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IL MARGINE ISSN 2037-4240 Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno 34 (2014) n. 4 Piergiorgio Cattani L’EUROPA DELLE TRE CRISI Michele Dorigatti CON LO SGUARDO SEMPRE IN AVANTI. EREDITÀ E ATTUALITÀ DI ADRIANO OLIVETTI Alberto Mandreoli LA VIA “NUOVA” DELLA RESISTENZA: IL DIACONO MAURO FORNASARI (1922-1944) Matteo Prodi IL WELFARE STATE TRA COSTITUZIONE, VINCOLI DI BILANCIO E «INTERESSE PERSONALE PROPRIAMENTE INTESO» IL MARGINE 4 APRILE 2014 Piergiorgio Cattani 3 L’Europa delle tre crisi Michele Dorigatti 9 Con lo sguardo sempre in avanti. Eredità e attualità di Adriano Olivetti Alberto Mandreoli 19 La via “nuova” della Resistenza: il diacono Mauro Fornasari (1922-1944) Matteo Prodi 25 Il welfare state tra Costituzione, vincoli di bilancio e «interesse personale propriamente inteso» 25 aprile o 4 novembre? D’accordo che l’“era Renzi” impone di accelerare e anticipare tutto, ma era proprio necessario che Napolitano, commemorando la Liberazione dal nazifascismo, confondesse il primaverile 25 aprile con l’autunnale 4 no- vembre, festa delle forze armate? Era proprio necessario che al ricordo dei resistenti, “ribelli per amore” (per ricordare la splendida definizione di Tere- sio Olivelli), venisse associata non solo la «valorizzazione delle Forze Ar- mate che continuano a fare onore all’Italia» ma anche il riferimento ai due marò, che farebbero onore all’Italia mentre sono detenuti in India con l’accusa di omicidio? Era proprio necessario perpetuare in questo modo la con-fusione di cui i nostri tempi sembrano maestri? Secondo le parole del presidente Napolitano, forse preoccupato di garantire l’acquisto degli F35, l’antimilitarismo e il pacifismo sono solo «anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare», associate a «vecchie e nuove pulsioni demagogiche an- timilitariste». Per quel che ci riguarda preferiamo però rispettare i giusti tempi e la giusta memoria. E festeggiare ciò che va effettivamente festeggia- to. (F.G.)

IL MARGINE 4 APRILE 2014 · Il Margine 34 (2014), n. 4 3 L’Europa delle tre crisi PIERGIORGIO CATTANI e elezioni che si svolgeranno tra il 22 e il 25 maggio in tutti i 26 Paesi

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IL MARGINE

ISSN 2037-4240

Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno 34 (2014) n. 4

Piergiorgio Cattani L’EUROPA DELLE TRE CRISI

Michele Dorigatti CON LO SGUARDO SEMPRE IN AVANTI. EREDITÀ E ATTUALITÀ DI ADRIANO OLIVETTI

Alberto Mandreoli LA VIA “NUOVA” DELLA RESISTENZA: IL DIACONO MAURO FORNASARI (1922-1944)

Matteo Prodi IL WELFARE STATE TRA COSTITUZIONE, VINCOLI DI BILANCIO E «INTERESSE PERSONALE PROPRIAMENTE INTESO»

IL MARGINE 4 APRILE 2014

Piergiorgio Cattani 3 L’Europa delle tre crisi Michele Dorigatti 9 Con lo sguardo sempre in avanti. Eredità e attualità di Adriano Olivetti Alberto Mandreoli 19 La via “nuova” della Resistenza: il diacono Mauro Fornasari (1922-1944) Matteo Prodi 25 Il welfare state tra Costituzione, vincoli di bilancio e «interesse personale propriamente inteso»

25 aprile o 4 novembre?

D’accordo che l’“era Renzi” impone di accelerare e anticipare tutto, ma era proprio necessario che Napolitano, commemorando la Liberazione dal nazifascismo, confondesse il primaverile 25 aprile con l’autunnale 4 no-vembre, festa delle forze armate? Era proprio necessario che al ricordo dei resistenti, “ribelli per amore” (per ricordare la splendida definizione di Tere-sio Olivelli), venisse associata non solo la «valorizzazione delle Forze Ar-mate che continuano a fare onore all’Italia» ma anche il riferimento ai due marò, che farebbero onore all’Italia mentre sono detenuti in India con l’accusa di omicidio? Era proprio necessario perpetuare in questo modo la con-fusione di cui i nostri tempi sembrano maestri? Secondo le parole del presidente Napolitano, forse preoccupato di garantire l’acquisto degli F35, l’antimilitarismo e il pacifismo sono solo «anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare», associate a «vecchie e nuove pulsioni demagogiche an-timilitariste». Per quel che ci riguarda preferiamo però rispettare i giusti tempi e la giusta memoria. E festeggiare ciò che va effettivamente festeggia-to. (F.G.)

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L’Europa delle tre crisi

PIERGIORGIO CATTANI e elezioni che si svolgeranno tra il 22 e il 25 maggio in tutti i 26 Paesi che compongono l’Unione Europea giungono nel mezzo di tre grandi

crisi, più o meno annose: la crisi economico-sociale; quella che potremmo definire “politica”, in verità di carattere culturale e ideale; infine la recentis-sima (ma con profonde radici) crisi ucraina. Tutte e tre mettono in grave di-scussione non solo i fondamenti dell’utopico progetto di unificazione del Continente, ma anche beni che ritenevamo di avere conquistato definitiva-mente, quali la pace, la sicurezza, la convivenza tra diversi. Dentro e fuori dai nostri confini. Ora il combinato disposto di queste tre crisi rischia di mi-nare l’edificio europeo e con esso il nostro futuro. Su questo ha ragione il leghista Salvini: peccato che la sua idea di futuro (“no Euro, no immigrati”) sia diametralmente opposta alla nostra. Dove finisce l’Europa

Cominciamo dall’ultimo scenario di crisi, quello dell’Ucraina. Diffici-

lissimo inseguire la cronaca. Impossibile fare previsioni su un conflitto che rischia di incendiare tutto l’Est europeo e di ridisegnare i rapporti con la Russia. Siamo arrivati a questa situazione per una sorta di mancanza di comprensione, in generale della Russia odierna e in particolare del regime di Vladimir Putin. Eravamo ormai tranquilli, i legami commerciali solidi, le relazioni economiche reciproche e necessarie per ciascuno, gli spazi politici di influenza ben delineati. La Nato poteva stare lontana dal quadrante euro-peo e lanciarsi in altre operazioni belliche come quella in Afghanistan; il suo allargamento ad est veniva ritenuto soltanto questione di tempo, poiché la Russia era troppo debole per opporvisi. Certo non sarebbero mancati screzi, ma l’amministrazione Obama poteva rivolgere il suo sguardo altrove, all’Oceano Pacifico.

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Invece in questi anni covavano in Russia un senso di rivalsa e una no-stalgia sempre più evidente dell’Unione Sovietica e ancora prima dell’Impero zarista, guida dei popoli slavi. Il revanscismo cresceva negli oligarchi che gestivano il potere e nella popolazione impoverita e quasi smarrita: ecco che l’ex colonnello del Kgb si presentava come l’uomo forte capace di far risorgere almeno un poco gli antichi fasti. Liquidata l’insurrezione cecena, sistemati gli equilibri interni attraverso lo scambio di cariche con Medvedev, benedetto dalla Chiesa ortodossa – anch’essa deter-minata a ripristinare l’influenza che aveva nel diciannovesimo secolo –, Pu-tin poteva guardare fuori dai propri confini, prima nello spazio ex-sovietico (dalla Georgia alla Bielorussia), poi a livello globale, con il riavvicinamento alla Cina e con l’attivismo sulla questione della Siria e del nucleare iraniano. In tutto questo l’Europa stava a guardare, interessata più al gas siberiano che ai movimenti geopolitici a ridosso dei suoi confini. A parole si denunciava la deriva autoritaria in Russia ma alla fine si pensava che Putin potesse esse-re un compagno un po’ scontroso, dispettoso e antipatico ma con cui si po-tevano fare sempre buoni affari.

Così non era. E lo vediamo oggi. Putin non solo si colloca in alternativa agli Stati Uniti in un mondo diventato multipolare, ma rivendica pericolo-samente uno “spazio vitale” di cui non si conoscono i contorni, se non la di-fesa dei russofoni. L’Ucraina appartiene sicuramente a questo spazio. Quale sarà l’esito della crisi in atto non possiamo saperlo. Sembra addirittura in-combere una guerra diretta tra truppe russe e esercito ucraino (rinforzato da aiuti americani). Mentre scriviamo la guerra “civile” ha causato le sue prime vittime e la determinazione russa sembra impedire qualsiasi allentamento della tensione. Un conflitto lungo potrebbe innescarsi con conseguenze im-prevedibili.

Si formerà una nuova “cortina di ferro”, spostata un po’ più a est? Una soluzione concordata andrebbe bene a tutti, ma ugualmente Putin potrebbe continuare nel suo disegno espansionistico ben cosciente della debolezza europea. Il contesto è certamente diverso rispetto a quello della Guerra Fredda, perché non ci troviamo di fronte a due alternative “di sistema”. In fondo la Russia e l’Occidente condividono lo stesso modello economico, che dovrebbe spingere alla risoluzione pacifica dei conflitti. Il pericolo è tut-tavia il ritorno all’ottocentesca “politica di potenza” in cui le cannoniere vengono utilizzate con disinvoltura. L’“equilibrio del terrore” basato sul de-terrente nucleare può infrangersi generando scontri cruenti nel cuore dell’Europa. Un ritorno al passato davvero inquietante.

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L’Ucraina mette in discussione l’identità dell’Europa. I suoi confini in-nanzitutto: la Russia è Europa? Dobbiamo invece pensare a un ritorno della contrapposizione tra Oriente e Occidente, tra ortodossia e le altre confessio-ni cristiane? Quando Romano Prodi si batteva con tutte le forze per l’allargamento a est dell’Unione Europea probabilmente si rendeva conto che la finestra di tempo disponibile per completare l’operazione sarebbe sta-ta limitata: la storia gli dà ragione. Ora non sarebbe più possibile. L’adesione all’Unione Europea dei Paesi un tempo parte del Patto di Varsa-via ha però coinciso con l’allargamento a est dell’Alleanza Atlantica: non si capisce allora se sia la Nato a sorvegliare e a sancire i confini d’Europa. Da questo punto di vista la dipendenza dagli Stati Uniti è totale, come appunto si vede nella vicenda ucraina. È chiaro che gli USA non vogliono un’Europa troppo libera e troppo protagonista e che quindi sfruttano la situazione per assumere assoluta centralità. Per loro l’Europa coincide con gli Stati europei appartenenti alla Nato (più qualcuno che non fa parte).

Uno spazio politico e ideale Se l’Europa fosse un’entità geografica, allora si potrebbe dire che la

Russia ne fa parte più della Turchia, delle repubbliche caucasiche o dello Stato di Israele. Invece l’Europa è uno spazio ideale, basato su alcuni valori comuni e su un simile stile di vita. Ideali che oggi vanno dalla tutela delle minoranze a un modello sociale più inclusivo che competitivo, passando per l’attenzione all’ambiente e alla qualità della democrazia. Questi valori si traducono anche in procedure istituzionali e burocratiche: da tenere però sempre sotto controllo. Dovrebbero essere la forza attrattiva dell’Unione. Purtroppo però anch’essi sono in crisi.

Veniamo dunque alla crisi politica e culturale della UE. Gli ultimi dieci anni sono stati segnati da un sostanziale stallo, mentre intorno cambiava tut-to. È mancata in particolare la capacità di fare argine al ritorno in grande sti-le dei peggiori rigurgiti di destra, presenti in quasi ogni Paese europeo, con l’eccezione (e questo va sempre sottolineato) della Germania. È arduo af-frontare l’ondata populista nel bel mezzo di una crisi economica gravissima che ha impoverito un intero ceto sociale, un tempo definito “borghese”. C’è tuttavia qualcosa di più profondo che trae le sue origini nell’incapacità, so-prattutto per i Paesi dell’est Europa, di fare i conti con le proprie colpe du-rante il secondo conflitto mondiale. Come è possibile che in Ungheria il par-

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tito nazista (l’aggettivo non è strumentale o iperbolico) superi il 20% e quel-lo di destra del primo ministro Orban raggiunga quasi i due terzi dei seggi in Parlamento? E così i blocchi di destra presenti anche nel nuovo governo ucraino rischiano di essere sottovalutati.

Rispetto al caso Haider di quindici anni fa siamo di fronte a un inquie-tante salto di qualità: in Francia, Olanda, nei Paesi scandinavi, in Gran Bre-tagna ci sono partiti apertamente fascisti o inneggianti a simboli e valori inequivocabili. Non parliamo poi della Grecia, strangolata dalla crisi e dalle ricette eccessivamente rigoriste, dove Alba Dorata è nei sondaggi il primo partito. Tutte le rilevazioni dicono che questi partiti e movimenti avranno un grande successo alle elezioni. Consola in parte il fatto che le loro piattafor-me programmatiche sono in realtà molto variegate e che sarà molto difficile creare un gruppo omogeneo nell’Europarlamento, circostanza che diminuirà notevolmente la loro reale incidenza. Saranno ancora i due gruppi principali, il PSE e il PPE, a guidare le sorti dell’Unione. Questo meccanismo però non cambia i termini della questione. L’Europa democratica non è riuscita a fare fronte comune contro populisti e xenofobi che, negli scorsi anni, hanno fatto le loro “prove generali” seminando la paura di fronte alle migrazioni interne (la propaganda contro “l’idraulico polacco” che rubava il lavoro dei france-si) e ovviamente di fronte a quelle provenienti dall’esterno, soprattutto dai paesi islamici.

La “narrazione” dell’ultimo decennio è stata appannaggio quasi sola-mente dei detrattori del progetto europeo che non si è più ripreso dal falli-mento del processo costituente, naufragato con la sconfitta ai referendum in Francia e in Olanda. Dopo queste consultazioni è stato solo un rincorrere affannoso degli europeisti incapaci di proporre un piano alternativo, se non quello di rafforzare l’unione monetaria. Poi è intervenuta la crisi economica che ha accentuato contrapposizioni già presenti.

Il trattato di Lisbona ha istituito la figura unica del Presidente del Con-siglio e dell’Alto Rappresentante della politica estera: due personaggi ano-nimi e scialbi, sconosciuti ai più. Il Consiglio dei capi di Stato e di Governo ha invece conquistato il centro della scena, marginalizzando la Commissio-ne Europea. La Banca Centrale Europea, in particolare sotto la guida di Ma-rio Draghi, ha finito col rappresentare le vere istanze federative dell’Unione: ciò però ha dato ulteriore vigore alla propaganda contro “l’Europa delle banche e dei banchieri” che utilizzerebbe miliardi di euro per salvare gli isti-tuti di credito senza preoccuparsi dei lavoratori e della gente comune in dif-ficoltà.

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L’integrazione europea passa attraverso la BCE? Arriviamo così alla terza crisi, quella sulla bocca di tutti, la crisi eco-

nomica. Davanti all’emergenza dei conti pubblici e dei debiti sovrani ecco che il protagonismo di Draghi si è fatto ancora più significativo. La Germa-nia e la BCE, spesso su posizioni apertamente diverse, si sono trovate d’accordo, insieme con le altre istituzioni internazionali, nell’imporre pesan-tissime condizioni agli Stati messi peggio dal punto di vista finanziario. È noto a tutti il caso della Grecia, ma è pur vero che, se guardiamo senza strumentalismo, anche Paesi come l’Italia sono stati almeno in parte “com-missariati” dall’Europa. Ora si dice che le ricette economiche troppo rigori-ste hanno peggiorato la situazione favorendo invece Paesi virtuosi come la Germania; è giusto anche sottolineare che ora servono politiche espansive che ridistribuiscano il reddito, che tutelino il lavoro e che prevedano pure interventi pubblici. Tuttavia va anche detto che se negli anni scorsi il siste-ma creditizio fosse collassato ci troveremmo in una situazione ben più disa-strosa che avrebbe finito per schiacciare non i grandi capitali (quelli si sal-vano sempre) ma i piccoli risparmiatori.

I provvedimenti che vanno dal famigerato ma poco conosciuto “fiscal compact” fino alla recente normativa sull’unione bancaria, approvata in aprile dal Parlamento Europeo, sono fondamentali per il nostro futuro, ben-ché siano scritti in un linguaggio burocratico spesso indecifrabile. Sono pas-si nella giusta direzione, almeno per quanti sognano gli Stati Uniti d’Europa.

Valorizzare l’Europa Occorre dunque reagire agli attacchi concentrici e quasi sempre stru-

mentali all’Europa. Cerchiamo di vedere i numerosi lati positivi di una co-struzione istituzionale di cui non possiamo fare a meno. Come accade sem-pre, chi urla di più riesce a farsi sentire di più e quindi a dettare l’agenda po-litica. In questi ultimi mesi l’agenda verso le elezioni europee ruota intorno ai punti degli euroscettici, invece che parlare concretamente di futuro.

Dire “no euro” non significa nulla: è solo uno slogan, poiché l’uscita dell’Italia dalla moneta unica sarebbe impraticabile e catastrofica proprio per l’economia. Non si discute invece sull’effettiva integrazione economica del continente, sugli strumenti per condividere il debito, sulla possibilità di una svolta ecologica. Occorre rivendicare la bontà del progetto europeo che

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ha consentito ai giovani di viaggiare, di studiare liberamente nei vari Paesi della UE, di non percepire quasi più i confini. Dobbiamo tenerci stretto il nostro modello di welfare, che permette a quasi tutti un’assistenza sanitaria di qualità che altri Paesi ricchi, a cominciare dagli USA, sognano.

In questo frangente così critico dobbiamo dire un sì all’Europa, all’Europa che vogliamo. Anche di fronte ai populismi che albergano in Ita-lia. La scelta di Renzi di far aderire il partito democratico alla famiglia del socialismo europeo va valutata positivamente, come una decisione coerente e attesa da troppi anni. Renzi non ci sembra il modello di statista, ma sta di-ventando un argine necessario per contenere una deriva pericolosissima. Certamente il paradigma dell’Europa va cambiato. A questo proposito oc-corre anche guardare con attenzione alla cosiddetta lista Tsipras, cui augu-riamo di superare la soglia per entrare nel Parlamento europeo.

Il futuro non è roseo e potrebbe offrirci amare sorprese. Ma con i carri armati che si muovono all’est e le pulsioni razziste che ancora riaffiorano, l’unica soluzione è tenerci stretta la nostra vecchia cara Europa che abbiamo con fatica costruito in questi cinquant’anni. �

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Con lo sguardo

sempre in avanti.

Eredità e attualità

di Adriano Olivetti

M ICHELE DORIGATTI marginata per lungo tempo, la parabola umana e imprenditoriale di Adriano Olivetti (11 aprile 1901- 27 febbraio 1960) torna oggi alla ri-

balta. L’ingegnere di Ivrea, sulle rovine e sulle macerie di un capitalismo nostrano in crisi di identità, di fatturato e di futuro, sta riacquistando, piano piano, la posizione che merita. Il tempo, talvolta, è galantuomo.

Dopo un rigido inverno, segnato da un oblio, a tratti rancoroso, durato decenni, non possiamo fare a meno di notare quattro segnali di luce: essi se-gnano una ripresa di interesse per una delle pagine più brillanti, più profitte-voli, più comunitarie, del capitalismo dinastico di casa nostra.

La fiction Immersi come siamo nella società dell’immagine, il primo segnale di

attenzione lo ha dato, manco a dirlo, il tubo catodico. Lo scorso autunno la RAI ha mandato in onda in prima serata, con grande successo di pubblico, La forza di un sogno. I puristi non hanno gradito più di tanto, ma la fiction in due puntate è stata utile alla causa: far conoscere al grande pubblico la figura di un “imprenditore civile” quale è stato Adriano Olivetti, sullo schermo ben interpretato dall’attore Luca Zingaretti.

Per fare memoria dell’ultima iniziativa degna di nota in ambito di ser-vizio pubblico radiotelevisivo dobbiamo retrocedere a una puntata di La sto-ria siamo noi, condotta dall’evergreen Giovanni Minoli. Il documentario,

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assai interessante, disponibile sul sito della RAI, ha tuttavia in dotazione un titolo ambiguo, ideologico, da guerra fredda: Adriano Olivetti. L’imprenditore rosso. I vertici confindustriali di allora, con in testa il presi-dente Angelo Costa, così lo appellarono; non essendo attrezzati culturalmen-te per comprendere la portata rivoluzionaria del disegno olivettiano, preferi-rono scegliere la via più corta della denigrazione, colorando di rosso un’esperienza aziendale che in quegli stessi anni era, per converso, studiata ed insegnata nelle migliori università di economia del mondo e che, unica azienda italiana, finiva come caso di studio nelle best practices dei manuali di business d’oltreoceano.

La (seconda) biografia Il secondo segnale d’attenzione riguarda la ripubblicazione della bio-

grafia dell’ingegnere Adriano, come era comunemente chiamato dai suoi operai e dai suoi tecnici, ad indicare il rispetto ma anche la prossimità. Vale-rio Ochetto, documentarista e giornalista RAI, ha ricostruito dal 1980 a oggi le molte e complesse sfaccettature della poliedrica personalità dell’imprenditore canavese. Non è operazione semplice. Chi fu, veramente, Adriano? Un capitalista? Un industriale? Un innovatore? Un uomo d’affari? Un uomo politico? Un editore? Un riformista? Un ricercatore sociale? Un ideologo? Un federalista? Un umanista? Un urbanista? Un costruttore? Un mecenate? Un paternalista? Un realizzatore? Un esteta? Un sovversivo? Un irregolare? Un visionario? Un eretico? Un utopista? Un profeta? Uno spirito religioso?

(Ri)Edizioni di Comunità, 2012 Il terzo segnale positivo è la rinascita della casa editrice, caparbiamente

voluta da Adriano nel 1946, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, per chiudere i conti con l’asfittica e astratta cultura dell’era fasci-sta, per sprovincializzare un Paese rimasto al palo per più di vent’anni, aprendolo alle ventate d’ossigeno portate da nuove discipline (come la so-ciologia, la psicologia, l’urbanistica) e per consolidare, ampliare, rifondare, ricostruire i canali di scambio intellettuale tra l’Italia e il resto del mondo, interrotti da forme infantili di alterigia e boria autarchiche.

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Dopo fortune alterne e andamenti carsici, da poco Edizioni di Comuni-tà è (ri)tornata sul mercato editoriale, dando alle stampe il pensiero di Adriano Olivetti, confezionato in agili libretti. A guidare questa nuova sta-gione è Beniamino de’ Liguori Carino, figlio di Laura, e nipote del fondato-re.

Gli scritti adrianei, che non hanno avuto ancora un unico contenitore (e ciò la dice lunga sulla colpevole distrazione della cultura italiana, sia di ma-trice cattolica che di sinistra), sono, a partire dal 2012, riproposti e introdotti da autorevoli prefatori. Si pensi al volumetto Ai lavoratori (2012), che rac-coglie due discorsi agli operai di Pozzuoli e Ivrea, presentati da Luciano Gallino, uno degli ultimi, grandi eredi dell’Olivetti anni Cinquanta. O a Fabbriche di bene (2014), che ospita una prefazione di Gustavo Zagrebel-sky.

Finalismo d’impresa Inaugurando lo stabilimento napoletano, felicissimo caso di architettura

industriale a misura d’uomo, l’ingegnere piemontese poneva a se stesso e alla sue maestranze l’interrogativo-chiave per un imprenditore che abbia a cuore la sua professione. Quelle parole sono, per così dire, passate alla storia dell’imprenditoria civile, nel senso di Stefano Zamagni. Vanno riascoltate, rimeditate nelle scuole d’impresa italiane (Bocconi compresa) e, cosa ancora più importante, sapientemente adattate al contesto di oggi: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazio-ne, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?».

Per Olivetti il profitto è un mezzo o, per dirla in termini religiosi, un fi-ne pen-ultimo. Per un im-prenditore – figura, conviene precisarlo, ben di-versa dal prenditore o dallo speculatore, come ci ha insegnato Luigino Bru-ni – gli utili sono il primo e imprescindibile segnale che la direzione intra-presa è quella giusta; ma essi non sono, mai, la destinazione ultima dell’agire economico. Il finalismo d’impresa è, sempre, multi-dimensionale. Osservato da questa angolatura, l’ingegner Adriano si è conquistato un posto d’onore nel pantheon (peraltro non affollatissimo) degli imprenditori civil-mente orientati (attenti cioè alla civitas, alla comunità e al territorio e non solo alla pecunia, al denaro).

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Per la famiglia Olivetti, di origini ebraiche – Camillo il padre, che nel 1908 fonda alle porte di Torino la prima fabbrica italiana di macchine da scrivere, e Adriano il figlio, cui spetterà a soli 30 anni il compito di guidare e trasformare una piccola-media impresa semi-artigianale nella prima gran-de impresa multinazionale che inaugurerà l’orgoglio del made in Italy e il fascino dell’italian style nel mondo – la raison d’etre dell’esistenza delle imprese è molto chiara: «Le imprese sono organi della società. Non sono fine a se stesse. Ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale... esse sono strumenti per assolvere fini che le trascendono. Sono organi di sviluppo».

Tornando a quel 23 aprile 1955, riascoltiamo un secondo passaggio, pronunciato «di fronte al golfo più singolare del mondo»: «La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivol-to i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, cul-turale e sociale del luogo ove fu chiamata ad operare». In un’altra occasione Olivetti ebbe modo di precisare ulteriormente la sua concezione: «L’impresa non è solo un luogo di produzione, ma è anche il motore principale dello sviluppo economico e sociale e come tale ha delle responsabilità verso la collettività e il territorio».

Con cinquant’anni d’anticipo sui manuali americani, ecco la versione originale, tutta italiana, della cosiddetta corporate social responsibility: l’impresa, al pari di ogni altro soggetto attivo della comunità, ha diritti ma anche doveri. I proprietari, gli azionisti o i top manager non sono esseri su-periori, cui dover, per chissà quale ferrea legge del mercato, sacrificare il bene comune, che è, come sa bene il pensiero cattolico, il bene di tutti e di ciascuno; il loro, nobilissimo e legittimo, interesse non può considerarsi ab-solutus, sciolto da ogni vincolo e legame, ma deve essere armonizzato con una policentrica gamma di interessi in capo ad altri stake-holder o value-holder.

Se gli aziendalisti e più in generale gli studiosi di economia avessero guardato con interesse scientifico alla tradizione italiana dell’economia di mercato civile, anziché farsi ammaliare dalle sirene delle business school americane, edificate su antropologie iper-individualiste e libertarie, distanti un oceano dal nostro impianto culturale di riferimento, la storia del capitali-smo italiano avrebbe potuto essere diversa, migliore.

L’impresa, per dirla altrimenti, non è solo libertà, anche se senza libertà di intraprendere non vi è – come dimostrato dall’insuccesso clamoroso dell’economia sovieticamente pianificata – innovazione, ingrediente base e

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fattore irrinunciabile per ogni progresso di civiltà; l’impresa è anche respon-sabilità. Non è dunque, per stare all’efficace espressione di Olivetti, solo «un interesse privato» ma «un bene comune». Non si può non scorgere il portato rivoluzionario di questa visione, specie se paragonata al generale an-dazzo degli ultimi trent’anni, dove è capitato non di rado che l’impresa ven-ga considerata al pari di un qualunque altro bene, delocalizzando la produ-zione se conviene, mettendola sul mercato se si è in grado di fiutare un buon investitore straniero.

Al di là del socialismo e del capitalismo Il terzo e ultimo passaggio merita una chiosa. «Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancora del tutto incompiuto, risponde ad una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moder-na». In un tempo di lotta all’ultimo campo tra due diverse, antagoniste ideo-

logie, il più noto imprenditore italiano di allora dedicava le sue migliori energie a elaborare e sperimentare la nascita di un mondo nuovo, nel tentati-vo di superare il conflitto di classe che, dall’inizio del secolo XX, contrap-poneva capitalisti e lavoratori.

Il festival Il quarto segnale di rinascita è il Festival della cultura olivettiana. Nel

2013 si è tenuta ad Ancona la prima edizione. Promotori della due-giorni di riflessione l’ISTAO, l’Istituto Adriano Olivetti per la gestione dell’economia e delle aziende, fondato dall’economista Giorgio Fuà (1919-2000), uno dei grandi intellettuali vicini all’ingegnere, e la Fondazione Adriano Olivetti.

La Olivetti non fu solo un’azienda innovativa capace di condurre l’Italia alle soglie delle rivoluzione informatica; non fu solo una gioiosa

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macchina che macinava utili su utili1, pur reinvestendoli a favore dei dipen-denti e della comunità (similmente alla filosofia delle imprese mutualistiche e cooperative). La Olivetti, soprattutto con Adriano, fu uno straordinario la-boratorio di cultura, sia dentro i cancelli della fabbrica che fuori.

Un anno prima di morire, egli scrive: «Abbiamo portato in tutti i vil-laggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere». Concetto ripreso ed esteso nel 1960:

«Organizzando le biblioteche, le borse di studio e i corsi di molta natura in una mi-sura che nessuna fabbrica ha mai operato, abbiamo voluto indicare la nostra fede nella virtù liberatrice della cultura, affinché i lavoratori, ancora troppo sacrificati da mille difficoltà, superassero giorno per giorno una inferiorità di cui è colpevole la società italiana. Anche gli istruttori e i maestri e i giovani del nostro Centro Forma-zione Meccanici sanno che importa costruire degli uomini, forgiare dei caratteri senza i quali è vana e istruzione e cultura, perché il volto degli uomini onesti è così importante come il nodo divino che annoda tutte le cose del mondo». Adriano Olivetti non ebbe paura di confrontarsi con la cultura, con

l’accademia, con i politecnici, con l’élite intellettuale, italiana e globale: non solo non ebbe complessi di inferiorità, ma rappresentò una irresistibile ca-lamita. Nessuna città di provincia (Ivrea contava a quel tempo 18 mila abi-tanti), nessuna fabbrica metalmeccanica poteva annoverare tra il personale un cenacolo così variegato e altamente creativo di giovani ingegni, per mol-tissimi dei quali l’esperienza in fabbrica costituì un formidabile trampolino di lancio, umano e professionale. Significativa parte della classe dirigente è passata di lì…Adriano era, tra l’altro, un geniale talent scout. La rivoluzione proprietaria: per lui un sogno, per noi una realtà prossima?

In Olivetti ci fu molta concretezza e tanta profezia. Non fu un sognato-

re, come talvolta si è scelto di dipingerlo per evitare di fare i conti con lui. Un sogno, però, l’ingegner Adriano lo coltivò a lungo. Solo

l’improvvisa morte, che al pari suo arrivò troppo in anticipo, gli impedì di

1 Olivetti fu capace di vendere a 340 mila lire la calcolatrice Divisumma, che ne costava

32 mila!

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operare un vero e proprio cambio di paradigma, la rivoluzione proprietaria. Se il destino gli avesse dato qualche mese in più e se alcuni membri della sua famiglia non lo avessero ostacolato, Adriano avrebbe dato scacco matto ai sacerdoti del capitalismo proprietario.

Nel 2001, per i cento anni dalla nascita, Indro Montanelli affermò: «Olivetti voleva inventare un modello del tutto nuovo d’impresa in cui capitale e la-voro fossero associati, ma non su un piano soltanto contrattuale di ripartizione dei profitti, sebbene nella creazione di un nuovo tipo di società che andasse oltre i rap-porti di lavoro e di fabbrica. Era ebreo, Olivetti, non dimentichiamolo».

Fare memoria, e soprattutto farsi interrogare dall’eredità di Adriano Perché in un tempo di crisi, in un tempo cioè di assenza di direzione, è

utile tornare a interrogarsi sull’esperienza di Adriano Olivetti e della Olivetti di Adriano?

Le operazioni nostalgia non gli avrebbero fatto piacere, e tanto meno onore. Adriano era sempre in anticipo. «I tempi corrono, le cose si muovono – affermava – non possiamo fermarci a rimescolare le formule e le istituzio-ni del passato se non per quella parte di bene che in esse è contenuta e per cui ancora valgono. Ora siamo davanti al nuovo».

Eppure, allontanati i rischi di una idealizzazione mitica, e perciò stesso sterile, quella della dinastia Olivetti (Camillo, Adriano, e in parte anche Ro-berto) resta – ora che la cappa degli Agnelli e dei Romiti è meno condizio-nante – una vicenda per tanti versi così straordinaria e così inimitabile nell’epoca contemporanea dominata dal turbocapitalismo finanziario; una vicenda che, tuttavia, merita di essere sollevata dai bassifondi della storia d’impresa italiana e restituita a piena dignità. Perché? Ma perché quel brano di vita economica, dispiegatosi negli anni pieni di futuro del “miracolo eco-nomico”, contiene innumerevoli utili insegnamenti per chi fa sapientemente vita d’impresa, ama il rischio imprenditoriale, è orientato all’innovazione, crede nell’attrattività del made in Italy. Per uscire da una crisi che non passa, servono molte delle qualità che hanno fatto grande l’Olivetti e i suoi nume-rosi protagonisti: la famiglia, i manager, gli intellettuali, i tecnici e le mae-stranze operaie.

L’ingegner Adriano viene nominato direttore generale nel 1931: in America l’economia è ancora sotto shock per il crollo di Wall Street, in Ita-lia la disoccupazione è la bestia nera contro cui i governi di allora tentano di

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abborracciare qualche job act, ad Ivrea «fra il 1928 e il 1934, la fabbrica su-bisce una lunga crisi interna, una trasformazione totale dei sistemi direttivi». Olivetti non licenzia2, ma rilancia: assume e forma 700 nuovi venditori e, dato che la domanda interna langue, decide di puntare sull’export, si crea e conquista nuovi, emergenti, mercati ai quattro angoli del pianeta. Superfluo annotare che questa ricetta è alla portata di numerosi talentuosissimi im-prenditori italiani. I prodotti e la qualità non mancano. Forse è il coraggio che difetta…

Nel secondo dopoguerra la situazione italiana, sia sotto il profilo politi-co che economico, non era delle migliori. «C’è una crisi di civiltà, c’è una crisi sociale, c’è una crisi politica. Cosa faremo, cosa faremo?», si chiedeva nel giugno 1945. E rivolgendosi agli operai di Ivrea, affermava: «Tutto si riassume in un solo pensiero, in un solo insegnamento: saremo condotti da valori spirituali. Questi valori sono eterni; seguendo questi, i beni materiali sorgeranno da sé senza che noi li ricerchiamo». A distanza di quindici anni, nelle pagine di Città dell’uomo l’ingegner Adriano ribadirà l’urgenza e l’efficacia della cura:

«Noi tutti crediamo nel potere illimitato delle forze spirituali e crediamo che la sola soluzione alla presente crisi politica e sociale del mondo occidentale consista nel da-re alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo». A che cosa si riferiva in particolare Olivetti? Quattro le forze essenziali

dello spirito, che egli scriveva con la maiuscola: Verità, Giustizia, Bellezza e soprattutto Amore. Un mistico o un imprenditore? In conclusione

L’immortalità della figura di Adriano e soprattutto del suo pensiero,

che appare grandemente rivoluzionario se lo si guarda dalla trincea della

2 Nel discorso di Natale del 1955 l’ingegner Adriano scrive: «Tutta la mia vita e la mia

opera testimoniano anche – io lo spero – la fedeltà ad un ammonimento severo che mio padre quando incominciai il lavoro ebbe a farmi: “Ricordati, mi disse, che la di-soccupazione è la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una conse-gna: devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiamo a subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro”».

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conservazione in cui la business community italiana sembra essersi adagiata, è legata a questo suo, originale, modo di stare al mondo: «È vero, non siamo immortali, ma a me pare sempre di avere davanti un tempo infinito, forse perché non penso mai al passato, perché non c’è passato in me, guardo sem-pre avanti».

Con Adriano Olivetti la miglior Italia ha una ragione in più, un pungolo acuto per tornare a guardare avanti. Sempre avanti. Anche se il tempo per ri-nascere un’altra volta non è infinito…

Bibliografia Luigino Bruni, L’impresa civile, Egea, Milano, 2009. Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea, 2013. Adriano Olivetti, Ai lavoratori, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea, 2012, con presenta-

zione di Luciano Gallino. Adriano Olivetti, Il cammino della Comunità, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea, 2013,

con presentazione di Salvatore Settis. Adriano Olivetti, Fabbriche di bene, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea, 2014, con pre-

sentazione di Gustavo Zagrebelsky. Adriano Olivetti, Il mondo che nasce. Dieci scritti per la cultura, la politica, la società, a

cura di Alberto Saibene, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea, 2013. Giulio Sapelli – Davide Cadeddu, Adriano Olivetti. Lo spirito nell’impresa, Il Margine,

Trento, 2007. Stefano Zamagni, Impresa responsabile e mercato civile, Il Mulino, Bologna, 2013. �

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Prossime uscite della Casa editrice Il Margine Giuseppe Vezzoni (con Graziella Menato), All’alba di Sant’Anna. Il 12

agosto 1944 di don Fiore Menguzzo e della sua famiglia, prefazione di San-dro Schmid, collana “Orizzonti”, 240 pp.,

Nelle prime ore del 12 agosto 1944 un reparto tedesco perpetrò un “picco-

lo” eccidio. Ne furono oggetto il rettore della chiesa di Mulina di Stazzema, don Fiore Menguzzo, e quella parte della sua famiglia che era allora ospite nella ca-nonica, anch’essa messa a fuoco. All’alba di Sant’Anna ricostruisce e racconta, grazie anche a numerose testimonianze inedite, non solo quei momenti, ma an-che la storia della famiglia Menguzzo (originaria del Tesino ed emigrata in To-scana pochi anni prima della Grande Guerra) e i dolorosi mesi dell’estate del 1944 nell’Alta Versilia e sulle Apuane (lungo la Linea Gotica) che videro soffe-renze e odi, ma anche l’opera generosa di sacerdoti e religiosi nel contesto delle lacerazioni profonde che crearono il collaborazionismo e la lotta clandestina. Il libro narra il faticoso recupero della memoria di questi fatti, costato all’autore decenni di continuo e indefesso lavoro. La cronaca documentata di esso fa con-tinuamente da contrappunto al racconto principale.

Giuseppe Vezzoni (Pietrasanta 1949) ha lavorato come tornitore meccanico

fino al pensionamento. Impegnato a lungo nella politica attiva e nel sindacato, ha lasciato l’una e l’altro per un impegno civile ancora più intenso e se possibile più appassionato. Dal 1984 scrive articoli, racconti, pezzi teatrali, poesie, rievo-cazioni storiche, indagini che gli hanno valso più di un premio. Ha un blog mol-to seguito (http://liberacronacachenonce.wordpress.com) con il quale interviene, e fa intervenire, sulla vita amministrativa, politica, culturale, sociale dell’Alta Versilia. Ha posto particolare passione nel recupero alla memoria storica di tra-giche pagine dimenticate o rimosse, in particolare dei militari italiani e della strage nazi-fascista di Mulina di Stazzema, paese dove vive da oltre 50 anni.

Casa editrice Il Margine, via Taramelli 8 – 38122 Trento Tel. e fax: 0461 983368. E-mail: [email protected]

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La via “nuova”

della Resistenza:

il diacono Mauro Fornasari

(1922-1944)

ALBERTO MANDREOLI uesta è la storia di un giovane seminarista bolognese che ha saputo in-terpretare in modo consapevole e lucido gli anni difficili del ventennio

fascista e della guerra civile (1943-1945). L’Italia dopo l’8 settembre 1943, come ha ricordato Giuseppe Dossetti, era distrutta socialmente e moralmen-te; gli apparati dello Stato erano stati abbandonati e, per di più, la nazione era oppressa dall’esercito germanico e dai “repubblichini” della RSI.

Mauro Fornasari nacque nella primavera del 1922 a Longara, frazione di Calderara di Reno (Bologna). Faceva parte di una numerosa e bella fami-glia: il papà Cleto, contadino, per la sua austera severità era un vero e pro-prio pater familias e la mamma Adelaide, premurosa ed attenta casalinga, brillava nella casa per la calorosa generosità: una ruzla de pan (“un pezzo di pane”) era pronta per chiunque si trovasse nel bisogno. I fratelli Giuseppe, Gilberto, Adorando e le sorelle Novella e Giuseppina condividevano insie-me a Mauro la scuola elementare e l’esigente vita dei campi.

All’età di 12 anni, nel 1934, entra nel Seminario di Bologna per intra-prendere la via sacerdotale. Le doti nello studio intellettuale e nell’agilità fisica non tardano a evidenziarsi ma è la sua personalità, buona e disponibile verso gli altri, che desta una profonda ammirazione e una malcelata invidia nei suoi compagni di classe, Dante Campagna e Luigi Bettazzi. Si può af-fermare che la sua personalità ricca di qualità esercitasse un ascendente po-sitivo nei confronti dei compagni che lo guardavano con stupore. Bettazzi, oggi vescovo emerito di Ivrea, lo ha ricordato con queste parole: «lo ammi-

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ravamo per la sua pietà profonda e coinvolgente, così come per la sua uma-nità e la freschezza della sua vitalità»3.

Mauro riceve il suddiaconato nella chiesa di San Marino di Bentivoglio il 22 marzo 1944. Alcuni mesi più tardi, il 18 giugno, viene ordinato diaco-no dal cardinale Nasalli Rocca nel santuario di San Luca. Uomo dotato di grande generosità e amore verso il prossimo, Mauro non sopportava le vio-lenze inflitte ai più umili e le sopraffazioni purtroppo consuete in quel pe-riodo. Diede un concreto aiuto a quei giovani che si erano dati alla macchia per sottrarsi al “bando Graziani”, i cosiddetti “renitenti della leva”. Ha ri-cordato don Dante Campagna:

«Mauro difendeva chi era perseguitato e in pericolo. Non era un partigiano ma aiu-tava chiunque non voleva combattere con le armi. Era un non violento attivo. Non combatteva con le armi ma con la parola, con la ragione, apertamente e senza paura. … Mauro non aveva passionalità politica. Aveva una chiara propensione per il so-ciale. … Era disinvolto, superiore alle fazioni, non aveva paura di niente, mai ha espresso un programma politico, andare avanti nella sua fede questo era il suo pro-gramma. … Era renitente alla leva ma non resistente. Dalle conversazioni fatte a ca-sa sua posso dire che non era in contatto con Resistenza attiva. Però posso affermare che ha aiutato giovani a restare nascosti … I suoi coetanei erano ricercati come reni-tenti alla leva, tutti fuggivano, si nascondevano, e lui li aiutava, lui sentiva l’amore di patria, faceva cose semplicissime, erano i suoi amici di scuola che erano in peri-colo, non se ne faceva nessun vanto, lui non sentiva pericolo in quello che faceva … non aveva paura nell’aiutare queste persone che erano, a quel tempo, contro la leg-ge. I fascisti potevano vedere l’attività di don Mauro come un impedimento»4. Si prendeva cura delle travagliate vicende dell’Italia ancora gravata da

un regime fascista ai suoi ultimi rabbiosi colpi di coda. Intratteneva lunghe conversazioni con i suoi amici e confidenti Rinaldo Veronesi e Bruno Corti-celli, che intrapresero poi la via della Resistenza armata. Nell’ottobre 1943 in una sera autunnale si trattennero in una cavdagna (strada di campagna) di Longara e parlarono a lungo sui drammatici problemi che attanagliavano la

3 Dalla prefazione di mons. Luigi Bettazzi al volume di A. Mandreoli, Chi cercate? Vita e

morte di Mauro Fornasari, diacono della Chiesa di Bologna, EDB, Bologna 2013, p. 15. In occasione del settantesimo dalla morte, avvenuta il 5 ottobre 1944, è disponibi-le una mostra itinerante che illustra la sua testimonianza di vita. Dal 24 al 28 aprile 2014 è stata esposta per la prima volta presso il comune di Zola Predosa (Bologna).

4 Testimonianza di don Dante Campagna in Mandreoli, Chi cercate?, p. 36. Sulla vicenda del diacono Fornasari: M. Lodi, Diacono per sempre “don Mauro Fornasari”, Vita Nuova, Bologna; e P. Ferioli, Notte di passione, Aspasia, Bologna 2006.

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società e sugli orizzonti possibili dopo la guerra: l’occupazione tedesca, l’arroganza fascista, il movimento partigiano, l’apporto dei cattolici alla de-licata situazione. Pur provenendo da una famiglia benestante, era sempre legato ai problemi della povera gente; per lui non vi era indigenza che fosse di ostacolo alla solidarietà concreta:

«Si può dire che era un uomo di chiesa, però questo non dice niente. Si può dire che certamente era un uomo che amava il prossimo: questo dice molto di più. Io dico che don Mauro era un uomo dimentico di se stesso, proteso verso gli altri. … È da elementi concreti della vita che si vede chi è una persona. Forse la sua presenza di-sturbava a Longara. Le persone protese al bene danno fastidio»5. In lui l’esigenza di essere caritatevole si coniugava con la sete della

giustizia: non sopportava le sopraffazioni e gli atti di violenza gratuita dive-nuti comuni in quei mesi tragici. Il suo modo di “combattere” era conosciuto da molti nel suo paese: a viso aperto, non con le armi ma con la parola e la ragione, difendeva chi era perseguitato e in pericolo di vita. Il diaconato ri-cevuto nel giugno 1944 era divenuto per lui una “nuova” strada: proteggere i perseguitati e nascondere i ricercati. Forse quest’ultimo aspetto, unito alla sincerità che lo conduceva, senza alcun timore, a manifestare le sue idee con naturalezza, spinse i fascisti locali a vedere in lui un impedimento, anzi un vero e proprio nemico di cui aver timore.

Alla sera del 4 ottobre 1944 cinque fascisti in borghese inviati dal vete-rinario di Calderara, il dott. Belluzzi, giunsero inaspettatamente in casa For-nasari chiedendo di Mauro6. Il drappello delle brigate nere provenienti dalla frazione di Riale (Zola Predosa) era composto da Elio Lolli, detto il “Baliot-to” (figlio della balia di Mongardino), Walter Salmi, di professione macel-laio, Diego Presti, Orlando Barbieri e Salvatore Galanti. Lo trascinarono via e lo caricarono in auto, una Balilla 1100. In aperta campagna l’automobile si fermò per un guasto e Mauro, grazie alla sua scaltrezza, riuscì a scappare attraverso i campi coltivati dirigendosi a casa. La mattina del giorno dopo i cinque si ripresentarono con le armi in pugno e, tra le bestemmie, lo presero senza sentir ragione. Uno dei cinque, che era rimasto nell’aia a mangiare

5 Testimonianza di suor Silvia Minguzzi in Mandreoli, Chi cercate?, p. 27. 6 Cfr. Denuncia di Cleto Fornasari alla regia Questura, Bologna 5 maggio 1945; Rela-

zione di don Sisto Biffoni presso la caserma dei CC (Borgo Panigale, Bologna); Sen-tenza della Corte d’Assise, Bologna, 12 giugno 1947. Questi documenti sono consul-tabili presso l’Archivio di Stato di Bologna.

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l’uva, disse al fratello Gilberto: «Verrà interrogato e verrà messo subito in libertà». L’intenzione tuttavia fu chiara da subito. Don Mauro, che aveva trascorso la notte in ansia sentendosi quasi in colpa per essere fuggito la sera precedente, si consegnò consapevolmente ai suoi carnefici per non mettere a repentaglio la vita dei suoi familiari, minacciati di morte.

Il suo corpo esanime, pieno di livide tumefazioni, fu rinvenuto quella mattina stessa sul greto del torrente Lavino vicino a Zola Predosa dal segre-tario comunale e dal parroco di Gessi, don Sisto Biffoni, il quale informò tempestivamente il rettore del Seminario. Il corpo si presentava riverso per terra, la veste talare era infangata e strappata all’altezza del ginocchio sini-stro, la mano sinistra stringeva il breviario sul petto ed era visibile una ferita da arma da fuoco vicino all’occhio sinistro. Avvisata dell’uccisione, la fa-miglia si recò a Gessi per il riconoscimento.

Il ricordo delle esequie, avvenute nella chiesa parrocchiale di Longara il 9 ottobre 1944, riporta:

«Luttuoso anniversario / della morte di / Don Mauro Fornasari diacono / che mano assassina / non per rivalità di parte né per vendetta / ma per odio a Cristo / recise qual fiore / alle soglie del sacerdozio / bestemmiando / al nome di Cristo e della Vergine / fecero scempio del suo cuore / su cui / nelle strette di morte / diacono e martire / della fede / premeva il libro della liturgica preghiera»7. Ma dopo, a Longara, prevalse il silenzio. Comprensibile nei suoi fami-

liari, perché tacita garanzia per non riaprire ferite ancora sanguinanti, meno comprensibile nei paesi e nelle borgate italiane, inclini a dimenticare e a get-tare nell’oblio le sopraffazioni e le uccisioni della “nostra” guerra civile. Dopo il 1945 non si è più parlato di lui, come del resto di tanti altri sacerdoti e religiosi assassinati dai nazifascisti (don Ubaldo Marchioni, don Ferdinan-do Casagrande e don Giovanni Fornasini uccisi nell’area di Monte Sole tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944).

Questo avvenne non per semplice dimenticanza ma per “rimozione di memoria”. Silenzio, dunque, anche in ambito ecclesiale. Una memoria sco-moda per la Chiesa italiana, eccessivamente radicata nel suo passato com-promesso con il regime fascista in un tempo di ideologie cristallizzate nelle loro posizioni. L’episcopato italiano, tranne qualche rara eccezione (mons. Vigilio della Zuanna, vescovo di Carpi), aveva infatti seguito e, in alcuni casi, caldeggiato (mons. Cesare Boccoleri, vescovo di Modena) l’avvento

7 Mandreoli, Chi cercate?, p. 130.

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del fascismo, pensando che fosse il “male minore”, piuttosto che cadere nel-le mani del bolscevismo, considerato invece il “male maggiore”.

Nel biennio 1943-1945, gravido di conflitti, problematiche sociali ed esistenziali, l’episcopato italiano decise di mantenere un atteggiamento equidistante tra le parti belligeranti e chiese ai sacerdoti e ai religiosi di fare altrettanto. Ma molti appartenenti al clero intuirono con prontezza che oc-correva schierarsi con la Resistenza, sempre senza l’utilizzo delle armi e della violenza, per liberare l’Italia dal giogo opprimente e ingiusto del nazi-fascismo. Con audacia diedero aiuto ai deportati, agli ebrei che scappavano dalle persecuzioni, ai profughi che avevano perso tutto con i bombardamenti e con il passaggio del fronte, ai renitenti a una leva considerata iniqua, ai soldati alleati precedentemente catturati e che in quel momento scappavano al di là della Linea Gotica. Insomma, questioni di coscienza e di responsabi-lità. Mauro Fornasari è stato, senza ombra di dubbio, uno di loro. Ha pagato con la vita la sua franchezza, la sua parresìa e naturalmente la sua bontà che non conosceva limiti di persona o di condizione.

Il 25 aprile 1950 l’Università degli studi di Bologna gli ha conferito post mortem la laurea ad Honorem in Scienze Naturali, facoltà cui il giovane bolognese si era iscritto qualche anno prima a causa della sua passione per il mondo naturale. Così il “Giornale dell’Emilia” ha ricordato le parole profe-rite dal Rettore prof. Guerrini in quell’occasione:

«Essi vivono nella luce di un’idea che non muore e si irradia nell’avvenire. Tutti sono ora qui presenti in spirito e l’Università consegna alla sua storia i nomi dei va-lorosi ai quali conferisce – a titolo di onore – le lauree cui sarebbero pervenuti se un dovere superiore non li avesse chiamati a prove più alte»8. Negli anni Sessanta i genitori di Mauro hanno concesso il perdono a

uno degli assassini, Elio Lolli, condannato a 22 anni di reclusione dalla corte d’Assise di Bologna:

«Intelligentemente i nonni non si sono mai lasciati travolgere o logorare da sospetti che peraltro non avrebbero mai potuto trovare conferma. Da veri cristiani hanno perdonato subito e dal profondo del cuore gli esecutori materiali. Questo principio era molto saldo in famiglia e tuttavia non impedì al nonno di riporre nella giustizia ogni fiducia nella ricerca della verità»9.

8 “Il Giornale dell’Emilia”, 26 aprile 1950. 9 Testimonianza di Patrizia Fornasari, in Mandreoli, Chi cercate?, p. 95.

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Foto tratta dal libro Chi cercate?

(si ringrazia il Seminario di Bolo-

gna e EDB)

In lui vita e vangelo si sono incontrati; Mauro non ha opposto resisten-

za alla Vita che, seppure per neri sentieri, lo chiamava. La sua coscienza ni-tida, tersa, amante del bene non ha fatto altro che rispondere semplicemente e consapevolmente di sì. Responsabile in vita, responsabile in morte. �

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Il welfare state

tra Costituzione,

vincoli di bilancio

e «interesse personale

propriamente inteso» MATTEO PRODI

l dibattito sullo Stato sociale nel mondo, in Europa e ancor più in Italia, ruota attorno alla scarsità di risorse economiche che impedirebbero di tu-

telare i diritti previsti dalla nostra Costituzione e di mantenere a determinati livelli l’intervento dello Stato a favore dei più deboli.

Prima di valutare il dibattito, è opportuno ricordare come la nostra Co-stituzione si pronunci su alcuni temi che sono centrali per il welfare.

Art. 31: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto

dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».

La salute è l’unico diritto cui si accosta l’aggettivo “fondamentale”: è un diritto senza il quale gli altri non avrebbero possibilità di valere e senza il quale gli altri perderebbero la loro importanza. Inoltre, il testo ci dice che tale diritto diventa anche interesse della collettività. Emerge con chiarezza la costante, doppia attenzione dei costituenti al singolo e alla comunità più grande cui si appartiene.

Art. 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla

quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

I

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Se all’articolo 36 accostiamo i primi quattro articoli della Costituzione, non si può non evincere che tutti, essendo per diritto lavoratori, hanno diritto a una entrata economica (vedremo poi di definirla) che consenta loro di vi-vere una esistenza libera e dignitosa.

La Costituzione, quindi, ci chiede di consentire a tutti i cittadini di po-tersi svegliare al mattino avendo quanto necessario per vivere e avendo la salute tutelata.

Non c’è bisogno di sottolineare come tutto questo sia oggi altamente disatteso: anche chi concretamente lavora non riesce ad arrivare a fine mese; i sussidi per i disoccupati sono largamente insufficienti; la sanità pubblica è sempre più costosa anche per i cittadini indigenti ed è sempre più difficile accedere alle cure necessarie (tempi di attesa, chiusura di ospedali più picco-li e periferici, qualità delle strutture ecc.). Insomma, quella che giustamente è stata definita come la più importante invenzione del XX secolo in Italia, ma non solo in Italia, rischia di scomparire.

Qualche esempio può aiutare a capire la portata dei problemi in campo: «quando andavo a prendere mio figlio all’asilo, a due passi dall’università di Bo-chum, in Germania, mi capitava di parlare con le mamme che aspettavano i loro bambini. L. con i suoi tre figli, sola e disoccupata, aveva circa 1.800 euro di sussidio al mese …: 374 euro di sussidio in quanto disoccupata, 215 euro per il bambino sot-to i 5 anni; 502 euro per i due bambini sotto i 13 anni; 500 euro per l’affitto; 100 di riscaldamento; 16 euro per l’acqua calda; 135 euro di contributo speciale per chi è solo»1. Ogni giorno ci imbattiamo in casi, davvero incomprensibili, di mala

sanità, dove assistiamo a tragedie irreparabili, per mancanza di competenze, di strutture, di organizzazione.

Ci siamo limitati a due aspetti dello Stato Sociale, forse quelli che mor-dono maggiormente nel vivo l’esistenza degli italiani: ma l’elenco potrebbe continuare. Ricordo solo che l’articolo 117 (modificato con una legge del 2001) alla lettera m parla, per la prima volta, di diritti sociali, per i quali lo Stato deve determinare i livelli essenziali delle prestazioni. Quando si parla di diritti sociali si fa ricorso, con tutta evidenza, a una definizione scaturita dal dibattito dottrinale e non del tutto pacifica. È interessante, comunque, che la Costituzione abbia, in realtà molto tardi, sentito il bisogno di dare una

1 G. Perazzoli, Basterebbe imitare il welfare europeo, in “MicroMega”, 2/2012, pp. 193-

201, qui pp. 193-194.

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certa unità ai diritti che toccano così strettamente la vita di una persona; ri-sulta che tutta la sfera dei diritti diventa garantita e ogni decisione diventa costituzionalmente rilevante.

«Nel ricco catalogo costituzionale dei diritti sociali troviamo tutte le norme che tute-lano gli interessi dei soggetti in ordine a quei beni che sono considerati essenziali per la vita: salute, famiglia, maternità, infanzia e gioventù, istruzione, lavoro e sicu-rezza sociale (nonché altri diritti derivati dal mondo del lavoro)»2.

Le risorse ci sono? Il welfare, ce lo possiamo permettere? La domanda sulle risorse rima-

ne, in ogni caso, centrale e dobbiamo chiederci se sia vero che dobbiamo aspettare che il Pil cresca, e di molto, per poterci permettere politiche sociali significative.

«Le grandi politiche sociali, quelle che, culminate nei sistemi di welfare, hanno se-gnato un passo avanti di storico significato nell’assicurare sostanziali tutele agli strati sociali più deboli, non sono state lanciate in Paesi in cui il miele scorreva ab-bondante, ma al contrario in Paesi impoveriti, anche terribilmente impoveriti e scos-si alla radice da crisi economiche e sociali della massima gravità. Così è avvenuto dopo la crisi del 1929, in Europa ad opera delle socialdemocrazie scandinave e degli stessi regimi nazista e fascista, negli Stati Uniti per impulso del New Deal roosevel-tiano; e ancor più è avvenuto, per la forte determinazione del governo laburista di Attlee, dopo la fine della seconda guerra mondiale in Gran Bretagna, quando vi era-no ancora le tessere, aprendo poi la strada alla progressiva estensione, favorita dalla ripresa economica, dello “Stato del benessere” in un numero crescente di Paesi. Le risposte date alla crisi del 1929 e a quella seguente al 1945 furono i prodotti con-giunti per un verso di un risveglio morale che unì la parte progressista delle classi dirigenti, socialisti riformisti, liberali di sinistra e cristiani sociali, per l’altro del ti-more del diffondersi del comunismo. E furono risposte alte e vincenti»3. Che cosa è successo, invece, a seguito dell’ultima crisi?

2 B. Pezzini, Il diritto alla tutela della salute e gli altri diritti sociali, in Dialoghi sulla

Costituzione. Per saper leggere e capire la nostra Carta fondamentale, a cura di M. Imperato, M. Turazza, Effepi Libri, Roma 2013, p. 140.

3 M.L. Salvadori, Welfare in tempo di crisi, in “La Repubblica”, 16 gennaio 2014, p. 35.

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«Quando quest’ultima scoppiò, da quasi trent’anni era in corso l’offensiva neolibe-rista, che, mentre invocava la libera iniziativa di ciascun individuo, nei fatti aveva lasciato padrone del campo le oligarchie finanziarie e industriali e seguito linee di sempre maggiore contrazione delle istituzioni del welfare. … Era giunto il tempo di porre fine al malo andazzo, invitando alla corresponsabilizzazione delle singole per-sone e, per soccorrere quanti rimasti ai margini, alle iniziative di carattere caritativo. Negli anni successivi al 2008 … i nemici giurati dell’intervento pubblico rovescia-rono sui bilanci statali e sulle tasche della massa dei contribuenti semi-poveri e po-veri i costi della crisi di cui erano interamente responsabili. Al danno si aggiunsero le beffe. L’esito è stato l’accrescersi in maniera esponenziale delle diseguaglianze»4. L’attacco al welfare riguarda la struttura stessa dell’Europa: «chi lo at-

tacca in realtà sta minando uno dei pilastri politici e sociali di essa, pur nel caso in cui questo non sia il suo intento primario»5. In realtà le critiche allo stato sociale sono presenti nel dibattito dottrinale da moltissimi anni; la grande novità che abbiamo sotto gli occhi adesso è che la crisi ha “autoriz-zato” i decisori a operare tagli al welfare.

Ma davvero è la spesa per i più poveri e bisognosi il bacino in cui cer-care le modalità per sanare i bilanci pubblici? È vero che il deficit dei bilan-ci pubblici dell’Ue è cresciuto in media di un fattore dieci nel periodo 2007-2010 e che il debito pubblico è passato dal 60% del Pil all’80%.

«Tuttavia tale incremento appare dovuto quasi per intero al salvataggio degli istituti finanziari della Ue, non certo alla spesa sociale. Tra l’ottobre 2008 e l’aprile 2010 i governi Ue, ad esempio, hanno reso disponibile 4,13 trilioni di euro in versamenti diretti e garanzie al fine di sostenere i gruppi finanziari colpiti dalla crisi … Detta somma equivaleva al 32,5% del Pil della Ue a 27, ovvero, per dare un’idea più con-creta, era pressoché pari al Pil aggregato di Italia e Germania. Nello stesso periodo si osserva che la spesa sociale pubblica dei maggiori paesi Ue, al netto della mag-gior spesa contingente in sussidi di disoccupazione e altri sostegni al reddito richie-sti dalla crisi (quale la Cig in Italia), è rimasta sostanzialmente stabile intorno al 25% del Pil»6. Smantellare lo stato sociale non era dunque l’unica via per riguadagna-

re l’agognata stabilità.

4 Salvadori, Welfare in tempo di crisi, p. 35. 5 L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa,

Einaudi, Torino, 2013, p. 209. 6 Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, p. 214.

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Ma rimane un ulteriore dubbio, cioè che tutto questo faccia parte di un progetto per ridisegnare complessivamente la società, la politica e l’economia del vecchio continente:

«riportare nello spazio del mercato tutto quanto era stato sottratto a esso dallo svi-luppo dello stato sociale. In questa prospettiva, l’austerità che si vuole applicare ad ogni costo al settore pubblico non sarebbe dunque il fine, bensì lo strumento pre-scelto per legittimare il perseguimento finale del progetto»7. In maniera palese, così, ulteriormente i costi della crisi sono scaricati

sulle classi povere e i benefici salgono verso le classi più ricche. Il problema forse più grave di questo processo è che avviene con la complicità dei deci-sori politici che hanno in molti modi sottratto ai cittadini la possibilità di scegliere come affrontare questi anni così difficili: i media in questo sono e sono stati preziosissimi alleati, così come il pensiero unico neoliberista dif-fusosi a macchia d’olio in tutte le principali università americane ed euro-pee. Il clima che si respira è tale da essere stato capace di creare sensi di colpa in coloro che ricevono pensioni e sussidi, come se vivessero al di so-pra delle possibilità che la società può creare.

È quindi lecita la domanda: «quali strati sociali hanno ricavato un effet-tivo vantaggio, e quali uno svantaggio, a causa dei cospicui mutamenti veri-ficatisi nella distribuzione del reddito degli ultimi decenni?»8

Sicuramente si può affermare che la quota dei salari sul reddito è calata vistosamente negli ultimi due decenni, sono aumentate le rendite finanziarie e immobiliari, sono aumentate le diseguaglianze all’interno dello stesso Pae-se, sono aumentate le diseguaglianze tra i redditi dei dipendenti e le retribu-zioni dei top manager, la tassazione è diventata meno progressiva e quindi meno capace di operare quella necessaria redistribuzione dall’alto verso il basso.

Che fare? Rimane la domanda decisiva: che fare?

7 Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, p. 215. 8 Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, p. 221. Gallino cita un rapporto dell’Oil

del 2008 e dati più recenti della Commissione europea.

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«I fautori dell’ordine neoliberale perseguono il risanamento dello stato sociale, ben consapevoli che lo fanno al prezzo, che ritengono doloroso ma necessario, di sop-primere la democrazia; i loro oppositori sembrano, per la maggior parte, non render-si conto di rischiare di sopprimere la democrazia quando si sforzano di adeguare al mondo che è cambiato strutture e prestazioni del modello sociale europeo, separan-dolo dal contesto politico, ideologico, economico, finanziario che ha costruito lo schema interpretativo dell’intera questione. Mostrando, con ciò, di conformarsi in realtà al medesimo paradigma neoliberale»9. Rimane un’unica soluzione: ricreare una nuova mentalità etica, sociale

ed economica che sappia affrontare l’attuale crisi con altri paradigmi. Ormai sta diventando chiaro: la politica del rigore senza sconti, imposta

ai Paesi in difficoltà, anche per colpe imputabili solo a loro stessi, non solo non ha portato alcun benessere ma ha finito per deprimere ulteriormente la crescita dell’economia stessa.

Dagli Stati Uniti arrivano tantissime critiche a questo modello rigorista; in particolare possiamo fare riferimento alla Modern Monetary Theory (MMT)10, che si presenta con la presunzione di portare fuori l’Occidente dalla crisi economica, a patto che si liberi dalle ideologie liberiste. Tale teo-ria assegna ruolo benefico al deficit e al debito pubblico; crede che l’austerità imposta dalla Germania sia sbagliata e concettualmente assurda, che non ci siano tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare questi disavanzi stampando moneta. Le banche centrali hanno sempre avuto il terrore della crescita dell’inflazione. MMT ritiene che il pericolo dell’inflazione sia inesistente; lo sarebbe solo in piena occupazione. Il defi-cit pubblico oggi è solo benefico, a condizione che venga finanziato dalle banche centrali, comprando senza limiti titoli di stato emessi da rispettivi governi. Una soluzione monetaria della crisi permetterebbe di risparmiarci il dissanguamento del modello sociale europeo11.

Certamente la Costituzione parla in modo chiaro: prima di tutto occorre

mettere ogni persona in grado di vivere una vita degna di questo nome. Que-sta è la responsabilità primaria della politica. Questa condivisione delle re-

9 Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, p. 224. 10 Ricavo le linee essenziali della MMT da F. Rampini, “Non ci possiamo più permettere

uno Stato sociale” (Falso!), Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 92-93. 11 Rampini, Non ci possiamo più permettere, p. 96.

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sponsabilità, soprattutto verso i più deboli, è anche la via privilegiata per far crescere le nostre democrazie, intese come

«sistema politico in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di intervenire in modo effettivo e partecipato nella formulazio-ne delle decisioni che toccano la produzione e la distribuzione di quei beni pubblici, quali il modello sociale europeo incorpora, da cui dipende non solo la materialità della loro esistenza, ma pure lo stesso significato ultimo che a essa vorrebbero attri-buire»12.

I vari modelli di welfare La letteratura sui modelli di welfare state è amplissima; quella che può

aiutarci in prima battuta è la proposta di Richard Titmuss, così sintetizzabi-le:

«1. il modello residuale, in cui lo Stato si limita ad interventi temporanei in risposta ai bisogni individuali solo quando i due canali di risposta naturale, il mercato e la famiglia, entrano in crisi; 2. il modello remunerativo, in cui i programmi pubblici di welfare giocano un ruolo importante come ‘complementi’ del sistema economico, formando livelli di prote-zione che riflettono i meriti e i livelli lavorativi; 3. il modello istituzionale-redistributivo, in cui i programmi pubblici di welfare co-stituiscono una delle istituzioni cardine della società e forniscono prestazioni uni-versali, indipendentemente dal mercato, sulla base del principio del bisogno»13. Per quanto riguarda il diritto alla salute e il diritto a una entrata econo-

mica che garantisca una vita degna, credo che la nostra Costituzione indiriz-zi l’Italia a dotarsi di un sistema di welfare del terzo tipo, cioè un modello che si intenda universalistico14, capace di creare una vera redistribuzione della ricchezza e capace di non abbandonare nessuno al proprio destino.

È chiaro a tutti che i tempi sono cambiati e che occorre fare attenzione a nuovi fenomeni, non solo economici, ma soprattutto sociali. «È, innanzi-

12 Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, p. 225. 13 F. Franzoni, M. Anconelli, La rete dei servizi alla persona. Dalla normativa

all’organizzazione, Carocci, Roma 2014, p. 20. 14 Cfr. M. Ferrara, Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie, Il

Mulino, Bologna 1993, che distingue tra modelli occupazionali (l’intervento è proget-tato in base alle categorie di lavoratori) e modelli universalistici.

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tutto, aumentata la domanda di sevizi e prestazioni a causa di alcuni dati demografici e sociali rilevanti»15, tra cui dobbiamo annoverare l’invecchiamento della popolazione16, una nuova concezione della vita della famiglia e in particolare del ruolo della donna al suo interno, la crescita delle aspettative nei confronti dello Stato, una lettura diversa della collaborazione tra pubblico e privato, una attenzione maggiore alla sussidiarietà, una nuova esigenza di selettività nell’erogazione dei servizi. Nonostante tutto questo, è necessario

«riscoprire e valorizzare sociologi ed economisti più attenti a modelli economici so-lidali, a sistemi di convivenza basati su legami comunitari e al ruolo guida che de-vono assumere le pubbliche amministrazioni. Si è cioè riaperto il dibattito sulla va-lenza etica dei sistemi di welfare e in particolare su giustizia ed equità sociale»17.

L’interesse per gli altri Una domanda cui è assolutamente necessario rispondere è se tutte le

crisi che stiamo vivendo abbiano in realtà fattori comuni, e come possiamo evidenziarli. A mio modesto avviso, la risposta è positiva: esiste un elemen-to che tiene insieme la grande fatica che si sta sperimentando a livello mon-diale ed è che abbiamo perso il gusto di prenderci cura dell’altro, degli altri.

Al termine del suo libro sulle diseguaglianze, il premio Nobel per l’economia Stiglitz lo mette in evidenza con straordinaria chiarezza riferen-dosi al pensiero di Alexis De Tocqueville che

«considerava uno degli elementi fondativi del genio peculiare della società america-na come “l’interesse personale propriamente inteso”. La chiave sta nelle ultime due parole. Ciascuno possiede un interesse personale in senso stretto: voglio quel che è bene per me ora! L’interesse personale “propriamente inteso” è diverso. Significa comprendere che prestare attenzione all’interesse personale degli altri – in altre pa-role, al benessere comune – è di fatto condizione imprescindibile per il proprio vero

15 Franzoni, Anconelli, La rete dei servizi alla persona, p. 22. 16 L’aspettativa di vita alla nascita in Italia è la più alta del mondo dopo Messico, Giappo-

ne e Andorra. 17 Franzoni, Anconelli, La rete dei servizi alla persona, p. 26. Cfr. ad esempio, L. Pennac-

chi, La moralità del sistema di welfare. Contro il neoliberismo populista, Donzelli, Milano 2008 e L. Pennacchi, La filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Donzelli, Milano, 2012.

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benessere. … Quei furbi degli americani capivano una cosa fondamentale: prestare attenzione agli altri non fa soltanto il bene dell’anima, fa bene anche agli affari»18. È scomparso il senso del comune, del pubblico: un tratto della nostra

modernità, come ha sottolineato Zygmut Bauman parlando dell’Olocausto19, è mettere tra noi e chi soffre (soprattutto se soffre per causa nostra) la barrie-ra della burocrazia. Perdendo il contatto umano con le conseguenze delle nostre decisioni, finiamo per condannare persone a vite e a condizioni disu-mane.

L’appello dell’attuale papa di partire per riflessione teologica, pastora-le, umana dalle periferie del mondo è davvero centrale anche per i partiti, per i grandi decisori della nostra epoca, per chi detta l’agenda delle cose da fare.

Per concludere. Alcune linee operative 1. Assegno universale a chi rimane senza lavoro: è questa una delle

proposte di Matteo Renzi. È una proposta su cui lavorare soprattutto se riu-scirà a tenere presente la formazione da offrire a chi perde il lavoro, a offrire una somma proporzionata agli anni di lavoro svolti e a chiedere una collabo-razione nel sociale a chi percepisce tale assegno.

2. A partire dal diritto alla salute, e dalla legge 833/197820, dare com-pleta attuazione ai livelli essenziali di assistenza (LEA)21, che tengano pre-senti la qualità e la tempistica delle prestazioni sanitarie.

3. Ridefinire con chiarezza la politica fiscale, che mostri una corretta proporzionalità, senza paura di inserire ulteriori scatti di aliquote per le di-verse fasce di reddito.

4. Ridare una piena centralità al servizio pubblico sanitario, affinché tutti possano godere in egual misura del diritto alla salute.

18 J. E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il

nostro futuro. Einaudi, Torino 2013, p. 453. 19 Z. Bauman, Modernità e olocausto, il Mulino, Bologna, 2010. 20 Una legge che gli studiosi valutano ancora come una delle migliori, proposta dal mini-

stro Anselmi, approvata da un governo di unità nazionale. Da ricordare anche la ri-forma Bindi del 1999. Rimangono certamente problemi immensi rispetto alla diffe-renza tra regione e regione.

21 Sono stati definiti con un decreto del Consiglio dei ministri del novembre 2001.

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5. Condurre una vera lotta agli sprechi e alla corruzione in ambito sani-tario, conferendo le corrette responsabilità agli amministratori locali e ai di-rettori sanitari.

6. Favorire alcune corrette forme di integrazione pubblico-privato, co-me il welfare aziendale22 o alcune forme di sanità privata di qualità a basso costo23.

7. Riportare in Europa la cultura e l’umanesimo che ha consentito la nascita del welfare.

8. Iniziare una profonda opera di educazione alla solidarietà, alla sussi-diarietà, agli stili di vita che sappiano far crescere le comunità. �

22 Esempi virtuosi, nel bolognese, il gruppo COESIA (famiglia Seragnoli) e l’IMA. 23 Ad esempio l’ospedale milanese Sant’Agostino.

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olo attraverso un’ampia collaborazione dei po-poli europei si può creare la base su cui sarà possibile una costruzione nuova. (…) Solo un

sano ordinamento federalista può oggi ancora riempi-re di nuova vita l’Europa indebolita. La classe lavora-trice deve essere liberata mediante un socialismo ra-gionevole dalla sua miserabile condizione di schiavi-tù. Il fantasma di una economia autarchica deve scomparire dall’Europa. Ogni popolo, ogni individuo hanno diritto ai beni della terra! Libertà di parola, li-bertà di fede, difesa dei singoli cittadini dall’arbitrio dei criminali stati fondati sulla violenza: queste sono le basi della nuova Europa.

Appoggiate il movimento di resistenza, diffondete i volantini!

(Quinto volantino della Rosa Bianca, 1943)

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