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L'armatura del distacco La sindrome del Burnout Dare, dare e dare finché non rimane più niente da dare.
2014
Maxmiliano Cotugno Infermiere
10/03/2014
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Abstract La sindrome da Burnout non è una malattia ma un processo stressogeno legato alle professioni d’aiuto. Il termine burnout significa “bruciato fuori”, dunque è qualcosa d’interiore che esplode all’esterno e si manifesta in una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale; uno stato di malessere, di disagio, che consegue ad una situazione lavorativa stressante e che conduce a diventare apatici, cinici con i propri clienti e indifferenti e distaccati dall’ambiente di lavoro.
Gli infermieri sono oggi chiamati a svolgere un’attività professionale che ha componenti sia tecniche, che relazionali e educative. Uno degli obiettivi della loro attività all’interno delle aziende sanitarie è quello di contribuire al miglioramento della qualità dei servizi nei suoi vari aspetti e, in particolare, a quella della soddisfazione dei pazienti che impegna le tre competenze suddette. Perché questo contributo possa risultare adeguato è necessario che gli infermieri, così come tutti gli altri operatori, abbiano una qualità di vita professionale abbastanza adeguata.
L’infermiere, colpito dal burnout, ha bisogno dell’appoggio dei colleghi e dei suoi superiori per uscire dalla sindrome o per cercare di ridurre gli effetti ai minimi livelli; egli deve sentirsi protetto dai suoi superiori e apprezzato dai colleghi, deve lavorare in un ambiente, in cui ci sia un clima di cooperazione, dove ognuno difende l’altro e dove tutti si aiutano avvicenda.
Ogni organizzazione ha il compito e il dovere di conoscere e trovare il rimedio più adatto per combattere la sindrome del burnout.
Introduzione. Chi sono gli infermieri oggi?
Siamo quelli sempre in prima linea, siamo quelli che per primi arrivano in una stanza di degenza dove c’è qualcuno che ha bisogno d’aiuto.
La gente non sa, la società non sa, che siamo cambiati in tanti anni; non siamo più quelli che praticano solo iniezioni, ma oggi siamo quelli che pianificano, decidono e intervengono con il loro bagaglio culturale e professionale nella gestione dell’assistenza al paziente.
Sono gli infermieri, oggi, la risorsa umana primaria per un’azienda ospedaliera; sono il perno su cui gira la giostra dell’assistenza ospedaliera.
Noi siamo quelli che rappresentano, per primi, la qualità della professionalità ospedaliera, noi infermieri dobbiamo essere consapevoli che la nostra professione è complessa e ricca di
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sfaccettature, ma nello stesso tempo, chi dirige e coordina il nostro lavoro deve capire chi ha davanti e che importanza hanno gli infermieri nel contesto nosocomiale.
La sindrome del burnout è un rischio della nostra professione, c’è ed è una realtà e molti operatori non la vedono o non vogliono vederla.
Molti infermieri non conoscono il burnout, oppure sanno che esiste questo stato stressogeno del loro lavoro, ma non sono a conoscenza di come si chiami.
Il burnout è presente in ogni reparto di ogni ospedale, chi più o chi meno ne è colpito.
Il burnout è una relazione che si instaura a causa di un continuo contatto con altri esseri umani che sperimentano situazioni problematiche e quindi sono motivi di sofferenza.
L’ORGANIZZAZIONE
In ogni organizzazione viene considerato come risorsa principale il personale e nei servizi sanitari il personale infermieristico è la risorsa umana più rilevante sul piano quantitativo e significativo.
Il personale infermieristico è chiamato a svolgere un ruolo sia tecnico-‐ operativo che educativo e relazionale; gli infermieri rappresentano la globalità dell’azienda, per tale motivo è importante che essi curino la preparazione a livello tecnico – professionale, etico –deontologico e organizzativo, in più devono essere continuamente motivati e soddisfatti nei confronti del loro lavoro.
L’organizzazione ha il compito di creare un sistema di qualità basato su tre dimensioni tra esse interconnesse:
a) Qualità organizzativa b) Qualità tecnico – professionale c) Qualità percettiva del cliente
Qualità organizzativa Come processo primario bisogna esigere la più alta qualità a livello diagnostico, terapeutico, assistenziale e riabilitativo
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Qualità tecnico professionale Le prestazioni e le tecniche infermieristiche si basano su prove di efficacia e studi clinici controllati. (Evidence – basid medicine e Evidence -‐ basid nursing)
Qualità percepita dal cliente La soddisfazione dei clienti è alla base del risultato qualitativo dell’azienda e con la promulgazione della Carta dei Servizi che il cliente vede essere soddisfatte le proprie esigenze.
Compito di un’organizzazione è dare agli infermieri una qualità di vita lavorativa basata su fattori di motivazione e soddisfazione accettabili per gli operatori stessi.
Se l’operatore è sfruttato, stressato o in burnout è in dubbio che sia in grado di soddisfare i bisogni psicosociali di persone sofferenti.
L’organizzazione in cui si lavora e il suo funzionamento plasmano il modo in cui le persone interagiscono tra loro e il modo in cui eseguono il loro lavoro.
Ogni organizzazione è messa a dura prova da forze sociali, culturali ed economiche che spingono ad aumentare la produttività.
BURNOUT La sindrome da Burnout non è una malattia ma un processo stressogeno legato alle professioni d’aiuto.
Tutte le professioni socio-‐assistenziali implicano un intenso coinvolgimento emotivo: l’interazione tra operatore e utente è centrata sui problemi psicologici, sociali o fisici e ciò determina tra la loro relazione sensazioni d’ansia, imbarazzo, paura o disperazione.
Le figure legate alle professioni d’aiuto sono caricate da un duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata.
Tradotto il termine burnout significa proprio “bruciato fuori”, dunque è qualcosa d’interiore che esplode all’esterno e si manifesta in una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale; dunque uno stato di malessere, di disagio, che consegue ad una situazione lavorativa stressante e che conduce a diventare apatici, cinici con i propri clienti e indifferenti e distaccati dall’ambiente di lavoro.
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Se non si interviene, gli stressor, se protratti nel tempo, possono determinare reazioni di disadattamento che si estendono alla sfera extralavorativa fino a favorire l’insorgenza di quadri nevrotici e depressivi.
Le fasi del burnout
1. Fase preparatoria: è quella dell’entusiasmo idealistico che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale.
2. Fase di stagnazione: il soggetto, sottoposto a carichi di lavoro a stress eccesivi, inizia a mettere a confronto le sue aspettative e la realtà lavorativa, notando sempre più che non ci sono coincidenze.
3. Fase di frustrazione: il soggetto, affetto da burnout, si sente inutile, inadeguato, insoddisfatto e anche sfruttato, poco apprezzato; fugge dal lavoro e assume atteggiamenti aggressivi verso gli altri.
4. Fase apatica: si spegne l’interesse e la passione per il proprio lavoro, subentra l’indifferenza e l’empatia fino alla morte professionale.
Le variabili Tra gli aspetti epidemiologici della sindrome del Burnout si riscontra un determinato livello di coincidenze per alcune variabili:
• Età: durante i primi anni di carriera professionale si è maggiormente vulnerabili, infatti, la sindrome è massima nei giovani e minore negli operatori anziani. Gli infermieri più anziani sono quelli sopravvissuti, quelli che sono riusciti a tenere a bada le prime minacce del burnout e che sono rimasti a svolgere bene la loro professione.
• Sesso: le donne sonno più vulnerabili, ciò è dovuto al doppio lavoro quello professionale e quello familiare a cui sono sottoposte. Le donne tendono a provare un maggiore esaurimento emozionale e a dimostrarlo con più intensità degli uomini; questi, invece, tendono più ad avere sentimenti di depersonalizzazione e di insensibilità verso le persone con cui lavorano. Si dà per scontato che le donne siano più orientate degli uomini verso la gente: si suppone che siano affettuose, socievoli e sensibili verso i sentimenti degli altri; inoltre sono ritenute persone molto emozionali, mentre gli uomini sarebbero duri, forti che non “piangono mai”.
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• Stato civile: è dimostrato che la sindrome da burnout colpisce più i celibi e meno i coniugati. I celibi vengono associati ad un elevato esaurimento emozionale, mentre i coniugati tendono più al senso di realizzazione ma con minore depersonalizzazione. Un operatore con famiglia è meno vulnerabile poiché è più stabile e più maturo psicologicamente, far parte di una famiglia coinvolge un individuo continuamente a trattare i problemi personali e i conflitti emozionali, quindi si è più esperti.
• Turnazione lavorativa: il personale infermieristico è più soggetto ad un dispendio di energie psicofisiche rispetto al personale medico.
• Anzianità professionale: alcuni autori hanno individuato nei soggetti con più anni lavorativi una relazione positiva, mentre altri hanno avuto risultati negativi.
• Sovraccarico di lavoro: è accertata la relazione tra la sindrome e il sovraccarico di lavoro, ciò produrrebbe una diminuzione sia qualitativa che quantitativa delle prestazioni offerte dai professionisti.
Anche il salario è stato ipotizzato come una variabile determinante della sindrome del Burnout, ma per questa non esistono studi o ricerche che lo provino.
Oggi il burnout rappresenta un rischio elevato per un’azienda sia per i costi economici che per la produttività ridotta, per i problemi di salute e il declino della vita personale e lavorativa.
Un’organizzazione per non cadere in questa calamità deve investire sul personale infermieristico, cercare di stimolare e coinvolgere i propri operatori.
Effetti del Burnout La sindrome colpisce persone ansiose, sottomesse, deboli, che non vogliono coinvolgersi; sono persone che non riescono ad avere il controllo della situazione, vengono facilmente travolte dalla collera e non riescono a controllare gli impulsi ostili.
Il burnout causa danni alla salute, disturbi psicologici, insoddisfazione nel lavorare e perdita dell’autostima.
Le persone affermano di essere stanche ed esauste, ci si sente tesi, non si è capaci di rilassarsi e né dormire; si soffre di insonnia, di incubi che alterano il riposo.
L’operatore prova sentimenti negativi verso se stesso, verso il lavoro che svolge, si tiene in disparte, si isola; restando solo l’infermiere avverte di aver fallito nel proprio lavoro, si deprime e questa depressione che caratterizza il crollo della sua autostima.
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In alcuni casi l’infermiere può avvertire un sentimento di onnipotenza, assume questo atteggiamento per controllare la sua debolezza, la sua vulnerabilità; cerca di dimostrare a se stesso di essere capace di poter esporsi a molti rischi sia sul lavoro che nella vita quotidiana.
L’infermiere tende a dare il minimo indispensabile, evita certi compiti o semplicemente si cerca di passare meno tempo con il paziente. Si cerca di impostare il lavoro come una catena di montaggio, dove la gente viene trattata come oggetti e non come esseri umani.
Col passare del tempo si cerca di distaccarsi dal lavoro anche fisicamente: le pause per il caffè si allungano, l’ora del pranzo diventa più lunga di sessanta minuti, l’orario di uscita arriva prima.
In alcuni casi l’individuo abbandona del tutto il campo e si cerca un impiego in un settore totalmente diverso.
In altri casi si passa in un altro impiego nello stesso campo di lavoro come nel ramo amministrativo, dove si trova più prestigio, più potere, stipendio migliore e c’è meno contatto con gli utenti.
Si è irritabili e impazienti, si litiga con i familiari, e i nostri cari attribuiscono la causa di tali discordie non allo stress lavorativo ma a qualcosa che non va nella relazione coniugale.
Altri operatori si comportano diversamente, cioè si rifiutano di parlar del loro lavoro con i familiari, per proteggere la famiglia dalle spiacevoli realtà del lavoro o per proteggere se stessi, perché non voglio rivivere gli eventi della giornata né i sentimenti da essi suscitati.
Un impiego in ospedale, fatto di orari insoliti, turni di notte, corsi di aggiornamento, riunioni di lavoro, può ridurre la propria vita domestica e personale e le relazioni che ne dipendono.
Il modello Maslach Christina Maslach ha dato un importate contributo alla ricerca sulla sindrome del Burnout; ella ha definito il Burnout “una sindrome di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale”.
Maslach parla del burnout come una forma di stress interpersonale che comporta il distacco dall’utente.
. Maslach ha ideato uno strumento psicodiagnostico: il Maslach Burnout Inventory che analizza le tre dimensioni che interessano la sindrome: esaurimento emotivo,
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depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale. Le tre dimensioni sono valutabili con il MIB, un questionario di 22 item suddivisi in tre scale una per ogni dimensione.
Il MIB concepisce il burnout come una variabile continua che rispecchia i diversi livelli dei sentimenti.
Le scale che costituiscono il MBI sono:
1. Esaurimento emotivo che misura la sensazione di essere inaridito emotivamente ed esaurito dal proprio lavoro.
2. Depersonalizzazione che misura una risposta fredda e impersonale nei confronti degli utenti del proprio sevizio.
3. Realizzazione personale che valuta la sensazione relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo nel lavoro con gli altri.
A ogni domanda il soggetto interessato deve rispondere inserendo un valore da 0 a 6 per indicare intensità e frequenza con cui si verificano le sensazioni descritte nella domanda stessa.
Lo stato di esaurimento emotivo è caratterizzato dalla mancanza dell’energia necessaria ad affrontare la realtà quotidiana, si ha una continua sensazione di tensione, ci si sente inariditi dal rapporto con gli altri, si ha la sensazione di apatia e distacco emotivo nei confronti del lavoro, l’operatore si sente come svuotato delle risorse emotive e personali.
La depersonalizzazione è il termine utilizzato da Maslach per indicare un atteggiamento negativo nei confronti delle persone che ricevono la prestazione, costituisce un modo per porre una distanza tra sé e gli utenti.
L’operatore è ostile nei confronti delle persone che chiedono aiuto, vive la relazione professionale con una sensazione di fastidio, cerca di evitare il coinvolgimento emotivo con un atteggiamento distaccato, con comportamenti di rifiuto e indifferenza.
La ridotta realizzazione personale: L’operatore, infine, avverte un sentimento di fallimento professionale, ci si sente inadeguati al lavoro; la propria competenza e il proprio desiderio di successo vengono meno, l’autostima diminuisce e ci si sente depressi.
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Come limitare o prevenire il burnout? L’approccio oggi considerato più efficace deve essere rivolto al processo continuo di miglioramento della qualità, caratterizzato dalle scelte organizzative della sanità.
Il burnout deriva dall’èquipe in cui viene compromessa la salute e rende impossibile la relazione con l’utente e quindi l’aiuto da dare a questi, impedendo la possibilità di miglioramento continuo della qualità.
Per prevenire il burnout è utile attivare un progetto terapeutico, attraverso un sostegno di counseling, o un sostegno psicoterapeutico personalizzato che si prefigga di raggiungere 4 obiettivi uguali per tutti:
1. Ridurre, ridimensionare, eliminare le proprie aspettative rispetto al lavoro e all’apprezzamento che desideriamo ricevere dagli altri attenendosi alla realtà. E ‘ utile sapere che aspettativa è sinonimo di delusione e frustrazione.
2. Enfatizzare gli aspetti positivi del proprio lavoro ed evitare di concentrarsi su quegli negativi e frustranti.
3. Coltivare interessi al di fuori del lavoro ed evitare di portare con sé e nei luoghi, al di fuori del lavoro le problematiche professionali e lavorative.
4. Lavorare in compagnia, in équipe o in team, per non avvertire la solitudine e il peso dell’incomprensione e per poter dividere lo stress e le difficoltà dell’attività lavorativa.
L’intervento psicosociale, che deve essere preceduto dall’analisi istituzionale per individuare i problemi palesi e le dinamiche sotterranee che inquinano il contesto lavorativo, sarà successivamente diretto a: potenziare la creatività e le risorse operative di ciascun componente dell’istituzione (o struttura operativa) di qualsiasi livello gerarchico; favorire l’emergere dello spirito di gruppo, a fare ritrovare il valore sociale dell’istituzione, a valorizzare il luogo di lavoro quale occasione di costruzione sociale della realtà.
Gli individui più protetti dalla sindrome del burnout sono dotati di una buona autostima; spesso hanno un buon sistema di appoggio sociale, dei confidenti, una rete di amici; sono persone che conservano la capacità di sorridere anche in ambiente lavorativo troppo austero od oppressivo.
In genere le tecniche di rilassamento e le attività sportive possono fare ritrovare quell’energia e quell’autostima necessarie a riacquistare le proprie difese non passive: la capacità di non farsi più sottomettere, di rispettare se stesso e le proprie opinioni, di dire no quando l’acquiescenza non è dovuta.
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Se si potesse riassumere in una sola parola ciò che si sa per sconfiggere il burnout, quella parola sarebbe equilibrio. Equilibrio tra dare e ricevere, tra stress e calma, tra lavoro e casa. Dare, dare e dare finché non rimane più niente da dare, significa che l’individuo non è riuscito a ricostituire la propria scorta di energie (Maslach) Il concetto fondamentale è che dare qualcosa di se stesso deve essere controbilanciato dal dare qualcosa a se stesso…
Quindi…
1. lavorare meglio anzi che di più 2. fare le cose in modo diverso e creativo 3. affrontare le difficoltà con distacco 4. avere cura di se stessi 5. riunione del personale per progettare interventi realistici sugli ospiti 6. riunione del personale per condividere le emozioni 7. gruppi di approfondimento di temi
Relazione infermiere paziente: Gli infermieri sono oggi chiamati a svolgere un’attività professionale che ha componenti sia tecniche, che relazionali e educative. Uno degli obiettivi della loro attività all’interno delle aziende sanitarie è quello di contribuire al miglioramento della qualità dei servizi nei suoi vari aspetti e, in particolare, a quella soddisfazione dei clienti che impegna le tre le competenze suddette. Perché questo contributo possa risultare adeguato è necessario che gli infermieri, così come tutti gli altri operatori, abbiano una qualità di vita professionale abbastanza adeguata. Gli infermieri per primi, in quanto professionisti sempre più qualificati, devono essere consapevoli della complessità e ricchezza di sfaccettature della qualità della loro vita professionale, per sapere bene cosa esigere dalla dirigenza
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professionale e aziendale. Devono altresì tenere presente che la riduzione dello stress a livelli accettabili, anzi, addirittura stimolanti, dipende anche dal loro impegno, da una motivazione sempre rinnovata e da un lavoro su se stessi che tenda alla costante ricerca di equilibrio e maturità.
L’infermiere si aspetta un feedback positivo L’infermiere quando aiuta qualcuno desidera sapere se il suo intervento è stato positivo; se il paziente lo ha gradito o no, se ha prodotto qualche cambiamento nella condizione di colui che chiede aiuto.
I professionisti amano ricevere questo feedback positivo, hanno bisogno di essere gratificati, incoraggiati.
Ma per la figura infermieristica il feedback o non esiste o ne riceve esclusivamente uno negativo; quando le cose vanno per il verso giusto ne vengono a sapere poco o niente, ma sicuramente vengono a sapere tutto quando le cose vanno male.
Parte di questo feedback negativo può essere giustificabile da errori che essi hanno commesso, ma talvolta è una strategia deliberata per accelerare il servizio da parte dei pazienti.
Se il paziente reclama a sufficienza, l’operatore lavorerà più veloce, dando l’aiuto necessario solo per tacitare i reclami.
Il lavoro dell’infermiere è dato per scontato e la nostra società peggiora la situazione, poiché pone sulle spalle degli infermieri degli standard molto elevati, difficili da conseguire e impossibili da mantenere per molto tempo.
La mancanza di un feedback positivo per un professionista come l’infermiere è come mandare giù una pillola amara; le persone indifferenti alla nostra presenza, che non danno un feedback, che non seguono i nostri consigli e i nostri suggerimenti, ci rendono quasi disumani e proviamo verso di loro sentimenti negativi.
Se l’infermiere non riesce a portare alcun cambiamento nella vita di un paziente, se non riesce a migliorare la condizione degli altri, l’operatore può incolpare gli altri per i loro problemi, li vede come persone in difetto, non motivate a cambiare, degli esseri cattivi o deboli.
Il lavoro di un infermiere rientra tra quelli definiti “lavoro ingrato”, un lavoro necessario ma sgradevole, spiacevole e stressante.
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La società, i cittadini, i pazienti si aspettano ed esigono che tale lavoro venga fatto, e spesso pone un’etichetta all’operatore, che deve essere gentile, premuroso, calmo, paziente e rispettoso verso gli altri; la società non dà né sostegno e né riconoscimenti, ciò rende il lavoro assistenziale doppiamente stressante e favorendo la possibilità del burnout.
Un infermiere può fare un lavoro ben fatto, che può perfino piacergli, quando si assistono venti o trenta persone a giorno, quando questo numero sale a quaranta o più, cominciano a manifestarsi i primi segni della sindrome del burnout.
Quando il numero di persone aumenta il contatto tra operatore e utente viene a ridursi al minimo; si passa insieme meno tempo, si forniscono meno servizi, la persona è seguita poco o niente, cambia così la quantità e la qualità del contatto e dell’assistenza.
Alcuni infermieri, sopraffatti dalle pressioni di persone che hanno bisogno di qualcosa, si scatenano contro di loro, diventano irritati, frustati, si arrabbiano e accusano le persone di essere colpevoli dei loro guai e della loro malattia.
Esistono altre relazioni più stressanti di quella tra infermiere – paziente, come quella tra operatore e i suoi colleghi o infermiere – superiori.
L’infermiere ritiene rilevante la qualità della sua assistenza o del suo servizio, mentre per i superiori, spesso, è fondamentale la dimensione quantitativa del lavoro svolto dai dipendenti, come il numero di clienti con cui l’operatore ha avuto contatto, il numero di azioni d’aiuto portate a termine in una giornata.
Quando sorgono dei disaccordi tra operatore e i suoi superiori, i dipendenti possono sentirsi insoddisfatti del loro impiego e a tal punto sono disposti a fare solo il minimo indispensabile.
Gli infermieri sanno di aver svolto il loro compito quando il paziente è guarito, se il suo bisogno è stato soddisfatto, ma il dipendente ha bisogno anche di ricevere dai suoi superiori un feedback positivo e chiaro.
Il feedback dato dai superiori è importante per due motivi:
1. Indica all’operatore quanto sta lavorando bene 2. Dimostra che il suo lavoro è apprezzato e stimato
Spesso ci giunge un feedback non dato correttamente; a volte è vago da non trasmettere alcuna informazione utile per l’operatore.
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Molte volte predomina il feedback negativo quello che ci viene dato dai superiori quando commettiamo un errore o altre volte il feedback è totalmente assente.
Esiste la concezione da parte dei superiori che si dà per scontato che i dipendenti debbano dare buoni servizi e assistenza; ma è necessario che essi facciano notare quando il sevizio è lacunoso.
La mancanza di fiducia nel rapporto infermiere – superiori può essere causa di tensioni, infatti, in caso di reclami da parte degli utenti, i superiori vanno prima a controllare se il dipendente abbia commesso un errore o sia nel torto e abbia seguito le procedure, invece di prendere le difese del suo operatore.
Anche chi aiuta ha bisogno di un aiuto e ciò che è più importante per un infermiere nell’ambiente lavorativo, è l’aiuto che ci si aspetta dai superiori e i colleghi; se ciò viene a mancare si perde una fonte potenziale di sostegno contro l’insorgenza del burnout.
Conclusioni. Quando gli ambienti dove agiscono gli operatori sanitari sono pervasi dal burnout, è evidente che la loro efficacia sul piano professionale cade verticalmente, e quanto più tale fenomeno viene accettato tanto più la maggior parte degli operatori tenterà di adattarvisi.
Il risultato di ciò è un crescente numero di infermieri con problematiche di tipo psicologico e psicosomatico.
Non possiamo modellare l’ambiente lavorativo sulle persone, ma dobbiamo noi stessi modellare l’ambiente e collaborare a renderlo più vivibile nella sfera lavorativa.
L’infermiere, colpito dal burnout, ha bisogno dell’appoggio dei colleghi e dei suoi superiori per uscire dalla sindrome o per cercare di ridurre gli effetti ai minimi livelli; egli deve sentirsi protetto dai suoi superiori e apprezzato dai colleghi, deve lavorare in un ambiente, in cui ci sia un clima di cooperazione, dove ognuno difende l’altro e dove tutti si aiutano avvicenda.
Ogni organizzazione ha il compito e il dovere di conoscere e trovare il rimedio più adatto per combattere la sindrome del burnout.
Una volta individuate le persone con il grado di burnout più alto, più stressate, che hanno bisogno di un aiuto psicologico, il dirigente deve utilizzare i mezzi più idonei per ridurre il tasso di burnout per ottenere maggiore professionalità e qualità dai suoi operatori, affinché questi diano un servizio di qualità eccellente.
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E’ nell’interesse di ogni azienda ospedaliera o di ogni organizzazione sanitaria preservare e valutare la propria principale risorsa umana per poter garantire un’assistenza efficiente ed efficace ai cittadini.
Bibliografia Ø Articolo del mese di marzo 2010 NapoliSana Campania “stress, maglia nera in corsia” Ø Relazione “Qualificazione e valorizzazione infermieristica del Convegno dell’Ipasvi di
Padova del 17 maggio 2000 Ø Studio condotto sulla “soddisfazione lavorativa” dal Laboratorio di Ricerca sui Servizi
Sanitari IDI – RCCS, Roma. Pavia 2006 -‐www.gimle.fsm.it Ø Indagine sullo stress occupazionale d'infermieri e medici dell'Azienda Ospedaliera
Universitaria di Ferrara -‐ Arcispedale S. Anna -‐Roberto M. Boccalon (Psichiatra, Dipartimento di Salute Mentale -‐ Ferrara) pubblicato sul Sole 24 ore -‐ Sanità e Management/2001.
Ø Testo “La sindrome del burnout, il prezzo dell’aiuto agli altri” Christina Maslach New YorK 1982
Ø “Clima organizzativo, fiducia e burnout in un centro di riabilitazione” -‐ Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia Supplemento Pavia 2008 http://gimle.fsm.it -‐O. Bettinardi1, V. Montagner2, M. Maini3, G. Vidotto2
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