29
Presentazione della collana p. 9 Introduzione p. 13 Capitolo 1 La pittura sulle scatole p. 25 Capitolo 2 Il disegno p. 49 Capitolo 3 La «signora Creta» p. 59 Capitolo 4 La fotografia p. 67 Capitolo 5 Esperienze p. 77 Bibliografia p. 145 Capovolgi il libro… Introduzione p. 3 Capitolo 1 Organizzazione funzionale dei processi cognitivi (Lucia Paciaroni e Susy Paolini) p. 5 Capitolo 2 Il gioco nel bambino: un «lavoro» per crescere (Maria Cristina Alessandrelli, Annalisa Cannarozzo e Valentina Marconi) p. 33 Indice

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Presentazione della collana p. 9

Introduzione p. 13

Capitolo 1La pittura sulle scatole p. 25

Capitolo 2Il disegno p. 49

Capitolo 3La «signora Creta» p. 59

Capitolo 4La fotografi a p. 67

Capitolo 5Esperienze p. 77

Bibliografi a p. 145

Capovolgi il libro…

Introduzione p. 3

Capitolo 1Organizzazione funzionale dei processi cognitivi (Lucia Paciaroni e Susy Paolini) p. 5

Capitolo 2Il gioco nel bambino: un «lavoro» per crescere (Maria Cristina Alessandrelli, Annalisa Cannarozzo e Valentina Marconi) p. 33

Indice

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Capitolo 3Nel segno del tempo: persona e memoria nella rifl essione sociologica (Andrea Rossi) p. 49

Capitolo 4L’alba e il tramonto: fenomenologia dell’invecchiamento (Simona Castellani) p. 71

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9Presentazione della collana

Con «Il domino dei mediatori» proponiamo una collana di libri facili da utilizzare, nati dalle pratiche, rielaborati in un «bagno concettuale», e capaci di tornare alle pratiche — e agli operatori che le vivono e le propongono — con la capacità di integrarsi a progetti. Il contenuto della collana riguarda i «mediatori» e il titolo della collana stessa dovrebbe suggerirne una logica: il «domino» dei mediatori.

Cerchiamo innanzitutto di chiarire la logica del domino. Essa si basa:– sulle possibilità combinatorie– sull’individuazione «creativa» delle combinazioni (domino

colore, ma anche domino numeri, domino fi gure, ecc.)– sul valore dei collegamenti– sulla necessità di non lasciare un pezzo di domino senza

collegamenti– sulla possibilità di «attaccare» un nuovo pezzo o pedina da

qualsiasi parte.

Le regole del domino

Il domino è composto di 28 pedine rettangolari e può essere giocato da 2 a 4 giocatori.Ogni pedina è divisa in due quadrati, ognuno dei quali rappresenta la faccia di un dado, di solito con punti neri su fondo bianco o viceversa. I punti vanno da 1 a 6, ma c’è anche lo zero che è un quadrato vuoto. Lo scopo del gioco è quello di riuscire a mettere sul tavolo prima degli altri tutte le pedine che ogni giocatore possiede. Quello che rimane per primo senza pedine, vince! (www.bibliomondo.it)

Prima di iniziare il gioco, si mettono le 28 pedine al cen-tro del tavolo con le facce numerate girate verso il basso per

Presentazione della collanaAndrea Canevaro

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10 Se faccio, ricordo

nascondere i punti. Ciascun giocatore prende 7 pedine, sce-gliendole a caso, le mette davanti a sé in modo che gli altri giocatori non vedano le facce numerate. Le pedine rimanenti si tengono da parte, coperte, e costituiscono il «pozzo».

Si decide liberamente chi è il primo a iniziare il gioco. Questo sceglie una pedina e la mette al centro del tavolo sco-perta. Il secondo ne mette vicina un’altra che abbia in uno dei due quadrati gli stessi punti di una faccia di quella che è già sul tavolo. Se la pedina giocata dal primo giocatore ha la combinazione 5-2, per esempio, il secondo giocatore potrà aggiungere o una pedina con il numero 5 (dalla parte del 5), oppure una pedina con il 2 (vicino al 2).

Si procede così fi no a quando uno dei giocatori non ha nessuna pedina e allora prova a pescarne una dal «pozzo»: se è fortunato pesca una pedina da accostare a quelle già sul tavolo, altrimenti aspetta nuovamente il suo turno. La forma del disegno che le pedine tracciano sul tavolo è libera. Se si gioca in 4 il «pozzo» non esiste e comincia il gioco chi possiede il 5 doppio.

La partita fi nisce, e quindi ha un vincitore, quando uno dei giocatori si libera dell’ultima pedina.

Si sommano allora i valori delle pedine rimaste non giocate e il totale dei punti viene attribuito al vincitore. La partita fi nisce anche quando tutti i giocatori «passano», ma in questo caso non ci sono vincitori e ogni giocatore segna a suo adde-bito il totale dei punti delle pedine che gli sono rimaste.

Se si vuole, si può costruirsi un domino da soli, usando vari supporti: legno, creta, pasta di sale, polistirolo, cartone o qualunque altro materiale che si può tagliare o modellare creando 28 pedine rettangolari tutte uguali, in cui il lato corto è la metà di quello lungo. È poi suffi ciente disegnare una riga in mezzo al rettangolo, tagliandolo quindi in due quadrati uguali, e colorare i punti su ogni pedina.

Cosa intendiamo per mediatori

Per rappresentare la fi gura dei mediatori possiamo utilizza-re la metafora di chi vuole attraversare un corso di acqua che separa due sponde e non vuole bagnarsi: mette dunque i piedi sulle pietre che affi orano. Forse butta una pietra per costruirsi un punto di appoggio dove manca. Questi appoggi sono i mediatori, coloro che forniscono sostegno e che si collegano uno all’altro. Un mediatore è come un semplice sasso su cui appoggiare il piede per andare all’altra riva. L’importante è

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11Presentazione della collana

costruire collegamenti e andare avanti. Se un mediatore non invitasse a quello successivo, non sarebbe più tale. Potrebbe trasformarsi in feticcio, in prigione, in sosta forzata, in illu-sione di paradiso raggiunto…

Ecco una lista sintetica e schematica di quelle che sono le caratteristiche dei mediatori:1. Un mediatore deve avere la possibilità di aprire e rinviare

alla pluralità di mediatori, sia per sostituire, che per ac-compagnare ed evolvere il mediatore utilizzato in un certo periodo della vita.

2. Un mediatore deve costituire un punto di convergenza di sguardi diversi, essendo un oggetto esterno al soggetto e visibile da altri con un signifi cato in parte condiviso e in parte non condiviso. Deve poter permettere di far convivere diversità e unità.

3. Un mediatore può rappresentare il soggetto senza compro-metterlo: può saggiare un terreno insicuro, esplorare un ambiente, anche relazionale, senza che eventuali insuccessi deprimano o feriscano il soggetto.

4. Un mediatore deve essere malleabile, per poter rifl ettere l’impronta che il soggetto vi pone senza che questa sia de-fi nitiva ma sempre perfettibile. Può permettere di esercitare l’impronta soggettiva, sperimentando gli aspetti creativi ma anche distruttivi, essendo nello stesso tempo attore e spet-tatore.

5. Un mediatore deve poter condurre e guidare una speri-mentazione di sé da parte del soggetto, senza che questi si senta giudicato in maniera tale da compromettere altre esperienze.

Queste caratteristiche non hanno ordine di importanza: interagiscono fra loro in momenti diversi e con diverse inten-sità. Il più delle volte, il buon funzionamento di un mediatore può essere vissuto, e solo a posteriori vi può essere, non sem-pre necessaria, una rifl essione che chiarisce le caratteristiche di questo schema, la cui utilità non è da interpretarsi secondo la logica delle «istruzioni per l’uso». Piuttosto, è uno schema che andrebbe metabolizzato, e quindi fatto proprio in maniera del tutto originale.

Strutturazione dei libri/domino

Ogni volume sarà composto come una tessera di domino, ovvero con la possibilità di essere letto nei due versi. Il lettore

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12 Se faccio, ricordo

potrà cominciare da una parte, oppure ruotarlo e trovare un nuovo inizio dall’altra. Le due sezioni che compongono i vo-lumi si distinguono perché la prima è più operativa, mentre l’altra (quella che inizia dalla «fi ne» del libro) ha un contenuto più rifl essivo, che può essere formato da schede di libri, biblio-grafi e ragionate, articoli e pezzi antologici, ecc.

La collana sarà composta da 28 volumi, lo stesso numero delle pedine del gioco del domino. Come collegare i diversi «pezzi del domino», i vari libri, che vanno dal sostegno indi-viduale al sostegno diffuso, è lasciato a ciascuno dei giocatori, dei lettori, educatrici o educatori.

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13Introduzione

Nel marzo 2009 ricevetti un’interessante richiesta da An-drea Canevaro. L’invito era a scrivere e redigere un volume sulle attività di manualità e creatività che possono costituire utili mediatori per l’organizzazione, o anche la riorganizza-zione, della memoria. Nello stesso tempo mi chiedeva di non chiudere la proposta del libro nello «specialismo», ma di per-mettere un approccio teorico e pratico anche per altri soggetti e altre fasce di età.

Il primo passo verso la creazione di questo libro l’ho com-piuto grazie all’immagine, che mi è subito balzata alla mente, della mia stanza-laboratorio che si trova al Centro Disturbi della Memoria – Malattia di Alzheimer dell’INRCA di An-cona. La rifl essione che è seguita mi ha portato a pensare a come teorizzare il lavoro: come avevo costruito e progettato nel tempo il «mio laboratorio della memoria» e quali media-tori erano stati determinanti per raggiungere questo risultato. Il secondo passo è stato quello di cercare altre strutture sociali per poter interagire con un’utenza diversa e altre fasce di età, e verifi care così se i mediatori potevano essere trasversali.

La prima parte del libro è completamente dedicata a quat-tro dei mediatori che ritengo utili per l’organizzazione e la riorganizzazione della memoria: pittura sulle scatole, disegno, creta, fotografi a. I primi quattro capitoli li descrivono detta-gliatamente, assieme alle esperienze concrete effettuate grazie ad essi con utenti di età compresa tra gli 8 e gli 80 anni, narrate attraverso una sorta di diario di bordo nel capitolo 5. Certamente il lettore potrà chiedersi perché ho scelto questi mediatori e non altri. Il motivo principale è che nella costru-zione del laboratorio per la memoria essi sono trasversali a tutte le fasce di età.

Anche il loro ordine di presentazione ha un signifi cato. La pittura sulle scatole permette di organizzare il materiale che sta all’interno del laboratorio dividendolo in categorie e sotto-

Introduzione

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14 Se faccio, ricordo

categorie e organizzandolo attraverso un setting appropriato; tutto questo consente a sua volta di esercitare la memoria, intesa come «abilità cognitiva, strumento del pensiero che si dedica all’acquisizione, alla rielaborazione, conservazione e al recupero delle informazioni» (Polito, 2002, p. 23). Accanto alla pittura si pone il disegno, che libera attraverso il segno l’espressione di sé e che si collega alla creta, perché essa stessa può diventare il «foglio» su cui lasciare la propria impronta personale. La fotografi a, infi ne, è il mezzo per memorizzare le impronte e i segni lasciati durante le attività.

Le parole che fondano il percorso proposto sono: labo-ratorio, attività, esperienza, conduttore, motivazione, «fare», setting, creatività, consapevolezza diagnostica.

Chi legge potrà verifi care l’intenzione di non nascondersi dietro parole chiave, ma di farne un utilizzo capace di rendere il presente volume un compagno di strada per chi lavora nella crescita oggi per un domani che arriva.

La seconda parte del libro, che costituisce il rovescio del volume, indaga su quali teorie e studi possano fornire una spiegazione «scientifi ca» ai mediatori proposti e descritti nella prima. La risposta a tale rifl essione si trova nei quattro capi-toli scritti da persone competenti nel loro settore e dedicati rispettivamente a: processi cognitivi, funzione del gioco per lo sviluppo e la crescita, concetti di persona e memoria nella rifl essione sociologica e fenomenologia dell’invecchiamento.

Partiamo dall’inizio: che cos’è il laboratorio

Il laboratorio è uno spazio circoscritto, dedicato a un certo oggetto culturale o all’esercizio di attività manuali, artistiche, in cui l’utente può contattarsi e contattare gli altri. Esso è un luogo di apprendimento, di conoscenza, ma anche di regole, di piani, di strategie per organizzare e rielaborare ciò che vi si è appreso, utilizzando spesso la fantasia e la creatività.

Con il termine laboratorio, quindi, intendo uno spazio ben delineato (potrebbe essere una stanza, come l’interno di una tenda, una porzione di un grande salone delimitata da un separè, ecc.) in cui sono contenuti i materiali che servono per organizzare le attività che il conduttore propone ai suoi utenti (come si legge anche nel dizionario della lingua italiana, labo-ratorio è un «locale attrezzato per un’attività specifi ca, tecnica o scientifi ca, di carattere sperimentale o anche produttivo», Devoto e Oli, 1990, sub voce). Per cui la stanza-laboratorio si trasforma in un laboratorio di pittura, di scrittura, di disegno,

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15Introduzione

della creta, ecc., perché, se esso contiene tutti i materiali per queste attività, può rispondere in modo funzionale alle esi-genze di ogni singolo partecipante. Faccio un esempio. Non è detto che un gruppo di persone debba fare la stessa attività: il laboratorio infatti deve poter offrire una risposta ai bisogni e alle preferenze di ogni singola persona, in qualsiasi momento della giornata, perché le proposte che vi sono contenute sono fruibili da subito e perché la presenza visiva dei materiali sug-gerisce a chi li osserva quali scelte fare, in autonomia. Per cui sarà possibile dividere lo spazio del laboratorio per organizzare due o tre attività diverse, secondo le preferenze espresse.

Nel testo, faccio uso della parola attività per indicare le proposte pensate per gli utenti e alcune volte suggerite dall’in-terazione con loro, da un’osservazione sistematica, dalla ve-rifi ca, giorno per giorno, delle loro competenze o capacità residue.

Caratteristiche del laboratorio

Spesso mi sono soffermata a rifl ettere su quali sono le ca-ratteristiche che fanno funzionare un laboratorio e, rileggen-do la mia esperienza lavorativa, credo che il laboratorio sia composto di due anime, entrambe importanti e vitali: una umana, svolta dal suo conduttore, e una tecnica, rappresentata dai materiali che il laboratorio stesso contiene e da come essi sono organizzati attraverso la costruzione del setting, diverso per ogni tipo di attività proposta.

L’anima umana del laboratorio: il conduttoreIl conduttore del laboratorio è la persona che in primo

luogo si mette a disposizione dell’altro, chiunque si affacci alla porta. Ci tengo a precisare che non è un maestro d’arte, o un ceramista, né un fotografo o un pittore; ma è colui che va alla ricerca di tutte le possibili attività per poter creare con-dizioni utili alla crescita, allo sviluppo e all’autonomia delle persone di cui si occupa. È una persona esperta dell’attività, ne deve avere la padronanza, perché ne ha fatto esperienza su se stesso; osserva il soggetto mentre la svolge, insegna attraverso il proprio coinvolgimento, predispone, pianifi ca, è sempre presente, vigilando sulla sicurezza fi sica e psicologica delle persone a lui affi date. Le attività che propone non sempre sono decise a priori (certamente sarà importante pianifi care e programmare, accertarsi che ci siano i materiali, ecc.), ma spesso sono la naturale conseguenza di ciò che si vuole condi-

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16 Se faccio, ricordo

videre: fare qualcosa che sia tangibile, ma non fi ne a se stesso, in quanto l’intenzionalità educativa deve essere una qualità dell’educatore come animatore culturale, perché porta altre esperienze pregresse.

Nel fare tutto ciò il conduttore ha bisogno di:• maturare una consapevolezza diagnostica verso i suoi utenti;• motivare le persone alle attività proposte;• creare un clima e un luogo adatti affi nché l’utente possa

esprimere la propria creatività;• instaurare una relazione con e fra gli utenti attraverso il

«fare»;• essere competente nelle attività che propone.

Maturare una consapevolezza diagnostica verso gli utenti

Per quanto riguarda questo punto, prima di iniziare a la-vorare con qualsiasi persona è necessario che il conduttore dia avvio a quel processo che porta alla sua conoscenza, che Heap (1985) defi nisce «consapevolezza diagnostica». Essa si attiva concentrando e fondendo tre aree di conoscenza e com-prensione:• conoscenze generali sulla persona e, se disabile, sulla pa-

tologia di cui soffre, derivate da addestramento, ricerca, letteratura ed esperienza;

• conoscenze e ipotesi sulla persona derivate da osservazione, interviste, cartella clinica ed esperienza;

• conoscenza derivata da empatia, intuizione: richiamo alla memoria di sentimenti analoghi per comprendere come la persona viva determinate situazioni.

La consapevolezza diagnostica è ciò che ci aiuta a com-prendere ed è continuamente integrata o modifi cata da nuo-ve osservazioni che confermano, respingono o elaborano le impressioni o le ipotesi di cui è composta. L’empatia è sicu-ramente un fattore molto importante, come il calore, l’au-tenticità e l’atteggiamento solidale e comprensivo. Sviluppare la conoscenza e la capacità professionale serve ad aumentare l’importanza della spontaneità, ad assicurare che la nostra ge-nuinità vada a vantaggio dell’utente e non della nostra imma-gine personale (Heap, 1985).

Motivare le persone alle attività proposteNel 1959 lo studioso White (Mason, 2006) aveva asseri-

to che gli esseri umani hanno bisogno di agire con effi cacia nell’ambiente, di sentirsi competenti, altri studiosi (Mason,

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17Introduzione

2006) avevano mostrato interesse per la motivazione delle per-sone a sviluppare abilità e autonomia. Da ciò ha avuto origine il concetto di motivazione intrinseca, quando cioè proviamo soddisfazione mentre ci impegniamo in un’attività che ci piace e di cui siamo competenti senza bisogno di rinforzo. Negli anni Settanta, Deci e Ryan dell’Università di Rochester (USA) (Mason, 2006) hanno elaborato la teoria dell’autodetermi-nazione, secondo cui l’individuo ha la tendenza a sviluppare i vari aspetti della propria personalità e a stabilire relazioni positive con gli altri. Secondo questi studiosi, l’uomo ha tre bisogni fondamentali:• il bisogno di competenza, che lo porta ad accrescere le pro-

prie abilità cercando stimoli per svilupparle;• il bisogno di autonomia, quando le azioni nascono dalla

propria volontà;• il bisogno di relazione con gli altri per appagare il proprio

desiderio di appartenenza, di integrazione.

Naturalmente l’ambiente (scuola, famiglia, lavoro, ecc.) può incoraggiare oppure ostacolare questa tendenza, ma cer-tamente il laboratorio può essere il luogo prototipico per fa-vorire la motivazione intrinseca.

La motivazione intrinseca si ha quando l’individuo si im-pegna in un’attività scelta liberamente, che esegue con sod-disfazione e piacere. Perciò le ricompense sono negative: il premio rende infatti l’attività meno interna, perché esercita una forma di controllo. Invece la persona compie un processo di interiorizzazione quando accetta un comportamento perché lo ritiene importante e coerente con i propri valori. Spesso certi comportamenti sono stimolati da persone signifi cative (genitori, insegnanti, educatori) e vengono eseguiti non solo per ragioni intrinseche, ma anche per ottenere la loro ap-provazione. Il compito di queste fi gure (insegnante, genitore, facilitatore, educatore) è quello di creare le condizioni favo-revoli al comportamento intrinsecamente motivato, un certo grado di autonomia, la possibilità di soddisfare il bisogno di competenza, il lavoro collaborativo, le attività «sfi danti» che gli utenti percepiscono come stimolanti ma non pericolose (Mason, 2006).

Creare un clima e un luogo adatti all’espressione della creatività

Spesso mi sono domandata che cosa signifi chi essere crea-tivi. Chi sa disegnare, dipingere, scolpire è creativo e chi non lo sa fare non lo è?

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18 Se faccio, ricordo

Secondo Erich Fromm (in Anderson, 1975), la creatività è la capacità di avere consapevolezza e di dare risposte. Questa frase mi ha fatto pensare, visto che tutti siamo, in qualche modo, educatori nei confronti di chi ci sta accanto. Per cui è importante che l’educatore assuma l’atteggiamento di vedere l’altro «creativamente», cioè obiettivamente, superando i pro-pri preconcetti, avvicinandosi a lui.

Per questo autore le condizioni necessarie per essere crea-tivi sono perciò varie:• innanzitutto, avere la capacità di meravigliarsi, di sorpren-

dersi, di non dare nulla per scontato. È la dote propria del bambino, ma anche dell’adulto che riesca a sottrarsi al «con-formismo» che gli è stato imposto dall’infanzia e che conservi intatta, per dirla con Pascoli, «l’anima del fanciullino»;

• avere la capacità di concentrarsi, fare una cosa alla volta, bene;

• avere il senso di se stesso e perciò sentirsi paradossalmente tutt’uno con il mondo intero;

• accettare i confl itti e le polarità, sviluppare le differenze, le diversità, perché uguaglianza non signifi ca copia conforme;

• considerare la vita come un processo.

Il desiderio di crescere, la spontaneità, la fl essibilità, l’aper-tura a nuove esperienze, la responsabilità, l’onestà, l’umiltà, l’entusiasmo, la tolleranza, il pensiero divergente sono carat-teristiche della persona creativa, perciò educare alla creatività è educare alla vita.

Non si dovrebbe parlare solo di persone creative, ma anche di «atto creativo», per indicare il processo che mette in rela-zione la persona con il mondo, un processo di progettazione, sperimentazione e di interazione da parte della persona che crea il prodotto. Si sa che un quadro, una scultura, un ma-noscritto, una musica vengono ritoccati, modifi cati, a volte rimangono addirittura incompiuti. Perciò si capisce che senza il processo non c’è prodotto e senza prodotto, cioè la prova del progetto, non si può parlare d’altro che di fantasia. Na-turalmente l’ambiente promuove o ostacola la creatività, a seconda che lasci «uno spazio vitale» all’individuo, oppure lo circoscriva. Il sistema aperto crea un ambiente che stimola l’individuo, gli consente di essere se stesso e di fare nuove esperienze, di interagire con gli altri, in altre parole crea un ambiente favorevole ai rapporti (Anderson, 1975).

Come afferma anche Munari (2008, p. 19),

il mondo esterno all’individuo viene esplorato dall’in-telligenza mediante manipolazioni e operazioni logiche,

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19Introduzione

allo scopo di cercare di capire le cose e i fenomeni che sono attorno a noi. La vista, l’udito, il tatto e tutti gli altri recettori sensoriali si mettono in azione simultaneamente e l’intelligenza cerca di coordinare ogni tipo di sensazione per rendersi conto di ciò che succede. Tutto ciò che viene poi fi ssato in memoria, nei tre settori principali e cioè in quello con funzioni genetiche. Nel settore di breve dura-ta noi ricordiamo tutto ciò che ci serve al momento e che poi non ci serve più: domani alle ore otto devo andare alla stazione. Il pensiero viene ricordato fi no al momento di salire in treno e poi dimenticato. Nel secondo settore conserviamo tutte quelle conoscenze che ci servono per vivere meglio, per fare, per comunicare, per progettare; tutto ciò che ci serve e che ci servirà sempre. Nel settore genetico si trovano tutti quei dati che saranno trasmessi da individuo a individuo da genitori a fi gli. Supplementi alla memoria sono le enciclopedie, gli elenchi, gli archivi, ecc.; aiuti alla memoria sono i grafi ci, i diagrammi, gli schemi, ecc. La memoria di un bambino ha pochi dati. La memoria di un adulto ne ha molti.

Intelligenza

Produzione

Invenzione

Fantasia

Creatività

Immagi-nazione

MemoriaMondo esterno

Il problema della valutazione della creatività è, per ora, senza risposta, in quanto:• i giudici sono alla ricerca di criteri esteriori non tradizio-

nali per valutarla, ma se giudico, uso il mio potere sopra l’individuo e creo un conformista. Un esempio di potere sugli altri combinato con la valutazione esteriore è offerto dall’educazione che prevede premi e castighi. Ai bambini spesso si insegna a non pensare per proprio conto, bensì a cercare l’approvazione, a evitare punizioni e rimproveri piuttosto che ricavare soddisfazione dal proprio operato. In questo modo non si rispetta l’individuo, perché chi viene allevato così rischia di diventare un adulto conformista che non si pone più domande;

• per Rogers (in Anderson, 1975) la condizione fondamentale della creatività è che il giudizio sia interiore, in quanto la soddisfazione viene dall’individuo creatore;

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20 Se faccio, ricordo

• altri considerano la valutazione come qualcosa che emerge dalla partecipazione, dalla reciprocità, dallo scambio, dalla stimolazione reciproca, dall’ambiente favorevole.

Instaurare una relazione con e fra gli utenti attra-verso il «fare»

Nel laboratorio la parola principe è «fare». La stessa della terapia occupazionale (TO). È ad essa che mi aggancio, in quanto fonte di ispirazione e riferimento teorico a cui mi richiamo più spesso nel mio lavoro e nei laboratori orga-nizzati per questo libro, perché è attraverso il fare che si instaura la relazione tra conduttore e partecipanti e tra i partecipanti stessi.

Innanzitutto, che cos’è la terapia occupazionale?

La terapia occupazionale è una professione che pro-muove la salute e il benessere attraverso l’occupazione. L’obiettivo principale della terapia occupazionale è quello di rendere le persone capaci di partecipare alle attività della vita quotidiana. (Cunningham, 2006, p. 29)

In TO l’essere umano è considerato un essere occupazio-nale perché il fare e le occupazioni nella vita sono essenziali alla sua salute. Il terapista occupazionale cerca di individuare le risorse del paziente (sia esso disabile dal punto di vista fi sico o psicologico) per passare a un approccio specialistico. In ge-nere, lo strumento utilizzato per capire le sue risorse è quello della storia occupazionale, cioè la narrazione delle occupazioni a cui il paziente si è dedicato, anche attraverso una raccolta di foto e pensieri in un libro personale, oppure la compilazione della lista degli interessi. Ciò aiuta il paziente ad apprezzare ogni attività proposta come specchio di sé.

Tutte le occupazioni possono essere incluse in tre sfere della vita quotidiana: le attività per la cura di sé, il lavoro o studio e il gioco. Le prime comprendono tutto ciò che è es-senziale per la sopravvivenza della persona: mangiare, lavarsi, vestirsi, fare ginnastica, pregare, ecc.; il terapista può aiutare le persone a raggiungere l’autonomia solo dopo averle atten-tamente ascoltate, visto che persino in situazioni con la stessa disabilità si hanno richieste diverse. Il lavoro è poi essenziale per l’essere umano, perciò il terapista deve cercare soluzioni che permettano la partecipazione al lavoro restituendo così dignità ai propri pazienti. Il gioco è invece ogni tipo di attività che dà piacere: per una persona la stessa attività può essere considerata essenziale, lavoro o gioco a seconda delle circo-stanze. Tuttavia pensare alle proprie attività come parte delle

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21Introduzione

tre sfere della vita è un modo per rifl ettere sul signifi cato che quelle occupazioni hanno per ognuno di noi.

Nell’essere umano è innata la spinta all’autonomia che presuppone la voglia di fare da sé, senza l’aiuto di altri da cui si tenta di separarsi. È evidente che alcuni pazienti possono temere il raggiungimento di questo obiettivo per la perdita di relazione con il terapista. Sicuramente le occupazioni possono curare e le attività vanno graduate per evitare frustrazioni e perché la persona acquisisca progressivamente la capacità di partecipare alle varie attività.

Tuttavia, solo se la persona sarà veramente motivata a una determinata attività, e solo se ci sarà una relazione con il te-rapista attento a ogni forma di comunicazione (gesti, parole, silenzi), si riuscirà a impostare un lavoro di recupero effi cace e globale.

L’ambiente dove svolgere le attività deve essere pieno di stimoli sensoriali (colori, suoni, odori) per attivare le persone. Le attività di gruppo inoltre sono importanti, perché proprio lavorando con gli altri, la persona ha la possibilità di capire se stessa e la propria individualità.

Essere competente nelle attivitàCome ho già detto prima, il conduttore non è né un mae-

stro d’arte né un pittore, ma è importante che abbia le cono-scenze necessarie per poter guidare le persone nel fare.

L’anima tecnica del laboratorio: il settingNelle persone con disturbo di memoria il setting ha una

valenza speciale. È attraverso la disposizione e la visibilità dei materiali, la loro categorizzazione, che la persona si orienta, può trovare ciò che gli serve, può scegliere e determinare com-binazioni sempre diverse, creative.

Lo stesso si può dire per le persone in crescita, che hanno bisogno di un luogo adatto per potersi esprimere, strutturato in modo da permettere l’azione in autonomia.

È attraverso la memoria visiva (Polito, 2002, p. 47) che:• si stimola l’interesse, l’attenzione, grazie alla concretezza, alla

vivacità degli stimoli (colori, forme, dimensioni, prospetti-ve);

• si favorisce la visione d’insieme di molteplici aspetti e og-getti;

• si valorizza il contesto delle informazioni (è facile ricordare che nella scatola lunga arancione ci sono i pennelli, nella scatola grande verde c’è il materiale per il cucito, ecc.).

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22 Se faccio, ricordo

Il setting, quindi, è l’ambiente predisposto per quella specifi ca attività che intendiamo realizzare. Esso deve avere determinate caratteristiche. • Gli oggetti che servono all’attività devono essere facilmente

reperibili dagli utenti, anche attraverso le indicazioni ver-bali (ad esempio, «Maria, la scatola per le forbici è sopra il mobile lungo, dentro una scatolina che ha sul davanti l’immagine delle forbici»).

• L’ambiente deve essere ordinato, dentro e fuori dai mobili. Questo perché l’ordine delle cose e la loro sistemazione fi ssa determinano prevedibilità, quindi sicurezza. Anche le persone con problemi di memoria possono «ricordare» dove cercare determinati oggetti, non solo perché vi sono collocazioni che sono comuni per tutti (come il secchio dell’immondizia solitamente sotto il lavandino), ma anche perché la routine quotidiana permette una ripetizione di azioni che possono fi ssarsi nella memoria (apprendimento implicito). È dunque importante non cambiare la disposi-zione degli oggetti; concordarla insieme potrebbe aumen-tare il coinvolgimento degli utenti.

• Non ci devono essere elementi estranei all’attività che pos-sano:– distrarre l’attenzione;– fare confusione;– essere di intralcio e impedire il movimento delle persone

«in sicurezza»;– essere pericolose (solventi come l’acquaragia, ecc.). La

pericolosità è determinata dallo stato delle funzioni co-gnitive degli utenti.

Sul piano di lavoro devono essere presentati «a compar-sa» gli strumenti per fare l’attività. All’inizio è importante educare all’utilizzo del materiale. A ogni incontro va illu-strato un materiale alla volta, per non creare confusione dando troppi stimoli. In seguito le persone faranno una scelta a priori del colore da usare per il proprio disegno e predisporranno fi n da subito tutto il materiale necessario per disegnare, in autonomia. Questo perché la memoria di lavoro è essenziale per il recupero di indicazioni preceden-temente acquisite; si interpone tra la memoria sensoriale e la memoria a lungo termine ed è controllata da un sistema complesso (Boccardi, 2007).

• Ogni attività, prima di essere proposta, deve essere cono-sciuta dall’educatore, programmata e pianifi cata. Tutto l’oc-corrente deve essere già predisposto all’interno della stanza-laboratorio, onde evitare di assentarsi per reperire ciò che

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23Introduzione

manca. Questo determina un maggior livello di sicurezza e una più rilevante effi cienza dell’azione del conduttore. Per questo motivo sarebbe opportuno avere una stanza dedicata alle attività in cui l’ambiente potrebbe essere costituito da un tavolo ampio con le sedie intorno; uno o più armadi (cassettiere, mobili bassi a ripiani, ecc.) in cui sono collo-cati, in un ordine stabilito di comune accordo con gli ope-ratori, i materiali per la realizzazione delle attività; scopa, paletta e cestino per il riordino della stanza da parte degli utenti; lavello (diversamente, la scelta di una stanza il più vicino possibile a un bagno).

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59La «signora Creta»

Un ringraziamento particolare alla mia «insegnante», Rosa Ma-ria Catena Valori, docente in pensione, con esperienza ventennale di proposte didattiche fatte a braccetto con la «signora Creta», agli alunni della scuola di secondo grado di Polverigi, Ancona.

Perché la creta

Il primo incontro con la signora Creta non è stato facile. Ero molto intimorita, perché al di là delle mie esperienze di bambina, al mare, con la sabbia, utilizzando quello che la spiaggia offriva per giocare alla mamma, in cui i sassi roton-deggianti e bianchi rappresentavano le uova e quelli striati di rosso delle belle porzioni di pancetta, l’unico approccio che avevo con la terra era stato proprio con la «terra terra», quella che andavo a setacciare al parcheggio della Torre di Portono-vo: una terra color panna. Ma, a seconda del menù che avevo intenzione di preparare per il mio bambolotto Angelo, sapevo di luoghi in cui procurarmi una terra un poco più rossiccia, di altri in cui era quasi nera; aggiungendo dell’acqua crea-vo delle «pappette» che rappresentavano sughi, minestrine e quant’altro.

Capitolo 3

La «signora Creta»

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60 Se faccio, ricordo

Quando Rosella, la mia insegnante, mi ha fatto stringere la mano alla signora Creta, debbo dire che la mia presa è stata debole. Paura di offenderla, di farle del male. Un po’ di insicu-rezza, ma forse una gran paura di lasciarmi andare. Perché al primo tocco, ho ricordato, invece, le passeggiate fatte lungo il litorale per arrivare a Mezzavalle e la corsa fi no al Trave, dove la collina precipita nel mare e l’acqua è talmente torbida da far drizzare la pelle dalla paura.

Per cui, quando Rosa ci ha presentate, ho capito che da-vanti a me c’era qualche cosa di conosciuto, ma con cui avevo perso confi denza.

Ho frequentato la casa-laboratorio di Rosa Rosella per un intero anno, una volta la settimana, fi no a diradare gli incon-tri a una volta al mese, quando mi sono sentita più sicura e meno impacciata. Gli incontri si svolgevano di pomeriggio, dopo il lavoro, e ci tengo a dire che non è stato un «corso a pagamento», ma l’inizio di un’amicizia in cui ho avuto il dono di ricevere non una formazione «certifi cata» da includere nel curriculum, ma molto di più.

Ho accorciato le distanze con la signora Creta dopo circa due mesi di incontri, in cui le mie composizioni di fi ori e foglie e uva (molto stereotipate, ma a me piacevano molto, tant’è vero che le conservo per fare un confronto e toccare con mano i miei passi avanti) erano di dimensioni così piccole, che facevano quasi ridere, ma non è mai accaduto che Rosa abbia espresso un giudizio negativo. Al contrario, mi ha sem-pre incoraggiata a fare. A ogni incontro c’era un momento di intervallo, in cui sulla lunga tavola di legno, tolte le tavolette e spostata la signora Creta, Rosa apparecchiava sempre con pizzi e tazzine, per un tè con crostata, oppure per sandwich, pizza e un analcolico. Questo rituale era l’occasione per parlare dei difetti e pregi della signora Creta. «Mi raccomando, — mi diceva Rosella — battila bene, altrimenti le si creano delle arie interne e per dispetto, quando si è seccata, fa un bel botto nel forno e allora si rischia di buttare tutto il lavoro fatto, perché la tipa è un poco scontrosa».

Verso Natale ho iniziato a fare una serie di cuori a cui attaccavo dei colombini ritorti su se stessi, come tanti ghi-rigori. Poi, dopo la cottura, li coloravo con i colori acrilici mescolandoli all’oro o all’argento, per conferire loro maggio-re luminosità, e li infi lavo nel nastro dei miei regali natalizi. In quel periodo ho iniziato a sentirmi meno impacciata e più sicura, perché grazie a Rosa mi ero lasciata andare; allora azzardai un poco e pensai che mi sarebbe piaciuto fare un pesce, ma non un semplice pesce a due dimensioni, bensì

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61La «signora Creta»

tridimensionale. Dopo aver steso una sfoglia di creta con il matterello (come se facessi la pasta), mi domandai come potevo creare un oggetto rotondo e vuoto. Ancora Rosella non mi aveva erudito su questo, e io non avevo chiesto. «Me-glio fare piccoli passi alla volta», mi diceva, e aveva ragione. Ma la voglia di provare era tanta! Da non so quale parte della mia mente è partorita l’idea che, se avessi gonfi ato un palloncino (non inorridiscano i ceramisti o i maestri d’ar-te), lo avrei potuto rivestire con una spessa sfoglia di creta rotondeggiante. Dall’ideazione alla realizzazione il passo è stato breve. Non so come, ma avevo davanti a me una bella palla di creta che volevo trasformare in pesce. Ho fatto degli innesti: un po’ di creta sul dorso per creare la pinna dorsale, un colombino molto lungo e sottile per fare la faccia e divi-

I cuoricini.

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62 Se faccio, ricordo

dere la parte anteriore da quella posteriore; poi le squame, con tante palline, un po’ allungate, che poi ho appiattito con le mani attaccandole con la barbottina, una di seguito all’altra. Con due palline schiacciate ho fatto gli occhi e ho aggiunto anche le ciglia. Infi ne, chiudendo un colombino a cerchio, l’ho posizionato sotto al pesce per fare una specie di piedistallo.

Nella fretta di togliere il palloncino (forse per paura che, nel momento in cui la creta si fosse ritirata, questo sarebbe rimasto attaccato all’interno) ho fatto un’apertura dietro al pesce, con un ago l’ho bucato e… puff! Il pesce si è lette-ralmente affl osciato su se stesso, adagiandosi sulla tavoletta e inglobando dentro di sé il piedistallo. Ma non tutto era perduto. Ho pensato di chiudere il buco applicandovi una specie di fi occo sull’apertura, un’altra pinna, che a ragion del vero non so neppure se un pesce ce l’abbia e se sia fatta così.

Ho seguito la sua essiccazione giorno dopo giorno e, quando da grigio scuro è diventato chiaro, l’ho portato da Rosella, insieme ad altre sciocchezzuole che avevo fatto, per essere cotto.

Ma ahimè, la signora Creta, che è proprio una dispettosa con la «d» maiuscola, dopo l’essiccazione diventa così fragile che ogni minimo urto può esserle fatale, soprattutto per le parti dell’oggetto che sono sporgenti o sottili. Al mio pesce si era rotto un pezzo di ciglia, per cui, dopo il primo doloroso

Il pesce di creta.

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63La «signora Creta»

accertamento, staccai un pezzo anche all’altra (foto sottostan-te) ciglia, per eguagliare le parti. E devo dire che quasi quasi alla fi ne mi piaceva di più così, proprio perché quella parte rotta creava una sorta di memoria, il monito di un errore da non ripetere.

Quando poi ho avuto l’oggetto cotto, con tutti i com-plimenti di Rosa, la quale non è inorridita al racconto dei miei goffi tentativi, il problema è stato affrontare la signora Coloritura. Rosella me l’aveva presentata e mi aveva fatto vedere e provare i colori acrilici. Rispetto ai primi tentativi sulle foglie e sui fi ori del mio primo periodo, un poco mi sembravo migliorata. Ma il punto, mi ero detta, non era tanto il risultato: in fi n dei conti poteva essere un esperi-mento, un tentativo, una prova; era piuttosto quella vocina un po’ fastidiosa che dentro mi diceva: «Hai fatto un corso di pittura? Sei certa di saper colorare?». E automaticamente la risposta era «No, no».

Albergavano dentro di me delle resistenze, che sono riu-scita a vincere proprio colorando quel pesce, ripetendomi ciò che dico ai miei pazienti quando lavoriamo insieme e loro mi chiedono se hanno scelto il colore giusto per colorare un certo disegno: «Non chiedetemi quale colore, scegliete quello che vi piace! Chi sono io per decidere il colore con cui rappresentare la vostra mela? Mica dovete farla per forza gialla, o verde, o rossa. E se vi piacesse una mela viola? O azzurra?».

Questa nuova attività in cui mi ero buttata a capofi tto, iniziava a essere un po’ sofferta, perché le signore Creta a Coloritura erano un poco ingombranti e la mia casa stava assumendo l’aspetto di un’offi cina.

Un giorno di ferie e sei ore di lavori forzati e ho arredato l’abitazione per le due signore nella cantina-garage di un’ami-ca, che gentilmente mi ha dato in prestito. Adesso dispongo di un piano di lavoro, tutto in legno, montato su dei cavalletti, ho alcuni ripiani su cui poggiare i miei lavoretti e tutte le cose che possono essermi utili quando iniziamo a chiacchierare tutte e tre fi no alle due del mattino.

Il mio laboratorio è costruito utilizzando la mia logica delle scatole, per cui me ne sono dipinte alcune per contenere tutto quello che mi serve. Adesso, quando ho un poco di tem-po, mi rifugio lì e posso interrompere il mio lavoro, coprirlo con uno straccio umido e avvolgerlo in una busta di plastica, per impedire che si secchi, se immagino che da lì a due-tre giorni non riuscirò a tornare.

Dopo aver sperimentato su me stessa che la signora Creta è un’amica impagabile, e appurato che a me faceva un così

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3Introduzione

Durante i miei studi universitari ho avuto modo di rifl et-tere sull’importanza di maturare una consapevolezza diagno-stica verso gli utenti. Nel mio lavoro con le persone anziane, malate di Alzheimer e rese disabili dall’evolversi della patolo-gia, ho capito che la conoscenza che avevo di loro (data dalla loro storia personale, di salute, dai loro familiari, aggiornata dall’osservazione-interazione giornaliera), non era suffi ciente o, come dire, non andava a creare quel quadro completo tale da permettermi di mettere a fuoco ogni loro singolo com-portamento-problema. Sono riuscita a vivere meglio la mia relazione con loro, dal punto di vista umano e professionale, quando ho ampliato la mia competenza con una buona dose di conoscenze generali sulla patologia attraverso la letteratura, i colloqui con alcuni psicologi e confronti con i colleghi.

Nel pensare ai principali presupposti teorici da proporre in questo libro e collegare ai mediatori presentati, ho ritenuto adeguate ed esaurienti le seguenti argomentazioni.• Organizzazione funzionale dei processi cognitivi. È infatti im-

portante conoscere quali sono e come funzionano le funzio-ni psichiche superiori. Tale tema è presentato e svolto nel capitolo 1.

• Il gioco nel bambino: un lavoro per crescere. Ho scelto di parlare del gioco nel bambino nel capitolo 2, per sottoline-are quanto esso sia importante per il suo sviluppo. Questa conoscenza può essere la base di partenza da cui far poi scaturire una rifl essione sull’importanza del gioco anche nell’adulto che, come cita la terapia occupazionale, nell’arco della sua giornata svolge attività rivolte alla cura di sé, di lavoro o studio e di gioco, per cui quest’ultimo può essere considerato uno strumento di motivazione a «fare».

• Nel segno del tempo: persona e memoria nella rifl essione socio-logica. Nel parlare della storia di vita delle persone, dell’im-portanza che riveste la fotografi a nella ricostruzione della

Introduzione

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4 Se faccio, ricordo

memoria autobiografi ca, della propria identità, il capitolo 3 può offrire lo spunto per meditare sull’importanza della storia individuale che diventa storia collettiva, della società.

• L’alba e il tramonto: fenomenologia dell’invecchiamento. In una società come quella italiana, in cui la prospettiva di vita è alta, ho ritenuto utile proporre una rifl essione, nel capitolo 4, anche sull’ultimo stadio della vita e su come le funzioni cognitive e di memoria si modifi chino, in assenza di malattia, seguendo un percorso naturale, sano.

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5Organizzazione funzionale dei processi cognitivi

Introduzione

La neuropsicologia cognitiva è una scienza sperimentale che studia i processi cognitivi e comportamentali, correlandoli con i meccanismi anatomo-funzionali che ne sono alla base. Essa utilizza osservazioni su pazienti con lesioni cerebrali, allo scopo di inferire il funzionamento normale del sistema cogni-tivo. Si inserisce nell’ambito delle neuroscienze, assumendo carattere di interdisciplinarità, in quanto si serve di contribu-ti di neurologia, neuroanatomia, neurofi siologia, psicologia, linguistica, ecc.

Oggetto di interesse sono le funzioni psichiche superiori, quali l’attenzione, il comportamento adattativo, la memoria, il linguaggio, la percezione, ma anche aspetti del comportamen-to emotivo e sociale suscitano l’interesse dei neuropsicologi alla ricerca del loro correlato anatomo-fi siologico.

Capitolo 1

Organizzazione funzionale dei processi cognitiviLucia Paciaroni e Susy Paolini*

* Lucia Paciaroni, psicologa e psicoterapeuta, e Susy Paolini, psicolo-ga, specializzata in Neuropsicologia, lavorano entrambe presso l’Uni-tà di Neurologia dell’INRCA di Ancona, occupandosi di diagnostica neuropsicologica nell’invecchiamento cerebrale, di interventi cogni-tivo-riabilitativi, nonché di sostegno psicologico al caregiver.

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6 Se faccio, ricordo

Sebbene già in epoca egizia e romana fossero state docu-mentate osservazioni di defi cit cognitivi conseguenti a lesioni cerebrali, solo nel XIX secolo sono emersi i primi studi scien-tifi ci sull’argomento.

I modelli sui correlati anatomo-funzionali delle abilità co-gnitive hanno dato luogo a posizioni contrastanti: da un lato si sono avute teorie localizzazioniste — in qualche caso anche estreme —, secondo le quali ogni parte del cervello svolge una funzione differente e separata. Dall’altro sono emerse visioni olistiche del funzionamento cognitivo, che ipotizzano il coin-volgimento dell’intero cervello anche per specifi che funzioni.

La neuropsicologia cognitiva moderna ha superato tale dicotomia, ipotizzando l’esistenza di circuiti che collegano più aree cerebrali e che garantiscono il corretto svolgersi di una funzione. Pertanto una stessa struttura cerebrale, essendo coinvolta in più circuiti, può eseguire compiti diversi.

Attenzione e funzioni esecutive

Componenti delle funzioni attentiveL’attenzione può essere defi nita come il meccanismo mo-

dulatore di tutte le attività mentali, attraverso processi di fi l-traggio e di organizzazione delle informazioni, che provengo-no sia dall’ambiente esterno, sia da quello interno.

Pertanto l’attenzione non può essere pensata come un’en-tità unitaria, ma come una serie di processi che variano lungo due dimensioni quali la selettività e l’intensità (Van Zomeren e Brouwer, 1994).

SelettivitàAttenzione focale

Attenzione divisa

IntensitàAllerta

Attenzione sostenuta

Sistema attentivo supervisore

Componenti dell’attenzione (modifi cato da Van Zomeren e Brouwer, 1994; Zoccolotti et al., 1996).

Rispetto alla dimensione di selettività, è possibile indivi-duare un tipo di attenzione che permette di concentrarci e di fi ltrare alcune informazioni rispetto ad altre, chiamata atten-

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7Organizzazione funzionale dei processi cognitivi

zione selettiva o focale. Ad esempio, immaginiamo di cercare in un gruppo di persone il nostro amico con il maglione rosso: per fare ciò dobbiamo individuare lo stimolo target (maglione rosso) e ignorare gli stimoli distrattori (maglioni gialli, bian-chi, ecc.), che fungono da interferenza. Quando l’attenzione selettiva cade, il soggetto diventa distraibile.

Si parla di attenzione divisa, invece, quando focalizziamo l’attenzione su due target contemporaneamente e quindi ela-boriamo informazioni provenienti da più sorgenti. Questo avviene quando svolgiamo nello stesso momento due compiti, come ad esempio cantare e cucinare. Le prestazioni migliorano se uno dei due compiti viene svolto in maniera automatica e non richiede un grande sforzo cosciente da parte del soggetto.

Per quanto riguarda la dimensione di intensità, si ha una situazione di allerta quando al soggetto viene chiesto di rispondere prontamente a uno stimolo target che appare nell’ambiente. Ad esempio, se un pedone attraversa la strada mentre stiamo guidando, improvvisamente ci attiviamo e au-menta il nostro livello di allerta. In genere si distingue un’al-lerta fasica, che consiste nella repentina capacità di risposta in occasione della comparsa del segnale, e una componente di allerta tonica, che consiste nel mantenere l’attivazione atten-tiva per un intervallo di tempo abbastanza lungo.

Quando dobbiamo garantire un livello continuativo di at-tenzione in compiti ripetitivi e prolungati, dobbiamo ricorrere a un’ulteriore risorsa cognitiva chiamata attenzione sostenuta. Questa abilità è richiesta, ad esempio, quando ci troviamo a guidare per tante ore su un’autostrada senza traffi co, dove non si verifi cano situazioni di emergenza e quindi di allerta.

Il sistema attentivo supervisoreLe nostre risorse attentive sono limitate sia nell’intensità

che nella durata. In genere i compiti nuovi vengono svolti attraverso un processo controllato e richiedono uno sforzo attentivo maggiore, mentre compiti noti vengono svolti in maniera routinaria attraverso un processo automatico, che ne-cessita di minore attivazione attentiva. È questo l’assunto alla base del modello dell’attenzione di Norman e Shallice (1986). Secondo gli autori esistono comportamenti automatici (con-tenting scheduling) scatenati da stimoli ambientali e messi in atto senza supervisione consapevole da parte del soggetto. Tale procedura funziona fi nché non interviene qualcosa di insolito, che interrompe lo schema automatico e richiede l’attivazione di un nuovo schema. A questo punto entra in gioco il siste-ma attentivo supervisore che, attraverso uno sforzo attentivo

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8 Se faccio, ricordo

cosciente da parte del soggetto, controlla il comportamento, fermando le risposte automatiche e adottandone altre più ade-guate alla nuova situazione.

Il sistema attentivo supervisore non solo risulta trasversa-le rispetto a tutte le componenti dell’attenzione, ma permette di regolare anche tutte le altre funzioni cognitive, sensoriali e motorie. Ciò avviene attraverso il monitoraggio strategico dell’ambiente, l’orientamento dell’attenzione ai vari aspetti della situazione stimolo e l’organizzazione delle risposte più adeguate.

L’epicentro sembra essere la corteccia prefrontale, per cui un danno in questa zona comporta un’incapacità a fronteggia-re compiti nuovi e complessi per i quali non sono suffi cienti gli schemi di comportamento automatico.

Le funzioni esecutiveLe abilità di regolare, controllare e inibire l’azione in vista

di un obiettivo sono aspetti fondamentali dell’intelligenza umana e, nel corso dell’evoluzione, hanno facilitato l’adatta-mento in ambienti complessi. Queste abilità cognitive pren-dono il nome di funzioni esecutive e comprendono, oltre ai processi attentivi sopra menzionati, il ragionamento verbale, il problem solving, la pianifi cazione, la fl essibilità cognitiva e l’utilizzo dei feedback.

Si tratta di un costrutto molto noto nella psicologia co-gnitiva, ma ancora oggi assistiamo a una scarsa chiarezza o addirittura a un dibattito aperto sulla loro vera natura.

Sicuramente tutti gli autori concordano nel ritenere che siano abilità cognitive complesse e importanti per facilitare l’adattamento all’ambiente.

Sono state tentate numerose defi nizioni delle funzioni ese-cutive, delle loro possibili componenti e delle variabili che le misurano.

Rispetto alla loro struttura ci sono due ipotesi contrappo-ste: secondo la teoria dell’unità, le funzioni esecutive consisto-no in un’unica abilità centrale, come ad esempio l’intelligenza generale o la memoria di lavoro, mentre la teoria della non unità sostiene che esse consistono in processi multipli e distin-ti. Esiste anche una posizione intermedia, secondo la quale le funzioni esecutive sono costituite da numerose componenti separate, ma in buona parte correlate (per una rassegna, si veda Jurado e Rosselli, 2007).

Si può quindi pensare a un macro-costrutto, in cui nu-merose componenti esecutive lavorano in collaborazione e permettono al soggetto di trovare soluzioni ai problemi e prendere decisioni in situazioni complesse.

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9Organizzazione funzionale dei processi cognitivi

Un modo per categorizzare le varie componenti è stato quello di suddividerle in «fredde» e «calde». I processi freddi consistono in abilità cognitive logiche e meccaniche, che non coinvolgono la sfera emotiva. I processi caldi si riferiscono a stati emotivi quali il controllo degli impulsi, i meccanismi di rinforzo e punizione, la regolazione del comportamento so-ciale, i processi decisionali che coinvolgono aspetti emozionali e interpersonali.

C’è accordo tra gli autori nel sostenere che, dal punto di vista evoluzionistico, lo sviluppo delle capacità esecutive sia correlato allo sviluppo delle aree frontali del cervello umano.

Ricerche di neuroimaging hanno confermato il coinvol-gimento del lobo frontale nello svolgimento di compiti ese-cutivi. Sebbene i primi studi suggerissero un interessamen-to globale delle aree frontali e in particolare della corteccia prefrontale, ricerche più recenti hanno evidenziato che i vari compiti esecutivi sono sottesi da differenti regioni del lobo frontale e sono interessati anche alcuni circuiti cortico-sotto-corticali e vie talamiche.

In una rassegna, Royall (Royall et al., 2002) sottolinea l’importanza di alcuni circuiti neurali che hanno origine nel lobo frontale e inviano proiezioni ai gangli della base e al talamo. In particolare ne sono stati individuati tre: il circuito dorsolaterale prefrontale, che sembra implicato nei processi cognitivi quali la pianifi cazione, la selezione degli obiettivi, lo spostamento dell’attenzione, la memoria di lavoro e l’automo-nitoraggio; il circuito laterale orbito-frontale, che è coinvolto nel controllo del comportamento emotivo e sociale quale la valutazione del rischio, l’inibizione di risposte comportamen-tali inappropriate; il circuito cingolato anteriore, che ha un ruolo determinante nei comportamenti di feedback e auto-correzione degli errori.

Attualmente si ritiene che le funzioni esecutive consistano in un’ampia gamma di abilità, che coinvolge numerose aree cerebrali in tutto l’encefalo, ma che è orchestrata dal lobo frontale, attraverso le numerose connessioni con le aree po-steriori e i nuclei della base.

La memoria

Sistemi di memoriaNel linguaggio comune la memoria è sempre immaginata

come un sistema unitario. In realtà ci sono evidenze scienti-