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LA DISGRAFIA RELAZIONALE Brutta scrittura o sofferenza? Allieva Dott.ssa Gemignani Francesca Corso di Rieducazione del gesto grafico AED Milano 2013/2014

LA DISGRAFIA RELAZIONALE Brutta scrittura o sofferenza?

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LA DISGRAFIA

RELAZIONALE

Brutta scrittura o sofferenza?

Allieva

Dott.ssa Gemignani Francesca

Corso di Rieducazione del gesto grafico – AED Milano 2013/2014

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INDICE

INTRODUZIONE pag. 2

CAPITOLO PRIMO

DINAMICHE RELAZIONALI E DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO pag. 4

1.1 Il bambino e la coppia genitoriale pag. 4

1.2. Stili di attaccamento e sviluppo del sé pag. 7

CAPITOLO SECONDO

IL TRAUMA E L’ APPRENDIMENTO pag. 9

2.1. Prerequisiti all’apprendimento e affermazione del sè pag. 9

2.2. Il concetto di disgnosia pag. 11

2.3. Cos’è un disturbo reattivo? pag. 13

2.4. La disgrafia come disgnosia motoria pag. 14

CAPITOLO TERZO

RELAZIONE TERAPEUTICA E RIEDUCAZIONE

DELLA SCRITTURA pag. 15

3.1. Alleanza terapeutica, alleanza diagnostica, pseudo alleanza pag. 15

3.2. Il contagio e l’induzione della sfiducia pag. 17

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE pag. 19

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE pag. 21

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha come oggetto un approccio alla scrittura come segno di

comunicazione ed espressione, piuttosto che come abilità tecnico-pratica (che, pure, ne è

una componente importante), quindi come segnale che va verso l’altro ma anche che

proviene da noi. Esaminando la definizione di R. Oliveaux, risulta evidente come egli

effettui una chiara distinzione tra la disgrafia strumentale e la disgrafia relazionale. La

prima riferita in particolare alla fatica nell’esecuzione del gesto grafico, la seconda riferita

piuttosto alla illeggibilità del tracciato, relativa dunque alla riproduzione di una grafia

leggibile, che permetta di “farsi capire”. Questa difficoltà compromette sicuramente il

significato profondo della scrittura, che è quello non solo di comunicare con gli altri, ma

anche di parlare in qualche modo di sé. In quest’ottica, le problematiche di disgrafia (e

disortografia) si rivelano spesso legate a rapporti interpersonali non favorevoli ad uno

sviluppo sereno del bambino. La sensibilità dei bambini è molto elevata, e non altrettanto

sviluppata è la capacità di decodificare correttamente un messaggio, soprattutto nei

primissimi anni di vita. Ecco quindi che è sufficiente un’insegnante verbalmente

aggressiva o poco affettiva per creare effetti negativi nell’apprendimento della grafia e

nell’apprendimento in generale. Tali effetti potranno essere superati dai bambini se

l’ambiente familiare li saprà sostenere ed aiutare. Ci sono bambini che, anche in

situazioni relazionali non ottimali, riescono ad avere un approccio positivo verso la scuola

e ciò che viene loro insegnato, ma in generale relazioni conflittuali o irrisolte nel contesto

familiare producono effetti non positivi sull’apprendimento. E’ sufficiente si ripropongano

al bambino schemi familiari di svalutazione o di insicurezza rispetto al proprio sé, che i

livelli di attenzione cominciano a essere deficitari, con compromissioni inevitabili sul

rendimento scolastico. Certo, non tutte le disgrafie sono causate dalla relazione con gli

insegnanti o con i compagni di classe, ma questa può comunque essere una concausa

importante. A mio avviso, ciò che ha maggior influenza è il rapporto con il genitore, così

come le dinamiche relazionali all’interno della famiglia. Ad esempio, se i genitori sono in

crisi come coppia, è pura illusione pensare che il bambino non lo sappia e non ne sia

influenzato; se invece di sostenerlo lo criticano, se manca il sostegno affettivo ed

emozionale, l’apprendimento – ed il conseguente rendimento – ne risente. Ugualmente

accade nel caso in cui all’interno della famiglia vi siano traumi non elaborati, che

riguardino la storia dei genitori o di altri componenti del nucleo familiare.

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Nel primo capitolo dell’elaborato sono illustrate alcune teorie di matrice sistemico

relazionale. che hanno come oggetto di studio le dinamiche relazionali all’interno della

famiglia e la loro influenza nello sviluppo di disturbi a livello psicologico nel bambino. Tali

dinamiche possono costituire quindi terreno fertile per lo sviluppo di deficit e/o patologie a

livello clinico.

Nel secondo capitolo si affronta nello specifico il meccanismo di insorgenza della difficoltà

specifica di apprendimento nel bambino, facendo riferimento all’approccio psicodinamico,

che pone l’attenzione in special modo sulla dinamica relazionale nella diade madre-

bambino.

Nel terzo e ultimo capitolo si evidenzia il concetto di alleanza terapeutica nelle sue varie

sfaccettaure, vista l’importanza che la relazione tra i soggetti riveste nel percorso di

rieducazione della scrittura. Ritengo infatti che il principio di alleanza utilizzato nella

psicoterapia, possa essere il medesimo applicato alla rieducazione, intesa proprio come

grafo-terapia.

Per mia formazione ho voluto evidenziare il principio di alleanza col paziente, in questo

caso con il bambino, poiché è proprio nell’alleanza che si sviluppa la fiducia tra le parti e

che risulta possibile instaurare una relazione, necessaria allo sviluppo di un percorso di

riabilitazione efficace. Credo che lo scopo principale della rieducazione sia proprio quello

di ripristinare un senso di fiducia nel bambino (ma anche nell’adolescente o nell’adulto),

partendo innanzitutto da sé stesso e aiutandolo gradualmente a riporla nell’altro in modo

equlibrato. L’alleanza inoltre deve essere pervasiva, coinvolgere il sistema in cui il

bambino è inserito nella sua globalità e che comprende non solamente i genitori, ma

anche gli insegnanti di riferimento nel contesto scolastico in cui egli sia inserito. Solo

allora la presa in carico potrà essere vissuta come tale non solo dai genitori, ma

soprattutto dal bambino.

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CAPITOLO PRIMO

DINAMICHE RELAZIONALI E DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO

1.1 .Il bambino e la coppia genitoriale

Il modo in cui la coppia si riorganizza affettivamente in relazione alla nascita dei figli ha

un’influenza rilevante sulle modalità con cui ciascuno dei coniugi si assesta nel proprio

ruolo, di madre e padre, e si relaziona al figlio. Alcune coppie ad esempio possono

accogliere il passaggio dall’essere in due all’essere in tre come conferma evolutiva per sé

e per il proprio legame, utilizzando in questo modo la nascita del figlio. La presenza di un

figlio, prima immaginata e poi reale, porta quindi i partner alla rivisitazione del proprio

passato da un vertice osservativo diverso, che comporta il confronto con le proprie figure

genitoriali, nell’identificazione con i propri genitori e con il proprio Sé bambino. In situazioni

patologiche può accadere che alcuni contenuti psichici siano negati e scissi costituendo

nuclei di negazione nella coppia, così come è possibile trovarsi di fronte ad una quota di

aspetti che viene invece agita entro la relazione. Naturalmente tutto questo ha un peso

nella relazione con il bambino.

1.2. Cenni teorici di riferimento

A tal proposito, le teorie nell’ambito della psicologia su cui si basa l’approccio sistemico

relazionale hanno evidenziato l’importanza della relazione a partire dalla diade madre-

bambino, ma in modo particolare in riferimento al contesto familiare e alla sua influenza

sullo sviluppo del bambino.

Una teoria esemplificativa è quella di Bateson (1972). Se Bateson (1972) potesse parlare,

ci ricorderebbe che la teoria del doppio legame ben spiega come la coesistenza di

messaggi contraddittori nella comunicazione interna al sistema familiare possa contribuire

all’insorgenza di alcune disfunzioni, proprio di parti più deboli del sistema, che sembrano

essere proprio i bambini, futuri adolescenti. Il bambino è la parte più duttile del sistema, più

plasmabile e le sue difese sono in divenire, poiché si strutturano all’interno della relazione

genitoriale. Bateson, a questo proposito, sottolinea come gli individui nella comunicazione

mettano in gioco sé stessi e la propria identità. Ogni volta che una persona comunica

qualcosa mette in campo, oltre che delle definizioni di sè e dell’atro, anche una definizione

del tipo di interazione. Il problema nasce quando la comunicazione comporta, come nel

doppio legame, richieste in contraddizione tra di loro, alle quali il ricevente non

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può sottrarsi (Gambini, 2007). Si tratta delle ingiunzioni paradossali, quelle in base a cui la

comunicazione verbale viene seguita da una comunicazione non verbale, che ne

contraddice il senso e che pertanto non riesce ad essere interpretata nella maniera

corretta. Secondo Bateson, questa disfunzionalità nella comunicazione era alla base di

molti disturbi psichici. Infatti la teoria del doppio legame venne proposta da lui insieme al

gruppo di Palo Alto, per lo studio dell’insorgenza della schizofrenia nelle famiglie. Bateson

descrive come tipico il caso in cui all’interno della famiglia questa patologia si possa

sviluppare, in particolare all’interno della diade madre-figlio. Questa particolare relazione

viene definita come una situazione di legame intenso, in cui l’individuo (in questo caso, il

bambino) si sente profondamente coinvolto e per il quale è di importanza vitale riuscire a

discriminare i messaggi che gli arrivano, per potervi rispondere adeguatamente (Bateson

1972, cit. in Gambini 2007). Nel meccanismo del doppio legame, il figlio in realtà si trova

ad essere prigioniero di un messaggio con doppia valenza e a cui non riesce a rispondere,

mettendo in atto strategie difensive (come ad esempio le disfunzionalità a livello

comportamentale), che sono alla base ad esempio del disturbo di schizofrenia in pazienti

giovani. In questo modo, nella prima fase del ciclo di vita (l’infanzia), durante la quale la

coerenza nel messaggio è importante e viene a mancare, si possono creare le basi per

l’insorgere di una patologia clinica rilevante. Questa idea è coerente con quanto asserito

dalla prima cibernetica in cui il clinico, nell’ambito della terapia familiare, poteva trovare

una chiave di lettura interessante, soprattutto rispetto al fatto che a ciò che viene

comunicato da un membro della famiglia, corrisponde sempre un messaggio di ritorno da

parte degli altri -o di un altro-, che coincide con una risposta che tende a voler modificare il

comportamento dell’emittente (Gambini, 2007).

Nell’ambito della teoria familiare, Bowen (1979) descrive la scala della differenziazione del

sé, facendo riferimento ad un continuum lungo il quale ad un livello più basso si ha una

scarsa differenziazione dell’io e quindi un elevato livello di fusione tra le parti nel sistema

familiare (e quindi tra i membri della famiglia), e a livello più alto una ottimale

differenziazione del sé. Nell’ottica dello sviluppo della patologia clinica nei bambini e negli

adolescenti, appare interessante potersi soffermare sul concetto di livelli funzionali. Più è

basso il livello di differenziazione, e quindi il grado di fusione dell’io, più aumenta il “dare in

prestito o il prendere in prestito”, il dare e il condividere il sé entro la massa dell’io

familiare. L’individuo che lungo il continuum si assesta su posizioni basse, si rivelerà

maggiormente inadeguato a livello delle proprie comunicazioni significative. Ciò significa

che le fusioni dell’io sono più intense e quindi che i meccanismi di distanza emotiva,

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isolamento, conflitto violenza e malattia fisica messi in atto per controllare l’emozione di

eccessiva intimità sono estremi, perché l’incidenza del contatto dell’intrapsichico dell’ altro

è molto intensa a livello di fusione dell’io. In questa posizione, è facile che la persona

all’interno di una relazione “confusa” sappia intuitivamente ciò che l’altra pensa o sente. In

riferimento al sistema relazionale, Bowen descrive anche il processo di trasmissione multi

generazionale ossia della trasmissione lungo l’asse del trigenerazionale della dimensione

dell’ “immaturità’”. L’immaturità viene intesa come una scarsa differenziazione dell’io da

parte dei genitori, che si traduce in una trasmissione di modelli generazionali sbilanciati e

predominanti, che vengono trasferiti sul figlio maggiormente predisposto, causandone per

così dire un “deterioramento” delle funzioni psicologiche. Questa sembra essere una

visione pessimistica, ma il concetto di trasmissione non deve essere inteso come una

sorta di contagio, bensì come una sorta di eredità, che attraversa l’asse trigenerazionale e

ha anche a che fare con il concetto di mito familiare.

A tal riguardo, Losso (2000) descrive il concetto di trasmissione trans- psichica, nella

quale la trasmissione non avviene tra i soggetti ma attraverso di loro, non viene quindi

lasciato spazio all’elaborazione dei contenuti e lo spazio intersoggettivo, inteso come

spazio libero tra le persone, all’interno del sistema familiare è molto limitato. Questo

concetto sembra molto interessante nell’ambito dello sviluppo della malattia psichiatrica,

poiché la mancanza di uno spazio per il racconto della storia familiare in cui siano

presenti i vissuti dei genitori rispetto alle proprie famiglie di origine nei confronti dei figli,

genera un processo di identificazione muta non udibile (Losso, 2000) e che diventa una

trasmissione per così dire al negativo, dove non vi è spazio per l’elaborazione, e quindi

per il cambiamento nelle generazioni successive.

In parallelo è fondamentale ricordare gli studi di Bowlby, che si rivelano importanti insieme

a quelle che sono le teorie scientifiche relative al comportamento umano in sviluppo negli

Stati Uniti negli anni del dopo guerra. L’autore formula con la teoria della relazione di

attaccamento, un modello di comportamento esemplificativo della relazione del bambino

nei primi anni di vita con la figura genitoriale, che si rivela determinante ai fini della crescita

del bambino. Nello specifico, secondo Bowlby (1969) l’aver avuto durante l’infanzia una

figura di accudimento sensibile ai bisogni, porterà il bambino a sviluppare uno stile

d’attaccamento sicuro, per cui nutrirà un senso di fiducia in se stesso e nel mondo e sarà

capace di fronteggiare in modo adeguato le diverse situazioni. Il modello dell’attaccamento

si discosta dalle teorie psicoanalitiche. Freud infatti analizza lo sviluppo del bambino come

slegato dalle relazioni primarie con la figura genitoriale, ma come piuttosto individuo

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“autonomo”, che insegue per così dire le fasi diverse della crescita intese come stadi,

laddove ciascuno stadio coincide con il soddisfacimento di un bisogno, cioè di una

pulsione. Klein sottolinea l’importanza della relazione oggettuale che viene intesa come

essenziale ricerca continua dell’ oggetto di attaccamento primario (cioè con la madre), che

viene introiettato e fatto proprio dal bambino, perché funzionale al proprio nutrimento. In

quest’ottica la relazione è vissuta a livello intrapsichico, attraverso meccanismi proiettivi

che dal bambino si muovono verso la figura materna e che si muovono lungo un

continuum “buono-cattivo”.

1.3. Stili di attaccamento e sviluppo del sè

Mary Ainswort tramite l’osservazione sistematica del comportamento infantile in

situazione di distacco dalla figura materna, ha individuato quattro modalità di

attaccamento nel bambino e conferma quanto sia importante un attaccamento sicuro,

affinché il bambino possa sentirsi protetto e libero di esplorare l’ambiente. Un

attaccamento sicuro permette di costruire una base sicura, ovvero un terreno chiaro e

rassicurante sul quale muoversi, in grado di alimentare e sostenere la fiducia in sé stesso

e nella relazione, elementi necessari allo sviluppo di comportamenti orientati alla

progressiva indipendenza e autonomia.

Al contrario, una figura d’attaccamento incapace di rispondere con sensibilità ai bisogni del

piccolo, favorirà lo sviluppo di un forte senso d’insicurezza e sfiducia verso l’altro e verso

se stessi, contribuendo allo sviluppo di un attaccamento insicuro. Questi stili

d’attaccamento tendono ad essere costanti nel tempo e ad essere impiegati nelle diverse

situazioni relazionali.

Esistono almeno tre stili d’attaccamento insicuro:

> insicuro evitante, il bambino, anche in situazioni di disagio, non ricerca la figura di

accudimento perché sa di non poter contare su di lei e appare eccessivamente

autonomo per la sua età;

> insicuro ambivalente, il bambino manifesta angoscia da separazione, limita i

momenti di esplorazione dell’ambiente e al ricongiungimento con la figura materna

è inconsolabile;

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insicuro disorganizzato/disorientato, il bambino appare disorientato, ha

comportamenti inadeguati alla situazione, contraddittori e conflittuali. Quest’ultimo

tipo d’attaccamento è spesso evidente in bambini che hanno subito maltrattamenti

da parte dei genitori o di chi ne fa le veci.

Come già accennato sopra, gli studi sulle relazioni d’attaccamento dimostrano che essi

incidono sullo sviluppo della personalità dell’individuo e che vi è una corrispondenza tra

attaccamento insicuro, stile di pensiero e disturbi di personalità.

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CAPITOLO SECONDO

IL TRAUMA E L’APPRENDIMENTO

2.1. Prerequisiti all’apprendimento e affermazione del sè

Elena Simonetta (2012) sostiene che la manifestazione del disturbo di apprendimento è

data da uno scambio non buono e quindi disfunzionale alla crescita, con l’ambiente

circostante. Se consideriamo l’attaccamento come una relazione all’interno della quale

fluisce energia vitale in continua trasformazione come accade in un sistema omeostatico,

questa affermazione potrà apparire molto comprensibile.

Come scrive l’autrice in riferimento ai prerequisiti all’apprendimento legati all’affermazione

del sé, la funzione energetico- affettiva e la funzione operativo- cognitiva esercitano una

integrazione psicosomatica evolutiva. La prima manifestazione della funzione energetico-

affettiva è l’emergere della veglia, che consente al soggetto gli scambi con l’ambiente

circostante e da qui comincia l’integrazione psiche-soma.

I disturbi specifici di apprendimento, compresa la disgrafia, non sono quindi disturbi delle

capacità di apprendere, bensì disturbi dell’integrazione psiche-soma che influisce sulla

organizzazione dei prerequisiti all’apprendimento e sull’affermazione del sé, a seguito

degli esiti di traumi, distinti in traumi a T grande e a t piccolo. Nei primi sei anni di vita i

prerequisiti psicomotori all’apprendimento, quali le funzioni energetiche e di vigilanza,

quelle prassiche ed espressive e quelle senso-percettive, se non evolvono nella cronologia

e secondo la modalità corretta, non consentono di accedere agli apprendimenti in modo

adeguato.

Inoltre, c’è un secondo grande ambito di prerequisiti che evolve parallelamente a

determinate funzioni psicomotorie e che risente della incompleta integrazione psiche-soma,

quello delle funzioni linguistiche e fonetico- linguistiche. Sia l’adeguata evoluzione

psicomotoria che lo sviluppo linguistico- simbolico, insieme all’affermazione del sé e alla

positiva organizzazione dei prerequisiti, sono strettamente dipendenti dalla tipologia

dell’attaccamento relazionale che va ad agire sull’integrazione psicosomatica. Nei bambini

che presentano un attaccamento insicuro e una carente o incompleta integrazione psiche-

soma, al momento dell’alfabetizzazione subentrano i disturbi specifici di apprendimento,

quali manifestazioni di un inadeguato funzionamento cognitivo. I disturbi specifici

compaiono al momento della scolarizzazione, ma prima di questa tappa vi sono altri segnali

che coinvolgono i prerequisiti psicomotori e psicolinguistici carenti, individuabili sin

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dalla prima infanzia, che porteranno necessariamente concretizzarsi di un disturbo

specifico nella fase della scolarizzazione.

Il sé è l’io vissuto come oggetto dall’io soggetto. La nozione di sé è sia un dato del nostro

vissuto concreto, sia una delle funzioni dell’io. Secondo Tommaso Senise (1981) così

come citato da Elena Simonetta, costituiscono il sé: «lo stato e le caratteristiche, le

potenzialità e le capacità, i pregi e i difetti dell’io fisico e psichico; cioè da un lato, del suo

aspetto, della sua autonomia e fisiologia, della sua motricità; dall’altro, dei suoi sentimenti

e pensieri, consci e preconsci, dei suoi desideri, impulsi e atteggiamenti, delle sue attività

mentali». Spiega l’autrice che il vissuto dell’immagine globale e unitaria del sé costituisce

l’identità personale. La incompleta o carente integrazione psiche-soma può comportare

come adattamento una “intellettualizzazione”, in cui la mente prende in carico tutto, dando

origine a gravi problemi perché il corpo viene negato (è ad esempio ciò che spesso si

osserva nei disturbi del comportamento alimentare). D’altra parte, quando viene negata la

mente, ci troviamo di fronte a una patologia dove tutta la metafora passa dal corpo: i

disturbi di apprendimento specifico. (Simonetta, 2012). Si deduce quindi che il disturbo di

apprendimento specifico nasce proprio come manifestazione di un disagio della creatività

a seguito di una incompleta o inadeguata integrazione degli aspetti psicosomatici, e in

particolare di una difficoltosa evoluzione del sé corporeo rappresentato dalle funzioni

psicomotorie individuali. Scrive Winnicott (1983): «È nel giocare e soltanto mentre gioca

che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera

personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé». In questa

evoluzione dissociata tra il sé corporeo e la propria psiche, si determina una non-

attivazione della mente individuale di un soggetto, il cui intelletto è sostituito da quello di

un’altra persona, che si fa carico di gestire il suo pensiero e di organizzarne gli aspetti

relativi alla totale autonomia personale (nel caso del bambino, si potrebbe trattare del

genitore). Quindi, quando la metafora passa dal solo corpo, significa che le funzioni

cognitive non si sviluppano, perché è presente una evoluzione corporea fondata sulla

incorporazione e la depersonalizzazione, che non consentono agli altri aspetti evolutivi di

comparire. Il fenomeno dell’incorporazione, caratteristico della fase orale, è la traduzione

corporea del processo d’introiezione che costituisce l’opposto del processo di proiezione.

Tramite l’introiezione il soggetto fa passare, in modo fantasmatico, dal “di fuori” al “di

dentro” di sé oggetti e loro qualità; in questo modo l’introiezione appare proprio come

sinonimo d’identificazione, in particolare con le figure parentali. In realtà questa forma

d’introiezione non corrisponde alla possibilità d’identificarsi, proprio a causa dell’azione

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traumatica delle proiezioni genitoriali. In sostanza, l’introiezione è il meccanismo attraverso

cui gli oggetti vengono incorporati, vale a dire assorbiti dal bambino, ma in modo non del

tutto realistico, attraverso quello che è il vissuto della figura genitoriale accudente.

Sebbene questo sia un processo indispensabile nella prima fase della della crescita, può

diventare un ostacolo alla conoscenza, se non ben gestito. La comprensione nel bambino

in tal senso sussiste ma è filtrata dalle proiezioni del genitore sul bambino.

Il soggetto non evolve dalla semplice incorporazione alla identificazione, ma resta come

riempito di tanti aspetti genitoriali scissi, da lui introiettati. Winnicott in Esplorazioni

psicoanalitiche (1995) descrive il concetto di depersonalizzazione come «la perdita di

contatto del bambino o del paziente con il proprio corpo e il funzionamento corporeo (...), il

che implica lo sviluppo di aspetti altri della personalità. Quindi il bambino non evolve

dall’essere “contenuto” all’essere in sé e per sé, all’esistere in quando “altro” dalla madre.

Ed in questo senso la depersonalizzazione come descritta da Winnicott, non si rivela altro

che una perdita di contatto con il proprio sé inteso come corpo (ma anche psiche) cioè

come un individuo che sia riuscito a distaccarsi e distinguersi naturalmente da un altro che

lo ha generato.

2.2. Il concetto di disgnosia

La disgnosia è riconducibile ad uno o più traumi a t piccolo, che sono in particolare traumi

riguardanti l’identità, ma soprattutto l’attaccamento. La disgnosia è il disturbo delle capacità

di conoscere o di apprendere per incompleta integrazione psiche-soma collegata a ritardo

psicomotorio, ritardo nelle funzioni psicolinguistiche e nella evoluzione della

rappresentazione mentale, elemento che collega il linguaggio allo sviluppo psicomotorio.

Nella teoria freudiana classica il concetto di trauma occupa un posto centrale in quanto

“evento reale” fonte di un’eccitazione eccessiva, economicamente inelaborabile per

l’organismo e che ha quindi determinato l’insorgenza di un disturbo. Dunque intensità e

momento definiscono l’evento come traumatico, ma sappiamo anche che la traccia lasciata

nella psiche dall’evento non costituisce di per sé “il trauma”, perché sono le condizioni

maturative e gli eventi tardivi a convertire retroattivamente. Gli aspetti energetici della

disgnosia sono collegabili agli elementi dell’attaccamento, quali la perdita e la simbiosi. Tali

elementi sono quelli che determinano gli aspetti traumatici della disgnosia. Il primo aspetto

fondamentale collegato alla disgnosia è il concetto di perdita d’identità che troviamo

nell’attaccamento insicuro, in relazione a sua volta con perdita di sicurezza e

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fiducia negli altri e in se stessi. Questa perdita crea una mancanza che è collegata a una

frustrazione: la frustrazione primaria. La mancanza di questa esperienza di frustrazione la

frustrazione primaria. La mancanza di questa esperienza di frustrazione primaria, collegata

al processo di separazione individuazione, non consente al soggetto di affrontare con

adeguata tolleranza le future esperienze ambientali frustranti, che vengono invece vissute

come eccessivamente frustranti e quindi intollerabili per un io non separato.

Winnicott (1983) definisce la frustrazione primaria come la capacità di sentirsi soli in

presenza di un altro, e la descrive come una tappa evolutiva relazionale di signifi cativa

importanza. Senza l’esperienza di questa frustrazione primaria il soggetto non può restare

solo, in quanto avverte questa solitudine come “la mancanza”. Questo tipo di mancanza è

intollerabile e, se non si è vissuta l’esperienza di separazione dalla madre che si trova alla

base di questa frustrazione, da quel momento in avanti tutte le altre frustrazioni non

saranno tollerabili o lo saranno relativamente poco.

In tal modo, quando arrivano le frustrazioni scolastiche, ecco che si scatena il finimondo!

La non utilizzazione della propria mente nel bambino avviene a seguito dell’esperienza che

viene chiamata simbiosi focale, dove due sono le persone ma una sola è la mente che

funziona: quella materna. In conseguenza di questo, il soggetto non individuato e non

separato non raggiunge un’autonomia mentale. Ciò, a seguito della perdita, crea una forte

rabbia ogniqualvolta la madre allontana il soggetto, o ogniqualvolta il soggetto deve

affrontare una frustrazione. Gli aspetti che vengono meno sono quindi l’identificazione e

l’individuazione del sé. Questo tipo di rabbia così totale induce demotivazione perché nel

confronto con la realtà, man mano che il soggetto cresce, le frustrazioni diventano sempre

maggiori e quindi più intollerabili.

A livello relazionale, tuttavia, il soggetto si trova ancora nella situazione di chi non ha

sperimentato la frustrazione primaria e quindi la sua rabbia induce pigrizia. Questa pigrizia

non è primaria, né caratteriale, ma è incapacità di fare fatica, con prevalenza di apatia e

conseguente dipendenza dalla procrastinazione. L’effetto più significativo di questa apatia

mentale si gioca a livello cognitivo, dove si originano lacune e disfunzioni cognitive e

attenzionali. Queste lacune e questo disfunzionamento cognitivo corrispondono al concetto

stesso della disgnosia. Lo studio degli effetti traumatici dei traumi complessi ci spiega come

il rimandare continuo e compulsivo è tipico del soggetto che ha organizzato una

dipendenza da procrastinazione. La pigrizia è dunque l’esito di un trauma complesso o di

un disturbo postraumatico da trauma complesso quale quello della mancata

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separazione. La disgnosia si origina nel confronto tra il soggetto e gli apprendimenti reali,

per effetto della mancata elaborazione della rabbia che si manifesta ogni volta che si

vivono frustrazioni ritenute intollerabili. La quasi totalità dei soggetti disgnosici presenta

una forte rabbia latente, e non riesce ad apprendere fino a quando non sblocca queste

modalità psichiche più comunemente chiamate “blocchi”. I disgnosici non hanno mai

potuto conoscere la realtà in modo autonomo, e solo intervenendo su ciò che impedisce

l’utilizzo della loro autonomia sarà possibile aiutarli a conoscere e quindi apprendere.

Mancanza e perdita si presentano anche nelle situazioni di abbandono, in cui non è stato

possibile elaborare la “separazione-individuazione”. In questi casi la disgnosia si

manifesta come effetto della disconferma, esito e adattamento all’ambivalenza

genitoriale, a volte ancor peggio dell’ambiguità materna, in particolare nei primi anni di

vita. L’ambivalenza genitoriale nasce quale esito di processi dissociativi pregressi di

origine traumatica e s’insinua nella relazione tra genitore e figlio e opera impedendo al

figlio di selezionare l’informazione corretta da trattenere e quella da scartare. Lo sblocco

emotivo-affettivo, relativo ai traumi che hanno costituito la base del disfunzionamento

cognitivo, consente al sistema nervoso di percepire le informazioni sensoriali che non

avevano potuto oltrepassare la soglia della consapevolezza, rendendo possibile la

memorizzazione adeguata dei concetti elaborati. la tolleranza, anche l’oscillazione si farà

più ampia, arrivando a toccare contenuti più evoluti. Quindi il livello di sviluppo del

pensiero dipende dalla tolleranza alla frustrazione maturata. È a questo livello che si

pone il concetto di holding proposto da Winnicott o quello di rêverie di Bion: la qualità

delle cure materne, cioè le esperienze di un “seno sufficientemente buono”, consentono

al bambino di sviluppare una fiducia di base tale da poter poi tollerare meglio e più a

lungo la frustrazione.

2.4. Cos’è un disturbo reattivo?

Un disturbo reattivo definisce quella configurazione sintomatologica in cui un disagio

inizialmente temporaneo (ma che può rischiare di strutturarsi, fissandosi in qualcosa di più

persistente) viene a rappresentare l’esito di una condizione esterna, cioè di un

avvenimento che si ritiene responsabile del disturbo e, in assenza del quale, tale disturbo

non si sarebbe prodotto. Si parla quindi di disturbo reattivo quando la sintomatologia non si

sia andata già a fissare ed inscrivere in un quadro nevrotico più complesso, di cui però

potrebbe costituire l’inizio. L’instabilità psicomotoria, i disturbi del sonno, gli insuccessi

scolastici, uno stato depressivo, i disturbi del comportamento e dell’apprendimento ne

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possono rappresentare delle esemplificazioni. La reazione prodotta può, dunque,

rappresentare sia un tentativo di adattamento o di fronteggiamento della situazione, sia

una difesa. In questo senso una grafia illeggibile può diventare per un bambino una sorta

di barriera tra il sé e il mondo esterno, così come il disturbo attentivo o di iperattività.

Questi disturbi si traducono poi in una incapacità ad acquisire determinate abilità, come ad

esempio il linguaggio scritto. E forse, metaforicamente, il bambino ci sta comunicando che

in qualche modo la sua mente è “altrove”

2.3. La disgrafia come disgnosia motoria

Il ruolo dell’attività motoria nella costruzione della mente e quello delle modalità

d’apprendimento nella costruzione dell’attività motoria sono mattoni costitutivi del

comportamento umano, anche per quanto riguarda il linguaggio. Inoltre il linguaggio

cinestesico, che è l’elemento costitutivo della motricità grafica, collegato al linguaggio

sonoro, rappresenta l’elemento fondamentale per la realizzazione della grafi a. La

sensazione precede sempre l’azione e per questo è la sensazione che consente di

correggere l’azione, quando questa non è adattata allo scopo. Centri nervosi quali

cervelletto e gangli della base intervengono nella regolazione sia della motricità sia del

linguaggio, e quindi l’aspetto motorio della scrittura interviene nell’apprendimento del

grafismo, non solo per la componente grafica stessa, ma anche per quella gnosica relativa

al riconoscimento delle singole lettere e alla loro memorizzazione consequenziale. Spesso

il soggetto che presenta una dislessia manifesta anche una certa disgrafia, anche senza

disortografia: sono proprio le carenze sul piano delle informazioni cinestesiche

dell’esecuzione motoria delle lettere e delle parole che non gli consentono di attivare il

riconoscimento grafico degli aspetti allografi nei suoni omofoni. Risulta quindi evidente che

solo la realizzazione di apprendimenti motori, secondo una metodologia che consenta

l’acquisizione di automatismi plastici e fondati sulla disponibilità corporea, può consentire

di ridurre i problemi posti dalla disgrafia e dalla disprassia in genere.

Credo che quando si parla di disponibilità corporea si debba intendere non solo

acquisizione di posture, di movimento o gesto, ma anche di disponibilità e fiducia verso

l’altro, inteso come ambiente esterno o come persona fisica diversa da noi. In questo

senso, la rieducazione del gesto grafico si può definire un percorso relazionale. Un

percorso in cui il rieducatore e il bambino si inseriscono insieme, riproponendo quello che

chè è un setting terapeutico non rigido ma in evoluzione e al cui interno il rieducatore, che

in questo caso cura la scrittura possa favorire non solo la padronanza dei gesti, ma anche

un’apertura verso l’esterno. Un’apertura quindi che possa essere funzionale

Page 16: LA DISGRAFIA RELAZIONALE Brutta scrittura o sofferenza?

all’espressione del proprio sé, al solo e unico scopo di farsi comprendere e di farsi

accettare in virtù della propria unicità. Non si va solo quindi alla ricerca di un’abilità in un

certo senso “perduta”, ma anche dell’espressione di quel segno che viene da dentro e ci

differenzia da ogni altra persona.

CAPITOLO TERZO

RELAZIONE TERAPEUTICA E RIEDUCAZIONE DELLA SCRITTURA

La rieducazione della scrittura avrà l’obiettivo di ripristinare le funzioni primarie della

scrittura che sono: comunicazione, espressione del pensiero e rappresentazione della

personalità. L’intervento di rieducazione è un percorso relazionale in cui grafo-terapeuta e

bambino lavorano sugli elementi necessari a ricostruire una buona grafia. E' un

decondizionamento di forme e gesti grafici errati che producono tensione, dolore, rigidezza

o maldestrezza e che penalizzano l'andamento scolastico, l'autostima e le relazioni. Non è

un caso che nel nel corso del trattamento si propongano (oltre ad esercizi tecnici

sull'impugnatura e sulla postura e forme prescritturali), anche esercizi di rilassamento e di

respirazione controllata che sono alla base della capacità di affidarsi, di lasciarsi andare

che è fondamentale non solo per una tracciato fluido, ma anche per la costruzione di

relazioni sane e significative.

3.1. Alleanza terapeutica, alleanza diagnostica, pseudo alleanza

Credo che costruire una relazione terapeutica significhi soprattutto condividere un progetto

e nel far questo, è’ importante l”incontro” con il bambino. “Ciò che scambiamo, sul piano

dell’ incontro, con i pazienti, è impagabile. Né ben si sa chi tra paziente e terapeuta debba

essere riconoscente, nel senso tradizionale della parola. Forse entrambi, forse né l’uno né

l’altro” (Selvini, 2010). La capacità del terapeuta “di stare” nella relazione, si rivela

indispensabile e in particolar modo è fondamentale per il rieducatore porsi in una

dimensione per così dire “metafisica”, che gli permetta di essere dentro, ma anche fuori

dalla relazione. Essere “dentro” la relazione vuol dire accettare il paziente, essere colto

dalla sua esclusività-unicità. Essere “fuori” dalla relazione significa sperimentare il paziente

“come oggetto”, come risultante delle sue esperienze.

Page 17: LA DISGRAFIA RELAZIONALE Brutta scrittura o sofferenza?

16 17

In questo modo, “il terapeuta è disposto a mettersi in gioco come persona, senza mai

rinunciare ad essere un tecnico e un esperto, anzi egli diventa un esperto che cerca di

imparare sempre di più, di divenire sempre più esperto, ed insieme anche sempre più

saggio. Non è la stessa cosa, anzi sono i due poli di quella scissione fuori/dentro che va

controllata, integrata, padroneggiata” (Selvini, 2010)

Come afferma Whitaker (1990), l’ottica del terapeuta nella relazione terapeutica sarà quella

di “definirsi nel ruolo di genitore affidatario”. Il concetto di “fiducia” è alla base di una buona

alleanza terapeutica.

“Il disturbo della fiducia, con pazienti difficili, si può definire come una qualità “passiva”, nel

senso di una più o meno estesa rinuncia alla fiducia, ovvero come un più o meno intenso,

profondo e persistente scoraggiamento riguardo la possibilità di utilizzare sia il mondo

esterno, sia se stessi o alcune proprie funzioni o capacità” (Orefice, 2002). Il disturbo della

fiducia è totalizzante, riguarda una rinuncia già implicita nel paziente ad utilizzare

qualunque risorsa sia interna che esterna a sé stesso, perciò si traduce in un persistente

atteggiamento di scoraggiamento.

Per quanto riguarda la descrizione del concetto di alleanza terapeutica, esso va distinto dal

concetto di alleanza diagnostica che è la dimensione in cui il paziente riesce a tollerare uno

spazio di consulenza, che non comporti necessariamente un trattamento e un doversi

affidare a qualcuno. In tal caso, l’alleanza diagnostica coincide con la possibilità di

comprendere le ragioni della sfiducia e della diffidenza, che per la loro rilevanza, assumono

di fatto la rilevanza di un criterio clinico (..) (Orefice, 2002). I pazienti difficili sono tali per il

loro disturbo della fiducia, lo diventano ancor più perché ciò si traduce in disturbo

dell’alleanza (...) (Orefice, 2002). La pseudoallenza è invece tipica di una relazione in cui

pazienti hanno temporaneamente accantonato il disturbo della fiducia di base,

sacrificandolo al proseguimento della relazione terapeutica (Orefice, 2002). La difficoltà nel

procedere ad un trattamento dettata dal disturbo della fiducia di base, prevede alcune

soluzioni, che permettono di instaurare alcune modalità di lavoro volte a ridefinire la figura

del rieducatore-terapeuta. La prima soluzione prevede il costituirsi, nel passaggio

dell’alleanza diagnostica a quella di lavoro, della figura del terapeuta di prova, che serve a

ridurre l’importanza del clinico, rispetto alla centralità della difficoltà relazionale

generalizzata espressa dal paziente. Questa soluzione permette un sostanziale

cambiamento della relazione del paziente con il terapeuta, poiché permette al paziente di

sperimentare la possibilità, con pochi colloqui, di non riprodurre una relazione patologica e

quindi fallimentare, con il rischio di ridurre al minimo la possibilità dell’affidamento. Questa

prassi è utile perché garantisce la possibilità, da parte del paziente, di scelta

Page 18: LA DISGRAFIA RELAZIONALE Brutta scrittura o sofferenza?

18

del terapeuta prima di “assumerlo”. Una seconda soluzione invece prevede l’utilizzo del

terapeuta provvisorio, che viene assegnato al paziente con un mandato esplicito di iniziare

un trattamento di prova, ma che non sarà destinato a curarlo (...). Questa situazione

cimenta il paziente con i problemi del trattamento. Il criterio della provvisorietà, quasi il

paziente avesse a che fare con “un allenatore”, lo tutela dagli effetti della sfiducia dovuti

alle inevitabili difficoltà (...), che sono oggetto del lavoro del terapeuta ingaggiato (Orefice,

2002). Infine una soluzione alternativa, è costituita dall’artificio del terapeuta immaginario,

grazie a cui con il paziente si esplorano quanto più esplicitamente possibile, sulla base

dell’alleanza diagnostica, gli ostacoli che potrebbero verificarsi con un ipotetico terapeuta,

valutando le diverse situazioni in cui il disturbo della fiducia potrebbe far rompere

inevitabilmente l’alleanza di lavoro (...). (Orefice, 2002). La provvisorietà riguarda i casi in

cui si rende necessario non strutturare alcun trattamento organizzato e mantenere un

assetto che, dal punto di vista formale, si potrebbe definire consulenziale: questo avviene

nei casi in cui è possibile un trattamento, soltanto attribuendo l’iniziativa al paziente, per il

quale può essere di vitale importanza mantenere il possesso e la padronanza della sua

decisionalità, sia riguardo l’aspetto temporale ed organizzativo sia nei possibili passaggi

evolutivi, (Orefice, 2002). Nel caso specifico della rieducazione, un ruolo determinante è

quello dei genitori. Essi sono i primi, a mio avviso, con cui stabilire un’alleanza

significativa. Sono in realtà loro che approdano alla rieducazione, con una specifica

“domanda”, che dovrà essere analizzata e interpretata correttamente, poiché sarà su

questa domanda che si incentrerà poi l’obiettivo del percorso di riabilitazione e che è

importante sia condiviso anche dal bambino.

3.2. Il contagio e l’induzione della sfiducia

E’ esperienza comune che gli sati emotivi si trasmettano per contatto interpersonale: si

dice infatti, che l’allegria – come la fiducia-possa essere contagiosa, così come si è spesso

“contagiati “dalla sfiducia e da quel particolare allarme definito “diffidenza”. Quando

parliamo di “contagio” degli stati d’animo, ci riferiamo a una via specifica di comunicazione

tra esseri umani, che non passa necessariamente attraverso il linguaggio, ma attraverso

un clima che si instaura nel contatto in modo diretto e immediato: in altri termini, non è

necessariamente mediato attraverso le vie comunicative più evolute, esplicite e verbali

(...). Il dato clinico è che un profondo senso di sfiducia passa da un

essere umano ad un altro, per un via percettiva, diretta e immediata, che fa sentire

sfiduciato chi ha a che fare con la persona portatrice di tale sentimento (...).

Page 19: LA DISGRAFIA RELAZIONALE Brutta scrittura o sofferenza?

In ogni caso, il contagio è possibile grazie a una caratteristica di permeabilità degli esseri

umani, di cui e della cui variabilità è necessario prendere atto e tenere conto (Orefice,

2002).

L’altra via di trasmissione della sfiducia e della diffidenza osservabili in clinica è

l’induzione. Nell’ambito di consultazioni e trattamenti, e soprattutto nell’osservazione

dei genitori dei pazienti e, ancor di più nell’interazione con loro, l’induzione è spesso

così pregnante e attiva, da determinare molti fallimenti sia direttamente perché non viene

trattata, sia indirettamente perché può facilmente indurre (nella figura del rieducatore)

risposte non idonee. (Orefice, 2002).

Nell’ambito famigliare, l’induzione può avvenire sotto diverse forme che vanno dal

maltrattamento all’eccesso di amore e protezione da parte dei genitori nei confronti dei

figli, con la precisa connotazione di pensare ed agire al posto del figlio. L’ induzione è

considerata (...) una manifestazione di distruttività, di depressione, o come nel caso dei

genitori, una testimonianza della loro necessità di possesso o di controllo affettivo sui figli

(...). Vi sono casi in cui è riconoscibile un equivoco diagnostico, in base a cui il

trattamento non è accettato, viene interrotto, o prosegue senza esito positivo attribuendo

questo ad una resistenza nel paziente. Il tentativo di scoraggiare attivamente o

passivamente il clinico, può essere un modo per il paziente per segnalare che la propria

diagnosi è sbagliata e che anche il terapeuta che ha di fronte è quello “sbagliato” . In

questo caso, l’induzione della sfiducia ha una precisa funzione ed è l’unica modalità

possibile del paziente, adatta a far comprendere la visione che egli possiede della propria

condizione. Il paziente può indurre la sfiducia, perché ha la necessità che sia creduta la

sua dichiarazione di inadeguatezza (...) a fronte della percezione (...) che l’ambiente si

aspetti troppo o gli richieda qualcosa che lui considera insormontabile o pericoloso (...).

L’induzione di sfiducia è quindi una corretta indicazione che il paziente fornisce al

clinico, nell’unico modo che conosce, perché non è in grado di sottrarsi diversamente

alle pretese ambientali (Orefice, 2002).

In sintesi, in presenza di un disturbo della fiducia si deve considerare la psicopatologia come

un funzionamento attivo, secondo le modalità derivate (...) dal disturbo stesso. Non esiste

un disturbo della personalità che non sia correlato alle modalità di funzionamento che

l’individuo ha nella relazione con il mondo (Orefice, 2002). La costruzione dell’identità

passa attraverso precisi passaggi evolutivi che, qualora vengano danneggiati nella relazione

con le figure di attaccamento, portano ad un lesione della fiducia. Perciò è come

Page 20: LA DISGRAFIA RELAZIONALE Brutta scrittura o sofferenza?

19

se il cambio da uno stadio evolutivo ad un altro avvenisse su base dissociativa,

producendo comportamenti disadattavi, che possono poi trasformarsi in disturbi della

personalità, o disturbi di apprendimento partendo dalle possibili connessioni tra

sofferenza e disturbo nella figura principale di attaccamento, conseguente contagio e

induzione nel figlio.

CONSIDERZIONI CONCLUSIVE

La constatazione di una difficoltà di apprendimento come la scrittura, disorienta il bambino

anche non consapevolmente, che si chiede quale possa essere la causa. La sua risposta

oscilla tra “non sono abile” e “la scuola è troppo difficile”, la sua autostima comincia ad

abbassarsi. Anche la motivazione all’apprendimento ne risente e l’insicurezza e la

demotivazione lo portano ad essere meno sicuro anche nei rapporti sociali, anche perché

non essendo tra i bravi nella classe viene meno considerato anche dagli insegnanti e dai

compagni. La constatazione dell’insuccesso nelle relazioni porta ad un ulteriore

abbassamento della stima di sé e della motivazione scolastica.

Per fattori di rischio si possono intendere tutte quelle condizioni esistenziali, riguardanti il

bambino e/o il suo ambiente familiare, che espongono ad una potenziale morbosità

mentale superiore a quella che si riscontrerebbe nella popolazione normale. Tra i fattori di

rischio che possono incidere sullo sviluppo (sulla qualità della vita, ma soprattutto sulla

strutturazione della psiche infantile in via di maturazione) riconosciamo:

> fattori di natura individuale (che riguardano il bambino e che hanno a che fare

con problematiche di natura organica, con le complicazioni ascrivibili alla

perinatalità come sofferenza neonatale, prematuranza, patologie somatiche

precoci, separazioni precoci, ecc.)

> fattori di natura familiare (malattia di uno dei familiari, morte, separazioni

coniugali, monoparentalità, età dei genitori, ecc.)

> fattori di natura psicosociale (riguardanti il più ampio contesto sociale, culturale

ed economico, emarginazione sociale, immigrazione, ecc.)

Nella disgrafia, l’approccio terapeutico dipende dunque dalla qualità delle difficoltà

associate al problema principale e dal suo significato all’interno dell’organizzazione

psichica del bambino: la rieducazione grafomotoria e psicomotoria è essenziale quando,

Page 21: LA DISGRAFIA RELAZIONALE Brutta scrittura o sofferenza?

20

ad un esame neuropsichiatrico, emergano anche alterazioni spazio-temporali e altri

disturbi motori; l’approccio psicoterapeutico va invece integrato e/o preferito quando siano

evidenti componenti di natura affettiva, conflittuale, ansiogena, parti di una struttura

nevrotica.

Spesso gli adulti si concentrano più sugli effetti che non sulle cause. Così si pensa che

facendo scrivere il bambino – ad esempio – in stampatello anziché in corsivo, si risolva il

problema. La scrittura diventa più leggibile, e quindi il problema scompare. Purtroppo, non

è così, anzi. Dovremmo evitare accuratamente di spingere i bambini a trasformare la loro

grafia. La scrittura è traccia e segnale del mondo emozionale dell’individuo, sia che si parli

di bambini che di adulti. Escluse le cause neurofisiologiche, patologiche, grafomotorie,

quelle che restano sono sempre cause legate al mondo interiore ed emozionale ed ai

rapporti con gli altri. Perciò, quello su cui dovremmo riflettere, ogni volta che vediamo una

“brutta scrittura” in un bambino come in un adolescente, è che sta soffrendo, e quella

scrittura è uno strumento prezioso che ci rivela la sua sofferenza. Che ci richiama, quindi,

verso la causa e verso la soluzione. Un primo passo è aiutarli a trovare un modo per

comprendere meglio le relazioni con gli altri, ad affrontarle più serenamente quelle che

piacciono e quelle che non piacciono. Serenità che si riflette nella scrittura, che così si

trasforma. La fiducia in se stessi e negli altri è un percorso che si costruisce giorno per

giorno, che pone domande e richiede risposte. Ogni disgrafia è una domanda. La risposta

sta a noi trovarla.

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