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IL MARGINE 10 DICEMBRE 2003 Alberto Conci 3 Fine del Far West? Fecondazione assistita: tra regole e questioni non risolte Silvano Zucal 10 Credere senza essere costretti a credere Gino Mazzoli 21 Due film su Aldo Moro e molti altri “film” intorno Ricardo Perez Marquez 28 Apocalisse: lettura profetica della storia 36 Indici dell’annata XXIII (2003) IL MARGINE mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Direttore: Emanuele Curzel In redazione: Anita Bertoldi, Luca Cristellon, Lucia Galvagni, Walter Nardon (vice-direttore) Amministrazione: Monica Cianciullo [email protected] Responsabile diffusione: Pierangelo Santini [email protected] Webmaster: Maurizio Betti [email protected] Comitato di direzione: Celestina Antonacci, Giovanni Colombo, Francesco Comina, Marco Damila- no, Fulvio De Giorgi, Marcello Farina, Guido Formigoni, Paolo Ghezzi (resp. a norma di legge), Paolo Giuntella, Giovanni Kessler, Roberto Lambertini, Paolo Maran- gon, Fabrizio Mattevi, Michele Nicoletti, Vincenzo Passerini, Gra- zia Villa, Silvano Zucal. Collaboratori: Carlo Ancona, Dario Betti, Stefano Bombace, Lui- sa Broli, Vereno Brugiatelli, Miche- le Covi, Marco Dalbosco, Cornelia Dell’Eva, Michele Dorigatti, Miche- le Dossi, Eugen Galasso, Pierangelo Giovanetti, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani Puerari, Pierluigi Mele, Rocco Parolini, Nestore Piril- lo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi, Gianluca Salvatori, Flavio Santini, Sergio Setti, Giorgio Tonini. Progetto grafico: G. Stefanati Una copia 2,00 - abbonamento annuo 20 - abbonamento d’ami- cizia 30 - abbonamento estero 30 - estero via aerea 35. I versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 10285385 intestato a: “Il Margine”, c.p. 359 - 38100 Trento. Autorizzazione Tribunale di Trento n. 326 del 10.1.1981. Codice fiscale e partita iva 01843950229. Redazione e amministrazione: “Il Margine”, c.p. 359, 38100 Trento http://www.il-margine.it e-mail: [email protected] Publistampa Arti Grafiche, Pergine Il Margine n. 10/2003 è stato chiu- so in tipografia il 26 gennaio 2004. “Il Margine” è in vendita a Trento presso: “Artigianelli”, via Santa Croce 35 - “Centro Paolino”, via Perini 153 - “La Rivisteria” via San Vigilio 23 - “Benigni” via Belenzani 52 - a Rovereto presso “Libreria Rosmini” - a Milano presso “Libre- ria Ancora”, via Larga 7 - a Monza presso “Libreria Ancora”, via Pavo- ni 5 - a Roma presso “Libreria Anco- ra”, via della Conciliazione 63. ASSOCIAZIONE OSCAR ROMERO Presidente: Alberto Conci [email protected] Vicepresidente: Paolo Marangon Mentre andiamo in stampa... “Città più sicure”: questo il fortunato slogan elettorale che prometteva di tutelare i cittadini al di fuori delle mura domestiche. Ma ora l’insicurezza è entrata dentro casa, e minaccia di travolgere alcuni dei pilastri della quotidianità: diminuisce il potere d’acquisto di stipendi e pensioni; il lavoro si precarizza (ora anche la ricer- ca universitaria: con quali risultati, staremo a vedere); gli scioperi nei servizi pub- blici rendono incerti gli spostamenti; le banche non garantiscono più il risparmio. A proposito di quest’ultimo aspetto, la situazione è tanto grave quanto parados- sale, perché il crack non parte dall’ultima azienda della new economy, ma dal tito- lo-guida della nostra industria alimentare, quella che si occupa del pane e del lat- te. Di conseguenza si è incrinata la fiducia nella gestione bancaria del risparmio. Contiamo di tornare su questi temi in uno dei prossimi numeri. Per il momento, vi invitiamo – se non l’avete già fatto – a rinnovare l’abbonamento per il 2004 e ad aiutarci a diffondere la nostra piccola rivista, che grazie al sostegno dei suoi lettori (e solo a quello) sta per entrare nel suo ventiquattresimo anno. IL MARGINE anno 2004 abbonamento normale: 20 euro abbonamento di amicizia: 30 euro un piccolo progetto un impegno che, grazie ai suoi lettori, continua per il 24° anno

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IL MARGINE 10 DICEMBRE 2003

Alberto Conci 3 Fine del Far West?Fecondazione assistita:tra regole e questioni non risolte

Silvano Zucal 10 Credere senza essere costretti a credere

Gino Mazzoli 21 Due film su Aldo Moroe molti altri “film” intorno

Ricardo Perez Marquez 28 Apocalisse: lettura profetica della storia

36 Indici dell’annata XXIII (2003)

IL MARGINEmensile dell’associazioneculturale Oscar A. Romero

Direttore:Emanuele Curzel

In redazione:Anita Bertoldi, Luca Cristellon,Lucia Galvagni, Walter Nardon(vice-direttore)

Amministrazione:Monica [email protected]

Responsabile diffusione:Pierangelo [email protected]

Webmaster: Maurizio [email protected]

Comitato di direzione: CelestinaAntonacci, Giovanni Colombo,Francesco Comina, Marco Damila-no, Fulvio De Giorgi, MarcelloFarina, Guido Formigoni, PaoloGhezzi (resp. a norma di legge),Paolo Giuntella, Giovanni Kessler,Roberto Lambertini, Paolo Maran-gon, Fabrizio Mattevi, Michele

Nicoletti, Vincenzo Passerini, Gra-zia Villa, Silvano Zucal.Collaboratori: Carlo Ancona,Dario Betti, Stefano Bombace, Lui-sa Broli, Vereno Brugiatelli, Miche-le Covi, Marco Dalbosco, CorneliaDell’Eva, Michele Dorigatti, Miche-le Dossi, Eugen Galasso, PierangeloGiovanetti, Giancarlo Giupponi,Paolo Grigolli, Tommaso La Rocca,Paolo Mantovan, Gino Mazzoli,Milena Mariani Puerari, PierluigiMele, Rocco Parolini, Nestore Piril-lo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi,Gianluca Salvatori, Flavio Santini,Sergio Setti, Giorgio Tonini.Progetto grafico: G. StefanatiUna copia € 2,00 - abbonamentoannuo € 20 - abbonamento d’ami-cizia € 30 - abbonamento estero € 30 - estero via aerea € 35.I versamenti vanno effettuati sulc.c.p. n. 10285385 intestato a: “IlMargine”, c.p. 359 - 38100 Trento.Autorizzazione Tribunale di Trenton. 326 del 10.1.1981.Codice fiscale e partita iva01843950229.

Redazione e amministrazione: “IlMargine”, c.p. 359, 38100 Trentohttp://www.il-margine.ite-mail: [email protected]

Publistampa Arti Grafiche, Pergine

Il Margine n. 10/2003 è stato chiu-so in tipografia il 26 gennaio 2004.

“Il Margine” è in vendita a Trentopresso: “Artigianelli”, via SantaCroce 35 - “Centro Paolino”, viaPerini 153 - “La Rivisteria” via SanVigilio 23 - “Benigni” via Belenzani52 - a Rovereto presso “LibreriaRosmini” - a Milano presso “Libre-ria Ancora”, via Larga 7 - a Monzapresso “Libreria Ancora”, via Pavo-ni 5 - a Roma presso “Libreria Anco-ra”, via della Conciliazione 63.

ASSOCIAZIONE OSCAR ROMEROPresidente: Alberto [email protected]

Vicepresidente:Paolo Marangon

Mentre andiamo in stampa...“Città più sicure”: questo il fortunato slogan elettorale che prometteva di tutelarei cittadini al di fuori delle mura domestiche. Ma ora l’insicurezza è entrata dentrocasa, e minaccia di travolgere alcuni dei pilastri della quotidianità: diminuisce ilpotere d’acquisto di stipendi e pensioni; il lavoro si precarizza (ora anche la ricer-ca universitaria: con quali risultati, staremo a vedere); gli scioperi nei servizi pub-blici rendono incerti gli spostamenti; le banche non garantiscono più il risparmio.A proposito di quest’ultimo aspetto, la situazione è tanto grave quanto parados-sale, perché il crack non parte dall’ultima azienda della new economy, ma dal tito-lo-guida della nostra industria alimentare, quella che si occupa del pane e del lat-te. Di conseguenza si è incrinata la fiducia nella gestione bancaria del risparmio.Contiamo di tornare su questi temi in uno dei prossimi numeri. Per il momento,vi invitiamo – se non l’avete già fatto – a rinnovare l’abbonamento per il 2004 ead aiutarci a diffondere la nostra piccola rivista, che grazie al sostegno dei suoilettori (e solo a quello) sta per entrare nel suo ventiquattresimo anno.

IL MARGINEanno 2004

abbonamento normale: 20 euroabbonamento di amicizia: 30 euro

un piccolo progetto un impegno che, grazie ai suoi lettori, continua per il 24° anno

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«Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosiè la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore».

(Sergio Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, 1967)

EDITORIALEFine del Far West?Fecondazione assistita:tra regolee questioni non risolte

SPIRITUALITÀCrederesenza essere costrettia credere

APPUNTIDue film su Aldo Moroe molti altri “film” intorno

BIBBIAApocalisse:lettura profetica della storia

Indici dell’annata XXIII(2003)

Mensiledell’associazioneculturaleOscar A. RomeroAnno XXIII

2003 NUMERO 10

Periodico mensile - Anno XXIII, n. 10, dicembre 2003 - Sped. in a.p. - art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Fil. di TNRedazione e amministrazione: 38100 Trento, cas. post. 359 - Una copia € 2,00 - Abb. annuo € 20

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Editoriale

Fine del Far West?Fecondazione assistita: tra regole e questioni non risolte

ALBERTO CONCI

L’editoriale affronta un tema complesso equanto mai importante: contiamo di ripren-derlo anche nei prossimi numeri.

L’ 11 dicembre scorso, dopo un breve ma molto acceso dibattito parla-mentare, è stata approvata al Senato la legge sulla fecondazione medi-calmente assistita che stabilisce, per la prima volta nel nostro Paese, le

modalità per procedere nelle strutture pubbliche e in quelle private alla feconda-zione artificiale. Si tratta di una legge che ha l’indubbio merito di definire alcuneregole fondamentali, ma che per la sua rigidità ha suscitato da una parte entusia-stici consensi e dall’altra non poche perplessità.

Va subito detto, per sgomberare il campo dalle tentazioni un po’ qualunqui-ste di chi preferisce l’assenza di normative in un campo ormai molto complesso,che in Italia una legge sulla fecondazione assistita era ormai necessaria. Il nostroPaese, che a differenza degli altri Stati europei non si era ancora dato una legi-slazione in merito, si trovava infatti in una situazione a dir poco paradossale, poi-ché in mancanza di leggi specifiche era possibile applicare senza troppi scrupolitecnologie estremamente diverse, con finalità altrettanto differenziate, ed era pos-sibile attuare quasi senza problemi quello che altre normative vietavano o rende-vano per lo meno difficoltoso. Non a caso l’Italia è stata spesso definita come unasorta di “Far West”, come un luogo del “tutto consentito” nel quale, a fianco distrutture estremamente serie e qualificate, hanno potuto operare per anni anchecentri meno controllati e sicuri, e perfino qualche persona senza troppi scrupoliche ha approfittato dell’altrui desiderio di un figlio per potersi arricchire.

Le ragioni di questo ritardo sono molte, ma fra tutte probabilmente spiccal’incapacità della politica di regolamentare in tempi ragionevoli un campo cosìdelicato come quello della fecondazione medicalmente assistita. Questa lentezzadella politica non è casuale: il nostro Paese in questi casi sembra vivere con un’in-tensità unica lo scontro fra la cultura laica e quella cattolica sulle questioni di ini-zio e di fine vita, e tale scontro fra due confessionalismi mette in crisi le apparte-nenze politiche in nome delle più alte e nobili ragioni della coscienza. Il che, per

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e della paternità, e soprattutto il rapporto con i figli. Ed è in gioco anche, e forsesoprattutto, il rapporto che intercorre fra la medicina e i propri desideri: un pro-blema, questo, di enorme rilievo poiché presuppone la revisione della funzioneterapeutica della medicina come diritto e l’allargamento, potenzialmente smisu-rato, ad altre dimensioni.

Accanto a questo principio di “terapia della sterilità nell’ambito della fami-glia”, la legge ne prevede un secondo, che può essere indicato nella tutela del-l’embrione fin dal momento del concepimento: gli embrioni possono infatti es-sere formati in numero massimo di tre ed esclusivamente in vista dell’impianto.Questa impostazione è simile a quella di altri Stati europei (Svezia, Norvegia,Germania, Austria, Svizzera, Francia), che si differenziano però sul versante deltrattamento dei gameti e che in alcuni casi, come ad esempio recentissimamentein Germania, hanno riaperto il dibattito sulla legittimità dell’impianto nel caso dimalattie genetiche monofattoriali o comunque riconoscibili fin dai primi stadidella vita embrionale. In altre parole anche altri Stati si avvalgono di legislazioniabbastanza rigide e tutelanti per l’embrione, ma la nostra legge occupa, potrem-mo dire, una posizione estrema, prevedendo solo la fecondazione in vista del-l’impianto. Impianto che, secondo la legge, diventa obbligatorio a fecondazioneavvenuta.

Diversa è invece l’impostazione dei cosiddetti “sistemi liberali” (ad esem-pio Spagna e Gran Bretagna) che hanno posto a fondamento della propria legi-slazione la necessità di garantire la libertà della donna nell’accesso alla feconda-zione assistita.

Tale tutela dell’embrione fin dal concepimento esclude la possibilità di spo-stare in avanti, anche solo di qualche giorno, il momento in cui l’embrione co-mincia ad essere considerato persona umana. Viene negata così l’esistenza di “so-glie” dopo il concepimento, prima delle quali non si parli di persona ma di“preembrione” o di “materiale umano” o “materiale embrionale”. Si accogliecosì la tesi che l’embrione non è un essere umano potenziale, ma un essere uma-no con potenzialità di sviluppo, e che dunque l’embrione non è destinatario diuna minor tutela rispetto a quella riservabile a una persona umana. Ciò non si-gnifica che chi parla di preembrione (la Gran Bretagna ha fissato al 14° giorno ilpassaggio da preembrione a embrione 2) non si ponga problemi: anche il preem-brione rimane comunque destinatario di attenzioni e tutele. Ne è prova il lungo

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2 Le soglie sono varie e vanno da quella stabilita a otto giorni sulla base della totipotenzialitàdelle cellule embrionali, a quella collocata più avanti, verso la terza settimana, sulla base invecedell’abbozzo della stria primitiva.

la verità, non è un male: almeno si riconosce che ci sono cose sulle quali la poli-tica deve riflettere con un’attenzione diversa rispetto alla leggerezza con la qua-le si approvano le norme salvapolitici o i condoni. Resta comunque il fatto che,quando si giunge al voto su questa materia, tutte le forze politiche lasciano libertàdi coscienza, dimostrando che la politica di oggi non ha apparentemente ricettepreconfezionate su questi argomenti e si trova in difficoltà nel momento in cuideve valutare della legittimità di quanto è possibile fare con le nuove tecnologiebiomediche.

Se a questo si aggiunge la normale difficoltà a legiferare, e quindi a stabilireuna certa rigidità giuridica, su settori nei quali le tecnologie mediche sono in pe-renne e rapidissimo rinnovamento, si comprende come mai siamo arrivati solo ora,dopo numerosi fallimenti, a una legge che disciplini la fecondazione assistita.

Un sistema rigido

In un contesto così complesso, caratterizzato dalla difficile composizione diprospettive etiche diverse e dalla difficoltà strutturale a regolamentare un campofino ad oggi completamente libero, la nuova legge ha scelto un’impostazione pre-cisa. Essa infatti non asseconda le prospettive più liberali e si colloca invece al-l’interno dei cosiddetti “sistemi normativi rigidi”, ammettendo la procreazionemedicalmente assistita unicamente come terapia della sterilità all’interno dellacoppia. Di conseguenza la procreazione medicalmente assistita è possibile soloper coppie eterosessuali, coniugate o conviventi, che presentano problemi di ste-rilità o di infertilità 1, ed è invece vietata per le donne sole o per le coppie omo-sessuali.

È dunque evidente che l’orizzonte all’interno del quale si colloca la nuovalegge è la famiglia. Sul piano pratico la scelta di limitare alla famiglia le fecon-dazioni risponde a una situazione di fatto, se è vero che generalmente sono lecoppie sposate o conviventi a rivolgersi ai centri nei quali si offre questo tipo diintervento. Tuttavia la codificazione esplicita di questa precondizione ha inne-scato già fin d’ora una serie di polemiche, soprattutto da parte di coloro che ri-tengono inaccettabile la restrizione della fecondazione all’ambito familiare.Sono in gioco ovviamente la visione della famiglia, la concezione della maternità

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1 Si parla di sterilità quando una coppia non riesce a concepire dopo almeno un anno di rap-porti non protetti, e di infertilità quando invece una gravidanza non viene portata a termine dopo ilconcepimento.

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La prima riguarda la possibilità di rifiutare l’impianto degli embrioni dopola fecondazione. Questo è un problema molto serio, perché se da un lato esso ri-sponde alla volontà della legge di tutelare la vita umana fin dal concepimento,dall’altro contrasta con il diritto del(la) paziente di rinunciare a un qualsiasi trat-tamento medico, che deve valere fino all’ultimo minuto. Si tratta dell’eterno pro-blema del conflitto fra il diritto del bambino di svilupparsi e di nascere e il dirit-to della madre di non voler portare a termine quella gravidanza. In altre parole siripropone qui, forse con risvolti molto più complessi, la discussione che ha pre-ceduto l’approvazione delle legislazioni europee sull’aborto. E non è escluso cheun eventuale presentarsi di casi di questo tipo riapra quel dibattito sulla depena-lizzazione che frettolosamente è stato chiuso nel nostro Paese. Vedremo infatticosa succederà nel momento in cui si presenterà il rifiuto dell’impianto, legatomagari alla consapevolezza di essere di fronte a un embrione di cattiva qualità, eci troveremo a discutere sul diritto a non volere una vita che abbia una qualità ri-tenuta scadente. Un dibattito anche questa volta serio, nel quale personalmente,forse perché divento vecchio, fatico ad abbracciare le posizioni di chi decide del-la vita di un bambino sulla base di una specie di “controllo qualità” che rispondeunicamente ai propri rispettabili ma discutibili parametri del bene…

La seconda osservazione riguarda il contrasto esistente fra l’obbligo del-l’impianto e la possibilità di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza.Cosa che in qualche modo salva la coscienza del legislatore, lasciando aperta unaporta di sicurezza, ma che non può non essere sentita come una contraddizione.Non nel senso, come qualche politico si è affrettato a dire, che la legge sulla fe-condazione debba condurre alla demolizione della 194; ma nel senso che si ri-schia di esercitare sulle donne una sorta di doppia violenza, imponendo prima unimpianto “forzato” e poi l’interruzione di gravidanza. Anche qui la questione ècomplessa e non pretendo di avere ricette valide per tutti. Mi sembra però che allabase di questa contraddizione ci sia, ancora una volta, la questione della “dispo-nibilità della maternità”, che ovviamente è destinata a sollevare di nuovo, dopol’approvazione di questa legge, problemi di grande rilievo sul piano etico.

In tutto ciò la fecondazione eterologa, la fecondazione cioè nella quale si faricorso a un donatore esterno alla coppia, in Italia non è più possibile. Questo datoè particolarmente importante, perché ci pone in controtendenza con altri Paesi eu-ropei nei quali, anche se non viene considerata auspicabile, la fecondazione ete-rologa può essere ammessa in certi casi, pur con qualche limite (interessante ilcaso austriaco che limita a tre le donazioni di seme legittime e che impone il nonanonimato del donatore per evitare futuri problemi genetici sulla popolazione). Edè una questione che farà discutere poiché in alcuni casi la fecondazione omologanon è possibile. La cosa, peraltro, è perfettamente in linea con l’impianto genera-

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dibattito scatenatosi in Gran Bretagna sul destino degli embrioni crioconservatiin scadenza, per i quali si è giudicata preferibile la distruzione piuttosto che lasperimentazione, per la quale peraltro si erano fatte avanti non poche industriefarmaceutiche.

Per queste ragioni si nega nella nostra legge, anche se indirettamente, la pos-sibilità di formare cellule staminali embrionali. Tali cellule staminali, oggi con-siderate fondamentali in alcuni campi della ricerca, possono essere dunque otte-nute soltanto da tessuti adulti, anche se le cellule staminali embrionali, per le lorocaratteristiche, sarebbero molto più preziose. Per la verità su questo delicatissi-mo tema, prima di stracciarci le vesti affermando che da noi si limita la ricerca,faremmo bene a riflettere, poiché anche Paesi più liberali del nostro si sono di-mostrati prudenti sulle cellule staminali. Secondo quanto riportato recentementedal dottor Engl, coordinatore del Reparto per la Fecondazione Medicalmente As-sistita dell’ospedale di Brunico (BZ), alla fine del 2002 c’erano nel mondo 72 li-nee di cellule staminali embrionali 3, e numerosi Stati hanno limitato lo studiodelle cellule staminali embrionali unicamente a quelle provenienti da una di que-ste linee, per evitare l’utilizzo di altri nuovi embrioni per la ricerca. Il dato appa-re importante, poiché ci dà la misura della densità delle questioni in gioco: que-stioni che non si risolvono ovviamente con la demonizzazione della tecnologiacome antinaturale, ma nemmeno con la glorificazione della libertà di ricerca,quasi che nel pluralismo occidentale tutto debba diventare per forza permesso.

Problemi medici, problemi etici

Da questa impostazione rigida, che non pochi osservatori hanno interpretatocome un’opzione vicina alle sensibilità della Chiesa cattolica, derivano una seriedi misure particolarmente severe: sono vietate la ricerca e la sperimentazione su-gli embrioni, se non con finalità terapeutiche o diagnostiche che riguardano quelparticolare embrione; è esclusa la possibilità di effettuare diagnosi sull’embrionecon finalità selettiva prima dell’impianto; è vietata la soppressione degli embrio-ni, ed è proibita anche la loro crioconservazione, a meno che non ci siano gravicause di forza maggiore che inducono a uno spostamento della data di impianto.

Tutto ciò, per la verità, comporta problemi sul piano medico prima ancorache su quello etico e proprio su questo piano sono state già sollevate due interes-santi osservazioni.

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3 Per linea si intende l’insieme delle cellule derivanti da un unico embrione di partenza.

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forse una delle più difficili da affrontare poiché in questo delicatissimo ambi-to, che investe l’intimità più profonda delle persone, le ragioni della terapia siintrecciano con le attese, le speranze, il progetto di vita della coppia.

In terzo luogo vi è chi ha sollevato, in generale e non solo nel nostro Paese,il problema del controllo tecnico sulla procreazione, paventando i rischi di unamercificazione della maternità e denunciando il pericolo di un pericoloso con-trollo del corpo, in particolare della donna. In proposito vi è chi ha parlato addi-rittura del rischio, con le nuove tecnologie, di una “bioschiavitù della donna”, an-che perché alcune tecniche prevedono interventi piuttosto invasivi sulla donna.Anche questo aspetto non va sottovalutato, poiché porta alla luce quella dimen-sione solitamente sottovalutata dell’invasività della tecnologia e quindi della suaambivalenza. Non si tratta qui di contrapporre la natura alla tecnologia e quindidi nuovo l’oscuro pensiero cattolico naturale contro l’illuminato pensiero laicotecnologico. Quanto piuttosto di riconoscere che la tecnologia non è mai neutra-le, che essa tende a costruire un “tipo” di uomo, che il suo impatto non si limitaai suoi risultati e che quindi essa non è una sorta di mezzo asettico per realizzarei sogni dei cittadini. La manipolazione tecnologica del nascere è un problema pertutti appunto perché è una manipolazione del venire al mondo, e dunque della no-stra esistenza come persone umane.

Per questo la riduzione del dibattito alle questioni tecniche o giuridiche, pe-raltro fondamentale perché di necessità legislative si tratta, mi pare riduttiva. Per-ché c’è in gioco qualcosa di più delle tecnologie e della loro regolamentazione.

Da ultimo ci sarebbe, più ampiamente, la questione della libertà della co-scienza. È anche questo un problema serissimo, se non altro perché questa leg-ge, con la sua rigidità, spazi alla coscienza ne riconosce davvero pochi. Maquesto, che appare come uno snodo fondamentale nelle questioni di bioetica,merita un altro editoriale… ■

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le della legge, che in questo modo intende tutelare anche il diritto “naturale” delnascituro a vivere all’interno della propria famiglia “biologica”, ma porrà proble-mi poiché genererà fenomeni nuovi come il cosiddetto “turismo della procreazio-ne”. Probabilmente si faranno altrove gli interventi non concessi in Italia e vedre-mo nascere nuovi “paradisi della speranza”: è il caso dei laboratori che stannoaprendo filiali nell’Est europeo, offrendo trattamento completo di volo aereo e al-bergo, per offrire a prezzi concorrenziali quello che qui non si potrà più fare.

Quattro questioni aperte

Fra le molte questioni aperte, ne indico di seguito alcune, senza nessuna pre-tesa di completezza.

Innanzitutto c’è da dire che, anche se il problema può apparire distante dallaquotidianità ed eccezionale, l’innalzamento dell’età del matrimonio o della convi-venza e il mutamento profondo degli stili di vita stanno rendendo la fecondazioneassistita una questione di scottante attualità. Un solo dato può aiutarci a compren-dere le dimensioni del fenomeno. Secondo quanto recentemente rilevato dal dot-tor Bruno Engl, nel nostro Paese si registrano ogni anno 27 mila nuovi casi di ste-rilità, molti dei quali possono essere curati solo attraverso la fecondazionemedicalmente assistita. In Trentino Alto Adige, su una popolazione di circa 900mila abitanti, nel 2002 erano interessate da forme importanti di sterilità ben 5000coppie. Si tratta quindi di una questione destinata nei prossimi anni ad assumeregrande rilevanza e per questo essa non è sottovalutabile; è perciò prevedibile cheil dibattito non si chiuderà con l’entrata in vigore della legge.

La seconda questione riguarda il cambiamento profondo del rapporto con lamaternità e la paternità. Questo cambiamento, che forse è una delle questioni piùimportanti da tener presente quando si parla della fecondazione medicalmente as-sistita, dipende fra l’altro anche dallo svincolamento della sessualità dalla pro-creazione: da un lato, rivendicando una “sessualità responsabile”, si può decideredi non giungere alla gravidanza; dall’altro, per garantire il diritto ad avere un figlioa tutti coloro che lo desiderano, si ricorre a sofisticate tecnologie che svincolanoperò la gravidanza dall’atto sessuale. Le valutazioni morali di questa situazionesono ovviamente molto diverse e vanno da coloro che denunciano senza mezzi ter-mini i pericoli, psicologici e sociali, di uno svincolamento della procreazione dal-l’atto sessuale a coloro che invece riconoscono come irrinunciabile, nella nostracondizione tecnologica, il diritto a ricorrere alle nuove tecnologie per giungere auna gravidanza altrimenti impossibile. Resta però il fatto che questo svincola-mento è una delle questioni più importanti relative alla fecondazione artificiale, e

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ad una divina convocazione. Nulla certo costringe a credere, ma c’è comunquenella fede una sorta di imperatività che è analoga all’imperatività dell’Amanteche anela e vuole assolutamente la reciprocità. In tal senso si è in certo qualmodo positivamente “obbligati a credere” perché è Dio che ti sceglie (non sonoio, non sei tu a scegliere Dio…), anche se permane la libertà della risposta che– se negativa – in tal modo diventa però una sorta di diserzione e di deliberatoautoannichilimento. Come dice un midrash ebraico del Talmud (Schabbat 88a),commentando la teofania biblica di Esodo 19,16-25, al momento della dona-zione delle tavole della Legge, Dio sollevò il monte Sinai sopra le teste di tut-to il popolo ebraico e disse loro «Se accettate la Torà, bene, altrimenti, questasarà la vostra tomba» ovvero il monte sarebbe piombato su di loro e li avrebbesoffocati. Tale minacciata violenza divina che gli Ebrei subirono fu in realtà unatto estremo d’amore che Dio fece verso di loro. Sembra, di primo acchito, unmatrimonio forzato, un’imposizione costrittiva, ma è in realtà la forza “autori-taria” – se volete – dell’amore, di ogni amore e in primis dell’amore divino.

C’è infine tra i filosofi chi sostiene che si è comunque costretti a credere perevitare di cadere in un ateismo dogmatico, in una certezza della non significanzao dell’assurdità del credere (che sarebbe comunque soltanto un altro atto di fede),ma che si è egualmente costretti a non credere perché l’atto di fede si scontra conla tragedia del mondo e dell’uomo e con la sua insensatezza. Tragedia che nes-suna teodicea, nessuna apologia del divino può legittimare (basti leggere su que-sto punto i testi letterari che sono anche filosofici di Dostoevskij). Costretti a cre-dere dunque e costretti a non credere, almeno filosoficamente. Il tema, comevedete, è particolarmente ingarbugliato.

Il mio approccio sarà però attento soprattutto a mettere in luce gli ostacoliper un approdo non costrittivo alla fede, per un’adesione liberante ed autentica adessa. Non è facile affatto caratterizzare il proprio rapporto con Dio, la propriafede, anche perché l’attenzione del vero credente dovrebbe essere sempre pola-rizzata su Dio e sulla sua presenza, e mai su di sé. Ma è anche vero che il desi-derio profondo che sottende una tale singolare relazione deve essere continua-mente purificato da attese e soprattutto da atteggiamenti impropri. Solo dopo unprocesso non superficiale di purificazione è possibile chiedersi: credo davvero?O non sto invece proiettando semplicemente me stesso, illudendomi però di cre-dere? E per questo ci può essere utile una provocazione di Pascal.

Una provocazione di Blaise Pascal

C’è infatti un frammento di Pascal che può essere particolarmente fecondoper la nostra riflessione:

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Spiritualità

Credere senza essere costretti a credere

SILVANO ZUCAL

I l titolo che mi è stato proposto per questo mio intervento 1 appare non pocoparadossale e – se volete – in certo qual senso datato e fors’anche ambiguo.Perché paradossale? Costrizione dice in qualche modo coercizione, se non

fisica almeno morale, coartazione della propria libertà, restringimento delleproprie aspirazioni legittime e positive, oppressione che conduce alla subordi-nazione passiva… Cosa ha a che fare tutto questo con la fede, almeno con lefede nel Dio di Gesù Cristo (così come in quella nel Dio di Israele)? Fede chedice invece atto totalmente fiduciale, atto sovranamente libero e fecondo, attoche realizza una relazione straordinariamente bella che dà sapore a tutte le al-tre relazioni interumane. Costrizione e fede sembrano dunque àmbiti tra loroassolutamente asimmetrici.

Perché il titolo mi pare un po’ datato? Perché il tema della costrizione po-teva avere una sua problematicità effettiva (talora anche drammatica) in regimedi cristianità trionfante. Quando l’adesione di fede era da considerarsi obbliga-ta entro una logica di ferreo ed opprimente disciplinamento sociale. Quando ilnon credente (o perlomeno il non praticante) nei nostri territori era una sorta diemarginato sociale. Ma oggi si sono forse invertiti i ruoli ed è il credente, il verodiscepolo di Gesù di Nazareth, che rischia di essere una sorta di personaggioun po’ singolare (fors’anche eccentrico), se non addirittura un marginale so-ciale. Almeno il credente che non limita il suo atto di fede ai soli luoghi e mo-menti del culto (alla sola attenzione alla tradizione religiosa), ma cerca di in-verarlo nella vita.

Infine il titolo è in parte ambiguo, perché la fede (riandando alla celebredistinzione di Martin Buber tra i “due tipi di fede”) non è solo pistis, ovvero uncredere come mera adesione intellettuale, ma è – almeno dovrebbe essere – so-prattutto emunà (affidamento/fiducialità), ovvero un credere pienamente rela-zionale-dialogico frutto di adesione interiore e di una libera risposta fiduciale

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1 Intervento tenuto a Tarcento (UD) il 9 dicembre 2003, nell’àmbito del ciclo di incontri pro-mosso dalla Pieve e Forania di Tarcento sul modello della “cattedra dei non credenti” ideata a suotempo dal cardinal Martini. Il ciclo è stato promosso da mons. Duilio Corgnali, moderatore e in-terlocutore della serata era il prof. Mario Turello, saggista e critico letterario.

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gica finalizzata ad uno scopo, la logica totalitaria e totalizzante pratico-economi-ca che tutto guida nel nostro tempo per abbandonarsi alla logica alternativa del“senso”, a quella diversa prospettiva satura, gravida e piena di senso anche se nonha, almeno in prima istanza, uno scopo. Certo i sacramenti ci comunicano deter-minati doni di grazia (almeno così si insegnava un tempo a catechismo) e quindic’è nella liturgia anche un “complesso di scopi”, ma perché allora tanto spreco,tanto inutile dilapidare risorse, tempo e mezzi? Basti pensare, ad esempio, al-l’amministrazione d’urgenza dei sacramenti che può raggiungere interamente loscopo previsto in tempi rapidissimi annullando quasi totalmente ogni dimensio-ne rituale. Si dice anche che la liturgia avrebbe uno scopo educativo sul piano re-ligioso ma anche in tal caso una bella settimana intensa d’esercizi spirituali“ignaziani” è ben più funzionale a ciò. Ovviamente anche la liturgia indiretta-mente educa alla fede ma fra esercizi spirituali o attività catechetiche e la litur-gia, dice Guardini, «v’è la differenza simile a quella che passa tra una palestra perla ginnastica, dove ogni attrezzo e ogni esercizio è ben calcolato, e l’aperta cam-pagna e la foresta» in cui ci si può immergere e respirare a pieni polmoni. Men-tre nel primo caso tutto è preordinato, preventivato, secondo puntuali obiettivi, laliturgia è semmai invece un’atmosfera, un’esplosione, un’esuberanza ludica (ap-punto senza scopo) di vita spirituale che si comunica all’uomo. Essa infatti è as-solutamente libera da scopi, è pienezza di gratuità, non può mai essere ridotta allaprospettiva impoverente e deviante di una finalità pratica (per quanto legittima),non è mai uno strumento o un mezzo per raggiungere un qualche scopo ma è dav-vero e totalmente fine a se stessa e non può esser manipolata da “scopi” umani.

Nella liturgia, se è autentico atto di fede, l’uomo non guarderebbe più a séma soltanto a Dio, suo partner dialogico, orientando totalmente in quella dire-zione il proprio sguardo. Obiettivo primario non sarebbe quindi in tal caso quel-lo di educarsi e migliorarsi sul piano morale (precettismo liturgico devastante,benché la dimensione morale sia importante), ma quello di provare a sintoniz-zarsi sulla Vita divina e sulla divina Parola e ciò vuol dire: contemplare in silen-zio e adorare con parole e canti la gloria divina, dispiegare dunque dinanzi a Diotutto se stesso, inserirsi nella vita divina, nella verità, nei misteri e nei segni divi-ni. La liturgia sarà così davvero “gioco” come è il gioco del bambino sulla terraquando è vero gioco (non, ahimè, nei cosiddetti giochi intelligenti!) che è ap-punto senza scopo (non mira proprio a nulla) ma è giocato con serietà assoluta edè pieno di significato profondo per il bambino. La liturgia come il gioco ha un ca-rattere disinteressato, non appartiene alla “vita ordinaria”, rimane al di fuori delprocesso di immediata soddisfazione dei bisogni, anzi interrompe drasticamentee con vera discontinuità tale processo e vi si insedia con un’azione provvisoriache ha il proprio fine soltanto in sé.

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«Si nascondono nella folla e chiamano il numero in loro aiuto … Autorità. È cosìpoco ammissibile che la norma della vostra credenza in qualcosa sia l’averla uditadire, che voi non dovete credere [proprio] in nulla, senza esservi messi prima nellacondizione di chi non l’avesse mai sentita dire prima. È il consenso di voi a voi stes-si … che vi deve far credere. Il credere è così importante» (Fr. 260).

È troppo importante, potremmo dire. La provocazione di Pascal allude aduna costrizione nel credere insieme più sottile e più insidiosa. Non più una co-strizione di carattere sociale, di mero conformismo sociale, ma invece una co-strizione di carattere spirituale. Il bisogno del numero (il ripararsi dietro il nume-ro, dietro la conta quale rifugio) per legittimare e rafforzare la propria fede, ilnascondersi nella folla, l’appoggiarsi all’autorità, il credere per “aver semplice-mente udito dire” e non più con la forza sorgiva e dirompente di chi si pone nel-la condizione originaria di chi “non ha mai sentito prima” quella proposta di sin-golare sequela. Non un credere dunque che è (come dovrebbe essere) un porsipositivamente – come direbbe anche Kierkegaard – da contemporanei con il Cri-sto. Ma un credere in cui manca così un vero “consenso a se stessi”, al profondodi sé; non quindi e semplicemente un consenso passivo a un “fuori di sé” (sia essosociale o familiare od anche meramente culturale) che ti propone di credere o ad-dirittura, talora, ti incita a credere se non addirittura ti impone di credere.

Una celebrazione della fede non ludica

Quali sono allora le ragioni (le più importanti a mio avviso) che ostacolanol’approdo alla fede, inteso come l’approdo a una fede che dica – utilizzando leparole potenti di Pascal – un “consenso di voi a voi stessi” e non sia percepita in-vece come sottile, anche se talora e immediatamente poco percepita, costrizionedello spirito?

Vorrei partire (e ciò apparirà forse singolare) dall’atto in cui si celebra lafede, dall’atto culturale e liturgico 2. Un atto che può iniziare alla fede (basti pen-sare alla filosofa Simone Weil, che proprio dalla liturgia, sia quella monastica siaquella dolente di una processione in Portogallo, venne sconvolta interiormente eprovocata a credere…) o può, invece, divenire un drammatico ostacolo per essa.

Come ci ha insegnato Romano Guardini la liturgia è – o almeno dovrebbeessere – essenzialmente “gioco”. Un momento in cui si dovrebbe deporre la lo-

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2 Ho sviluppato ampiamente questo aspetto nel VII capitolo del mio libro Lineamenti di pen-siero dialogico (Editrice Morcelliana, uscita prevista nel febbraio 2004).

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alla vera fede. Qui ci muoviamo sul piano sottile e inevitabilmente delicato e pro-blematico della “motivazione” personale per credere. Perché credo? C’è spessouna motivazione spiritualmente devastante ed è quella che conduce alla fede perun bisogno di carattere essenzialmente se non esclusivamente psicologico. Il “bi-sogno di credere”, con tutto ciò che questo comporta, ovvero il sentimentalismoreligioso, l’emozionalismo, il sensazionalismo (pensiamo a quante trasmissionitelevisive – a tema religioso – di carattere sensazionalistico). La fede in tal caso èfraintesa alla radice come fosse soltanto una buona medicina consolatoria per lenostre debolezze (non, e semmai, una redenzione per i nostri peccati e un’offertadi vita piena e salutare, di relazione piena con un Tu che finalmente non delude).Brutalmente si potrebbe parlare, scusatemi per la rozzezza dell’espressione, di“fede-Prozac”. Ma questa è non solo una deviazione dall’approdo autentico allafede, una fuga che cela in sé una deriva (un rischio perlomeno) di carattere idola-trico, poiché non riconosce più Dio nella sua alterità, ma soprattutto determinadelle costrizioni pericolosissime, delle maglie che stringono la libertà dello spiri-to. Non c’è più infatti in tal caso vera distinzione netta tra fede e magia e, come sisa, la magia, per quanto per lo più deludente nei suoi effetti, imprigiona quasi sem-pre, determina una sorta di coazione a ripetere. Se talora delude in modo assolutole proprie attese (come può purtroppo capitare ad esempio di fronte ad una trage-dia personale), una fede intesa semplicemente come risposta miracolistica al pro-prio disagio ed ai propri problemi è in qualche modo sempre sulla strada della pos-sibile delusione e frustrazione delle aspettative, crea quindi nella persona tutti ipresupposti per un terremoto ed un disastro interiori. Oltretutto se la fede in ter-mini più generali è còlta semplicemente come una risposta al bisogno psicologi-co, essa fonda l’atto religioso come semplice fenomeno storico contingente, indi-viduale e collettivo, che tolto il bisogno è destinato a scomparire.

Una “fede adulta” supera la logica meramente infantile del “bisogno di Dio”escludendo necessariamente dalla fede ogni forma di interesse gretto o di ricercasecurizzante: atteggiamenti che devono essere purificati e rettificati se si vuol cer-care davvero Dio e non la propria umana, “troppo umana” soddisfazione. Occor-re davvero decentrarsi da se stessi e trovare pace lasciando che solo Dio sia Dio.

L’ostacolo di una religione civile

Un ulteriore ostacolo è rappresentato dalla sovrapposizione tra fede e “reli-gione civile”. Ne abbiamo avuto una recente testimonianza nei funerali di statoper i carabinieri morti a Nassiriya o con la virulenta polemica sull’esposizioneobbligatoria del crocifisso nelle scuole. Temi complessi, su cui potremmo discu-

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Anche l’uomo credente, come il bambino che gioca, dovrebbe avere nellaliturgia dinanzi a sé l’opportunità davvero straordinaria di poter essere finalmen-te e pienamente se stesso, figlio di Dio, di un Dio che ti fa giocare come gli an-geli di Ezechiele (1,4ss.11s.14s.17.20.24; 10,8-11) e come il Figlio di cui parla iltesto dei Proverbi (8,26s.30s). La liturgia è dunque sì dono di grazia, grazia nel-la Parola e nel pane e nel vino ovvero nel corpo di Cristo che ci sono dati, ma cor-rispondente all’umana attesa ludica: gioco donato sì, ma gioco atteso; e se non siattende il gioco ma piuttosto il monito, l’indicazione moral-pedagogica, anche ilgioco donato sfugge (non si può né cogliere né gustare) e la liturgia diventa unrito noioso e triste, un vero grande e potente ostacolo alla fede, che ce la rende unche di costrittivo e di umanamente patetico. Oppure, soluzione che dice una gra-ve patologia spirituale, la liturgia viene artificiosamente e pateticamente riani-mata con applausi e forzature dissonanti, quasi fosse un talk show televisivo. Ilgioco non si oppone alla serietà (calciatori, scacchisti e soprattutto bambini gio-cano con la massima serietà senza una necessaria tendenza al riso: e infatti il gio-co non è affatto comico, né per i giocatori né per gli spettatori) e così anche nel-la liturgia dovrebbero combinarsi assieme profonda serietà e divina letizia. Agireliturgicamente è davvero “diventare come bambini”, smettendo almeno per un at-timo i panni dell’adulto che vuol sempre e comunque agire avendo dei fini, degliobiettivi puntuali e determinati, per decidersi finalmente almeno per una volta a“giocare”, a “giocare davvero” come faceva Davide quando danzava davanti al-l’arca santa (2Samuele 6,12.14.16) e dovette sopportare che Mikal, figlia di Saul,ridesse di lui… Il credente dovrebbe quindi essere nella liturgia un danzatore re-gale come Davide dinanzi all’arca, senza temere il disprezzo di una qualsiasiMikal, come dice l’Evangelo di Matteo ripreso da Ambrogio di Milano: «Vi ab-biamo suonato il flauto, ma voi non avete danzato» (Matteo 11,17). Non rima-niamo forse stupiti e rapiti di fronte alle liturgie cristiane dei credenti d’Africa od’America Latina davvero “giocose”, mentre le nostre rischiano ormai l’asfissiaimprigionante di un ritualismo penoso e senz’anima? Se mi ribello alla tiranniadell’utile (ma siamo ancora in grado oggi di farlo?) potrò forse imparare a «farein libertà, bellezza, santa letizia dinanzi a Dio il gioco da Lui regolato della litur-gia» (Romano Guardini) e ciò renderà meno difficoltoso l’approdo alla fede per-ché ne espungerà il cancro devastante dell’apatia e della stanchezza spirituale.

L’ostacolo psicologistico e consolatorio

C’è un secondo ostacolo che s’impone oggi con particolare rilievo e che por-ta ad una sorta di “costrizione” nel credere o che comunque impedisce l’approdo

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gine”, n. 9/2003) di una chiesa “né calda né fredda”, come dice con durezza l’A-pocalisse, che ha avuto paura a dichiarare che i poveri nostri morti di Nassiriyasono l’epilogo tragico non della lotta doverosa al terrorismo islamico suicida, madel disordine armato in cui è stato gettato l’Iraq, un disordine che ogni giornochiede il suo obolo di sangue. Una chiesa che dunque ha preferito un messaggioprudente, mesto, discreto, legittimante, e che in quel momento si è autocondan-nata all’insignificanza in un passaggio cruciale della storia. Questa retoricizza-zione obbligata (sovrapposizione del messaggio evangelico e della liturgia cri-stiana alla retorica civile), questo sì è un ostacolo pesante dell’oggi e forse ancorpiù del futuro che può ostacolare l’approdo libero e non costrittivo alla fede, me-glio ancora l’effettiva riconoscibilità della fede stessa nella sua peculiarità.

L’ostacolo del letteralismo fondamentalistico

Altro ostacolo costringente è un’interpretazione letteralistica e potenzial-mente fondamentalistica della Bibbia. Il ritorno alla Parola sancito dal Concilionon deve mai trasformarsi in una forma di biblicismo, di feticismo del Libro.Come dice Bonhoeffer in una lettera a Barth, questo sarebbe “positivismo dellarivelazione” (lettera dell’8 giugno del 1944). La Parola viene a noi come realtàche ci interpella, che chiama al dialogo. Altrimenti è come se in un colloquio par-lasse uno soltanto e l’altro dei due interlocutori fosse semplicemente un ascolta-tore passivo e non responsivo. Certo occorre essere “uditori obbedienti della Pa-rola” (nella linea di Barth e di Rahner) ma non per apprezzare un monologo. LaParola di Dio è una parola sempre interpellante che vuol essere a sua volta inter-pellata. Essa instaura un dialogo, appunto, non un monologo. Il timore sacrale, ilrendere la parola una sorta di sacrum (e non di “divino” direbbe María Zambra-no), un che di intoccabile che non può essere oggetto d’interpretazione e soprat-tutto di replica non corrisponde al suo essere parola totalmente divina e proprioper questo convocante e dialogante. Ed è su questa base che nascono tutti i fon-damentalismi e tutti i settarismi che impediscono l’accesso alla fede, che co-stringono ad una fede che non è né liberante né autentica.

I grandi pensatori dialogici del Novecento, da Ebner a Buber a Rosenzweig,ci hanno insegnato proprio questo: la Parola di Dio viene a noi per essere ascoltatama anche e soprattutto per trovare una nostra risposta verbale. Quello che è propriodella Parola divina non è dunque una prospettiva unidirezionale. La tradizioneebraico-cristiana non vuole una mistica fusionistica con Dio che annulli la relazio-ne effettivamente dialogica con Lui (avendo eliminato di fatto uno dei due interlo-cutori). Questo sarà semmai un modello proprio di talune religioni orientali.

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tere a lungo, ma temi che nulla hanno a che fare con la fede in senso proprio. Cheanzi determinano una costrizione restringente, quasi che la fede fosse un attopubblico di carattere meramente sociologico, una sorta di rappresentazione so-ciale e non in primo luogo il frutto di un’adesione interiore di carattere autenti-camente personale.

Il mio filosofo preferito, l’austriaco Ferdinand Ebner, ha vissuto all’iniziodel secolo scorso la tragedia di una fede indistinguibile da una religione civile,quando i funerali di stato cattolici per le vittime di guerra avvenivano al di qua eal di là del fronte e poi (o anche durante le celebrazioni liturgiche) i cattolici ri-prendevano da subito a fronteggiarsi con violenza:

«Se davvero l’abbiamo già completamente dimenticato, bisogna che venga richia-mato energicamente alla nostra memoria quale volto abbia mostrato la guerra al-l’uomo e quale volto l’uomo nella guerra. Invero, questo non dovremmo dimenti-carlo finché viviamo, e neppure nella vita delle generazioni future, la notizia diquesta guerra potrà andare perduta per i nostri figli e nipoti. Furono i popoli ‘cri-stiani’ a condurre questa guerra. Nelle chiese ‘cristiane’ si levarono preghiere per lavittoria e, per impetrarla, si svolsero processioni con immagini miracolose di Maria.Cristiani erano questi popoli che condussero quella guerra. Eppure anche in queltempo un confronto effettivo con il Discorso della Montagna non si sarebbe dovutoevitare del tutto. Nel febbraio del ’15 il padre gesuita Cohauß tenne a Vienna unaconferenza su ‘Guerra e cristianesimo’, in cui, stando ad un giornale ‘cristiano’ en-tusiasta della guerra, se ne uscì con l’affermazione: ‘Cristo parla da retore e non daesperto di casistica. Alle figure del suo discorso appartengono esagerazioni retoricheche vanno ricondotte alla giusta misura’. Un giornale pubblicò una lettera della po-sta militare in cui si diceva: ‘Messa da campo presso X’. Durante la messa non si faràfuoco in modo massiccio ‘ma alla lettura del secondo Vangelo, su ordine impartitoper telefono, le batterie di artiglieria faranno fuoco alle postazioni nemiche in ma-niera sporadica’. Il telefono produsse il legame tra il Vangelo e la guerra, quel lega-me ricercato con tanto fervore, e mai trovato, da teologi della guerra … Era il tem-po in cui si usava una croce per menare le mani. A ragione fu coniata allora lasingolare espressione ‘moratoria del cristianesimo in trincea’».

Anche il crocifisso “obbligatoriamente esposto” rischia di diventare sem-plicemente, come direbbe ancora Ebner, una forma di Stilisierung des Kreuzes (lacroce che diventa semplicemente un “fatto di stile” civile e pubblico: potremmotradurre “coreograficizzazione della croce”). La battaglia per il crocifisso non èla battaglia per la fede… Né una tragedia come quella dei caduti in Iraq può farsì che una liturgia cristiana diventi soltanto una liturgia di stato, o meglio che ledue liturgie si sovrappongano completamente in un indistinto culturale.

Ne è emersa così l’immagine (come ha ben scritto Alberto Conci su “Il Mar-

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impostagli nonostante Gesù l’avesse amato. Non sono le nostre comunità cristia-ne realtà in cui l’identità sociale impostaci non viene affatto messa in discussionese non sbriciolata? Comunità di “maschere” e di solipsisti: questa è la peggiore co-strizione nella “vita di fede” oltre che ovviamente nella vita in generale.

E lo scandalo dei credenti?

E lo scandalo dei credenti? Ho lasciato per ultimo quello che potrebbe esse-re invece il più appariscente ed immediato. Lo scandalo dei credenti praticanti,degli infedeli allo spirito dell’Evangelo, uomini di chiesa e no, della mancata te-stimonianza di povertà, di pace, di verità. Non perché questo non possa allonta-nare dalla fede i cercatori di Dio che si sentono impossibilitati nel credere da un’i-stituzione che trasuda peccato, tradimento ed ipocrisia farisaica, da cosiddetticredenti che sono una palese contro-testimonianza in atto. Ma paradossalmente,vorrei dire, ci sono oggi come sempre, abbastanza testimoni per rendere credibi-le il messaggio e abbastanza peccatori per mostrarlo offuscato nella sua attendi-bilità. Come sempre la fede non è annunciata in modo solare, parla nell’uomo concarne umana… Se fosse totalmente abbagliante, la libertà del credere sarebbe – come dice Pascal – inibita; se fosse totalmente oscurata, la fede risulterebbe im-possibile. C’è abbastanza luce per credere e abbastanza oscurità per non credere.

L’ostacolo quindi non è tanto nei peccatori, ma nell’indifferenza che il co-siddetto credente manifesta, nel non sentirsi davvero appassionato e vitale nelsuo credere (e quindi nel non poter mostrarsi tale). L’unico peccato che nonsarà perdonato sarà quello contro lo Spirito e traducendolo nell’oggi ciò che sipuò dire è che l’unico atto davvero scandaloso che impedisce l’accesso allafede è l’accidia spirituale, la stanchezza spirituale, l’apatia spirituale. Questo sìallontana dalla fede. Cosa dovrebbe vedere un giovane che si avvicina a un cre-dente? Perfezione, no, lo terrorizzerebbe e lo allontanerebbe. Luce negli occhidel credente semmai, quella luce che dice che ne valeva la pena e ne vale an-cora la pena…Che credere non è un farsi imbrigliare l’umanità, la corporeità,la vitalità, la bellezza, la spontaneità (altrimenti avrebbe ragione Nietzsche),ma semmai farla esplodere in pienezza!

Conclusione: quale facoltà umana crede?

Alla fine di tutto questo discorso sulla fede costretta o meno, libera o meno,vorrei concludere con un accenno relativo ad una domanda che mi pare decisiva.

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Non si tratta quindi di inabissarsi in Dio né di assumere la sua Parola cometesto immobile. Si tratta invece di dialogare, come dice il Prologo del Vangelo diGiovanni, per cui in Principio era la Parola dialogante che era presso Dio e cheera Dio. O, come dice Buber, in Principio era la Relazione e la Relazione erapresso Dio e Dio era Relazione. Solo allora l’Altro è l’Altro con cui parliamo, cheil colloquio (solo il colloquio) ci può rivelare come esistente e non come un no-stro analogo. Un Altro che in senso pieno anche se enigmatico diviene il nostropiù importante interlocutore, il nostro vero Tu, colui che ci interroga e che rive-landosi ci rivela a noi stessi, mentre azzardiamo ogni volta la nostra flebile ri-sposta. Soprattutto una risposta orante. Cogliendo la preghiera proprio ed essen-zialmente come replica verbale al nostro divino Interlocutore. Nessunosprofondamento dunque spirituale, meramente passivo e recettivo, ma una dialo-gica virtuosa, una relazione autentica con Dio.

L’individualismo e la comunità virtuale

La fede crea (se autentica dovrebbe creare) l’incontro tra Dio e l’uomo, tral’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro. La comunità è però il caso serio del no-stro tempo. Non solo perché la comunità è difficoltosa e problematica nella vitasociale abituale (da animali insulari e teledipendenti quali ormai siamo diventa-ti) ma anche perché la comunità ecclesiale abusa di questa espressione. Si parlatroppo facilmente di comunità, di comunione, intendendo però una comunità deltutto virtuale, un incontro di persone che mistericamente (solo mistericamente)dovrebbero riconoscersi insieme. In realtà sono persone che ben raramente fan-no davvero vita comune. Ma questo è ancora una volta una costrizione o meglioun abuso spirituale. La comunità è il dialogo reale tra un Io e un Tu, è il ricono-scersi di volti, non è semplicemente un assemblaggio umano di praticanti reli-giosi che si autodefiniscono in linea di principio comunità.

L’uomo d’oggi è famelico di comunità ma non vuole sentirsi tradito su que-sto terreno. La “vita comune” di cui parlava ad esempio Bonhoeffer non è soloun’autodefinizione di principio della vita cristiana o una solidificazione di un’i-pocrisia, altrimenti tutto sa davvero di prigionia dello spirito. La libertà dello spi-rito che permette la costruzione di una comunità di fede davvero autentica è quel-la che vede donne e uomini capaci di uscire da sé, di spogliarsi pienamente delproprio “io miserevole e odioso” (Pascal) psichico e sociale (non spirituale) che èsempre una propria costruzione (o comunque una proiezione solipsistica), di far-la finita con l’identità socialmente imposta (con la “maschera”). Basti pensare al-l’episodio del giovane ricco, che nonostante tutto il suo zelo etico-religioso prefe-risce restare “legato e incarcerato”, ovvero schiavo dell’identità socialmente

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Con quale facoltà umana crediamo, nel senso dell’emunà, non della pistis? Èstrano che lo dica un filosofo, ma non mi appassionano particolarmente i dibatti-ti su fides et ratio. Non perché non ci sia una ragionevolezza nel credere, ma per-ché come in un vero innamoramento si tratta di una ben diversa razionalità e di-versamente qualificata razionalità. Pascal parlava della facoltà del “cuore”, diun’interiorità assolutamente disponibile e insieme terremotata dall’evento delcredere. María Zambrano, questa straordinaria filosofa del Novecento, parla in-vece di “viscere”. Ecco io credo che la fede sia un fatto nel contempo assoluta-mente interiore, cordiale e viscerale. E di contrappunto non può essere soltantoun fatto esteriore, puramente mentale, e che vuole un chiarore che annulla quelsentire intuitivo profondo ed oscuro insieme, viscerale appunto, che tendiamo arimuovere. Ciò non significa che essa sia un fatto irrazionale, ma il “Figlio dell’uomo” conosce l’interiorità, il cuore e le viscere di ognuno. Una fede esclu-sivamente mentale è una fede opprimente e costrittiva. Non sarà nessuna “dimo-strazione razionale” di Dio che ci porterà a credere e se anche fosse inoppugna-bile ed evidente costringerà ad una pura e semplice accettazione razionale (ad unaqualche forma di deismo), non ad una adesione fiduciale.

Una fede esteriore è egualmente opprimente e costrittiva. Una fede cordia-le e viscerale è invece liberante perché riabilita e porta alla luce quella dimensio-ne profonda del nostro essere, quel “meta-Inconscio” (un’espressione che tro-viamo in Guardini e in Eugenio d’Ors), che altrimenti si affiderebbe soltanto aimedici-professionisti dell’Inconscio che nulla sanno di tale dimensione anche sepresumono di saperne.

E la preoccupazione di Dietrich Bonhoeffer:

«Quello che mi preoccupa veramente è la questione di che cosa sia veramente pernoi, oggi, il cristianesimo, o di chi sia Cristo. È passato il tempo in cui lo si potevadire agli esseri umani con parole – teologiche o pie; come è passato il tempo del-l’interiorità e della coscienza, cioè appunto il tempo della religione in generale. Stia-mo andando incontro a un tempo completamente non religioso. Gli esseri umani,così come ormai sono, semplicemente non possono più essere religiosi».

può essere oggi riletta in modo forse diverso. Certo la religione è proble-matica, nonostante i ritorni di fenomeni religiosi che non ci si aspettava in gradodi resistere all’urto del disincanto (ritorni a mio avviso apparenti perché in largamisura artificiali), ma la fede nuda e post-religiosa può ritrovare nella riabilita-zione dell’interiorità tolta al semplice dominio dello psicologico una propria op-portunità davvero liberante. ■

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Appunti

Due film su Aldo Moroe molti altri “film” intorno

GINO MAZZOLI

Buongiorno notte

Verso la fine dell’estate scorsa, ero appena uscito con le mie brave lacri-me agli occhi da un cinema in cui mi ero sciroppato quel bellissimo romanzo-ne nazionalpopolare La meglio gioventù che mi imbatto in un effluvio di elogiveneziani per il film di Bellocchio Buongiorno notte.

Dato che il tema è il rapimento di Moro; dato che nel ’78 facevo politi-ca a Roma, con quelli di Zaccagnini; e dato che tra allora e oggi mi sono let-to i libri di Flamigni, Alfredo Carlo Moro e Cipriani, che hanno rovesciato laprospettiva con cui il tema è generalmente trattato, la cosa mi intriga (la cri-tica è entusiasta) e vado a vedere il film. Ma che ti trovo? Ancora la favola deibrigatisti folli strumenti di una fede esecrabile fin che si vuole, ma coerenti,onesti, in qualche modo romantici. Gallinari alleva canarini, Moretti sente lagravità dell’ora ed altre amenità. Poi c’è Moro, rivalutato, si dice. Aspetto pertutto il film qualche dialogo che aiuti a elaborare la vicenda. L’unica cosa in-teressante detta da Moro è che quelli della scorta sono gente del popolo, unpo’ come il poliziotto Matteo ne La meglio gioventù quando rimprovera alfratello impegnato nel sessantotto di avere un’immagine idealizzata (e dun-que astratta) dei poveri e delle masse. Per il resto il nulla. Quando il film fi-nisce mi sembra che debba ancora cominciare (forse ero contagiato dalle seiore dell’altro).

Bellocchio dice che ha fatto un film psicologico senza prendere posizionesulle dietrologie relative ai rapporti tra BR e servizi segreti (anche se gli scap-pa la videata finale sui gerarchi democristiani ai funerali di Moro, con tanto diinquadratura lunga su Zac). Ma allora tanto vale fare finta di niente rispetto atutto quello che è emerso sull’assassinio di Kennedy e girare un film sui tor-menti esistenziali di Oswald prima di uccidere JFK.

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* Il famoso appartamento di via Gradoli sta in un condominio in cui il70% degli appartamenti è di proprietà dei servizi segreti.

* Di fronte al suddetto condominio ha abitato per tutto il tempo della per-manenza di Moro (e solo per quel periodo) un uomo dei servizi segreti, ex com-pagno di scuola di Moretti.

* La stamperia delle BR era in una sede dei servizi segreti; la testina del-la macchina da scrivere con cui i brigatisti scrivevano i loro comunicati appar-teneva ad una macchina da scrivere dei servizi segreti.

* I tempi dei trasporti di Moro da via Fani a via Gradoli e da via Montal-cini a via Caetani, su cui Moretti giura e spergiura, contrastano con molti par-ticolari, con le regole della logica e con i rilievi della polizia scientifica.

* I tre comitati istituiti da Cossiga per cercare Moro all’indomani del ra-pimento erano interamente composti da persone della P2.

* In via Fani quel giorno c’era un mare di gente: un generale dei servizisegreti che ha assistito impassibile alla scena, un killer professionista dilegua-tosi, un mucchio di persone in divisa da aviere; forse avevano la divisa perché,non conoscendosi, potevano così evitare di spararsi addosso?

* Come mai i brigatisti, nella concitazione degli spari, trafugano in pochisecondi le borse coi documenti rilevanti di Moro e abbandonano quelle coi do-cumenti non significativi?

* Come mai il percorso dell’auto di Moro, modificato la mattina stessadalla scorta, era conosciuto dai brigatisti (che hanno forato la notte precedentele ruote del furgone di un fiorista che spesso transitava al mattino da quelle par-ti)? Forse la scorta sapeva dell’attentato, ma ha ricevuto ordini superiori e hatradito il proprio Presidente perché immaginava qualcosa di meno cruento; eforse proprio perché nessuno potesse rivelare un simile particolare i brigatisti(o i pistoleri professionisti loro complici) hanno sentito la necessità di dare ilcolpo di grazia a ognuno dei componenti della scorta.

Mi fermo qui, ma si potrebbe continuare per ore.Dunque la storia che ci siamo raccontati per anni (gli anni di piombo,

l’attacco al cuore dello Stato, persino la linea della fermezza contro le BR, idiscettatori dalla pancia piena su “né con lo Stato né con le BR”, e infine ilpentitismo come fenomeno che ha sconfitto il terrorismo) era una favola?Più o meno sì. Nel senso che la storia dell’estremismo di sinistra italiano(ma non solo) si intreccia continuamente coi servizi segreti che, attraversoopportune infiltrazioni l’hanno incentivato a crescere, hanno decapitato icapi moderati, l’hanno incitato sulla via più estremista, l’hanno protetto nel-le azioni più difficili (e politicamente redditizie per certi disegni). Perché leBR dovrebbero fare eccezione? Erano un mix di pazzi e megalomani, ma an-

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Piazza delle cinque lune

Poi mi dico che forse do troppo per scontata una consapevolezza diffusasulle enormità scoperte (e processualmente documentate) in questi 25 anni ri-spetto agli intrecci BR-servizi segreti e alla strana convergenza tra progetto del-la P2 (oggi ‘finalmente’ in fase di piena realizzazione) e progetto delle BR. An-che in questo caso mi viene incontro un altro film sull’assassinio di Moro,molto meno strombazzato dai media, ma molto, molto più coraggioso e fic-cante. In un cinemino di quart’ordine di un paese della mia provincia arrivaPiazza delle cinque lune, un film che attendevo da tempo perché mesi fa inun’intervista il regista (Roberto Martinelli, autore di altri film scomodi comeVajont e Porzus) aveva affermato che il sequestro Moro ha segnato una svoltanon solo nella vita politica italiana, ma nello stile della vita politica dell’occi-dente: un colpo di Stato sotto traccia, un avvertimento a tutti (inclusi gli alloraeurocomunisti) che Yalta non si poteva toccare.

Qui il ritmo è quello di un thriller: nel 2003 un magistrato in pensione vie-ne in possesso, tramite un anonimo partecipante al sequestro di via Fani, di unfilmato di quel rapimento; da qui si sviluppa una sequenza di comprensioni sem-pre più ampia della rete che ha organizzato il rapimento e l’assassinio di Moro.Ecco qualcuna delle cose dette nel film, scritte da tempo in libri molto istrutti-vi 1, emerse nelle aule dei tribunali e zittite proprio dai nostri intrepidi brigatisti.

* 1974: cattura di Curcio e Franceschini grazie all’infiltrazione di “Fratel-lo mitra” (agente dei servizi segreti); quel giorno sull’auto doveva esserci an-che Moretti, ma pochi minuti prima dell’arrivo dei carabinieri egli avvisa che,per un contrattempo, non potrà esserci.

* Da allora Moretti prende in mano le BR e pilota il grande sequestro, pri-ma ipotizzato su Andreotti, verso Moro (mica male come influenza sul corsodegli eventi!)

* Hyperion è il nome di una finta scuola di lingue parigina considerata perlungo tempo un ritrovo per terroristi di sinistra; in realtà è l’agenzia della CIA perl’infiltrazione di propri uomini nei movimenti dell’estrema sinistra. In un docu-mento istitutivo di Hyperion si parla di «utilizzare qualsiasi mezzo per fermarel’ascesa al governo dei partiti comunisti in occidente, incluso il rapimento e l’as-sassinio di leader politici». Moretti è un assiduo frequentatore di Hyperion.

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1 A.C. MORO, Storia di un delitto annunciato, Editori Riuniti, Roma 1998; G. CIPIRANI, Lostato invisibile. Storia dello spionaggio in Italia dal dopoguerra ad oggi, Sperling & Kupfer, Mi-lano 2002; S. FLAMIGNI, La tela del ragno, Kaos edizioni, Milano 1993; S. FLAMIGNI, Convergen-ze parallele. Le brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro, Kaos edizioni, Milano 1998; S. FLA-MIGNI, Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos edizioni, Milano 1999.

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Ma cosa abbiamo visto in quegli anni (e cosa ci viene propinato su questotema tuttora)? Favole. Ottime storie ben costruite per mettere tutte le cose alloro posto. La struttura di tutte le favole prevede buoni, cattivi e sostenitori de-gli uni e degli altri. Tutti si sostengono a vicenda (anche nella contrapposizio-ne) nel proporre un senso. Mi sembra che il film di Bellocchio sia ancora den-tro la scena di quella favola perché non ne mette in questione il senso (la favoladei disperati anni di piombo e della contrapposizione tra bene e male, dove tut-te le opinioni e gli opinionisti trovano eroi e babau cui attingere), mentre il filmdi Martinelli ha il coraggio di mettere in questione il senso che diamo per scon-tato: in una scena il magistrato porta i suoi collaboratori sulla torre della piaz-za del Palio di Siena e, a mano a mano che si apre l’orizzonte ai vari stadi del-la salita, richiama le cose che hanno compreso nella loro inchiesta quandohanno assunto uno sguardo più ampio sulla vicenda.

E tuttavia uscire da questa favola non è semplice. Le favole ci rassicura-no che tutte le cose sono al loro posto e che il bene trionferà. E si sa che, seuno sveglia un altro che sta sognando, rischia di essere preso a male parole.Come il protagonista di Matrix quando capisce che le macchine (ormai do-minatrici del mondo) hanno infilato nella testa degli uomini un microchipgrazie al quale il mondo appare come vorrebbero che fosse (bello, soleggia-to, arioso, ordinato) e non qual è diventato dopo la guerra tra uomini e mac-chine (devastato, senza luce, inquinato); l’ha capito, ma si chiede come potràconvincere gli altri di ciò che sa. Potremmo chiederci quali altre favole cihanno raccontato/ci siamo raccontati in tutti questi anni: partendo dalla favo-la che mi sono raccontato io, la favola della sinistra DC (con De Mita cheelegge presidente della Repubblica quel Cossiga che istituì quei comitati in-farciti di piduisti, e con Martinazzoli, anch’egli grande estimatore di Cossi-ga, che oggi si imbranca con Mastella); sulla Rete di Orlando (dopo ambiguiondeggiamenti alleatosi con Di Pietro); sui pattisti di Segni (che hanno con-tribuito a regalarci uno dei più sciagurati sistemi elettorali esistenti); e (per-ché no?) sul mitico pool di “Mani pulite” (quanto è stato funzionale, chi inbuona fede chi meno, per farci assomigliare di più e più velocemente all’A-merica – del nord o del sud è da vedere – ma sicuramente a uno Stato con unforte indebolimento di quei corpi intermedi che stanno tra lobby che decido-no e cittadini?)

Portando il discorso ai giorni nostri potremmo chiederci quali altre favoleci hanno raccontato/ci stiamo raccontando sul G8 di Genova, sulle TwinTowers, sull’Afghanistan, sull’Iraq, sugli omicidi D’Antona e Biagi, sulla Par-malat, sui pacchi-bomba a casa Prodi…

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che di personaggi con collegamenti molto espliciti e provati con ambientidei servizi.

Non dimenticherò mai un’intervista televisiva di Zavoli a Moretti, Curcioe la Balzarani in cui Moretti ripeteva ossessivamente una sola cosa: «Non c’ènient’altro da sapere su quel sequestro. Siamo stati noi e solo noi».

Matrix

Che dire dei manifesti affissi in tutte le città d’Italia alcune settimane facon la scritta “Andreotti assolto”? Assolto da che? Dall’accusa di essere il man-dante dell’omicidio Pecorelli, il giornalista ucciso in Piazza delle Cinque Lunesubito dopo aver annunciato sensazionali rivelazioni sul caso Moro. Conver-genze parallele sulla fretta di dichiarare chiusi per sempre quegli anni. Che fret-ta! Che solerzia! Forse c’è ancora qualche agente infiltrato rimasto nelle patriegalere e non ancora in semilibertà?

E che dire delle dichiarazioni dei brigatisti dal carcere di adesione ai variattentati delle BR, tutte al momento opportuno, come i video di Bin Laden(come se non sapessimo quanto conta per chi è stremato in galera un permes-so, un trasferimento, una semilibertà!).

Il regista Martinelli, nella medesima intervista di cui ho detto poco fa, af-fermava che quando riusciremo a mettere le mani sugli archivi del KGB do-vremo riscrivere i libri di storia. Probabilmente anche la storia di cui stiamoparlando. Si può immaginare uno scenario di meno truce ed esplicita collusio-ne tra BR e CIA. Si può pensare (come raccontano le carte raccolte nei libri pri-ma citati e le prime indagini del giudice Imposimato dicevano già nell’82) auna convergenza tra CIA, terrorizzata all’idea che il PCI potesse mettere lemani sui segreti militari Nato, e KGB, terrorizzato all’idea che un partito co-munista occidentale potesse prendere il potere per via democratica (sarebbestata una sconfessione totale dell’ideologia che teneva insieme il Patto di Var-savia e una deriva che avrebbe coinvolto francesi e spagnoli nel giro di pochianni). Si può ipotizzare allora che se i brigatisti alla Gallinari non si fossero fi-dati della mitragliatrice di un componente della “banda della Magliana”, nonavrebbero opposto resistenza alla collaborazione di un fuciliere della Cecoslo-vacchia (dove si erano addestrati) 2.

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2 Per tacere poi del Mossad (servizi segreti israeliani) che, come racconta Franceschini, of-frirono armi gratuitamente alle BR nascenti con l’obiettivo di destabilizzare l’Italia e diventare l’u-nico interlocutore mediterraneo degli USA.

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rezione, rivolto a lui; successivamente la vedova di Moro raccontò di minaccericevute dal marito in un incontro all’ambasciata statunitense. Eppure Moro pro-cedette col suo disegno della legittimazione dell’avversario storico.

Oggi la politica sembra avere imboccato una di quelle biforcazioni di cuiparla Prigogine:

* da un lato la via delle stanze ovattate e poco affollate delle lobby finan-ziarie globali strettamente intrecciate col potere militare; qui si discute su comemettere al riparo 50 milioni di occidentali (non solo statunitensi) dall’invaden-za di troppi miliardi di gentaglia che vorrebbe godere dei benefici dell’occi-dente; di come frenare il pericolo Cina nel 2017, di come cuccarsi tutte le ri-serve biologiche disponibili sul pianeta, e via dicendo;

* dall’altro lato la via delle azioni auto-organizzate sia su scala più ampia(il popolo di Seattle e i girotondi sono segnali di vitalità importanti, al di là dichi tenta – spesso equivocamente – di rappresentarli), sia a livello locale a par-tire dai problemi quotidiani delle famiglie al confine tra welfare, sicurezza, ur-banistica e ambiente (personalmente sono impegnato, anche professionalmen-te, su quest’ultimo versante);

* in mezzo i corpi intermedi, che un tempo si incaricavano di mediare ledue scene (partiti, sindacati, ma oggi si può dire anche lo Stato), sembrano averperso consistenza; convinti che la politica sia solo quella delle stanze ovattate,sono costretti all’anticamera e promuovono dispute che tutti sanno non esseredecisive, lasciando andare alla deriva il rapporto con le persone reali.

«Mastella e Bertinotti servono per fare 51%» è il ritornello ottusamentemachiavellico che sento ripetere nell’Ulivo. Certo, Clinton ha fatto meno dan-ni di Bush e Prodi ne farebbe meno di Berlusconi. Ma le sfide di fondo sono al-tre. Oggi si parla di “democrazia senza libertà” 3, di consenso manipolato me-diaticamente, e indirizzabile verso qualsivoglia avventura (vedi Iraq); ilnumero di per sé è sempre meno garanzia dei diritti. Ma se è così, conta più ungruppo di pressione su un problema sentito dalla gente rispetto a un assessorecostruito con sapienti alchimie e dosaggi di preferenze; conta più un’esperien-za locale in grado di interloquire con diverse nazioni rispetto a un ministero.Costruire nuove forme di politica in una condizione come quella presente ri-chiede nuove strategie e nuove storie.

Bisogna però avere il coraggio di uscire dalla favola. Ben vengano dunquei film che ci aiutano a vedere le varie Matrix e i vari Truman Show in cui sia-mo avvolti. ■

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3 Z. FAREED, Democrazia senza libertà, trad. it. Rizzoli, Milano 2003.

The Truman Show

Non penso certo che dietro ogni evento ci sia una regia unica e consape-volmente imbastita. Penso a una storia in cui disegni occulti e pericolosi si in-filano in strategie altrui producendo esiti che la grancassa mediatica ricuce inuna di favola semplificatoria e rassicurante, e che poi la classe politica (nessu-no escluso) si guarda bene da mettere in discussione.

Prendiamo un giornale di sinistra (almeno così si dice) come “Repubbli-ca” (quello che nei giorni dell’Iraq sembrava il “New York Times”). Così Ro-berto Nepoti recensisce il film di Martinelli (10 maggio 2003):

«Se tutto questo è verità vogliamo che ce lo dica una sentenza di tribunale. Se nes-suno vuole o può dimostrarcelo stiamo perdendo tempo in chiacchiere. E non èbello che qualcosa di così enorme e terribile sia alla fin dei conti il pretesto per im-bastire un rebus».

Come se gli storici dovessero aspettare le sentenze dei giudici per cercaredi capire cosa è davvero successo nelle vicende umane.

E l’Ulivo che fa rispetto al caso Moro? Zitto. C’è stato un colpo di Statoche ha detto “chi tocca Yalta muore” (così come negli USA l’omicidio Kennedyha segnalato che chi si oppone alla lobby militar-finanziaria muore). Da allorala politica nazionale è cambiata radicalmente, il preambolo, il pentapartito, ilcraxismo, mani pulite, Berlusconi, ma nulla si capisce se non si rimette in que-stione il senso che la favola occulta. Non si può che ripartire da quell’evento.

Ci sono eventi in cui il tempo prende una condensazione particolare. Gliomicidi di Kennedy e Moro sono stati gli eventi emblematici della storia poli-tica dell’occidente nel dopoguerra, perché hanno segnalato i confini entro iquali è possibile muoversi senza rischiare il martirio, e hanno così evidenziatoil substrato violento della nostra simpatica democrazia, un filo rosso che colle-ga Hiroshima a Baghdad (passando anche da Genova), che ci parla di una de-mocrazia sotto la tutela militare, che ci segnala come l’Italia sia sempre statoun Paese a sovranità molto limitata e come tale sovranità sia destinata a depe-rire ancora di più.

Mi piacerebbe promuovere un dibattito tra l’ex BR Franceschini (che è del-la mia città), Alfredo Carlo Moro e il regista Martinelli. Ma mi chiedo: perchél’Ulivo delega a un cittadino come me una simile iniziativa? Quale tra gli uomi-ni di primo piano dell’Ulivo (Bertinotti non lo considero nemmeno in quanto amio avviso, consapevolmente o meno, complice del Polo) contempla nella pro-pria prospettiva l’ipotesi del martirio? Moro sapeva a cosa andava incontro: il ra-pimento del figlio di De Martino nel ’74 era stato un avvertimento in questa di-

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diterraneo della fine del primo secolo, la cui cultura scientifica si dimostra oggicompletamente superata. Nessuno ritiene più che le stelle siano degli spiriti,oppure che tuoni e fulmini siano entità angeliche inviate dalla dimora divina.

Ma che cosa intendeva trasmettere l’autore con questo tipo di scritto? Sitratta veramente della fine del mondo o dei tempi? È vero che il libro contienedegli strani enigmi sulle cose future, prima che avvenga il temibile “giudizio fi-nale”? La prima questione è come leggere e interpretare un testo apocalittico ecome applicarlo alla realtà dei nostri giorni. Diverse sono state le letture del li-bro nella storia dell’interpretazione. Dalla prospettiva “escatologica”, che ri-tiene che l’Apocalisse non si occupi dei fatti storici ma degli avvenimenti ulti-mi, passando per quella “profetica”, che si interessa alla descrizione dellediverse tappe della storia e della Chiesa, inserita in essa, fino a un’altra di tipo“storico”, che considera i simboli e le immagini in stretto rapporto con la sto-ria del tempo in cui il libro è stato scritto. Oppure una visione più “teologica”e spirituale, secondo la quale il libro vuole offrire il significato profondo deglieventi storici.

Alla luce degli studi più recenti nel campo dell’esegesi si può affermareche l’autore non è interessato a scrivere cosa succederà alla fine, bensì ciò chesta succedendo ora. Egli intende centrare l’attenzione dei lettori sul propriopresente dove si “rivela” il progetto di vita che Dio ha per l’umanità. Il libro of-fre in questo modo una profonda riflessione sul significato della presenza del-la comunità dei credenti nella storia e sul disegno divino di salvezza che essa èchiamata a testimoniare. Solo da questa nuova prospettiva il testo dell’Apoca-lisse ricupera il suo valore autentico nella vita della Chiesa. L’autore porta gra-dualmente ad una maggiore consapevolezza sull’identità del credente e sull’at-teggiamento da avere nello svolgimento delle vicende storiche. L’Apocalisse è,per questo, uno dei testi-chiave per l’esperienza di fede della comunità dei cre-denti, e una delle opere più raffinate del NT per l’impresa teologica che l’auto-re riesce a realizzare.

L’interesse dell’Apocalisse per la realtà presente dell’uomo si riscontra findall’inizio del libro. L’autore apre la sua opera con una beatitudine che riguardanon una profezia che annunci le cose future, ma un appello a vivere con radica-lità la fede nel Signore, per saper discernere le dinamiche vitali all’interno dellastoria umana: «Beato colui che legge e coloro che ascoltano le parole della pro-fezia e conservano quello che in essa è scritto, perché il tempo è vicino» (Ap 1,3).

Da queste prime parole si ricava che il libro non è destinato alla lettura pri-vata ma pubblica; il suo messaggio deve essere ascoltato dalla comunità che ce-lebra la vittoria del Cristo risorto. Nella beatitudine non si accenna ai veggentiche hanno accesso a saperi nascosti, né a visioni particolari, ma a persone che

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Bibbia

Apocalisse: lettura profetica della storia

RICARDO PEREZ MARQUEZ

Ricardo Perez fa parte del Centro studi biblici “G. Van-nucci” di Montefano (MC). Il Centro intende colmare ildivario esistente fra il notevole fermento nel campo deglistudi biblici e la loro scarsa divulgazione in ambito ec-clesiale; coinvolgere un pubblico più vasto della ristrettacerchia degli studiosi, mettendo i risultati della ricercastorico-esegetica a disposizione di chiunque desideri sco-prire le radici della propria fede e la ricchezza del mes-saggio evangelico, in un linguaggio accessibile a tutti,senza rinunciare per questo alla scientificità di un ap-proccio rigoroso e sistematico.

Fine dei tempi?

In ogni epoca storica ci sono sempre stati degli scritti in cui si annunciavache il mondo era ormai vicino alla fine (dai testi egiziani del 2000 a.C. fino aipiù recenti testi allarmistici sulla catastrofe nucleare o sul disastro ecologico).Nella nostra tradizione culturale e religiosa il testo di consulta è stato semprel’Apocalisse di Giovanni, per il misterioso significato dei suoi simboli e visio-ni. Ciò spiega l’attualità di un libro che torna ad essere riletto e interpretato neimomenti di crisi.

Nonostante la sua lettura si presenti affascinante, prevale ancora una for-te diffidenza nei riguardi del messaggio dell’Apocalisse, la cui comprensionerichiede un notevole impegno. Questo contrasto tra l’attualità di un libro che èsempre alla ribalta in epoche di cambiamento, ma ugualmente assente nellavita della comunità, è giustificato dal modo frammentario e scarso in cui vieneadoperato dalla liturgia, nonché da una lettura tradizionale che rimandava tut-to il messaggio alla fine dei tempi, quando il giudizio di Dio sarebbe stato ac-compagnato da sconvolgimenti cosmici e catastrofi mondiali.

Gli equivoci sorti intorno all’Apocalisse furono causati, in parte, dalla nonconoscenza del contesto culturale in cui scrisse l’autore, quello del mondo me-

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La corrente di pensiero del genere apocalittico si caratterizzava inoltre peril pessimismo nei confronti del mondo e dell’uomo, mentre poneva tutta la suafiducia nell’intervento potente di Dio, colui che guidava la storia secondo unpiano dove tutto era già previsto. Visto che la realtà era così dura, e si dubitavadello stesso intervento divino nelle vicende umane, si rimandava tutto a un fu-turo lontano, a un gran finale (con tanto di cataclismi e sconvolgimenti cosmi-ci) in cui Dio avrebbe dimostrato di essere il vero padrone della storia. Questomodo così insoddisfacente di vedere la realtà comportava un forte individuali-smo; la tentazione era di girare le spalle e di evadere, nell’attesa di un mondocompletamente nuovo che Dio riservava per i suoi eletti.

Alcuni elementi ricorrenti di questo tipo di letteratura erano la pseudoni-mia e la divisione della storia in periodi. La pseudonimia era un diffuso artifi-cio letterario che consisteva nell’attribuire il testo a un personaggio importan-te del passato (Adamo, Mosè, Enoc, Isaia) per dare più autorevolezza ecredibilità al suo contenuto, di non facile comprensione, e per risalire alle ori-gini stesse della rivelazione. Per gli scrittori apocalittici la storia dell’umanitàera divisa in periodi concreti che si succedevano puntualmente, fino a portarlaal suo esaurimento e dare inizio a una realtà completamente nuova. Le varieapocalissi descrivono la storia già passata, ma presentandola come futura: perquesto possono fornire dati particolari, come se tutto fosse già deciso da Dio esi aspettasse soltanto il suo giudizio.

Giovanni e la sua lettura della storia

Nel suo libro Giovanni rispetta, in parte, le caratteristiche della letteratu-ra apocalittica, ma si discosta dallo schema tipico, adoperando in modo liberoe originale i suoi elementi. Alcuni di essi sono ricorrenti ma completamente rie-laborati, come ad esempio la serie dei “settenari” che si succedono lungo l’o-pera (sette lettere / sette sigilli / sette trombe / sette coppe). Per evitare che il li-bro si prenda come un annuncio di avvenimenti successivi, i settenari sipresentano “aperti” (l’ultimo elemento della serie contiene il settenario suc-cessivo); in tal senso l’autore vuole far comprendere che quanto gli è stato ri-velato non conduce verso la fine dei tempi, ma all’interno di essi e porta ad af-frontare il momento presente per una profonda presa di coscienza. Questisettenari servono a centrare bene il nucleo intorno a cui ruotano le vicendeumane: la signoria universale di Dio.

L’Apocalisse si presenta come un testo a carattere “dialogico”, nel sensoche allo svelamento del piano divino di salvezza risponde la comunità dei cre-

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sanno “leggere” (= interpretare), “ascoltare” (= mettere in pratica), “conserva-re” (= confronto). L’accento è posto sulla dinamica dell’ascolto che caratteriz-za la figura del credente. Nell’Apocalisse è centrale il valore dato alla “parola”(paradossalmente più che alle “visioni”) come strumento di trasformazione e dirinnovamento tanto personale quanto comunitario. Ascoltando la voce delloSpirito la comunità si sente interpellata (per ben sette volte si ripeterà l’invitonelle lettere alle chiese: Ap 2,7.11.17.29 3,6.13.22), trova gli stimoli necessariper la sua conversione ed è resa in grado di saper interpretare gli eventi dellastoria alla luce del piano divino di salvezza.

Apocalisse / apocalittico

Il termine “apocalisse/apocalittico” è parola ricorrente nel linguaggio at-tuale, ma riceve spesso dei connotati estranei al suo significato originario, chenon è altro che quello di “rivelazione” (dal verbo greco apocalipto = togliere ilvelo, ciò che copre o nasconde). L’apocalittica nasce verso la fine del secolo IIIa.C. come una letteratura di consolazione per il popolo d’Israele, e si sviluppanel giudaismo fino ad arrivare all’epoca cristiana, durante la quale sarà riela-borata nell’ambito delle prime comunità. Gli scritti apocalittici, chiedendosiche fine avevano fatto le promesse fatte dai profeti, volevano dare una rispostain tempo di crisi per rinsaldare la fede dei fedeli e sostenere le attese di quantiaspettavano l’intervento liberatore di Dio.

Accanto alla letteratura ufficiale, controllata dagli scribi, se ne sviluppaun’altra di tipo alternativo e di carattere settario che, in opposizione al tempiodi Gerusalemme e alla casta sacerdotale, aveva lo scopo di voler rivelare quan-to del piano divino era rimasto fino ad allora nascosto. Per questo si adoperavaun linguaggio cifrato che aveva bisogno della mediazione di essere superiori(angeli), per spiegare il significato di quanto quei testi racchiudevano. Si trat-tava di una letteratura che, vista con sospetto dai circoli del potere, rimarràsempre al margine dell’ambito ufficiale. Per questo molti di quei testi non sitrovano più in lingua originale (in ebraico), ma nelle versioni latina, siriaca ocopta fatte dai primi cristiani dopo averli adottati.

Lo stile letterario dei testi apocalittici segue, senz’altro, quello di tradi-zione biblica, ma essi risentono di una mentalità di stampo ellenistico. Anchese nei loro messaggi si opponevano fortemente all’ellenismo che, con le sueidee, corrompeva l’originalità dell’ebraismo, in un certo modo condividevanolo stesso tipo di pensiero (ad es. la divisione dell’universo in due piani con-trapposti, divino e umano).

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Per comprendere in che modo l’uomo è chiamato a collaborare con Dionella realizzazione del suo progetto, l’autore comunica una sua esperienza per-sonale che egli stesso descrive per ben due volte come un “divenire nello Spi-rito” (Ap 1,10; 4,2). Si tratta di un invito ad uscire dalle vedute tradizionali del-la storia e delle sue componenti, per entrare nell’ambito dello Spirito; cioècontemplare le vicende umane con la stessa ottica di Dio. Giovanni si mantie-ne in pieno contatto con la realtà vissuta, ma dimostrando una lucidità ottimanel guardare con attenzione ogni suo elemento. La storia si legge allora dallaprospettiva celeste, in contrapposizione a quella che i poteri terreni propugna-no, ed è in questo senso che si parla di “rivelazione”: la comunità dei credentiriceve la capacità di svelare il vero significato degli elementi che compongonola realtà umana. Malgrado le apparenze, Dio sta portando a compimento la suacreazione.

Di fronte a una cultura dominante come era quella romana e ad un’istitu-zione religiosa (quella giudaica) che, sebbene fosse crollata con la distruzionedel tempio, continuava ancora a far sentire i suoi effetti nella vita delle primecomunità cristiane, l’Apocalisse offre un messaggio di speranza ma anche dicontestazione. La questione del potere si pone in termini di sistema economi-co che controlla tutto e tutti, ed è chiamato figuratamente “Babilonia la gran-de” (Ap 17). Questo sistema è paragonato a una gran prostituta i cui rapportiservono a giustificare la figura dei potenti della terra, la loro autosufficienza e,soprattutto, la loro concezione del potere assoluto. Mediante questa immaginedi forte sapore biblico, l’Apocalisse intende offrire un’importante chiave di let-tura: Babilonia è riconoscibile lì dove i rapporti umani sono guidati dall’egoi-smo e dalla violenza; la sua ricchezza è dovuta allo sfruttamento dei poveri edietro il suo splendore si nasconde solo miseria e morte.

Apocalisse e buona notizia

L’autore dimostra una grande libertà nel rileggere e ripresentare le anticheprofezie (814 allusioni all’AT), consapevole che la sua riflessione è basata suquanto già annunciato dalla buona novella. Egli ribadisce questa sua posizionefin dalla prima parola del libro: «Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli hadato…» (Ap 1,1). Il messaggio del libro si sviluppa in piena sintonia con quel-lo evangelico, incarnando ogni parola e adattandolo alle situazioni storiche incui la comunità dei credenti si troverà a vivere. Non è una nuova rivelazione,ma una profonda riflessione e attuazione della medesima. La piena sintonia delmessaggio dell’Apocalisse con quanto annunciato dagli evangelisti mette in

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denti manifestando la sua totale adesione. Questo coinvolgimento è favoritodall’abbondanza delle immagini visive che, nell’Apocalisse, danno forma a ununiverso simbolico unico. Il simbolismo adoperato da Giovanni è a “strutturadiscontinua”: esso consiste nel mettere insieme, sullo stesso piano, diverse im-magini procedenti dalla tradizione biblica per creare un’immagine nuova condifferenti livelli di interpretazione (ad es. «agnello in piedi come sgozzato, consette corna e sette occhi», Ap 5,6). Mediante questo complesso linguaggio, chedeve essere attentamente decodificato, l’autore elabora la sua teologia dellastoria e offre un’approfondita riflessione sulle sue dinamiche. Nello svolgi-mento delle vicende umane egli individua delle costanti che permettono unalettura vera delle stesse e una comprensione profonda della realtà in cui la co-munità dei credenti vive. Ciò significa che l’Apocalisse non intende profetiz-zare nulla di nuovo, né ha lo scopo di descrivere la storia in modo cronachisti-co, come una concatenazione di fatti che si dovranno avverare. Attraverso illinguaggio dei simboli (cosmici / teriomorfici / cromatici / numerici / antropo-logici) la narrazione si situa oltre il fatto in se stesso, e indica quelle costantiche sono valide in ogni momento storico. I simboli nell’Apocalisse hanno laforza di immergere il lettore e gli ascoltatori in una visione nuova della storia,dove le apparenze non contano più e dove i veri protagonisti sono quanti man-tengono la loro adesione a Cristo Risorto, Signore della storia. I detentori delpotere sono presentati non con i loro nomi, ma mediante immagini (drago / stel-la / bestia) che si rifanno a visioni profetiche e che sono rielaborate dall’autoreper applicarle a situazioni successive. Per indicare il destino che attende quan-ti si lasciano prendere dall’ambizione di dominio e di potere si utilizza l’anti-co cliché degli sconvolgimenti cosmici o tellurici, con i quali in passato si raffigurava il totale ribaltamento di una situazione storica che sembrava immu-tabile.

Dalla lettura dell’Apocalisse si apprende che tutta la storia è animata dallapotenza di vita scaturita con la vittoria del Cristo sulla morte. Mentre nei testiapocalittici c’è una visione pessimista del mondo, per cui esso non migliorerà,Giovanni intravede un cielo nuovo e una terra nuova (Ap 21,1) dove non c’è piùposto per il male. Per questo si sottolinea l’urgenza per ogni credente di testi-moniare con coraggio la propria fede, come indicano le espressioni usate dal-l’autore all’inizio della sua opera: «il tempo è vicino» / «le cose che devono ac-cadere presto» (Ap 1,1.3). Queste parole non riguardano un anticipo del futuro,ma lo svolgimento degli avvenimenti umani visti alla luce del piano salvifico.Dio non interviene nella storia determinando ogni singolo evento né prestabi-lendo in che modo essi dovranno accadere, ma potenziando ogni uomo con ilsuo Spirito affinché vengano fatte scelte in sintonia con il suo disegno di vita.

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quel tempo si trovavano inserite in un sistema che pretendeva di essere a carat-tere dominante e unico (impero romano), l’autore invita a non lasciarsi andare,scendendo a compromessi con i potenti, ma ad agire con forza per la realizza-zione del progetto divino di salvezza. Per questo l’autore parte nel suo scrittocon un invito all’azione (Ap 1,3), annunciando che il tempo (in greco: kairos)è vicino, cioè le comunità devono essere consapevoli di vivere in un tempo cheè opportuno per intervenire a favore del disegno di Dio. Il testo dell’Apocalis-se non si chiude nell’ambito di un gruppo particolare (setta), ma si rivolge a tut-te le comunità cristiane nella storia. Le sette lettere alle chiese (Ap 2-3) sonosegno di questo universalismo, ed il loro messaggio riguarda la Chiesa nella suatotalità.

Poiché i cristiani in generale avevano riconosciuto l’ordine imposto daRoma, l’autore manifesta il suo dissenso e scrive la sua opera come una sfidarivolta ai credenti di ogni epoca. L’Apocalisse contiene una delle denunce piùforti riguardo la concezione del potere e la sua giustificata origine divina. Chilegge e riflette sul messaggio del libro non può rimanere neutrale: o si condi-vide l’ideologia del potere così come i sistemi terrestri la diffondono, o si stadalla parte di Dio, dando adesione al suo messaggio basato sull’amore univer-sale.

Il messaggio di rivelazione ravviva l’impegno di radicale fedeltà alla pa-rola del Vangelo che ogni credente deve testimoniare. La volontà di non sotto-mettersi a nessuna potenza umana e di non esaltarne la violenza e i benefici cheessa comporta richiede ugualmente ad ogni componente della comunità di tro-vare vie alternative per la continua e progressiva diffusione del Regno. Il librodell’Apocalisse manifesta la sua utilità e il suo valore nel confermare il pro-getto divino di salvezza: una creazione nuova che è già in atto, ma che ancoradeve raggiungere il suo compimento. ■

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evidenza l’incompatibilità del testo con ogni interpretazione che non ponga alcentro la buona notizia del Regno. Giovanni vuole offrire, alla luce del mes-saggio evangelico, una lettura degli eventi in cui si trova immerso, per una com-prensione più aderente del piano divino di salvezza sulla storia. Se questa cen-tralità viene a mancare è facile la diffusione di una lettura “perversa” del libro:si sfrutta la paura della gente, bloccando ogni forma di azione e di interventoresponsabile per trasformare la realtà; si preferisce la rassegnazione, evitandoogni rischio e senza sguardo aperto al futuro.

L’Apocalisse di Giovanni si può considerare come un messaggio di con-solazione, nel senso di incoraggiante sostegno, indirizzato alla comunità deicredenti che è chiamata a testimoniare davanti al mondo la fedeltà alla paroladel Vangelo. Questa consolazione si basa sulla vittoria del Cristo crocifisso erisorto. Dall’esperienza di una vita che supera la morte, la comunità ricava ilsuo fondamentale ottimismo: il male sembra forte in apparenza, ma in realtà èstato già sconfitto. Tutto il messaggio, dunque, è invaso da una vasta speranzae si caratterizza per la sua ferma prospettiva ottimistica.

Nei confronti di coloro che esprimono il loro terrore davanti alla morte,Giovanni confessa la sua fede in una vita che è capace di superare la morte fi-sica. Presentandola come una realtà che appartiene all’esperienza umana, mache può essere subita in modo violento a causa della persecuzione, l’autore ap-plica al fatto stesso della morte una delle sue sette beatitudini: «beati fin d’orai morti che muoiono nel Signore…» (Ap 14,13); in questo modo essa vienesvuotata dalla sua drammaticità ed è considerata come il passaggio necessarioper entrare nella gloria definitiva, dove condividere uguale dignità con Dio, ilCreatore. L’Apocalisse considera la lotta tra l’uomo e la morte come quellavera da sostenere; finché gli uomini hanno paura della morte o vivono nell’an-goscia di voler salvare la pelle a tutti i costi, la morte continua a dominare su diloro, e questi non saranno mai persone veramente libere. Alla base di ogni for-ma di violenza, di ogni egoismo che genera oppressione e sfruttamento, sta lapaura di dover morire. È la morte il vero avversario dell’uomo e nell’Apoca-lisse è l’ultimo nemico ad essere vinto (cf Ap 20,14-15). Solo chi fa esperien-za del Risorto può impostare la sua vita in modo positivo ed efficace, e render-si disponibile per collaborare alla causa del Regno.

Sfida ai credenti di ogni epoca

Il libro dell’Apocalisse prende atto della crisi all’interno delle comunitànel vivere fedelmente la proposta evangelica. Proprio perché le comunità di

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Numero 8, ottobre(a) Emanuele Curzel, Alla ricerca dell’EuroUli-vo, 3-9(b) Paolo Ghezzi, Ammirazione e turbamento.L’umanità di fronte al crepuscolo di KarolWojtyla, 10-13(c) Carmelo Fanelli, Questa notte non è mortonessuno. Un pediatra per tre mesi in Angola,14-19(d) Abbiamo una casa a Baghdad (a cura di Sil-vio Mengotto), 20-23(e) Francesca Luchi, Vecchie e nuove torri diBabele. La riflessione sul linguaggio nel pensie-ro di Gustavo Gutiérrez, 24-34

Numero 9, novembre(a) Alberto Conci, Siamo in guerra, e dobbiamouscirne. Ovvero: chiamare le cose con il proprionome, 3-6(b) Carlo Ancona, La nuova giustizia, il nuovogiudice. L’ordinamento giudiziario in Italia,dal 1946 alla controriforma, 7-19(c) Gabriele Pirini, Passione e cura di Annalena,madre dei Somali, 20-30(d) Andrea Aguti, L’insonne ricerca di ItaloMancini, 31-40(e) Piergiorgio Cattani, Elezioni in Trentino: unsuccesso per l’Ulivo?, 41-45(f) Enrico Morresi, Piccole riviste e Europa delfuturo, 46-48(g) Giorgio Cestari, Mettersi in coda contro lafollia, 49-50

Numero 10, dicembre(a) Alberto Conci, Fine del Far West? Feconda-zione assistita: tra regole e questioni non risol-te, 3-9(b) Silvano Zucal, Credere senza essere costret-ti a credere, 10-20(c) Gino Mazzoli, Due film su Aldo Moro e mol-ti altri “film” intorno, 21-26(d) Ricardo Perez Marquez, Apocalisse: letturaprofetica della storia, 27-34(e) Indici dell’annata XXIII (2003), 35-38

Indice per autoriAndrea Aguti 9dCarlo Ancona 9bBruno Betta 1dPiergiorgio Cattani 9e

Giorgio Cestari 9gGiovanni Colombo 4/5aFrancesco Comina 7dAlberto Conci 3a, 9aAndrea Conci 7b, 10aEmanuele Curzel 7a, 8aMarco Damilano 1aFulvio De Giorgi 4/5cNazareno Fabbretti 3cCarmelo Fanelli 8cPietro Fantozzi 4/5fGuido Formigoni 4/5iPaolo Ghezzi 8bMassimo Giuliani 6bGiancarlo Giupponi 3dPaolo Grigolli 1eRosario Iaccarino 4/5eRoberto Lambertini 2aAlberto Lepori 1fIvo Lizzola 4/5dFrancesca Luchi 8ePaolo Marangon 1cAlfio Mastropaolo 4/5jGino Mazzoli 10cSilvio Mengotto 7f, 8dEnrico Morresi 9fMichele Nicoletti 3bFrancesca Paoli 2b, 6cVincenzo Passerini 7cRicardo Perez Marquez 10dFabio Pipinato 1bGabriele Pirini 9cGiorgio Rivolta 4/5bCristina Sagliocco 2eLouis Sako 8dAnna Schgraffer 2fCarla Tenan 3cFrancesco Timpano 4/5gDavid Maria Turoldo 3cGrazia Villa 4/5hStefano Visintainer 7eShlemon Warduni 8dMaría Zambrano 2bPaolo Zannini 2dSilvano Zucal 6a, 10b

Indice per soggettiChiesa- e Islam 1c- e religione civile 9a

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Numero 1, gennaio(a) Marco Damilano, Italia 2003. Oltre Berlu-sconi e i profeti di sventura, 3-8(b) Fabio Pipinato, Non sparate all’arcobaleno,9-12(c) Paolo Marangon, I venti di guerra, l’Islam eCharles de Foucauld, 13-21(d) Bruno Betta, La memoria dell’offesa, 22-29(e) Paolo Grigolli, Parti uguali tra disuguali.Povertà, disuguaglianza e politiche redistributi-ve nell’Italia di oggi (un commento al testo diErmanno Gorrieri), 30-35(f) Alberto Lepori, Balducci, la Chiesa e la pace.Un convegno a dieci anni dalla morte, 36-38

Numero 2, febbraio(a) Roberto Lambertini, Le bandiere dell’arco-baleno, 3-7(b) María Zambrano, I pericoli della pace (conuna nota di Francesca Paoli), 8-10(c) Quotidianità palestinese, 11-12(d) Paolo Zannini, Carità e solidarietà in alcuniPadri della Chiesa, 13-25(e) Cristina Sagliocco, Un’istantanea del Nove-cento, 26-28(f) Anna Schgraffer, Sviluppo, tecnologia e don-ne. A proposito dell’attualità di un libro di Van-dana Shiva, 29-34

Numero 3, marzo(a) Alberto Conci, Lo sceriffo e il vecchio profe-ta, 3-8(b) Michele Nicoletti, Il cuore duro e lo spiritotenero di Sophie Scholl, 9-15(c) Lo scandalo della speranza. Nazareno Fab-bretti intervista David Maria Turoldo, a cura diCarla Tenan, 16-31(d) Giancarlo Giupponi, Ma quel politico è paz-zo?, 32-34

Numero 4/5, aprile-maggio: La bellezza dellacomunità, atti della 22a scuola della Rosa Bian-ca (Assisi - 29 novembre, 1 dicembre 2002)(a) Giovanni Colombo, Le nostre parole, 3-7

(b) Giorgio Rivolta, L’esigenza, l’idea, il pro-getto, 8-11(c) Fulvio De Giorgi, Per una comunità liberatae liberatrice. Simboli civili di virtù, 12-25(d) Ivo Lizzola, Dare corpo alla comunità,26-41(e) Rosario Iaccarino, Ripensarsi come comu-nità, 42-44(f) Pietro Fantozzi, Comunità e appartenenza,45-54(g) Francesco Timpano, L’economia in una pro-spettiva personalista e comunitaria, 55-63(h) Grazia Villa, Spinti al futuro, 64-65(i) Guido Formigoni, Il significato politico e isti-tuzionale di “persona e comunità”, 66-67(j) Alfio Mastropaolo, Qualche riflessione sul-l’anoressia democratica, 78-82

Numero 6, giugno-luglio(a) Silvano Zucal, Appunti da e per un’estatepoliticamente rovente, 3-15(b) Massimo Giuliani, Martirio e testimonianzanel Giudaismo, 16-29(c) Francesca Paoli, María Zambrano: un invitoalla “vita”, 30-42

Numero 7, agosto-settembre(a) Emanuele Curzel, Negli occhi di chi ha visto,3-5(b) Andrea Conci, Frammenti d’Africa, 6-11(c) Vincenzo Passerini, In memoria dei resisten-ti, 12-13(d) Francesco Comina, La pace, realismo diun’utopia, 14-21(e) Stefano Visintainer, I luoghi del morire. Riflessioni sul morire dell’uomo occidentale,22-32(f) Silvio Mengotto, Lo sbarco della scienza. Ilpensiero scientifico arabo-islamico e l’Occiden-te, 33-40(g) Associazione Rosa Bianca, “Governare ilmondo: un’utopia possibile”. 23ª Scuola dellaRosa Bianca - Triuggio, 5-6-7 settembre 2003,41-42.

Dieci numeri del Margine

Indici dell’annata XXIII (2003)

Indice cronologico

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- e Europa 8aApocalisse 10dPadri della Chiesa 2d

PoliticaAnalisi della situazione internazionale 3a, 8a, 9aAnalisi della situazione nazionale 1a, 6a, 8aElezioni in Trentino 9dEuropa (famiglie politiche europee) 8aFecondazione Assistita 10aGiustizia 9bImmigrazione 6a, 9fMorti di Nassiriya 9aPace e guerra 2a, 2b, 3a, 9aPersonalismo comunitario 4/5- fondamenti morali e culturali 4/5b-d- rapporti sociali ed economici 4/5 e-g- prospettive politiche e istituzionali 4h-jPolitica e pazzia 3dPovertà/politiche redistributive 1eReferendum su articolo 18 6aUlivo/Centrosinistra 1a, 8a, 9d

Società/cultura/spiritualitàBioetica 10aCarità e solidarietà 2dDonne e sviluppo 2fFede 10bGiudaismo: martirio e testimonianza 6bIslam 1c, 7fLinguaggio 8eMorte in Occidente 7ePace (bandiere arcobaleno) 2a Poesia 3cSviluppo/ecologia 2f

OltrefrontieraAlgeria 1cAngola 8cGermania 7cIraq 8d, 9aKenya 1b, 7b, 9cPalestina 2cSomalia 9c

PersonaggiErnesto Balducci 1e, 7dSilvio Berlusconi 1a, 6a, 7c, 8aBruno Betta 1dGiacomo Biffi 2aGeorge Bush 3a, 9aSergio Cofferari 1a

Massimo D’Alema 1aLorenzo Dellai 9dCharles de Foucauld 1cGiovanni Paolo II (Karol Wojtyla) 3a, 8b, 9aErmanno Gorrieri 1eGustavo Gutiérrez 8eFranz e Franziska Jägerstätter 7aJosef Mayr-Nusser 7aItalo Mancini 9dAldo Moro 10dFranz Josef Müller 7aRomano Prodi 1a, 8aSergio Romano 2aRosa Bianca/Weiße Rose 3b, 7aSophie Scholl 3bVandana Shiva 2fAnnalena Tonelli 9cDavid Maria Turoldo 3cMaria Zambrano 6c

StoriaOccidente e pensiero scientifico arabo 7fNazismo/Seconda Guerra mondiale 1d, 3b,7a, 7cNovecento 2eRapimento di Aldo Moro 10c

DocumentiMaría Zambrano sulla pace 2bBruno Betta sulla Seconda Guerra Mondiale 1d

LibriApprofondire il Novecento. Temi e problemidella storia contemporanea, a cura di FulvioDe Giorgi 2ePaolo Ghezzi, Sophie Scholl e la Rosa Bianca3bErmanno Gorrieri, Parti uguali tra disuguali 1eVincenzo Passerini, Anch’io in fila alle sei 9fVandana Shiva, Terra madre: sopravvivere allosviluppo 2f

Attività associativeAtti della scuola della Rosa Bianca 4-5Rosa Bianca (programma Scuola) 7gPiccole riviste (cronaca dell’incontro) 9e

Numeri monografici4-5, aprile-maggio, La bellezza della comu-nità, atti della 22a scuola della Rosa Bianca(Assisi - 29 novembre, 1 dicembre 2002).

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