23
11 Presentazione dell’edizione italiana (M.L. Raineri) 15 Introduzione (K. Jones, B. Cooper e H. Ferguson) PRIMA PARTE Prospettive di analisi 29 CAP. 1 Cosa significa «buona prassi»? L’approccio critico- riflessivo (H. Ferguson) • In cerca di buone prassi • Un lavoro sociale critico e riflessivo • Un esempio: la famiglia G. • Cosa è stato fatto bene? • Effetti contraddittori degli interventi di controllo • Empatia, abilità, giudizio critico • Interventi di controllo e specificità culturali • Conclusioni 53 CAP. 2 Questioni di potere. Dilemmi nell’assistenza agli adulti (A. Gardener) • L’approccio antioppressivo (e i suoi limiti) • Colin e Mary: qual è la parte debole? • Sandra: un datore di lavoro difficile • Simon: quale autodeterminazione? • Conclusioni 71 CAP. 3 Amelia e la sua casa. Una buona prassi nell’ambito della demenza senile (K. Jones e I. Powell) • Un’anziana confusa • Primo contatto e assessment • Gli operatori di fronte alla demenza • Non dare niente per scontato • Tollerare l’incertezza • Bisogni degli anziani e bisogni dei caregiver • Un luogo sicuro • Conclusioni 87 CAP. 4 Lasciarsi coinvolgere. Una buona prassi nell’ambito della salute mentale (C. Keeping) • Essere e fare • Qualche riferimento teorico • La crisi: il mio primo incontro con Jane Indice

Lavoro per bene - shop.erickson.itshop.erickson.it/front4/Image/Products\LIBRO_978-88-6137-388-4_X15... · lavorare bene (J. Thomas e K. Spreadbury) • Esperienze di supervisione

Embed Size (px)

Citation preview

11 Presentazione dell’edizione italiana (M.L. Raineri)

15 Introduzione (K. Jones, B. Cooper e H. Ferguson)

prima parte Prospettive di analisi

29 CAP. 1 Cosa significa «buona prassi»? L’approccio critico-riflessivo (H. Ferguson)

•Incercadibuoneprassi•Unlavorosocialecriticoeriflessivo•Unesempio:lafamigliaG.•Cosaèstatofattobene?•Effetticontraddittoridegliinterventidicontrollo•Empatia,abilità,giudiziocritico•Interventidicontrolloespecificitàculturali•Conclusioni

53 CAP. 2 Questionidipotere.Dilemminell’assistenzaagliadulti(A. Gardener)

•L’approccioantioppressivo(eisuoilimiti)•ColineMary:qualèlapartedebole?•Sandra:undatoredilavorodifficile•Simon:qualeautodeterminazione?•Conclusioni

71 CAP. 3 Ameliaelasuacasa.Unabuonaprassinell’ambitodellademenzasenile(K. Jones e I. Powell)

•Un’anzianaconfusa•Primocontattoeassessment•Glioperatoridifronteallademenza•Nondarenienteperscontato•Tollerarel’incertezza•Bisognideglianzianiebisognideicaregiver•Unluogosicuro•Conclusioni

87 CAP. 4 Lasciarsicoinvolgere.Unabuonaprassinell’ambitodellasalutementale(C. Keeping)

•Essereefare•Qualcheriferimentoteorico•Lacrisi:ilmioprimoincontroconJane

I n d i c e

•Ilcontenimentoemotivo•Ibisognidichilavoraconleemozioni•Ilricoveroinospedale•L’assistenzasuccessiva•Ilsostegnoemotivo:stabilitàeaffidabilità•IlmiolavoroconJane,oggi

103 CAP. 5 Laforzadelleparole.L’avviodiuncolloquioconunpadreviolento (B. Cooper)

•Lavorosociale,relazionielinguaggio•IlcolloquioconAdam•L’aperturadelcolloquio•Unimprevisto•Traempatiaecontrollo•Darevoceallaminore•Allaricercadiunterrenocomune•Conclusioni

seconda parte Percorsi di aiuto

125 CAP. 6 Negoziarecollaborazione.Uncolloquioconunpadreviolento(continua) (B. Cooper)

•L’assessmentnellavorosociale•Ètornatotuttoaposto?•Riaprirelanegoziazione

143 CAP. 7 Attraversolacrisi.Unabuonaprassinellatuteladeiminori(S. Leigh e A. Farmer)

•Sestessicomestrumentodilavoro•Riscoprirelapropriaprofessionalità•L’interventodell’assistentesociale•Unacomunicazioneapertaedempatica•Lachiusuradelprocedimentoegliultimitremesi•Conclusioni

165 CAP. 8 Percostruirefiducia.Gestionedelrischionellatuteladeiminori(H. Ferguson)

•Riferimentiteorici•IlcasodellafamigliaSmith•Coinvolgerelamamma•Migliorarelecapacitàgenitoriali•Icolloquiconlaminore•Lavorareconleemozioni•Qualegestionedelrischio?•Padronanzasullapropriavitaerelazionifamiliaridemo-cratiche

183 CAP. 9 Luilodiràperte.Uninterventodiadvocacy ben riuscito (J. Dalrymple e H. Horan)

•Gliinterventidiadvocacyafavoredibambini eragazzi

•Advocacyepraticaprofessionalecritico-riflessiva•LavicendadiMatty•LapartecipazioneallaCommissioneditutela•IlcontributodiMatty•Un«terzo»neutrale•Elementichiavenegliinterventidiadvocacy

201 CAP. 10 Chiaiutachi?Unabuonaprassinellatuteladegliadulti(K. Jones e K. Spreadbury)

•IconiugiBrown•Carenzenellanormativa?•Iprimipassaggi•L’incontroiniziale•Esitodellaprimariunionediéquipe•Costruireilrapportocongliutenti•LasignoraBrown•IlsignorBrown•Lapianificazionedell’intervento•Conclusioni

217 CAP. 11 Laparolaagliutenti.Unabuonaprassinell’ambitodelladisabilità(J. Coles e P. Connors)

•Perchécoinvolgeregliutentinellaformazionedeglioperatori?

•Unvideoperineoassunti•Levocidegliutenti•Indipendenza,sceltaeautonomia•Retaggidelpassato•Comportamentodellostaffassistenziale•Laprovadelnove:lereazionialvideo

233 CAP. 12 Decisioniimmediate.Unabuonaprassinell’urgenzapsichiatrica(J. O’Gara)

•Interventicoattiecontestonormativo•Raccogliereeinterpretareleinformazioni: uncompitocomplesso

•L’assessment•Ladecisionedell’équipe•Unviaggiosicuro•Collaborazioneinterprofessionale•Ilpuntodivistadegliutenti•Conclusioni

terza parte Dentro le organizzazioni

255 CAP. 13 Attraversareiconfini.Unastoriadicollaborazione(P. Taylor, K. Jones e D. Gorman)

•Illavoroinpartnership•Ilcontestodellavicenda:ilServiziocureintegrate•IlsignorGreen•L’incontrodiprogrammazione•Costruirepartnership•Unannodopo…

271 CAP. 14 Supervisioneesupportofracolleghi.Qualiaiutiperlavorarebene(J. Thomas e K. Spreadbury)

•Esperienzedisupervisione•Lasupervisionegestionaledapartedelpropriodirigente•Lasupervisioneprofessionale•Dinamichedipotere•Ilgiocodeiruoli•Un’esperienzadisupervisionedidattica•Sostegnoinformaleeincontridiéquipe•Gruppi,apprendimentofrapari,comunitàprofessionali•Conclusioni

287 CAP. 15 Burocratideipianibassi?BuoneprassinelrapportoconlapropriaOrganizzazione(B. Senior e E. Loades)

•Capireleorganizzazioni:perchéèimportante•Managerialismo,professionalismoeburocrazia•Sullalineadiconfine•Lavitaemotivadelleorganizzazioni•Sapereesaperfare,alivelloorganizzativo

305 Riflessioniconclusive(K. Jones, B. Cooper e H. Ferguson)

11Presentazione dell’edizione italiana

2Presentazione

dell’edizione italiana

Con Lavoro per bene viene proposta agli operatori sociali italiani un’opera che si segnala per la sua spiccata originalità, non solo nel nostro panorama locale ma anche nella letteratura internazionale di settore. È un libro impostato su una rassegna di casi reali ben riusciti, raccontati partendo dalle parole degli operatori che ne hanno davvero accompagnato gli sviluppi.

Quasi tutti gli assistenti sociali, credo, si sono sentiti almeno una volta in difficoltà di fronte a una domanda apparentemente banale come: «In cosa consiste il vostro lavoro?». Questo libro contiene una risposta vivida, concreta, ben comprensibile e mai semplicistica. Una lettura da consigliare (anche per singoli capitoli) a chi voglia capire cosa fanno e cosa potrebbero fare gli assistenti sociali: da segnalare agli amministratori, ai dirigenti, ad altri professionisti che si trovano a interagire con il mondo del «sociale».

Forse qualcuno potrebbe temere una rappresentazione fuorviante per la diversità di contesto: gli autori scrivono di operatori e servizi inglesi e, infatti, è stato a volte necessario inserire in nota qualche chiarimento o operare qualche scelta di tradu-zione non letterale. Ad esempio, abbiamo scelto di utilizzare la dizione «assistente sociale» (e non il più generico «operatore») quando l’insieme delle funzioni svolte dal social worker in questione in Italia sarebbero state attribuite a un assistente sociale. Ed è al servizio sociale professionale che possono essere ricondotti i profili di quasi tutti i «protagonisti» del libro. Alcune volte, invece, abbiamo preferito la traduzione «educatore», riferendoci al nostro educatore sociale extrascolastico (in Gran Bretagna non c’è una netta distinzione fra le due figure). Si tratta comunque di aggiustamenti di scarso rilievo: il lettore italiano coglierà facilmente che le funzioni professionali

12 lavoro Per bene

svolte sul campo, pur in due Paesi diversi, restano in sostanza le stesse. Ciò può sorprendere, poiché siamo abituati a concepire il servizio sociale come una profes-sione imprescindibilmente «legata» al proprio contesto territoriale e normativo. Ed è senz’altro così se guardiamo all’assistente sociale limitandoci a coglierne il ruolo di funzionario della Pubblica Amministrazione o di un Ente ad essa collegato, incaricato di distribuire prestazioni secondo determinati criteri fissati dai regolamenti del suo ente o di eseguire puntualmente determinate procedure amministrative: in tal caso, è ovvio che queste funzioni esecutive assumeranno contorni diversi a seconda del contesto amministrativo di riferimento. Ma questo volume mostra con chiarezza — se mai ve ne fosse bisogno — che il servizio sociale è molto più di una distribuzione burocratica di prestazioni e trova la propria identità professionale, trasversale a contesti e a Paesi diversi, nella finalità di sostenere le relazioni fra persone affinché riescano a meglio affrontare la propria vita, con i bisogni e le aspirazioni che la caratterizzano (Folgheraiter, 2007; Hare, 2004).

Detto ciò, va sottolineato che la rappresentazione sfaccettata del lavoro degli assistenti sociali è solo il più superficiale dei livelli di lettura cui si presta il volume. L’intento degli autori, come si leggerà, è ben altro. Si va oltre il racconto per adden-trarsi nei significati e nell’analisi delle azioni professionali.

Gli autori narrano e insieme vanno alla ricerca di interventi ben riusciti. Le buone pratiche presentate nel volume non sono definite tali in base a criteri oggettivamente prefissati. Piuttosto, viene delineato una sorta di processo induttivo per cui, a fronte di una vicenda i cui esiti sono percepiti positivamente dagli interessati (gli operatori, in primis, ma altrettanto le persone destinatarie dell’aiuto), l’assistente sociale si è coinvolto in una esplorazione degli elementi sottesi a questa percezione «buona». Le analisi proposte costituiscono l’esito di tale esplorazione.

Così, oltre a raccontarci cosa fanno gli assistenti sociali, il testo dà conto anche di cosa pensano quando lavorano bene, di quali ragionamenti portano alle decisioni e all’operatività, di quali emozioni attraversano la relazione di aiuto e di come diven-gono esse stesse oggetto di consapevolezza e di riflessione. In tal modo, il libro apre una finestra interessante su come gli operatori «bravi» utilizzino in chiave riflessiva la metodologia, le conoscenze teoriche e i principi etici.

Il quadro complessivo che ne risulta, a sua volta, stimola a focalizzare quali tratti trasversali accomunino gli esempi di lavoro sociale ben riuscito, andando anche al di là di quanto esplicitamente spiegato dagli autori. Come ogni libro davvero buono dovrebbe riuscire a fare, questo volume sollecita il lettore a sviluppare ulteriore pensiero per proprio conto e gliene offre materia, dato che molte delle esperienze proposte sono documentate in maniera così approfondita da consentire una qualche analisi parzialmente autonoma da quella degli autori. Ecco, allora, alcune brevi sottolineature in questa direzione.

Anzitutto, nel resoconto del lavoro con singoli casi potrà forse colpire — visti i continui rimandi teorico-metodologici — la mancata esplicitazione delle note fasi del

13Presentazione dell’edizione italiana

processo di aiuto tanto care al servizio sociale classico. Non che manchi la proget-tazione, ma la centratura è piuttosto sulle interazioni interpersonali e sui processi di pensiero attraverso cui i progetti vengono costruiti. Infatti, come evidenziano anche gli autori, in molti casi la bontà del lavoro svolto non sta tanto negli esiti, quanto invece nel come si è giunti fin lì. Un processo è giudicato buono, ex post, perché ha saputo coinvolgere fin dove possibile le persone, mantenendo la fluidità, l’incertezza e il grado di rischio necessari per poter restare aderente alla vita, invece di piegarla artificialmente a logiche apparentemente più razionali e forse rassicuranti, ma meno efficaci (e quindi, in definitiva, anche meno razionali di quanto sembri).

L’ottica di riferimento da cui prendono avvio le analisi è prevalentemente di stampo anti-oppressivo (Dominelli, 2002; 2004; Laird, 2008): si tratta di un approccio non ancora molto conosciuto in Italia, anche se sono ben noti i principi di rispetto della persona e del diritto all’autodeterminazione, contenuti nel nostro Codice deontologico, che ne richiamano i presupposti. L’idea centrale è quella di non contribuire inconsapevolmente alle dinamiche sociali, culturali ed economiche che creano povertà, emarginazione, disuguaglianza nelle opportunità. Sul piano operativo si tratta di non imporre all’utente le scelte degli operatori e, anzi, di aiutarli a sviluppare i propri progetti di vita, accompagnando a leggere e contrastare i fattori strutturali che ne limitano la realizzazione, in maniera da non attribuire al singolo la «colpa» esclusiva delle proprie difficoltà.

È a questo punto che, come notano anche gli autori di alcuni capitoli, i principi anti-oppressivi e il diritto all’autodeterminazione si confrontano con la complessità etica delle situazioni concrete, nelle quali una stessa persona è spesso oppressa e contemporaneamente opprime altri, non le viene data la possibilità di scegliere per sé e, insieme, è lei a limitare l’autorealizzazione altrui. O, ancora, costituisce una risorsa importante per un proprio caro, ma al contempo non è in grado di reggere tale responsabilità, risulta maltrattante e ha lei stessa bisogno di aiuto. In queste situazioni salta qualsiasi semplicistico schema vittima-oppressore. Il libro mostra che per sviluppare il processo di aiuto sono necessarie profonde capacità riflessive: sia nel senso di una ponderazione individuale, nella testa del singolo professionista, sia nel saper accompagnare gli interessati a ragionare scelte condivise.

In parallelo, l’approccio anti-oppressivo conduce, per così dire, a quello critico: trovare la strada per esercitare il proprio ruolo professionale in maniera non oppressiva comporta analizzare con attenzione come viene utilizzato il potere nelle relazioni di aiuto. Ora, qualsiasi concezione dell’aiuto che sia «centrata sugli esperti» comporta un intrinseco sbilanciamento di potere: alle persone si chiede di rinunciare a scegliere e a esercitare controllo sulla propria vita perché, per risolvere le difficoltà, devono «consegnare» il proprio problema nelle mani di chi sa come fare, e poi collaborare alla soluzione eseguendo ciò che l’esperto prescrive. Come ben ci ha insegnato Illich (1977), questa idea sottesa all’intervento degli operatori specializzati sottrae alle persone non solo concrete abilità di soluzione, ma — a monte — il senso di potercela fare

14 lavoro Per bene

agendo in prima persona, la percezione del valore del proprio prendere l’iniziativa per migliorare la propria vita. Per gli operatori sociali, lavorare bene significa lavorare per il bene delle persone in difficoltà. Ma quale sia questo bene è difficile a dirsi in maniera oggettiva, incontrovertibile, slegata dal sentire dei diretti interessati. Come si può dire «dall’esterno» quale sia il bene di qualcun altro, a prescindere dalle sue percezioni e dalla sua opinione? Ma, d’altra parte, se questo qualcuno, disorientato in mezzo a un vivere faticoso, fosse lasciato solo nel cercare di definire il suo «bene», allora non potremmo nemmeno parlare di aiuto.

Interrogandosi sull’operatività concreta, la pratica anti-oppressiva descritta in questo libro sembra aprire la strada alla relazionalità, cioè a una prospettiva in cui l’aiuto scaturisce dal mettere in relazione le competenze e le capacità dell’operatore con le conoscenze esperienziali di chi attraversa la situazione di difficoltà (Folgheraiter, 2007; 2008). Non ci si aspetta che le persone si affidino all’operatore, ma invece si cerca di sollecitare anzitutto la loro capacità di riflettere e di agire, di trovare, se possibile, soluzioni che sentano adatte a loro stesse.

L’operatore sta dalla parte dell’utente motivato, dando fiducia sin dove sia ragionevole farlo, anche nei contesti di controllo e di crisi. Non ritroviamo, nel testo, una prospettiva relazionale pienamente concettualizzata. Mi sembra però interessante notare come essa scaturisca «di fatto» dalle riflessioni e dall’agire degli operatori, così come vengono descritte nel volume. Un po’ come a dimostrare che l’aiuto, quando c’è davvero, non può che essere co-costruito, relazionale.

Maria Luisa RaineriUniversità Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Bibliografia

Dominelli L. (2002), Anti-Oppressive Social Work Theory and Practice, London, Pal-grave.

Dominelli L. (2004), Social work. Theory and practice for a changing profession, Polity Press. Trad. it. Il servizio sociale. Una professione che cambia, Trento, Erickson, 2005.

Folgheraiter F. (2007), La logica sociale dell’aiuto. Fondamenti per una teoria relazionale del welfare, Trento, Erickson.

Folgheraiter F. (2008), Saggi di welfare, Trento, Erickson.Hare I. (2004), Defining social work for the 21st century. The International Federation

of Social Workers revised definition of social work, «International Social Work», vol. 47, n. 3, pp. 407-424. Trad. it. Cos’è il lavoro sociale. La definizione internazionale approvata a Montreal nel 2000, «Lavoro Sociale», vol. 6, n. 2, 2006.

Illich I. et al. (1977), Disabling professions, London, Calder and Boyards Ltd, 1977. Trad. it. Esperti di troppo, Trento, Erickson, 2008.

Laird S. (2008), Anti-oppressive Social Work, London, Sage.

AmeliA e lA suA cAsA 71

Amelia e la sua casaUna buona prassi nell’ambito

della demenza senileKaren Jones

(in collaborazione con Imogen Powell)

L’approccio critico incentrato sulle buone prassi richiede di essere aperti ad apprendere dalla pratica professionale effettiva, contestualizzata nelle situazioni reali che si incontrano sul campo. Ciò mi ha richiesto competenze diverse e mi ha presentato nuove sfide rispetto alla maggior parte dei lavori accademici che avevo scritto in passato come docente universitaria di social work. Quanto segue è il mio tentativo di comprendere e analizzare le buone pratiche con adulti affetti da demenza, partendo dall’esame di una situazione reale. Propongo qui l’appli-cazione di alcune idee che ho trovato utili e significative come assistente sociale e come studiosa. Mi sembra che queste idee possano costituire una risposta di stampo critico-riflessivo alla specifica situazione descritta di seguito. Allo stesso tempo, il capitolo introduce alcuni temi teorici chiave, che ricorrono anche in altre parti del libro.

Il testo è stato scritto in collaborazione con Imogen Powell, un’assistente sociale esperta. Imogen lavora in un Ente locale e fa parte di una équipe che si occupa di anziani con problemi di salute mentale.

Nel primo capitolo si è cercato di delinearne il significato e di dar conto del dibattito in merito alla nozione di «pratica professionale critica» nel lavoro sociale attuale e nel passato. Punto centrale è che «critico», qui, non significa qualcosa di negativo o distruttivo. Piuttosto, indica un atteggiamento di «apertura mentale, di analisi riflessiva che tiene in considerazione differenti prospettive, esperienze e ipotesi» (Brechin, 2000, p. 26).

3

72 lAvoro per bene

La mia personale idea di «pratica professionale critica» è influenzata da quegli autori che hanno cercato di collegare analisi critica e idee postmoderne, nell’in-tento di rinnovare e far crescere l’approccio del social work critico-riflessivo (ad esempio Rojek, Peacock e Collins, 1988; Parton, 1994; Leonard, 1997; Pease e Fook, 1999; Healy, 2000; Powell, 2000). Questi riferimenti teorici non sono utilizzati per analizzare soltanto la situazione descritta qui: riflettono un filone che ritroveremo anche in altri capitoli nel libro.

Il contributo della teoria critica postmoderna all’analisi del lavoro sociale contemporaneo e allo sviluppo di specifici approcci operativi è di ampia portata, nonché soggetto a un continuo dibattito. L’etichetta di postmoderno è talvolta usata in maniera poco rigorosa. In ogni caso, possiamo identificare una tenden-za abbastanza recente secondo cui è preferibile orientarsi alla comprensione contestuale delle specifiche situazioni in cui intervengono gli operatori sociali, invece di seguire le prescrizioni di singole metodologie e degli approcci basati sulle evidenze scientifiche. Non che le conoscenze e la ricerca sulle competenze professionali non siano importanti, ma il contesto entro il quale vengono esercitate le conoscenze e le competenze è ogni volta unico, perché riguarda situazioni e persone specifiche.

Secondo la prospettiva del social work postmoderno, è importante il coinvolgimento empatico con le storie delle persone, per costruire un per-corso verso un cambiamento condiviso, piuttosto che imporre soluzioni ela-borate dagli esperti. Queste idee sono state utilizzate per sviluppare approcci critico-riflessivi che mettono in discussione assunzioni date per scontate, in particolar modo quelle legate al linguaggio, al modo di definire le situazioni. Questi nuovi modi di ragionare contemperano la complessità, l’incertezza e l’ambiguità delle situazioni concrete, invece di cercare semplificazioni illusorie verso soluzioni «certe».

L’approccio cui facciamo riferimento in questo libro cerca di mostrare ciò che il lavoro sociale fa di buono nell’attività professionale di tutti i giorni (Ferguson, 2003). Per molti versi, le vicende analizzate qui di seguito si riferiscono a una situazione comune nel social work, non a un caso eccezionale. Se è «ordinaria amministrazione» per Imogen e gli altri membri della sua équipe, ciò non toglie che sia comunque la storia di una esperienza individuale di demenza e di un intervento di aiuto «unico» nella sua specificità.

Non entrerò in tutti i dettagli del caso e non starò a descrivere per intero tutto ciò che ha fatto l’assistente sociale. Il mio obiettivo è piuttosto quello di mettere in evidenza la prassi che si è rivelata migliore in un particolare contesto, per riflettere e tracciare i temi critici cruciali da prendere in considerazione per lavorare bene con chi è affetto da demenza.

AmeliA e lA suA cAsA 73

Un’anziana confusa

Amelia aveva passato gli ottantacinque anni. Abitava da sola in una casa popolare, dove avevano sempre vissuto anche i suoi genitori. Non si era mai sposata e, per quanto ne sapevano amici e familiari, non aveva mai avuto lunghe relazioni sentimentali. Quando Imogen prese in carico il caso, ad Amelia era stato diagnosticato un probabile morbo di Alzheimer. La situazione era stata segnalata dal day hospital che Amelia aveva frequentato per qualche tempo. Amelia appariva sempre più confusa e la sua frequenza al day hospital risultava sempre più irrego-lare. Secondo i segnalanti, era opportuno valutare la collocazione in una struttura residenziale. Il parente più prossimo di Amelia era suo cugino Bob, un sessantenne che viveva in zona. Non era mai stato particolarmente vicino ad Amelia, ma da diversi anni le faceva visita una volta ogni quindici giorni per aiutarla nelle compere. Al momento della segnalazione, Amelia aveva cominciato a fare strane telefonate a Bob, ansiose, spesso a ore inconsuete del giorno e della notte; di conseguenza, Bob si stava trovando ad assumere sempre più il ruolo del caregiver.

Primo contatto e assessment

La segnalazione riportava la difficoltà di Amelia nel far entrare in casa gli operatori sanitari e sociali, così Imogen andò un paio di volte a incontrarla al day hospital, per cercare di instaurare un rapporto di fiducia con lei. Dopo che si furono conosciute abbastanza, Imogen si accordò per una visita domiciliare. Durante il colloquio a casa, Imogen si prese tutto il tempo necessario e fece molta attenzione a non forzare Amelia in nessun modo. Riflettendo su questo caso, Imogen spiega come creò le condizioni perché Amelia raccontasse la sua storia, invece di partire subito a chiederle le informazioni che servivano a compilare il protocollo di assessment:

Sono arrivata a comprendere Amelia e il contesto sociale in cui collocarla ragionando con lei sulla storia della sua vita. Era entusiasta di parlare del suo passato, dei tempi in cui era nella RAF, di quando poi tornò a vivere con i genitori, di quando prendeva parte alla vita del suo quartiere. Mi fece capire il suo forte attaccamento alla casa in cui abitava e la difficoltà che provava nei rapporti con le autorità, che percepiva come una minaccia alla sua sicurezza. Poiché la sua memoria recente cominciava a diminuire, Amelia trovava conforto nel pensare agli eventi lontani legati alla sua casa e alla sua vita con e senza i genitori.

Capire l’importanza della casa e di quello che rappresentava si rivelò di centrale importanza nel costruire e mantenere il rapporto con Amelia. Per gli

74 lAvoro per bene

operatori non è sempre facile mantenersi così attenti e sensibili alla persona, nel contesto di servizi che premono per il rispetto delle procedure standard. I pro-tocolli di valutazione dei bisogni degli anziani di solito prevedono che la casa sia presa in considerazione in termini di proprietà, accesso e manutenzione. Certo, sono questioni importanti (Heywood, Oldman e Means, 2002), ma l’attenzione alla funzionalità dell’alloggio rischia di far passare in secondo piano gli aspetti psicologici, il significato che la casa ha per le persone anziane.

Ritroviamo lo stesso vizio di impostazione nelle ricerche sui problemi allog-giativi, prevalentemente focalizzate su aspetti oggettivi come la salubrità (Sterling, 1997; Wilkinson, 1999), la mancanza di fissa dimora (Crane, 1999) o la proprietà dell’abitazione (Saunders, 1990). Le ricerche che considerano la dimensione psi-cologica dell’esperienza degli anziani rispetto all’abitazione generalmente tracciano un quadro positivo del suo significato (ad esempio, Harrison e Means, 1990; Langan, Means e Rolf, 1996). Tuttavia, si tratta ancora di un tema poco indagato. Heywood, Oldman e Means (2002) concludono che, basandosi sugli approcci di ricerca tipici degli studi sull’invecchiamento, sarebbe necessario sviluppare una migliore comprensione del significato della casa per gli anziani, analizzando più da vicino le storie individuali e le interpretazioni personali delle esperienze vissute. Questa prospettiva si riflette nel modo in cui Imogen ha intuitivamente cercato di comprendere la vita passata di Amelia e i suoi bisogni attuali.

Imogen, come assistente sociale, era coinvolta nel caso per via della valuta-zione multi-professionale prevista dalla normativa assistenziale. Dunque, questo capitolo avrebbe anche potuto focalizzarsi sulle competenze di Imogen nel lavoro con altri professionisti e servizi. La flessibilità con cui ha svolto il processo di assessment, andando al di là di quanto strettamente stabilito dalle procedure, ha molto in comune con il lavoro in partnership descritto più avanti in questo libro (capitolo tredicesimo). L’aspetto particolare che voglio qui mettere in evidenza, tuttavia, è l’attenzione individualizzata grazie alla quale l’assistente sociale ha fatto in modo che le caratteristiche di personalità di Amelia e il senso del sé siano rimasti al centro dell’assessment.

Imogen ha evitato il gergo professionale e ha dato priorità al coinvolgimento empatico rispetto alle procedure e ai vincoli definiti dal servizio. In tal modo, ha aiutato Amelia nel riuscire a comunicare ciò che per lei era più importante. Accet-tando l’importanza che Amelia attribuiva alla sua casa e al suo vicinato, Imogen è riuscita a negoziare gradualmente le possibili prestazioni che avrebbero consentito all’utente di restare a casa sua, come tanto desiderava: la frequenza a un centro diurno, assistenza domiciliare e il sostegno di un volontario di un’organizzazio-ne per anziani. Per molti versi, non si tratta certo di un progetto assistenziale inconsueto: far sì che le persone restino a casa propria il più a lungo possibile è

AmeliA e lA suA cAsA 75

un obiettivo presente in tutte le politiche assistenziali. Ciò che colpisce è il livello di comprensione che Imogen ha sviluppato avvicinandosi a questo caso con l’attenzione a considerare la specificità di quella persona e della sua esperienza di vita. Il personale sanitario aveva già tentato di imporre delle soluzioni, ma solo questa volta Amelia mise da parte il suo atteggiamento sospettoso e accettò di farsi aiutare, perché le prestazioni erano state scelte partendo dalla condivisione della sua storia, all’interno di una relazione di fiducia sviluppata con attenzione.

Il coinvolgimento con la traiettoria biografica della persona è spesso citato come un elemento cruciale nell’approccio critico-riflessivo. Secondo Adams (2002), per esempio, un operatore critico-riflessivo colloca le storie delle persone conside-randole nel contesto del passato e del presente insieme. Parton e O’Byrne partono da idee postmoderne per sviluppare un approccio che definiscono «costruttivo». Essi sottolineano l’importanza del linguaggio nello sviluppare comprensione: si tratta di un processo collaborativo, solo apparentemente semplice. «Raccontare la propria storia e sentirla ascoltata con rispetto è un ingrediente assolutamente necessario per cominciare a cambiare le cose» (Parton e O’Byrne, 2000, p. 5).

Gli operatori di fronte alla demenza

C’è stato un profondo mutamento nell’approccio al tema della demenza negli ultimi vent’anni. Di conseguenza, mentre il modello medico domina ancora molte aree di trattamento, la demenza non è più descritta solo in termini di malfunzio-namento cerebrale. Se ne sono comprese le conseguenze sociali e psicologiche, con una maggiore attenzione alle esperienze personali di chi è affetto da demenza e al più ampio contesto sociale in cui tali esperienze si collocano.

Per gli operatori sociali e per tutti coloro che lavorano nel livello di inter-faccia tra l’ambito individuale e quello sociale, l’occuparsi di persone affette da demenza è stimolante a diversi livelli. L’esperienza della demenza è spesso carat-terizzata da incertezza, cambiamento, paura, sia per chi è affetto dalla malattia che per quanti gli sono vicini. Il lavoro sociale con queste persone costringe a confrontarsi con bisogni complessi, in contrasto fra loro; con relazioni in cui si passa dal potere all’impotenza; con alti gradi di rischio. Poiché si tratta di una malattia relativamente comune nell’età avanzata, ed è quindi probabile che possa colpire chiunque di noi, la demenza può anche evocare forti sentimenti di paura negli operatori (Cheston e Bender, 1999). Dunque, il lavoro con questo tipo di problemi chiede molto agli operatori.

L’attenzione all’identità e all’esperienza personale, che è centrale nel lavoro sociale postmoderno, è sempre più riconosciuta come fondamentale per una

76 lAvoro per bene

1 National Health Service and Community Care Act, 1990.

buona assistenza a questi malati. Si è riconosciuto che un approccio puramente medico-sanitario rischia di creare disempowerment e di minare il senso di identità. Di conseguenza si fa sempre più attenzione alla demenza per come viene esperita a livello individuale e sociale (Sabat e Harré, 1992; Cheston e Bender, 1997; Kitwood, 1997; 1999; Proctor, 2001). Come sottolineato da Cheston e Bender (1999, pp. 80-81), queste persone «sono esseri sociali [...]. Tutti noi viviamo e ci prendiamo cura gli uni degli altri in un mondo sociale fatto di relazioni e di comunicazione. È attraverso queste relazioni che stabiliamo chi siamo, la nostra identità o, come dice Tom Kitwood, il senso di noi stessi».

L’autorevole lavoro di Kitwood spiega come la nozione di «senso di sé» sia molto importante per impostare un’assistenza ai dementi che sia rispettosa e orientata all’empowerment. Egli sottolinea che l’esperienza e il riconoscimento del «senso di sé» dipendono dalle reazioni sociali positive che strutturano l’identità individuale:

Avere un’identità significa comprendere chi si è; implica mantenere il senso della continuità con il passato e una sorta di coerenza nella propria vita attuale. Identità significa avere un «vissuto», una storia di se stessi e della propria vita da raccontare. (Kitwood, 1997a, p. 20)

Imogen, nel suo lavoro con Amelia, si è ispirata a questo approccio. Non ha considerato Amelia solo per la diagnosi medica, si è relazionata a lei come persona, si è interessata alla sua storia.

Non dare niente per scontato

Amelia era stata inizialmente segnalata per un’assistenza residenziale, perché non si riteneva possibile un progetto di assistenza domiciliare. In Gran Bretagna, una segnalazione che dà per scontati, fin dall’inizio, gli esiti dell’assessment è chiaramente in contrasto con lo spirito e le linee guida della legislazione in ma-teria assistenziale.1 Imogen, all’inizio del suo lavoro con Amelia, ha giustamente messo in dubbio le ipotesi iniziali definite dal servizio segnalante. Il mondo degli operatori sociali, così come qualunque altro gruppo professionale, ha sviluppato una sua terminologia convenzionale e i modi per usarla. Questo gergo può essere inevitabile, ma c’è il pericolo che il linguaggio usato per scrivere segnalazioni e relazioni di servizio sottenda sottili giudizi, dia per scontato che determinate categorie di persone presentino certi bisogni o certe caratteristiche. Possono

AmeliA e lA suA cAsA 77

essere giudizi involontari, ma espressioni come «non collaborante», «non idoneo», «a rischio» rimandano a tutta una gamma di assunti.

È opportuno che, come operatori, cerchiamo di decostruire queste defini-zioni e proviamo a proporne altre, che «raccontino» l’esperienza individuale della persona in un modo più produttivo.

Ciò non significa che le valutazioni sui rischi e le difficoltà delle persone non siano importanti. Tuttavia, il coinvolgimento empatico e riflessivo di Imogen le ha consentito di esprimere una valutazione migliore rispetto a quella che avrebbe elaborato altrimenti. Dice Imogen:

Spesso i familiari e gli altri, in generale, danno per scontato che il luogo migliore per le persone affette da demenza sia quello dove si suppone ci siano meno rischi e maggior supporto, specialmente se la persona in questione vive da sola. L’idea di «venire accudito» evoca un senso di calore e, per tante persone, è la soluzione migliore, ma Amelia non sopportava l’idea. Era una persona davvero molto indipendente. Ascoltando la sua storia, era facile comprendere che il suo benessere dipendeva dal mantenere la sua autonomia, molto più che dal rimuovere qualunque fattore di rischio dalla sua vita.

L’istanza radicale, nel social work, ha portato gli operatori a essere consapevoli dell’impatto dell’oppressione strutturale sulle vite dei propri utenti. Ciò ha spinto all’ela-borazione di un approccio esplicitamente antioppressivo (Mullaly, 1997). In questo libro, vorremmo evitare idee semplicistiche in merito alla pratica antioppressiva. Ci interessa analizzare quegli interventi che sanno prender atto della complessità delle relazioni di potere e dimostrano l’impatto positivo che la consapevolezza del potere può apportare (il secondo capitolo affronta più ampiamente questo discorso). Il modo in cui Imogen ha lavorato mi sembra antioppressivo nel senso più alto del termine. Non ha dato per scontati i bisogni degli anziani, ha rispettato l’individualità di Amelia e ha promosso il suo diritto a essere ascoltata e a fare delle scelte.

Il pensiero postmoderno ha contribuito al dibattito sulle caratteristiche della pratica antioppressiva sottolineando l’importanza della negoziazione tra opera-tori e utenti per raggiungere una percezione condivisa della specifica situazione da affrontare (Howe, 1994; Parton, 1994). Le storie personali che emergono da questo processo sono importanti, sia di per se stesse, sia per la parte che rivestono nel narrare una storia collettiva di disempowerment. L’attenzione di Imogen alla storia personale di Amelia le ha permesso di negoziare con lei le possibili soluzioni assistenziali, rispettando il suo desiderio di restare a casa sua il più a lungo possibile. Imogen ha messo in discussione l’assunto secondo il quale l’assistenza residenziale è l’unica e inevitabile soluzione per persone con demenza che vivono sole. In seguito, ha riflettuto su tutto questo in relazione ai temi dell’orientamento antioppressivo:

78 lAvoro per bene

Per uno specialista è facile pensare di sapere ciò che è meglio per le persone, ma ognuno è diverso. Amelia era se stessa, una persona unica, nonostante fosse molto confusa. In quest’area di lavoro, identificare gli elementi di oppressione significa rendersi conto di come le persone sono soggette a ogni genere di pregiudizi disumanizzanti, solo perché appartengono alla categoria dei «malati di demenza». Questo è importante senz’altro. Però, la vicenda di Amelia mi ha ricordato anche un’altra cosa. Il gruppo (la categoria dei malati di demenza) è fatto di tante storie individuali quante sono le persone malate e l’oppressione non si manifesta in astratto, ma dentro le esperienze personali.

Mettere in discussione ciò che viene dato per scontato, in una segnalazione trasmessa a voce o per iscritto, implica decostruire il modo in cui il linguaggio costruisce le idee: affermazioni apparentemente neutre possono nascondere posizioni soggettive. Lo staff del day hospital ha definito la casa di Amelia come un «rischio» e un «problema». Attraverso i suoi colloqui con Amelia, Imogen ha fatto sì che emergesse una realtà soggettiva diversa, nella quale la casa era fonte di sicurezza in un mondo sempre più minaccioso e pieno di rischi. Ponendo attenzione all’«identità narrativa» di Amelia (Fook, 2002, p. 78) Imogen è riu-scita a lavorare con lei per cercare soluzioni che riducessero gli effettivi rischi e i problemi che stava affrontando.

Tollerare l’incertezza

L’approccio sensibile e individualizzato seguito da Imogen nel suo lavoro con Amelia mette in discussione quell’orientamento tecnico-manageriale che, secondo molti autori, sta permeando sempre più il lavoro sociale (si vedano tra gli altri Howe, 1992; 1996; Parton e o’Byrne, 2000; Jones, 2001). Chi lavora e deve destreggiarsi tra vincoli di budget e protocolli di valutazione può essere tentato di considerare gli anziani affetti da demenza come problemi da gestire, piuttosto che come persone in specifici contesti, con possibilità di cambiamento. La valutazione del rischio, in relazione alle persone affette da demenza, è partico-larmente difficile e a volte spaventa. I molti strumenti di valutazione oggi disponibili possono dare agli operatori l’illusione di avere soluzioni certe e definite, ma si tratta appunto di un’illusione: le procedure burocratiche non possono sostituire la preparazione necessaria a fare i conti con la complessità insita nella vita delle persone. Robert Adams riassume così questa tesi:

Un operatore critico-riflessivo riconosce la dimensione intrinsecamente pro-blematica di una situazione e ne coglie l’essenza. Non pretende di semplificarla. Perciò, cerca di dare un senso ai conflitti che i dilemmi operativi portano con sé, invece di schivarli o di lavorarci attorno. Non è affatto facile: l’operatore

AmeliA e lA suA cAsA 79

deve stabilire in che direzione di massima è bene muoversi, invece di cedere alla tentazione di imporre una soluzione semplicistica, spesso inappropriata. (Adams, 2002, p. 93)

Nella visione tecnico-managerialista, l’assessment è considerato un evento «puntiforme» (una fase procedurale che va completata secondo protocollo) e il bisogno dell’utente è visto come qualcosa di fisso nel tempo, una volta rilevato. La nostra assistente sociale non ha seguito questa prospettiva. Imogen aveva ben presente che i bisogni di Amelia potevano cambiare e ha instaurato una relazione con lei non solo per raccogliere i dati obiettivi necessari a compilare il protocollo di assessment, ma per costruire un processo di comunicazione creativa, i cui esiti sarebbero stati rinegoziati all’interno di un contesto complesso e in muta-mento. In quest’ottica, Imogen è stata capace di formulare un’acuta valutazione professionale, che ha facilitato la riduzione del rischio tollerando l’incertezza e l’inevitabilità del cambiamento futuro. Per l’analisi di un altro intervento creati-vo in un contesto di incertezza e cambiamento, il lettore può far riferimento al capitolo tredicesimo, dove si descrive il lavoro di Des, un’altra assistente sociale che lavora in un’équipe per anziani.

Bisogni degli anziani e bisogni dei caregiver

Gli interessi delle persone affette da demenza e quelli dei familiari che li assi-stono non sempre coincidono. Il progetto che ha dato la possibilità ad Amelia di restare nella sua casa ha portato a dei contrasti tra Imogen e il cugino di Amelia, Bob. In quanto parente più prossimo, Bob si prendeva cura di Amelia, ma per molti versi era restio a farlo e aveva sperato che l’assistente sociale proponesse l’inserimento di Amelia in una struttura residenziale.

Non c’è dubbio che tale soluzione avrebbe migliorato la qualità della vita di Bob. Non era mai stato particolarmente legato a sua cugina ed è comprensibile che preferisse stare vicino ai suoi figli e ai suoi nipoti. Cercando di negoziare la migliore soluzione possibile, Imogen si era perciò trovata di fronte a esigenze fra loro contrapposte:

Era impossibile conciliare del tutto le esigenze dell’una e dell’altro ed era molto importante non negare questo dato di fatto. Tuttavia, sono riuscita a ripartire rischi e responsabilità e, per molti versi, ciò ha aiutato Bob più di qualunque altra cosa. Abbiamo introdotto gradualmente, al ritmo di Amelia, un supporto pratico a casa. Credo che Bob fosse convinto che la situazione avrebbe potuto solo peggiorare. Poi cominciò a rendersi conto che, con il giusto sostegno, Amelia poteva ancora decidere qualcosa e, alla fine, le cose potevano andare meglio per tutti e due.

80 lAvoro per bene

Qui Imogen ha avuto l’abilità di evitare quella sorta di pensiero dicotomico per cui Bob sarebbe stato l’«oppressore», convinto che l’inserimento in una struttura residenziale fosse la soluzione giusta per Amelia e per se stesso. Imogen ha saputo capire Bob nel suo contesto di vita ed è riuscita a gestire l’ansia, la frustrazione e la vergogna che provava rispetto al declino di sua cugina.

Ciononostante, ci sono stati momenti nei quali il precario equilibrio tra le esigenze del caregiver e quelli dell’anziana è venuto meno. Man mano che au-mentava la sua confusione, Amelia era più disordinata, prestava meno attenzione all’igiene personale e questo causava a Bob ansia e stress. In quel periodo, Imogen si trovò a investire maggiori energie per seguire Bob, che non per occuparsi di Amelia. Per cercare di rassicurarlo, organizzò un incontro con l’operatore che seguiva Amelia al Centro diurno, in merito alla questione dell’igiene personale. Si decise che Amelia facesse il bagno al Centro, nonostante a suo tempo lei si fosse opposta all’idea. Ma fu un fallimento. Amelia fece resistenza, reagì con rabbia e angoscia. Inoltre, l’episodio ebbe ripercussioni negative su tutto il piano assistenziale che Imogen aveva con tanta attenzione negoziato con lei. La suc-cessiva riflessione di Imogen su questa esperienza mostra come le buone prassi non consistano solo in un lavoro ben fatto, ma anche nella capacità di imparare dagli errori:

In qualche modo nel processo si è perso l’equilibrio. Bob era al centro della situazione e Amelia era diventata il problema da risolvere. Avevo perso per strada l’attenzione a costruire un’assistenza centrata sulla persona. La strategia che avevamo escogitato così attentamente era fallita in pieno, perché non avevamo coinvolto Amelia nel programmarla. È stata un’esperienza che ci ha insegnato molto, a tutti noi.

Imogen parlò apertamente con Bob di tutto questo. Fu un colloquio molto utile: Bob comprese che era importante coinvolgere Amelia nelle decisioni sul modo di assisterla; inoltre, tra lui e Imogen si instaurò un dialogo onesto, meno conflittuale di prima.

Un luogo sicuro

Amelia continuava a rifiutarsi di fare il bagno al centro diurno, ma un po’ alla volta iniziò ad accettare brevi periodi di assistenza residenziale, nei momenti in cui era particolarmente confusa e spaventata. Amelia li considerava dei periodi di «ferie» in cui farsi aiutare e migliorare in salute. Appena iniziava a sentirsi me-glio, Amelia insisteva per tornare a casa. Queste permanenze in struttura erano assai più intrusive del bagno assistito, ma Amelia riusciva ad avere sotto controllo

AmeliA e lA suA cAsA 81

quel che accadeva (decideva lei quando andare e quando tornare) e gli attribuiva il significato di una vacanza: quindi, era una buona strada da seguire.

Tuttavia, Amelia un po’ alla volta peggiorava. Aumentava la frequenza con la quale aveva bisogno di ricoveri. Iniziò a perdersi nel suo quartiere e aumentarono le allucinazioni angoscianti. Per Imogen era sempre più difficile trovare un equili-brio tra il diritto di Amelia di decidere per sé e i considerevoli rischi che correva. Nel frattempo, aumentavano anche lo stress e l’ansia di Bob nel far fronte alle necessità sempre maggiori di sua cugina: ciò rappresentava un ulteriore livello di complessità. Questa situazione incerta e in mutamento comportava il dover continuamente rivalutare come muoversi.

Diventava sempre più importante tenere ben presente le norme di legge, dato che la necessità un ricovero coatto si faceva via via più probabile. Imogen però la considerava come ultima possibilità. Comunque, il tenere presente sia il concetto di empowerment sia le funzioni di tutela attribuitele per legge consentiva all’assistente sociale di mantenere il focus centrato sulla persona, anche mentre prendeva in considerazione eventuali interventi forzati:

Ero molto riluttante all’idea di intraprendere azioni che avrebbero portato Amelia a dover lasciare la sua casa. Era l’unica cosa che aveva detto di non volere assolutamente. Ma la situazione era cambiata: la sua indipendenza e autonomia, in effetti, erano compromesse dal fatto che era sì a casa, ma sola e spaventata. Forse un trasferimento altrove, seppure forzato, le avrebbe offerto maggiore indipendenza che non il rimanere a casa sola.

Per valutare correttamente il grado di rischio, Imogen prese in considerazione anche i dati di ricerca. Quando Amelia raccontò di essere stata aggredita da due uomini in casa sua, Imogen consultò le ricerche sull’incidenza delle allucinazioni e dei vissuti paranoici nelle persone con demenza (Burns, Jacoby e Levy, 1990; Cheston e Bender, 1999). Le ricerche evidenziavano che le allucinazioni sono tratti comuni della demenza. Imogen si riferì a questi dati per disporre di maggiori informazioni, non per ricavarne indicazioni precise su cosa fare: ciò testimonia la sua competenza e la sua sicurezza professionale. Si riferiva a una base di co-noscenze, ma senza smettere di riflettere con la propria testa e continuando a prestare attenzione a quanto Amelia andava comunicando:

Ho considerato la possibilità che fosse stata davvero aggredita — dopo tutto poteva anche darsi. Però, l’ha detto in un periodo in cui aveva iniziato a raccontare della presenza di strani uomini in casa: e quelle erano evidentemente delle allucinazioni. Sempre nello stesso periodo, non voleva entrare in certe stanze, prima una, poi due, poi tre: era come se l’ambiente le si restringesse intorno. In sostanza si era ritirata in una sola piccola camera. Da tutto ciò che diceva, veniva fuori che la sua casa non era più un luogo in cui si sentiva sicura. A quel punto riuscii a parlarle della possibilità di trasferirsi.

82 lAvoro per bene

Imogen si era coinvolta empaticamente nel «mondo» di Amelia durante i loro numerosi colloqui precedenti e questo la aiutò a cogliere il cambiamento di percezione rispetto alla casa. Erano passati quasi due anni dalla segnalazione iniziale quando Imogen tornò sulla proposta di un’assistenza residenziale. A que-sto punto, la risposta di Amelia fu diversa. Accettò di andare con Bob a visitare diverse strutture, con l’idea di trasferirsi definitivamente.

Durante questa fase di passaggio, il suo comportamento fu ambivalente: non c’erano dubbi che la sua capacità prendere una decisione consapevole fosse molto compromessa, ma tuttavia, mentre aspettava che si liberasse un posto nella struttura che aveva scelto, telefonava di frequente a Bob per chiedergli quando sarebbe andato a prenderla per portarla nella sua «altra casa». Per Imogen questa era un’ulteriore conferma del fatto che il luogo dove Amelia aveva sempre vissuto non aveva più lo stesso significato: ora stava cercando sicurezza altrove.

Fu comunque difficile per Amelia lasciare la sua casa. Da un certo punto di vista, non era proprio questo che voleva. Alla fine, però, ciò che aveva espresso più chiaramente era il bisogno di stare in un luogo dove potersi sentire sicura. Ora sta bene. A volte la vado a trovare: non capisce chi sono, ma sa che mi conosce. Pensa che io sia una sua compagna della RAF, ma va bene lo stesso — conosco la sua guerra e gliene posso parlare.

Conclusioni

È importante riconoscere che il lavoro sociale con persone affette da demenza non sempre porta a risultati soddisfacenti come nella storia che avete appena letto. La situazione di Amelia avrebbe potuto facilmente evolvere in altro modo. In circostanze leggermente diverse, o con il passare del tempo, Imogen si sarebbe potuta trovare a dover disporre per un ricovero coatto: un intervento per cui tutti avrebbero sofferto, ma che poteva essere considerato il migliore possibile, data la situazione. In altri casi, un passo del genere potrebbe risultare inevitabile anche in uno stadio ancora precedente. Non è mai possibile prevedere esattamente come andrà: non ci possono essere indicazioni dettagliate su cosa fare e gli interventi sono molto meno simili l’uno all’altro di quello che si potrebbe pensare.

Il lavoro di Imogen è risultato particolarmente positivo perché pensato e contestualizzato nella vita di Amelia, basato su ciò che lei provava. Imogen ha preso le sue decisioni riferendosi alle conoscenze teoriche del lavoro sociale, alle norme di legge e alle ricerche, ma l’aspetto centrale di questa buona prassi è dato dal fatto che Imogen ha saputo calarsi empaticamente nella narrazione che Amelia faceva di sé: ciò l’ha portata a rispondere con un atteggiamento umano, di accudimento. Altro elemento importante è stata la capacità di riflettere sul

AmeliA e lA suA cAsA 83

proprio lavoro: Imogen ha saputo utilizzare ciò che sapeva dalle sue precedenti esperienze professionali, sviluppando contemporaneamente una nuova «conoscen-za concreta». Jan Fook riassume questa importante abilità tipica degli operatori considerandoli come dei professionisti in grado di:

collocarsi nel contesto della situazione e collegare questa comprensione «dall’interno» al proprio agire professionale. Questo continuo processo rifles-sivo permette agli operatori di sviluppare la propria «teoria» direttamente dalla propria esperienza. Consente loro di lavorare in maniera «situata», cioè legata a quello specifico contesto situazionale. (Fook, 2002, p. 40)

Per lavorare in questo modo, gli operatori sociali devono sapersi mettere in relazione con tutti coloro che sono coinvolti nella situazione, mantenendo un atteggiamento di apertura mentale nei confronti dei loro diversi punti di vista. Imogen ha tenuto a mente che un buon progetto è «co-costruito con tutti gli attori coinvolti» (Ferguson, 2003). Non ha utilizzato la sua competenza professionale per far prevalere il suo parere, per far diventare la sua «narrazione» quella dominante. Ha collaborato con Bob e Amelia tenendo in considerazione come ciascuno di essi si rappresentava, in maniera distinta e mutevole, la propria esperienza, per capire cosa fosse meglio fare. Sotto questo profilo, l’agire professionale di Imo-gen è stato esplicitamente di stampo critico-riflessivo. Non solo non ha dato per scontata l’idea comune della dipendenza degli anziani, ma ha ascoltato la voce di Amelia e l’ha posta al centro delle sue valutazioni professionali.

Lasciarsi coinvolgere dalle storie delle persone è qualcosa di esattamente opposto a certi approcci tecnico-manageriali, che non condividiamo. Il lavoro di Imogen con Amelia ha implicato alcune precise valutazioni professionali e una continua valutazione del rischio. Gli interventi di Imogen non si sono basati sulle procedure standard, che a volte caratterizzano le valutazione delle situazioni ad alto rischio, ma su un coinvolgimento empatico e riflessivo. D’altra parte, Imogen ha resistito alla tentazione di considerare gli utenti come «altro da sé», cosa che può capitare quando non siamo autenticamente connessi con le difficoltà che affrontano le persone con cui lavoriamo. Questo aspetto è ancor più importante e difficile con le persone affette da demenza, una categorie di persone tra le più marginalizzate e prive di potere nella società. Tom Kitwood (1997) ha scritto che la capacità di usare «la nostra immaginazione in senso poetico» è fondamentale per entrare in contatto con l’esperienza dei malati di demenza.

L’azione professionale «situata» che proponiamo in questo libro, un’azione che sappia rispondere creativamente alle singole storie personali, è una sfida professionale impegnativa. Si tratta di un lavoro sociale che si relaziona alla complessità e al cambiamento in modo creativo. Richiede al professionista la fiducia necessaria per accettare l’incertezza e le contraddizioni senza bloccarsi,

84 lAvoro per bene

ma procedendo con sensibilità umana, sulla base di una analisi critica, riflessiva, ancorata alle specificità della singola situazione.

Bibliografia

Adams R. (2002), Developing Critical Practice in Social Work. In R. Adams, L. Dominelli e M. Payne (a cura di), Critical Practice in Social Work, Basingstoke, Palgrave.

Brechin A. (a cura di) (2000), Introducing Critical Practice. In A. Brechin, H. Brown e M.A. Eby (a cura di), Critical Practice in Health and Social Care, London, Sage/Open University.

Burns A., Jacoby R. e Levy R. (1990), Psychiatric Phenomena in Alzheimer’s Disease II: Disorders of Perception, «British Journal of Psychiatry», vol. 157, pp. 81-86.

Cheston R. e Bender M. (1997), Inhabitants of a Lost Kingdom: A Model of the Subjec-tive Experiences of Dementia, Ageing and Society, vol. 17, pp. 513-532.

Cheston R. e Bender M. (1999), Brains, Minds and Selves: Changing Conceptions of the Losses Involved in Dementia, «British Journal of Medical Psychology», vol. 72, pp. 203-216.

Crane M. (1999), Understanding Older Homeless People, Buckingham, Open Uni-versity Press.

Ferguson H. (2003), Outline of Critical Best Practice Perspective on Social Work and Social Care, «British Journal of Social Work», vol. 33, pp. 1005-1024.

Fook J. (1999), Critical Reflection in Education and Practice. In B. Pease e J. Fook (a cura di), Transforming Social Work Practice, London, Routledge.

Fook J. (2002), Social Work: Critical Theory and Practice, London, Sage.Harrison L. e Means R. (1990), Housing: The Essential Element Within Community

Care, Oxford, Anchor Housing Trust.Healy K. (2000), Social Work Practices: Contemporary Perspectives on Change,

London, Sage.Heywood F., Oldman C. e Means R. (2002), Housing and Home in Later Life, Bucking-

ham, Open University Press.Howe D. (1992), Child Abuse and the Bureaucratisation of Social Work, «The Socio-

logical Review», vol. 40, n. 3, pp. 491-508.Howe D. (1994), Modernity, Postmodernity and Social Work, «British Journal of Social

Work», vol. 24, pp. 513-532.Howe D. (1996), Surface and Depth in Social Work Practice. In N. Parton (a cura di),

Social Theory, Social Change and Social Work, London, Routledge.Jones C. (2001), Voices From the Front Line: State Social Workers and New Labour,

«British Journal of Social Work», vol. 31, pp. 547-562.Kitwood T. (1997a), Dementia Reconsidered: The Person Comes First, Buckingham,

Open University Press.Kitwood T. (1997b), The Experience of Dementia, «Ageing and Mental Health», vol. 1,

n. 1, pp. 13-22.Langan J., Means R. e Rolf S. (1996), Maintaining Home and Independence in Later

Life: Older People Speaking, Oxford, Anchor Trust.

AmeliA e lA suA cAsA 85

Leonard P. (1997), Postmodern Welfare: Constructing an Emancipatory Project, London, Sage.

Mullaly B. (1997), Structural Social Work: Ideology, Theory and Practice, Oxford, Oxford University Press.

Parton N. (1994), Problematics of Government: (Post) Modernity and Social Work, «British Journal of Social Work», vol. 24, pp. 9-32.

Parton N. (a cura di) (1996), Social Theory, Social Change and Social Work, London, Routledge.

Parton N. e O’Byrne P. (2000), Constructive Social Work, Basingstoke, Macmillan.Pease B. e Fook J. (1999), Transforming Social Work Practice: Postmodern Critical

Perspectives, London, Routledge.Powell M. (2000), New Labour and the Third Way in the British Welfare State: A New

and Distinctive Approach?, «Critical Social Policy», vol. 20, n. 1.Proctor G. (2001), Listening to Older Women with Dementia: Relationships,Voices

and Power, «Disability and Society», vol. 16, n. 3, pp. 361-376.Rojek C., Peacock C. e Collins S. (1988), Social Work and Received Ideas, London,

Routledge.Sabat S.R. e Harré R. (1992), The Construction and Deconstruction of Self in Alzhei-

mer’s Disease, «Ageing and Society», 12, pp. 443-446.Saunders P. (1990), A Nation of Home Owners, London, Unwin and Hyman.Sterling T. (1997), Housing and Health - Making the Links Count, «Housing Review»,

vol. 46, n. 3, p. 56.Wilkinson D. (1999), Poor Housing and Ill Health: A Summary of Research Evidence,

Edinburgh, The Scottish Office, Central Research Unit.