e dal Logrus, qualsiasi gioco stiate gio-cando. Come ti sentiresti se mi aprissi una vena e sanguinassi su di te?»

Immediatamente si verificò una grossa coalescenza di energie dalla parte del Disegno in cui mi trovavo. Con un forte suono sibilante, una torre di fiamme azzurre si sollevò davanti a me, si allargò, poi assunse i lineamenti asessuati di un'enorme bellezza inumana. Dovetti coprirmi gli occhi per di-fendermi.

«Tu non capisci,» si udì dire da una voce modulata nel ruggito delle fiamme.

«Lo so. È per questo che sono qui.» «I tuoi sforzi sono stati apprezzati.» «Sono lieto di sentirlo.» «Non c'era altro modo per condurre le cose.» «Bè, sono state condotte in modo per voi soddisfacente?» «Lo sono state.» «Allora sei la benvenuta, credo.» «Sei un insolente, Merlin.»

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«Per come mi sento adesso, non ho niente da perdere. Sono troppo ma-ledettamente stanco per preoccuparmi di cosa potresti farmi. Perciò sono sceso quaggiù per dirti che credo tu mi debba un grosso favore. Tutto qui.»

Poi le voltai la schiena. «Nemmeno Oberon ha osato rivolgersi a me in questo modo,» disse. Feci spallucce e mossi un passo verso la porta. Non appena rimisi giù il

piede, mi ritrovai nel mio appartamento. Alzai nuovamente le spalle, poi andai a spruzzarmi dell'acqua sulla fac-

cia. «Stai sempre bene, Pà?» C'era un anello intorno alla tazza. Si alzò in aria e mi seguì avanti e in-

dietro nella stanza. «Sto bene,» ammisi. «E tu?» «Bene. Mi ha ignorato completamente.» «Sai che cosa ha in mente?» «Sembra che stia lottando con il Logrus per il controllo dell'Ombra. Ed

ha appena vinto un round. Qualsiasi cosa sia successa, deve averlo raffor-zato. Tu c'entri in qualche modo, vero?»

«Vero.» «Dov'eri quando ti ho lasciato nella grotta dove ti ho portato?» «Conosci una terra che si trova tra le Ombre?» «In mezzo? No. Non ha senso.» «Bè, ero lì.» «E come ci sei arrivato?» «Non lo so. Con notevole difficoltà, credo. Mandor e Jastra stanno be-

ne?» «L'ultima volta che li ho visti sì.» «E Luke?» «Non avevo alcun motivo di cercarlo. Vuoi che lo faccia?» «Non ora. Adesso voglio che tu vada di sopra a dare un'occhiata nella

suite reale. Voglio sapere se al momento è occupata. E, se lo è, da chi. Vo-glio anche che tu controlli il caminetto nella stanza da letto. Guarda se c'è una pietra divelta sulla destra, se è stata sostituita con un'altra o se è ancora sul camino.»

Scomparve, ed allora cominciai a camminare. Avevo paura di sedermi o di sdraiarmi sul letto: avevo la sensazione che, se mi fossi addormentato, mi sarebbe stato difficile svegliarmi. Ma Fantasma rispuntò fuori prima che avessi fatto molti chilometri.

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«La Regina Vialle, è presente,» disse, «e si trova nel suo studio, la pietra divelta è stata sostituita, e c'è un nano nel corridoio che sta bussando alla porta.»

«Maledizione!», dissi. «Allora sanno che è scomparso. Un nano?» «Un nano.» Sospirai. «Credo che farò meglio a salire di sopra, a restituire il Gioiello ed a cer-

care di spiegare quello che è accaduto. Se a Vialle piacerà la mia storia, potrebbe dimenticare di parlarne con Random.»

«Ti trasferirò di sopra.» «No, non sarebbe molto intelligente. E nemmeno educato. È meglio che

bussi alla porta e che mi faccia annunciare, questa volta.» «Come sa la gente quando deve bussare e quando entrare?» «Ih generale, se la porta è chiusa, si bussa sempre.» «Come sta facendo il nano?» Udii un debole bussare all'esterno. «Sta forse bussando a tutte le porte indiscriminatamente?», chiesi. «Bé, le sta provando in successione, perciò non saprei se si può dire in-

discriminatamente. Fino adesso, tutte le porte che ha provato si aprivano su stanze vuote. Dovrebbe raggiungere la tua tra circa un minuto.»

Andai alla porta, l'aprii e rimasi ad aspettare sul corridoio. Ero quasi certo che stava arrivando un piccoletto. Guardò dalla mia parte

non appena aprii la porta, e mi sorrise sotto la barba mostrando i denti e venendo verso di me.

Fu subito evidente che era gobbo. «Mio Dio!», dissi. «Tu sei Dworkin, non è vero? Il vero Dworkin!» «Credo di sì,» mi rispose, con una voce non sgradevole. «E mi auguro

che tu sia il figlio di Corwin, Merlin.» «Sono io.» dissi. «È un piacere inconsueto che arriva in un momento in-

solito.» «Non è un incontro ufficiale,» dichiarò, avvicinandosi ed afferrandomi

la mano ed una spalla. «Ah! Sono questi i tuoi alloggi!» «Sì. Non vuoi entrare?» «Grazie.» Lo feci entrare. Fantasma fece l'imitazione di una mosca sul muro, si ri-

dusse a circa un centimetro di diametro, e si sistemò sull'armadio fingendo di essere un raggio di sole. Dworkin fece una rapida ispezione nel soggior-no, poi lanciò un'occhiata alla camera da letto, fissò per un attimo Nayda, e

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mormorò: «È meglio non disturbare il Demone che dorme...» Quindi sfio-rò il Gioiello mentre tornava indietro e mi oltrepassava, scosse la testa in modo presago, e si lasciò cadere sulla sedia dove avevo temuto di addor-mentarmi.

«Ti andrebbe una tazza di vino?», gli domandai. Scosse la testa. «No, grazie,» rispose. «Sei stato tu a riparare il Disegno Interrotto più

vicino all'Ombra, vero?» «Sì.» «Perché lo hai fatto?» «Non avevo molta scelta.» «Farai meglio a raccontarmi tutto,» disse il vecchio, stropicciandosi la

sua barba spaventosa. Anche i capelli erano lunghi ed avrebbero avuto bi-sogno di una bella tagliata. Eppure, non c'era alcun segno di pazzia nel suo sguardo o nelle sue parole.

«Non è una storia semplice e, se devo restare sveglio abbastanza a lungo per raccontartela tutta, avrò bisogno di un buon caffé,» dissi.

Aprì le mani e, in mezzo a noi, apparve un tavolino con una tovaglia bianca, apparecchiato per due, con una bella caffettiera d'argento fumante sistemata su una candela piatta. C'era anche un vassoio di biscotti. Io non sarei riuscito ad evocare tutta quella roba così in fretta. Mi chiesi se Man-dor sarebbe stato in grado di farlo.

«In tal caso, ti farò compagnia,» disse Dworkin. Sospirai e versai il caffé. Alzai il Gioiello del Giudizio. «Forse sarebbe meglio se restituissi questo oggetto, prima di comincia-

re,» gli dissi. «Potrebbe risparmiarmi un mucchio di guai, più tardi.» Scosse la testa mentre facevo per alzarmi. «Non credo,» affermò. «Se adesso te lo toglierai, probabilmente mori-

rai.» Mi rimisi seduto. «Panna e zucchero?», gli chiesi.

9. Ripresi coscienza lentamente. Quell'azzurro familiare nel quale ondeg-

giavo era il lago di una pre-esistenza. Oh, sì, ero lì perché... ero lì, come diceva la canzone. Mi girai sull'altro fianco entro la mia sacca del sonno, portai le ginocchia al petto e tornai a dormire.

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La seconda volta che ripresi coscienza e gli detti una rapida occhiata, il mondo era ancora un posto azzurro. Bello! C'è molto da dire, poi ricordai che Luke poteva venire per ammazzarmi in qualsiasi momento, e le mie di-ta si aggrapparono all'elsa della spada che avevo al fianco, ed affinai l'udi-to in cerca di eventuali segni di un suo imminente arrivo.

Avrei passato la giornata a scheggiare la parete della mia grotta di cri-stallo? mi chiesi. O forse Jastra sarebbe venuta a cercare un'altra volta di uccidermi?

Di nuovo? Qualcosa non andava. Erano accadute un mucchio di cose spaventose

che riguardavano Jurt, Coral, Luke e Mandor, e perfino Julia. Era stato tut-to un sogno?

Il panico andava e veniva, e poi il mio spirito vagante tornò, restituen-domi tutti i ricordi: allora sbadigliai, e tutto fu di nuovo a posto.

Mi stiracchiai e mi sollevai sulla schiena. Quindi mi stropicciai gli oc-chi.

Sì, ero di nuovo nella grotta di cristallo. No, tutto quello che era accadu-to da quanto Luke mi aveva imprigionato non era stato un sogno. Ero ri-tornato qui per scelta: (a) perché una buona notte di sonno in questa linea temporale avrebbe corrisposto ad un breve lasso di tempo ad Ambra, (b) perché qui nessuno avrebbe potuto disturbarmi contattandomi con un Trionfo, e (c) perché era possibile che perfino il Disegno ed il Logrus non sarebbero riusciti a rintracciarmi, quaggiù.

Scansai i capelli caduti sugli occhi, mi alzai e mi diressi al gabinetto. Era stata una buona idea farmi trasportare qui da Fantasma dopo il mio collo-quio con Dworkin. Avevo certamente dormito sodo per circa dodici ore senza nessuno a disturbarmi: il massimo. Bevvi un quarto di bottiglia d'ac-qua e mi lavai la faccia con quella che era rimasta.

Poi, dopo essermi rivestito ed aver riposto il pigiama nel guardaroba, mi diressi verso l'ingresso e mi misi sotto la luce che proveniva dalla galleria soprastante. Il pezzetto di cielo che riuscii a vedere era limpido. Potevo ancora sentire le parole di Luke quel giorno che mi aveva imprigionato qui ed avevo saputo che eravamo imparentati.

Scansai la camicia che nascondeva il Gioiello del Giudizio e lo tenni in alto di modo che la sua luce interna brillasse, e scrutai nelle sue profondità. Nessun messaggio questa volta.

Benissimo! Non ero nell'umore adatto per un traffico a doppio senso. Mi accomodai meglio in una posizione a gambe incrociate, continuando

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a guardare la pietra. Avevo tutto il tempo, adesso che mi sentivo riposato e nuovamente lucido. Come mi aveva suggerito Dworkin, in quella pozza rossa cercai il Disegno...

Dopo un pò cominciò a prender forma. Non apparve come se l'avessi vi-sualizzato, ma questo non era un esercizio di visualizzazione. Attesi che la struttura diventasse nitida. Non fu come se apparisse improvvisamente rea-le però, quanto piuttosto come se fosse stato sempre lì ed i miei occhi si stessero adattando a percepirlo adeguatamente. Probabilmente era andata proprio così.

Feci un respiro profondo e liberai l'aria. Ripetei l'operazione, poi comin-ciai a esaminare attentamente il Disegno. Non riuscivo a ricordare proprio tutto, di quello che mi aveva detto mio padre riguardo alla sintonizzazione con il Gioiello. Quando ne avevo parlato a Dworkin, mi aveva detto di non preoccuparmi, perché non dovevo fare altro che localizzare la versione tri-dimensionale del Disegno all'interno della pietra, trovare il suo punto di entrata, ed attraversarlo. Quando lo avevo sollecitato a fornirmi altri detta-gli, si era limitato a ridacchiare e mi aveva detto di non preoccuparmi.

Benissimo! Lo rigirai lentamente, avvicinandolo. Apparve una piccola interruzione,

in alto sulla destra. Quando mi concentrai su di essa, ebbi la sensazione che mi venisse addosso.

Andai in quel posto, e vi entrai. Fu una strana esperienza del tipo che si prova sulle montagne russe, muoversi lungo delle linee simili a quelle del Disegno all'interno della gemma. Andavo dove mi portava, a volte con una sensazione quasi viscerale di vertigine, altre volte spingendo con la forza della volontà contro le barriere rosse finché non cedevano: allora le risali-vo, cadevo, scivolavo, o andavo avanti. Persi in gran parte la consapevo-lezza del mio corpo e della mano che teneva in alto la catena, a parte il fat-to che avevo la coscienza di stare sudando profusamente, mentre il sudore mi irritava gli occhi con una certa regolarità.

Non ho idea di quanto tempo durò la mia sintonizzazione con Il Gioiello del Giudizio, la più alta ottava del Disegno. Dworkin aveva l'impressione che il Disegno mi volesse morto per altre ragioni, e non perché l'avessi fat-to arrabbiare dopo aver concluso la mia bizzarra ricerca ed aver riparato il più vicino dei Disegni Interrotti. Ma Dworkin si era rifiutato di dirmi le sue congetture, ammonendomi che, se avessi conosciuto le ragioni, una mia possibile scelta futura — che doveva essere fatta liberamente — pote-va essere influenzata. Tutto questo mi suonava alquanto assurdo, a parte il

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fatto che tutte le altre cose che mi aveva detto mi erano sembrate indiscuti-bilmente sensate, in contrasto con il Dworkin che avevo conosciuto dalla leggenda e dal sentito dire.

La mia mente si immerse e si innalzò nella pozza di sangue che era l'in-terno del Gioiello. I segmenti di Disegno che avevo attraversato e quelli che non avevo ancora percorso si spostavano intorno a me, lampeggiando come fulmini. Avevo la sensazione che la mia mente stesse per schiantarsi contro un velo invisibile e frantumarsi. Adesso non controllavo più i miei movimenti, che stavano accelerando. Non avevo modo, compresi, di riti-rarmi da quella cosa finché non avessi concluso il percorso.

Dworkin era convinto che, durante il nostro confronto, ero stato protetto dal Disegno, quando ero tornato a controllare la figura che avevo visto, proprio perché portavo il Gioiello. Ma non potevo continuare a portarlo a lungo, però, perché anche questo avrebbe potuto dimostrarsi fatale. Aveva deciso che dovevo sintonizzarmi con il Gioiello — come si erano armo-nizzati con lui mio padre e Random — prima di separarmene. In seguito, avrei portato dentro di me la sua immagine, che avrebbe dovuto funzionare come il Gioiello stesso difendendomi contro il Disegno. Non potevo met-termi a discutere con un uomo che si credeva avesse creato il Disegno u-sando il Gioiello. Perciò gli aveva detto di sì. Solo che ero troppo stanco per fare quello che mi aveva suggerito. Per questo motivo avevo chiesto a Fantasma di riportarmi nella mia grotta di cristallo, nel mio santuario, per riposare.

Adesso stavo fluttuando. Giravo. Ogni tanto andavo in stallo. Gli equi-valenti dei Veli del Gioiello non erano meno terribili perché mi ero separa-to dal corpo. Ognuno di quei passaggi mi lasciava distrutto come quando partecipavo ai mille metri ai tempi delle Olimpiadi. Anche se ad un livello sapevo che tenevo in mano il Gioiello e che esso mi consentiva l'iniziazio-ne, ad un altro potevo sentire il battito impazzito del cuore, e ad un altro ancora mi venne in mente una lettura di Joan Halifax per il corso di antro-pologia che stavo seguendo, anni prima.

L'ambiente girava come un Geyser Peak Merlot 1985 dentro un bicchie-re... e chi era che stavo guardando al tavolo davanti a me quella notte? Non aveva importanza. Avanti, su e giù. La marea illuminata di sangue se n'era andata. Un messaggio veniva scritto sul mio spirito. All'inizio era una pa-rola che non potevo pronunciare. Più lucente, sempre più lucente... Più ve-loce, sempre più veloce... Collisione con un muro rosso, ed io una macchia su di esso. Vieni ora, Shopenhauer, al gioco finale della volontà! Un'era o

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due vennero e passarono; poi, all'improvviso, la strada si aprì. Fui scara-ventato nella luce di una stella in esplosione. Rosso, rosso, rosso! Mi tra-scinava avanti, lontano, come la mia piccola barca Starbust: venivo sospin-to, espanso, facevo ritorno a casa...

Crollai. Anche se non persi conoscenza, il mio stato mentale non era normale. Si stava verificando un'ipnagogia, qualsiasi momento scegliessi, in qualsiasi direzione. Ma perché? Di rado sono il ricettacolo di una simile euforia. Sentivo di essermela guadagnata, perciò fluttuai laggiù, per un lungo, lungo tempo.

Quando finalmente scese sotto il livello che appagava il desiderio, cercai di rimettermi in piedi: barcollai, mi appoggiai al muro, poi mi sforzai di ar-rivare alla dispensa per bere dell'altra acqua. Avevo anche una fame mo-struosa, ma nessuno di quei cibi in scatola o surgelati mi attirava molto. Specialmente quando non era poi così difficile procurarsi cibi più freschi.

Ritornai in quelle camere familiari. Così avevo seguito il suggerimento di Dworkin: era un peccato che avessi voltato la schiena prima che mi ve-nisse in mente la lunga Usta di domande che volevo porgli. Quando mi ero girato di nuovo, se n'era andato.

Mi arrampicai. Una volta uscito dalla grotta, mi trovai sulla protuberan-za che dava accesso all'unica entrata che conoscevo. Era un mattino pri-maverile, ventilato e profumato, con delle piccolissime nuvole verso est. Respirai profondamente e con piacere, poi spostai la roccia azzurra che bloccava l'apertura. Non mi piaceva l'idea di essere sorpreso da un predato-re nel caso volessi ritornare nel mio santuario.

Mi levai il Gioiello del Giudizio e lo appesi su una sporgenza della roc-cia. Poi mi allontanai di circa dieci passi.

«Ciao, Papà.» Il Timone Fantasma era un frisbee dorato che giunse in volo da ovest. «Buon giorno, Fantasma.» «Perché stai abbandonando quel meccanismo? È uno degli strumenti più

potenti che abbia mai visto.» «Non lo sto abbandonando, ma sto per chiamare il Segno del Logrus, e

non credo che i due vadano molto d'accordo. Sono anche leggermente dif-fidente rispetto al comportamento del Logrus adesso che mi sono armoniz-zato con questo Disegno di ordine più alto.»

«Forse è meglio che me ne vada e che torni a vedere come stai più tar-di.»

«Rimani qui in giro,» dissi. «Forse potresti tirarmi fuori dai guai se se ne

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presentassero.» Poi evocai il Segno del Logrus, che arrivò e volteggiò davanti a me, ma

non successe niente. Trasferii parte della mia conoscenza nel Gioiello, vi-cino alla roccia, e tramite questo riuscii a percepire il Logrus da un'altra prospettiva.

Riportai il mio centro nel mio cranio, tesi le braccia nelle membra del Logrus, mi allungai...

In meno di un minuto ebbi in mano una frittella al latte, una fila di sal-sicce, una tazza di caffé ed un bicchiere di succo d'arancia.

«Avrei potuto procurarteli molto più in fretta di te,» osservò Fantasma. «Ne sono certo,» dissi. «Stavo solo facendo delle prove.» Mentre mangiavo, cercai di mettere a fuoco le priorità che mi aspettava-

no. Quando ebbi finito, rimandai i piatti da dove erano venuti, recuperai il Gioiello, me la appesi al collo e mi rialzai.

«Okay, Fantasma. È ora di tornare ad Ambra,» dissi. Si allargò, poi si aprì e si posò a terra, cosicché mi ritrovai davanti un

arco dorato. Entrai... ... ed ero di nuovo nei miei appartamenti. «Grazie,» dissi. «De nada, Paparino. Ascolta: ho da porti una domanda. Quando hai e-

vocato la colazione, hai notato qualcosa di strano nel comportamento del Logrus?»

«Che vuoi dire?», gli chiesi, mentre andavo a lavarmi le mani. «Cominciamo con le sensazioni fisiche. Ti è sembrato... appiccicoso?» «Strano modo di esprimersi!», dissi. «Ma, a dire la verità, mi è parso che

ci sia voluto più tempo del solito per distaccarmi. Perché me lo chiedi?» «Mi è appena venuta in mente una cosa particolare. Sai fare Magie con il

Disegno?» «Sì, ma sono più bravo con quelle del Logrus.» «Potresti provarle entrambe e metterle a confronto, se ti capita.» «Perché?» «Cominciano a venirmi dei presentimenti. Te lo dirò non appena avrò

verificato questo.» Fantasma era scomparso. «Maledizione!», dissi, e mi lavai la faccia. Guardai fuori dalla finestra, e vidi cadere dei fiocchi di neve. Presi una

chiave dal mio scrittoio: c'erano due cose che volevo risolvere immediata-mente.

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Uscii sul corridoio. Non avevo fatto molti passi, quando sentii un suono. Mi fermai ed ascoltai. Poi proseguii e superai le scale, con il suono che cresceva di volume mentre avanzavo. Quando ebbi raggiunto il lungo cor-ridoio che oltrepassava la biblioteca, seppi che Random era tornato, perché non conoscevo nessun altro che sapesse suonare la batteria in quel modo... o che avrebbe osato usare la batteria del Re.

Superai la porta semiaperta ed arrivai all'angolo, dove girai a destra. Il mio primo impulso era stato quello di entrare, restituirgli il Gioiello del Giudizio, e cercare di spiegargli tutto quello che era successo. Poi ricordai il consiglio di Flora: ogni cosa onesta, cristallina e nobile, avrebbe sempre creato dei guai ad Ambra. Mentre la detestavo per doverle riconoscere che aveva enunciato una valida regola generale, capivo che in questo caso par-ticolare sarei rimasto invischiato in una lunga serie di spiegazioni, mentre c'erano parecchie altre cose che volevo risolvere... ed era anche possibile che mi venisse ordinato di non farle proprio.

Proseguii fino all'entrata del soggiorno, dove feci un rapido controllo e stabilii che il posto era deserto. Bene! Dentro e a destra, come ricordavo, c'era un pannello scorrevole che mi avrebbe portato in una piccola sezione di muro vicino alla biblioteca, fornita di pioli o di una scala che mi avreb-be condotto, da un'entrata nascosta, nel balcone della biblioteca. Poteva anche portarmi di sotto per la scala a chiocciola nelle grotte sotterranee, se ricordavo bene. Mi augurai di non dover mai avere motivo di doverlo veri-ficare, ma in quei giorni ero così vicino alle tradizioni di famiglia che vo-levo fare un pò di spionaggio, visto che alcune frasi dette a mezza bocca che avevo udito mentre passavo davanti alla porta aperta mi avevano in-dotto a credere che Random non fosse solo. Se la conoscenza è il vero po-tere, allora avevo bisogno di tutto ciò su cui potevo mettere le mani, visto che mi sentivo particolarmente vulnerabile, almeno per un pò.

Sì, il pannello scorreva, e fui dentro in un attimo, risollevato nello spiri-to. Arrivai velocemente in cima, dove aprii lentamente e silenziosamente il pannello, sentendomi grato a chiunque avesse pensato di nascondere l'a-pertura con una sedia. Ero in grado di guardarmi intorno con sufficiente tranquillità, ed avevo una buona visuale del lato nord della stanza.

C'erano Random, che suonava, e Martin — tutto in pelle e catene — se-duto davanti a lui, che ascoltava. Random stava facendo qualcosa che non gli avevo mai visto fare prima: stava suonando con cinque bacchette. Ne aveva una nelle mani, una sotto ciascun braccio, ed una in mezzo ai denti. E, mentre suonava, le faceva roteare, muovendo quella che teneva in bocca

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per sostituire quella che aveva sotto il braccio destro, la quale a sua volta sostituiva quella che teneva nella mano destra, che egli aveva spostato nel-la mano sinistra, finita sotto il braccio sinistro, mentre quella sotto il brac-cio sinistro passava nella bocca, e il tutto senza perdere un solo colpo. Era ipnotizzante. Rimasi a guardarlo finché non ebbe finito il numero.

La sua vecchia apparecchiatura musicale non era di certo il sogno di un percussionista con il suo mondo di plastica traslucido, i piatti a puntale grandi quanto scudi da battaglia disposti intorno ai tamburi, una confusio-ne di tam-tam ed un paio di bassi, il tutto illuminato come il cerchio di fuoco di Coral. L'apparecchiatura di Random risaliva ad un'epoca in cui i tamburi diventavano sottili e nervosi, i bassi si restringevano, ed i piatti prendevano l'acromegalia e cominciavano a ronzare.

«Mai visto niente del genere!», sentii dire a Martin. Random alzò le spalle. «È solo un passatempo,» spiegò. «L'ho imparato da Freddie Moore, ne-

gli Anni '30, o al Victoria o al Village Vanguard, quando suonava con Art Hodes e Max Kaminsky. Ho scordato che posto era. Risale ai tempi del va-rietà, quando non c'erano microfoni e l'illuminazione era penosa. Doveva fare cose del genere, o vestirsi in modo strano, mi disse, per tenere sveglio il pubblico.»

«È un peccato che dovessero far contenta la massa in quel modo.» «Sì, nessuno di voi ragazzi si sognerebbe mai di vestirsi in modo strano

o di rompere gli strumenti.» Seguì il silenzio, e non riuscii in nessun modo a vedere l'espressione del-

la faccia di Martin. Poi: «Volevo dire un'altra cosa,» disse. «Sì, anch'io...», rispose Random. Quindi posò tre delle bacchette e ripre-

se a suonare. Mi appoggiai al muro ed ascoltai. Un minuto dopo venni sorpreso dal

suono di un sax che si era unito alla melodia. Quando guardai nuovamente nella stanza, vidi che Martin si era alzato in piedi, dandomi le spalle, e che stava suonando lo strumento. Doveva averlo sul pavimento o dietro alla se-dia. Aveva qualcosa di Richie Cole che mi piacque, e mi sorprese. Mi piacque a tal punto, che sentii che non appartenevo a quella stanza in quel momento, per cui tornai indietro, riaprii il pannello, lo oltrepassai e lo ri-chiusi.

Dopo essere ridisceso ed uscito di lì, decisi di tagliare per il soggiorno anziché ripassare davanti alla biblioteca. La musica mi seguì per un pò, e desiderai conoscere uno degli Incantesimi di Mandor per catturare i suoni e

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chiuderli nelle pietre preziose, anche se non sono sicuro di come l'avrebbe presa il Gioiello del Giudizio se gli avessi chiesto di ospitare Wild Man Blues.

Avevo pensato di passare per il corridoio est e di arrivare così dove in-crociava il corridoio nord, vicino ai miei appartamenti, di girare lì a sini-stra, e di prendere la scala che portava alla Suite Reale, bussare alla porta e restituire il Gioiello a Vialle, che speravo avrebbe creduto alle mie spiega-zioni. Anche se non ci avesse creduto, preferivo lo stesso spiegarmi con lei anziché con Random. Mi avrebbe risparmiato molte domande. Ovviamen-te, Random prima o poi mi avrebbe inchiodato. Ma era meglio poi.

Più tardi mi sarei diretto verso le stanze di mio padre, che stavo supe-rando proprio in quel momento. Mi ero portato la chiave per chiudermi dentro, per quelli che consideravo degli ovvi motivi. Però, visto che mi trovavo già là, avrei risparmiato del tempo. Aprii la porta ed entrai.

La rosa d'argento era sparita dal vaso tempestato di gemme posto sul comò. Strano! Feci un passo in quella direzione. Dall'altra camera proven-ne un rumore di voci, troppo basse per consentirmi di capire le parole. Ri-masi di sasso! Poteva benissimo essere lì, ma non è educato irrompere nel-la stanza da letto di qualcuno, specialmente quando ha compagnia... in par-ticolare poi se si tratta di tuo padre ed hai dovuto aprire con la chiave una porta che ti ha fatto entrare dove sei.

Improvvisamente ebbi una chiara consapevolezza. Volevo uscire di lì al più presto. Slacciai il cinturone della mia spada, sul quale era appesa Gra-yswandir in un fodero poco adatto a lei. Non avevo più il coraggio di por-tarla, così l'appesi ad un gancio infisso nel muro adiacente la porta, vicino ad un trench corto che prima non avevo notato. Poi scivolai fuori e richiusi la porta il più silenziosamente possibile.

Imbarazzante! Andava e veniva veramente con una certa regolarità, riu-scendo in qualche modo a non farsene accorgene? O era un fenomeno di tutt'altra natura, quello che si stava verificando nei suoi appartamenti? A-vevo sentito dire, una volta, che le stanze più vecchie avevano degli in-gressi sub specie spatium, se si era in grado di manovrarli, i quali forniva-no un notevole spazio extra ad uso ripostiglio, nonché un sistema privato di entrata e di uscita. Qualcun altro lo avrebbe chiesto a Dworkin. Forse avevo un universo tascabile sotto il letto: non avevo mai guardato.

Cambiai direzione e mi allontanai velocemente. Quando mi avvicinai al-l'angolo, rallentai. Dworkin era convinto che la presenza del Gioiello del Giudizio sulla mia persona mi avrebbe protetto dal Disegno, in caso questi

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avessi tentato di farmi del male. D'altra parte, il Gioiello, essendo troppo lungo, poteva ostacolare anche chi lo portava. Perciò mi aveva consigliato di riposare un pò e poi di far passare la mia mente attraverso la matrice della pietra, creando in quel modo dentro di me la registrazione di un più alto potere del Disegno stesso. Era un congettura interessante ma solo quello: una congettura.

Quando ebbi raggiunto il corridoio perpendicolare dove una svolta a si-nistra mi avrebbe condotto alla scala ed una svolta a destra alle mie came-re, esitai. Sulla sinistra, in diagonale, c'era un soggiorno, che rimaneva di fronte alle camere che Benedict usava raramente. Lo puntai, entrai, quindi mi sprofondai in una sedia messa in un angolo. Non desideravo altro che trattare con i miei amici, aiutare i miei amici, togliere il mio nome da qual-siasi lista che potesse occupare, trovare mio padre, e scendere a patti con la ty'iga addormentata. Poi avrei potuto pensare alla continuazione del mio interrotto Wanderjahr. Il che richiedeva che mi ponessi nuovamente l'or-mai quasi retorica domanda: «Quanta parte dei miei affari privati volevo far sapere a Random?»

Ripensai a lui nella biblioteca, mentre suonava insieme al figlio che for-se si era allontanato definitivamente. Capivo che una volta doveva essere stato uno spirito ribelle ed irrequieto, e che non aveva mai desiderato ve-ramente assumersi il compito di regnare su questo mondo archetipico. Ma la sua condizione di genitore, il matrimonio, e la scelta dell'Unicorno, sembravano averlo profondamente cambiato, maturando il suo carattere, credo, al prezzo della rinuncia a tutte le cose divertenti che aveva fatto nel-la vita. Al momento sembrava che avesse un mucchio di problemi con la faccenda di Kashfa Begma, e probabilmente avrebbe deciso di ricorrere al-l'assassinio ed avrebbe accettato di firmare un trattato non molto vantag-gioso per mantenere in equilibrio il gioco complesso di potere tra le forze politiche del Cerchio Dorato.

E chi poteva sapere quali altre trame venivano ordite altrove per procu-rargli altri guai? Volevo veramente coinvolgere quell'uomo in qualcosa che ero benissimo in grado di risolvere da solo, farlo preoccupare e metter-lo in agitazione? Se lo avessi reso partecipe dei miei problemi, era inoltre possibile che avrebbe posto delle limitazioni che potevano ostacolare la mia capacità di rispondere a quelle che sembravano le esigenze giornaliere della mia vita. Poteva anche rispolverare una vecchia faccenda dimenticata tanti anni prima.

Non avevo mai giurato fedeltà ad Ambra: nessuno me lo aveva mai

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chiesto. Dopotutto, ero il figlio di Corwin, ed ero venuto ad Ambra di mia volontà ed avevo fatto di essa la mia casa temporanea prima di scendere nell'Ombra Terra, dove tanti Ambenti avevano fatto le scuole. Poi ero tor-nato spesso, restando in amicizia con tutti. Non capivo proprio perché il concetto della doppia cittadinanza non si potesse applicare.

Ma preferivo che l'argomento non venisse fuori per niente. Non mi pia-ceva l'idea di essere costretto a scegliere tra Ambra e le Corti. Non l'avevo fatto né per l'Unicorno, né per il Serpente, né per il Disegno, né per il Lo-grus, e non avevo la minima intenzione di farlo per nessuna delle due Corti Reali.

Il che indicava che Vialle non doveva sapere neanche un'edizione ridotta della storia. Qualsiasi versione avrebbe richiesto un relativo resoconto. Pe-rò, se il Gioiello veniva restituito senza una spiegazione in merito al luogo in cui era stato, nessuno sarebbe venuto a farmi domande, e tutto si sareb-be sistemato. Come avrei potuto mentire se nessuno mi avesse chiesto niente?

Ci pensai ancora su. Quello che stavo veramente per fare era risparmiare ad un uomo stanco e tormentato il peso di ulteriori problemi. Non c'era nulla che potesse o che dovesse fare per quanto concerneva i miei affari. Qualsiasi cosa stesse accadendo tra il Disegno ed il Logrus, sembrava im-portante quanto una disquisizione metafisica. Non riuscivo a immaginare quanto bene o quanto male ne sarebbe conseguito, a livello pratico. E, se avessi visto qualcosa in arrivo, avrei sempre potuto parlarne a Random in quel momento.

Okay! C'è una cosa simpatica nella capacità di ragionare: possiamo usar-la per sentirci virtuosi anziché, diciamo, colpevoli. Mi stiracchiai e feci schioccare le nocche.

«Fantasma?», chiamai piano. Nessuna risposta. Cercai i miei Trionfi ma, nel momento stesso in cui li sfiorai, una ruota

di luce balenò nella stanza. «Allora mi hai sentito,» dissi. «Ho intuito le tue necessità,» fu la sua risposta. «Come ti pare,» dissi, levandomi la catena dal collo e tenendo il Gioiello

davanti a me. «Credi che potresti riportarlo nel suo scompartimento segre-to vicino al caminetto della Suite Reale senza farti accorgere da nessuno?», gli chiesi.

«Ho paura di toccare quella cosa,» rispose Fantasma. «Non so cosa po-

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trebbe fare la sua struttura alla mia.» «Va bene!» dissi. «Credo che riuscirò a trovare il modo di farlo da solo.

Ma è venuto il momento di verificare un'ipotesi. Se il Disegno mi attacca, cerca di portarmi al sicuro, per favore.»

«Benissimo.» Misi il Gioiello sul tavolo vicino. Dopo mezzo minuto circa capii che mi ero preparato a ricevere il colpo

mortale del Disegno. Rilassai le spalle e feci un respiro profondo. Rimasi illeso. Era possibile che Dworkin avesse ragione e che il Disegno mi a-vrebbe lasciato in pace. Inoltre, adesso sarei dovuto essere in grado di evo-care il Disegno nel Gioiello, mi aveva detto, come evocavo il Segno del Logrus. C'erano delle Magie possibili con il Disegno che potevano essere effettuate soltanto con quel sistema, anche se Dworkin non aveva avuto il tempo di insegnarmi il loro impegno. Mi aveva detto che un Mago doveva essere in grado di scoprirlo da solo. Decisi che questo poteva aspettare: non ero dell'umore adatto per discutere con il Disegno in nessuna delle sue incarnazioni.

«Ehi, Disegno,» dissi. «Voghamo considerarci alla pari?» Non ci furono risposte. «Credo che lui sappia che tu sei qui e che cosa hai fatto,» disse Fanta-

sma. «Avverto la sua presenza. Forse sei scappato dall'amo.» «Forse,» gli risposi, tirando fuori i miei Trionfi e passandoli in rassegna. «Con chi vorresti metterti in contatto?», mi chiese Fantasma. «Sono curioso di sapere che fine ha fatto Luke,» dissi. «Voglio vedere se

sta bene. E mi chiedo dove sia Mandor. Presumo tu lo abbia mandato in un posto sicuro.»

«Oh, è certamente il posto migliore,» rispose Fantasma. «Lo stesso vale per la Regina Jastra. Vuoi sentire anche lei?»

«Non necessariamente. Anzi, non voglio sentire nessuno di loro. Volevo soltanto vedere...»

Fantasma mi fece l'occhietto mentre stavo ancora parlando. Non ero af-fatto sicuro che il suo desiderio di piacermi fosse un miglioramento della sua precedente belligeranza.

Presi la carta di Luke e vi entrai. Sentii passare qualcuno nel corridoio: poi i passi si allontanarono. Avvertii che Luke mi aveva localizzato, anche se non riuscii a vedere

dove si trovava. «Luke, mi senti?», chiesi.

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«Sì,» rispose. «Tutto bene, Merle?» «Io sto bene,» dissi. «E tu? È stata una lotta...» «Sto bene.» «Sento la tua voce, ma non vedo un accidenti!» «Abbiamo provocato un corto circuito nei Trionfi. Non sai come si fa?» «Non ho mai indagato sulla faccenda. Prima o poi dovrai insegnarmelo.

Uh, ma perché è stato fatto?» «Qualcuno potrebbe entrare in contatto e scoprire che cosa sto per fare.» «Se stai per guidare un assalto ad Ambra, mi sento davvero preso in gi-

ro!» «Andiamo!» Lo sai che mantengo le promesse! Questa è un'altra faccen-

da.» «Credevo che fossi prigioniero di Dalt.» «La mia posizione è cambiata.» «Bene, prima stava quasi per ucciderti, e il giorno dopo ti ha tolto dagli

impicci.» «La prima volta è cascato in un vecchio Incantesimo che quel forsennato

di Sharu aveva lasciato a mò di trappola; la seconda volta è stato per affari. Starò bene. Ma quello che sto facendo in questo momento e urgentissimo, e devo scappare. Arrivederci.»

La presenza di Luke si dileguò. I passi si erano fermati, ed udii un colpo alla porta vicina. Dopo un pò sentii aprire la porta e richiuderla. Non avevo afferrato neanche mezza parola. Mi chiesi cosa fosse successo da quelle parti e negli appartamenti vicini ai miei ed a quelli di Benedict. Ero quasi certo che Benedict fosse fuori, e ricordai di non aver chiuso la porta quan-do ero uscito. Perciò...

Stringendo il Gioiello del Giudizio, attraversai la stanza ed uscii nel cor-ridoio. Controllai la porta di Benedict, poi la zona nord e sud e quindi tor-nai alla scala, guardandomi intorno. Nessuno in vista: allora tornai di corsa dov'ero prima e rimasi ad ascoltare per un pò sulla porta dei miei appar-tamenti. Le uniche alternative che mi vennero in mente furono le camere di Gérard, dalla parte posteriore del corridoio, e quelle di Brand, dietro le mie.

Avevo pensato di buttare giù un muro — in sintonia con il recente ghiri-bizzo di Random di rimodellare e ridipingere le stanze — unendo le came-re di Brand alle mie, per creare un bell'appartamento. Ma le voci che cor-revano su quelle stanze — che fossero cioè frequentate dai fantasmi — e certi rumori che a volte avevo sentito di notte, mi avevano dissuaso. Mi

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mossi rapidamente, e provai a bussare alle porte di Brand e di Gérard. Nessuna risposta, e constatai che erano entrambe chiuse a chiave. Sempre più strano!

Frakir aveva pulsato leggermente quando avevo toccato la porta di Brand ma, mentre avevo continuato a bussare non era successo nulla. Sta-vo per credere che si fosse trattato di una reazione di disturbo agli ultimi strani Incantesimi che avevo casualmente visto da quelle parti, quando mi accorsi che il Gioiello del Giudizio stava pulsando.

Alzai la catena e scrutai nella gemma. Vi aveva preso forma un'immagi-ne: vidi il corridoio dietro l'angolo, le due porte dei miei appartamenti, ed un'opera di artigianato in corso sul muro in piena vista. L'ingresso di sini-stra — quello che portava nella mia stanza da letto — sembrava fosse stato evidenziato in rosso, e pulsava. Significava che dovevo evitarlo, oppure precipitarmi là? È questo il guaio con i suggerimenti di carattere mistico.

Tornai indietro e girai nuovamente l'angolo. Questa volta la gemma — avendo forse avvertito il mio dubbio e deciso che la sequenza di alcuni dati era in ordine — mi mostrò la mia immagine che si avvicinava ed apriva la porta che stava indicando la pietra. Ovviamente, tra le due, era la porta chiusa a chiave...

Cercai a tastoni la chiave, riflettendo che non potevo irrompere con la spada sguainata, visto che avevo posato Grayswandir. Mi restavano un paio di Incantesimi complicati, però. Forse uno dei due mi avrebbe salvato, se si metteva male. Ma forse no.

Girai la chiave e spalancai la porta. «Merle!», gridò lei, e vidi che era Coral. Stava accanto al mio letto, dove

era sdraiata la sua sorella putativa, la ty'iga. Si nascose velocemente la mano dietro la schiena. «Uh, uh, mi hai fatto paura.»

«È una cosa reciproca,» risposi, con un'espressione che ha un equivalen-te in Thari. «Che succede, Signora?»

«Ero venuta a dirti che ho trovato mio padre e che gli ho raccontato una storiella convincente sul Corridoio degli Specchi, come mi avevi detto tu. Ma esiste davvero un posto simile, qui?»

«Sì. Però non lo troverai in nessuna guida. Viene e va. Allora, lo hai tranquillizzato?»

«Penso di si. Ma adesso vuole sapere dov'è Nayda.» «Diventa sempre più difficile.» «Sì.» Stava arrossendo, e non mi guardò direttamente in faccia. Sembrava

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consapevole, però, che mi ero accorto del suo imbarazzo. «Gli ho detto che forse Nayda stava facendo un giro,» proseguì, «e che

l'avrei cercata.» «Mm... hm.» Spostai lo sguardo su Nayda. Coral mi si mise immediatamente davanti

e si strinse a me. Mi mise quindi una mano sulle spalle e mi attirò verso di lei.

«Credevo che volessi dormire,» disse. «Sì, è vero. Ed ho dormito. Ora stavo facendo certe cose...» «Non capisco...» «Le linee temporali,» le spiegai. «Ho fatto economia, e mi sono riposa-

to.» «Affascinante!», disse, sfiorandomi le labbra con le sue. «Sono contenta

che ti sia riposato.» «Coral,» le dissi, stringendola in un rapido abbraccio, «non prendermi in

giro. Lo sai che ero stanco morto quando mi hai lasciato. Non avevi alcun motivo di credere che stessi facendo qualcosa di diverso dal dormire, se fossi tornata così presto.»

Le presi il polso della mano che aveva nascosto dietro la schiena e lo al-zai tra noi due. Aveva una forza sorprendente! Non feci alcuno sforzo per convincerla ad aprire la mano, perché potevo vedere che cosa teneva tra le dita. Era una delle sferette metalliche che Mandor usava spesso per im-provvisare qualche Incantesimo. Le lasciai andare la mano e lei non cercò di allontanarsi da me, ma invece mi disse: «Ti posso spiegare...», guardan-domi finalmente negli occhi.

«Lo vorrei proprio!», risposi. «Anzi, vorrei che l'avessi fatto un pò pri-ma.»

«Forse la storia che hai sentito a proposito della sua morte e del corpo che ospita un Demone è vera,» disse. «Ma ultimamente con me è stata così buona! È finalmente diventata la sorella che avrei sempre voluto avere. Poi tu mi hai riportato qui, e l'ho vista in questo stato, senza sapere che cosa avevi davvero in mente di farle...»

«Voglio che tu sappia che non le farei mai niente di male Coral,» la in-terruppi. «Glielo devo... per certe cortesie che mi ha fatto in passato. Quando ero giovane e ingenuo sull'Ombra Terra, probabilmente mi salvò l'osso del collo diverse volte. Non hai alcun motivo di temere per lei.»

Spostò la testa sulla destra e mi guardò con sospetto. «Non potevo saperlo,» disse, «stando al tuo racconto. Sono tornata qui,

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sperando di riuscire ad entrare, sperando che tu dormissi profondamente, e sperando di riuscire a spezzare l'Incantesimo o perlomeno di modificarlo un pò per poterle parlare. Volevo scoprire per me stessa se era davvero mia sorella... o qualcos'altro.»

Sospirai. Allungai una mano per sfiorarle una spalla e mi resi conto che stringevo ancora nella mano sinistra il Gioiello del Giudizio. Allora le strinsi il braccio con la destra, e le dissi: «Ascolta, ti capisco. Non è stato piacevole per me mostrarti tua sorella in queste condizioni e non potere en-trare in ulteriori dettagli. Posso solo dirti che ero stanco e quindi scusarmi con te. Ma non voglio intromettermi in questo Incantesimo perché non l'ho fatto io...»

In quel momento Nayda emise un gemito. La studiai per alcuni minuti, ma non successe altro.

«Hai preso quella sferetta in aria?», le chiesi. «Non ricordo di averne vi-sta nessuna per l'Incantesimo finale.»

Scosse la testa. «Era sul suo petto, e lei ci teneva sopra una mano,» mi spiegò. «Che cosa ti ha spinto a cercare proprio là?» «La posizione sembrava innaturale: tutto qui. Tieni.» Mi porse la pallina. La presi e la soppesai con la mano destra. Non ave-

vo alcuna idea di come funzionassero quegli oggetti. Le sferette metalliche erano per Mandor quello che per me era Frakir: una piccola Magia perso-nale idiosincratica, forgiata dalla sua coscienza nel cuore del Logrus.

«Intendi rimetterla dove stava?», mi chiese. «No,» le risposi. «Come ho già detto, non voglio intromettermi.» «Merlin...?» Era un sussurro, mentre Nayda, teneva gli occhi ancora

chiusi. «Sarà meglio che andiamo a parlare nell'altra stanza,» dissi a Coral.

«Prima, però, le farò un Incantesimo di mia creazione. Uno semplice per farla dormire...»

L'aria crepitò, dietro Coral brillarono delle scintille, e lei dovette indovi-nare dal mio sguardo che stava succedendo qualcosa, perché si voltò.

«Merle, che cos'è?», domandò, avvicinandosi a me mentre prendeva forma un arco dorato.

«Fantasma?», chiamai. «Esatto!», fu la risposta. «Jastra non era dove l'avevo lasciata, ma ho

portato tuo fratello.» Mandor, sempre vestito quasi completamente di nero, ed i capelli flut-

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tuanti in una vaporosa massa bianco-argento, apparve improvvisamente, guardando Coral e Nayda, poi concentrò l'attenzione su di me, comincian-do a sorridere e facendosi avanti. Quindi il suo sguardo si spostò, ed allora si fermò. Sgranò gli occhi: non avevo mai visto un'espressione così impau-rita sul suo viso.

«Per l'Occhio Insanguinato del Caos!», esclamò, evocando con un gesto uno scudo protettivo. «Come hai fatto?»

Fece un passo avanti. L'arco si trasformò istantaneamente in una foglia d'oro che aveva la forma di una O, e Fantasma, aleggiando nella stanza, si portò sul mio fianco destro.

All'improvviso, Nayda si alzò, sul letto, lanciando sguardi fiammeggian-ti.

«Merlin!», gridò. «Stai bene?» «Per il momento sì,» le risposi. «Non preoccuparti: Stai tranquilla. Va

tutto bene.» «Chi ha interferito con il mio Incantesimo?», chiese Mandor, mentre

Nayda metteva le gambe fuori dal letto e Coral si faceva piccola per la paura.

«È stato una specie di incidente,» dissi io. Aprii la mano destra. La sfera metallica immediatamente levitò e schizzò

verso di lui, mancando per un pelo Coral, le cui mani adesso avevano as-sunto una generica posizione di difesa da arti marziali, anche se non sape-va contro chi o cosa doveva difendersi. Così continuò a voltarsi intorno: Mandor, Nayda, Fantasma, di nuovo...

«Calmati, Coral,» le dissi. «Non corri alcun pericolo.» «L'occhio sinistro del Serpente!», urlò Nayda. «Liberami, o Incorporeo,

ed in cambio ti darò il mio!» Contemporaneamente, Frakir mi stava avvertendo che le cose andavano

male, in caso non l'avessi ancora capito. «Che diavolo sta succedendo?», urlai. Nayda si alzò d'improvviso in piedi, balzò in avanti e, con quella innatu-

rale forza demoniaca, mi rubò dalla mano il Gioiello del Giudizio, mi spin-se da una parte, ed uscì di corsa nel corridoio.

Barcollai, poi mi ripresi. «Prendi quella Ty'iga!», gridai, e il Timone Fantasma sfrecciò e mi su-

però seguito dalle sferette di Mandor.

10.

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Fui il terzo a precipitarmi nel corridoio. Girai a sinistra e cominciai a

correre. Una ty'iga può essere veloce, ma io non sono da meno. «Credevo che il tuo compito fosse quello di proteggermi!», le gridai die-

tro. «Questo ha la precedenza,» mi rispose, «per un obbligo che ho con tua

madre.» «Che cosa?», dissi. «Mia madre?» «Mi mise sotto un geas per prendermi cura di te quando partisti per la

scuola,» mi rispose. «Questo però lo scioglie! Sono libera, finalmente!» «Maledizione!», commentai. Poi, mentre stava per raggiungere la scala, davanti a lei comparve il Se-

gno del Logrus, più grande di qualsiasi apparizione avessi mai evocato, ed occupò tutto il corridoio, da muro a muro, sputando un fuoco tentacolare, ed avvolto in una minacciosa nebbia rossastra. Ci voleva una gran quantità di chutzpah per consentirgli di manifestarsi in quel modo lì ad Ambra, sul terreno del Disegno, perciò intuii che la posta doveva essere alta.

«Accoglimi, Logrus,» implorò lei, «perché porto l'Occhio del Serpen-te!», ed il Logrus si aprì, creando al suo centro un tunnel fiammeggiante. Riuscii a stabilire che l'altra estremità non doveva essere molto lontana dal punto del corridoio in cui mi trovavo.

Ma poi Nayda venne fermata, come se avesse incontrato all'improvviso un muro di vetro, ed assunse una posizione di difesa. Tre sfere scintillanti di Mandor si disposero improvvisamente in orbita intorno alla forma cata-lettica di lei.

Io venni spinto contro il muro. Alzai il braccio destro per difendermi da un'eventuale minaccia che piombasse dall'alto, guardandomi al tempo stes-so le spalle.

A qualche metro da me, era apparsa un'immagine del Disegno stesso, grossa quanto quella del Logrus, e si era manifestata contro Nayda, mentre il Logrus stava proprio davanti a lei, chiudendo la Signora o la ty'iga tra i due poli dell'esistenza, e comprendendo casualmente anche me nella pa-rentesi. L'area intorno a me, quella vicina al Disegno, divenne luminosa come un mattino di sole, mentre la zona opposta assumeva l'aspetto di un sinistro crepuscolo. Stavano forse per ripetere il Big Bang, mi chiesi, con me a fare da riluttante testimone dell'evento?

«Uh, Vostri Onori,» cominciai, sentendomi obbligato a convincerli a la-sciar perdere e desiderando essere Luke, il quale sarebbe riuscito a trattare

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magnificamente la faccenda. «È il momento ideale di ricorrere ad un arbi-tro imparziale, e si dà il caso che io sia l'unico qualificato a farlo, se riflet-tete un attimo...»

Il cerchio dorato che sapevo essere Fantasma, improvvisamente calò sulla testa di Nayda, allungandosi in basso con la forma di un tubo. Fanta-sma era riuscito ad inserirsi tra le orbite delle sfere di Mandor e, in qualche modo, si era isolato dalle forze che esse stavano esercitando, perché le pal-line rallentarono la rotazione, oscillarono e, alla fine, caddero a terra. Due di esse colpirono il muro davanti a me, ed una rotolò giù per le scale, verso destra.

Il Segno del Disegno ed il Segno del Logrus in quel momento comincia-rono ad avanzare, ed allora strisciai rapidamente vicino al Disegno.

«Non venite troppo vicino, gente!», annunciò improvvisamente il Timo-ne Fantasma. «Non avete idea di cosa potrei fare se mi fate innervosire più di quanto già non sia.»

Entrambi i Segni fermarono la loro avanzata. Da dietro l'angolo a sini-stra, sopra di me, udii la voce impastata d'alcool di Droppa, che cantava qualche Ballata da postribolo e stava venendo verso di noi. Poi si azzittì. Passarono diversi secondi, poi cominciò a cantare Rock of Ages, con una voce molto, ma molto più debole. Quindi anche quella canzone venne messa a tacere, seguita da un pesante tonfo e dal rumore di vetri rotti.

Mi venne in mente che avrei dovuto essere in grado, da una distanza come quella, di estendere la mia coscienza nel Gioiello. Ma non ero certo di quali effetti avrei potuto produrre su di esso, considerando il fatto che nessuno dei quattro partecipanti al confronto era umano.

Sentii l'inizio di un contatto via Trionfo. «Sì?», mormorai. Allora udii la voce di Dworkin. «Qualsiasi controllo tu possa avere sulla pietra,» disse, «usalo per tenere

lontano il Gioiello dal Logrus.» In quell'esatto momento una voce scoppiettante, che cambiava tono e ca-

ratteristica ad ogni sillaba, uscì dal tunnel rosso. «Restituisci l'Occhio del Caos,» disse. «L'Unicorno lo prese al Serpente

quando lottarono, agli inizi. È stato rubato! Restituiscilo! Restituiscilo!» La faccia blu che avevo visto sopra il Disegno non si materializzò, ma la

voce che avevo udito rispose: «È stato pagato con sangue e dolore. Ha cambiato nome.»

«Gioiello del Giudizio, Occhio del Caos o Occhio del Serpente sono tutti

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nomi diversi della stessa pietra?», dissi. «Sì,» rispose Dworkin. «Che succede se il Serpente restituisce il suo occhio?», volli sapere. «Probabilmente l'Universo finirà.» «Oh!», commentai. «Quanto mi date per quell'oggetto?», domando Fantasma. «Macchina impetuosa!», scandì la voce del Disegno. «Artefatto avventato!», fece eco il Logrus. «Risparmiatevi i complimenti,» disse Fantasma, «e datemi quello che

voglio.» «Potrei strappartelo e distruggerti...», rispose il Disegno. «Potrei spezzarti in due e riprenderlo in due secondi...», dichiarò il Lo-

grus. «Ma nessuno dei due lo farà,» rispose Fantasma, «perché se uno dei due

si concentrerà su di me e sprecherà le sue energie, diventerà vulnerabile al-l'altro.»

Dentro la mia mente sentii Dworkin ridacchiare. «Ditemi perché mai deve avvenire un simile confronto,» proseguì Fan-

tasma, «dopo tutto questo tempo.» «L'equilibrio è stato alterato in mio sfavore dai recenti interventi di que-

sto voltafaccia,» rispose il Logrus, facendo scoppiare una vampata di fuo-co sulla mia testa, presumibilmente per indicare l'identità del voltafaccia in questione.

Sentii odore di capelli bruciati, ed abbassai la testa. «Aspetta un attimo!», gridai. «Non mi è stata concessa molta scelta nella

faccenda!» «Ma c'era una scelta!», gemette il Logrus, «e tu l'hai fatta.» «Certo che l'ha fatta,» rispose il Disegno. «Ma è servita soltanto a rista-

bilire l'equilibrio che tu avevi volto in tuo favore.» «A ristabilirlo? Razza di ingrato! Adesso è mutato a tuo favore! Inoltre,

soltanto per caso si è rivolto in mio favore, per quel traditore di suo pa-dre.» Un'altra palla di fuoco mi fece abbassare nuovamente la testa. «Non sono stato io.»

«Probabilmente lo hai ispirato tu.» «Se riesci a darmi il Gioiello,» disse Dworkin, «posso metterlo al riparo

da tutti e due finché la faccenda non si sarà sistemata.» «Non so se riuscirò a prenderlo,» dissi, «ma me ne ricorderò.» «Dallo a me,» disse il Logrus a Fantasma, «e ti porterò con me come

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mio Primo Servitore.» «Tu sei un analizzatore di dati,» disse il Disegno. «Io ti fornirò delle co-

noscenze che nessuno in tutta l'Ombra possiede.» «Io ti darò il Potere,» disse il Logrus. «Non mi interessa!», disse Fantasma, ed allora il cilindro roteò e svani. La ragazza, il Gioiello: tutto era scomparso. Il Logrus gemette, il Disegno mugugnò, ed i due Segni del Potere corse-

ro a scontrarsi, probabilmente nei pressi della vicina stanza di Bleys. Alzai tutti gli Incantesimi Protettivi che potevo. Dietro di me sentii che

Mandor faceva lo stesso. Mi coprii la testa, raccolsi le ginocchia, e... Stavo cadendo. Sentii una botta lucente, silenziosa, e dei detriti mi colpi-

rono proveniendo da diverse direzioni. Ebbi la sensazione che stessi per morire senza avere la possibilità di rivelare quello che leggevo nella natura della realtà: Il Disegno non si preoccupava dei figli di Ambra più di quanto il Logrus si preoccupasse dei figli delle Corti del Caos. Le Potenze forse si preoccupavano di loro stesse, l'una dell'altra, e di importanti principi co-smici come quelli dell'Unicorno e del Serpente, dei quali, probabilmente, non erano altro che manifestazioni geometriche. Non si preoccupavano certo di me, di Coral, di Mandor, e probabilmente neppure di Oberon o dello stesso Dworkin. Eravamo del tutto insignificanti, o al massimo degli strumenti, o talvolta delle seccature, da usare o distruggere a seconda delle circostanze...

«Dammi la mano,» disse Dworkin, e lo vidi come in un contatto via Trionfo. L'allungai e...

... e caddi violentemente ai suoi piedi su un tappeto colorato disteso su un pavimento di mattoni, in una stanza senza finestre che una volta mi a-veva descritto mio padre, piena di libri e di oggetti esotici, illuminata da sfere luminose sospese in aria senza alcun sostegno.

«Grazie,» dissi, rialzandomi lentamente e massaggiandomi la coscia si-nistra in un punto che mi stava facendo male.

«Ho afferrato per un attimo i tuoi pensieri,» disse. «C'è molto di più.» «Ne sono certo. Ma certe volte mi piace essere pessimista. Quanta verità

c'era in quel mucchio di sciocchezze su cui discutevano le Potenze?» «Oh, era tutto vero,» disse Dworkin, «a modo loro. Il più grosso ostaco-

lo alla comprensione, è l'interpretazione che danno dell'operato l'una del-l'altra. Più il fatto che si può sempre fare un passo indietro: come la rottura nel Disegno che ha rafforzato il Logrus e la possibilità che il Logrus abbia spinto volontariamente Brand a farlo. Ma allora il Logrus potrebbe recla-

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mare che ha ripagato con la stessa moneta il Giorno degli Arti Spezzati di diversi secoli fa.»

«Non ne ho mai sentito parlare,» dissi. Scrollò le spalle. «Non mi sorprende. Non era una questione molto importante, eccetto per

loro. Quello che sto cercando di dire è che cercare di capire il loro compor-tamento obbliga a fare un'infinità di regressioni... fino ad arrivare alle cau-se prime, che sono sempre infide.»

«Allora qual è la risposta?» «La risposta? Non è mica una lezione di scuola. Non esistono risposte ri-

levanti, tranne che per un filosofo: vale a dire, qualcuno che non ha nessun lavoro pratico.»

Riempì una tazza di liquido verde da una fiasca d'argento e me la passò. «Bevi questo,» disse. «Solitamente non bevo a quest'ora del mattino.» «Non è una bibita. È un medicinale,» mi spiegò. «Sei vicino allo shock,

che tu te ne sia accorto o meno.» Ingoiai il liquido, che mi bruciò la gola come se fosse liquore, ma non ne

aveva il sapore. Nei successivi minuti cominciai a sentirmi rilassato, in certi posti in cui non credevo proprio di essere teso.

«Coral, Mandor...», dissi. Fece un gesto, e scese un globo luminoso. Poi tracciò un segno nell'aria

con un gesto quasi familiare, e su di me arrivò qualcosa di simile al Segno del Logrus senza il Logrus. All'interno del globo si formò un quadro.

La lunga sezione di corridoio dove era avvenuto l'incontro era stata di-strutta, insieme alle scale, agli appartamenti di Benedict, e forse anche a quelli di Gérard. Anche le camere di Bleys, parte delle mie, e il soggiorno che avevo occupato pochi minuti prima, erano andate distrutte, e manca-vano l'angolo nord-est, il pavimento e il soffitto della biblioteca. Di sotto, vidi che buona parte della cucina e dell'armeria erano state distrutte, e sicu-ramente avrei visto altre macerie lungo la strada. Guardando in alto — i globi magici sono una comodità meravigliosa — potevo vedere il cielo, il che significava che l'esplosione si era propagata fino al terzo ed al quarto piano, danneggiando presumibilmente la Suite Reale, le scale superiori e probabilmente anche il laboratorio... e chissà che altro.

Sull'orlo del baratro, vicino a quella che doveva essere stata un'ala degli appartamenti di Bleys e di Gérard, c'era Mandor, il braccio destro all'appa-renza rotto, la testa nascosta dal suo grosso cinturone nero. Coral era ap-

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poggiata pesantemente sulla spalla destra, ed aveva del sangue sulla faccia. Non sono certo che fosse completamente cosciente.

Mandor la teneva per la vita con il braccio sinistro, e i due erano circon-dati da una sferetta metallica. In diagonale rispetto al baratro, c'era Ran-dom, su una pesante trave assai vicina all'apertura nel muro della bibliote-ca. Credo che Martin fosse montato sopra un mucchio di macerie. Aveva ancora in mano il sax. Random sembrava parecchio agitato, e mi parve che stesse urlando.

«Voce! Voce!», dissi. Dworkin fece un gesto con la mano. «... ottuto Signore del Caos ha fatto saltare il mio palazzo!», stava di-

cendo Random. «La Signora è ferita, Vostra Altezza,» disse Mandor. Random si passò una mano sulla faccia. Poi alzò gli occhi. «Se c'è una maniera semplice di portarla nei miei appartamenti, Vialle è

molto pratica in certi settori della medicina,» disse con una voce più cal-ma. «Lo sono anch'io, in quel campo.»

«Potrebbe dirmi perlomeno dove si trovano, Vostra Altezza?» Random si appoggiò su un fianco e puntò un dito verso l'alto. «Sembra che non avrete bisogno della porta, per entrare, ma non so dirvi

se sono rimaste le scale per portarvi di sopra o se c'è un punto in cui potete passare.»

«Lo troverò,» disse Mandor, e altre due sfere sfrecciarono verso di lui e si disposero in una strana orbita intorno a lui e a Coral. Dopo un pò levita-rono e si diressero lentamente verso l'apertura indicata da Random.

«Vi raggiungerò presto,» gli gridò dietro Random. Mi parve che stesse per aggiungere qualcosa, ma poi guardò la devastazione, abbassò la testa e si voltò. Io feci lo stesso.

Dworkin mi stava offrendo un'altra dose di medicina verde, e la presi. «Devo andare da lei,» gli dissi. «Mi piace quella signora, e voglio assi-

curarmi che stia bene.» «Posso certamente mandarti là,» disse Dworkin, «anche se non credo

che tu possa fare qualcosa per lei che non venga fatto dagli altri. Forse il tempo sarebbe occupato meglio se cercassimo quella tua macchina girova-ga, il Timone Fantasma. Deve essere convinto a restituire il Gioiello del Giudizio.»

«Benissimo!», fui d'accordo. «Ma prima voglio vedere Coral.» «La tua comparsa potrebbe causare un notevole ritardo,» disse, «per via

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di tutte le spiegazioni che ti verrebbero richieste.» «Non mi importa.» «E va bene. Un momento, allora.» Si allontanò e prese dalla parete quella che mi sembrò una bacchetta

magica riposta in un astuccio, che era appeso ad un gancio. Si assicurò l'a-stuccio alla cintura, poi andò verso uno stanzino e prese dal cassetto una scatola piatta guarnita in pelle. Quando la fece scivolare in tasca, emise un debole suono metallico. Un piccolo portagioie scomparve in una manica senza produrre alcun rumore.

«Da questa parte,» mi disse, prendendomi per mano. Mi fece girare e mi condusse nell'angolo più buio della stanza, dove non

aveva notato che era appeso un grande specchio dalla strana cornice. Di-mostrava di avere una strana proprietà riflettente, in quanto rifletteva da lontano sia noi che la stanza con perfetta chiarezza ma, man mano che ci avvicinavamo alla sua superficie, le immagini diventavano sempre più in-distinte. Potevo vedere cosa stava avvenendo, ma rimasi sul chi vive, men-tre Dworkin, che mi aveva superato di un passo, entrò nella superficie ne-bulosa e mi tirò con sé.

Barcollai e recuperai l'equilibrio, poi mi ritrovai al centro della Suite Re-ale danneggiata dall'esplosione, di fronte ad uno specchio decorativo. Al-lungai rapidamente una mano e lo toccai con le dita, ma la sua superficie rimase solida. La piccola figura ricurva di Dworkin era davanti a me, e mi teneva ancora per mano.

Guardando oltre quel profilo, che in un certo senso era una caricatura del mio, vidi che il letto era stato spostato verso est, lontano dall'angolo pieno di macerie e dal grosso buco apertosi nel pavimento. Random e Vialle era-no accanto al letto, e ci davano le spalle. Stavano studiando Coral, che era stata adagiata sul copriletto e sembrava incosciente. Mandor, seduto su una sedia massiccia ai piedi del letto, che stava osservando le operazioni, fu il primo ad accorgersi della nostra presenza, e ci fece segno di averci visto con un cenno della testa.

«Come... sta?», chiesi. «Commozione cerebrale,» rispose Mandor, «e una lesione all'occhio de-

stro.» Random si voltò. Qualsiasi cosa fosse sul punto di dirmi, gli morì sulle

labbra quando vide chi c'era accanto a me. «Dworkin!», disse. «Quanto tempo è passato! Non sapevo neanche se

fossi vivo. Stai... bene?»

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Il nano ridacchiò. «Capisco l'implicazione, e ti posso assicurare che la mia testa è a posto,»

rispose. «Adesso vorrei esaminare la signora.» «Ma certo,» rispose Random, facendosi da parte. «Merlin,» disse Dworkin, «guarda se riesci a localizzare quel tuo Timo-

ne Fantasma, e chiedigli di restituire l'oggetto che ha preso in prestito.» «Capisco,» dissi, cercando in tasca i miei Trionfi. Qualche secondo dopo, mi stavo allungando, allungando... «Ho sentito il tuo tentativo qualche momento fa, Pà.» «Bene, ce l'hai o non ce l'hai il Gioiello?» «Sì, con lui ho finito.» «Finito?» «Finito di utilizzarlo.» «In che modo lo hai... utilizzato?» «Quando mi hai fatto capire che trasferire la propria coscienza in lui a-

vrebbe fornito una certa protezione dal Disegno, mi sono chiesto se avreb-be funzionato con un essere idealmente sintetizzato come me.»

«Che simpatica definizione: 'idealmente sintetizzato'! Dove l'hai trova-ta?»

«L'ho coniata io stesso quando ho cercato il termine più adatto.» «Ho il presentimento che ti rifiuterà.» «Non l'ha fatto.» «Oh! Ti sei veramente trasferito in quell'oggetto?» «Sì.» «E che effetto ha avuto su di te?» «È una cosa difficile da valutare. Le mie percezioni sono state alterate. È

complicato spiegarlo... È sottile, comunque sia.» «Affascinante! Adesso puoi trasferire la tua coscienza nella pietra da

lontano?» «Sì.» «Quando tutti i nostri guai saranno finiti, voglio proprio darti una con-

trollatina.» «Sono curioso anch'io di sapere che cosa è cambiato.» «Nello stesso tempo, qui abbiamo bisogno del Gioiello.» «Sta arrivando.» L'aria tremolò. Il Timone Fantasma comparve sotto forma di un anello d'argento, al cui

centro c'era il Gioiello. Lo presi e lo consegnai a Dworkin, che non mi de-

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gnò neanche di un'occhiata nel riceverlo. Guardai il viso di Coral ed allon-tanai lo sguardo immediatamente, desiderando di non averlo fatto.

Mi avvicinai a Fantasma. «Dov'è Nayda?», gli chiesi. «Non ne sono sicuro,» rispose. «Mi ha chiesto di lasciarla nei pressi del-

la grotta di cristallo quando le ho levato il Gioiello.» «Cosa stava facendo?» «Piangeva.» «Perché?» «Presumo che entrambi gli scopi che aveva nella vita siano stati frustrati.

Aveva il compito di vegliare su di te finché una circostanza imprevista non le avesse dato l'opportunità di entrare in possesso del Gioiello, nel cui caso sarebbe stata liberata dalla prima direttiva. La circostanza si è verificata; ma io l'ho privata della pietra. Adesso non è più legata a niente.»

«Chiunque penserebbe che dovrebbe essere felice di essere libera, alla fine. Non aveva scelto lei i due compiti. Può ritornare a fare quello che fanno i Demoni liberi oltre il Muro del Cerchio.»

«Non esattamente, Papà.» «Che vuoi dire?» «Sembra che sia incollata a quel corpo. Sembra che non possa abbando-

narlo come ha fatto con gli altri corpi che ha usato. C'entra qualcosa il fatto che esso non aveva un precedente occupante.»

«Oh. Presumo che possa, uh, terminarlo, e in quel modo liberarsi.» «Gliel'ho suggerito, ma non è sicura che funzionerebbe. Potrebbe rima-

nere uccisa mentre è ancora dentro il corpo, adesso che gli è legata in quel modo.»

«Così è rimasta vicino alla grotta?» «No. Ha ancora i suoi poteri di ty'iga, che fanno di lei una specie di crea-

tura magica. Credo che se ne sia semplicemente andata in giro nell'Ombra mentre io ero nella grotta a fare esperimenti con il Gioiello.»

«Perché la grotta?» «È lì che tu vai a fare delle cose di nascosto: no?» «Sì. Allora come ho potuto raggiungerti con il Trionfo?» «Avevo già ultimato l'esperimento e mi ero allontanato. A dire il vero,

stavo cercando lei, quando mi hai chiamato.» «Credo che faresti meglio a cercarla ancora.» «Perché?» «Perché le devo certi favori passati... anche se me l'ha messa dietro mia

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madre.» «Certamente! Non sono sicuro di riuscirci, però. Le creature magiche

non sono rintracciabili così facilmente come gli esseri umani.» «Fai lo stesso un tentativo. Mi piacerebbe sapere dove è andata, e se c'è

qualcosa che posso fare per lei. Forse il tuo nuovo senso di orientamento ci sarà di aiuto... in qualche modo.»

«Vedremo,» disse, e scomparve. Mi afflosciai. Mi chiesi come l'avrebbe presa Orkus. Una figlia ferita e

l'altra posseduta da un Demone in giro nell'Ombra! Mi spostai ai piedi del letto e mi appoggiai alla sedia di Mandor. Lui tese la mano sinistra e mi strinse il braccio.

«Non credo che ti abbiano insegnato a riaggiustare le ossa in quel mon-do di Ombre in cui sei stato, vero?», volle sapere.

«Temo di no,» gli risposi. «Peccato!», replicò. «Dovrò aspettare il mio turno.» «Possiamo trasportarti via Trionfo da qualche parte e farti medicare là,»

gli proposi, cercando le mie carte. «No,» disse, «voglio vedere come vanno a finire le cose qui.» «Mentre parlava, mi accorsi che Random sembrava impegnato in un'in-

tensa comunicazione via Trionfo. Vialle era vicina a lui, come se volesse proteggerlo dall'apertura nel muro, qualunque cosa potesse uscirne. Dwor-kin continuava a trafficare con il viso di Coral, impedendoci di vedere con il proprio corpo che cosa stava esattamente facendo.

«Mandor,» dissi, «sapevi che fu mia madre a mandare la ty'iga per pren-dersi cura di me?»

«Sì,» rispose. «Me lo disse quando tu uscisti dalla stanza. Parte dell'In-cantesimo non le permetteva di rivelartelo.»

«Era lì solo per proteggermi, o forse anche per spiarmi?» «Questo non te lo so dire. La cosa non è emersa, ma sembra che i suoi

timori fossero giustificati. Eri in pericolo.» «Pensi che Dana sapesse di Jastra e di Luke?» Fece per alzare le spalle, trasalì, poi ci ripensò. «Neanche a questo so risponderti. Se lo sapeva, non conosco la risposta

alla successiva domanda di come faceva a saperlo? Okay?» «Okay.» Random finì la conversazione, coprendo un Trionfo. Poi si voltò e rima-

se a fissare Vialle per un pò. Sembrava che stesse per dire qualcosa, ma ci ripensò e distolse lo sguardo. Guardò me. In quel momento Coral si lamen-

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tò, ed io mi alzai, sfuggendo al suo sguardo. «Aspetta un momento, Merlin,» disse Random, «prima di affrettarti da

lei.» Sostenni il suo sguardo. Non so se fosse arrabbiato o semplicemente in-

curiosito. La fronte corrugata ed il restringimento degli occhi indicavano entrambe le cose.

«Signore?», dissi. Mi si avvicinò, mi prese per il gomito, e mi allontanò dal letto, condu-

cendomi verso la stanza vicina. «Vialle, ti rubo lo studio per un paio di minuti,» disse. «Fai pure,» rispose lei. Mi fece entrare e chiuse la porta. Nella stanza c'era un busto caduto e

rotto di Gérard. In quello che sembrava l'attuale studio di Vialle, una crea-tura marina tentacolata di una specie mai vista, occupava l'altra estremità dell'ambiente.

Random si girò improvvisamente verso di me e mi fissò. «Hai seguito la situazione Begma-Kashfa?», mi chiese. «Più o meno,» risposi. «Bill mi ha riassunto la situazione l'altra sera: os-

sia Eregnor e tutto il resto.» «Ti ha detto che volevamo far entrare Kashfa nel Cerchio Dorato e ri-

solvere il problema di Eregnor riconoscendo il diritto di Kashfa su quel possedimento?»

Non mi era piaciuto il modo in cui mi aveva rivolto la domanda, e non volevo mettere Bill nei guai. Quando ne avevamo parlato mi era parso che la faccenda fosse ancora segretissima. Perciò dissi: «Temo di non ricordare tutti i particolari della faccenda.»

«Bene, questo è quello che avevo in mente di fare,» mi disse Random. «Solitamente non facciamo simili concessioni — quelle che favoriscono un paese alle spese di un altro — ma Arkans, il Duca di Shadburne, ci ha creato dei problemi. Era il miglior Capo di Stato per i nostri piani, ed io gli avevo spianato la strada al trono, adesso che quella puttana dai capelli ros-si è fuori combattimento. Sapeva che poteva appoggiarsi in parte a me — dal momento che aveva la possibilità di accettare il trono sulla base di una duplice carenza nella successione — e mi ha chiesto Eregnor: perciò glie-l'ho dato.»

«Capisco...», dissi. «Ma non so come tutto questo potrebbe interessar-mi.»

Girò la testa e mi studiò con l'occhio sinistro.

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«L'incoronazione doveva avvenire domani. In realtà, stavo appunto per vestirmi e trasferirmi lì via Trionfo...»

«Stai parlando al passato,» osservai, per riempire il silenzio che aveva lasciato tutto intorno a me.

«Lo so. Lo so!», mormorò, allontanandosi. Poi fece qualche passo, po-sando un piede su una statua caduta, e si voltò di nuovo.

«Il buon Duca, adesso, o è morto o è prigioniero.» «E non ci sarà nessuna incoronazione?», chiesi. «Au contraire!», replicò Random, studiando ancora la mia faccia. «Ci rinuncio,» dissi. «Dimmi che sta succedendo.» «C'è stato un colpo di stato, all'alba, questa mattina.» «Al palazzo?» «Forse anche lì. Ma è stato bloccato da una forza militare esterna.» «Che faceva Benedict mentre accadeva tutto questo?» «Ieri gli avevo ordinato di ritirare tutti gli uomini, prima di tornare a ca-

sa. Le cose sembravano tranquille, e non sarebbe stato cortese fare interve-nire delle truppe da combattimento di Ambra durante l'incoronazione.»

«Vero!», dissi. «Così qualcuno si è inserito, quasi nello stesso momento in cui Benedict se ne andava, ed ha fatto fuori l'uomo che doveva diventare Re, senza che nessuna forza di polizia locale gli facesse capire che questo non era carino?»

Random annuì lentamente con il capo. «È andata più o meno così,» disse. «Perché pensi che le cose siano anda-

te in questo modo?» «Forse non erano del tutto dispiaciuti del nuovo ordine delle cose.» Random sorrise e fece schioccare le dita. «Si potrebbe quasi pensare che tu sapessi cosa stava succedendo...», dis-

se. «E non sarebbe esatto,» dissi io. «Oggi il tuo vecchio compagno di classe Lukas Raynard diventa Rinaldo

I, Re di Kashfa.» «Che mi venga un accidenti!», dissi. «Non avevo idea che lo desideras-

se. Cosa hai intenzione di fare al riguardo?» «Credo che salterò l'incoronazione.» «Intendo più a lungo termine.» Random sospirò e si allontanò, prendendo a calci le macerie. «Vuoi sapere se manderò lì Benedict a destituirlo?» «In una parola, sì.»

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«Questo ci farebbe fare una brutta figura. Quello che Luke ha fatto non è in contrasto con le usanze politiche graustarkiane che prevalgono in quel-l'area. Non avremmo fatto altro che favorire quello che stava rapidamente diventando un grosso guaio politico. Avremmo potuto tornare e riprovarci, se si fosse trattato di un colpo di stato di un Generale o di un Nobile folle deluso nelle sue aspirazioni di grandezza, ma Luke ha una pretesa legitti-ma, che attualmente è più forte di quella di Shadburne. Inoltre, è molto po-polare: è giovane, e sa gestire bene la sua immagine. Avremmo meno giu-stificazioni andandoci adesso, di quante ne avremmo avute andandoci pri-ma. Nonostante questo, stavo quasi decidendomi a rischiare di essere chiamato aggressore se ciò fosse servito a tenere lontano dal trono quel fi-glio di una maledetta assassina. Poi, il mio agente a Kashfa mi viene a dire che è sotto la protezione di Vialle. Allora glielo chiedo, e lei mi dice che è vero e che tu eri presente quando è successo. Mi ha detto che mi racconterà tutto subito dopo l'intervento di Dworkin, in caso avesse bisogno delle sue capacità empatiche. Ma non posso aspettare: raccontami cosa è successo.»

«Prima devi dirmi una cosa.» «Quale?» «Quali forze militari hanno portato Luke al potere?» «Dei mercenari.» «Di Dalt?» «Sì.» «Sta bene. Luke ha scordato la sua vendetta contro la Casa di Ambra,»

dissi. «Lo ha fatto liberamente, dopo una conversazione avuta con Vialle la notte scorsa. È stato allora che lei gli ha dato l'anello. Allora ho pensato che lo avesse fatto per impedire a Julian di attentare alla sua vita, visto che stavamo andando ad Arden.»

«È stato in conseguenza del cosiddetto ultimatum di Dalt a Luke e a Ja-stra?»

«Esatto. Non mi è mai venuto in mente che l'intera faccenda potesse es-sere un bluff per far riunire Dalt e Luke e consentir loro di effettuare il colpo di stato. Il che significherebbe che anche quel combattimento è stata una finta e, adesso che ci penso, Luke ha avuto la possibilità di parlare con Dalt, prima della sfida.»

Random alzò una mano. «Aspetta,» disse. «Ricomincia tutto da capo.» «Bene.» Lo feci. Quando ebbi finito, avevamo percorso avanti e indietro lo studio

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un'infinità di volte. «Sai,» mi disse allora, «l'intera faccenda mi suona come se Jastra avesse

già architettato tutto prima di diventare un attaccapanni.» «Mi è venuto lo stesso pensiero,» dissi, sperando che non volesse inda-

gare su dove si trovava al momento. E, più ci pensavo, ricordando la sua reazione quando aveva saputo di Luke dopo la nostra irruzione nella For-tezza, più cominciavo a credere che non solo era al corrente di tutto quello che si stava preparando, ma che era stata addirittura in contatto con Luke molto prima di me.

«È stato architettato tutto molto bene!», commentò Random. «Dalt deve avere agito in base a dei vecchi ordini. Non essendo sicuro di come fare per unirsi a Luke o a contattare Jastra per nuove istruzioni, si è inventato quella messinscena qui ad Ambra. Benedict avrebbe potuto sputargli anco-ra, con la stessa bravura ed un maggiore effetto.»

«Vero! Presumo che tu intenda regalare le sue budella al Diavolo, quan-do sarà il momento. Significa anche che Luke deve aver organizzato in tut-ta fretta il complotto e progettato il finto duello durante la loro breve con-versazione ad Arden. Perciò qui controllava tutto, mentre ci ha fatto crede-re di essere prigioniero, il che ci impediva di pensare che fosse una minac-cia per Kashfa come in realtà era... se vogliamo vederla così.»

«In che altra maniera possiamo vederla?» «Bè, come hai detto tu stesso, la sua pretesa al trono non è del tutto in-

fondata. Cosa vuoi fare?» Random si massaggiò le tempie. «Inseguirlo ed ostacolare l'incoronazione sarebbe una mossa estrema-

mente impopolare,» disse. «C'è una cosa, però, che mi incuriosisce. Dici che questo tizio è un grande imbroglione. Tu eri li. È stato lui a chiedere a Vialle di metterlo sotto la sua protezione?»

«No,» dissi. «Sembrava sorpreso quanto me del suo gesto. Ha rinunciato alla vendetta perché ha ritenuto soddisfatto il proprio onore, perché era sta-to uno strumento della madre, e per la nostra amicizia. Mi sembrava since-ro. Penso ancora che Vialle gli avesse dato l'anello per mettere fine alla vendetta, in modo che nessuno attentasse alla sua vita.»

«Questo risponde al suo carattere,» disse Random. «Se avessi pensato che si era approfittato di lei, lo avrei ucciso con le mie stesse mani. Il mio imbarazzo, perciò, è involontario, e posso conviverci. Lancio l'esca per far salire al trono Arkans, e poi il mio uomo viene messo da parte all'ultimo minuto da qualcuno che ha la protezione di mia moglie. Si potrebbe pensa-

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re che tra di noi ci siano delle divergenze... e non mi piace dare quell'im-pressione.»

«Ho il presentimento che Luke sarà molto conciliante. Lo conosco abba-stanza bene da apprezzare tutte le sue finezze. Giurerei che per Ambra è un uomo con cui è possibile trattare molto facilmente, a qualsiasi livello.»

«Ci scommetto anch'io. Perché non dovrebbe esserlo?» «Per nessun motivo,» dissi. «Che fine farà adesso quel trattato?» Random sorrise. «Mi sono sganciato. Non mi è mai piaciuto il fatto di dover consegnare

Eregnor. Adesso, se dovrà esserci un trattato, ricominceremo tutto ab ini-tio. Ma non sono neanche sicuro che ce ne sia bisogno. Vadano all'infer-no!»

«Scommetterei che Arkans è ancora vivo...», dissi. «Credi che Luke lo abbia preso in ostaggio per impedire che gli confe-

rissi il rango del Cerchio Dorato?» Alzai le spalle. «Sei in rapporti stretti con Arkans?» «Bè, l'ho tirato in ballo io, e mi sento in obbligo verso di lui. Ma non

credo neanche di dovergli troppo.» «È comprensibile.» «Ambra perderebbe la faccia se trattasse direttamente con una potenza di

secondo piano come Kashfa in un momento come questo.» «Verissimo!», dissi. «E, quanto a questa faccenda, Luke non è ancora

Capo di Stato in maniera ufficiale.» «Arkans però se ne starebbe ancora a godersi la vita nella sua villa, se

non fosse stato per me, e Luke sembrerebbe veramente un tuo amico — magari un pò calcolatore — ma pur sempre un amico.»

«Vorresti che io tirassi fuori la cosa durante l'imminente dibattito sulla scultura atomica di Tony Price?»

Annuì col capo. «Credo che dovresti organizzare la tua conferenza artistica molto presto.

A dire il vero, non sarebbe disdicevole per te assistere all'incoronazione di un amico... a titolo di partecipazione personale. Il tuo doppio lignaggio po-trebbe tornarci utile, e Luke otterrebbe lo stesso la sua parte di onori.»

«Anche così, scommetto che vorrà quel trattato.» «Anche se fossimo propensi ad accordarglielo, non gli garantiremmo

Eregnor.» «Capisco.»

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«E tu non sei autorizzato ad impegnarti in nostro nome.» «Capisco anche questo.» «Allora perché non vai a darti una ripulita e vai a farti una chiacchierata

con lui? La tua stanza è dietro la voragine. Puoi passare dal buco nel muro e calarti giù con l'aiuto di una trave che mi è sembrata intatta.»

«Va bene, farò così,» risposi, avviandomi in quella direzione. «Ma pri-ma una domanda che non c'entra niente con l'argomento.»

«Sì?» «Mio padre è stato qui di recente?» «Non che io sappia,» disse, scuotendo lentamente la testa. «Naturalmen-

te siamo tutti molto abili nel nascondere i nostri arrivi e le nostre partenze se vogliamo. Ma ritengo che si sarebbe fatto vedere, se fosse tornato.»

«Lo credo anch'io,» dissi. Poi mi voltai ed uscii attraverso il muro, scen-dendo e sostenendomi con le braccia nella voragine.

11.

No. Mi aggrappai alla trave, penzolai e mi lasciai cadere. Atterrai quasi dol-

cemente al centro di un corridoio in una zona che doveva trovarsi appros-simativamente tra le due porte dei miei appartamenti. Questo a parte il fat-to che la prima porta non c'era più, che la sezione di muro che avrebbe do-vuto permettere l'ingresso (o l'uscita, a seconda da quale parte stavi) era crollata, per non parlare poi della mia sedia preferita e di un soprammobile che conteneva delle conchiglie che avevo raccolto sulle spiagge di tutto il mondo. Peccato!

Mi stropicciai gli occhi e me ne andai, perché in quel momento anche la prospettiva di non avere più un alloggio passava in secondo piano. Al Dia-volo! Mi avevano già distrutto parecchi appartamenti. Di solito verso il 30 di Aprile...

Come in «Niagara», mi girai lentamente... No! Sì! Dalla parte opposta alle mie stanze, dove prima c'era un muro vuoto, a-

desso c'era un corridoio che portava nell'area nord. Mentre mi calavo sulla trave, avevo intravisto una zona scintillante. Sorprendente! Gli Dei aveva-no seguito il ritmo della mia musica di sottofondo. Ero già stato in quel corridoio, per la precisione in uno dei locali su al quarto piano, che correva

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da est a ovest tra due ripostigli. Una delle stranezze del Castello di Ambra, il Corridoio degli Specchi,

oltre a sembrare più lungo in una direzione piuttosto che nell'altra, ospitava una serie innumerevole di specchi. Innumerevole in senso letterale. Se provavi a contarli, non veniva mai due volte lo stesso totale. C'erano spec-chi grandi, piccoli, stretti, tozzi, colorati, distorcenti; specchi dalle compli-cate cornici — fuse o intagliate — specchi dalle cornici semplici, e specchi senza cornice; c'erano specchi con una moltitudine di forme geometriche, aguzze, indecifrabili, tondeggianti.

Avevo percorso il Corridoio degli Specchi in diverse occasioni, tra gli effluvi di candele profumate, avvertendo a volte presenze subliminari tra le immagini, cose che svanivano all'istante. Avevo subito il fascino strano di quel posto, ma non avevo mai risvegliato in un certo senso il suo genio ad-dormentato. E forse avevo fatto bene.

«Non si sa mai cosa aspettarsi in quel luogo là.» Perlomeno era questo che mi aveva detto Bleys una volta. Non era certo se gli specchi scaglias-sero in oscuri regni dell'Ombra, se ipnotizzassero inducendo degli stati o-nirici bizzarri, se lanciassero in regni puramente simbolici arredati con il mobilio della psiche, o se giocassero in modo maligno oppure inoffensivo con la mente di chi li guardava.

Qualunque cosa succedesse in quel posto, non era di certo inoffensiva, perché — a volte — dei ladri occasionali, dei servitori, o dei visitatori, e-rano stati trovati morti, oppure sul pavimento storditi, o gementi in quel corridoio scintillante, il più delle volte con sul viso delle espressioni stra-nissime. E di solito, verso i solstizi e gli equinozi — anche se poteva suc-cedere in qualsiasi stagione — il corridoio stesso cambiava posizione, cer-te volte limitandosi solo a dividersi un pò. In genere veniva considerato con sospetto ed evitato, anche se poteva o fare del male, oppure fornire qualche presagio favorevole, sia immediatamente, sia dopo un'infinità di tempo. Era l'incertezza del tutto a generare dell'ansia.

E certe volte, mi avevano detto, sembrava quasi che cercasse una perso-na in particolare, per portarle i suoi ambigui doni. In tali occasioni era re-putato più pericoloso rifiutare che accettare l'invito.

«Allora, andiamo?», dissi. «Ora?» Le ombre danzarono sul pavimento, ed intravidi quelle candele intossi-

canti. Mi mossi in avanti, allungai la mano sinistra dietro l'angolo e tastai il muro. Frakir non si tese.

«Sono Merlin,» dissi, «e sono molto occupato in questo momento. Sei

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sicuro che non preferiresti riflettere qualcun altro?» La fiammella più vicina mi parve per un momento una mano fiammeg-

giante, che mi chiamasse. «Maledizione!», mormorai, ed entrai nel corridoio. Quando entrai non ebbi la sensazione di camminare. Un lungo tappeto

rosso copriva il pavimento: dei granelli di polvere si sollevarono sotto le luci, mentre passavo. Mi vedevo vicino a me stesso in una moltitudine di riflessi, mentre il tremolio delle candele faceva sembrare variopinto il mio abbigliamento, e trasformava il mio viso in un gioco di riflessi.

Un tremolio! Per un momento ebbi la sensazione che il fiero volto di Oberon mi stesse

guardando da un piccolo specchio ovale con la cornice in ferro: era certa-mente uno scherzo della luce.

Ancora il tremolio! Avrei giurato che una caricatura animalesca della mia stessa faccia mi

avesse guardato per un momento: aveva la lingua penzolante, ed era rifles-sa da un rettangolo di mercurio situato a media altezza alla mia sinistra, con una cornice a motivi floreali in ceramica. Quella faccia diventò im-provvisamente del tutto umana non appena mi girai, e mi beffeggiò.

Rumore di passi, passi ovattati. Mi chiesi se dovessi evocare la mia Vi-sione del Logrus o addirittura provare con quella del Disegno. Ero riluttan-te ad usare entrambe, però: il ricordo degli aspetti più sgradevoli delle due Potenze era ancora troppo vivo dentro di me per sentirmi tranquillo. Stava per succedermi qualcosa, ne ero certo.

Mi fermai ad esaminare quello che pensai dovesse essere il mio viso... in una cornice di metallo nero, adorna di diversi simboli d'argento delle Arti Magiche. Il cristallo era opaco, come se nelle sue profondità si agitassero degli spiriti. Il mio viso sembrava più magro, i lineamenti più marcati, con un debole alone rosso che mi tremolava intorno alla testa. C'era qualcosa di gelido e di vagamente sinistro in quella immagine, ma anche se rimasi a studiarla per un bel pezzo, non successe niente. Non ci furono né messag-gi, né illuminazioni, né cambiamenti. In realtà, più la guardavo, e più quei piccoli tocchi drammatici mi sembravano degli scherzi della luce.

Passai oltre, cogliendo lampi di paesaggi ultraterreni, di creature esoti-che, e tracce di ricordi quasi subliminari di amici e parenti defunti. Un qualcosa all'interno di uno specchio mi fece addirittura un saluto con la mano. Salutai anch'io. Essendo da poco sopravvissuto al trauma del trac-ciato che passava nella terra tra le Ombre, non ero così impaurito da quelle

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manifestazioni insolite e forse minacciose come sarei stato in qualsiasi al-tro momento. Pensai di vedere un uomo gobbo, che ondeggiava come se si trovasse in mezzo ad un forte vento, le mani legate dietro la schiena, ed un cielo di El Greco sulla testa.

«Ho passato due brutte giornate,» dissi ad alta voce, «e non c'è alcun se-gno di rallentamento. Credo proprio di andare di corsa, se capisci cosa vo-glio dire.»

Qualcosa mi colpì al rene destro: allora mi girai, ma non c'era nessuno. Poi sentii una mano sulla spalla che mi fece voltare. Collaborai rapidamen-te. Nessuno neanche lì.

«Chiedo scusa,» dissi, «se la situazione lo richiede.» Mani invisibili continuarono a spingermi avanti, facendomi passare da-

vanti a molti specchi bellissimi. Venni guidato davanti ad uno specchio di poco valore, con una cornice di legno tarlato. Aveva l'aspetto di un oggetto proveniente da una vendita all'ingrosso. C'era una leggera imperfezione nel cristallo, vicino al mio occhio sinistro.

La forza sconosciuta che mi aveva sospinto fino lì mi lasciò andare. Mi venne in mente che le Potenze che albergavano in quel luogo avevano for-se cercato di affrettare le cose per mia richiesta, e che non mi stavano sol-lecitando con un certo umore irritabile.

Perciò dissi «Grazie» tanto per stare tranquillo, e continuai a guardare. Mossi la testa avanti e indietro, a destra e a sinistra, producendo delle in-crespature nella mia immagine. Ripetei i movimenti mentre aspettavo il compiersi degli eventi.

La mia immagine rimase inalterata, ma al terzo o al quarto ondeggia-mento lo sfondo cambiò. Non mi trovavo più alle spalle una parete di specchi debolmente illuminata: la parete era scomparsa, e non riapparve nello specchio al mio movimento successivo. Al suo posto c'era una pianu-ra di arbusti sotto un cielo notturno. Continuai a muovere ancora la testa, ma l'effetto di increspamento era svanito. I cespugli sembravano molto reali, anche se la mia visione periferica mi mostrava che il corridoio era rimasto inalterato e che alle due estremità c'erano ancora i muri.

Continuai a studiare gli arbusti apparentemente riflessi, cercando dei presagi, dei portenti, dei segni, o anche il più piccolo movimento. Non si manifestò niente del genere, pur se si avvertiva una sensazione di reale profondità. Percepivo una specie di venticello fresco dietro al collo. Dove-vo essere rimasto a guardare per diversi minuti, aspettando che lo specchio producesse qualcosa di nuovo. Ma non accadde niente. Se quello era il

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meglio che poteva offrire, allora decisi che era ora di muoversi. Mi sembrò che qualcosa si muovesse tra i cespugli alle mie spalle, pro-

vocando un riflesso. Mi girai immediatamente, proteggendomi con le ma-ni.

Vidi che era solo il vento che li aveva mossi. Poi mi resi conto di non trovarmi più nel corridoio, e mi voltai nuovamente: lo specchio e la sua pa-rete erano scomparsi. Adesso avevo di fronte una collina, sulla cui sommi-tà c'era una fila di rovine. Da sotto il muro crollato proveniva una luce in-certa. Si risvegliarono sia la mia curiosità, sia la ricerca di uno scopo, e cominciai a risalire lentamente la collina, la coscienza sempre vigile.

Il cielo pareva diventare più scuro mano a mano che salivo, ed era sere-no, con un'abbondanza di stelle che luccicavano in costellazioni sconosciu-te. Mi mossi un pò a fatica tra le pietre, l'erbacce, i cespugli, le macerie. Dall'interno del muro ricoperto d'edera adesso sentivo arrivare delle voci. Sebbene non riuscissi a distinguere le parole, non mi parve una conversa-zione quella che udivo, quanto piuttosto una cacofonia, come se un gran numero di individui, di razze e di età miste, stessero recitando simultane-amente dei monologhi.

Arrivato sulla cima della collina, allungai una mano finché non trovai la superficie irregolare del muro. Decisi di non andare a vedere che genere di attività si stesse svolgendo all'interno. Poteva darsi che qualcuno che non conoscevo mi vedesse. Mi sembrò molto più semplice arrivare il più in al-to possibile, mettere i palmi delle mani sulla sommità più vicina, e tirarmi su: cosa questa che feci. Riuscii a trovare un appoggio anche per la punta dei piedi, quando la mia testa raggiunse la sommità, e ad alleviare l'indo-lenzimento alle braccia posando parte del mio peso su di essi.

Negli ultimi centimetri tirai su il corpo con attenzione, scrutando tra le pietre rotte e giù nell'interno dell'edificio diroccato. Sembrava una specie di chiesa. Il tetto era crollato, ed il muro posteriore era ancora in piedi nel-le medesime condizioni di quello cui mi appoggiavo. C'era un altare al-quanto malridotto in una zona rialzata alla mia destra. Qualunque cosa fos-se accaduta in quel posto, doveva essersi verificata tanto tempo prima, per-ché gli arbusti ed i viticci erano cresciuti irregolarmente sia all'interno che all'esterno dell'edificio, addolcendo i contorni di pilastri spezzati, di colon-ne cadute, di frammenti di tetto.

Sotto di me, in un'area libera, era stato disegnato un grande pentagram-ma. Sulla punta di ogni stella c'era una persona, la faccia rivolta verso l'e-sterno. Nei cinque punti in cui le linee si intersecavano, all'interno del di-

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segno, splendeva una torcia, la cui impugnatura era conficcata in terra. Sembrava una particolarissima variante dei riti che conoscevo, e mi mera-vigliai del fatto che i cinque individui non fossero protetti meglio e che stessero operando in concerto anziché partire ognuno per un viaggio per-sonale ignorando gli altri. I tre che potevo vedere chiaramente mi davano la schiena. I due che avevano la faccia rivolta nella mia direzione erano poco distinguibili, con i volti seminascosti da ombre. Alcune voci era ma-schili, altre femminili. Una stava cantando, due salmodiavano; le altre due stavano semplicemente parlando, con delle tonalità artificiali e teatrali.

Mi tirai su più in alto, cercando di vedere la faccia dei due più vicini. Perché c'era qualcosa di familiare nell'insieme, e sentivo che, se avessi ri-conosciuto l'identità di una sola persona, avrei potuto scoprire anche quella delle altre.

Un'altra domanda ai primi posti nella lista era cos'era che stavano chia-mando. Ero al sicuro lì sul muro, così vicino alle loro operazioni, in caso si fosse verificato qualcosa di insolito? Mi tirai ancora più sù.

Avvertii che il mio centro di gravità si era spostato, mentre la visuale era migliorata. Poi mi resi conto che stavo avvicinandomi senza sforzo. Un se-condo dopo vidi che il muro stava crollando, trascinandomi giù, a destra, al centro di quel rituale dalla strana coreografia. Cercai di allontanarmi dal muro, sperando di rotolare in terra e scappare via il più in fretta possibile. Ma era già troppo tardi: la mia brusca spinta mi sollevò per aria, ma non fermò la mia caduta verso il basso.

Nessuno di quelli che mi stavano sotto si spostò minimamente, anche se piovevano calcinacci, e finalmente, mentre precipitavo giù, riuscii a co-gliere qualche parola riconoscibile.

«Chiamo te, Merlin, perché tu cada in mio potere adesso!», stava salmo-diando una delle donne.

Un rituale piuttosto efficace dopotutto, riflettei, mentre atterravo di schiena sul pentagramma, le braccia svolazzanti all'altezza delle spalle e le gambe aperte. Ero in grado di piegare il mento, di proteggermi la testa, e lo sbattere delle mie braccia sembrava aver prodotto l'effetto di smorzare la caduta, cosicché non ero troppo malconcio dopo l'impatto.

Le torri di fuoco alte tre metri ondeggiarono davanti a me per diversi se-condi, poi si stabilizzarono in una fiammata permanente. Le cinque figure continuarono a guardare verso l'esterno. Cercai di alzarmi, e scoprii che non potevo. Era come se mi avessero incollato in quella posizione.

Frakir mi aveva avvertito troppo tardi, mentre stavo già cadendo, e ades-

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so ero incerto sull'eventuale impiego in cui avrebbe potuto servirmi. Pote-vo farlo strisciare fino ad uno di quegli individui con l'ordine di salirgli fi-no alla gola e strangolarlo ma, fino a quel momento, non avevo modo di stabilire chi di loro meritasse un simile trattamento.

«Sono mortificato di essere piombato qui senza preavviso,» dissi, «e mi rendo conto che questa è una festa privata. Se qualcuno vuole essere così gentile da liberarmi, me ne andrò subito...»

La figura vicina al mio piede sinistro voltò la faccia e mi fissò. Indossa-va un vestito azzurro, ma non c'era nessuna maschera sul suo viso reso ros-so dal fuoco. Aveva un sorriso forzato, che svanì non appena si umettò le labbra. Era Julia, e teneva un coltello nella mano destra.

«Il solito gradasso!», mi disse. «Sempre pronto con una risposta insolen-te in ogni situazione. È una copertura per nascondere la tua ritrosia ad im-pegnarti in qualcosa o con qualcuno. Perfino con quelli che ti amano.»

«Potrebbe anche essere del semplice senso dell'umorismo,» dissi, «una cosa questa che comincio a capire che tu non hai mai avuto.»

Scosse adagio la testa. «Tieni tutti a debita distanza. Tu non ti fidi di nessuno.» «È una caratteristica di famiglia,» dissi. «Ma la prudenza non esclude

l'affetto.» Cominciò a sollevare la sua lama, ma indugiò un attimo. «Vorresti dirmi che mi ami ancora?», mi chiese. «Non ho mai smesso,» dissi. «È solo che ti ho incontrata troppo presto.

Tu volevi da me più di quanto potessi darti in quel momento.» «Stai mentendo,» disse, «perché la tua vita è nelle mie mani.» «Potrebbero venirmi in mente diecimila ragioni per mentire,» dissi, «ma,

sfortunatamente, sto dicendo la verità.» In quel momento si udì un'altra voce familiare, che proveniva dalla mia

destra. «Era troppo presto per noi per parlare di queste cose,» disse, «ma le in-

vidio il tuo amore.» Girando la testa, vidi quest'altra, persona, adesso voltata verso l'interno:

era Coral, con l'occhio destro coperto da una benda, ed anche lei teneva in mano un coltello. Poi vidi che cosa aveva nella sinistra, e mi voltai a guar-dare nuovamente Julia. Sì, avevano tutte e due delle forchette, oltre ai col-telli.

«Et two,» dissi. «Ti ho detto che non parlo inglese,» replicò Coral.

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«Et tu,» rispose Julia, sollevando le sue posate. «Chi dice che non ho il senso dell'umorismo?»

Si sputarono addosso di fronte a me, e parte dei loro sputi non restò quel che si dice a distanza.

Mi venne in mente che Luke avrebbe provato a sistemare le cose facen-do a tutte e due una dichiarazione lì su due piedi. Ebbi la sensazione che con me non avrebbe funzionato, perciò non lo feci.

«Questa è un'oggettivazione della nevrosi matrimoniale,» mi dissi. «È un'esperienza di proiezione. È un sogno che sembra vero. È...»

Julia si piegò su un ginocchio, e la sua mano destra brillò verso il basso. Sentii entrare la lama nella mia coscia sinistra.

Il mio urlo venne interrotto quando Coral mi piantò la sua forchetta nella spalla destra.

«Tutto questo è ridicolo!», gridai, mentre nelle loro mani brillavano le altre posate ed io avvertivo nuove fitte di dolore.

Poi la figura che si trovava sulla punta della stella vicina al mio piede destro si girò lentamente, graziosamente. Era avvolta in un mantello mar-rone scuro con una bordatura gialla, che le braccia incrociate all'altezza degli occhi tenevano sollevato.

«Fermatevi, maledette!», ordinò, aprendo il mantello, il che le conferì l'aspetto di una farfalla vestita a lutto. Naturalmente era Dara, mia madre.

Julia e Coral si erano già portate le forchette alla bocca, e stavano masti-cando. C'era una gocciolina di sangue accanto alle labbra di Julia. Il man-tello continuò a spiegarsi dalle dita di mia madre come se fosse vivo, come se facesse parte di lei. Le sue ali nascosero completamente alla mia vista Julia e Coral, cadendo sopra di loro mentre lei continuava ad aprire le braccia, coprendole, schiacciandole verso terra fino a ridurle due mucchiet-ti che rimpicciolirono sempre di più finché l'indumento non riassunse una posizione naturale e le due donne non furono scomparse dalla stella.

Allora si udì un leggero battito di mani, seguito da una sonora risata. «Davvero ben fatto!», disse quella voce dolorosamente familiare. «Ma,

in fin dei conti, lui è stato sempre il tuo preferito.» «Quello che mi piaceva di più!», lo corresse lei. «Il povero Despil non è nemmeno in gara?», chiese Jurt. «Stai diventando scortese,» gli comunicò lei. «Quel folle Principe di Ambra ti piaceva molto più di nostro padre, che

era un uomo rispettabile,» disse lui. «Per questo Merlin è stato sempre il tuo cocco, non è vero?»

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«Non è del tutto vero, Jurt, e lo sai,» disse lei. Lui rise nuovamente. «Lo abbiamo chiamato perché lo vogliamo tutti,» disse lui, «per motivi

diversi. Ma alla fine tutti i nostri desideri si riducono a questo, no?» Udii il ringhio, e voltai la testa appena in tempo per vedere la sua faccia

trasformarsi in quella di un lupo col muso abbassato, e con le zanne che luccicavano non appena cadde a quattro zampe e mi squarciò la spalla sini-stra, assaggiando il gusto della mia carne.

«Basta!», gridò lei. «Piccola bestia!» Quello sollevò il muso ed ululò, riproducendo il verso del coyote, una

specie di risata folle. Uno stivale nero lo colpì alla spalla, rivoltandolo e facendolo finire con-

tro la sezione non ancora crollata di muro che si trovava dietro a lui, che cadde istantaneamente sotto l'urto. Allora emise un unico e breve uggiolìo prima di essere completamente travolto dalle macerie.

«Bene, bene, bene!», sentii che diceva Dara e, guardandola bene, mi ac-corsi che anche lei aveva in mano un coltello ed una forchetta. «Che ci fa un bastardo come te in un bel posto come questo?»

«Tiene a bada l'ultimo dei predatori, o così sembrerebbe...», rispose la voce che una volta mi aveva raccontato una lunghissima storia contenente molteplici versioni di un incidente d'auto e numerose gaffes genealogiche.

Dara balzò verso di me, ma l'uomo si abbassò, mi afferrò sotto le spalle e mi sottrasse a lei. Poi il suo grosso mantello nero roteò come quello di un matador, coprendola. Come aveva fatto con Coral e Julia, anche lei parve liquefarsi in terra sotto di esso. L'uomo mi rimise in piedi, poi si inchinò, raccolse il mantello e lo ripulì. Mentre lo riagganciava con una spilla a forma di rosa d'argento, controllai che non avesse delle zanne o dei coltelli.

«Quattro dei cinque sono stati fatti fuori,» dissi, ripulendomi. «Per quan-to reale possa sembrare, sono certo che sia vero soltanto in senso analogico o anagogico. Allora, come mai tu non hai tendenze cannibalesche?»

«A pensarci bene,» mi disse, infilandosi un guanto d'argento, «non sono mai stato un vero padre per te. È piuttosto difficile quando non sai nem-meno di avere un figlio. Perciò non posso pretendere niente da te.»

«Sembra proprio Grayswandir quella che porti,» dissi. Annuì col capo. «Sembra anche che ti sia stata utile.» «Presumo che dovrei ringraziarti. Presumo anche che tu sia la persona...

sbagliata cui chiedere se sei stato proprio tu a portarmi via dalla grotta per

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condurmi nella terra tra le Ombre.» «Oh, ma ero proprio io.» «È ovvio che lo diresti.» «Non vedo perché dovrei, se non lo facessi. Attento! Il muro!» Una rapida occhiata mi disse che un'altra grossa sezione di muro ci stava

per cadere addosso. Allora lui mi spinse da una parte, e mi ritrovai nuova-mente sdraiato sul pentagramma. Sentii il rumore delle pietre che cadevano alle mie spalle, allora mi sollevai un pò e mi trascinai ancora più lontano.

Qualcosa mi colpì alla testa. Mi risvegliai nel Corridoio degli Specchi. Ero a faccia in giù, con la te-

sta reclinata sull'avambraccio destro ed una pietra rettangolare stretta in pugno, mentre l'odore delle candele mi aleggiava intorno. Quando feci per alzarmi, avvertii del dolore ad entrambe le spalle ed alla coscia sinistra. Un rapido esame mi mostrò che ero ferito in tutti e tre i punti. Anche se adesso c'era ben poco che potessi fare per provare l'autenticità della mia recente avventura, non era neanche qualcosa che mi sentissi di congedare con u-n'alzata di spalle.

Mi alzai in piedi e zoppicai per il corridoio ritornando da dove ero venu-to, oltre le mie camere.

«Dove sei andato?», mi chiese Random dal basso. «Huh? Cosa vuoi dire?», risposi. «Sei tornato dal corridoio, ma non c'è niente lì.» «Quanto tempo fa mi sono allontanato?» «Forse mezzo minuto,» mi rispose. Gli feci vedere la pietra che stringevo ancora in mano. «L'ho vista sul pavimento. Non riuscivo a capire cos'era,» dissi. «Probabilmente è caduta lì da uno dei muri quando le Potenze si sono

scontrate» disse, «Un tempo c'erano molti archi ricavati in pietre come quella. Molte sono state intonacate nel tuo pavimento.»

«Oh!», dissi. «Ci vediamo prima che io parta.» «Fatti vedere!», mi rispose, ed allora mi diressi verso la mia camera fa-

cendomi largo tra le macerie dei muri crollati. Era stato incendiato anche il muro di fondo, notai, e c'era una grossa a-

pertura nelle camere polverose di Brand. Mi fermai a studiarla. Sincroni-smo, stabilii. Sembrava che un tempo ci fosse stata un arcata che collegava quelle camere con queste. Esaminai la curvatura emersa sul lato sinistro. Sì, era stata ricavata da pietre simili a quella che tenevo in mano. In real-

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tà... Levai l'intonaco ed infilai la mia pietra in un buco che si era aperto nel-

l'arco. Entrava perfettamente! Anzi, quando andai a sfilarla, si rifiutò di muoversi. L'avevo veramente portata con me da quel rituale onirico e sini-stro padre-madre-fratello-amanti che era avvenuto dietro lo specchio? O l'avevo raccolta inconsapevolmente al mio ritorno dalle macerie dovute al-la recente esplosione dell'edificio?

Mi allontanai, e ripulii il mio mantello dalla polvere. Sì, c'erano dei fo-rellini che potevano somigliare ai buchi praticati da una forchetta, in corri-spondenza della spalla destra, ed un segno simile al morso di un animale in corrispondenza della sinistra. Inoltre, c'era del sangue secco sulla gamba sinistra dei miei pantaloni, nella zona di uno strappo sotto al quale la mia coscia diventava più tenera.

Mi lavai il viso ed i denti, mi pettinai, e mi misi dei cerotti sulla gamba e sulla spalla. Il metabolismo caratteristico della mia famiglia mi avrebbe permesso di guarire in un giorno, ma non volevo che un eventuale scontro mi riaprisse le ferite e sporcasse di sangue i miei vestiti nuovi.

A proposito dei quali... L'armadio era illeso, e pensai di mettermi degli altri vestiti, per fornire a

Luke un felice ricordo della sua incoronazione. Indossai così una camicia dorata e dei pantaloni blu di Prussia che rispondevano quasi esattamente ai colori di Berkeley; un gilé di pelle che si accoppiava alla calzamaglia, un mantello intonato con l'orlo dorato, ed un cinturone nero per la spada, al quale erano attaccati dei guanti neri, il che mi ricordò che mi serviva una nuova lama. Ed anche un pugnale, giacché c'ero. Stavo cercando un cap-pello adatto, quando venni distratto da una serie di rumori. Mi voltai.

Dietro una nuvola di polvere che si era appena alzata avevo adesso una visione simmetrica degli appartamenti di Brand; al posto di un buco aper-tosi nel muro, l'architrave era perfettamente in piedi ed intatta, e la parete era illesa, sia ai lati che in alto. Anche il muro alla mia destra sembrava meno danneggiato di prima.

Mi avvicinai e passai la mano sulla pietre, poi ispezionai le zone intona-cate adiacenti, cercando delle crepe. Niente: era tutto integro. La pietra a-veva suscitato un Incantesimo. A quale fine?

Oltrepassai l'architrave e mi guardai intorno. La stanza era buia, e di ri-flesso evocai la Visione del Logrus. Arrivò e mi servì, come al solito. For-se il Logrus aveva deciso di non farmi il muso.

A quel livello potevo vedere i residuati di molti esperimenti magici ed

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un certo numero di Incantesimi ancora operanti. La gran parte dei Maghi lascia dei residui magici normalmente non visibili, ma sembrava che Brand si fosse comportato da vero zotico, anche se, naturalmente, era pos-sibile che verso la fine avesse dovuto affrettarsi mentre cercava di prendere il controllo dell'universo. Non è il genere di occupazione in cui la precisio-ne conta come dovrebbe in altri sforzi.

Proseguii il mio giro di ispezione. C'erano dei misteri, lì, cose incompiu-te che indicavano come fosse andato oltre certe strade magiche che perso-nalmente non avrei mai provato. Eppure, nulla che potessi vedere o toccare dava la sensazione di un pericolo grave ed imminente. Era possibile, ades-so che avevo avuto finalmente la possibilità di vederli, che decidessi di la-sciare lì l'architrave e annettere gli appartamenti di Brand ai miei.

Mentre uscivo, decisi di controllare l'armadio di Brand per vedere se a-veva un cappello che si abbinasse ai vestiti che portavo. Lo aprii e scoprii un cappello a tre punte con una piuma dorata, che mi andava benissimo. Il colore era leggermente diverso, ma mi venne in mente un Incantesimo che lo modificò un pò. Mentre stavo per andarmene, nella mia Visione del Lo-grus balenò per un attimo qualcosa dietro l'ultimo scaffale che ospitava i cappelli. Allungai una mano e la toccai.

Era un'affusolata custodia ricamata in oro color verde scuro, e l'elsa della lama che ne usciva sembrava placcata anch'essa in oro, con un grosso sme-raldo incastonato nel pomello. La presi e la sfilai piano, aspettandomi qua-si il lamento di un Demone sul quale fosse caduto un palloncino pieno d'Acqua Santa. Invece sibilò e fumò soltanto. C'era un delicato disegno in-ciso nel metallo della lama... a malapena riconoscibile. Sì, era una sezione del Disegno, solo che l'iscrizione riproduceva l'ultima parte del Disegno, mentre quella che recava Grayswandir riproduceva una sezione iniziale.

La riposi nel fodero, e d'impulso me l'attaccai alla cintura. La spada del suo vecchio sarebbe stata un fantastico regalo d'incoronazione per Luke, decisi, perciò l'avrei presa per dargliela. Poi uscii nel corridoio laterale, mi feci strada tra le macerie di un pezzo di muro crollato degli appartamenti di Gérard, superai le stanze di Fiona, ed arrivai a quelle di mio padre. C'era ancora un'altra cosa che volevo verificare, e la spada me l'aveva ricordato. Rovistai nella tasca alla ricerca della chiave che avevo trasferito dai panta-loni macchiati. Poi stabilii che era meglio bussare. E se...

Bussai e attesi, poi ribussai ed attesi ancora. In quel silenzio aprii la por-ta con la chiave ed entrai. Non mi allontanai dalla soglia: volevo solo con-trollare l'attaccapanni.

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Grayswandir era scomparsa dal gancio sul quale l'avevo appesa. Uscii, richiudendo a chiave la porta. Il fatto che l'attaccapanni fosse vuo-

to era la conferma che cercavo, ma non ero sicuro di cosa potesse dimo-strare. Eppure ero stato spinto a controllare, il che mi faceva sentire che la rivelazione finale doveva essere più che mai prossima...

Tornai indietro, superando le stanze di Fiona, quindi rientrai nelle came-re di Brand per la porta che avevo lasciato socchiusa. Mi guardai intorno finché non localizzai una chiave in un portacenere. Chiusi la porta e misi in tasca la chiave, il che era alquanto stupido, perché chiunque adesso po-teva entrare dalla mia camera, e nella mia camera mancava un muro. Ep-pure...

Esitai prima di tornare nel soggiorno dove c'era il Tabriz macchiato dal-lo sputo della ty'iga e parzialmente coperto da intonaco crollato. C'era qualcosa di riposante negli alloggi di Brand, un senso di pace che prima non avevo proprio notato. Diedi un'occhiata in giro, aprendo cassetti e guardando all'interno di scatole magiche, studiando un disegno su cartone fatto da Brand. La Visione del Logrus mi mostrò che in una delle colonne del letto era stato nascosto qualcosa di piccolo, potente e magico, che irra-diava linee di forza tutt'intorno.

Svitai il pomello e trovai lo scomparto segreto. Nascondeva una borsetta di velluto che conteneva un anello. La maglia era larga, presumibilmente di platino. Possedeva un meccanismo a ruota fatto di un metallo rossastro, con un'infinità di raggi sottili, molti dei quali larghi quanto un capello. E da ognuno di quei raggi si dipartiva una linea di potere che confluiva da qualche parte, probabilmente nell'Ombra, dove doveva trovarsi la fonte di un potere o la sorgente di un Incantesimo. Forse Luke avrebbe preferito avere l'anello, al posto della spada.

Quando me lo infilai al dito, parve allungare delle radici fino al centro del mio corpo. Potevo percorrere quei nessi fino all'anello e poi riuscirne passando per quei collegamenti. Rimasi impressionato dalla varietà di e-nergie che raggiungeva e controllava, dalle semplici forze chtoniche alle più sosfisticate costruzioni di Alta Magia, da cose elementari a cose che somigliavano a Dei lobotomizzati. Mi chiesi come mai non lo avesse por-tato il giorno della Battaglia di Patternfall. Se l'avesse fatto, avevo la sen-sazione che sarebbe stato veramente invincibile. A quest'ora saremmo vis-suti tutti a Brandenberg, a Castle Brand. Mi domandai anche perché Fiona, nella stanza comunicante, non avesse avvertito la sua presenza e non l'a-vesse cercato. D'altra parte, non l'avevo fatto nemmeno io. A distanza di

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pochi passi evidentemente non veniva individuato. Era sorprendente quanti tesori contenesse quel posto. Aveva qualcosa a

che vedere con l'effetto «universo privato» che era stato forse raggiunto in una di quelle stanze?

L'anello era una stupenda alternativa al Potere del Disegno ed al Potere del Logrus, agganciato com'era a tutte quelle fonti energetiche. Dovevano esserci voluti dei secoli per renderlo così potente. Per qualsiasi scopo Brand l'avesse voluto, non aveva fatto parte di un progetto a breve termine. Decisi che non potevo consegnarlo a Luke, o a chiunque altro fosse pratico di Arti Magiche. Non mi sarei fidato nemmeno di una persona normale. E di certo non mi sentivo di rimetterlo nella colonna del letto. Che cos'era quel pulsare che sentivo al polso? Ah, sì, Frakir: durava già da un bel pez-zo, ed io me ne stavo accorgendo solo adesso.

«Mi dispiace che tu abbia perso la voce, amico mio,» dissi, accarezzan-dolo, mentre cercavo nella stanza delle possibili minacce, sia fisiche che psichiche. «Non c'è proprio niente di allarmante, qui dentro, accidentac-cio!»

Scese immediatamente spiraleggiando dal mio polso, e cercò di levarmi l'anello dal dito.

«Ferma!», gli ordinai. «Lo so che l'anello potrebbe essere pericoloso. Ma solo se lo usi in modo sbagliato. Io sono un Mago, ricordi? Sono prati-co di queste cose. Non ha nulla di speciale che dovrei temere.»

Ma Frakir disobbedì al mio ordine e continuò ad attaccare l'anello, cosa che attribuii esclusivamente ad una forma di gelosia verso l'oggetto magi-co. Lo legai in un nodo intorno alla colonna del letto e lo lasciai lì, perché imparasse la lezione.

Cominciai ad esplorare l'appartamento facendo maggiore attenzione ai particolari. Se dovevo tenermi la spada e l'anello, sarebbe stato carino tro-vare un'altra cosa appartenente al padre da portare a Luke...

«Merlin! Merlin!», sentii chiamare dall'altra parte della stanza. Rialzandomi da terra, dove stavo cercando eventuali buchi, tornai al mio

arco, lo oltrepassai e fui nuovamente nel mio soggiorno. Lì mi fermai, no-nostante avessi riconosciuto la voce di Random che continuava a chia-marmi. Il muro che si trovava lungo il corridoio laterale era stato quasi completamente ricostruito, dopo l'ultima volta che l'avevo visto, come se una invisibile squadra di muratori ed imbianchini avesse lavorato in silen-zio dopo che avevo rimesso la pietra onirica nell'entrata nel regno di Brand.

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Stupefacente! Rimasi lì a guardare, sperando di veder accadere qualcosa di strano nell'area danneggiata. Poi sentii che Random borbottava: «Credo che se ne sia andato.» Allora gli risposi: «Sì? Che c'è?»

«Vieni subito qui!», mi disse. «Mi serve un tuo consiglio.» Uscii nel corridoio attraverso l'apertura che era rimasta in quella parete,

e guardai di lato. Percepii istantaneamente le capacità dell'anello, che ri-spondeva come uno strumento musicale alle mie necessità più immediate. La linea giusta venne attivata mentre seguivo il suggerimento, levavo i guanti dalla cintura, li indossavo, e mi ritrovavo a levitare verso l'apertura nel soffitto. Lo avevo fatto perché mi era venuto in mente che Random a-vrebbe potuto riconoscere l'anello che una volta era di Brand, il che avreb-be potuto far nascere una discussione complicata che per il momento non avevo alcuna voglia di sostenere.

Mentre mi dirigevo verso lo studio, mi coprii il fianco col mantello, in modo da nascondere la spada.

«È un bell'effetto!», disse Random. «Sono lieto di vedere che tieni in e-sercizio i tuoi poteri magici: è per questo che ti ho chiamato.»

Gli feci un inchino. Essere così ben vestito mi faceva sentire un pò cor-tigiano.

«Come posso servirti?» «Levati quella roba e vieni qui,» mi disse, prendendomi per il gomito e

spingendomi verso l'anticamera. Vialle era alla porta, e la teneva aperta. «Merlin?», disse, mentre venivo sospinto dentro. «Sì?» «Non ne ero certa,» disse a bassa voce. «Di cosa?», le chiesi. «Che fossi tu,» mi rispose. «Oh, stai tranquilla, sono proprio io!», l'assicurai. «È proprio mio fratello,» dichiarò Mandor, alzandosi dalla sedia e ve-

nendoci incontro. Il suo braccio era stato fasciato ed immobilizzato con una stecca, ed aveva la faccia piuttosto rilassata.

«Se c'è qualcosa in lui che te lo fa sentire estraneo,» proseguì, «forse è dovuto a tutte le esperienze traumatiche che ha subito da quando è partito.»

«È vero?», chiese Random. «Sì,» risposi. «Non sapevo che fosse così visibile.» «Stai bene?», mi domandò Random. «Sembra che sia illeso,» dissi. «Bene! Allora lasceremo i particolari della tua storia per un'altra volta.

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Come vedi, Coral e Dworkin se ne sono andati. Non li ho visti andarsene: ero ancora nello studio quando è successo.»

«Come è potuto accadere?», chiesi. «Dworkin ha finito l'operazione,» disse Mandor, «ha preso la ragazza

per mano, l'ha fatta alzare e l'ha trasportata fuori di qui. È stato fatto tutto con molta eleganza. Un momento prima erano vicino al letto, e il momento dopo le loro immagini residuali hanno attraversato di corsa lo spettro e so-no scomparse.»

«Dici che le ha trasportate lui. Come puoi essere sicuro che non siano state rapite dal Timone Fantasma o da una delle due Potenze?», domandai.

«Perché ho visto la sua faccia,» mi disse, «e non mostrava la minima sorpresa, ma soltanto un sorrisetto.»

«Presumo tu abbia ragione,» ammisi. «Allora chi ti ha sistemato il brac-cio, se Random non era nello studio e Dworkin era occupato?»

«Ci ho pensato io,» disse Vialle. «Mi hanno insegnato a farlo.» «Allora sei l'unico testimone oculare della loro scomparsa?», chiesi a

Mandor. Annuì con la testa. «Quello che vorrei da te,» disse Random, «è un'idea in merito a dove

possono essere scomparsi. Mandor dice che non lo sa. Tieni!» Mi porse una catena, dalla quale pendeva un'incastonatura di metallo. «E questo cos'è?», chiesi. «Era il più importante dei Gioielli della Corona,» disse, «il Gioiello del

Giudizio. Ecco cosa mi hanno lasciato. La pietra è quello che hanno pre-so.»

«Oh!», dissi. Poi: «Deve trovarsi al sicuro se è nelle mani di Dworkin. Aveva detto qualcosa riguardo ad un posto sicuro, e lui ne sa più di chiun-que altro...»

«Potrebbe anche essere svanito di nuovo,» disse Random. «Ma non in-tendo discutere le sue capacità di custodia. Voglio solo sapere dove diavo-lo se n'è andato con la pietra.»

«Non credo che abbia lasciato tracce,» disse Mandor. «In che punto erano?», domandai. «Laggiù,» mi disse, facendo un gesto col braccio sano, «sulla destra del

letto.» Andai là, scegliendo tra le forze che comandavo la più appropriata. «Il piede un pò più vicino,» mi disse. Annuii col capo, sentendo che non sarebbe stato difficile percorrere con

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lo sguardo una breve distanza temporale entro il mio spazio personale. Vidi esplodere l'arcobaleno e scorsi le loro sagome. Poi percepii una

sensazione di freddo. Dall'anello partì una linea di potenza, si collegò, li inondò di tutti i colori

dell'arcobaleno, poi attraversò la porta che si chiuse con una dolce implo-sione. Portandomi il palmo della mano alla fronte, ebbi l'impresione di se-guire la linea...

... giù fino ad una grande sala dove alla mia sinistra erano appesi sei scudi. Sulla mia destra pendevano bandiere e pennoni. In un enorme foco-lare davanti a me ardeva un fuoco...

«Vedo il posto in cui sono andati,» dissi, «ma non lo riconosco.» «C'è un modo che ci permetta di condividere la tua visione?», chiese

Random. «Forse,» risposi, comprendendo che esisteva nel momento stesso in cui

lo dicevo. «Guarda lo specchio.» Random si voltò, si avvicinò al cristallo attraverso il quale Dworkin mi

aveva portato... quanto tempo prima? «Per il sangue della bestia del polo ed in nome della conchiglia conficca-

ta al centro del mondo,» dissi, sentendo la necessità di rivolgermi a due dei poteri che controllavo, «che appaia la visione!»

Lo specchio si appannò, poi si rischiarò, riflettendo la sala della mia vi-sione.

«Che io sia dannato!», disse Random. «L'ha portata a Kashfa. Mi chiedo perché.»

«Un giorno dovrai insegnarmi quel trucco, fratello,» commentò Mandor. «Visto che stavo giusto per partire per Kashfa,» dissi, «c'è qualcosa in

particolare che dovrei fare laggiù?» «Fare?», disse Random. «Soltanto scoprire che sta succedendo e farmelo

sapere, capito?» «Naturalmente!», dissi, sfoderando i miei Trionfi. Vialle si avvicinò e mi prese la mano, come se volesse dirmi arrivederci. «Guanti,» commentò. «Vorrei sembrare un tantino formale,» le spiegai. «A Kashfa c'è qualcosa di cui Coral sembra avere paura...», mi sussurrò.

«Mormorava nel sonno.» «Grazie,» dissi. «Adesso sono pronto a tutto.» «Puoi pure dirlo per sentirti sicuro,» mi rispose, «ma non crederci mai.» Risi, mettendomi davanti un Trionfo e fingendo di concentrarmi su di

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esso, quando in realtà stavo estendendo la forza del mio essere lungo la li-nea che avevo inviato a Kashfa. Riaprii la strada che Dworkin aveva preso e mi ci immisi.

12.

Kashfa... Ero nella sala di pietra grigia, con le bandiere e gli scudi sulle pareti, i

giunchi sparsi sul pavimento, un mobilio rustico tutto intorno, un fuoco davanti che non riusciva a disperdere l'umidità del luogo, e forti odori di cucina nell'aria.

Ero l'unica persona nella stanza, anche se sentivo delle voci provenire da diverse direzioni, insieme a suoni di musicisti che accordavano gli stru-menti e provavano. Allora ero arrivato proprio in tempo! Lo svantaggio di essere giunto in quel modo anziché nella consueta maniera via Trionfo, era che non c'era nessuno che potesse dirmi cosa stava succedendo. Il vantag-gio era lo stesso, vale a dire che, se volevo spiare, quello era il momento giusto. L'anello, un'autentica enciclopedia di Magia, mi trovò un Incante-simo di Invisibilità nel quale mi ammantai velocemente.

Passai l'ora successiva in esplorazione. C'erano quattro larghi edifici e molti altri più piccoli in quell'area centrale. C'era un altro settore dietro il muro, ed un terzo al di là di quello, tre zone concentriche i cui muri erano coperti d'edera. Non vidi alcun segno di danni particolari, ed ebbi la sensa-zione che gli uomini di Dalt non avessero incontrato molta resistenza. Nes-suna indicazione di saccheggi e incendi ma, in fin dei conti, erano venuti a reclamare una proprietà, ed avevo il vago sospetto che Jastra si fosse ac-cordata perché rimanesse relativamente intatta.

I soldati occupavano tutte e tre le cinte, ed ebbi la sensazione, dalla ca-duta di un pò di foglie, che sarebbero rimasti lì fino alla fine della cerimo-nia dell'incoronazione. Ce n'erano parecchi nel grosso piazzale dell'area centrale, che stavano prendendo in giro le guardie locali che, nelle loro al-legre divise, aspettavano il Corteo Reale. Nessuno di loro, però, si stava comportando particolarmente male, e ciò probabilmente era dovuto al fatto che Luke era amato da entrambe le fazioni, nonostante sembrasse che mol-ti soldati di entrambe le parti si conoscessero personalmente.

La Prima Chiesa Unicorniana di Kashfa — come si potrebbe tradurre il nome — era dall'altra parte del piazzale, di fronte al palazzo vero e pro-prio. L'edificio in cui ero arrivato era ausiliario, e questa volta veniva im-

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piegato per ospitare molti ospiti invitati in tutta fretta, insieme ai servitori, ai valletti ed agli attendenti.

Non avevo idea di dove sarebbe avvenuta esattamente l'incoronazione, ma avevo risolto di cercare immediatamente Luke, prima che venisse tra-volto dal corso degli eventi. Forse poteva sapere dove era stata portata Co-ral, e perché.

Così mi trovai una nicchia con uno sfondo neutro che perfino uno del luogo non avrebbe probabilmente riconosciuto fuori dal contesto, feci scendere il mio Incantesimo dell'Invisibilità, localizzai il Trionfo di Luke, e provai a chiamarlo. Non volevo che pensasse che ero già in città perché non volevo fargli sapere che avevo il potere di piombare nei posti in quel modo. Questo secondo la teoria che alla gente non bisogna mai dire tutto.

«Merlin!», esclamò, studiandomi. «Il gatto è uscito dal sacco o cosa?» «Sì, e anche i gattini,» dissi. «Congratulazioni per la tua incoronazione.» «Ehi! Indossi i colori della scuola!» «All'inferno! Perché no? Hai vinto qualcosa, no?» «Ascolta. Non è una gioia tanto grande come sembra. Anzi, stavo quasi

per chiamarti. Mi serve il tuo consiglio, prima che si muovano gli ingra-naggi. Puoi portarmi da te?»

«Non sono ad Ambra, Luke.» «E dove sei?» «Bé... qui sotto,» ammisi. «Mi trovo sulla strada laterale tra il tuo palaz-

zo e l'edificio vicino, che al momento sta facendo da albergo.» «Lì non va bene,» mi disse. «Sarei localizzato troppo presto se scendessi

là. Arriva al Tempio dell'Unicorno. Se è relativamente vuoto e c'è un ango-lo buio e tranquillo dove possiamo parlare, chiamami e trasportami lì. Se non c'è, inventati qualcos'altro, va bene?»

«Va bene.» «Ehi: ma come hai fatto ad arrivare qui?» «Scout in esplorazione per un'invasione,» gli risposi. «Un altro rileva-

mento sarebbe un contraccolpo, no?» «Sei quasi divertente come un ubriaco,» disse. «Chiamami.» Il contatto s'interruppe. Così attraversai il piazzale, seguendo quella che sembrava una linea

tracciata appositamente per il corteo. Pensavo di incontrare qualche pro-blema alla Casa dell'Unicorno e di dover ricorrere ad un Incantesimo per entrarvi, ma nessuno mi sbarrò la strada.

Entrai. Era grande e già addobbata per la cerimonia, con una grande va-

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rietà di pennoni appesi ai muri e fiori dappertutto. L'unico occupante oltre me era una donna imbaccuccata vicina all'altare che sembrava pregare. Mi spostai sulla sinistra, cercando una zona più buia.

«Luke,» dissi al suo Trionfo, «tutto regolare. Mi senti?» Avvertii la sua presenza prima ancora di vedere la sua immagine. «Be-

ne,» rispose. «Portami là!» Unimmo le mani ed... era lì con me. Mi batté sulla spalla. «Bene, adesso fatti guardare,» disse. «Mi chiedo che fine abbia fatto il

mio maglione!» «Credo che tu l'abbia dato a Gail.» «Penso che potresti anche avere ragione.» «Ti ho portato un regalo,» dissi, aprendo il mantello e trafficando con la

cintura della spada. «Eccolo! Ho trovato la spada di tua padre.» «Mi stai prendendo in giro.» La prese tra le mani, esaminò il fodero, lo girò e rigirò un'infinità di vol-

te, poi sfoderò la lama, che sibilò di nuovo e suscitò delle scintille che la-sciarono delle tracce di fumo.

«È proprio lei!», esclamò. «Werewindle, la Spada della Luce... sorella della Spada della Notte, Grayswandir!»

«Che dici?», dissi. «Non sapevo che esistesse un collegamento.» «Dovrei lambiccarmi il cervello per ricordare tutta la storia, ma risalgo-

no entrambe a tanto tempo fa... Grazie.» Si girò e fece qualche passo, facendo sbattere l'arma contro la coscia

mentre camminava. Poi si voltò bruscamente. «Sono stravolto,» disse. «Quella donna l'ha fatto di nuovo, e sono ridotto

allo stremo. Non so come comportarmi.» «Cosa? Di che cosa stai parlando?» «Mia madre,» mi spiegò. «L'ha fatto di nuovo. Avevo appena preso le

redini e stavo cavalcando da solo, quando si è intromessa e mi ha sconvol-to la vita.»

«Come ha fatto?» «Ha pagato Dalt e i suoi mercenari per prendere il controllo.» «Bè, ce lo immaginavamo. Comunque, dimmi: cosa è successo ad Ar-

kans?» «Oh, sta bene. Lo tengo agli arresti, ovviamente, ma è alloggiato benis-

simo e può avere tutto quello che vuole. Non intendo fargli del male: mi è sempre piaciuto quel ragazzo.»

«All'inferno!», disse, poi guardò furtivamente verso il santuario. «L'ho

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studiato a lungo, ma adesso non sono più così sicuro. Vedi: non ho mai de-siderato questo incarico. Dalt mi aveva detto che avremmo preso il potere per Mamma. Stavo venendo qui con lui per ristabilire l'ordine, reclamare il posto per la nostra famiglia, e poi darle il benvenuto con baci e abbracci. Ero convinto che, quando avesse riavuto il suo trono, non si sarebbe più impicciata dei fatti miei. Io me ne sarei andato in cerca di un terreno più congeniale, e lei avrebbe avuto un intero regno cui badare. Nessuno mi a-veva detto che mi avrebbero appiccicato questo lavoro schifoso.»

Scossi la testa. «Non ci capisco niente,» dissi. «Lo hai conquistato per lei. E allora, per-

ché non glielo restituisci e fai come avevi progettato?» Si fece una sonora risata. «Arkans piaceva,» disse. «Ed anche io piaccio. Mamma non la amano

molto. Nessuno sembra molto entusiasta di trovarsela dietro. A dire la ve-rità, ci sono forti elementi che indicano che, se ci provasse, si verifichereb-be davvero un contro colpo di stato.»

«Presumo che potresti ancora farti da parte e cedere il regno ad Arkans.» Luke prese a pugni il muro. «Non so se si infunerebbe più con me o con se stessa per il fatto di aver

pagato tanto Dalt per buttare fuori dai piedi Arkans. Mi direbbe che è mio dovere accettare, ed io non so... forse è così. Tu che pensi?»

«Che è una risposta molto difficile quella che vuoi, Luke. Chi credi che farebbe un miglior lavoro, tu o Arkans?»

«Onestamente non lo so. Lui ha molta esperienza in fatto di governo, ma io sono cresciuto qui, e so come ottenere le cose. L'unica cosa di cui sono sicuro è che nessuno dei due sarebbe bravo quanto Mamma.»

Incrociai le braccia, e riflettei intensamente. «Non posso prendere questa decisione per te,» dissi. «Ma dimmi, cos'è

che ti piacerebbe fare veramente?» Ridacchiò. «Sai che sono sempre stato un venditore. Se mi dovessero incastrare a

Kashfa, sceglierei di rappresentare le industrie all'estero, il che non sarebbe molto dignitoso per un monarca. Probabilmente sarebbe la cosa che saprei fare meglio, però. Non so.»

«È più di un problema, Luke. Non voglio la responsabilità di dirti quale strada devi prendere.»

«Se avessi saputo che si sarebbe arrivati a questo, avrei buttato a terra Dalt, lì a Arden.»

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«Credi davvero che saresti riuscito a batterlo?» «Ci puoi giurare!», dissi. «Bene! Ma questo non risolve il nostro attuale problema.» «Giusto. Ho un forte presentimento che dovrò lasciarmi coinvolgere.» La donna alzò gli occhi verso di noi diverse volte. Forse stavamo par-

lando a voce troppo alta, considerando il luogo. «La cosa peggiore è che non ci sono altri canditati idonei,» dissi, abbas-

sando la voce. «Per uno di Ambra, questa deve sembrare una sciocchezza.» «Al diavolo, è casa tua! Hai tutto il diritto di prenderla seriamente. Mi

dispiace soltanto che ti abbia messo in crisi.» «Sì, la maggior parte dei problemi sembra che cominci a casa, no? Certe

volte avrei voglia di prendere una strada qualunque e non tornare più in-dietro.»

«Che succederebbe se lo facessi?» «O Mamma restaurerebbe il suo diritto al trono con l'aiuto dei mercenari

di Dalt, il che richiederebbe un bel mucchio di esecuzioni di gente che la pensasse diversamente, o direbbe che il gioco non vale la candela e parti-rebbe per la sua Fortezza. Se decidesse di godersi il suo ritiro, allora la co-alizione che ha sostenuto Arkans probabilmente lo rivorrebbe sul trono per riprendere le cose dal punto in cui erano rimaste.»

«Quale scelta ritieni più probabile, che farebbe?», dissi. «Sceglierebbe il trono, e allora ci sarebbe la guerra civile. Che venisse

persa o vinta, sconvolgerebbe il paese, e senza dubbio questa volta ci im-pedirebbe di entrare nel Cerchio Dorato. Parlando del quale...»

«Non so,» dissi subito. «Non sono autorizzato a parlare del Trattato del Cerchio Dorato con te.»

«Ci avrei giurato,» disse Luke, «e non era questo che volevo chiederti. Ero curioso di sapere se qualcuno ad Ambra avesse detto: 'È sfumato!', op-pure 'Forse li aiuteremo a ridiscendere ulteriormente la strada,' o anche 'Tratteremo ancora, ma possono scordarsi le guarentigie di Eregnor'.»

Mi fece un sorriso forzato, ed io lo ricambiai. «Puoi scordarti Eregnor,» dissi. «Me lo immaginavo,» disse. «E il seguito?» «Ho l'impressione che sia: 'Aspettiamo di vedere cosa succede'.» «Avevo pensato anche questo. Fammi un buon rapporto, anche se non te

lo chiedono, va bene? In tutti i modi, non credo che la tua presenza qui sia tecnicamente ufficiale, vero?»

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«È personale,» dissi, «da un punto di vista diplomatico.» La signora di fronte a noi si alzò. Luke sospirò. «Vorrei poter tornare al ristorante di Alice. Forse il Cappellaio vedrebbe

qualcosa che ci manca,» disse. Poi: «Ehi? E quello, da dove è venuto? So-miglia a te ma...»

Mi stava fissando, e già sentivo il disturbo. Non mi preoccupai nemme-no di evocare la Visione del Logrus però, perché mi sentivo pronto a tutto.

Mi girai sorridendo. «Sei pronto a morire, fratello?», mi chiese Jurt. Era riuscito a rigenerare

l'occhio, oppure ne portava uno artificiale, e adesso aveva abbastanza ca-pelli da nascondere l'orecchio, il cui stato di ricrescita non riuscii a stabili-re. Anche il mignolo si era parzialmente rigenerato.

«No, ma sono pronto ad uccidere,» dissi. «Sono lieto che tu sia passato da queste parti.»

Mi fece un inchino derisorio. C'era un debole luccichio intorno a lui. Po-tevo percepire il potere che fluiva dentro e intorno alla sua persona.

«Sei tornato alla Fortezza per il trattamento finale?», volli sapere. «Non credo che sarà necessario,» disse. «Sono più che preparato a qual-

siasi compito che mi sono prefisso, adesso che ho il controllo di queste forze.»

«Questo è Jurt?» mi chiese Luke. «Sì,» risposi. «Questo è Jurt.» Jurt lanciò una rapida occhiata a Luke. Avvertii che si concentrava sulla

spada. «È un oggetto di Potere quello che porti?», gli domandò. «Fammelo ve-

dere!» Allungò la mano, e la lama subì degli strattoni sotto la presa di Luke, ma

non venne via. «No, grazie!», disse Luke, e Jurt scomparve. Un momento dopo riappar-

ve alle spalle di Luke, e il suo braccio gli si strinse intorno al collo per strangolarlo. Luke lo afferrò con una mano, si abbassò, e lo fece carambo-lare oltre le sue spalle.

Jurt atterrò di schiena davanti a lui, e Luke non fece alcuna mossa suc-cessiva alla precedente azione.

«Tira fuori quella spada,» disse Jurt, «e fammela vedere.» Poi si scrollò come un cane e si rialzò in piedi. «Allora?», disse.

«Non vedo la necessità di un'arma che si accordi ai tuoi gusti,» gli disse Luke.

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Jurt sollevò entrambe le mani e le chiuse a pugno. I pugni si toccarono, e rimasero in contatto per un momento. Poi Jurt li separò, e la sua mano de-stra prese una lunga spada che gli era apparsa sulla sinistra.

«Dovresti ripetere quel trucchetto per la strada,» disse Luke. «Estrai la spada!» «Non mi piace l'idea di combattere dentro una chiesa,» gli rispose Luke.

«Vogliamo uscire?» «Molto divertente!», rispose Jurt. «So benissimo che hai un intero eser-

cito qui fuori. No, grazie! Proverò perfino un certo piacere nel versare del sangue su un altare dell'Unicorno.»

«Dovresti parlarne a Dalt,» disse Luke. «Anche lui dà i calci in luoghi strani. Posso procurarti un cavallo... o magari un pollo? Forse un topolino bianco ed un foglio di alluminio?»

Jurt si lanciò all'attacco. Luke arretrò ed estrasse la spada del padre. La lama sibilò, crepitò e fumò mentre lui parava agilmente e la spingeva in avanti. Lesse una paura improvvisa sulla faccia di Jurt, mentre questi arre-trava, vacillando. Mentre cadeva, Luke gli assestò un calcio allo stomaco, e la lama di Jurt volò per aria.

«Quella è Werewindle!», annaspò Jurt. «Come hai fatto ad avere la spa-da di Brand?»

«Brand era mio padre,» disse Luke. Una fugace espressione di rispetto passò sul volto di Jurt. «Non lo sapevo...», mormorò, e poi scomparve. Attesi. Estesi dei percettori magici in tutto l'ambiente. Ma c'eravamo sol-

tanto Luke, io, e la signora, che si era fermata a poca distanza da noi a guardare, come se temesse di uscire.

Poi Luke cadde. Jurt era in piedi dietro di lui, e lo aveva appena colpito sotto la nuca con il gomito. Poi cercò il polso di Luke, come se volesse af-ferrarlo e sottrargli la spada.

«Deve essere mia!», disse, mentre io mi allungavo mediante l'anello e lo colpivo con una scarica di energia pura che pensai avrebbe spaccato tutti i suoi organi riducendolo una massa di gelatina. Solo per un istante avevo preso in considerazione la possibilità di non usare una forza letale. Sapen-do che prima o poi uno dei due avrebbe ucciso l'altro, avevo deciso di farla finita prima che la fortuna girasse dalla sua parte.

Ma la fortuna era già con lui. Il suo bagno nella Fontana doveva averlo rafforzato più di quanto avevo pensato. Girò su se stesso per tre volte, co-me se fosse stato colpito da un autocarro, e venne scagliato contro il muro.

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Barcollò, e scivolò a terra. Dalla sua bocca uscì del sangue: aveva l'e-spressione di chi sta per andarsene al creatore. Invece i suoi occhi si rimi-sero a fuoco e le sue mani si allungarono.

Una forza simile a quella con la quale lo avevo colpito si abbatté su di me. Rimasi sorpreso dalla sua capacità di recuperare e contraccambiare con la stessa moneta a quel livello ed a quella velocità. Ma non ero sorpre-so fino al punto di non riuscire a parare. Allora feci un passo indietro e cercai di bruciarlo con un bell'Incantesimo suggeritomi dall'anello. Rial-zandosi, fu in grado di schermarsi in pochi secondi prima che i suoi vestiti prendessero fuoco. Continuai ad attaccare, e lui creò un vuoto intorno a me. Lo trapassai e continuai a respirare. Poi provai l'Incantesimo dell'Arie-te che mi aveva mostrato l'anello, che era anche più potente del primo con il quale lo avevo colpito.

Scomparve prima di essere colpito e, a tre piedi da terra, il muro che era stato alle sue spalle si spaccò. Inviai delle narici sensibili dapperttutto e lo localizzai qualche secondo dopo, acquattato di lato su un cornicione. Ap-pena alzai la testa, mi si lanciò addosso.

Non sapevo se mi avrebbe rotto la mano o no, ma sentii che ne valeva la pena, mentre levitavo. Arrivato a mezza altezza riuscii a superarlo, e lo colpii con un sinistro che speravo gli avrebbe spezzato il collo e rotto la mascella. Sfortunatamente, ruppe anche il mio Incantesimo Levitazionale, e caddi sul pavimento insieme a lui.

Mentre cadevamo, la signora gridò e ci venne incontro. Rimanemmo storditi per qualche battito di cuore, poi lui rotolò sullo stomaco, si allun-gò, si alzò, cadde, quindi si allungò nuovamente.

La sua mano si poggiò sull'elsa di Werewindle. Doveva aver avvertito il mio sguardo mentre le sue dita la impugnavano, perché mi guardò e sorri-se. Gli lanciai un nuovo Incantesimo Congelante, ma Jurt si allontanò via Trionfo prima che il freddo lo colpisse.

Poi la signora gridò di nuovo e, anche prima di voltarmi, seppi che quel-la voce apparteneva a Coral.

Ricomparendo, Jurt finì quasi addosso a lei, la prese alle spalle e le cercò la gola con la punta di quella lama lucente e fumante.

«Che nessuno,» ansimò, «si muova... o le disegnerò... un secondo sorri-so.»

Cercai un Incantesimo veloce che potesse finirlo sanza danneggiare lei. «Non provarci, Merle!», disse lui. «Me ne accorgerei... Lasciami... sta-

re... per mezzo minuto... e vivrai... un pò più a lungo. Non so dove hai tro-

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vato... quei nuovi trucchi... ma non ti salveranno...» Ansimava ed era madido di sudore. Il sangue gli colava ancora dalla

bocca. «Lascia andare mia moglie,» disse Luke, rialzandosi, «o non esisterà po-

sto al mondo dove tu possa nasconderti.» «Non ti voglio per nemico, figlio di Brand,» disse Jurt. «Allora, fai come ti ho detto, amico. Ho ammazzato uomini più in gam-

ba di te.» Poi Jurt strillò come se la sua anima andasse a fuoco. Werewindle si al-

lontanò dalla gola di Coral, e Jurt arretrò e cominciò a muoversi tutto, co-me un burattino inceppato nei legamenti ma ancora tirato per i fili. Coral si girò verso di lui, dando la schiena a me ed a Luke. La sua mano destra si sollevò fino al viso. Dopo un pò, Jurt cadde a terra e si rannicchiò come un feto. Una luce rossa parve giocare su di lui. Tremava vistosamente, e pote-vo perfino udire il battito dei suoi denti.

Tutto d'un botto, poi, svanì, trascinandosi dietro arcobaleni, lasciando in terra sangue e saliva, e portando con sé Werewindle. Gli lanciai un fulmi-ne, ma capii che non l'aveva raggiunto. Avevo avvertito la presenza di Ju-lia dall'altra parte dello spettro e, a dispetto di tutto, ero lieto di sapere che non l'avevo ammazzata. Ma Jurt... capii che adesso Jurt era molto perico-loso. Perché questa era la prima volta che avevamo lottato senza che per-desse qualche pezzo, anzi, si era addirittura portato via qualcosa con sé. Qualcosa di mortale. Stava imparando, e questo non andava bene.

Quando girai la testa, vidi un bagliore rosso prima che Coral si rimettes-se la benda sull'occhio, e compresi che fine aveva fatto il Gioiello del Giu-dizio, anche se non capii, naturalmente, perché.

«Moglie?», dissi. «Bè, una specie... Sì!», mi rispose. «Qualcosa del genere,» disse Luke. «Voi due vi conoscete?»

FINE