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Diritto Fallimentare Lezione V
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Indice
1 Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli per i creditori ------------------------------- 3
2 Atti che integrano maggior pregiudizio al principio della par conditio credito rum ------- 4
2.1 Atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di
fallimento ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 4
2.2 Pagamenti eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento --------- 5
3 L’azione revocatoria ordinaria ------------------------------------------------------------------------ 6
4 L’azione revocatoria fallimentare --------------------------------------------------------------------- 8
5 La revocatoria degli atti compiuti fra coniugi ---------------------------------------------------- 14
6 La presunzione muciana ------------------------------------------------------------------------------ 15
Diritto Fallimentare Lezione V
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli per i creditori
A seguito della dichiarazione di fallimento, che accerta l’insolvenza dell’imprenditore
commerciale, il principio della par conditio creditorum assume un ruolo centrale ed assurge a
ragione esclusiva del sistema fallimentare.
Per la stabilità del mercato e del sistema economico, è opportuno che l’insolvenza
dell’imprenditore fallito si distribuisca in maniera equa e proporzionale sul patrimonio di tutti i
creditori, non potendo tollerare che alcuni creditori possano avvantaggiarsi rispetto ad altri. Tale
principio giustifica l’esistenza di alcuni istituti che perseguono la finalità di ricostruire l’attivo
fallimentare.
Nel patrimonio fallimentare rientrano, infatti, non solo i beni appartenenti al fallito al
momento della dichiarazione di fallimento, ma anche quelli usciti dal patrimonio del fallito
anteriormente al fallimento stesso.
Questi beni e diritti possono essere recuperati non al patrimonio del debitore, ma alla
garanzia patrimoniale dei creditori: sono quindi assoggettabili all’esecuzione concorsuale pur
rimanendo in proprietà o nella titolarità di terzi acquirenti.
La legge fallimentare, infatti prevede alcuni strumenti volti alla ricostruzione dell’attivo e
capaci di rendere inefficaci gli atti dispositivi dei beni del fallito compiuti dal fallito stesso prima
della sentenza dichiarativa di fallimento e, quindi, di produrre conseguenze nei confronti dei terzi
che sono stati parte di tali atti.
Diritto Fallimentare Lezione V
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2 Atti che integrano maggior pregiudizio al principio della par conditio credito rum
Vi sono alcuni atti di disposizione dell’imprenditore insolvente che escludono un qualsiasi
vantaggio per il suo patrimonio, consolidando un pregiudizio pieno, e quindi costituiscono il
massimo danno per i creditori e per una distribuzione proporzionata degli effetti dell’insolvenza.
Si tratta degli atti a titolo gratuito e dei pagamenti di crediti che hanno scadenza il giorno
della dichiarazione di fallimento o successiva e che quindi non avrebbero dovuto essere compiuti,
se compiuti, nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, sono inefficaci.
Tale inefficacia non abilita il curatore ad apprendere materialmente il bene oggetto dell’atto
di disposizione dal patrimonio del beneficiario, sul predetto incombe l’onere di provare, oltre alla
natura dell’atto, il suo perfezionamento nel periodo sospetto.
2.1 Atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento
L’art. 64 L.F., rimasto immutato a seguito della riforma, prevede l’inefficacia, rispetto ai
creditori, degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di
fallimento, esclusi i regali d’uso e gli atti compiuti in adempimento di doveri morali o a scopo di
pubblica utilità, sempre che la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante.
Non si dovrà trattare, dunque, esclusivamente di atti di donazione ma, più in generale, di atti
di liberalità in funzione dei quali non discende alcun vantaggio economico per l’imprenditore (es.
donazioni simulate).
L’inefficacia opera automaticamente per il solo fatto che il fallimento è stato dichiarato
entro i due anni dal compimento dell’atto pregiudizievole, per cui non assume alcuna rilevanza che
il debitore fosse insolvente al momento in cui ha compiuto l’atto gratuito o che tale atto abbia
diminuito il patrimonio del fallito, né occorre che il creditore dia prova della conoscenza, da parte
del terzo, dello stato di insolvenza.
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2.2 Pagamenti eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento
A norma dell’art. 65 L.F. sono privi di effetto rispetto ai creditori i pagamenti di crediti che
scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o successivamente, se tali pagamenti sono stati
eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento.
Anche in tal caso l’inefficacia opera automaticamente (di diritto), qualora sussistono due
requisiti:
Il fallimento intervenga entro i due anni dal pagamento;
La scadenza originaria del credito soddisfatto anticipatamente
coincida con la data del fallimento o con un momento successivo.
La norma, pertanto, riguarda sia i pagamenti effettuati in anticipo per sottrarre il creditore al
pregiudizio di un eventuale successivo fallimento del debitore, sia i pagamenti anticipati che,
indipendentemente dalle finalità perseguite dal debitore fallito e dal creditore, estinguano un debito
la cui scadenza originaria era contemporanea o successiva alla data del fallimento.
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3 L’azione revocatoria ordinaria L’art. 66 L.F., non modificato dalla riforma, prevede lo strumento dell’azione revocatoria
ordinaria, per cui il curatore, qualora non possa agire con la revocatoria fallimentare, può chiedere
che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le
norme del codice civile (art. 2901 c.c.): deve trattarsi, dunque, di un atto di disposizione tale da
incidere, attualmente o in futuro, sul patrimonio del debitore.
L’azione revocatoria ordinaria ha lo scopo di reintegrare la garanzia patrimoniale dalle
aggressioni che hanno matrice negli atti di disposizione del debitore1.
Attraverso l'esercizio di tale azione i beni usciti dal patrimonio continuano a costituire una
garanzia per i creditori; la responsabilità del terzo contraente trova invece la sua giustificazione
nell'aver questi acquistato un bene ancora vincolato dalla garanzia delle obbligazioni del suo dante
causa.
L’azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore conserva, per richiamo espresso del
legislatore, gli elementi costitutivi regolati dal codice civile ed in particolare:
L’eventus damni, costituito dal pregiudizio alla garanzia patrimoniale,
ovvero la diminuizione, o anche il pericolo di diminuzione, del patrimonio del
debitore; l'eventus danni, è il presupposto oggettivo per l'esperimento dell'azione,
viene individuato nello stato di insolvenza o nel suo aggravamento, dovendosi
dimostrare il nesso causale tra l'atto revocando e lo stato di insolvenza o
l'aggravamento delle stessa;
Il consilium fraudis, da intendersi come consapevolezza del debitore
di arrecare, con il proprio atto, un pregiudizio al creditore; occorre in proposito
specificare che, nell’ipotesi di atti dispositivi a titolo gratuito è sufficiente la
consapevolezza del debitore, anche se il terzo è in buona fede (si parla in tal caso
di scientia damni); laddove, invece, si tratti di un atto a titolo oneroso, è
necessaria anche la consapevolezza del terzo di arrecare un pregiudizio al
creditore (consilium fraudis).
1 Quando l’atto di disposizione non è ancora perfezionato l’effetto di preservare il patrimonio del debitore è da ricercare
nell’azione cautelare del sequestro conservativo e, qualora il creditore sia già munito di un titolo esecutivo, nell’azione
esecutiva mediante pignoramento.
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L’azione viene proposta dal curatore innanzi al Tribunale fallimentare nei confronti del terzo
contraente ed, eventualmente, dei suoi aventi causa.
L’azione, che di regola ha efficacia relativa, nel senso che avvantaggia solo il creditore che
l’ha promossa e nei limiti del danno allo tesso arrecato, secondo il prevalente orientamento
dottrinale quando coinvolge il fallimento investe l’atto nella sua interezza al di là dell’importo del
credito danneggiato e nei limiti del danno subito dalla massa dei creditori.
L’azione revocatoria ordinaria, a differenza dell’azione revocatoria fallimentare, si prescrive
nel termine di 5 anni che decorre non dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento, ma dalla
data di stipulazione dell’atto impugnato.
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4 L’azione revocatoria fallimentare Uno dei rimedi e dei mezzi più efficaci per la ricostruzione dell’attivo fallimentare.
Tale istituto, previsto dall’art. 67 L.F., persegue la finalità di ricostruire il patrimonio del
debitore fallito, revocando atti di disposizione di beni o eliminando debiti o garanzie venuti ad
esistenza illegittimamente, con pregiudizio per i creditori.
La norma in oggetto, in tema, appunto, di revocatoria fallimentare, è stata completamente
novellata dalla recente riforma del diritto fallimentare, in particolare la novella è stata introdotta dal
cd. decreto competitività (D.L. n. 35/2005), convertita nella L. n. 80/2005.
Lo scopo di tale nuova disciplina è quello della protezione e della certezza dei rapporti con
la ferma intenzione di attribuire una maggiore stabilità del traffico giuridico e commerciale, tanto
più necessaria in un contesto caratterizzato da un mercato globalizzato e rappresentato da una forte
concorrenza.
La nuova disciplina si applica alle azioni revocatorie proposte nell’ambito di procedure
concorsuali iniziate dopo il 17/03/2005, data di entrata in vigore del decreto stesso.
A differenza della revocatoria ordinaria, quella fallimentare è preordinata alla salvaguardia
del principio della par conditio creditorum, e, in quanto tale, è posta a tutela, non del singolo, ma di
tutta la massa dei creditori, e può essere promossa solo dal curatore fallimentare.
Gli effetti sono identici a quelli della revocatoria ordinaria, in quanto anche l’azione
revocatoria ordinaria determina l’inefficacia relativa degli atti compiuti in frode ai creditori, con la
differenza che tale inopponibilità non riguarda il singolo creditore ma la massa dei creditori.
L’atto dispositivo revocato non avrà, dunque, effetti per i creditori, ma ovviamente rimane
valido tra le parti.
L’effetto dell’azione è restitutorio: il terzo, tenuto a restituire quanto acquisito con l’atto
revocato, può proporre domanda di insinuazione al passivo per l’equivalente e/o per quanto deve
ancora ricevere.
Presupposti dell’azione revocatoria fallimentare sono:
1. il compimento dell’atto oggetto di revocatoria nel periodo sospetto
stabilito dall’art. 67 L.F., che con la riforma, dai due anni e un anno previsti dal
vecchio testo, si è ridotto in un anno e sei mesi.
2. la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo.
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L’art. 67 L.F. prevede due ipotesi di revocatoria fallimentare, a seconda che colpisca atti che
rientrano nella normale gestione dell’impresa (cd. atti “normali”)o, invece, atti che non vi rientrano
(cd. atti “anormali”).
4.1. Atti soggetti a revocatoria
Innanzitutto, sono revocati, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato di
insolvenza del debitore, gli atti cd. anormali, in quanto non discendenti nella prassi commerciale
dalle attività ordinarie di un imprenditore solvibile, le cui anomalie fanno presumere in colui che
entra in rapporto con il fallito una conoscenza dello stato di insolvenza in cui versa quest’ultimo; in
sostanza si tratta di atti che l’imprenditore non avrebbe mai compiuto se non si trovasse in una
situazione di illiquidità o insolvenza.
L’anormalità, pertanto, fonda una presunzione della scientia decoctionis, ovvero provoca
un’inversione dell’onere della prova e sarà, quindi il convenuto a dover provare che ignorava lo
stato di insolvenza.
Tra gli atti anomali che fanno presumere la conoscenza dello stato di insolvenza, l’art. 67
contempla:
1. gli atti sproporzionati, ovvero gli atti a titolo oneroso compiuti
nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni
eseguite e le prestazioni assunte dal fallito superino di oltre ¼ ciò che a lui è
stato dato o promesso. Il periodo sospetto è stato ridotto dal D.L. n. 35/2005,
da due anni ad un anno, ed al criterio della “notevole” sproporzione è stato
sostituito il criterio rigido della sproporzione superiore ad 1/4.
2. i pagamenti con mezzi anomali, ossia gli atti estintivi di debiti
pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi
normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di
fallimento. In tal caso, il ricorso del debitore a mezzi di pagamento anomali
rappresenta un sintomo della conoscenza, da parte del debitore stesso, del
proprio stato di insolvenza, per cui il curatore non dovrà provare tale
condizione ma sarà il terzo a dover fornire la prova dell’ignoranza dello stato
di insolvenza del debitore poi fallito.
3. i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell’anno
anteriore alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti.
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Questi atti se compiuti nel “periodo sospetto” (cioè entro un anno o sei mesi prima del
fallimento, a seconda dei casi) non sono automaticamente revocati, ma occorre, a tal fine, che siano
stati compiuti da un debitore insolvente e che colui che ha contrattato con il debitore non dimostri di
aver ignorato lo stato di insolvenza del debitore fallito.
A questo fine, la conoscenza dello stato di insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo
contraente deve essere effettiva e non meramente potenziale, con la conseguenza che, agli effetti
della revoca, assume rilievo soltanto la concreta situazione psicologica da parte del terzo e non la
semplice conoscibilità oggettiva del predetto stato:la relativa dimostrazione può basarsi anche su
indizi precisi gravi e concordanti ex artt. 2727-2729 c.c., i quali conducano a ritenere che il terzo,
facendo uso della normale prudenza ed avvedutezza, rapportata anche alle sue qualità personali e
professionali, nonché alle condizioni in cui egli si è trovato concretamente ad operare, non possa
non aver percepito i sintomi rivelatori della situazione di insolvenza del debitore (Cass. N.
28299/2005).
4.2. Gli atti normali
La distribuzione dell’onere della prova segue le regole generali di cui all’art. 2697 c-c- e il
curatore deve provare i fatti costituendi della domanda quando l’atto è normale, ovvero non
costituisce indice di una difficoltà di liquidità dell’imprenditore.
Sono, infatti, revocati, se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato di insolvenza
del debitore, gli atti cd. normali, ovvero i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo
oneroso (compiuti dal debitore o da un terzo: si pensi, ad esempio, alla domanda giudiziale di
risoluzione del contratto esercitata nei confronti del contraente poi fallito) e quelli costitutivi di un
diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti nei sei mesi
anteriori alla dichiarazione di fallimento2 (art. 67 L.F.).
Pertanto non ogni pagamento di un debito liquido ed esigibile è revocabile dalla curatela
fallimentare, ma solo quelli in relazione ai quali chi l’ha ricevuto era a conoscenza dello stato di
insolvenza del debitore poi fallito.
Per “conoscenza dello stato di insolvenza” si intende la consapevolezza della crisi
finanziaria di chi ha compiuto il pagamento che non era in grado di adempiere regolarmente le
proprie obbligazioni, secondo la definizione dell’art. 5 L.F.
2 Occorre sottolineare che il termine di un anno o sei mesi, cui l’art. 67 L.F. fa riferimento, si calcola a ritroso dalla data
di pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento.
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D’altra parte, la ratio della norma è evidente: non ogni pagamento è revocabile, ma solo
quelli ricevuti da chi era effettivamente consapevole del dissesto finanziario dell’impresa poi fallita,
non essendo sufficiente, a questo fine, la semplice possibilità di conoscere, con l’ordinaria
diligenza, lo stato di insolvenza del debitore.
Poiché il pagamento costituisce in sé un atto lecito perché dovuto, esperimento
l’adempimento del debitore alla propria obbligazione, sono colpiti solo i pagamenti da chi
conosceva il dissesto finanziario che poi ha portato al fallimento.
Solo in tal caso il pagamento deve ritenersi inefficace rispetto ai creditori e può essere
revocato, andando così a ricostituire il patrimonio del fallito e consentendo la soddisfazione
concorsuale dei creditori rimasti insoddisfatti.
In deroga all’art. 67 L.F., non è revocabile il pagamento della cambiale scaduta, se il
possessore della cambiale doveva accettarlo per non perdere il diritto all’azione cambiaria di
regresso.
In tal caso, l’ultimo obbligato in via di regresso, nei confronti del quale il curatore provi che
conoscenza lo stato di insolvenza del principale obbligato quando ha tratto o girato la cambiale,
deve versare la somma riscossa al curatore (art. 68 L.F.).
Tali disposizioni no si applicano all’istituto di emissione, agli istituti autorizzati a compiere
operazioni di credito su pegno, limitatamente a queste operazioni, e agli istituti di credito fondiario,
salve le disposizioni delle leggi speciali.
4.3. Atti sottratti alla revocatoria
La novella del 2006 ha introdotto alcune importanti esenzioni all’azione revocatoria, che
hanno condotto il legislatore a far prevalere la tutela di beni giuridici corrispondenti ad interessi e
valori anche di rango costituzionale.
Ai sensi dell’art. 67 L.F., sono sottratti all’azione revocatoria fallimentare (ma, se ne
ricorrono i presupposti, possono essere oggetto di revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c.):
1. i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività di
impresa nei termini d’uso;
2. le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purchè non
abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito
nei confronti della banca;
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3. le vendite e i preliminari di vendita a giusto prezzo di immobili ad uso
abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi
parenti ed affini entro il terzo grado;
4. gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purchè
posti in essere di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della
esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione
finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501 bis c.c.;
5. gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del
concordato preventivo, dell’amministrazione controllata, nonché dell’accordo
omologato ai sensi dell’art. 182 bis L.F.,(accordi di ristrutturazione di debiti);
6. i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da
dipendenti ed altri collaboratori, anche se non subordinati, del fallito;
7. i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per
ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali,
di amministrazione controllata (ora abrogata dalla riforma) e di concordato
preventivo.
Il termine di prescrizione della revocatoria fallimentare, che prima della riforma era di
cinque anni dalla sentenza di fallimento, è previsto dall’art. 69 bis L.F., a norma del quale l’azione
revocatoria fallimentare non può essere esercitata decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e
comunque non oltre cinque anni dal compimento dell’atto.
4.4. Utilizzazione del prezzo della vendita per il pagamento del credito
privilegiato
In giurisprudenza si è posto il problema se sia revocabile, ai sensi dell’art. 67 L.F., la
vendita eseguita dall’imprenditore, poi fallito entro un anno il quale abbia utilizzato parte del prezzo
riscosso per il pagamento di un credito privilegiato.
Sul punto si è affermato che, ai fini della revoca della vendita di propri beni
effettuata dall’imprenditore, poi fallito entro un anno, ai sensi dell’art. 67 L.F., l’eventus damni è in
re ipsa e consiste nel fatto stesso della lesione della par conditio creditorum, ricollegabile, per
presunzione legale e assoluta, all’uscita del bene dalla massa conseguente all’atto di disposizione.
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Per cui grava sul curatore il solo onere di provare la conoscenza dello stato di
insolvenza da parte dell’acquirente, mentre la circostanza che il prezzo ricavato dalla vendita sia
stato utilizzato dall’imprenditore, poi fallito, per pagare un suo creditore privilegiato
(eventualmente anche garantito da ipoteca gravante sull’immobile compravenduto) non esclude la
possibile lesione della par conditio creditorum, né far venir meno l’interesse all’azione da parte del
curatore, poiché è solo in seguito alla ripartizione dell’attivo che potrà verificarsi se quel pagamento
non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati, che anche successivamente all’esercizio
dell’azione revocatoria potrebbero in tesi insinuarsi (Cass.n. 7028/2006).
4.5. Effetti dell’azione revocatoria
L’azione revocatoria fallimentare assolve la funzione di attuare la difesa dei creditori
contro gli atti compiuti dal debitore in frode delle loro ragioni, tendendo a reintegrare la garanzia
patrimoniale mediante la dichiarazione di inefficacia degli atti dispositivi del proprio patrimonio
posti in essere dal debitore.
In particolare, a norma del novellato art. 70 L.F., la revocatoria dei pagamenti avvenuti
tramite intermediari specializzati, procedure di compensazione multilaterale o dalle società
fiduciarie o di revisione si esercita, produce effetti nei confronti del destinatario della prestazione.
Colui che, per effetto della revocatoria di cui sopra, abbia restituito quanto ricevuto,
è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito.
Qualora la revocatoria riguardi atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati, il terzo
deve restituire una somme pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese,
nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza, e l’ammontare residuo
delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso.
Nel caso di revocatoria di rimesse bancarie, dunque, la banca è tenuta a restituire, non tutte
le rimesse effettuate nel periodo sospetto, sebbene fosse a conoscenza dello stato di insolvenza del
debitore, ma al massimo di una somma equivalente alla differenza tra il massimo scoperto in detto
periodo ed il saldo finale del correntista al momento del fallimento.
E’ fatto salvo il diritto del destinatario della revocazione di insinuare al passivo un credito
d’importo corrispondente a quanto restituito.
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5 La revocatoria degli atti compiuti fra coniugi Il legame dei coniugi scaturente dall’unione matrimoniale è caratterizzato da complicità e
iniziative tra le più insidiose e pregiudizievoli per i creditori, e ciò giustifica la maggiore severità e
rigidità della disciplina dovuta soprattutto alla consapevolezza della insolvenza dell’imprenditore da
parte del coniuge.
L’art. 69 L.F., novellato, ne prende atto e prevede la revocabilità degli atti compiuti tra
coniugi ed, in particolare:
degli atti a titolo oneroso previsti dall’art. 67 L.F. compiuti quando il
fallito esercitava un’attività d’impresa commerciale;
degli atti a titolo gratuito, compiuti tra coniugi più di due anni prima
della dichiarazione di fallimento, ma nel tempo in cui il fallito esercitava un’attività
d’impresa commerciale3.
Tali atti sono revocati se il coniuge non prova che ignorava lo stato di insolvenza del
coniuge fallito.
La conoscenza dello stato di insolvenza è presunta per tutte le ipotesi previste dall’art. 67
L.F. e al curatore è sufficiente provare che l’atto è stato compiuto quando il fallito già esercitava
l’impresa e in costanza di matrimonio; tutte le ulteriori circostanze di fatto rilevanti devono essere
provate dal convenuto e particolarmente la mancata conoscenza dello stato di insolvenza.
Gli atti di cui all’art. 69 L.F. sono inefficaci ex lege e, dunque, non occorre una pronuncia
giudiziale.
3 Tale previsione rappresenta un adeguamento della norma preesistente alla sentenza n. 100/1993 della Corte
Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del precitato articolo nella parte in cui non comprendeva
nel proprio ambito di applicazione tali atti.
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6 La presunzione muciana Con l’introduzione, ad opera del D.L. n. 35/2005 convertito nella L. n. 80/2005, del nuovo
testo dell’art. 70 L.F., è stata formalmente abrogata, per incompatibilità, la vecchia previsione
riguardante la cd. “presunzione muciana”, istituto ereditato dal diritto romano secondo il quale i
beni acquistati dal coniuge fallito a titolo oneroso nei cinque anni anteriori alla dichiarazione di
fallimento si presumevano, nei confronti dei creditori e salvo prova contraria, acquistati con danaro
del fallito e si consideravano proprietà di questi, legittimando così il curatore ad apprenderne il
possesso; se detti beni, nel frattempo erano stati alienati o ipotecati, la revocatoria operava a danno
del terzo salvo nel caso in cui questi provasse la propria buona fede.
Tale previsione era già stata ritenuta incompatibile con la riforma del diritto di famiglia, che
sostituì il regime di separazione dei beni tra coniugi con quello della comunione legale.
A dirimere i contrasti intervenne la Cassazione che, in un primo momento, statì che la
presunzione muciana operava solo nelle ipotesi in cui i coniugi avessero scelto il regime di
separazione dei beni, potendo, altrimenti, i creditori rivalersi solo sulla quota di spettanza del fallito
(Cass. N. 954/1989) e, successivamente, sancì espressamente l’implicita abrogazione della
presunzione muciana a seguito della entrata in vigore della Riforma del diritto di famiglia di cui alla
L. n. 151/1975, con conseguente disapplicazione anche nel caso in cui i coniugi avessero adottato il
regime della separazione dei beni (Cass. N. 5291/1997).