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Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere Milano Convegno Internazionale L’Illuminismo delle riforme civili: il contributo degli economisti lombardi 13-14 dicembre 2011 Abstracts Sala delle Adunanze - Istituto Lombardo Palazzo Brera, Via Brera, 28 – Milano

L'Illuminismo delle riforme civili: il contributo degli economisti lombardi

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Istituto Lombardo Accademia di

Scienze e Lettere Milano

Convegno Internazionale

L’Illuminismo delle riforme civili:

il contributo degli economisti lombardi

13-14 dicembre 2011

Abstracts

Sala delle Adunanze - Istituto Lombardo Palazzo Brera, Via Brera, 28 – Milano

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Presentazione del convegno

L'Illuminismo lombardo è uno dei momenti più significativi del Settecento riformatore in Europa. Con l'Illuminismo napoletano esso costituisce il contributo più alto della cultura italiana allo sviluppo di una moderna tradizione europea di diritti e riforme civili. Come ebbe a notare Franco Venturi, la tensione fra utopia e riforma è centrale nell'Illuminismo italiano e spiega la maggior parte dei suoi contributi più alti. In questa prospettiva, l'Illuminismo lombardo si distingue per il suo carattere pragmatico e per la sua attenzione per gli assetti costituzionali. Obiettivo centrale del seminario di studio è mettere a fuoco la relazione fra teoria economica e politiche riformatrici in campo economico, giuridico e amministrativo. In questo ambito l'Illuminismo lombardo è all'origine di due fra i più importanti contributi del Settecento riformatore: la critica del sistema delle pene di Cesare Beccaria e le indagini di Pompeo Neri sui presupposti catastali della tassazione fondiaria. In entrambi i casi, un forte e originale impulso intellettuale è seguito da riforme istituzionali sia in Lombardia sia altrove (la Toscana e Parma sono i primi stati europei ad abolire la pena di morte, il nuovo sistema di tassazione della terra introdotto in Lombardia anche per effetto delle proposte di Neri esercita un'influenza profonda sulle riforme catastali in Inghilterra e Francia).

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13 dicembre ore 15.00 SESSIONE DI APERTURA Saluto del Presidente dell'Istituto Lombardo Presiede: ANTONIO PADOA SCHIOPPA ROBERTO SCAZZIERI - Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, Università degli Studi di Bologna L'Illuminismo delle riforme civili: commercio, divisione del lavoro, produzione della ricchezza L’ILLUMINISMO LOMBARDO E L’ANALISI ECONOMICA LUIGINO BRUNI - Università degli Studi Milano Bicocca Gli economisti lombardi nel contesto dell'economia civile italiana Pausa caffè MANUELA ALBERTONE, CECILIA CARNINO - Università degli Studi di Torino “Lusso d'ostentazione” e “lusso di comodo”. Tra economia e politica: un linguaggio di riforma della società nella Milano del «Caffè» ANDRÉ TIRAN - Université Lumière Lyon 2 Economia politica fra Italia e Francia 1750-1850 ore 17.30 Discussione - Chiusura VISITA ALLA PINACOTECA DI BRERA 14 dicembre ore 10.00 Presiede: ROBERTO ARTONI L'ILLUMINISMO LOMBARDO E LA POLITICA ECONOMICA GIUSEPPE BOGNETTI - Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, Università degli Studi di Milano Governo dell'economia e teoria della politica economica CHRISTINE LEBEAU - Université de Paris I Panthéon-Sorbonne Catasti e tassazione della proprietà fondiaria ANGELO MOIOLI - Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Tariffe, dazi e politiche del commercio ore 12.00 Discussione - Chiusura Pausa pranzo ore 14.00 Presiede: SILVIO BERETTA PENSIERO ECONOMICO E CONTESTO SOCIALE E POLITICO CARLO CAPRA - Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, Università degli Studi di Milano Il contesto sociale e politico dell'Illuminismo lombardo

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GERMANO MAIFREDA - Università degli Studi di Milano Sapere economico e metodo scientifico nell'Illuminismo lombardo Pausa caffè GIANPAOLO MASSETTO - Università degli Studi di Milano Beccaria tra diritto penale ed economia pubblica ALBERTO QUADRIO CURZIO - Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano L'Illuminismo lombardo fra teoria economica e riforme istituzionali SESSIONE CONCLUSIVA PIER LUIGI PORTA - Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, Università degli Studi Milano Bicocca Nuove prospettive negli studi economici sull'Illuminismo lombardo ore 17.00 Discussione - Chiusura

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Roberto Scazzieri Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, Università degli Studi di Bologna

L’Illuminismo delle riforme civili: commercio, divisione del lavoro, produzione della ricchezza

La formazione dell’economia politica è strettamente collegata alle tradizioni intellettuali dell’illuminismo. Tuttavia l’illuminismo degli economisti è un fenomeno complesso di cui e’ importante non dimenticare la pluralità di articolazioni. Non diversamente da quello che accade per l’Illuminismo in generale, anche l’illuminismo degli economisti si esprime attraverso analisi e proposte spesso molto lontane fra loro, anche se non è difficile individuarne una matrice comune. Ad esempio, l’illuminismo di coloro che, come i Fisiocrati, assumono il punto di vista dei “consiglieri esterni” rispetto all’autorità sovrana è profondamente diverso dalla prospettiva degli economisti che adottano l’ottica dei “commercianti colti” e sottolineano l’autonomia relativa di divisione del lavoro e mercati rispetto agli stati; così come è diverso dalla prospettiva di quegli economisti che si collocano per così dire in una posizione intermedia fra mercati e strutture di governo e ne esplorano le interdipendenze sul piano analitico e su quello dell’azione politico-amministrativa.

La riflessione economica degli illuministi lombardi si caratterizza per la capacità di visualizzare, all’interno di uno stesso sistema di analisi e di proposte, sia il punto di vista “orizzontale” della divisione del lavoro e degli scambi sia la prospettiva “verticale” degli apparati amministrativi. Si delinea in questo modo uno schema di economia politica e di governo dell’economia che è lontano dall’illuminismo radicale di Condorcet, Morellet, Paine, così come è lontano dal punto di vista del laisser faire “dirigista” di Quesnay e della sua scuola, e dal riformismo interventista di Genovesi e Tanucci. Il duplice inserimento di molti dei suoi esponenti (e in primo luogo di Cesare Beccaria e Pietro Verri) all’interno della classe dirigente milanese ma anche nelle strutture di governo dell’autorità centrale rende il loro contributo di particolare efficacia. L’obiettivo principale di questa relazione e’ discutere il contributo degli illuministi lombardi alla definizione di un corpus di economia politica caratterizzato dalla sovrapposizione fra punto di vista della società commerciale e punto di vista degli apparati di governo (sovrapposizione che in questo convegno abbiamo inteso caratterizzare con l’espressione di illuminismo civile). I risultati di questo intreccio sono spesso di grande interesse per quanto riguarda la comprensione dei nessi tra divisione del lavoro e mercati, ordinamento giuridico e governo dell’economia. Come si è prima osservato, divisione del lavoro e mercati costituiscono ambiti privilegiati di attenzione per economisti che assegnano alle capacità di iniziativa di individui e gruppi un’efficacia autonoma rispetto alle decisioni politiche e alle loro conseguenze sul piano amministrativo. Questo spiega la centralità rispettiva di divisione del lavoro e commerci negli scritti economici di Beccaria e Verri. In particolare, il punto di vista dell’illuminismo civile suggerisce immediatamente la necessità di inserire la divisione del lavoro in un tessuto complesso di organizzazione “gerarchica” delle strutture produttive (Beccaria); lo stesso punto di vista indica l’esigenza di studiare commerci e

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mercati mettendo in risalto architetture istituzionali e configurazioni amministrative piuttosto che situazioni e criteri di scelta derivati per via inferenziale da principi di razionalità astratta (Verri).

In questa prospettiva, assume un ruolo centrale l’analisi delle azioni di governo intese come interventi “interni” alle stesse strutture della divisione del lavoro e dei mercati, e proprio per questa ragione efficaci a sollecitare e orientare capacità già esistenti all’interno del tessuto sociale. Diritto, amministrazione e politica monetaria configurano un quadro di analisi e di proposte che colloca al centro dell’interesse i processi di formazione della ricchezza e li considera parte integrante della struttura sociale nelle sue articolazioni istituzionali e amministrative. Si delinea in questo modo un insieme di implicazioni reciproche fra economia, politica e società che costituisce l’aspetto più caratteristico dell’illuminismo civile.

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Luigino Bruni Università degli Studi di Milano Bicocca

Gli economisti lombardi nel contesto dell’economia civile italiana

Giacinto Dragonetti, aquilano contemporaneo e coetaneo del ben più noto milanese Cesare Beccaria, nel 1766 pubblicò anonimo un libro dal titolo "Delle virtù e dei premi". Nell'Introduzione si legge: "Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, ma non ne hanno fatta pur una per premiare le virtù", e proponeva l'istituzione di un codice premiale che affiancasse il codice penale. Dopo il primo grande successo che quel piccolo libro riscosse in tutta Europa, spesso associato (anche editorialmente) al libro di Beccaria Dei Delitti e delle pene (1764), con la restaurazione venne dimenticato, anche per la sua forte polemica anti-feudale.

Melchiorre Gioja riprese nei primi dell'Ottocento il tema, citando direttamente Dragonetti, ma il tema delle virtù seguì le sorti, incerte, dell'eclettico umanista enciclopedico milanese. Oggi invece il tema dei premi alle virtù è di nuovo centrale nella teoria giuridica e, sempre più, economica. Scopo della relazione è far conoscere il contributo di Dragonetti a questo grande tema dell'illuminismo, in rapporto a Beccaria e a Gioja, e mostrarne le sue potenzialità per l'oggi e per la crisi economica.

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Manuela Albertone – Cecilia Carnino

Università degli Studi di Torino

“Lusso d’ostentazione” e “lusso di comodo”. Tra economia e politica: un linguaggio di riforma della società nella

Milano del “Caffè”

Nel quadro della discussione europea sul lusso nel XVIII secolo, tema oggi al cuore del

dibattito storiografico, il nostro intervento intende focalizzarsi sulla distinzione tra lusso positivo - economicamente utile e legato allo sviluppo economico e sociale - e lusso negativo - che si configurava come essenzialmente ostentatorio e improduttivo - che venne messa a fuoco nel dibattito europeo a partire soprattutto dagli anni Cinquanta e che in Italia trovò la sua maggiore articolazione nella realtà milanese, durante gli anni Sessanta e Settanta, tra gli uomini del “Caffè”.

La finalità dell’intervento è duplice. Il primo obiettivo è ricostruire, con una particolare

attenzione alla riflessione francese, da cui quella lombarda dipese strettamente, il significato peculiare che la contrapposizione tra lusso negativo e lusso positivo assunse tra gli autori del gruppo dell’Accademia dei Pugni. Essa si definì infatti, nel quadro del forte valore politico che il discorso economico di valorizzazione del lusso ebbe nell’ambiente milanese, come linguaggio di trasformazione della società di antico regime e, più specificamente, fu funzionale alla costruzione di un discorso di riforma dell’aristocrazia ereditaria.

Il secondo obiettivo è gettare luce, attraverso un percorso specifico e non ancora indagato, sulla circolazione delle idee tra l’ambiente francese e la realtà milanese e, in particolare, cercare di chiarire come gli uomini del “Caffè”, pur nella diversità delle posizioni, si confrontarono con la riflessione francese e ricomposero gli stimoli divergenti, che al tema del lusso vennero dal gruppo intorno a Vincent de Gournay e dalla fisiocrazia di François Quesnay.

La prima parte dell’intervento mira a delineare tali radici culturali europee della distinzione

tra lusso positivo e negativo, concentrandosi in particolare sulla Francia, dove, rispetto alla riflessione britannica, le implicazioni politiche furono più marcate. Ci si soffermerà in particolare sul gruppo che ruotò intorno a Gournay e sulla fisiocrazia. Nel quadro di una valutazione comunque positiva del lusso, le critiche di Forbornnais e Plumard de Dangeul al lusso che non era frutto delle attività produttive, commercio e agricoltura, seguivano una precisa strategia politica, di attacco ai financiers e al formarsi delle loro rapide fortune accentrate nella capitale. Da una prospettiva, che rappresentò una rottura rispetto all’ottica mercantilistica, con un’attenzione che dalle spese passò all’accumulazione, il discorso sul lusso della fisiocrazia individuò due diversi tipi di lusso, intorno a cui si articolarono la contrapposizione tra gli économistes e gli autori della scienza del commercio e due diversi progetti di azione politica e insiemi di interessi economici. Quesnay distinse tra luxe de décoration e luxe de subsistance, legittimando il primo, come manifestazione della libera disposizione della ricchezza del proprietario terriero, ma unicamente e limitatamente a ciò che eccedeva gli investimenti nell’agricoltura, considerati luxe de subsistance, cui non andava sottratta alcuna risorsa.

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La seconda parte dell’intervento intende ricostruire i tratti specifici che assunse tra gli autori

del “Caffè” - sia attraverso gli articoli del periodico milanese sia attraverso le opere dei suoi collaboratori, in particolare le Meditazioni sulla economia politica di Pietro Verri e i Dei delitti e delle pene e gli Elementi di economia politica di Cesare Beccaria - la contrapposizione tra lusso negativo e lusso positivo e il suo significato politico. In primo luogo sarà messo in luce il più generale forte valore politico che la riflessione economica sul lusso ebbe nel contesto milanese e sul suo utilizzo come linguaggio di riforma della società di antico regime. Rispetto al nuovo discorso europeo di valorizzazione del lusso, a partire da Mandeville e da Melon, gli autori milanesi, pur recependo e facendo propria tale prospettiva, insistettero maggiormente su un diverso aspetto, ovvero sulla funzione del lusso come strumento di redistribuzione dei patrimoni e, in tale prospettiva, di correttivo all’eccessiva diseguaglianza delle ricchezze.

Proprio in tale quadro va collocata e compresa la distinzione tra lusso positivo e lusso negativo, che, sebbene fosse stata utilizzata inizialmente nel contesto meridionale, da Ferdinando Galiani e Antonio Genovesi, trovò la sua maggiore articolazione proprio tra gli autori del “Caffè”, principalmente in Pietro Verri e Cesare Beccaria.

In particolare, il contributo mira a dimostrare come questa contrapposizione, che può essere connessa a quella tra ozio e attività, sviluppata da Alessandro Verri e Alfonso Longo, fu funzionale a una precisa strategia politica, configurandosi come un linguaggio potente di critica, articolata attraverso la riflessione economica, dell’aristocrazia ereditaria e degli istituiti conservativi della proprietà aristocratica. L’obiettivo del gruppo fu infatti sia quello di dare impulso a una rilegittimazione dei ceti dirigenti sulla base della capacità economica, promuovendo in questo modo nuove elite su cui fondare sviluppo economico e funzioni civili e politiche, sia quello di abolire gli istituti giuridici, come maggiorascato e fidecommesso, volti a garantire e a proteggere la proprietà nobiliare. A emergere è una specificità del discorso milanese, e più in generale italiano, che assunse i tratti chiari di un linguaggio di trasformazione della struttura sociale di antico regime e di forte rivendicazione di redistribuzione della ricchezza.

Parallelamente l’intervento cerca di delineare, anche attraverso un’attenzione alla dimensione semantica, un confronto tra la riflessione economica francese, così come venne a articolarsi nelle due differenti prospettive del gruppo di Gournay e dei fisiocrati, e quella italiana. Allargando l’indagine alla corrispondenza privata e alle recensioni pubblicate sull’ “Estratto della letteratura europea”, dal 1766 pubblicato a Milano e a cui collaborarono gli uomini del “Caffè”, si cercherà di ricostruire la cultura economica in cui maturò la riflessione milanese sul tema, in particolare di Pietro Verri e Cesare Beccaria, gli autori che ne approfondirono maggiormente la dimensione economica. A emergere è un discorso originale, che coniuga, da un lato, la valorizzazione del lusso come motore di progresso economico e il discorso di contrapposizione tra lusso utile e sul lusso nocivo funzionale a un preciso obiettivo politico, che furono propri anche del gruppo di Gournay, dall’altro, l’attenzione al settore agricolo e al ruolo e alla natura delle spese del proprietario terriero, peculiare dell’analisi degli autori fisiocratici.

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André Tiran

Université Lumière Lyon 2

Pietro Verri Et Jean Baptiste Say:

Valeur, Monnaie Et Loi Des Débouchés

J.-A. Schumpeter dans son Histoire de l'Analyse Economique présente Say comme le continuateur de Turgot et de Cantillon. Il ajoute que ces derniers sont ceux qui ont probablement le plus marqué son analyse de. Si cette appréciation ne nous paraît pas discutable en terme de filiation, l'influence que Schumpeter leurs attribue doit être nuancée au profit du comte Pietro Verri1 qui est, selon nous, celui qui a le plus influencé la vision de JB.Say après Smith. Il faut cependant préciser

que Schumpeter cite Verri dans la chaîne qui conduit de Galiani à Walras en passant par Say. Nous voulons tenter ici de déterminer quelle influence la lecture de Verri a pu exercer sur Say.

Faut-il limiter cette influence à ce que Say lui même indique dans une note du Traité, à propos du commerce, ou bien faut-il donner une place toute autre et bien plus fondamentale dans la constitution de sa vision théorique générale ? Si celle-ci n'a pas été relevée jusqu'ici, cela tient peut-être à une attention insuffisante vis-à-vis des auteurs italiens qui, exception faite de quelques auteurs comme Beccaria et Galiani, sont peu cités par les économistes spécialistes de l'histoire de la pensée économique en France mais aussi ailleurs.

Nous verrons que contre Smith J. B. Say reprend à Pietro Verri la conception de la valeur-utilité, et contre les physiocrates (et ce qu'il reste de physiocratique chez Smith) celle de la production entendue comme modification et non pas création de matière. Toutefois il reprend chez Smith toute la place centrale que celui-ci accorde à la production et à l'échange de valeur pour valeur et opposition aux faiseurs de système.

Le comte Pietro Verri est aux yeux de JB.Say avec Turgot, l'économiste le plus important qui

précède Adam Smith au XVIIIe siècle en Italie. Dans le Discours Préliminaire de la cinquième édition du Traité(1826), Say souligne très fortement l'importance des économistes italiens. Il écrit : "Le Comte de Verri compatriote et ami de Beccaria, et digne de l'être, à la fois grand administrateur et bon écrivain, dans ses Meditazioni sull'economia politica, publiées en 1771, s'est approché plus que personne avant Smith, des véritables lois qui dirigent la production et la consommation des richesses ".

Dans la première édition du Traité (1803) Verri est un des rares, avec Smith, envers lequel Say se reconnaisse une dette. Il le fait dans le chapitre qui précède celui sur la loi des débouchés à propos du commerce : « Le Comte Verri est à ma connaissance le premier qui ait dit en quoi consistait le principe et le fondement du commerce. Jusqu'à lui et depuis, on a sans cesse répété que le commerce était un échange de l'excédent de denrées dont chaque peuple pouvait disposer. On a pris le moyen pour le principe. Le Comte de Verri a dit en 1772 : » Le commerce n'est réellement autre chose que le transport des marchandises d'un lieu à un autre2. Dans son Histoire Abrégée de la Pensée

1 Concernant le Comte Pietro Verri voir F VENTURI, "Le meditazioni,sulla economia politica di Pietro Verri ", Edizioni, echi e Discussioni, pp. 530-593 in Rivista Storica Italiana Anno XC fascicolo III, 1978. 2 J. B. SAY , Traité d'Economie Politique, 1ère édition, Paris, p. 147. Nous avons volontairement ici utilisé la première édition de 1803 en particulier sur la loi de la valeur et sur celle des débouchés afin de cerner ce qu'avait pu être l'influence initiale.

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Economique il écrit : Verri est un des esprits les plus judicieux qui aient écrit sur l'économie politique. Il voyait mieux le fond des choses que les économistes. Beccaria et lui étaient compatriotes et amis”.

S'il est un des rares à citer les italiens, il le doit en partie à l'éducation que son père lui a fait donner lorsque la famille habitait à Lyon. A ce moment-là le père de Say, protestant calviniste, pour soustraire ses enfants à l'influence de l'église catholique, avait placé J. B. Say et son frère Horace dans une école tenue par deux Italiens. L'un nommé Giro et l'autre, abbé de son état, Gorati. JB.Say a gardé de cette période un assez bon souvenir qu'il relate dans ses Mémoires inachevées. Il a acquis à ce moment-là une bonne connaissance de l'italien.

En reprenant les passages où J. B. Say cite le Comte Pietro Verri on constate que ce sont toujours des points sur lesquels il se reconnaît une dette. Il y a tout d'abord cette note qui figure dans toutes les éditions du Traité concernant la définition du commerce comme "le transport d'un produit d'un lieu à un autre". Cette définition peut nous paraître banale, voire triviale, mais dans la mesure où Say la souligne dès le début du Traité et au cours des cinq éditions c'est qu'il lui accorde une certaine importance. La question pour nous est donc de savoir quel est l'enjeu de cette distinction ? S'agit-il simplement de prouver que le commerce est aussi une activité productive et non parasitaire, ou bien faut-il y voir un enjeu plus important par rapport à l'ensemble de la construction théorique de J. B. Say et mettre ainsi à jour une complexité de l'ensemble qui est masquée par la forme du discours adopté par Say ?

Il situe l'apport de Verri comme le maillon de la chaîne qui de Quesnay conduit à Smith. Il précise que c'est Verri qui a dit que la reproduction n'était autre chose qu'une reproduction de valeur et que la valeur était la richesse ,Smith opère le lien entre ces idées là. A ce point de l'analyse l'importance pour Say de Verri est indiscutable, il l'associe à Quesnay et à Smith.

Par rapport à Pietro Verri, et c'est là sa filiation avec Smith et les physiocrates, il place au commencement de tout le processus productif l'acte de produire : l'offre. Ceci correspond aussi sans doute à un monde dans lequel pour la majorité des producteurs le financement préalable est bien moins important qu'il ne l'est pour nous aujourd'hui. Il ne nous semble pas, au moins dans sa première version, qu'il faille aller au-delà de cette idée. Mais celle-ci n'en constitue pas moins une véritable avancée théorique indépendamment du sens qui sera donné plus tard à ce que l'on nomme aujourd'hui « la loi des débouchés » de Jean Baptiste Say. C'est aussi l'optimisme sur l'avenir qu'il partage avec la plupart des hommes de sa génération qui fonde cette analyse. Jean Baptiste Say s'affirme l'héritier de Pietro Verri lorsqu'il écrit quelques pages plus loin « La première vérité que l'on peut tirer de cette importante vérité, c'est que, dans tout Etat, plus les producteurs sont nombreux et les productions multipliées, et plus les débouchés sont faciles, variés et vastes ».

On peut encore donner un autre exemple pour attester de cette influence de Pietro Verri sur Jean Baptiste Say. Toujours sur ce même thème du rôle de la concentration des hommes Pietro Verri écrit : « Les villes sont dans une province ce que les places sont dans une ville ; elles sont un point de réunion, où les vendeurs et les acheteurs se rencontrent. La capitale est aux villes ce que celles-ci sont à la province ». Jean Baptiste Say toujours dans le chapitre sur la loi des débouchés de la deuxième édition écrit : « Une nation par rapport à la nation voisine, est dans le même cas qu'une province par rapport à une autre province, qu'une ville par rapport aux autres campagnes ».

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Giuseppe Bognetti Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere – Università degli Studi di Milano

Governo dell’economia e teoria della politica economica

La relazione riguarda principalmente i due grandi protagonisti dell’illuminismo milanese (Beccaria e Verri) e si sofferma sulle loro riflessioni di carattere teorico, trascurando il ruolo da loro assunto in quanto funzionari pubblici dell’amministrazione Asburgica Si cerca di individuare quali sono state le coordinate concettuali che hanno consentito loro la messa a punto di indirizzi di politica economica. - Ambedue vivono il clima intellettuale che guardava con ottimismo alla forza della ragione: è

questa che avrebbe permesso di individuare le riforme da introdurre per migliorare la conduzione della cosa pubblica .

- Sostanzialmente, pur con differenziazioni, ambedue basano la loro teoria della politica economica suda due considerazioni fondamentali.

o La prima riguarda le motivazioni dell’agire economico. Su questo argomento il dibattito nel settecento era stato vivace e aveva portato ad alcune conclusioni che gli illuministi milanesi accettano pur con una loro specificità: il comportamento egoistico del soggetto che mira al proprio interesse si può tradurre, inserito nel meccanismo del mercato, in un maggiore benessere per la società. Ne discende quindi che lo sviluppo economico richiede condizioni che lo stato o le circostanze possono certo predisporre, anche se in definitiva risulta essenziale “quel moto spontaneo della società” che non può essere creato e “modellato“ da leggi direttamente restrittive.

o La seconda riguarda il rapporto che si istaura tra il comando impartito dal potere pubblico e il comportamento individuale dei singoli operatori economici, siano essi produttori o consumatori. Le leggi possono addirittura ottenere risultati contrari allo scopo dichiarato per cui sono state introdotte, perché il comportamento degli agenti economici ne vanifica totalmente l’efficacia. “Gli interessi privati cospirano colla loro pluralità a deluder la legge, i custodi molteplici son sempre soggetti a inganno o a corruzione, difendere i confini esattamente colla forza fisica non si può in un sistema stabile”; o, con analogo significato, ” le leggi civili devono rispettare le leggi economiche”.

- All’interno di questo quadro concettuale la politica economica ha quindi principalmente il ruolo di assecondare le energie spontanee della società e di impedire che queste vengano frenate da restrizioni, da creazioni di monopoli, dall’esistenza di corporazioni .

Pur all’interno di questo quadro di riferimento sostanzialmente liberale assunto da Beccaria e Verri la relazione cercherà di individuare gli strumenti di politica economica e i settori su cui intervenire da loro proposti: con particolare riguardo al pensiero del Verri, e a quanto lo differenzia dal Beccaria.

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Christine Lebeau Université de Paris I Panthéon-Sorbonne

Vers la construction d’une science administrative. L’exemple du cadastre de Milan.

Le cadastre de Milan n’est pas seulement un argument philosophique, la pierre angulaire d’une discussion sur la théorie de l’impôt qui se développe à l’échelle de l’Europe à partir de 1750. Mis à l’agenda des administrateurs par l’ouvrage de Pompeo Neri, Relazione dello stato, in cui si trova l'opera del censimento universale del ducato di Milano nel mese di maggio dell'anno 1750, la réforme milanaise devient l’objet d’une réflexion sur l’administration fiscale, sur la faisabilité des réformes et la possibilité de leur transfert et finalement sur la science administrative. En dépit de la tension entre secret et publicité ou grâce à celle-ci, les administrateurs européens qui veulent « voir » le cadastre développent des instruments et des circuits administratifs nouveaux dont l’étude sera l’objet principal de l’exposé. Notre hypothèse est que l’innovation administrative n’est pas seulement locale et localisée dans les bureaux de l’Etat de Milan. Elle est aussi le produit de multiples transferts et transferts en retour.

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Angelo Moioli Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Tariffe, dazi e politiche del commercio

- Nella storia delle “riforme civili” che in campo economico l’illuminismo lombardo e in special modo “la scuola di Milano” che l’ha animato, hanno contribuito a tracciare nella seconda metà del Settecento, la questione dei regimi doganali e delle politiche commerciali che li esprimevano, gode da tempo una centralità del tutto speciale nel dibattito storiografico.

- A renderla tale è la consapevolezza di come la stessa abbia assunto allora uno specifico significato modernizzante, anche se non riferito in modo indistinto all’intero spazio della regione insubrica e bensì a quella sua parte sottoposta al dominio degli Austrias, la Lombardia asburgica appunto.

- Questa presentava infatti un sistema di regolazione daziaria dell’interscambio nettamente difforme da quello vigente sia nelle province tra Ticino e Sesia cedute al regno Sardo-Piemontese, sia nei territori inclusi nella così detta Lombardia Veneta.

- La difformità consisteva nel fatto che in quel territorio vigevano dei dazi interni come espressione delle cinque entità sovrane in cui lo stesso si scomponeva e che si combinavano in misura tale da ostacolare la portata degli scambi infrastatali rispetto all’impatto che avevano i rapporti commerciali intrattenuti da ciascuna di tali sezioni daziarie con l’estero. - In effetti avveniva che le singole province sembravano trattare le merci che giungevano dagli altri distretti dello Stato non come articoli provenienti da aree diverse del medesimo, ma come se addirittura venissero introdotti da territori contro i quali si stava sostenendo una vera e propria “guerra formale” (in ossequio alla terminologia usata al riguardo presso gli organi di governo veneziani).

- A far persistere una formula come questa a dazi multipli erano poi intervenuti i contratti di appalto del Dato della Mercanzia, cui era succeduta la Ferma Generale dei tributi indiretti avviatasi nel 1750 e rinnovatasi sino al 1765. - Non si era andati così fino ad allora oltre la tariffa pubblicata nel 1725, durante una breve parentesi di gestione diretta statale del gettito della Mercanzia e che era pur sempre la conferma del sistema preesistente.

- Ogni ipotesi di cambiamento del regime daziario era dunque affidato alla “Giunta interinale” insediata nel 1764 e che diversamente dal “corpo senz’anima” quale era stata quella voluta dal ministro plenipotenziario Cristiani nel 1755, doveva essere costituita da “soggetti spregiudicati, intesi delle buone teorie economiche e consumati di quel mercimonio”.

- Era questo un identikit che ben si attagliava a uno come Pietro Verri, benché egli non fosse certamente da annoverare tra quelli che, per parafrasare l’espressione appena ricordata del Kaunitz, univano alle conoscenze teoriche in campo economico, una esperienza diretta nel settore.

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- Ma il giovane patrizio milanese era anche colui che aveva trovato il modo di farsi conoscere presso le autorità di governo a Vienna, come l’autore di un testo manoscritto e rimasto tale sino a quando di recente ne è stata pubblicata la versione integrale, dal titolo piuttosto incolore di “Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano”, ma i cui contenuti erano tutt’altro che di circostanza.

- Proprio per questo era stato apprezzato da Kaunitz, sino al punto da cooptarlo nella Giunta daziaria in via di costituzione.

- Ancora oggi tra l’altro quest’opera verriana ci appare degna di speciale interesse, perché in essa si rispecchiava in modo esemplare quel metodo tutto illuminista di fare l’economia politica che, come ci ha suggerito lo Skinner, si fondava su un approccio storico-empirico contrapposto a quello logico-deduttivo, divenuto poi imperante.

- Ne è un chiaro segnale proprio la prima sezione del libro dedicato alle “Cagioni della grandezza e decadenza del commercio di Milano” tra Quattro e Settecento che lo stesso Verri riteneva di considerare come una “storia economica” del Milanese.

- Ma se quel suo scritto gli era valsa una investitura così importante ai fini della sua successiva carriera pubblica, era stato soprattutto perché in esso veniva affrontato per la prima volta, come presupposto di metodo, la connessione tra misure tariffarie e bilancio di commercio, per giunta fatta valere a fronte di una aperta denuncia delle incongruenze insite nel sistema di regolazione e riscossione dei dazi affidato al ruolo egemone di appaltatori-fermieri.

- Aveva perciò certamente colto nel segno quando aveva deciso di inserire nella seconda sezione del testo, la statistica dell’import/export per il 1752 che sappiamo riprendere i calcoli effettuati per tale anno dietro disposizioni del già ricordato Cristiani, senza per altro giungere a una loro compiuta rielaborazione.

- Potenzialmente era un fatto certamente di rilievo dal punto di vista metodologico che nulla aveva da spartire con gli analoghi tentativi compiuti da altri bilancisti ambrosiani come Francesco Maria Carpani e Filippo Muttoni.

- Se Verri si era deciso a metterne in pubblico gli esiti, era stato certamente in base a un rischio calcolato, essendogli ben noto che quella materia era da trattare solo in via riservata.

- L’obiettivo dichiarato era quello di mettere a disposizione della Giunta di cui era entrato a far parte, quel suo tentativo semiufficiale di bilancia commerciale, sulla base del quale farsi un’idea non più tanto vaga circa la struttura dei flussi commerciali con l’estero, onde ricavarne gli elementi per una revisione tariffaria degna di questo nome, in grado di assicurare la crescita del gettito daziario senza pregiudicare la produzione nazionale.

- L’intento era dunque plausibile, ma non altrettanto il modo di metterlo in pratica, essendosi egli preso l’iniziativa di dare alle stampe quel suo “manufatto”, per giunta con alcuni aggiustamenti che ne avevano addirittura aggravato il già cospicuo saldo passivo.

- L’unico modo per rendere quest’ultimo accettabile era di ammettere, come si è già chiarito altrove, una relazione lineare inversa tra il saldo commerciale passivo e una incognita X corrispondente alle rendite fondiarie pervenute dagli Stati Sardi.

- La bilancia commerciale si apriva quindi a quella dei pagamenti e ciò avrebbe indotto Schumpeter a celebrare in Verri un autentico econometrico.

- Sarà stato anche così, ma per il momento gli erano toccate soltanto reprimende e polemiche.

- Queste tuttavia non erano avvenute invano. - Lo stesso Kaunitz che pur lo aveva così duramente ripreso, avrebbe poi fatto riferimento a

quel suo bilancio per pronosticare alla vigilia del progettato rifacimento della tariffa nel 1764, che la

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relativa regalia “non solo resterà punto pregiudicata” nel suo ammontare “ma riceverà anzi dell’incremento”.

- E anche Antonio Pellegrini che pur non aveva mancato di criticare l’opportunità di un simile tentativo di quantificazione dell’interscambio e che in ogni caso sarebbe stato preferito a Verri nella conduzione della revisione daziaria delegata alla Giunta di loro appartenenza, avrebbe finito per ammettere la sua utilità nel simulare l’incidenza di alcune riduzioni e soppressioni di oneri preesistenti sulla prevista rendita daziaria complessiva. - Del resto anche lui condivideva la filosofia che aveva guidato il Verri nella costruzione di quel bilancio e per la quale a suo dire non doveva “potersi aggravare o sollevare una merce nella nuova tariffa senza i lumi che dovevano scaturire dal Bilancio del nostro Commercio”, ma neanche “salvare i diritti della regalia coll’accrescere o sminuire il tributo di una merce senza conoscerne l’annuo prodotto”.

- Ad ogni modo più in là del ricorso episodico a questo elaborato non si era poi andati per rivedere la tariffa ancora vigente dal 1725, dato che il nuovo bilancio commissionato in via ufficiale al Verri oltre che al Maraviglia Mantegazza per il 1762, sarebbe stato portato a termine quando ormai il ricalcolo dei diritti daziari era un fatto compiuto.

- Quella nuova rilevazione del commercio con l’estero si era dunque rivelata soltanto “un monumento” che Verri così definiva per sottolinearne il grado di perfezione tecnica, ma affrettandosi a precisare che si trattava pur sempre di “roba seppellita e sinora inutile”. - E tuttavia quando si era trattato nel 1770 di chiudere con l’esperienza della Ferma mista e di passare a un sistema di riscossione diretta dei dazi, era di nuovo emersa l’esigenza di far precedere a una ulteriore revisione del tariffario doganale la costruzione di una nuova bilancia commerciale questa volta da riferirsi all’anno più prossimo all’avvento della nuova formula gestionale, vale a dire il 1769.

- E ancora Verri ne sarebbe stato il protagonista, portando a termine l’operazione pur in mezzo a molti imprevisti, entro l’agosto del 1773.

- Gli sarebbe per altro sembrato allora possibile chiudere il cerchio e collegare quella rilevazione alla messa a punto di una riforma doganale da lui agognata fin dai primi tempi della Giunta cui aveva partecipato.

- Essa consisteva nel sostituire dei dazi unici di confine a quelli multipli cui continuava a riferirsi il sistema di imposizione in vigore, nonostante alcune significative deroghe introdotte nel paniere dei beni tassati.

- Secondo lui, “il vero tarlo del mercimonio milanese” stava appunto nei così detti “dazi di traverso” e per la loro eliminazione egli si spendeva ora nella formulazione di un progetto radicale di revisione della disciplina di esazione in corso.

- Si era nel 1774 ma l’attesa di una riforma così concepita sarebbe durata fino al 1786. - In quel caso il bilancio commerciale di riferimento sarebbe stato quello compilato da

Baldassarre Scorza per il 1778 .

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Carlo Capra Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere

Università degli Studi di Milano

Il contesto sociale e politico dell’Illuminismo lombardo

La “primavera dei Lumi” lombarda, per riprendere una definizione di Franco Venturi, si colloca tutta all'interno degli anni Sessanta del secolo XVIII, anche se ovviamente talune premesse erano state poste nei decenni precedenti, e se non mancarono certo gli sviluppi successivi. Non è affatto casuale la coincidenza cronologica con l'avvio della seconda e più radicale ondata delle riforme teresiane, un avvio segnato in maniera non solo simbolica dall'entrata in vigore del nuovo sistema catastale, il 1° gennaio 1760. Nel giro di pochi anni furono impostati su nuove basi i rapporti tra Stato e Chiesa, fu avanzata l'esigenza di un rinnovamento del diritto e del sistema giudiziario,, furono creati nuovi organi di governo (primo fra tutti il Supremo Consiglio di economia, presieduto da Gian Rinaldo Carli e in cui entrò come consigliere Pietro Verri), furono gettate le basi di una gestione statale dell'assistenza, della sanità e dell'istruzione. Non si trattava più soltanto, come ai tempi di Gian Luca Pallavicini, di risanare le finanze e riordinare l'amministrazione, l'obiettivo dichiarato era ora quello della pubblica felicità, oggetto dei buoni prìncipi secondo l'insegnamento dell'ultimo Muratori. Contemporaneamente i rapporti con l'autorità sovrana, rimasti nella prima metà del Settecento sullo stesso piede in cui li aveva lasciati il governo di Madrid, cioè regolati da una sorta di patto implicito che lasciava alle forze locali l'interpretazione e l'applicazione delle leggi, il riparto e la riscossione dei tributi, registravano un deciso spostamento dei poteri decisionali verso Vienna, dove al vecchio e sonnacchioso Consiglio d'Italia era subentrato nel 1757 un molto più dinamico ed efficiente Dipartimento d'Italia, aggregato alla cancelleria di Corte e Stato guidata dal Conte, poi Principe di Kaunitz, il maggiore rappresentante in terra austriaca delle nuove correnti di pensiero ispirate all'illuminismo anglo-francese. E così a Vienna come a Milano la vecchia guardia spagnola e l'oligarchia patrizia cominciavano a cedere il passo a un ceto di governo di varia provenienza e di formazione più moderna, sensibile alle istanze dello sviluppo economico e di provata fedeltà alla monarchia asburgica. Un altro fattore destinato a giocare a favore del cambiamento era, come sempre, la guerra: il lungo conflitto contro la Prussia noto come Guerra dei sette anni (1756-1763) non fruttò a Maria Teresa, come si era sperato, il recupero della Slesia, ma mise a dura prova le finanze austriache e portò in luce insufficienze e magagne che già nel 1760-61 determinarono una riorganizzazione delle strutture di vertice della Monarchia; e questa non poteva restare senza conseguenze anche per le sue componenti periferiche: tanto più che il riavvicinamento tra le corti di Vienna e Versailles determinò una sorta di neutralizzazione della penisola italiana, non più campo di battaglia tra le case di Asburgo e Borbone, e rafforzò dunque la determinazione della prima a operare le necessarie riforme senza più timore di contraccolpi internazionali.

Certo non si può considerare la quasi improvvisa fioritura dell'illuminismo lombardo, nei primi anni Sessanta, come una conseguenza diretta della nuova congiuntura politica, del nuovo clima che si respirava a Milano e Vienna, così come, d'altra parte, sarebbe sbagliato attribuire agli illuministi lombardi il ruolo di suggeritori e artefici del moto delle riforme. Va tenuto il debito conto, soprattutto, della forza espansiva delle correnti intellettuali che si irradiavano dalla Francia e, in minor misura, dalla Gran Bretagna. Il decennio abbondante che va dall'Esprit des lois di

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Montesquieu (1748) al Contrat social e alla Nouvelle Héloise di Rousseau (1762), passando per i volumi dell'Encyclopédie, l'Essai sur les Moeurs e il Candide di Voltaire, i Political Essays di Hume, il Tableau économique di Quesnay, il De l'Esprit di Helvétius, è quello in cui le idee dei Lumi, raggiunta la piena maturità, si propongono agli spiriti di tutta l'Europa come la chiave per la comprensione dei mali del presente e per la progettazione di una nuova società. A Napoli e a Firenze l'influsso del nuovo pensiero si fece sentire fin dagli anni Cinquanta, come dimostrano gli scritti di Galiani e Genovesi o di Neri e Pagnini. Milano, più arretrata culturalmente nella prima metà del secolo, rispose con un decennio di ritardo, ma con una radicalità e una capacità di dialogo con l'Europa anche maggiori. Da Milano, in particolare, vennero le proposte più originali per la riforma del diritto penale e i contributi più rilevanti allo sviluppo della nuova scienza economica, nelle opere di Beccaria e di Verri, così come il modello di una nuova poesia civile, con le Odi e il Giorno di Giuseppe Parini. A Milano si realizzò per un tratto di tempo una feconda collaborazione tra le nuove energie intellettuali e l'azione del governo asburgico, punto di partenza per quella modernizzazione dell'economia, della società e delle istituzioni che da Verri a Romagnosi e Cattaneo viene ricompresa nella tematica dell'incivilimento. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE. Franco Venturi (a cura di), Illuministi italiani. Tomo III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958; Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, diretta da Luigi Firpo e Gianni Francioni, 15 voll. finora usciti, Milano, Mediobanca, 1984 sgg; Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri, 6 voll. finora usciti, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2003 sgg. Franco Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969; Carlo Capra, La Lombardia austriaca nell'età delle riforme, Torino, UTET, 1987; Id. (a cura di), Pietro Verri e il suo tempo, 2 voll., Milano, Cisalpino, 1999; Id., I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002; Philippe Audegean, La philosophie de Beccaria. Savoir punir, savoir écrire, savoir produire, Paris, Vrin, 2010.

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Germano Maifreda Università degli Studi di Milano

Sapere economico e metodo scientifico nell’Illuminismo lombardo

I nessi instauratisi, tra XVI e XVIII secolo, tra l’evoluzione del sapere economico e la nascita del metodo scientifico sono oggi uno dei principali ambiti di interesse per gli studi condotti, a livello internazionale, dagli storici della cultura economica occidentale. In questo quadro, ancora scarsamente approfondite – a differenza di quanto è accaduto con riferimento al movimento illuminista napoletano – sono le ricerche riguardanti gli aspetti scientifici e metodologici del sapere economico prodotto in Lombardia nel secondo Settecento, oltre che delle sue applicazioni pratiche nel quadro delle riforme teresiane e giuseppine.

Una prima riconsiderazione delle fonti disponibili, che si condurrà in questa sede compatibilmente con il tempo a disposizione, dimostra quanto le analisi e i progetti illuministici lombardi fossero permeati dalla ricezione e dall’ammirazione nei confronti del metodo scientifico consolidatosi, nel dialogo continuo fra diverse aree d’Europa, tra XVII e XVIII secolo. La lettura di svariati luoghi del “Caffè”, dalle principali opere e dai carteggi di Pietro e Alessandro Verri, di Cesare Beccaria, di Paolo Frisi e di diversi altri artefici di quella grande stagione di rinnovamento generale della politica e della conoscenza economica che fu il secondo Settecento lombardo, permette infatti di cogliere con immediata evidenza l’ammirazione per la tradizione matematica, fisica, astronomica e, più ampiamente, filosofico-scientifica sedimentatasi in Occidente grazie a Galileo, Bacon, Newton, Harvey, Petty e agli altri protagonisti della formazione del metodo di ricerca che oggi consideriamo scientifico. Tale ammirazione non sconfina, tuttavia, mai, nel pensiero dei principali esponenti principali dell’Illuminismo lombardo, nella sterile accettazione di schematizzazioni quantitative precostituite, né nella banale instaurazione di letture e interpretazioni meccanicistiche dei sistemi economici e sociali. Proprio, anzi, nella culturalmente matura distinzione epistemologica tra teorie e oggetti di studio propri delle scienze naturali da un lato, e delle scienze sociali (e dunque economiche) dall’altro, risiede uno degli elementi di originalità della stagione illuminista lombarda: segno al contempo della sua statura culturale di assoluto rilievo europeo e della sua precoce emancipazione da stilemi acriticamente scientizzanti che, nella stessa epoca, andavano maturando in altre aree del continente europeo.

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Bibliografia indicativa : “Il Caffè” (1764-1766), a cura G. Francioni, S. Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. P. Frisi, Elogio del Galileo, Milano, per Federico Agnelli, 1775. Opere scelte di Alessandro Verri, Milano, dalla Società tipografica de’ classici italiani, 1822. Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro ed Alessandro Verri, a cura di G. Gaspari, Milano, Adelphi, 1980. Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003- , prima serie, Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. 19 maggio 1792 - 8 luglio 1797, a cura di S. Rosini, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2008. Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003- , prima serie, Scritti di economia, finanza e amministrazione, a cura di G. Bognetti, A. Moioli, P. L. Porta, G. Tonelli, 2 tomi. Pietro Verri e il suo tempo, a cura di Carlo Capra, Bologna, Cisalpino, 1999. R. Ajello, Cartesianesimo e cultura oltremontana al tempo dell’«Istoria civile», in Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di Id., Napoli, Jovene, 1980, volume I, pp. 3-181. M. Bianchini, The Galilean Tradition and the Origins of Economic Science in Italy, in Political Economy and National Realities, a cura di M. Albertone, A. Masoero, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1994, pp. 17–29. C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002. L. Daston, Classical Probability in the Enlightment, Princeton, Princeton University Press, 1988. V. Ferrone, Celestino Galiani e la diffusione del newtonianesimo. Appunti e documenti per una storia della cultura scientifica italiana del primo Settecento, «Giornale critico della filosofia italiana», 1982, n. 61, pp. 142-182 e Id., Alcune riflessioni sulla cultura illuministica napoletana e l’eredità di Galilei, «Giornale critico della filosofia italiana», 1984, n. 63, pp. 315-333, ora in Id., Una scienza per l’uomo. Illuminismo e Rivoluzione scientifica nell'Europa del Settecento, Torino, Utet, 2007. I. Hacking, The Emergence of Probability. A Philosophical Study of Early Ideas about Probability, Induction and Statistical Inference, Cambridge-New York-Melbourne, Cambridge University Press, 20062. F. Venturi, Settecento riformatore. I. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 19982. G. Maifreda, L’economia e la scienza. Il rinnovamento della cultura economica tra Cinque e Seicento, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2010.

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Gianpaolo Massetto Università degli Studi di Milano

Beccaria tra diritto penale ed economia pubblica

Scriveva Mario Romani nel 1966. “[…] la sua [di Beccaria] più matura e solida parte [di produzione], ossia il testo delle lezioni milanesi di pubblica economia tenute dal 1769 al 1772 per le sue vedute d’insieme, da trattatista, e le numerose relazioni o «consulte» frutto delle ricerche compiute in quanto membro di organi di governo in cui risaltano le sue doti per le analisi empiriche, resta a lungo, troppo a lungo ignorato in tutto o in parte, o affidata a editori malsicuri, pronti a dare alle stampe manoscritti giudicati non pubblicabili dallo stesso Autore”. Il disagio che queste parole denunciano non ha ora più ragion d’essere. E’ imminente la pubblicazione dell’edizione critica degli Elementi, mentre è giunta a conclusione la pubblicazione degli Atti di Governo che illustrano al completo l’attività svolta dal Milanese nelle funzioni di consigliere del Supremo Consiglio d’Economia, del Nuovo Magistrato Camerale, di capo del III dipartimento, poi del II, del Consiglio di Governo. Lo studioso è così posto in grado di conoscere e di valutare appieno l’opera di Beccaria teorico e di Beccaria in azione sia in ordine al settore penale che a quello economico. L’oggetto della relazione consiste nel tentativo di determinare se vi sia coerenza tra quanto scritto a tavolino dal Milanese e quanto operato, per così dire, sul campo intorno a temi in cui stretto è il nesso tra diritto penale ed economia pubblica. L’attenzione si soffermerà essenzialmente su argomenti inerenti alla libertà di commercio, dei grani in particolare, alla libera panizzazione, alla disciplina della caccia, dei boschi e delle miniere, all’Ergastolo di Pizzighettone, alla Casa di Correzione di Milano. M. Romani, Beccaria economista, in Atti del Convegno Internazionale su Cesare Beccaria, Accademia delle Scienze di Torino, Torino, 1966, pp. 241-251; A. Cavanna, La codificazione penale in Italia. Le origini lombarde, Milano, 1975; M. Romani, L’economia milanese nel Settecento, in Id., Aspetti e problemi di storia economica lombarda nei secoli XVIII e XIX. Scritti riediti in memoria, Milano,1977, pp. 122-206; C. Capra, Il Settecento, in Il Ducato di Milano dal 1525 al 1796, Storia d’Italia, vol. XI, Torino, 1974; Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa. Atti del Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita promosso dal Comune di Milano. Prolusioni di Sergio Romagnoli e Gian Domenico Pisapia, Milano-Bari 1990 C. Beccaria, Atti di Governo, a cura di R. Canetta, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, voll. VI-XVI/2, Milano 1987-2009; C. Beccaria, Opere, a cura di Sergio Romagnoli, 2 voll., Firenze, 1958; C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Torino, 1965; C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di G. Francioni, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, vol. I, Milano, 1984

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Alberto Quadrio Curzio

Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

L’Illuminismo lombardo fra teoria economica e riforme istituzionali

Consideriamo da vicino tre personalità che hanno segnato un periodo a grandi linee compreso tra il 1760 e il 1870. In circa cento anni il genio di Cesare Beccaria, Pietro Verri, Carlo Cattaneo ha avuto modo di caratterizzare una cultura lombarda con forti connotazioni europee. Sono stati studiosi ed uomini di azione con intonazioni istituzionali, sociali, comunitarie, liberali, europeiste. La loro figura spicca anche nel contesto dei pensatori famosi su scala internazionale sia al loro tempo che nei secoli successivi. Nessuno dei tre è stato solo economista ma tutti e tre hanno ricompreso l’economia dentro quel più ampio insieme delle «scienze morali» sia nella accezione tipica delle Accademie sia come mezzo per il progresso civile.

Beccaria, Verri, Cattaneo sono stati i costruttori del «paradigma lombardo», denominazione che non connota una chiusura localistica ma una territorialità culturale collocata in un contesto europeo. Esso s’incardina da un lato sul «razionale pragmatismo» e dall’altro su una combinazione di «umanesimo» e di istanze all’«incivilimento» per il miglioramento delle condizioni di vita del popolo che caratterizza vari pensatori lombardi del secondo Settecento e dell’Ottocento.

In vari nostri saggi è stata argomentata la convinzione che l’economia politica in quei secoli si andasse delineando come una delle «scienze di governo» per una società complessa in cui molteplici erano e dovevano essere i «livelli di governo»: quello dello Stato, quello della società civile, quello del mercato, quello dello spazio europeo. Il «paradigma lombardo» è dunque caratterizzato dal forte intreccio di economia, società e istituzioni.

Beccaria, Verri, Cattaneo sono infatti pensatori nel campo dell’economia, che a noi più interessa; ma anche della storia, della filosofia, della politica, del diritto. Ma, in alcuni casi, anche della tecnologia nelle sue connessioni con l’economia.

Essi sono progettisti dello sviluppo come insieme articolato di livelli di governo e di partecipazione, che riflettono sulla pubblica amministrazione, sulla società, sull’economia. Alcuni di essi sono statisti o, lo si voglia affermare con minore enfasi ma con identica sostanza, pubblici amministratori e riformatori.

Essi sono infine umanisti per la loro sensibilità ai valori della persona e della giustizia, che vengono richiamati in particolare da Cesare Beccaria e che proseguono per ritrovarsi, quasi un secolo dopo, nella insigne espressione letteraria di Alessandro Manzoni. Perché noi siamo convinti che il paradigma lombardo, con il suo razionale pragmatismo, assuma un più alto significato se completato con l’umanesimo manzoniano.

In sintesi si potrebbe dire che il paradigma lombardo si snoda, ricomprendendoli, dal razionale pragmatismo all’umanesimo, perché le personalità che l’hanno impostato erano ispirate da ideali tradotti nell’operare con riformismo, moderato o forte ma pur sempre riformismo, capace di cambiare i fatti.

Sappiamo che il pensiero economico lombardo del Settecento e Ottocento è stato influenzato dal contesto filosofico e culturale in cui l’azione utilitaria dell’individuo si combina con la presenza dello Stato per la migliore soddisfazione dei bisogni dei cittadini. Questo pensiero rivela sia l’attenta considerazione, in originale ricomposizione, delle idee francesi, dei modelli riformistici

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cosmopolita ed europeo.

Il paradigma lombardo manifesta però una sua identità forte perché le personalità citate con il loro «sapere» e con il loro «sapere scientifico», che dava rilievo al «fare» economico, tecnologico e civile, influenzarono il potere politico.

Si pensa spesso che il potere del Sovrano sia stato condizionato solo dal progresso della democrazia e talvolta si ritiene che solo le rivoluzioni abbiano creato quelle discontinuità su cui, poi, la democrazia si è innestata.

Tutto ciò è vero ma non completo, perché spesso l’influenza sul potere è venuta anche dal «sapere» e dal «fare» degli intellettuali. Anche di quelli che non sono mai apparsi nelle cronache delle rivoluzioni o addirittura di quelli che erano al servizio formale del Sovrano ma, pur con lealtà al Sovrano, erano al servizio sostanziale del progresso civile che, a sua volta, ha natura multiforme: istituzionale, sociale, economica, scientifica e tecnologica.

Questi sono gli ingredienti del liberalismo comunitario: non contrappositivo e non statalista ma riformista, valorizzante il sapere e il conoscere come fondamenti della civiltà, attento alla promozione equilibrata di istituzioni, società e mercato.

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Sophus A. Reinert Harvard Business School

Principi e pratiche del commercio: il contributo degli economisti lombardi

La storia dell’economia politica sta attraversando una svolta culturale. Al modello proposto da Joseph A. Schumpeter nella Storia dell’Analisi Economica, che consisteva nel giustapporre dottrine economiche astratte in ordine cronologico, è subentrato il tentativo di analizzare le idee economiche nel loro contesto storico. Il mio saggio contribuisce a questo movimento storiografico contestualizzando le teorie e le politiche economiche elaborate dai membri dell’Accademia dei pugni nella Lombardia austriaca degli anni sessanta e settanta del Settecento. Più in particolare, questo studio analizza le esigenze pratiche alla base di dottrine e progetti politici e, nel farlo, mette in luce la dipendenza delle une e degli altri da patriottismi di natura diversa (religiosi, culturali, politici o economici) e spesso in conflitto reciproco.

Modelli austriaci di riforma economica, come quello di Philipp Ludwig Sinzendorf, esercitarono una profonda influenza sui riformatori milanesi, i quali, del resto, erano sensibili anche a idee economiche provenienti da Francia, Spagna e Gran Bretagna. Queste influenze, insieme all’unicità del contesto istituzionale lombardo, contribuiscono a spiegare gli aspetti piu idiosincratici del pensiero economico di Pietro Verri, Cesare Beccaria e Sebastiano Franci, convinti sì che un commercio più libero fosse in grado di rivoluzionare il mondo, ma anche sensibili al bisogno di una politica economica che, con tariffe e proibizioni, proteggesse la Lombardia da una competizione economica spietata. Considerata incubatrice ora di ‘mercantilismo’ ora di ‘liberalismo economico’, l’Accademia dei pugni era in realtà la fucina di una politica economica coerente e originale, che questo studio si propone di portare alla luce attraverso una contestualizzazione piu meditata e precisa delle attività del gruppo. Grazie a questa nuova prospettiva storiografica, si vedrà come, per quanto difficile da far rientrare in stereotipi storici, la politica economica dell’Accademia dei pugni non possa essere spiegata neppure alla luce della contrapposizione tradizionale tra ‘laissez-faire’ e ‘protezionismo’, ma necessiti, per essere compresa, di un armamentario metodologico completamente nuovo, l’unico capace di mettere in risalto i meriti intrinseci di uno dei più grandi contributi italiani al dibattito contemporaneo sull’economia politica.

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Pier Luigi Porta

Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere Università degli Studi Milano Bicocca

Nuove prospettive negli studi economici sull’Illuminismo lombardo

In sede di conclusione del Convegno promosso dall’Istituto Lombardo questa relazione tenterà di proporre una riflessione sugli spunti emersi nelle due giornate di lavoro tenendo anche conto di una sintetica analisi critica di alcuni degli studi più recenti sull’Illuminismo. Il proposito del presente contributo è anche quello di analizzare il carattere specifico del contesto italiano e il rapporto con la disciplina ‘nuova’ (o quanto meno rinnovata) della economia, detta allora economia civile oppure scienza camerale o ancora economia pubblica, economia politica e simili.

L’aggettivo ‘civile’ caratterizza storicamente l’esperienza della formazione delle idee economiche e sociali in Italia, specie a partire dall’Umanesimo e sino a Muratori, Genovesi e altri autori. Esso va inteso – quanto agli sviluppi di maggiore interesse in questa sede – nel quadro delle concezioni settecentesche dell’ordine sociale spontaneo.

Il passaggio dal mercantilismo al periodo ‘classico’ (inclusa la Fisiocrazia) è in generale contrassegnato da una cesura molto netta che include i seguenti passaggi: 1. Rifiuto del concetto bullionista della pratica identificazione della ricchezza con l’accumulo di moneta e di strumenti finanziari. 2. Rifiuto del ‘profit upon alienation’. 3. Generale adesione al principio della superiorità del laissez-faire. 4. Rifiuto o superamento del popolazionismo. 5. Rifiuto della concezione monetaria dell’interesse, anche perché la medesima presuppone una nozione monetaria del capitale, che viene invece sostituita dalla nozione reale di capitale.

Questi passaggi avvengono nel pensiero italiano (direi meglio nei casi di Scozia e Italia) in una forma meno drastica rispetto alla Francia. Sarà utile qui un richiamo moderatamente ampio alla letteratura del dopoguerra sull’Illuminismo, sino alle riletture recenti.

Le prospettive di studio sull’Illuminismo, specie in relazione con il pensiero economico, possono anche essere collocate entro il quadro della distinzione tra quello che chiamiamo qui illuminismo civile e l’illuminismo radicale sul quale si è diffusa molta letteratura recente. Di fatto questa distinzione, proposta ed elaborata appunto in questi ultimi anni, ha prodotto il risultato di mettere in evidenza soprattutto l’illuminismo radicale come il sistema di pensiero che ha forgiato la maggior parte dei valori sociali e culturali della nostra epoca. In realtà una simile prospettiva implica una enorme sottovalutazione dell’illuminismo civile, probabilmente dovuta proprio a una insufficiente attenzione al caso italiano, il quale si presenta come una delle espressioni più forti e coerenti dell’illuminismo civile. Sotto questo aspetto (con le necessarie qualificazioni e distinzioni interne) si può dire, p. es., che il caso italiano va studiato separatamente dal caso francese.

Ha importanza fondamentale la analisi della idea di progresso che contraddistingue l’illuminismo civile. Si tratta di un progresso di tipo costituzionale che mira allo sviluppo di un insieme stratificato di istituzioni che aprirà in tempi successivi la strada al liberalismo. L’idea di fondo è quella di libertà. Per l’illuminismo radicale invece la idea di fondo è quella della uguaglianza e la finalità politica è il democratismo radicale.

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L’ economia politica diventa a partire soprattutto dal Settecento un pilastro fondamentale dell’idea dell’Illuminismo civile. Anche qui, limitando il campo al pensiero economico, vi sono delle differenze tra contesti diversi: nel caso francese, la reazione al Colbertismo conduce a esaltare il mercato e il laissez faire come il perno dell’ordine sociale. L’unica politica possibile è quella di mettere i mercati concorrenziali in condizioni di funzionare perché l’ordine di mercato è sufficiente di per sé per correggere gli squilibri della società. Nel caso italiano la concezione ha altri caratteri: tra economia e istituzioni c’è una compenetrazione assai forte. Il caso lombardo, Verri in particolare, è sicuramente interessante. Anche quella che è talvolta chiamata la anima istituzionalista di Adam Smith riflette, tra altre influenze, echi del pensiero degli economisti italiani.

Occorre infine esaminare la continuità nel tempo della linea italiana, e lombarda in particolare, a cominciare con il primo Ottocento milanese. Si è spesso sostenuta la tesi di sterilità del pensiero economico italiano specie nel primo Ottocento, quasi che quella che qui chiamo la ‘linea italiana’ (civile, o – come talvolta si afferma – moderata) sia stata schiacciata nello scontro perenne (e del resto tuttora vivo) tra illuminismo radicale e anti-illuminismo.

In realtà il caso italiano, nel corso degli ultimi due secoli, può risultare istruttivo proprio per aver dato luogo a interessanti correnti di pensiero economico. Questa considerazione (spesso insufficientemente riconosciuta) è non soltanto un fondamento della concezioni unitaria del periodo 1750-1850, ma costituisce altresì uno dei maggiori elementi di continuità della tradizione italiana fino al presente.

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