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INDICE Prefazioni (di Bruno D’Amore e Martha Isabel Fandiño Pinilla, di Massimo Maisetti) Introduzione (di Ubiratan D’Ambrosio) PARTE PRIMA La matematica è dappertutto, anche nel cinema Capitolo 1 Tra prospettive e proiezioni Capitolo 2 Aspetti tecnico-scientifici del precinema Capitolo 3 L’invenzione del cinema e il suo sfondo culturale Capitolo 4 La matematica e l’evoluzione tecnologica del cinema (di Ubiratan D’Ambrosio) PARTE SECONDA Numeri e film Capitolo 5 Quando «i numeri aiutano» (a fare e a comprendere i film) 11 15 21 29 37 45 55

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INDICE

Prefazioni (di Bruno D’Amore e Martha Isabel Fandiño Pinilla, di Massimo Maisetti)

Introduzione (di Ubiratan D’Ambrosio)

PARTE PRIMA La matematica è dappertutto, anche nel cinema

Capitolo 1 Tra prospettive e proiezioni

Capitolo 2Aspetti tecnico-scientifici del precinema

Capitolo 3L’invenzione del cinema e il suo sfondo culturale

Capitolo 4La matematica e l’evoluzione tecnologica del cinema

(di Ubiratan D’Ambrosio)

PARTE SECONDA Numeri e film

Capitolo 5Quando «i numeri aiutano» (a fare e a comprendere i film)

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Capitolo 6I numeri nel titolo dei film

Capitolo 7Lo zero tra matematica e filosofia, psicoanalisi e cinema

Capitolo 8Numeri e teoremi superstar

(di Ubiratan D’Ambrosio)

parte terza Matematica e matematici sullo schermo

Capitolo 9«La matematica, eh!» Calcoli aritmetici e vita quotidiana

Capitolo 10Il «pallino della matematica» sullo schermo

Capitolo 11Cosa fanno i matematici sullo schermo (oltre che insegnare)?

Capitolo 12Film matematici

(di Ubiratan D’Ambrosio)

parte quarta Il cinema e la storia della matematica

Capitolo 13L’antichità

Capitolo 14Dal Medioevo al rinascimento

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Capitolo 15L’età moderna

Capitolo 16Il Novecento

(di Ubiratan D’Ambrosio)

PARTE QUINTA Cinematematicamente insegnando

Capitolo 17Insegnare matematica sullo schermo

Capitolo 18L’utopia didattica di Roberto Rossellini

Capitolo 19Il cinema di documentazione e la matematica

Capitolo 20Il cinema di animazione e la matematica

Conclusioni

Bibliografia

Filmografia

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«Ma che c’è poi in un milione? Un sacco di zeri. Un niente, un cerchio con un buco in mezzo.» Questa battuta, detta dal burbero miliardario impersonato da Humphrey Bogart nel fi lm Sabrina, 1954, di Billy Wilder, testimonia del modo con cui, al cinema, veniva evocata la matematica fi no a non molti anni fa. Superfi cialmente, quale oggetto di battute spiritose. Eppure, essa aveva molto aiutato il cinema, nel suo nascere e crescere. Vari matematici, inoltre, lo avevano amato: se Einstein non manifestava verso di esso alcun interesse («Era rarissimo che andasse al cinema», Pais, 1986, p. 501), Gödel vi si recava di frequente, entusiasmandosi per i fi lm d’animazione di Walt Disney e vedendo per ben tre volte Biancaneve (Dawson, 2001, p. 194). Ludwig Wittgenstein, che non era propriamente un matematico ma nel cui pensiero fi losofi co la matematica è sempre stata ben presente, adorava i western e i musical hollywoodiani. Norbert Wiener era talmente appassionato di cinema da scrivere nel 1952 una lettera ad Alfred Hitchcock per indurlo a realizzare un fi lm su una propria avventura messicana: la lettera, che iniziava con «My name is Norbert Wiener and I am Professor of Mathematics at the Massachusetts Institute of Technology», non ebbe risposta (Masani, 1990, p. 335). Renato Caccioppoli fu per vari anni presidente del Circolo del Cinema di Napoli, Michele Emmer, fi glio del regista Luciano nonché valente matematico, da anni si occupa dei rapporti tra la matematica e il cinema (Emmer, 2006) e il giovane matematico tedesco Werner Wendelin — Prix Fermat 2001 e Medaglia Fields 2006 — ha addirittura partecipato quale attore, al fi anco di Romy Schneider e Michel Piccoli, al fi lm La passante du Sans-Souci, 1981, regia di Jacques Rouffi o.

Il cinema invece, fi no a non molto tempo fa, ha contraccambiato scarsamente gli aiuti ricevu-ti, nel proprio evolvere tecnologico, dalla matematica nonché l’ammirazione tributata da molti

INTRODUZIONE

Finzioni sublimi imparano a dialogare

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IL CINEMA E LA MATEMATICA

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matematici alle sue forme espressive. Da qualche anno, peraltro, la situazione appare radicalmente mutata. Ha scritto Umberto Bottazzini: «L’interesse per la matematica è considerevolmente cre-sciuto [...]. La matematica è diventata di moda. Oggetto di spettacoli teatrali, argomento di fi lm di successo» (Bottazzini, 2003, p. IX). Perché questo improvviso interesse del cinema verso la più incompresa, e diffamata, tra le discipline dell’umano sapere? Come sempre accade nella spiegazione di un fenomeno storico e sociale, risulta diffi cile trovare una sola, univoca causa. Si potrebbe far riferimento, per esempio, al fatto che di recente, tra il pubblico dei frequentatori di mostre e festival così come tra quello dei lettori di libri, l’interesse per la matematica è esploso con forza tant’è che le iniziative legate all’Anno Mondiale della Matematica, proclamato nel 2000 dall’UNESCO, sono spesso diventate un fenomeno di massa. Poteva il cinema, testimone sempre attento dei mutamenti dell’immaginario socioculturale del nostro tempo, non accorgersene?

Si potrebbe, inoltre, argomentare che il ruolo della matematica nella società contemporanea è enormemente cresciuto e che il cinema, specchio più o meno fedele — come tutti gli specchi — della cultura della propria epoca, si è fi nalmente accorto del fatto che i matematici si stanno direttamente e profi cuamente occupando di questioni di biologia, economia, informatica, sicu-rezza, etica nonché di cento altri campi del pensare e del fare umano, essenziali alla vita sociale ed economica del mondo avviato a globalizzarsi. Se ne sono sempre occupati, in verità, ma ciò, nel mondo attuale, appare sempre più evidente e strategicamente importante. Tale evidenza e tale importanza hanno aperto al cinema nuove potenzialità tematiche e narrative, nel proprio portare sullo schermo la matematica e i matematici: i cineasti, alfi ne considerando le scienze matematiche quale componente fondamentale della cultura umana, non si sentono più costretti a relegarle nelle gag sull’aritmetica strampalata del genere comico o nel comportamento stereotipato, tipico della commedia brillante, di imbranati insegnanti o di distratti scienziati lontani dal mondo perché presi dalla loro ossessiva visione, esclusivamente e dunque ottusamente, matematica del mon-do stesso. Tutto ciò indica un mutamento importante degli spettatori, dell’opinione pubblica, dell’immaginario collettivo nei confronti della disciplina che, pur troppo a lungo incompresa e persino vituperata, ha maggiormente guidato i processi scientifi ci e tecnologici della Modernità. Crediamo tuttavia che, rispetto alla questione della sempre più frequente presenza della matematica nel cinema del nostro tempo, occorra tener conto anche d’una ragione più profonda, per così dire fi losofi ca. Essa si riferisce al fatto che, probabilmente, la matematica e il cinema hanno fi nalmente scoperto di assomigliarsi, quali forme di rappresentazione del mondo nel linguaggio ossia quali umani artifi ci e, alla fi n fi ne, fi nzioni (D’Amore, 2009). In un saggio del 1932 l’americano Donald E. Smith, matematico e pedagogista di valore seppur poco noto in Italia — nonostante sia stato tirato in ballo qualche anno fa da un tema per la maturità — si legge: «La matematica è general-

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LA MATEMATICA E L’EVOLUZIONE TECNOLOGICA DEL CINEMA

netoscopi, fu realizzato negli stabilimenti edisoniani di Black Maria, i primi studiosi cinematografi ci d’America. Il successo del Cinematografo Lumière e la cattiva qualità della sincronizzazione tra immagine e suono bloccarono per vari anni, come già detto, la ricerca di Edison su questo proble-ma. Quando, nel 1929, i problemi di sincronizzazione furono risolti, essi condussero anche a un mutamento del «passo», ossia della velocità di scorrimento della pellicola sia nella camera da presa che nella camera di proiezione.

Si passò così, a un ulteriore dimostrazione dell’importanza dei numeri nell’evoluzione tecnico-linguistica del cinema, dai 15 fotogrammi al secondo dei Lumière, ma poi di tutto il cinema muto, ai 24 fotogrammi al secondo del cinema classico. Su ciò torneremo a dire qualcosa tra poco. Adesso vorremmo, invece, tirare in ballo un noto cineasta dei nostri tempi, particolarmente interessato alla matematica e ai rapporti tra i numeri e il cinema. Si tratta di Peter Greenaway. Nel suo intervento Come costruire un fi lm, all’incontro veneziano su Matematica e cultura 2000, egli affermò: «Curiosa-mente il cinema stesso, un mezzo notoriamente artifi ciale [...], è sempre stato familiarmente espresso in numeri — 8 mm, 9.5 millimetri, 16 mm, 35 mm, 6 per 8, 1 a 1.33» (Greenaway in Emmer, 2000, p. 159). I numeri citati da Greenaway si riferiscono sia alle dimensioni della pellicola, cioè al suo formato complessivo, sia al cosiddetto Aspect Ratio (rapporto di aspetto o formato di pro-iezione). Testimoniano quindi, ancora una volta, dell’importante presenza della matematica fi n nel cuore stesso del cinema quale medium di riproduzione/rappresentazione tecnica della realtà. Una pellicola cinematografi ca è, grazie all’invenzione di Eastman, un nastro di celluloide che contiene una sequenza più o meno lunga — assai corta nei primi fi lmati, attualmente molto più lunga — di fotogrammi che saranno poi proiettati su uno schermo. Dopo l’invenzione del sonoro, sui bordi della pellicola, vennero collocate le tracce audio. La sequenza dei fotogrammi è fi ancheggiata da un certo numero di perforazioni necessarie, grazie a un meccanismo di trascinamento inventato dai Lumière, a far agganciare la pellicola dalla croce di Malta presente nel proiettore, così facendola scorrere davanti al fascio di luce che proietta l’immagine sullo schermo (fi gure 4.2-4.3).

Il tipo di pellicola creato da Eastman, e da allora utilizzato a partire dai Lumière fi no alla seconda metà del secolo nonché all’avvento del cinema panoramico e poi di quello digitale, aveva un formato di 35

MascherinaLenteLampada

Croce di Malta

Otturatore

Fig. 4.2 Schema del funzionamento di un proiettore.

Tobia Scapin 2004/07

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IL CINEMA E LA MATEMATICA

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mm. A esso, nel corso degli anni, se ne sono affi ancati, soprattutto nel mondo del cine-ma dilettantistico, vari altri quali l’8 mm, il Super-8 mm, il 16 mm. Altri numeri ci-nematografi camente importanti, citati da Greenaway, riguardano non il formato della pellicola in quanto tale bensì il «formato di proiezione» cioè il cosiddetto Aspect Ratio. Esso riguarda ciascun singolo fotogramma

e di conseguenza l’immagine che si vede proiettata sullo schermo. È defi nito dal rapporto nume-rico, «ratio» appunto, tra la dimensione della larghezza e quella dell’altezza del fotogramma. La notazione matematica dell’Aspect Ratio viene solitamente indicata sotto forma o di frazione, per esempio X:Y o X/Y ove X è la larghezza e Y l’altezza del fotogramma, o di risultato, arrotondato, della divisione, per esempio 1,3 o 2,35 o, infi ne, come proporzione riferita all’unità, 1,85:1 o 1,66:1. Come scrive ancora Monaco,

All’inizio della storia del cinema fu adottato un rapporto convenzionale di 4:3 (4 di base e 3 di altezza) che alla fi ne fu codifi cato dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (tanto che adesso lo si indica come Formato Academy). Questo rapporto, più comunemente indicato come 1:1,33 o semplicemente 1,33, anche se è stato indubbiamente il più usato, non è mai stato l’unico. I cineasti coprivano spesso una parte del fotogramma per modifi care occasionalmente la forma dell’immagine, David W. Griffi th era famoso per questo. Quando fu introdotto il suono, e si dovette dare spazio alla colonna sonora sul bordo della pellicola, per qualche anno prese il sopravvento un formato quasi quadrato poi, però, l’Academy ridusse lo spazio fi no ad allora utilizzato all’interno del fotogramma intero per recuperare il formato 1,33 e questo standard a poco a poco diventò generale, anche se era il frutto di una scelta arbitraria. (Monaco, 2002)

C’è chi sostiene che tale scelta sia legata alla sezione aurea, ossia a un numero defi nito, dall’astro-fi sico americano Mario Livio che gli ha dedicato un libro, «molto speciale» (Livio, 2003, p. 7), in quanto rintracciabile non soltanto nei calcoli dei matematici ma anche negli aspetti più disparati della natura. Tra i primi a parlarne fu Euclide, soffermandosi sul particolare rapporto di lunghezze ottenibile dividendo una linea secondo quella che egli chiamò la sua «proporzionale estrema e media». Più precisamente, il grande matematico alessandrino scrisse: «Si può dire che una linea retta sia stata divisa secondo la proporzione estrema e media quando l’intera linea sta alla parte maggiore così come la maggiore sta alla minore» (Livio, 2003, p. 12). Ne deriva un rapporto, detto appunto «aureo», contrassegnato dalla lettera greca Φ ed equivalente al numero irrazionale 1,618…

Fig. 4.3 La pellicola cinematografi ca.

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I NUMERI NEL TITOLO DEI FILM

Appare chiaro che quei numeri si trovano in quei titoli per i più svariati motivi. Si tratta dun-que di indagare, cercando di tipologizzarli, proprio su tali motivi. Un interessante tentativo in tal senso è stato compiuto, per esempio, da Elio Girlanda nel suo breve ma succoso saggio Il cinema matematico dal fi lm numerato all’immagine numerica compreso nel volume Cinema e psicanalisi: Il numero (Girlanda, in Maisetti, Mazzei e Vitalone, 2009). La categorizzazione proposta da Girlanda si fonda su una prima, grande distinzione dei numeri che compaiono nel titolo dei fi lm tra «numeri muti» (quelli puramente indicativi, referenziali) e «numeri sacri» (quelli legati a una particolare simbologia mitica o religiosa, per esempio biblica, e dunque portatori, appunto, di una qualche sacralità). Pur traendone utili suggerimenti, l’impostazione della classifi cazione, peraltro ancora assai parziale, da noi proposta è piuttosto diversa e consiste nel distinguere i numeri presenti nei titoli dei fi lm a seconda del loro richiamarsi a:

– un loro particolare valore simbolico. Ci sono, infatti, numeri che evocano risonanze di antico ma sempre fascinoso legame con una certa tradizione culturale: è il caso del 7, forse il numero che ricorre maggiormente nei titoli dei fi lm, ma anche del 3 (il numero delle tre dimensioni del mondo, della Santissima Trinità cristiana, della Trimurti indù, e così via) che compare anch’esso in una grande quantità di titoli (da Tre canti per Lenin, 1934, di Dziga Vertov a I tre moschettieri, 1948, di George Sidney a Il terzo uomo, 1949, di Carol Reed) oppure il 9 (il numero dei mesi della gravidanza, il quadrato del mitico 3, la «prova del nove» dell’aritmetica scolastica e così via) che compare anch’esso in molti titoli (da Nove giorni in un anno, 1962, di Michael Romm a La nona porta, 1999, di Roman Polansky);

– un pre-esistente testo mitico o religioso che già di per sé abbia esaltato la valenza sacrale di certi numeri. Essi sono proprio quei «numeri sacri» di cui parla Girlanda, quelli che compaiono nei titoli di fi lm legati a temi biblici o comunque religiosi, leggendari, legati a tradizioni, culti, miti di vario genere. Gli esempi potrebbero essere molti ma ci limitiamo, in rapporto alla tradizione biblica e cristiana, a ricordare I dieci comandamenti, 1956, di Cecil B. De Mille (il riferimento è alle tavole di Mosè) e I quattro cavalieri dell’Apocalisse (il riferimento è al celebre e misterioso testo, intitolato Apocalisse ed entrato a far parte del Nuovo Testamento, attribuito a Giovanni Evangelista), 1961, di Vincente Minnelli;

– la quantità dei componenti di un certo gruppo di personaggi che nel fi lm acquista una particolare importanza, da I cento cavalieri, 1964, di Vittorio Cottafavi a I quattro fi gli di Katie Elder, 1965, di Henry Hathaway a Quella sporca dozzina, 1967, di Robert Aldrich;

– il giorno o l’anno o il secolo in cui hanno avuto luogo le vicende narrate dal fi lm. Gli esempi potrebbero essere molti, da Un milione di anni fa, 1966, di Don Chaffey a 11 settembre 2001, 2002, di Alain Brigand, da 1492. La conquista del paradiso, 1992, di Ridley Scott a 1860, 1934,

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IL CINEMA E LA MATEMATICA

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di Alessandro Blasetti; da Novecento, 1976, di Bernardo Bertolucci a 2001 Odissea nello spazio, 1968, di Stanley Kubrick;

– un numero civico come, per esempio, in Numero 17, 1932, di Alfred Hitchcock, in cui però il numero ha un duplice signifi cato, essendo il fi lm anche il diciassettesimo realizzato dal suo autore, o in Via dei Pompieri 25, 1974, di Ivan Szabo;

– un numero di telefono come in Chiamate Nord 777, 1948, di Henry Hathaway o in Chiamate 22-22 tenente Sheridan, 1960, di Giorgio Bianchi;

– l’arco temporale di durata della storia portata sullo schermo, come in Cleo dalle 5 alle 7, 1962, di Agnés Varda o in 28 giorni, 2000, di Betty Thomas o in 40 giorni e 40 notti, 2002, di Michael Lehmann o in Due settimane in un’altra città, 1962, di Vincente Minnelli o in 9 settimane e ½, 1986, di Adrian Lyne o in Sette anni in Tibet, 1997, di Jean-Jacques Annaud o in 20.000 anni a Sing Sing, 1933, di Michael Curtiz;

– una particolare situazione, tipicamente americana anzi newyorkese, di toponomastica stradale, come in Quarantaduesima Strada, 1933, di Lloyd Bacon o in La signora della 5a Strada, 1937, di Roy Del Ruth;

– una distanza o un’altezza o una superfi cie direttamente (o indirettamente) collegata con la vicenda narrata dal fi lm, come per esempio in 20.000 leghe sotto i mari, 1954, regia di Richard Fleischer o in Cento chilometri, 1959, di Giulio Petroni o in 23 passi dal delitto (ma il titolo originale è 23 Steps to Baker Street), 1956, di Henry Hathaway o in 40 mq di Germania, 1986, di Tevfi k Baser;

– l’età del personaggio principale o, più genericamente, dei personaggi del fi lm, come in Le diciot-tenni, 1955, di Mario Mattoli o in Diciassette anni, 1999, di Zhang Yuan o in L’amore a venti anni, 1962, fi lm a episodi con la regia di Francois Truffaut, Renzo Rossellini, Shintaro Ishihara, Marcel Ophuls, Andreij Waida;

– un voto scolastico, come in quell’anarchico capolavoro del cinema francese che resta Zero in condotta, 1933, di Jean Vigo o come in Maddalena: Zero in condotta, 1941, di Vittorio De Sica;

– una somma di denaro, come in Mille lire al mese, 1939, di Max Neufeld o come in 100.000 dollari al sole, 1963, di Henry Verneuil o come in Il milione, 1931, di René Clair;

– modi di dire proverbiali o comunque d’uso comune come in Due o tre cose che so di lei, 1966, di Jean-Luc Godard, o in I 400 colpi, 1959, di Francois Truffaut (in Francia, l’espressione equivale all’italiano «Fare il diavolo a quattro») o in Ventiquattrosette (titolo originale: 24-7. TwentyFourSe-ven), 1997, di Shane Meadows (nel dialetto di Nottingham signifi ca «Lavorare tutti i giorni giorno e notte» ossia 24 ore al giorno per i 7 giorni della settimana).

E tante altre fenomenologie di riferimento, tutte quante da catalogare, studiare, rendere deci-frabili, compresa quella che riguarda la presenza di numeri nel titolo di quei fi lm che costituiscono

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NUMERI E TEOREMI SUPERSTAR

la popstar Kate Bush, la quale gli ha interamente dedicato il secondo brano del suo album Aerial, 2005, nel quale recita le sue prime 140 cifre. E anche i cineasti: come scrive ancora Livio, «Pi greco è diventato un nome così familiare anche ai non specialisti che nel 1998 il regista Darren Aronofsky ne ha tratto lo spunto per un suo raffi nato thriller» (Livio, 2003, p. 11).

Di tale fi lm parleremo tra poco ma prima dobbiamo tirare in ballo altre due opere cinema-tografi che storicamente precedenti, quella di Aronofsky, che hanno fatto del Pi greco se non il protagonista certamente un «personaggio» di rilievo della loro fi lmica narrazione.

Pi greco, quale «numero da cinema», compare per la prima volta nel, meritatamente celebre, fi lm d’animazione Paperino nel mondo della Matemagica, 1959, regia di Hamilton Luske, uno dei migliori autori e animatori di Casa Disney. Del fi lm tratteremo più diffusamente nel capitolo dedicato ai rapporti tra cinema di animazione e matematica. Qui ci limiteremo a ricordare come, quasi all’inizio della sua avventura nel misterioso paese della Matematica (anzi, della Matemagica), Paperino, con cappello coloniale in testa e fucile in mano quasi andasse a fare un safari in Africa, s’imbatte in un buffo uccello, posato sul ramo di un albero tutto fatto di numeri, che gli recita le prime quindici cifre del Pi greco (fi gura 8.1, a sinistra). Il fi lm prosegue poi con tante, divertenti nonché istruttive, invenzioni grafi che e narrative ma, come detto, torneremo a parlarne in seguito.

Il Pi greco, qualche anno dopo il fi lm disneyano, fu chiamato a svolgere un ruolo narrativa-mente importante da Alfred Hitchcock nel suo Il sipario strappato (titolo originale Torn Curtain, la Cortina lacerata, con riferimento giustamente più esplicito alla cosiddetta «cortina di ferro»), 1966. Di tale fi lm, da molti considerato — ma a nostro avviso non del tutto a ragione — minore all’interno della vastissima fi lmografi a hitchcockiana, si tornerà a parlare in un successivo capitolo del libro, in riferimento alla scena in cui, davanti alla lavagna dello studio — presso l’Università Karl Marx di Lipsia — dell’eminente scienziato tedesco-orientale Gustav Lindt, quest’ultimo e il professor Armstrong gareggiano a tracciare con il gessetto calcoli e formule matematiche relative al missile antimissile. Il fi lm narra del fi sico americano Michael Armstrong, interpretato da Paul

Fig. 8.1Il Pi greco

sullo schermo.

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Newman, che fi nge di recarsi oltre la «cortina di ferro» per scelta politica mentre invece ci va per carpire a Lindt il segreto matematico del missile antimissile che egli e i suoi colleghi americani avevano inutilmente cercato di scoprire.

E il Pi greco cosa c’entra? Proprio tale leggendario numero è il simbolo della rete organizzativa se-greta che, nell’allora Repubblica Democratica Tedesca, si occupava di far fuggire all’estero i dissidenti perseguitati dallo spietato regime messo in piedi in quello che fu probabilmente il più illiberale tra gli stati del blocco sovietico. Armstrong, che si era recato con la fi danzata e collega Louise a Cope-naghen, per un convegno scientifi co, e qui aveva preso contatti con il matematico tedesco-orientale Karl Manfred, mentore della sua fuga oltre cortina, proprio da una libreria della capitale danese si fa recapitare un volume di matematica su una pagina del quale, debitamente cerchiato, egli trova il segno, appunto il Pi greco, che gli servirà per contattare coloro che, una volta terminata la sua missione, lo aiuteranno a tornare in Occidente. Giunto a Berlino Est e costantemente sorvegliato da un membro della polizia politica, la famigerata Stasi, Armstrong fi nge di recarsi in un museo, fa perdere le proprie tracce al poliziotto, chiama un taxi e si reca in una fattoria alla periferia della città, per prendere il primo contatto con l’organizzazione segreta. Per farsi riconoscere dalla donna che per prima lo accoglie, e che non parla una parola d’inglese così come Armstrong non parla il tedesco, traccia sul terreno, con il tacco della scarpa, un bel Pi greco (fi gura 8.1, al centro e a destra).

La macchina organizzativa della sua fuga si mette in moto ma dovrà subire presto un’accelerazio-ne in quanto il poliziotto lo raggiunge alla fattoria, scopre il suo inganno, viene ucciso dalla donna e la situazione precipita. Armstrong farà appena in tempo, prima che il cadavere del poliziotto sia ritrovato e la polizia si metta a cercarlo per arrestarlo, a incontrare Lindt e rubargli la formula del missile antimissile, nella famosa scena davanti alla lavagna di cui diremo in un prossimo capitolo. Poi, a lui e alla sua fi danzata, non resta che fuggire con vari mezzi, compresi un fi nto autobus di linea il cui autista e i cui passeggeri tutti sono membri della Pi greco. Tutto è bene quel che fi nisce bene ma valeva davvero la pena, per impossessarsi furtivamente di una formula matematica, di uccidere nonché di provocare la scoperta dell’organizzazione Pi greco dalla polizia? Sono brutti tempi, quelli nei quali la scienza deve farsi ladra e gli scienziati spie.

Parliamo dunque di Pi greco. Il teorema del delirio (titolo originale π o anche Pi. The Faith in Cha-os), 1998, regia del cineasta americano Darren Aronofsky (fi gura 8.2). Potrebbe essere scambiato per il solito fi lm sullo stereotipo dello scienziato pazzo, un genere assai praticato dal cinema americano, ma è invece qualcosa di più e di diverso, con il suo incredibile bianco e nero sgranato come in un fi lm dell’Underground degli anni Sessanta, la sua colonna sonora (di Clint Mansell, che interpreta anche un personaggio minore del fi lm) ossessiva come la fede nei numeri del protagonista, il suo ritmo convulso e il suo montaggio caotico come la mente del protagonista medesimo, lo stile narrativo

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PRIMA BALLERINA: Good evening. How do you do? TOTÒ: Come diceva scusi? SECONDA BALLERINA: How do you do? TOTÒ: Ah… due più due… fanno… [a Peppino] … quanto fanno? PEPPINO: Quattro. TOTÒ: Ecco, fanno quattro… [le ballerine ridono] Sissignore, fanno quattro… E quat-

tro e quattro fanno otto. La matematica, eh!

Per Totò e Peppino, divertenti ma anche un po’ patetiche maschere della poco istruita Italia dei poveri anni Cinquanta, la matematica era qualcosa di strano e di lontano, con cui si poteva giocare scherzosamente ma che, alla fi n fi ne, meritava il massimo rispetto e persino un punto esclamativo.

L’insegnante di matematica Jeremy Larkin, nel fi lm L’amore a due facce (di cui parleremo in altro capitolo del libro), nutre una vera passione per la propria disciplina in quanto è convinto, come spesso ripete, che in essa e soltanto in essa 2+2 faccia sempre 4, qualunque cosa succeda nel mondo. Ma è davvero così? Al cinema, o almeno in varie commedie brillanti e fi lm comici americani degli anni 40, non è vero per nulla. Per esempio, nei fi lm della coppia William (Bud) Abbott e Lou Costello — che in Italia furono chiamati Gianni e Pinotto — non soltanto 2+2 cessa spesso di fare 4 ma avviene addirittura che 13x7 faccia 28. Il primo fi lm in cui si trova questo stravagante, ma divertente, risultato aritmetico è Allegri naviganti (titolo originale In the Navy), 1941, regia di Arthur Lubin. In esso, Gianni e Pinotto fanno i marinai e Pinotto è addetto alla cucina di bordo. Dovendo preparare delle ciambelle per gli uffi ciali della nave, che sono 7, e vo-lendo fare in modo che ne tocchino loro 13 a testa, decide di cuocerne 28. Quando Gianni gli fa notare che 13x7 non fa affatto 28, Pinotto va alla lavagna e per ben tre volte, con una procedura

aritmetica sempre diversa sebbene sempre del tutto fantasiosa, «dimostra» invece che il risultato è proprio 28. La prima volta fa 13x7 e gli viene appunto 28, la seconda 28:7 e ottiene 13 e la terza volta 13+13+13+13+13+13+13 e ottiene ancora 28 (fi gura 9.1). Questa scena di assurda ma spiritosa manipolazione aritmetica risultò, agli occhi del pubblico, talmente divertente che i due attori la riproposero in altri loro fi lm. Per esempio, ma questa volta non parlando di ciambelle a bordo di una nave bensì di aspirapolveri all’interno di un’azienda chiamata Her-cules Vacuum Cleaner Company, ne Il piccolo gigante, 1946, regia di William A. Seiter. Perché il pubblico si diverte tanto, o almeno si divertiva, di fronte a simili manomissioni delle regole Fig. 9.1 Calcoli astrusi in Allegri naviganti.

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«LA MATEMATICA, EH!» CALCOLI ARITMETICI E VITA QUOTIDIANA

dell’aritmetica? Probabilmente perché la vis comica, a teatro come al cinema, è legata all’infrazione dei codici sociali di comportamento e quale codice è, o almeno era, ritenuto dall’opinione pubblica più rigido e dunque più divertente nel suo venire infranto di quello della matematica?

Quella del 7, del 13 e del 28 non fu, peraltro, l’unica gag a sfondo aritmetico della celebre coppia di comici. Ad esempio, nel fi lm Gianni e Pinotto reclute (titolo originale Buck Privates), 1941, regia ancora di Arthur Lubin, si assiste a questa buffa conversazione tra loro:

GIANNI: Per favore, prestami 50 dollari.PINOTTO: Non posso. Ne ho solo 40. GIANNI: Dammi i 40 e mi devi 10 dollari. PINOTTO: Come mai ti devo 10 dollari? GIANNI: Cosa ti ho chiesto? PINOTTO: 50 dollari. GIANNI: E quanti me ne hai dati? PINOTTO: 40. GIANNI: Quindi mi devi 10 dollari. PINOTTO: È giusto. Però tu me ne devi 40. GIANNI: Eccoti i 40 dollari. Ora dammi i 10 dollari che mi dovevi. [Li riceve.] Bene, ora prestami

50 dollari. PINOTTO: Come posso darti 50 dollari se ne ho soltanto 30. GIANNI: Dammi i 30 e mi devi 20 dollari. PINOTTO: Qui va sempre peggio. Prima ti dovevo 10 dollari e ora te ne debbo 20?

E vanno avanti così per un bel pezzo. Oppure, nel medesimo fi lm:

GIANNI: Hai 40 anni e sei è innamorato di una ragazzina di 10 anni. Sei 4 volte più grande di lei. Non puoi sposarla. Se aspetti 5 anni lei ne ha 15 e tu 45. Sei soltanto 3 volte più vecchio. Se aspetti 15 anni, lei ne ha 30 e tu 60. Sei soltanto 2 volte più vecchio. Devi aspettare che abbiate la stessa età.

PINOTTO: È ridicolo. Se continuo ad aspettare, lei diventerà più vecchia di me.

Questo tipo di gag, a sfondo assurdamente aritmetico, piacevano talmente al pubblico dell’epoca che anche altri attori comici fi nirono con il proporle nei loro fi lm. Ad esempio, la coppia Ma and Pa Kettle, inventata nel 1945 dalla scrittrice Betty MacDonald con il romanzo Io e l’uovo e portata con successo sullo schermo da Marjorie Main e Percy Kilbride. I coniugi Kettle fanno i contadini, hanno una nidiata di fi gli e non sono molto svegli, cosa che fi nisce sempre con il metterli in un mare di guai. Nel fi lm Back to the Farm, 1951, regia di Edward Sedgwick, essi trasformano i numeri usati per la loro gag da Gianni e Pinotto, ossia il 7 e il 13, nel 5 e nel 25 o meglio nel problema se

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COSA FANNO I MATEMATICI SULLO SCHERMO (OLTRE CHE INSEGNARE)?

della nascita del capitalismo e, in particolare, narra d’un uomo, un padre, rovinato e costretto alla prigione. Connolly è un cineasta che aspira a risultare, come si suol dire, politicamente corretto. Ciò non gli fa torto ma forse la trovata di un Jim/Paul che è diventato un genio della matematica economica al solo scopo di vendicarsi della CentaBank rischia di apparire alquanto artifi ciosa.

Il matematico Paul Rivers — interpretato da Sean Penn — è uno dei protagonisti del fi lm 21 grammi, 2003, regia del cineasta messicano Alexandro Gonzalez Inarritu. Paul è convinto, come spiega un giorno alla donna con cui sta pranzando, del fatto che «In ogni aspetto dell’universo c’è sempre un numero… Frattali, materia… Un numero che ci urla qualcosa nelle orecchie». E prosegue: «Quel che cerco di far capire ai miei studenti è che i numeri ci permettono l’accesso alla comprensione di un mistero più grande di noi… Com’è che due persone si incontrano? Un poeta venezuelano ha scritto: La Terra girò per renderci più vicini/girò sul suo asse e su di noi/perché fi nalmente ci congiungessimo in questo sogno [...]. In conclusione, la matematica è tutto questo». Il discorso, ancorché suggestivo, suona abbastanza oscuro e, comunque, la scena citata costituisce l’unica volta che, nel fi lm, si parla di matematica. Per il resto, il personaggio interpretato da Sean Penn potrebbe fare qualunque altro mestiere. Il fi lm mostra, con un metodo narrativo basato sulla tecnica del fl ashforward e mirante all’assoluta frantumazione cronologica degli avvenimenti, le esistenze parallele di tre persone: Paul, un matematico gravemente malato di cuore e in attesa di trapianto; Cristina, una giovane donna ex tossicodipendente ma poi felicemente sposata e madre di due bambine; Jack, un uomo dal passato di delinquente ma poi convertitosi al cristianesimo e fattosi fanaticamente devoto. Esse non si conoscono fi nché il destino, o il caso, fa sì che il camion-cino guidato da Jack investa e uccida il marito e le due fi glie di Cristina e sia donato a Paul, per il trapianto, il cuore che apparteneva al defunto marito di Cristina.

Anche dietro al caso, o al fato, che ha fatto accadere il terribile evento che dona al fi lm un senso, in bilico tra thriller e melodramma, c’è un numero? Probabilmente il regista, facendo di Paul un matematico e facendolo parlare di «numeri dell’universo» (Barrow, 2003), voleva indurre gli spet-tatori a domandarselo. Alla fi ne, tuttavia, l’unico numero che viene rammentato dal matematico morente (per ragioni che è opportuno non rivelare ai lettori che non hanno ancora visto il fi lm) è il 21, in riferimento ai 21 grammi che danno al fi lm il suo titolo e che indicherebbero, a detta del medico americano Duncan MacDougall che sostenne questa ipotesi in un articolo pubblicato nel 1907 sulla rivista «American Medicine», la quantità di peso che gli esseri umani perdono al momen-to della loro morte, insomma il cosiddetto «peso dell’anima». Al di là di ciò, il fi lm è interessante per vari motivi: la sua non linearità cronologica (che ricorda un po’ lo stile del primo Tarantino e, seppur rischi di confondere gli spettatori, conferisce drammaticità alla vicenda), le molte scene riprese con la camera a spalla (che ricordano, invece, i fi lm della Nouvelle Vague degli anni Sessan-

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IL CINEMA E LA MATEMATICA

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ta e in particolare quelli di Godard), la capacità di mescolare la suspence con il sentimentalismo melodrammatico e la rifl essione metafi sica, l’effi cacia della recitazione (Sean Penn vinse la Coppa Volpi per il migliore attore al festival di Venezia 60 ma anche Naomi Watts, nel ruolo di Cristina, e Benicio Del Toro, in quello di Jack, sono eccellenti).

Nel fi lm E venne il giorno (titolo originale, più bello, Happenning), 2008, regia del cineasta in-doamericano Manoj Nelliyattu Shyamalan (in arte M. Night Shyamalan), si parla di una misteriosa neurotossina, sprigionata chissà perché dalle piante, che, interferendo con i neurotrasmettitori che regolano l’istinto di autoconservazione, spinge le persone ad ammazzarsi. Questa sorta di epidemia suicida ha inizio a New York, in Central Park, ma poi si estende a tutto il Nord Est degli USA. La gente scappa come può, nella speranza di raggiungere un luogo ove la tossina non agisca. In un’auto che corre lungo strade cosparse di cadaveri, una ragazzina si mette a urlare di paura e, allora, un matematico di nome Julian, anch’egli a bordo della macchina, per distrarla le sottopone un indovinello aritmetico: «Se il primo giorno del mese ti regalo un penny, il secondo 2, il terzo 4, il quinto 8, e così via raddoppiando ogni giorno la cifra, alla fi ne del mese quanti soldi avrai?». La ragazzina dice, prima, «10 dollari», poi «20», poi «30», continuando peraltro a urlare di paura. Julian le chiarisce che il risultato giusto supera i 10 milioni di dollari, dopo di che le chiede: «Vuoi sapere un altro indovinello?». Non fa, tuttavia, in tempo a formularlo perché vengono anch’essi colpiti dalla tossina e fi niscono con l’uccidersi. In realtà, l’indovinello si basa su una progressione geometrica e ricorda la celebre leggenda riguardante Sissa Nassir, l’inventore degli scacchi, il re di Persia e il chicco di grano (o di riso) che raddoppiava, sulla scacchiera, a ogni casella successiva. Ri-corda anche alcuni versi danteschi (Paradiso, XXVIII 91-93) che suonano: «L’incendio suo seguiva ogni scintilla/ed eran tante, che ‘l numero loro/più che ‘l doppiar delli scacchi s’inmilla» e uno dei quali ha poi dato il titolo a un romanzo, a Dante Alighieri e alla matematica dedicato, di Bruno D’Amore (2001). Qualche commentatore, che Dio lo possa perdonare, ha paragonato il regista a Hitchcock e il fi lm a Gli uccelli. A parte simili azzardi critici, questo fantathriller è, almeno nella prima parte, abbastanza avvincente.

Perché al prestigioso MIT di Boston un professore esperto di equazioni non lineari crea un ristretto team di giovani geni matematici? Per cercare un nuovo teorema? Per risolverne uno antico ma rimasto irrisolto?

Niente di tutto questo: lo fa per sbancare il casinò di Las Vegas. Con la matematica si può fare anche questo. Ben Campbell, impersonato da Jim Sturges, non è, professionalmente parlando, un matematico. È uno studente ventunenne, orfano di padre e alquanto timido ma in matematica particolarmente ferrato, del MIT di Boston. Egli aspira a entrare, ma per studiare medicina, all’uni-versità di Harvard. È però di famiglia modesta, in orario non scolastico fa persino il commesso

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L’appellativo Khayyam, o Khayyami, signifi ca «costruttore di tende«, essendo questo il mestiere di suo padre. Sebbene, nel corso della sua vita, egli abbia dedicato un notevole impegno intellettuale alla propria sapienza matematica (e soprattutto algebrica, in quanto scrisse un trattato di algebra ed elaborò «una teoria esauriente che permette di fornire geometricamente le soluzioni positive delle equazioni cubiche», Djebbar, 2002, p. 190) e astronomica (gli si deve un’importante riforma del calendario), è diventato noto alla posterità soprattutto quale poeta, cantore dell’amore e del vino, della gioia ma anche del troppo veloce trascorrere della vita. Il suo Rubâiyât, una raccolta di quartine, resta uno dei canzonieri più letti e apprezzati della letteratura d’ogni tempo e paese. In un componimento a lui dedicato, ebbe a scrivere Vincenzo Cardarelli, valente seppur quasi dimenticato poeta italiano del Novecento: «O mio vecchio, melodico persiano/[...]/tu hai guardato il mondo/tra nebbie e per distanze siderali» (Cardarelli, 1948). Visse in un’epoca di aspri diverbi all’interno del mondo islamico, fu accusato di blasfemia e ateismo, costretto più d’una volta ad allontanarsi dai propri studi scientifi ci e ozi poetici per rispondere ad accuse e contestazioni. Poteva il cinema, sem-pre in cerca di storie d’avventura e d’amore, non farne, e più di una volta, un fi lmico personaggio?

Fin dal 1922, a Hollywood, ci si interessò a Khayyam con il fi lm A Lover’s Oath (noto anche come The Rubâiyât of Omar Khayyam), regia di Ferdinand P. Earle con Ramon Novarro, celebre divo dell’epoca del cinema muto, nonché con Omar, the Tentmaker, regia di James Young. Poi, nel 1924, con Omar Khayyam, regia di Bryan Foy. Il motivo dell’interesse erano, logicamente, i suoi amori, le sua fama poetica, la sua vita travagliata. Che ad affascinare i cineasti fossero soprattutto, oltre alla sua nomea di Arabian lover, le sue poesie lo dimostrano anche i numerosi fi lm — da Duello al sole, 1946, di King Vidor, a Pandora, 1951, di Albert Lewin — ove la recita di alcuni suoi versi da parte dei protagonisti contribuisce all’atmosfera di Amour Fou dei fi lm medesimi. Anche il primo fi lm sonoro dedicatogli, ossia Omar Khayyam (in Italia: Le avventure e gli amori di Omar Khayyam), 1957, regia dello specialista in Biopic William Dieterle, un tedesco antinazista fattosi americano, si limita ad aggiungere ulteriori storie amorose e guerresche al suo stereotipo cinematografi co (fi gura 14.1). Quanto alle avventure amorose, resta famosa la battuta che nel fi lm egli dice per giustifi care il proprio instancabile libertinaggio con le mogli del califfo suo protettore: «Che male c’è a rubare per una notte una delle quaranta mogli del califfo? Ne ha talmente tante che non può neanche accorgersene». Quanto a quelle guerresche, vanno ricordate le scene che mostrano Omar porsi a capo della lotta d’una setta di cospiratori contro l’usurpazione del potere regale da parte di un illegittimo sovrano.

Ultimo fi lm, a oggi, sul grande matematico e poeta persiano è The Keeper. The Legend of Omar Khayyam (Il custode. La leggenda di Omar Khayyam, tuttora non distribuito in Italia), 2005, regia del cineasta iraniano-americano Kayvan Mashayekh. Kolossal girato tra Samarcanda e il Marocco,

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Dal MeDioevo al RinasciMento

interpretato da Bruno Lastra nei panni del matematico/poeta e da Vanessa Redgrave, il film contiene vari seppur non profondi richiami in più, rispetto ai propri cinematografici predecessori, sull’attività scientifica del protagonista e vuole essere un inno alla tolleranza, al rifiuto dei fondamentalismi, al dialogo tra i popoli, le etnie, le religioni. Non a caso è ambientato ai nostri tempi e la storia di Omar è ricostruita, in flashback, da un ragazzino persiano che vive in Occidente. Egli trova in biblioteca un volume di scritti di Khayyam, viene a sapere che era un suo antico antenato, pretende di saperne di più. Scopre così un autore di versi e di trattati di algebra il quale, ormai vecchio, scrisse socraticamente che: «Mai l’intelletto mio si distaccò dalla scienza/pochi segreti ci sono che ancora non mi si sono disvelati/e notte e giorno, per settantadue lunghi anni, ho pensato/ma l’unica cosa che alfine seppi è che mai nulla ho saputo».

Un altro scienziato arabo di cui il cinema si è giustamente interessato è Abu Ahmmad Rajkhan al-Biruni (o Beruni), discepolo di Abu Nasr Mansur di cui condivise l’amore per la trigonometria oltre che per l’astronomia. Egli fu talmente stimato nel mondo mussulmano (ma perché non, anche, nel nostro?) che la sua città natale, nell’attuale Uzbekistan, si chiama oggi, in suo onore, Biruni. Gli è stato dedicato, nell’allora Unione Sovietica, un film intitolato Abu Rajkhan Beruni, 1974, regia di Shukhrat Abbasov. Narra della sua vita, dalla nascita agli studi con Mansur, all’amicizia con il filosofo Avicenna, ai viaggi in India ove si interessò della lingua e della cultura indù. E poi della sua opera, insigne, non soltanto quale astronomo e matematico ma anche quale linguista e studioso di scienze sociali. Il film non è mai stato distribuito in Italia però ne è stata fatta una proiezione, nel 2006, al festival cinematografico dell’isola di Procida Chi pensa il cinema. Chi è pensato dal cinema.

Averroè, nome con cui è conosciuto in Occidente il grande pensatore arabo Muhammad Ibn Rushd, visse tra il 1126 e il 1198. Era nato a Cordoba, in Andalusia, e colà visse e insegnò fin-ché non dovette fuggirne, con l’accusa di blasfemia, andando in esilio e poi a morire in quel di Marrakesh. Fu filosofo, matematico, astronomo, medico. Un sapiente insomma, un uomo saggio e una mente geniale, tra le più elevate dell’intera storia dell’Islamismo. Nel 1997 gli ha dedicato un bel film, intitolato Il destino (titolo originale Al Massir), il più importante tra i cineasti del Novecento arabo, l’egiziano Youssef Chahine. Si tratta d’una sorta di originale mix di vari generi cinematografici, dal dramma al musical, dal film d’avventura a quello storico e a quello comico. Narra, all’inizio, dei successi filosofici e scientifici, anche matematici, di Averroè in quella Cordoba

Fig. 14.1 La locandina di Omar Khayyam di Dieterle.