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Istituto MEME s.r.l. Modena associato a Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles IL GRUPPO CONTENITORE DEGLI IMPULSI Verso una terapia sistemica di gruppo anche con tecniche psicoanalitiche e gruppoanalitiche per una integrazione costruttiva e interattiva. Modena 24-06-2006 Anno accademico 2005-2006 Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche Relatore: Dott. Giovanni Baldini Contesto di Project Work: Casa di Cura Psichiatrica “Villa Baruuzziana” Tesista specializzando: Dott. Alessandra Chiarini Anno di corso: 2005-2006

L GRUPPO CONTENITORE DEGLI IMPULSI - istituto-meme.it · personalità borderline, disturbi d’ansia e infine disturbi ossessivo-compulsivi. ... compilazione del test su irritabilità

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Istituto MEME s.r.l. Modena associato a

Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles

IL GRUPPO CONTENITORE DEGLI IMPULSI

Verso una terapia sistemica di gruppo anche con tecniche psicoanalitiche e

gruppoanalitiche per una integrazione costruttiva e interattiva.

Modena 24-06-2006

Anno accademico 2005-2006

Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche

Relatore: Dott. Giovanni Baldini

Contesto di Project Work: Casa di Cura Psichiatrica

“Villa Baruuzziana”

Tesista specializzando: Dott. Alessandra Chiarini

Anno di corso: 2005-2006

Indice

1. Premessa ………………………………………….…………………... 1

2. Stato dell’arte …………………………….……………………………5

2.1 L’aggressività …………………..……………………………5

2.2 La gruppoterapia…………………………….……………….17

2.3 Il metodo dello psicodramma ……………….………………29

3. Materiali e metodi………………………………….…………………37

3.1 Il colloquio di gruppo ……………………..…………………37

3.2 Setting, fattori e fenomeni specifici di gruppo………..……...41

3.3 Tests come supporto ai colloqui e come controllo

dell’ andamento del gruppo ……………………………...…..46

3.3.1 Presentazione dell’F.E………………………..…….….46

3.3.2 Test di appercezione tematica (T.A.T.)…………..…....49

3.3.3 Test sull’ aggressività (I.R.)…………………….……..61

3.3.4 Test del disegno della figura umana……………..…….63

3.4 La tecnica dello psicodramma………………………….……...65

4. Il gruppo Baruzziana e lo psicodramma……………………….……73

5. Conclusioni ……………………………………………………..…..114

6. Bibliografia …………………………………………………..………117

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1 PREMESSA

Il controllo degli impulsi risulta un problema centrale per molte

psicopatologie, soprattutto in ambito psichiatrico.

La ricerca degli ultimi trent’anni ha posto decisamente

l’accento sull’aspetto della perdita del controllo sugli impulsi e di

riflesso sul comportamento nocivo verso di sé e verso gli altri.

L’impulso che è stato maggiormente studiato è quello aggressivo

poiché presenta un potenziale lesivo superiore agli altri.

L’aggressività, da un punto di vista dinamico,rappresenta un

nucleo del Sé mal tollerato dall’Io. Essa infatti è espressione della

rabbia conseguente alla mancata soddisfazione di un bisogno di varia

natura. Si tratterebbe cioè della frustrazione non sopportata o mal

accettata dal soggetto. Tali bisogni possono poi essere primari o

secondari, ad esempio in funzione della scala dei bisogni di Maslow.

Egli infatti pensò che i bisogni primari fossero quelli infantili, ovvero

quelli fisiologici della fame,della sete, dell’igiene e soprattutto i

bisogni di cura e protezione materna. Salendo nella scala, in relazione

anche allo sviluppo psicogenetico ed evolutivo dell’individuo,

troviamo bisogni più di tipo relazionale ,di affiliazione, ecc.. Infine i

bisogni più complessi e simbolici, ovvero il bisogno di potere, di

autostima,di coerenza con i propri valori etico-morali sono quelli che

caratterizzano il soggetto adulto e maturo.

Nelle psicopatologie si ritrova spesso una regressione o una

fissazione a fasi di sviluppo psicoaffettivo precedenti per cui i soggetti

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non tollerano le minime frustrazioni e reagiscono con aggressività

auto ed eterodiretta.

Questa ricerca si è occupata dell’aspetto del trattamento e

del parziale recupero di questo aspetto del discontrollo degli

impulsi,in relazione prevalentemente all’aggressività, ma anche alla

cleptomania, allo shopping compulsivo, al ricorso compulsivo ad

alcool e sostanze stupefacenti e al cibo con le abbuffate.

Lo strumento principe di questa ricerca è stato un piccolo

gruppo eterogeneo per psicopatologia, formato da pazienti psichiatrici

con disturbi dell’umore, disturbi da abuso di sostanze, disturbi di

personalità borderline, disturbi d’ansia e infine disturbi ossessivo-

compulsivi.

L’omogeneità tra i soggetti era da situarsi proprio nella

difficoltà a gestir i propri impulsi.

Il gruppo,secondo la definizione di Kurt Lewin, non

equivale alla semplice somma dei membri, ma è una totalità che

trascende i singoli soggetti e che ha una sua autonomia e delle sue

regole ben specifiche. Il gruppo è stata la forza propulsiva per provar

ad arginare l’impulsività, per intravederla, iniziare a elaborarla, a

introiettarla e gestirla con qualche piccolo strumento in più.

Il gruppo ha rappresentato lo spazio in cui poter mettere in

comune esperienze,emozioni, vissuti diversi, lo spazio in cui mettersi

in gioco e ritrovar nel gruppo parti di sé, per sentirsi accolti come se il

gruppo fosse un riferimento.

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Il gruppo è una totalità che secondo l’approccio sistemico

manifesta le caratteristiche di un sistema in cui la patologia del

singolo non è isolata ma inscritta nel sistema stesso. Affrontare la

patologia significa trattarla o nel sistema di riferimento oppure in un

sistema i cui membri sono patologici, in entrambi i casi col supporto

di una più figure professionali.

Gli strumenti del gruppo nei colloqui di un’ora e mezza sono

stati: la confrontazione, il rispecchiamento, il role playing e lo

scambio di ruoli con riferimento allo psicodramma psicoanalitico, la

sperimentazione del test della figura umana su soggetti adulti,la

compilazione del test su irritabilità e ruminazione di G. Caprara, la

stesura di brevi storie in relazione ad alcune tavole del T.A.T. e infine

la discussione di tematiche emergenti nel gruppo sotto la guida

semidirettiva della psicologa.

Dieci incontri, con una frequenza bisettimanale, hanno

consentito in piccola parte di elaborare la simbolizzazione e dunque la

verbalizzazione dell’aggressività. I soggetti hanno potuto avvertir il

contenimento del gruppo anche se il lavoro del gruppo richiederebbe

un tempo molto maggiore per giungere a revisioni di schemi

disfunzionali interni rispetto al Sé e alle relazioni con l’ambiente così

da permettere una coesione interna, una stabilità e una stima di sé tali

da ridurre le manifestazioni sintomatiche e da avere un discreto

benessere psicofisico e relazionale-affettivo.

Questa ricerca ha rappresentato un esperimento e una sfida

per alimentare la terapia del gruppo-sistema in un ambito complesso,

delicato e difficile come quello della psichiatria.

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Contenere gli impulsi,accettarli e dar loro un senso in-con-

attraverso il gruppo è l’obbiettivo per vivere meglio e convivere in

mezzo agli altri.

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2 STATO DELL’ARTE

E’ molto interessante poter esaminare la letteratura che

ci viene proposta in relazione alle tematiche e ai concetti presi in

esame nell’ambito della ricerca sul controllo degli impulsi attraverso

lo strumento della gruppoterapia.

2.1 L’AGGRESSIVITA’

Negli ultimi anni, molti studi clinici e sperimentali hanno

investigato il ruolo di diversi fattori nell’etiologia e nella patogenesi

dell’aggressione impulsiva, correlata alla dipendenza da sostanze ed ai

disturbi di personalità. Nella ricerca dell’etio-patogenesi della

violenza, l’importanza relativa di fattori biologici, psicologici e sociali

è stata evidenziata da diversi autori, con approcci teoretici divergenti

ai disturbi del comportamento umano. Così, gli eventi di vita

infantili, l’abuso fisico e sessuale nell’infanzia, i disturbi affettivi, i

disturbi impulsivi, i disordini dissociativi, gli aspetti post-traumatici

del comportamento e le disfunzioni cerebrali organiche sono stati

considerati fattori rilevanti nella genesi dell’aggressione impulsiva.

L’approccio diagnostico e terapeutico al comportamento violento,

correlato all’aggressività impulsiva, all’abuso di sostanze ed ai

disturbi di personalità, viene brevemente passato in rassegna.

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Il comportamento è condizionato da una serie di

pulsioni e di schemi di risposta a stimoli interni od esterni, orientati al

mantenimento dell’omeostasi dell’organismo, con finalità biologiche

di sopravvivenza dell’individuo e della specie. (Cassano, 1994)

Il comportamento istintivo è, per definizione, un comporta-

mento non appreso, stereotipato, avente come fine ultimo la

conservazione in vita dell’individuo.

L’intervento d’istanze emotive e cognitive è limitato alla

modulazione del soddisfacimento di tale comportamento istintivo.

Ogni tentativo di classificazione dei comportamenti istintivi è, per

ovvi motivi, arbitrario. Sono, solitamente, considerati tali i

comportamenti indotti da: fame, sete, sesso, sonno ed autoconser-

vazione dell’integrità del corpo da agenti esterni potenzialmente

dannosi. La vita istintiva rappresenta il fondo motivazionale del

comportamento, che in parte resta congenito, in parte viene plasmato

dalle esperienze di vita precoci coincidenti con le fasi critiche dello

sviluppo psico-fisico. Viene, talora, distinta una pulsione primaria

amorfa dalle pulsioni istintive specifiche secondarie. Accanto a

disturbi della spinta pulsionale, propriamente detta, in psichiatria

sociale vengono classificate anche distorsioni della condotta e disturbi

del comportamento, funzionalmente correlati alle diverse spinte

pulsionali, in cui risulta difficile scindere il fondo pulsionale, dalle

componenti affettive e cognitive. Talora, si assiste ad una

conflittualità tra fattori pulsionali ed altri fattori motivazionali. Vi può

essere rifiuto del cibo senza che manchi il senso della fame, come,

rifiuto della sessualità, senza che manchi il desiderio. In questa

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prospettiva un disturbo del comportamento sessuale, alimentare o con

aggressività può dipendere non semplicemente da fattori pulsionali,

ma anche da altri fattori, emotivi, affettivi, cognitivi e socio-

relazionali, legati all’apprendimento.

I DISTURBI DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI

Nel XIX secolo Pinel ed Esquirol hanno introdotto in psichiatria

il concetto di “impulso istintivo” coniando il termine di “monomania

istintiva”. In origine tra queste monomanie erano incluse: l’alcolismo,

la piromania e l’omicidio. La cleptomania, un disturbo descritto

nosograficamente nel 1838 da Marc è stato successivamente incluso

tra le monomanie da Mathey. (Gibbens e Prince, 1962) Il DSM I

(American Psychiatric Association, 1952) ed il DSM II (American

Psychiatric Association, 1968) non includevano tra i disturbi mentali il

gioco d’azzardo patologico, la tricotillomania, la piromania e la

cleptomania. Solo nel 1980, hanno avuto un inquadramento

diagnostico nel DSM III disturbi come il gioco d’azzardo patologico,

la piromania e la cleptomania. Il DSM III accanto a questi disturbi del

controllo degli impulsi ha riconosciuto una dignità diagnostica

anche al disturbo esplosivo intermittente ed al disturbo esplosivo

isolato. Solo sette anni dopo, nel DSM III–R (American Psychiatric

Association, 1987) era eliminato il disturbo esplosivo isolato “per

l’elevato rischio d’errore diagnostico correlato ad un singolo episodio

di comportamento aggressivo”. Il disturbo esplosivo intermittente è

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stato mantenuto nonostante fossero emersi “seri dubbi sulla sua

validità” ed è stato riconosciuto valore diagnostico alla tricotil-

lomania. La categoria diagnostica del DSM IV (American Psychiatric

Association, 1994) definita come “disturbi del controllo degli impulsi

non altrove classificati” viene considerata una categoria diagnostica

“residua”, anche se nel DSM IV non esiste un’altra aggregazione

categoriale di disturbi dell’impulsività. In questo gruppo diagnostico

sono inclusi: il gioco d’azzardo patologico, la piromania, la

cleptomania, il disturbo esplosivo intermittente, la tricotillomania ed il

disturbo del controllo degli impulsi non altrimenti specificato (NAS).

Le caratteristiche essenziali dei disturbi del controllo degli impulsi

sono riconosciuti essere:

1. l’incapacità a resistere all’impulso, alla spinta o alla

tentazione di eseguire un atto pericoloso per la persona o per gli altri;

2. il crescente senso di tensione o attivazione prima di

commettere l’atto;

3. un senso di piacere, gratificazione o “release” al momento di

commettere l’atto o poco dopo.

AGGRESSIVITÀ

L’aggressività si può definire come la tendenza ad attaccare gli

altri, a livello simbolico, gestuale, verbale o fisico, eventualmente in

rapporto ad uno specifico vissuto emotivo di rabbia. In alcuni disturbi

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della personalità tali condotte risultano molto accentuate come nel

disturbo borderline di personalità e nel disturbo antisociale.

Un discontrollo delle condotte aggressive può, però, verificarsi

anche in presenza di lesioni organiche cerebrali, in particolare del lobo

temporale e della regione amigdaloidea. L’abuso di alcolici e sostanze

psicotrope abbassa la soglia dell’aggressività. Il paziente maniacale

può facilmente divenire aggressivo se contraddetto o contrastato. Atti

aggressivi apparentemente immotivati possono essere messi in atto da

pazienti schizofrenici, in relazione alle loro dispercezioni allucinatorie

o ai loro deliri. Lo stesso suicidio resta, in ultima analisi, un atto

d’aggressività estrema autodiretta. Disturbi deficitari dell’aggressività

possono essere presenti in particolari condizioni di depressione

abulica ed in alcuni stati residuali schizofrenici. (Hales et al., 1999).

Il comportamento violento episodico, in realtà, per lo stesso DSM

IV può essere classificato in due diverse categorie diagnostiche:

1. il disturbo esplosivo intermittente;

2. le modificazioni della personalità dovute ad una condizione

medica generale di tipo aggressivo.

Il disturbo esplosivo intermittente ha numerosi criteri

d’esclusione. Le modificazioni della personalità dovute ad una

condizione medica generale presuppongono una condizione medica

generale e/o un danno organico specifico, patogeneticamente correlato

alla violenza ed all’aggressività.

La maggior parte dei soggetti con disturbi del comportamento

violento-aggressivi non rispetta i criteri diagnostici per uno dei due

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disturbi citati, ma è affetta da altri quadri psicopatologici come

schizofrenia, mania, abuso di sostanze, delirium, ritardo mentale o

patologia mentale organica. (Tardiff, 1992).

ABUSO E DIPENDENZA DA SOSTANZE

L’abuso di sostanze psicotrope si associa, non casualmente, a

diversi quadri psicopatologici, che si esprimono spesso in

comportamenti violenti auto o eterodiretti.

Un’indagine epidemiologica condotta negli Stati Uniti

d’America su 20.291 soggetti ha evidenziato che circa il 37 % degli

alcolisti e circa il 53 % dei tossicodipendenti presenta una comorbidità

psichiatrica, che va dalla schizofrenia alla depressione, dai disturbi

d’ansia alla personalità antisociale. (Regier et al., 1990).

Un considerevole numero di studi sostiene l’associazione tra

disturbi di personalità, disturbi dell’umore e sviluppo di una

tossicodipendenza. (Blatt et al, 1984).

Secondo alcuni studiosi, l’abuso di sostanze stupefacenti può

considerarsi, in alcuni casi, come una sorta d’automedicazione per il

controllo di sintomi psichiatrici disturbanti, inclusa l’impulsività e

l’aggressività esplosiva. (Vaillant, 1988).

Alcuni studi su soggetti dipendenti da sostanze stupefacenti

hanno rilevato la presenza di diverse diagnosi psichiatriche in

percentuali variabili dal 80% al 93%. (Khantzian & Treece, 1985;

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Rounsaville et al, 1986) Tempesta et al, (1986) hanno studiato 158

pazienti consecutivi, afferiti al servizio ospedaliero ubicato a Roma

presso il Policlinico Universitario “Agostino Gemelli”, con

valutazione diagnostica non strutturata, secondo i criteri del DSM III.

Nel complesso furono trovati, rispettivamente, un 42% di diagnosi di

Asse I ed un 43% di diagnosi di Asse II, mentre il 15% dei soggetti

non ricevette alcuna diagnosi psichiatrica, né di stato, né di tratto.

Clerici et al, (1989) hanno reclutato un campione di 226 casi,

proveniente dall’utenza di una Comunità Terapeutica dell’area di

Milano, sottoposto ad interviste strutturate in fase di ammissione al

programma terapeutico, essendo in stato “drug-free” mediamente da

circa un mese. In questo studio si rilevarono un 30% di diagnosi in

Asse I ed un 61% di diagnosi in Asse II, mentre solo il 9% dei soggetti

non presentava comorbidità psichiatrica. Pani et al. (1991) hanno

esaminato clinicamente 106 casi in trattamento metadonico

ambulatoriale presso un servizio pubblico di Cagliari. In questo studio

sono state evidenziate diagnosi psichiatriche per un 53,8% dei casi in

Asse I e per un 45,3% dei casi in Asse II, mentre un 26,4 % degli

utenti non soddisfaceva i criteri di alcuna diagnosi psichiatrica.

Per Rounsaville et al. (1991) il 73% di coloro che ricercano una

terapia per l’abuso di cocaina soddisfa i criteri per un altro disturbo

psichiatrico (tra cui i disturbi d’ansia, i disturbi affettivi, il disturbo

antisociale di personalità, il disturbo da deficit dell’attenzione) che di

solito precede l’esordio dell’abuso di cocaina. In un campione di 100

tossicodipendenti, ben 57 presentavano un disturbo di personalità.

(Nace et al., 1991).

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Alcuni autori, sulla base di tali osservazioni, hanno suggerito

che i disturbi mentali devono ricevere un’attenzione centrale nello

sforzo di prevenzione delle tossicodipendenze. (Manna et al. 1998;

2000; 2001a).

Altrettanto ovvio è che l’uso di sostanze psicotrope può essere

causa di disturbi del comportamento violento e/o di malattia mentale,

come nel caso delle psicosi indotte da amfetamine o da cocaina. E’,

quindi, evidente che, se la presenza di un disturbo del controllo degli

impulsi può essere un fattore di rischio per la tossicodipendenza è

altrettanto ovvio che l’abuso di sostanze psicotrope può alterare

l’equilibrio psichico, inducendo quadri francamente patologici,

caratterizzati, spesso da grande impulsività e da comportamenti

francamente violenti. L’uso di sostanze potrebbe essere considerata

una forma d’automedicazione, in una sotto-popolazione di soggetti già

portatori di disturbo comportamentale, franco o latente, prima dell’uso

di sostanze, con effetti di problematico ed instabile compenso clinico,

dopo l’uso di sostanze ad effetto sedativo. Al contrario, in soggetti con

una specifica vulnerabilità psicobiologica l’uso di determinate

sostanze potrebbe slatentizzare disturbi comportamentali, più o meno

compensati e non evidenti prima dell’uso di droghe,con effetti

disadattivi clamorosi ed esiti, talora, irreversibili. La mancanza di

verifiche prospettiche, basate sull’osservazione psicodiagnostica

longitudinale di soggetti con storia d’abuso, prima e dopo

l’esposizione alle sostanze, preclude ogni conclusione sicura in

merito.

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A prescindere dalla direzione del rapporto resta, in ogni caso,

forte la relazione esistente tra disturbi del comportamento con

aggressività impulsiva ed uso di sostanze psicotrope.

COMPORTAMENTI AGGRESSIVI ED IMPULSIVI NEI

DISTURBI DI PERSONALITÀ

Una delle principali caratteristiche sintomatologiche del

disturbo antisociale di personalità e del disturbo borderline di

personalità è rappresentata dalla rabbia inappropriata, intensa ed

incontrollata. Questa rabbia può presentarsi con diverse espressioni

cliniche, come: ostilità omnipervasiva, esplosioni di rabbia transitoria

ed incontrollabile, permalosità eccessiva. Secondo alcuni studiosi, tale

aggressività potrebbe avere correlati rilevanti di tipo neurologico.

(Van Reekum et al., 1995).

L’ambiente clinico è sicuramente indicato per esaminare i tratti

comportamentali costanti ma non per valutare i tratti comportamentali

episodici, secondo Gardner e Cowdry (1989).

In uno studio su 128 carcerati violenti, Merikangas (1981) ha

enucleato tre fattori principali alla base del comportamento

aggressivo:

1. il fattore pulsionale (drive);

2. la suscettibilità allo stimolo (soglia);

3. la capacità d’inibizione della risposta (controllo).

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Alti livelli pulsionali, bassa soglia di reazione e incapacità

d’inibire la risposta aggressiva erano tutti fattori associati a più

frequenti atti di violenza.

Era, talora, evidente una suscettibilità patologica che induceva a

rispondere in modo aggressivo anche a minacce minime. Applicando

il suo modello di “information processing” per l’aggressività,

Huesman (1988) sostiene l’ipotesi dell’esistenza di stili di

comportamento aggressivo (copioni comportamentali) acquisiti

nell’infanzia e tendenti a resistere ad ogni cambiamento.

Alcuni soggetti, inoltre, dopo aver subito violenze o dopo

esserne stati diretti testimoni, diventano aggressivi e presentano la

tendenza ad evocare risposte aggressive negli altri, con atteggiamenti

di derisione o di minaccia, difendendosi, così, dalla paura latente

evocata dal rapporto sociale e rinforzando, in se stessi, la convinzione

acritica che “gli altri sono sempre pericolosi”. (Van der Kolb, 1989).

Se non è criticato questo tipo d’apprendimento reiterato può

costruire una modalità d’interpretazione delle comunicazioni sociali

tendenzialmente persistente, che induce al comportamento aggressivo.

(Manna et al., 1999).

I soggetti con DBP, soprattutto quelli che hanno subito violenze

fisiche o sessuali, tendono a reagire a stimoli sociali neutri, interpretati

come potenzialmente pericolosi, con comportamenti aggressivi

subitanei volti a prevenire e/o punire atteggiamenti altrui

potenzialmente negativi, in una sorta di cortocircuito comporta-

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mentale, ispirato ad una sorta di filosofia di vita del tipo “chi

aggredisce per primo si salva”. (Manna et al., 2004).

EPIDEMIOLOGIA

E’molto frequente l’espressione di comportamenti violenti da

parte di soggetti con o senza disturbi psichiatrici in atto. I maschi

rappresentano il 80 % delle persone che manifestano episodi di

violenza (APA 1994b), Fava (1997) in un volume della “Psychiatric

Clinic of North America” afferma che: “Il disturbo esplosivo

intermittente di personalità sembra creare l’illusione dell’esistenza di

un gruppo relativamente omogeneo d’individui che presentano un

comportamento aggressivo patologico. In realtà, qualsiasi approccio

corretto allo studio ed alla classificazione della rabbia e della violenza

patologica deve tener conto della complessità e dell’eterogeneità di

questi comportamenti”.

L’aggressività, l’impulsività, l’incapacità di posporre la

gratificazione, la rabbia esplosiva sono tipiche e frequenti nei soggetti

con disturbo borderline di personalità e/o con disturbo antisociale di

personalità.

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CONCLUSIONI

Il comportamento aggressivo è un comportamento arcaico,

volto alla sopravvivenza dell’individuo, controllato da strutture

cerebrali filogeneticamente antiche.

Ciò nonostante presenta una sua intrinseca complessità

declinandosi in diversi aspetti, secondo Valzelli (1981). L’aggressività

territoriale, quella competitiva, quella predatoria, quella protettivo-

materna, e quella protettivo-difensiva possono essere significa-

tivamente differenti sul piano psico-comportamentale e neurobio-

logico.

L’aggressività protettivo-difensiva è particolarmente rilevante

nello studio dei soggetti con disturbo aggressivo-impulsivo del

comportamento. Questa forma d’aggressività è evocata dall’attacco,

reale o presunto, di un avversario. In laboratorio si studia dopo aver

somministrato stimoli dolorosi o avversivi ad animali da esperimento

solitamente ristretti in coppia in un unico ambiente. L’aggressività

protettivo-difensiva solitamente si presenta con intensità sproporzio-

nata allo stimolo offensivo (l’accesso di rabbia reattiva del paziente

impulsivo), ma, anche, con la tendenza ad aggredire non chi

direttamente reca un’offesa, ma spesso solo chi n’esprime un innocuo

equivalente simbolico.

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2.2 LA GRUPPOTERAPIA

La psicanalisi (Freud) era prevalentemente orientata al

passato e all’inconscio individuale, ma alcuni medici già all’inizio del

900 ricercavano metodi diretti di riadattamento sociale degli

ammalati.

K. Lewin e la teoria del campo

Lewin ha posto le basi teoriche dello studio dei

comportamenti dell’individuo, in rapporto alla configurazione

generale del suo “spazio di vita” o “campo psicologico”.

Il suo riferimento fondamentale era la Gestalt Theorie (teoria

della forma: specialmente riguardo all’interdipendenza dei rapporti

parte-tutto, gli uni nel tutto, nel comportamento e nell’esperienza) .

Un membro del gruppo esiste nella psicologia degli altri

membri non come singolo ma come appartenente al gruppo. Ecco i

cinque concetti principali , teorizzati da Lewin:

1- Il gruppo è una totalità che trascende la somma dei

fenomeni psicologici dei singoli membri di un gruppo.

2- Il campo psicologico è dovuto non alle persone singole e

al loro ambiente, ma alle interazioni fra la totalità dei fattori che

costituiscono lo spazio vitale.

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3- Lo spazio vitale è la situazione psicologica di una persona

o di un gruppo, costituita da eventi interdipendenti (Pensieri, azioni,

desideri, …); è rappresentato da tutti i fenomeni che, in un dato

momento sono rilevanti per l’individuo o per il gruppo.

4- Due sistemi di relazioni: relazioni interpersonali tra i

singoli membri e relazioni di gruppo (o relazioni sociali) tra i

singoli membri e il gruppo.

5- Un gruppo possiede una propria dinamica: tende a

modificare il sistema degli eventi psicologici (forze) che esso

determina. Gli squilibri delle forze esistenti fanno del gruppo un

sistema che evolve (dinamico) e attraverso fasi di sviluppo punta ad

un adattamento che trasforma le relazioni interpersonali in relazioni

sociali (massima maturità interna).

La dinamica di GRUPPO

· Prende in esame l’influenza reciproca tra i membri di

un gruppo e ne analizza l’interdipendenza tra le persone.

Alla base della dinamica di gruppo si evolve il processo di

socializzazione:

- Qualunque cambiamento di un membro determina un

cambiamento di tutti gli altri membri. Ciò determina

stadi di equilibrio instabile fino al raggiungimento di un

comportamento adattivo equilibratore.

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- Segna il passaggio dal concetto di personalità a quello

di sintalità.

La personalità è il modo in cui l’individuo interpreta e rende

unica ed unitaria la propria esperienza, secondo l’idea di sé; la

sintalità è il modo in cui un gruppo interpreta e rende unica ed

unitaria la propria esperienza, secondo la pluralità vissuta.

Essendo il gruppo un “organismo vivo” dotato di potenzialità

conoscitive ed operative comuni e condivise, la sintalità (o

“processo di sintesi”) è il processo di costruzione di una personalità

e di un’identità di gruppo.

Modelli interpretativi della dinamica di gruppo

1. LA TEORIA DEL CAMPO (K.Lewin) I comportamenti

individuali di gruppo sono parti di un sistema intercorrelato di

eventi che costituiscono lo spazio vitale o sociale del gruppo stesso.

2. LA TEORIA INTERATTIVA (G.C.Homans) Il gruppo è un

sistema di individui interagenti, il comportamento sociale è fondato

su: l'attività, l'interazione, il sentimento, le norme.

3. LA TEORIA DEI SISTEMI (T.M. Newcomb, J.G.Miller)

Dato che un sistema è la risultante di una struttura e di un processo,

ciò che conta all'interno di un gruppo è il gioco degli status, delle

posizioni e dei ruoli.

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4. L'ORIENTAMENTO SOCIOMETRICO (J.L.Moreno) Si dà

molta importanza alle scelte interpersonali tra i membri del gruppo,

scelte misurate appunto dalla sociometria e visualizzate dai diversi

modelli (tabelle, grafi, grafici) di sociogramma.

5. L'ORIENTAMENTO PSICOANALITICO (ex Freud,

W.C.Schutz, W.R.Bion) Si dà molta importanza ai fattori

motivazionali e alle difese psicologiche dell’io in relazione gruppo.

6. L'ORIENTAMENTO FONDATO SULLA PSICOLOGIA

GENERALE (S.E.Asch, L.Festinger, F.Heider) Si dà importanza a

tutti i fattori che in genere sono oggetto di studio della psicologia:

motivazione, finalismo, apprendimento, processi cognitivi, processi

affettivi, …

7. L'ORIENTAMENTO EMPIRICO STATISTICO (R.B.Cattel)

Le dinamiche di un gruppo possono essere rilevate attraverso

procedimenti statistici, come ad esempio l'analisi fattoriale nelle sue

diverse forme.

8. L'ORIENTAMENTO FONDATO SUI MODELLI FORMALI.

Si tratta di quei modelli che presuppongono strutture a priori

definibili mediante procedimenti matematici; il ricercatore,

pertanto, tende più a validare il suo modello che a studiare le

dinamiche del gruppo.

9. LA TEORIA DEL RINFORZO (J.W.Thibaut, H.H.Kelley)

La formazione di un gruppo si fonda sul rinforzo vicendevole delle

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persone in ordine a determinati problemi (sopravvivenza,

conoscenza, lavoro, superamento di una difficoltà o di una prova ...)

Il gruppo come sistema

Il sistema è un complesso di elementi in interazione

La COMPLESSITÀ del sistema è data da:

· NUMERO degli elementi

· SPECIE degli elementi

· RELAZIONI tra elementi

L’essere umano è interpretato come risultante

dall’interazione individuo-gruppo.

Le RELAZIONI fra gli elementi del gruppo variano a seconda:

· delle CARATTERISTICHE degli elementi

· dell’AMBIENTE in cui il gruppo opera

· delle FINALITÀ per cui il gruppo opera

Esistono due TIPOLOGIE di sistemi:

1. chiuso, statico e deterministico (catena di montaggio)

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2. aperto, dinamico e probabilistico (gruppo)

Il GRUPPO COME SISTEMA SOCIALE E’:

APERTO = influenzato e condizionato dall’ambiente. La

particolarità dei gruppi “chiusi” (clan)

DINAMICO = per interazioni fra gli elementi del gruppo e con

l’esterno

PROBABILISTICO = procede in modo euristico, con risultati

possibili e/o probabili, ma non certi

Le DETERMINANTI del gruppo come sistema sono:

- OBIETTIVO

- RISORSE (uomini, mezzi, organizzazione)

- GESTIONE

- CONTROLLO

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FOULKES

1- Il concetto unificante di matrice di gruppo

Il termine matrice deriva dal latino “mater” che significa madre.

Indica la metafora del nutrimento e della crescita che riflette la

gruppoanalisi. E’ l’ipotetica trama comunicativa e relazionale in un

gruppo, come sfondo comune e condiviso che determina il significato

degli eventi.

La matrice sociale è una rete presente contemporaneamente

dentro e fuori l’individuo, poiché parte da una matrice personale,passa

da una matrice dinamica e fino a una matrice di base legata alle

proprietà biologiche della specie e ai valori culturali.

Tiene in considerazione alcuni autori:

- Winnicott che considera come il bambino crei un’illusione

nello spazio tra sé e la madre e prenda possesso dei fenomeni

transizionali per aver un controllo onnipotente fin a quando è pronto a

rinunciar a essi in favore dell’accettazione della realtà esterna.

Foulkes perciò parla della matrice di gruppo come oggetto

transizionale.

- Bowlby che vede la madre come colei che si prende cura del

bambino. Da qui Foulkes individua nel gruppo, “l’altro che si prende

cura” e nello stile di attaccamento al gruppo, la natura dei primi

transfert irrisolti.

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- M.Klein che prende in esame i primitivi meccanismi di

difesa quali la scissione e la proiezione. Foulkes trova la necessità

della proiezione non sui singoli membri ,bensì sulla matrice stessa.

- Bion che individua nella madre il contenitore che trasforma

gli elementi grezzi, primitivi e disorganizzati della percezione del

bambino in elementi di pensiero elaborati, maturi, organizzati, dotati

di senso e mentalizzabili.

- Jung che parla di un inconscio collettivo basato su archetipi

che sono l’essenza dell’anima non individuale, innata e non

modificabile. Tra questi archetipi Foulkes prende in considerazione la

“mandala”, cioè il cerchio che è l’archetipo dell’interezza (il gruppo in

terapia si dispone infatti in cerchio con le sedie). La mandala è la

premonizione di un centro di personalità, poiché l’energia del punto

centrale si manifesta nella compulsione a diventar ciò che si è. Il sé è

la totalità della psiche come coscienza,come inconscio personale e

come inconscio collettivo con archetipi comuni all’umanità intera.

La matrice deriva quindi da teorie opposte:

1) la psicoanalisi di Freud

2) la sintesi di Jung

La sua topografia si colloca in un continuum tra la matrice

dell’individuo che unisce psiche e soma e la matrice sociale che è

raffigurata anche dall’universo come tutto unico e indivisibile.

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2-Psiche e sistema

Il concetto di universo come sistema deriva da un filosofo

dell’800 che si occupò di dialettica degli opposti, ovvero Hegel.

Egli trovò nella sintesi la verità assoluta di tesi e antitesi viste

come visioni parziali della realtà.

Freud ne ha dedotto che l’Io è la sintesi di due istanze interne

all’individuo e cioè l’Es che rappresenta le pulsioni e i bisogni

dell’individuo e il Super-Io che fa sue le regole sociali e familiari.

Bateson vede il sistema come un contesto, ovvero la matrice dei

significati. Il contesto non è altro che una categoria della mente e si

identifica con il processo interattivo co-costruito dagli interlocutori

nella relazione in virtù nella relazione in virtù della coordinazione di

azioni e significati che ha luogo in tale processo e che riflessivamente

diventa la matrice dei significati delle azioni compiute dai soggetti nel

corso della loro interazione.

3- Gruppo-come-un-tutto

I significati della parola gruppo sono principalmente due,

ovvero coesione come unità, basata su attrazione e affinità, che resiste

ai tentativi di divisione e invasione, e coerenza come raggruppamento

legato a un processo attivo basato su un principio organizzativo.

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La gruppoanalisi di Foulkes permette la coesistenza di una

dimensione orizzontale interpersonale delle relazioni tra i membri e

una dimensione verticale intrapersonale di contatto dell’individuo con

se stesso .

Nei membri del gruppo c’è la capacità di pensare nonostante il

dolore e tollerare e conoscere ciò che non può esser pensato. Il fine

terapeutico è di consentire alla coerenza dell’individuo e del gruppo di

emergere nel tempo.

I fattori specifici del gruppo sono:

- reazione speculare

-scambio

-integrazione sociale

-attivazione dell’inconscio collettivo

3-Grembo e identità di genere

Il gruppo rappresenta la madre al suo esterno, come

riattualizzazione della relazione tra lei e il bambino, e la madre al suo

interno come utero che contiene il feto.

Quindi il gruppo esprime sia la relazionalità interpersonale con

le differenze di genere a uno stadio edipico sociale più maturo, sia la

simbiosi primitiva che annulla le differenze tra i sessi e che può creare

l’ angoscia di esser inghiottiti e schiacciati dal grembo del gruppo e di

confonder la propria identità.

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5-Scena primaria

Quando si crea un gruppo, inizialmente esso funge da madre

che ha attenzioni sufficienti ai bisogni di dipendenza e contenimento

di ansie eccessive.

Quando il gruppo è sufficientemente forte e con capacità di

ripresa, si elabora la scena primaria come insieme di conoscenze

inconscie e di mitologia personale del bambino riguardo le relazioni

sessuali tra i genitori. Tale scena può portar a una regressione e ad

angoscia con effetti potenzialmente distruttivi ma è indispensabile

affrontarla per facilitare il passaggio da una relazione esclusiva duale

di tipo materno, a una relazione più complessa e impegnativa come

quella triadica, prototipo del gruppo più ristretto di tipo familiare.

Fenomeni di gruppo:

La psicoterapia si snoda su tre vie:

a- terapia di gruppo che si concentra sul gruppo

considerato come un tutto, prescindendo dai conflitti

intrapsichici individuati e risolti attraverso la chiarificazione

dei processi di gruppo.

Per Bion il gruppo è visto come un paziente singolo

nella sua battaglia transferale col terapeuta onnipotente.

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b- terapia in gruppo ovvero una terapia individuale

inserita in un gruppo che controlla le interazioni tra i singoli

individui, senza considerare i processi globali di gruppo.

c- terapia attraverso il gruppo in cui il terapeuta ha la

funzione di far in modo che il gruppo diventi il terapeuta degli

individui. Si sviluppa un rapporto transgenerazionale con l’autorità e

uno longitudinale tra i pari dentro al gruppo. Il terapeuta non fa analisi

ma favorisce la comunicazione nel gruppo.

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2.3 IL METODO DELLO PSICODRAMMA

Moreno, collegato all'avanguardia culturale viennese della

rivista Daimon, sentiva contestualmente gli stimoli provenienti dalla

sperimentazione teatrale, dall'interesse per la clinica e la psicopato-

logia e, non ultima, una forte motivazione al cambiamento sociale e

alla difesa dei più deboli.

Queste quattro diverse prospettive (filosofico/ideale, teatrale,

clinica e sociale) sono elementi fondanti dello psicodramma e, a mio

avviso, devono coesistere, integrandosi, pena lo snaturamento del

metodo stesso.

Moreno ha individuato alcune caratteristiche indispensabili per

la terapia di gruppo:

· L'autonomia del gruppo, autonomia contrapposta alla

dipendenza dal conduttore. Un processo di formazione o di terapia

non può dirsi compiuto se non è avvenuto un cammino di autonomia

del gruppo e del singolo, che lo porta alla presa di coscienza delle sue

risorse e possibilità di cambiamento.

· L'esistenza di una struttura del gruppo e la conseguente

necessità di conoscerla. Un intervento di gruppo non può prescindere

dall'analisi delle reti di relazione esistenti nel gruppo stesso. Il

processo formativo o terapeutico farà leva sulla possibilità di

cambiamento di tale struttura di relazione.

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· Il problema della collettività: schemi di comportamento,

ruoli e determinanti socioculturali influenzano la situazione

indipendentemente dalle caratteristiche dei singoli individui.

L'intervento di gruppo non si rivolge solo alle persone, in quanto

portatrici di specifiche strutture di personalità, ma si occupa altresì

delle persone in rapporto al ruolo che esse esercitano in un

determinato contesto sociale.

· Nel gruppo c'è tendenza verso l'anonimato dei

partecipanti, i confini tra i vari Io diventano più tenui, è il gruppo

stesso che, nella sua globalità, diventa il più importante.

L'intervento non è finalizzato solo a produrre un benessere psichico

nelle singole persone, ma intende produrre nelle persone un

apprendimento a relazionarsi in modo più adeguato con gli altri

importanti del proprio contesto sociale. Questo apprendimento non

può avvenire che in un ambito di gruppo, nel quale si attenua l'Io e si

evidenzia l'importanza della relazione, delle identificazioni e

dell'incontro con l'altro.

2.3.1.L'Incontro e il Tele

'Tele' è un vocabolo greco e significa: lontano, a distanza. Esso indica

nel linguaggio moreniano la corrente affettiva che lega in modo

reciproco una persona ad un'altra. Possiamo meglio comprendere

questo concetto se lo differenziamo da due altri termini noti in ambito

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psicologico: l'empatia ed il transfert. L'empatia indica una qualità

individuale, che facilita la percezione e la condivisione di ciò che un

altro essere umano sta provando in un dato momento: è pertanto un

processo unidirezionale. Il tele è invece un fenomeno bidirezionale

che, in parole diverse, potremmo esprimere come empatia reciproca o

comunicazione emotiva a doppia via. Il transfert, d'altro lato, indica la

proiezione di fantasie inconsce su un'altra persona e rivela un ritorno

delle esperienze passate sulla relazione attuale. Da un punto di vista

genetico il transfert si sviluppa dopo il tele e si struttura come

modalità relazionale sostitutiva, in seguito al fallimento di esperienze

relazionali reciproche soddisfacenti. Il tele, viceversa, è una modalità

di funzionamento primaria, non appresa, potenzialmente sempre

attiva, educabile e passibile di sviluppo nelle relazioni sociali.

2.3.2. L'apprendimento della spontaneità

Fin dai suoi primi scritti, Moreno si è occupato della

spontaneità e del suo rapporto con la creatività. Il concetto di

spontaneità è fondamentale in ambito clinico; il grado di spontaneità

di un paziente nel rapporto con gli altri è uno degli indici più

significativi della sua salute mentale. La mancanza di spontaneità è

segnalata dall'ansia e/o da un comportamento rigido e stereotipato.

Apprendere la spontaneità nei rapporti interpersonali significa

apprendere a rispondere in modo sintonico alle esigenze dell'ambiente

(senza distorcerne le richieste e la realtà) e alle proprie esigenze

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interne (senza stereotipie difensive e facendo emergere i veri bisogni e

le autentiche emozioni). Moreno verifica che, nello sviluppo della

spontaneità, ha un ruolo centrale l'azione, l'interpretazione scenica

improvvisata. Nell'ipotizzare due canali diversificati di funzionamento

della memoria (il centro dell'azione e il centro del contenuto) Moreno

sottolinea come l'apprendimento della spontaneità richieda un contesto

di azione per essere efficace. Solo in tal modo contenuti ed azioni

possono trovare sintesi nella capacità di realizzare ruoli e

comportamenti spontanei.

2.3.3- Spontaneità e controllo

La dinamica spontaneità/controllo fa necessariamente parte del

lavoro psicodrammatico. Solo una visione ingenua dell'intervento

psicodrammatico può considerare la dimensione spontaneità come

autenticamente vera e la dimensione controllo come una semplice

limitazione. A tal riguardo così si esprime Moreno:

"Lo psicodramma è tanto un metodo di educazione all'autocontrollo

quanto un metodo di espressione libera. Il carattere repressivo della

nostra cultura ha finito per dare alla "espressione per se stessa" un

valore spesso esagerato. Metodi come l'inversione di ruolo, o la

rappresentazione di ruoli, in quanto richiedono una limitazione, un

riaddestramento e/o un ricondizionamento dell'eccitabilità,

costituiscono un'applicazione dello psicodramma assai sottovalutata e

trascurata. Soprattutto l'interpolazione di barriere (interpolation of

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resistences) consente all'io di acquisire sempre più controllo nei

confronti di un'emozione che viene più volte messa in scena nello

psicodramma". (Moreno, 1987).

Moreno si riferisce alla spontaneità in stretta relazione al

concetto di creatività, tant'è che individua il fattore S-C (spontaneità-

creatività) come elemento chiave nell'espansione dell'individuo e della

relazione con l'altro. L'interesse per la spontaneità in Moreno è

strumentale rispetto al tema dello sviluppo della creatività, dell'atto

creativo. Pertanto, centrare l'attenzione solo sullo sviluppo della

spontaneità (o sullo "stato di spontaneità") senza mantenere il

collegamento con l'altro polo del fattore S-C, la creatività appunto,

rischia di sminuire la funzione dell'atto spontaneo (che verrebbe visto

come buono "in sé", indipendentemente dal contesto), privandolo

della sua finalizzazione creativa. A questo riguardo, sia in formazione

che in terapia uno degli obiettivi principali non è lo sviluppo della

spontaneità, quanto la capacità di realizzare atti creativi, di assumere

ruoli nuovi creativamente e di superare/trasformare in modo creativo i

ruoli personali, sociali e lavorativi inadeguati e/o stereotipati.

2.3.4 - Ruoli psicodrammatici e ruoli sociodrammatici

Nella visione psicodrammatica è fondamentale la distinzione tra

ruoli psicodrammatici e ruoli sociali. Si definisce ruolo sociale ogni

ruolo esperito in condizioni di realtà, ove un ruolo interagisce con un

controruolo, che esiste come dato di realtà, indipendentemente dai

desideri e dalle intenzioni del soggetto. Nella vita di tutti i giorni

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ognuno vive relazioni sociali, confrontandosi con controruoli proposti

dall'altro ed essendo ognuno controruolo per l'altro. La dinamica

ruolo/controruolo può essere cristallizzata oppure aperta ad

evoluzioni creative. Si tratta sempre di modificazioni che l'interazione

può produrre, ma il controruolo non può essere modificato a

piacimento dal desiderio; resta, anche nelle sue evoluzioni interattive,

un dato di realtà indipendente. Il ruolo psicodrammatico invece è un

ruolo che può essere creato a piacimento nella situazione di semi-

realtà della scena psicodrammatica. In tale contesto i controruoli

possono essere modificati, trasformati, deformati in base al mondo

interno del protagonista. Sta in questa possibilità del setting teatrale la

ricchezza del metodo psicodrammatico. Nel regno dei ruoli

psicodrammatici (o del gioco psicodrammatico) la situazione è fittizia,

ma l'emozione è vera. In tal modo possono essere esplorati, elaborati e

ricreati tutti i ruoli possibili dell'individuo. I ruoli psicodrammatici

esprimono tutta la gamma dei ruoli interni dell'individuo, nel loro

esternarsi sulla scena nello spazio di semi-realtà. I ruoli

sociodrammatici esprimono le risonanze individuali del mondo

socio/professionale, o di uno specifico gruppo sociale, nel loro

esternarsi sulla scena nello spazio di semi-realtà.

I ruoli che rappresentano idee ed esperienze collettive sono chiamati

ruoli sociodrammatici; quelli che rappresentano idee ed esperienze

individuali sono chiamati ruoli psicodrammatici. Noi sappiamo,

tuttavia, che queste due forme di gioco di ruolo non possono mai

essere realmente separate...Perciò gli spettatori dello psicodramma

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sono influenzati contemporaneamente da due fenomeni: una madre e

un figlio come problema personale, e il rapporto madre-figlio come

modello ideale di comportamento. (Moreno, 1985).

2.3.5 – Centralità dell'azione

Questo aspetto è connesso in modo indissolubile al metodo,

tant'è che, in assenza di azione, non si può parlare di psicodramma.

Centralità dell'azione non significa necessariamente che le persone

devono muoversi, correre, drammatizzare o scomporsi, ma implica un

atteggiamento nei confronti delle esperienze e dei contenuti che

privilegia l'esserci rispetto al racconto. L'azione diventa elemento

fondante e precursore del cambiamento, della relazione e

dell'apprendimento.

PSICOLOGIA SOCIALE

Schemi

Appartengono alla social cognition ovvero alla conoscenza

sociale come frutto dell’interazione tra ciò che sta fuori di noi ed è

oggettivo da una parte, e ciò che la nostra mente costruisce e

organizza mediante categorie.

Si ha la probabilità processuale di arrivare a prodotti di

conoscenza creativi e innovativi ma anche a errori.

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Gli schemi sono punti di contatto tra dati oggettivi e la propria

conoscenza sociale. Sono strutture di dati per rappresentare concetti

immagazzinati in memoria. Essi presentano una struttura piramidale

con una organizzazione gerarchica dal generale onnicomprensivo e

astratto allo specifico, esclusivo e concreto. Tale struttura quindi è di

tipo contenitivo e associativo.

Sono legati al contesto: troviamo gli schemi di persona

contenenti i tratti di personalità per esprimere rapidamente giudizi

sociali mediante reti associative, aventi un alto potere predittivo;

schemi del Sé; schemi degli eventi (scripts) che sono copioni di

sequenze di azioni che consentono di adattarci alla situazione in modo

economico e adeguato; schemi di ruolo che forniscono aspettative di

ruolo sociale.

Gli schemi possono però essere inadeguati perché generalizzano

eccessivamente, si basano sull’effetto familiarità e simpatia o

ricercano ad ogni costo la coerenza cognitiva. Inoltre possono

utilizzare stereotipi cioè credenze semplificate, rigide caratterizzate da

assolutismo e unilateralità. Il pregiudizio quindi si basa su stereotipi,

cioè schemi rigidi, ed è quindi un complesso ideo-affettivo per cui il

soggetto sposta l’aggressività sull’estraneo, la proietta fuori da sé su

un nemico. Questo pensiero prevenuto è alla base di distorsioni,

restringimento di campo, visione a tunnel, difficoltà a giungere a

soluzioni adeguate. Insomma è il presupposto per un disturbo

nevrotico.

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3- MATERIALI E METODI

3.1 IL COLLOQUIO DI GRUPPO

E’ necessario citare nuovamente due teorie di riferimento a

cui ci si è rifatti per sostenere i colloqui di gruppo.

BATESON

La premessa epistemologica che orienta e dà una forma alla

conoscenza dell’ essere umano è l’olismo che appartiene alla natura

stessa, ossia la sua capacità di generare totalità complesse le quali

possiedono proprietà mancanti alle singole parti.

Non è possibile considerare le “cose in sé”, ma è indispensabile

osservare le relazioni fra le creature, poiché l’uomo non è in grado di

raggiungere la verità oggettiva. Egli, come osservatore è

irriducibilmente partecipe e inscindibile dal sistema osservato.

L’interazione tra il soggetto e la realtà è tale da impedire

un’osservazione neutra. L’uomo inoltre è un sistema autocorrettivo, il

cui esserci nel mondo è di tipo interattivo, un circuito di scambi e di

coevoluzione.

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La possibilità di correzione è legata a un meccanismo

retroattivo che mediante il feed-back di correzione e apprendimento

consente di raggiungere una organizzazione più elevata. Si introduce

un’ informazione nel sistema in grado di perturbarne il suo

funzionamento.

Un altro importante paradigma è quello della mente umana che,

secondo Bateson, per esser tale deve rispettare sei regole:

- La mente è un aggregato di parti o

componenti interagenti;

- L’interazione tra le parti è attivata dalla

differenza;

- Il processo mentale richiede un’energia

collaterale;

- Il processo mentale richiede catene di

determinazioni circolari o più complesse;

- Nel processo mentale gli effetti della

differenza devono essere considerati trasformati,cioè

versioni codificate della differenza che li ha preceduti;

- La descrizione e la classificazione di questi

processi di trasformazione rivelano una gerarchia di tipi

logici immanenti ai fenomeni.

Il gruppo perciò è una mente collettiva sistemica complessa in

cui le relazioni tra i membri sono attivate dalle loro differenze che

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producono trasformazioni, possibilmente terapeutiche nel caso di

psicoterapie di gruppo.

FOULKES

Il suo pensiero relativo all’approccio psicoanalitico applicato

alla psicoterapia di gruppo, risentesi molte influenze tra cui quelle

della sociologia, della psicologia della Gestalt e dell’antropologia

culturale.

L’uomo infatti è un animale sociale, caratterizzato da una

naturale tendenza a stabilire relazioni.

Inoltre, considerando il principio della Gestalt per cui il tutto

precede ed è più elementare delle parti, l’uomo risulta parte di un

gruppo che è l’unità fondamentale dell’individuo. Ci si sposta da

un’ottica intrapsichica a una interpersonale e transpersonale, in cui

l’uomo è analizzato nel suo contesto.

Il gruppo terapeutico è visto come uno strumento di

cambiamento, che varrebbe la finalità di ribaltar il circolo vizioso

della situazione psicopatologica per cui come il gruppo fa star male, il

gruppo può guarire.

Nella comunicazione i membri ricercano un senso comune a cui

aggiungere l’esperienza personale per costruire la realtà mentale.

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La crescita inizia ad esserci quando emerge la consapevolezza

che le affermazioni di ciascun membro sono assunte come vere ma in

maniera parziale, ovvero sono verità parziali di ciascun osservatore.

Ogni comunicazione però è rilevante e anche risposte e reazioni

a comunicazioni iniziali divengono esse stesse comunicazioni

fondamentali.

Si crea quindi gradualmente uno spazio per le differenze dei

significati di ogni persona.

Il gruppo è costretto a stabilire e negoziare un linguaggio

comune.

L’ascolto e la comprensione favoriscono la comunicazione e lo

scambio.

Al di là dell’analisi dell’inconscio collettivo, che è

fondamentale in Foulkes, la sua psicoterapia si incentra sul “qui e

ora”, ovvero sulle relazioni immediate e presenti in gruppo che

intensifica e amplifica gli aspetti sociali e internazionali che nella

psicoanalisi vengono messi in luce solo nel transfert.

Nel gruppo si predilige l’aspetto orizzontale, dello scambio

paritario interpersonale, piuttosto che quello verticale con l’autorità

del terapeuta.

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3.2 SETTING, FATTORI E FENOMENI SPECIFICI

DI GRUPPO

Nella ricerca sperimentale lo psicologo si è posto nel ruolo

dell’osservatore partecipe, su un piano appunto orizzontale rispetto ai

pazienti,pronto a crescere insieme a loro.

La stanza a disposizione per gli incontri è stata una auletta di

conferenze all’interno della Casa di Cura Psichiatrica Villa

Barruzziana di Bologna. Il luogo era adeguato alle esigenze di

tranquillità e accoglienza,anche perché ha un affaccio su un parco

verde e riposante.

Il gruppo, simboleggiato dal cerchio, è stato riproposto

mediante la disposizione delle sedie in maniera appunto circolare e

chiusa.

Cambiamenti nella disposizione dei posti,la cui scelta era libera,

e nell’avanzamento o arretramento delle sedie stesse sono stati rilevati

e descritti in relazione anche agli scambi relazionali interni al gruppo

stesso.

Il numero dei membri è variato da un minimo di cinque a un

massimo di dieci, e tale varianza è legata al ciclo continuo di ricoveri

e dimissioni, perciò il gruppo è stato di tipo aperto con introduzione di

nuovi soggetti e l’abbandono da parte di altri. La plasticità quindi è

stato un elemento caratterizzante il gruppo sia in maniera positiva, per

la propensione a nuovi membri,al loro ascolto e a alla loro

accettazione, sia in maniera negativa per l’impossibilità di poter aver

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una crescita profonda e omogenea e di creare un cambiamento di

prospettive psicopatologiche.

La selezione dei pazienti è stata specifica in relazione alle

difficoltà di controllo degli impulsi e in particolare dell’aggressività.

Si è creato un gruppo intermedio.

La frequenza delle sedute è stata di due volte a settimana in

maniera intensiva così da arginare il discorso dell’estrema flessibilità

e alta probabilità di abbandono del gruppo dovuto alle dimissioni e

talora alle difficoltà relazionali.

Il numero totale di incontri è stato di dieci,sempre per i motivi

sopraccitati,perciò si è trattato di un esperimento di supporto più che

di una psicoterapia di gruppo vera e propria.

Nei primi incontri il gruppo era leadercentrico, con

comunicazioni dirette al leader, cioè allo psicologo e con semplici

schemi interrelazionali. Gradualmente il gruppo è diventato più

gruppocentrico con comunicazioni dirette e schemi interrelazionali

complessi.

I fattori terapeutici specifici son stati:

- SOCIALIZZAZIONE legata a principi di tolleranza

accettazione reciproca con la possibilità di esprimersi liberamente.

Ogni soggetto ha avuto modo di avvertire di non essere solo con la

propria sofferenza spesso irrazionale e incontrollabile, poiché gli altri

membri lo hanno ascoltato e aiutato a riformulare in maniera più

chiara il suo problema. Tal consapevolezza ha avuto la funzione di

alleviare le sue ansie, i suoi sentimenti di colpa, stimolando la

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liberazione di sentimenti e convinzioni prima taciuti e repressi.

Aumentando la socializzazione, la comunicazione è divenuta più

plastica, relativa e con possibilità di modificarsi.

- FENOMENO DELLO SPECCHIO ovvero l’esperienza del

confronto tra i pazienti del gruppo ha portato a uscire da un

isolamento psicopatologico, per giungere a un’immagine personale di

sé di carattere sociale, psicologico e corporea più vicina alla realtà.

- FENOMENO DELLA CATENA con una discussione

liberamente fluttuante in cui l’intervento di un membro ha stimolato il

contributo di un altro e così via.

I fattori specifici di gruppo che si sono intrecciati con quelli

terapeutici sono stati :

- TEORIZZAZIONI INGENUE per cui i pazienti inizialmente

hanno raccontato le proprie teorie personali, spesso altamente fittizie.

Una sorta di correzione di tali convinzioni si è in parte verificata

in relazione all’interazione nel gruppo.

- SOSTEGNO poiché il gruppo offre un contesto permissivo, in

cui l’individuo può esser se stesso, ridimensionando l’eccessiva

rigidità di coscienza e facendo fronte al significato del sintomo in

relazione al proprio sistema di riferimento.

- SOTTOGRUPPI che si sono creati in base a identificazioni,

sintomi comuni, condivisione della stessa stanza. Tale dinamica si è

manifestata quando un membro ha deciso di prendere sotto la sua

protezione un altro che si esprime di meno o in modo meno adeguato

oppure quest’ultimo può essere usato come mezzo per esprimere i

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propri punti di vista meno accettabili. Piano piano il piano orizzontale

si è sviluppato maggiormente.

- SILENZI che hanno rappresentato una forma importante di

comunicazione nel gruppo i cui significati variavano in relazione al

momento e alla situazione. Possono essere venuti dopo un

allentamento di tensioni, oppure in relazione all’ inizio o alla fine di

una fase di gruppo .

- CAPRO ESPIATORIO, ossia la scelta di un membro su cui

proiettare la propria aggressività e il proprio senso di colpa. L’attacco

del gruppo verso il capro espiatorio era dovuto al timore ad attaccare

la persona contro cui erano diretti effettivamente i suoi impulsi

aggressivi.

- L’ESTRANEO, ovvero un nuovo membro vissuto un po’ dal

gruppo con disagio, ansia e avversione come espressione del

narcisismo e dell’amore di sé. La capacità di assimilazione tuttavia è

stata buona, in quanto l’estraneo in realtà era una persona sofferente

come gli altri membri. In quell’ambiente psichiatrico la condivisione

dei sintomi e del dolore interno ha prevalso sul timore dell’ignoto.

- RITMO E TENSIONE per cui il gruppo è stato caratterizzato

da forze disgreganti e integranti che si sono alternate provocando

dinamiche di crescita del gruppo.

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Le transazioni principali che si sono verificate in gruppo sono

state:

- ESIBIZIONISTICO-VOJEURISTICA che ha comportato

l’impulso di mostrarsi ma anche quello di guardare. In connessione

c’è stata la paura di mostrare impulsi inadeguati.

- ETEROSSESUALE-OMOSESSUALE per cui gli impulsi

eterosessuali hanno portato a maggiori separazioni e difese mentre

quelli omosessuali, essendo la matrice di ogni individuo, aiutano a

creare una maggiore integrazione e coesione.

- SADICO-MASOCHISTA che si è manifestata nella visione

sadica dello psicologo da parte dei membri del gruppo, in quanto egli

vorrebbe sapere e giudicare i comportamenti “strani” dei pazienti.

- TRANSAZIONE SUL SESSO con difese e invidie.

- MANIACO-DEPRESSIVA per cui i membri hanno condiviso

un vissuto di perdita-abbandono di tipo catastrofico. L’alternanza

delle emozioni depressive con quelle euforiche hanno pregnato il

gruppo.

- RELAZIONE TRA FORZE PROGRESSIVE E

REGRESSIVE in una dialettica forte. Il progresso sarebbe stato

sinonimo di fine del trattamento, della rottura dei legami stabiliti col

gruppo, della perdita del supporto di gruppo e dello psicologo che in

fondo ha rappresentato colui che ha accompagnato verso una

maggiore maturità. Il regresso in certi momenti ha indicato la

resistenza al cambiamento e l’attaccamento allo status quo della

malattia come rifugio e protezione funzionale dall’angoscia.

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3.3 TESTS COME SUPPORTO AI COLLOQUI E

COME CONTROLLO DELL’ANDAMENTO

DEL GRUPPO

3.3.1 PRESENTAZIONE F.E.

Prima dell’inserimento dei soggetti nel gruppo, è stato

somministrato un test a ciascuno di loro per poter avere un quadro

globale di personalità e informazioni sul grado di fragilità emotiva.

Il test somministrato a tal proposito è stato il questionario sulla

fragilità emotiva. Il test per la valutazione della Fragilità Emotiva

(Caparra,1991) è una scala oggettiva con possibilità di una risposta

dentro una gamma graduata di sei risposte da totalmente vero a

totalmente falso. I soggetti potrebbero falsificare volontariamente la

risposta in nome della desiderabilità sociale o delle aspettative che essi

pensano abbia l’esaminatore.

La valutazione tuttavia è più veloce e meno complessa e

inquadrabile rispetto a un range di valori di norma.

Tale test risulta dalla fusione di altri due test, la Scala di

Suscettibilità Emotiva (Caparra, 1983) la Scala della Persecutorietà

(Caparra, 1990).

La prima misura la propensione dell’individuo alla difesa, alla

sperimentazione di stati i disagio, di inadeguatezza e di vulnerabilità

in situazioni, presunte o reali, di pericolo, offesa o attacco.

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La seconda invece misura la propensione dell’individuo a

sperimentare sentimenti e vissuti di persecuzione, oppressione,

tensione, legati all’anticipazione o alla paura di una punizione

incombente.

L’FE risulta un questionario anch’esso sulla personalità che

correla dei tratti come autoaggressione, disadattamento sociale,

aggressione manifesta, ritiro e depressione, ansia sociale e ansia

manifesta e occulta.

RISULTATI DEL TEST F.E.

Una visualizzazione dei 30 items del questionario è presente in

appendice, insieme alla tipologia di risposta chiusa graduata e alla sua

corrispettiva legenda.

Il range di normalità è compreso tra 54,2 e 102,6 dei punteggi

grezzi, convertiti in percentili tra 16,6 e 82.

Per calcolare il punteggio si sommano 30 items, solo 20 di essi

sono effettivi, perciò è necessario sottrarre successivamente i 10

punteggi di controllo, i quali hanno la funzione di tenere sotto

controllo i fenomeni di response set e di acquiescenza,così da evitare

di uniformare la modalità di risposta. Il totale grezzo è trasformato in

valori percentili facendo riferimento ai ranghi percentili ottenuti dalla

popolazione esaminata in fase di standardizzazione.

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Si è notata una grande variabilità dei soggetti rispetto alla

fragilità emotiva: la media è stata 69 ma la varianza elevata, da 97,1 a

27,4.

Ciò che emerge è una marcata vulnerabilità dei soggetti insieme

al senso di inadeguatezza, all’ansia, al vissuto di solitudine e alla

sensazione di costrizione, impotenza e mancanza di energie per

vivere. Questi tratti accomunano tutti i soggetti che hanno fatto parte

del gruppo di sostegno. La scala che è prevalsa maggiormente è

quella della suscettibilità emotiva rispetto alla persecutorietà.

In una precedente ricerca su “Fragilità emotiva, sintomatologia

depressa e benessere percepito in pazienti psichiatrici e in controlli

sani” (A. Chiarini, 2004) la fragilità emotiva è risultata un tratto

significativo dei pazienti con disturbi psicopatologici e in particolare

di quello depressivo. Anche i membri del gruppo erano affetti

principalmente da disturbi depressivi, spesso in comorbilità col altre

patologie quali ansia, disturbo di personalità borderline o istrionico,

disturbo di somatizzazione, dipendenza e bipolare e hanno presentato

una certa fragilità emotiva.

In relazione al tema sul discontrollo degli impulsi, ci si è chiesti

se la fragilità potesse essere un fattore predisponente all’incapacità o

alla difficoltà nel contenere gli impulsi aggressivi e se il lavoro di

gruppo favorisse lo sviluppo di un Io più forte, con una maggiore

autostima e senso di empowerment così da esser più capace di

sopportare le frustrazioni e l’angoscia senza ricorrere alla difesa

dell’aggressione auto e/o eterodiretta.

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Verrà ripreso questo tema dopo aver trattato lo svolgimento

delle dieci sedute di gruppo in modo da avere il quadro globale di

questa attività di ricerca e potere fornire una risposta più attendibile.

3.3.2 TEST DI APPERCEZIONE TEMATICA (TAT)

Si tratta di un altro test proiettivo di Murray in cui le immagini

sono parzialmente ambigue. Esse infatti presentano stimoli più

strutturati, cioè figure umane le cui espressioni o intenzioni sono

predisposte a molteplici interpretazioni. Le cinque immagini proposte

ai pazienti sono riportate in appendice. In realtà la totalità di figure è

superiore a venti ma è possibile selezionale in base all’età, al sesso e

alla patologia.

I soggetti hanno il compito di scrivere una storia per ogni

immagine che abbia un senso logico, ovvero un inizio, uno

svolgimento e una fine. La proiezione consiste nell’identificazione del

soggetto con il protagonista che può possedere una o più

caratterizzazioni quali: superiorità/inferiorità, criminalità, anormalità

mentale, solitudine, senso di proprietà, desiderio di comando,

litigiosità.

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Un altro aspetto importante che mette a fuoco il TAT sono i

bisogni latenti dei soggetti. I bisogni sono così distinti da Murray:

- sottomissione

- desiderio di successo

- aggressività di tipo emotivo e verbale, fisico,

sociale, distruttivo

- dominazione

- aggressione contro di sé

- protezione

- passività

- sesso

- bisogno di aiuto

- conflitti

- variazione emotiva

- abbattimento

- Super-Io, orgoglio, strutturazione dell’Io.

In ultima analisi il TAT si occupa anche delle pressioni

dell’ambiente, ovvero delle proiezioni che i soggetti operano in

relazione ai loro vissuti e alle loro esperienze in relazione

all’ambiente. Tali pressioni sono state così classificate:

- socievolezza associativa o emotiva

- aggressione

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- tendenza al dominio (coercizione, restrizio-

ne, allettamento e seduzione)

- bisogno di protezione

- ripulsa

- mancanza, perdita

- pericolo fisico attivo o come mancanza di

appoggio

- ferita fisica

Sono state somministrate sei tavole ai pazienti,all’inizio del

terzo incontro di gruppo e nel nono come verifica di un’eventuale

trasformazione-evoluzione dei bisogni dei soggetti, soprattutto in

relazione all’aggressività e alla necessità di protezione. A ognuno di

loro sono state fornite le fotocopie in bianco e nero delle immagini

originali,lasciando uno spazio bianco in basso per consentire di

scrivere le storie. In questo modo il test è rimasto individuale come da

prescrizione, ma è stato portato avanti contemporaneamente da tutti in

gruppo.

La prima tavola è quella di presentazione di sé e raffigura un

bambino col violino. Qui di seguito sono riportate le storie dei pazienti

innanzi alla prima tavola.

Paolo M. “Lo studio del violino per un bambino è pesante.

Eccolo con gli occhi chiusi per un riposo che non è solo riposo. E’il

ritorno ai momenti felici già abbondanti, nella sua pur breve vita”.

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Monica B ”L’insoddisfazione del bambino a voler suonare il

violino, e non ci riuscirà … troppo tentennamento”

Andrea C. ”Fanciullo che guarda un violino e che è incerto se

studiarlo o no. Sembra più sfavorevolmente”.

Monica M ”Un bambino molto triste che non riesce a suonare e

non sa il motivo e ci pensa”.

Al terzo incontro oltre allo psicologo si sono riuniti questi

quattro pazienti. Come emerge dalla prima tavola, il bambino

rappresenta la condizione attuale dei soggetti innanzi a un compito, a

una difficoltà. Perciò il violino simbolicamente potrebbe rappresentare

la malattia. La pesantezza della situazione è molto marcata, come lo è

l’indecisione e la conflittualità rispetto a come affrontare il disturbo.

C’è più un atteggiamento di impotenza e rinuncia associato a una

bassa autostima.

La seconda immagine è quella di una signora alla porta.

Ecco le storie riportate dai ragazzi del gruppo:

Paolo M. “Due secoli fa. Un romanzo popolare. Aprire la porta

tra curiosità e indiscrezione. Non saprò mai quello che lei ha visto …

mi spiace”.

Monica B.” Il desiderio di incontrare qualcuno di atteso, ma

ahimè non c’è nessuno al di là della porta”.

Monica M.” Donna che guarda sbalordita una stanza vuota e

non capisce il motivo di questo vuoto”.

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Andrea C.” Donna che esce da una stanza per entrare in salotto.

E’ curiosa “.

La plurivalenza dell’immagine si ritrova nell’intenzionalità del

gesto della signora, la quale desidera un controllo-dominio invadente

oppure si prende cura di ciò che gli è caro o ancora cerca qualcosa che

ha perso e le manca.

Il bisogno di controllo e dominio emerge ma come mancante.

C’è globalmente un vissuto di solitudine e abbandono con la

sensazione che ciò che si cerca non ci sia o sia andato perduto. Non

vengono però espressi l’angoscia della perdita e nemmeno la

sensazione di una perdita di controllo degli impulsi.

La terza tavola sottoposta, rappresenta l’uomo alla finestra ed è

stata così interpretata:

Paolo M.” Il buio dentro a u appartamento vuoto e svuotato.

Fuori la luce, il sole e la propensione del protagonista a raccoglierli in

toto. C’è sempre la possibilità dell’ottimismo e della riuscita”.

Monica B.” La voglia di libertà, il cielo dà sempre sensazione di

respiro, l’uomo guarda troppo con desiderio”.

Monica M.” Uomo che vuole stare solo a riflettere all’ombra di

tutti e pensa alla finestra”.

Andrea C.” Persona seduta sul bordo di una finestra e guarda

fuori il paesaggio”.

Questa immagine mette in evidenza la relazione tra il proprio

mondo interno e l’ambiente e dunque il modo in cui viene vissuto tale

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rapporto. L’ambiguità consiste nella polarizzazione di questa

relazione, ovvero o il desiderio di un rapporto armonioso di scambio

produttivo, o il desiderio di isolamento sino all’autodistruzione.

I vissuti sono stati piuttosto diversi e hanno oscillato tra il

desiderio di fuga dalle emozioni verso la libertà, la contemplazione

riflessiva-passiva, il contrasto tra il vuoto interno e la ricchezza di

stimoli dell’ambiente a cui ci si aggrappa e infine la ricerca di sé con

una chiusura rispetto all’ambiente. Il bisogno di aggressione

autodiretto è stato negato, forse perché troppo angosciante e poco

gestibile.

La quarta immagine mostra un uomo colla mano stesa a

distanza sulla fronte di un’altra persona sdraiata. Le quattro risposte

sono state:

Paolo M:” Tentare una carezza sulla fronte della figlia che

dorme,la paura di svegliarla,il bisogno di esprimere il suo amore”.

Monica B.” L’uomo sta cercando di accarezzare la donna, ma

non riesce ad amarla”.

Monica M.” Uomo che cerca di afferrare il viso della donna per

accarezzarlo”.

Andrea C.” Psicoanalista che sta ipnotizzando un paziente. Il

paziente è già ipnotizzato.”

La tavola contiene in sé l’ambivalenza affettiva. Infatti si può

leggere sia l’atteggiamento di cura e amore, sia quello dell’attacco

aggressivo.

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Ciò che è emerso è solo il bisogno di dare e soprattutto ricevere

affetto,con una totale negazione degli impulsi aggressivi. Il bisogno

che qualcuno si prenda cura di loro è quasi un grido. C’è una

regressione a una condizione infantile di dipendenza in cui i soggetti

sono indifesi e perciò hanno bisogno di una figura di riferimento che li

accompagni nella crescita.

La quinta immagine riporta un uomo in piedi col volto coperto

dal braccio e dietro di lui, sdraiata su un letto, una donna. Ecco quindi

le storie raccontate dai pazienti:

Paolo M.” Dopo una lunga malattia: la morte. Il dolore folle di

lui subito dopo l’agghiacciante verità. Il pianto “.

Monica B. ”L’infelicità della donna dopo un rapporto e la

sufficienza dell’uomo”.

Monica M. “ Uomo che piange disperato accanto a sua moglie

morta. E’ molto disperato”.

Andrea C. “Uomo che ha avuto un “incontro” con una prostituta

e sta rivestendosi. L’uomo appare affaticato e si deterge la fronte dal

sudore”.

L’immagine contiene l’aspetto dell’aggressività eterodiretta, il

bisogno sessuale, il senso di colpa e infine il dolore della

perdita/abbandono.

Qui le difese tengono meno e l’angoscia prevale in modo

sconvolgente. Tuttavia ancora una volta gli impulsi aggressivi

vengono negati e con essi il vissuto di colpa. Anche il bisogno

sessuale è stato represso.

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L’aggressività in particolare è un impulso non accettato dalla

coscienza dei soggetti, e il grado di distruttività è tanto maggiore

quanto più viene represso, così il rischio di esplosioni violente è alto, e

i membri del gruppo non ne hanno neppure consapevolezza.

Nel corso degli incontri si è cercato dunque di portare alla luce

gli impulsi, di dargli un nome, una espressione, una forma

comprensibile e pensabile così da aprire la strada per una loro

accettazione.

Successivamente si accennerà a ogni singolo incontro di gruppo

per capir meglio l’evoluzione, tuttavia in questa sede in cui ci si

occupa degli strumenti si cercherà piuttosto di visionare la seconda

somministrazione del test T.A.T., in modo da rendersi conto se ci

possa esser stato quel passaggio verso la verbalizzazione degli

impulsi.

Il primo test è stato sottoposto il 4 febbraio 2006, mentre il

secondo risale al 28 febbraio nel corso del nono incontro.

La prima immagine del bimbo con il violino ha riportato le

seguenti storie:

Paolo M.” Una pausa durante uno studio faticoso, defaticante

per ripensare episodi del passato … per provare nostalgia “.

Monica B. “Il bambino non ha nessuna voglia di suonare e non

lo farà”.

Andrea C. ”Il bambino è indeciso e suonare o no il violino”.

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Giusy V. “Tom stava seduto al suo banco, concentrato sulla

cartella semiaperta. Non aveva molta voglia di stare a scuola quel

giorno. E poi i pensieri sulla lite tra i genitori avvenuta quella mattina

a colazione lo rendevano triste e pensieroso”.

Elisabetta C. “Il bambino in questione si sta addormentando sul

violino”.

Michela D. “Molto pensieroso, tiene a ciò che fa. Ci riesce

perché è molto volenteroso. Non è triste …è impegnato”.

La malattia come situazione di difficoltà e crisi resta sempre un

ostacolo pesante, anche se i soggetti mostrano un atteggiamento più

riflessivo e meno drammatico, in un caso addirittura propenso

all’impegno verso una risoluzione del problema.

La seconda figura con la signora alla porta di una stanza ha

avuto questo effetto nella seconda somministrazone:

Paolo M. ”La donna che apre la stanza per controllare

pensierosa e severa l’oggetto (il soggetto) della sua attenzione “.

Monica B. “La sorpresa della donna nel vedere qualcuno che

aspettava da tempo “.

Andrea C. “Donna che dalla cucina sta entrando in salotto”.

Giusy V. “Signor Tod? C’è qualcuno in visita per lei!!! Mah …

Signor Tod, si è addormentato ? “

Elisabetta C. “La signora in questione è entrata in cucina per

cercare suo marito”.

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Michela D. “Signora che entra in una stanza. E’

un’impicciona“.

Il bisogno di controllo viene maggiormente espresso anche con i

suoi connotati negativi, ovvero la severità/rigidità e l’invadenza

rispetto agli altri. Sottostante perciò è presente una radicata paura di

perder appunto il controllo che porta all’atteggiamento ossessivo

opposto,come difesa. Un’altra difesa altrimenti è stata

l’isolamento/congelamento delle emozioni forse perché quel timore di

perder il controllo è ancora più destabilizzante tanto da portare a una

chiusura totale. Il gruppo si è un po’ diviso su questo aspetto.

La terza immagine dell’uomo alla finestra è stata così rivista:

Paolo M. “Il buio dentro. La luce fuori. Il bisogno di evasione

verso l’esterno della propria casa, dei propri pensieri,del proprio io “.

Monica B. “La speranza è il cielo, e lui ha tanta speranza

guardandolo”.

Andrea C. “Sta iniziando il suicidio “.

Giusy V. “Ecco, pensava, basterebbe fare un salto da qui,

perché il dolore cessi per sempre. Farla finita. Ecco la frase giusta.

Farla finita”.

Elisabetta C. “La persona in questione apre la finestra perché ha

bisogno di aria “.

Michela D. “Guarda qualcosa sperando in qualcosa di positivo.

E’ attento e cerca qualcosa che lo possa soddisfare“.

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Indubbiamente l’interpretazione di questa figura ha subito un

salto, verso una maggiore consapevolezza dell’aggressività

autodiretta. Infatti si parla apertamente di suicidio. Si coglie però

anche l’idea di una apertura positiva al mondo e di una propulsione al

futuro.

La quarta immagine del signore con la mano stesa invece è stata

così letta:

Paolo M. “L’estrema unzione di un sacerdote verso la

protagonista esanime. Un rito”.

Monica B. “ L’infelicità dell’ uomo di accarezzare la donna in

sofferenza“.

Andrea C. “Medico che sta ipnotizzando“.

Giusy V. “Ecco io ora la ipnotizzerò, al mio tre lei sarà sotto

ipnosi …così faremo emergere il suo materiale subcosciente“.

Elisabetta C. “La persona in piedi vuol fare una carezza alla

persona sdraiata“.

Michela D. “Lui ha il profilo duro. Non si avvicina con buone

intenzioni. La sveglia con un pizzico. A lui dà fastidio lei che è la

moglie o l’amante“.

Non è solo la protezione della cura emotiva che emerge ma in

minima parte anche la rabbia verso l’altro. La sofferenza è più chiara e

vuole essere vista e affrontata, più che nascosta.

Infine la quinta immagine che riporta l’uomo in piedi e la donna

sdraiata è stata così interpretata:

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Paolo M. “Lei è morta. Lui piange disperato. Per il dolore della

morte e il rimorso per non aver detto, non aver fatto prima“.

Monica B. “Sembra quasi la sofferenza di un uomo dopo un

rapporto non riuscito, ma l’uomo non ha coscienza“.

Andrea C. “Si è alzato da letto per prepararsi e andare al

lavoro“.

Giusy V. “Cosa ho fatto ??? L’ho uccisa … Lei non c’è più. Dio

mio. Cosa ho fatto??? “.

Elisabetta C. “Le due persone in questione stavano giocando a

nascondino“.

Michela D. “E’ un omicidio. Lui l’ha ammazzata. Si sente in

colpa”.

Anche in questa occasione troviamo di più la verbalizzazione

dell’aggressività eterodiretta unita al senso di colpa e al rimorso.

L’isolamento degli impulsi è presente in due soggetti, entrambi legati

alla patologia bipolare. Un’ipotesi è che l’aspetto della perdita

depressiva che da’ forte rabbia verso l’elemento che ha abbandonato il

soggetto non è per nulla tollerato … l’elaborazione del lutto richiede

ancora tempo.

Questo confronto del TAT all’inizio e alla fine del ciclo di

incontri ha mostrato indicativamente una superiore verbalizzazione

degli impulsi aggressivi, limitando la difesa della negazione a favore

di una messa in scena quasi teatrale delle pulsioni. Questo

atteggiamento ha consentito di parlare e discutere in gruppo

dell’aggressività, in un aperto scambio, privo di giudizi o moralismi.

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La comunanza e condivisione di tali vissuti ha reso i pazienti meno

isolati e ha consentito di alleviare i sensi di colpa e l’autocritica ferrea.

3.3.3 TEST SULL’AGGRESSIVITA’( IR)

Questo test è un questionario a risposta multipla con possibilità

di scelta tra sei opzioni in relazione al grado di veridicità o meno

dell’affermazione rispetto al soggetto.

Uno degli autori G.V. Caprara è lo stesso che ha messo a punto

l’FE, analizzato in precedenza. Anche in questo caso è possibile

prendere visione delle affermazioni relative alla tematica

dell’aggressività.

Insieme a C. Barbaranelli, C. Pastorelli e M. Perugini Caparra

ha convogliato in un unico test due scale:

- la Scala di Irritabilità che si correla con le dimensioni di :

assalto, aggressività indiretta o verbale, irritazione,

negativismo, ansia manifesta e occulta.

- la Scala di Ruminazione correlata all’aggressività come

ritorsione rispetto a una provocazione.

Come nell’FE vi sono trenta items di cui dieci di controllo da

sottrarre alla somma dei punteggi grezzi , convertiti poi in percentili

da comparare a un range statistico della norma.

Come per il TAT sono state fatte due somministrazioni, una

iniziale sempre al secondo incontro di gruppo, e l’altro al nono. E’

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stato fornito insieme a una matita, un foglio con gli items aventi a

fianco le sei possibili risposte.

Per l’irritabilità la media è di 38,78 con un range che va da

50,39 a 27,16 in percentili, mentre per la ruminazione la media è

37,79 con un range compreso tra 51,05 e 24,53.

La media dell’irritabilità è 59,92 alla prima somministrazione e,

mentre alla seconda di 41,48. Il valore più alto nel primo caso è stato

99,6, nel secondo di 81,5.

La media della ruminazione nella prima prova è stata 55,95,

nella seconda invece è stata 66,3. Il valore maggiore nel primo caso è

stato 99,6, nel secondo 95,5.

Questi dati risultano di complessa lettura. Si può notare un

rientro dell’irritabilità nel range per il gruppo, anche se due soggetti

hanno valori ancora elevati. L’aggressività correlata all’attacco e

all’ansia è diminuita notevolmente, forse perché il gruppo ha fornito

un contenitore per questi impulsi, rendendoli più accettabili e

abbassando la soglia di allarme.

Inversamente all’irritabilità, la ruminazione si è elevata

accentuando l’aspetto della vendetta, della rivendicazione in seguito a

torti e provocazioni. Questo inasprimento potrebbe esprimere la rabbia

intensa rivolta a persone con cui i soggetti hanno avuto a che fare nel

corso della loro vita, soprattutto in famiglia. L’ idea di aver rivestito il

ruolo ingiusto di capro espiatorio per il sistema familiare, accomuna

tutti i membri del gruppo, consolidando l’unione e i confini del

gruppo, ma irrigidendo così lo scambio con l’esterno visto pieno di

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minacce, accuse, stigmatizzazioni e delusioni. Gli ultimi due incontri

perciò sono stati dedicati proprio alla difficoltà di affrontare le

dimissioni, i reinserimento sociale e in qualche modo anche il lutto di

dover abbandonare il gruppo, i membri e lo psicologo-cordinatore.

Si può affermare che il TAT e l’IR colla somministrazione

iniziale e finale hanno supportato gli incontri mettendo in luce

andamenti importanti del gruppo. Tramite questi tests si è riusciti a

monitorare con un controllo superiore e più obiettivo gli impulsi e il

loro controllo, le difese rispetto alle pulsioni e alle emozioni, i bisogni

dei soggetti, i vissuti delle relazioni con l’ambiente e delle pressioni di

quest’ ultimo.

3.3.4 TEST DEL DISEGNO DELLA FIGURA

UMANA

Si è trattato di un semplice esperimento, in quanto questo è uno

strumento grafico indirizzato all’infanzia. Il disegno infatti che viene

richiesto è quello della figura umana per intero con l’utilizzo anche

dei colori. Servirebbe come test proiettivo per individuare l’immagine

che il bambino va costruendo di se stesso.

Si è supposto che in pazienti psichiatrici adulti si potesse

azzardare un utilizzo di questo strumento, in quanto i soggetti

presentano forti regressioni, paura e angoscia primordiale. E’ il piano

emotivo-affettivo a esser ritornato vulnerabile e fragile a differenza di

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quello razionale che tuttavia non riesce più a contenere impulsi

esplosivi e magari conflittuali.

L’immagine che i soggetti hanno di loro stessi e della loro

identità è distorta, per cui anche il disegno potrebbe cogliere tale

deformazione.

Verranno riportati i disegni fatti dai pazienti al sesto incontro

del 17 febbraio 2006. Il setting non ha consentito l’utilizzo dei colori,

seppure essi abbiano una funzione importante soprattutto per la

valutazione dell’ assetto emotivo.

I disegni di Paolo, Monica, Andrea e Michela tuttavia hanno

mostrato caratteristiche rilevanti. Ciò che si è osservato è il viso e gli

organi di senso, aventi la funzione comunicativa con il mondo esterno.

Inoltre si è guardato anche alla dimensione del disegno, la

disposizione sul foglio, le proporzioni, il tratto grafico.

Un tratto comune è stato la manifestazione del bisogno di

affetto, indicato dalla testa di grandi dimensioni, dalle mani grandi,

dalle braccia aperte.

Un altro tratto comune è quello dell’insicurezza,dell’

insoddisfazione e carenza di affetto, della scarsa fiducia in sé. Ciò

emerge dalle piccole dimensioni del disegno, o di alcune parti del

corpo, in particolare la bocca, che rappresenterebbe lo strumento

principe del nutrimento non solo fisiologico,ma anche e soprattutto

affettivo.

Il tratto inoltre non è mai stato continuo, spesso la forza è stata

alterna, e ciò indicherebbe il bisogno di rassicurazione, di stima

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esterna per affrontare la vita. Unito all’aspetto precedente

emergerebbe una scarsa autostima, con sottovalutazione del sé e delle

proprie risorse.

Inoltre la presenza spesso di tratti leggeri, indicherebbe la

sensibilità e la fragilità dei soggetti, da un lato molto attenti alle

emozioni, ma al tempo stesso più vulnerabili.

Inoltre ritroviamo il tratto della tenacia, della grinta abbinato a

una forte impulsività. Lo si può dedurre dal tratto angoloso e pesante.

La curiosità, il desiderio del contatto accrescitivo e conoscitivo

con il mondo è essenziale, anche con risorse adattive. Il collo lungo,

quasi si sporgesse a cercare qualcosa, la testa grande, le orecchie volte

all’ ascolto sarebbero infatti espressioni di tale apertura, indice

fondamentale e positivo per il reinserimento sociale dei soggetti.

I disegni vengono riportati in appendice, così da rendere

possibile la visualizzazione degli elementi sopraccitati.

3.4 LA TECNICA DELLO PSICODRAMMA

- IL RUOLO

Il ruolo è la forma operativa che un individuo assume quando

entra in relazione con un altro essere o con un oggetto. Il ruolo è

quindi qualcosa di percepibile, elemento di dialogo costante tra il

mondo interno della persona e la realtà. Costituisce altresì un vincolo,

un riferimento, un aggancio, che dà forma e struttura alla dinamica

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della spontaneità e della creatività. Senza la traduzione operativa in un

ruolo, il fattore s-c (spontaneità - creatività) resterebbe una forza

sterile o un ruolo mai nato, chiuso nelle segrete dell'individuo. Si

comprende così come la centratura sul ruolo sia un elemento che

orienta l'attività psicodrammatica, riconducendo all'analisi di realtà i

rischi di interpretazione metapsicologica del comportamento del

singolo o dei gruppi. In altre parole, se la dinamica spontaneità-

creatività rivela un processo psicologico fondamentale dal punto di

vista dell'individuo, la costruzione del ruolo indica una dinamica

relazionale o sociale, introducendo la necessità di una

interdipendenza. Infatti il ruolo si struttura in rapporto ad un ruolo

complementare (controruolo) dal quale viene influenzato e su quale

può incidere. Questo concetto implica necessariamente la nozione di

corresponsabilità nel cambiamento sociale ed organizzativo.

Tecniche e funzioni d'azione

Vengono ora brevemente descritte alcune tecniche

psicodrammatiche. Ogni tecnica rende attiva e si riferisce ad una o più

funzioni psicologiche o relazionali, per cui i due termini sono

strettamente collegati. E' importante la consapevolezza della funzione

attivata dalla tecnica e del significato che essa assume per la persona e

per il gruppo in un dato momento.

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- LA RAPPRESENTAZIONE SCENICA

La rappresentazione, più che una tecnica, costituisce una modalità di

approccio ai contenuti emergenti che attraversa tutta l'attività

psicodrammatica. Lo psicodrammatista deve assumere una 'forma

mentis' che privilegia l'azione rispetto al racconto, che si orienta al far

succedere un'esperienza, più che al raccontarla, riservando ad un

momento successivo la necessaria riflessione o la sistematizzazione

concettuale. Occorre essere pronti a cogliere gli spunti che possano

tradursi in rappresentazione.

- IL DOPPIO

Le prime esperienze che il bambino compie, quando si affaccia alla

vita, sono caratterizzate dalla funzione di doppio. La madre cerca di

'dare voce' ai bisogni, ai sentimenti ed alle azioni del bambino. Essa

mette in parole, letteralmente e col suo comportamento, il mondo

interno del bambino, dando ad esso una forma e un significato che il

bambino da solo non sarebbe in grado di fare. Il successo di questa

operazione dipende dalla qualità della relazione madre/bambino e

dalla capacità empatica della madre. La tecnica del doppio attinge a

questa originaria funzione materna. Il doppio è un membro del gruppo

che, assumendo la stessa postura del protagonista e mettendosi al suo

fianco (oppure ponendosi dietro di lui con un discreto contatto della

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mano sulla spalla), mette in parole i contenuti e le emozioni che

ritiene che il protagonista stia provando. La funzione di doppio viene

attivata in vari momenti della sessione di psicodramma, quando un

membro del gruppo ha l'opportunità di fermarsi e porre attenzione a

ciò che gli sta passando dentro. Spesso questo avviene su stimolo del

conduttore, che facilita la verbalizzazione con frasi come: "In questo

momento sento ch...".

LO SPECCHIO

Guardando ancora allo sviluppo infantile, notiamo che la madre per

prima e, in seguito, tutte le altre persone che entrano in rapporto col

bambino, agiscono oltre alla funzione di doppio anche una inevitabile

funzione di specchio psicologico e relazionale. Potremmo anche

considerare lo sviluppo infantile (e in particolare il percorso

educativo) come un gioco nel quale gli adulti alternano in modo più o

meno adeguato ed efficace le funzioni di doppio e di specchio. La

funzione di specchio viene attivata nello psicodramma ogni qual volta

un membro del gruppo ha la possibilità di ottenere un rimando

esterno. Ad esempio, un partecipante ad un gruppo dice ad un altro:

"Io ti vedo così ...", oppure: "Tu dici di essere una persona insicura, in

realtà io ti percepisco in modo diverso ...". La tecnica dello specchio

consiste invece nel porre il protagonista fuori della scena che ha

costruito, in posizione di osservatore della scena stessa, che viene

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interpretata da un alter ego e da altri membri del gruppo. Il

protagonista in tal modo può 'vedersi da fuori'.

- L’INVERSIONE DI RUOLO

L'inversione di ruolo è la tecnica principale dello psicodramma,

quella che esprime con maggiore evidenza sia l'importanza

dell'Incontro autentico con l'altro, che l'autoconsapevolezza che

deriva dalla possibilità di un decentramento percettivo. Questo

concetto è ben espresso in una frase tratta dal diario di bordo di uno

dei primi astronauti che misero piede sulla Luna: "Ora capisco perché

sono qui: non per vedere la Luna da vicino, ma per voltarmi indietro e

guardare la Terra da lontano". L'inversione di ruolo consente questo

duplice processo: entrare nei panni dell'altro per conoscere meglio ciò

che egli prova, e al tempo stesso cercare di vedere se stessi con gli

occhi dell'altro, attuando un percorso contestuale di auto ed

eteropercezione. La tecnica dell'inversione di ruolo viene utilizzata

spesso nel corso della scena psicodrammatica: il protagonista viene

invitato, ad esempio, a prendere il posto degli altri significativi del suo

mondo relazionale e a continuare la scena dal loro punto di vista.

Anche nei gruppi composti da persone che lavorano o vivono insieme

al di fuori degli incontri di formazione o di terapia, l'inversione di

ruolo tra due membri del gruppo può essere una tecnica utile per

sviluppare la relazione o per elaborare situazioni di coppia

problematiche.

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- IL ROLE PLAYING

Il role playing è forse la tecnica di derivazione moreniana più

utilizzata in ambito formativo, pedagogico e clinico. Viene impiegata

come tecnica ausiliaria, indifferentemente da professionisti di fede

sistemica, psicoanalitica, gestaltista, cognitivo-comportamentale,

psico-sociologica, ed altri ancora. Il role playing utilizzato in un

contesto psicodrammatico classico ha significati, funzioni e

finalizzazioni diverse da quelle che assume in altri contesti. Il role

playing è innanzitutto una fase normale di apprendimento dei ruoli

nella vita reale: esso assume pertanto una funzione

nell'apprendimento.

Ogni ruolo si presenta come fusione di elementi individuali e di

elementi collettivi, risulta da due ordini di fattori: i suoi denominatori

collettivi e le sue differenziazioni individuali. Può riuscire utile

distinguere: l'assunzione del ruolo (role taking), vale a dire il fatto di

accettare un ruolo definito, completamente strutturato, che non

consenta al soggetto di prendersi la minima libertà nei confronti del

testo; il gioco del ruolo (role playing), che ammette un certo grado di

libertà; e la creazione del ruolo (role creating), che lascia ampio

margine alla iniziativa del soggetto, come si verifica nel caso

dell'attore spontaneo. (Moreno, 1980).

Moreno rivendica la paternità del role playing in quanto tecnica

formativa, sottolineandone la derivazione dal linguaggio del teatro.

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Giocare un ruolo può essere considerato un metodo per imparare a

sostenere dei ruoli con maggiore adeguatezza. Il gioco di ruolo si

connota pertanto come uno spazio di apprendimento, dove il ruolo

giocato si contrappone al ruolo cristallizzato. In tal senso il role

playing è il campo dello sviluppo della spontaneità e dell'incontro

della soggettività con il dato o il mandato socio-culturale del ruolo. Si

è creata spesso confusione fra i termini di role playing e psicodramma,

perché entrambe queste esperienze sono accomunate dalla presenza di

una certa rappresentazione o azione scenica. La differenza principale

riguarda il livello di implicazione profonda dei partecipanti. La

catarsi, il vissuto affettivo intenso appartengono alla psicoterapia e

non alla formazione e all'educazione. D'altro lato succede che il gioco

di ruolo produca risonanze affettive anche profonde. Per questo si

raccomanda una formazione personale e clinica oltre che tecnica per i

formatori. Nel gioco di ruolo sono proposte delle situazioni sociali e

professionali tipiche, con un fine di formazione o di presa di coscienza

dei problemi, mentre nello psicodramma il soggetto mette in scena

delle situazioni reali storiche o traumatiche della sua vita. Nello

psicodramma vi è un protagonista che mette in scena il proprio mondo

interiore, con l'aiuto degli io ausiliari. Gli io ausiliari vengono scelti

dal protagonista; essi possono avere vantaggi terapeutici secondari

nell'agire il ruolo di io ausiliari, ma non scelgono loro il tipo di ruolo

da agire. Nel role playing invece non vi è protagonista, ma solo una

occasione di "messa in azione", un tema iniziale che dovrà tradursi in

azione scenica. Vi può eventualmente essere una focalizzazione su

uno o più ruoli, sui quali verte l'attenzione (es. ruolo di insegnante o di

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genitore); tutti i ruoli in gioco, comunque, vengono presi in

considerazione. Nel gioco di ruolo i membri del gruppo hanno la

possibilità di scegliere il ruolo che desiderano agire. Da questo punto

di vista nel role playing vi sono molti protagonisti che, impersonando

un certo ruolo, interpretano una parte di sé stessi (desiderata o temuta)

oppure una parte dell'altro (conosciuta o sconosciuta). L'azione e

l'analisi del vissuto favoriranno importanti insight in ogni

partecipante. Parallelamente a questo insight individuale, si produce

anche un insight di gruppo, successivo al confronto dei diversi vissuti,

che porta alla riformulazione del problema da cui ha preso le mosse il

gioco di ruolo. Il role playing trova la sua collocazione in vari

momenti del processo formativo, proprio per la sua duplice possibilità

di coinvolgere il gruppo attorno ad un tema centrale e di permettere al

tempo stesso un apprendimento emotivo individualizzato per ogni

partecipante. ed una situazione specifica.

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4 IL GRUPPO BARUZZIANA E LO

PSICODRAMMA

La tecnica dello psicodramma è stata utilizzata per tre volte al

settimo,ottavo e decimo incontro. Questo gioco di ruoli ha riscosso

entusiasmo e spirito ludico, ma anche timore di esibirsi e di far

riemergere emozioni significative e destabilizzanti.

Al settimo incontro di gruppo è stato messo in scena il litigio di

Andrea C. colla ex-moglie, quando ancora erano sposati, in relazione

a un viaggio natalizio a Praga di 11 anni prima. Alla moglie Rita

venne la febbre a 39. Andrea ottenne il passaporto per il figlio,visto

che voleva comunque partire. Rita lo offese, poiché non tenne in

considerazione la sua situazione di malattia. Lui andò all’aeroporto,

ma poi, preso dai sensi di colpa, tornò indietro con le valigie.

Andrea ha interpretato se stesso, scegliendo Paolo nei panni di

Rita. In un secondo momento c’è stato lo scambio di ruolo, in cui

Andrea ha rappresentato Rita. Lo psicologo e Michela hanno svolto

l’attività del doppiaggio, in modo da dare parola alle emozioni taciute

o ancora inconsapevoli. Lo psicologo ha chiesto ad A. come si è

sentito nei panni di se stesso e poi in quelli di Rita. Come se stesso ha

avvertito debolezza, incapacità a imporsi. Si è autoconvinto delle

ragioni di lei ed è stato accondiscendente. Invece, nei panni di lei, è

uscito dal ruolo, poiché la distanza tra i due era troppo marcata.

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Anche Paolo ha risposto alla stessa domanda, dicendo che ha

percepito il tutto come un gioco, una finzione, in cui recitava in modo

disinibito, senza esser toccato nella coscienza. Perciò ha rappresentato

i due ruoli alla stessa maniera, senza caratterizzarli, o dar loro

un’anima.

Agli altri membri è stato chiesto cosa altro hanno notato da

osservatori della scena. Lo psicologo ha rilevato difficoltà e inibizioni

generali, imbarazzo e confusione. Michela ha colto un gesto di amore

profondo di Andrea nel rinunciare al viaggio a cui teneva tanto, per la

moglie.

Paolo ha osservato acutamente come quel viaggio fosse la

metafora di una storia lunga e complessa.

Ciò che emerge, anche dai finali diversi, è la catarsi, la

liberazione rispetto alla rabbia e alle incomprensioni accolti da

un’altra Rita più amorevole e comprensiva. In scena A. ha condiviso

emozioni mai dette o fraintese. Ciò ha restituito un senso a quella

relazione conclusa, eppure rimasta in sospeso.

All’ ottavo incontro è stato Paolo il protagonista della sua stessa

storia in cui si è messo in scena una discussione con l’amico

Raimondo.

Questo dialogo era incentrato sulle dimissioni e sulle condizioni

di salute di Paolo. Raimondo sosteneva la mancanza di volontà e

impegno di Paolo a reagire, e a trovare un lavoro. Monica B. ha

interpretato Raimondo. In un primo momento P. fa se stesso e M. fa

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Raimondo. Questo dialogo è stato più uno scontro in cui R. attacca P.

il quale si difende svalutando chi non capisce il disturbo psicologico.

La soluzione è stato l’intervento di doppiaggio dello psicologo che ha

scelto i panni di Raimondo per trasmettere a Paolo quella

comprensione e quell’ascolto che mancano tanto a Paolo. R. vorrebbe

provare a capire, lasciando da parte pregiudizi e luoghi comuni, ma

cercando di mostrare a Paolo che anche lui dovrebbe abbandonare la

falsa convinzione che solo i terapeuti e i pazienti possano capire la

malattia. Si è così aperto lo spiraglio per una riconciliazione e un

ritrovamento umano al di là della malattia o della salute.

Nell’inversione di ruoli Monica nei panni di Paolo ha mostrato

più grinta e aggressività nel sostenere l’importanza delle cure per stare

meglio e cambiare. P. avrebbe definito la depressione come il tumore

dell’ anima che richiede anni per esser cancellato. Raimondo ha messo

in luce il fatto che P. in mezzo alla gente è reattivo ma lui ha ribattuto

citando la recita che sostiene quotidianamente per mostrare ciò che gli

altri vogliono vedere. Raimondo ha rilanciato il discorso della

comodità del ruolo del malato per ricevere attenzioni senza il peso

delle responsabilità. P. non è felice di star male, non va fiero di esser

un peso, anche se è convinto di non esserlo per la madre, poiché lui

rappresenterebbe la ragione della sua vita. R. ha posto il problema di

come P. affronterà la vita quando la madre sarebbe venuta meno.

Paolo non ha mostrato preoccupazione al riguardo,pensando solo al

presente e all’ unico vero appoggio che ha,cioè la madre. Gli amici

invece non sono stati di aiuto. Raimondo ha invitato allora P. a esser

reattivo, criticando la madre per il fatto di viziare il figlio. Sul finale lo

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psicologo ha reso Paolo in grado di pronunciare il proposito di

riaffrontare il lavoro come una sfida con se stesso e provare di vincere

le paure più profonde, avendo a disposizione strumenti importanti.

Paolo ,dopo il role-playing, ha fatto i complimenti a Monica per

la sua “cattiveria”. Michela ha fatto invece notare a Paolo la sua

energia, fortemente presente nonostante la malattia. Lo psicologo ha

quindi indicato l’evitamento del lavoro come circolo vizioso ha

aumenta la paura di affrontarlo. Perciò è indispensabile esporsi

gradualmente.

Alla classica domanda su come si è sentito nei panni di ….,

Paolo ha risposto che ha preferito il ruolo dell’ aggressore e lo stesso è

valso per Monica, che ha spiegato al gruppo come è difficile e

doloroso sentirsi criticati da tutti per la malattia. E’ emersa la

sofferenza e la rabbia per la stigmatizzazione, soprattutto da parte di

coloro che si considerano amici. Andrea ha colto bene l’ aggressività

di Monica. Lo psicologo allora ha fatto notare come in scena, in

gruppo ha potuto finalmente verbalizzare la rabbia repressa e

manifestata solo tramite l’alcol in maniera eccessiva e violenta.

L’aspetto liberatorio è stato importante. Monica è riuscita, forse per la

prima volta, a dire in toni moderati ciò che pensava e sentiva. Lo

psicologo ha fatto inoltre notare la difficoltà a esporsi anche nel

gruppo stesso. Ciò infatti richiede forza e coraggio.

Durante il decimo e ultimo incontro, è stata utilizzata la tecnica

dello psicodramma per rappresentare uno scontro lavorativo di

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Monica con il titolare dell’azienda il quale ha truffato tutti, facendo

fallire la ditta.

Lo scontro era stato diretto da parte di Monica che sapeva di

esser nel giusto. Forse avrebbe voluto esser ancora più incisiva e

determinata, ma temeva il grado superiore dell’ uomo e il suo potere.

E’ riuscita a mantenere il controllo e la calma. Questa discussione ha

tra l’altro avuto luogo nello stesso periodo dello svolgimento del ciclo

di incontri di gruppo.

Nel gioco di ruoli Monica ha riproposto questo scontro con

Piero in modo efficace. La grinta supportata da sicurezza nelle proprie

capacità ha accompagnato Monica. Piero è stato interpretato dapprima

da Giusi e poi da Monica. Andrea fa un doppiaggio di Monica in cui

chiede dove Piero pensa di recuperare quel denaro, e fa anche un

doppiaggio di Piero, in cui cerca giustificazioni al suo comportamento

per salvare la faccia, dicendo che ci sono stati disguidi e che lui ha

agito nel bene della società.

Monica non è riuscita a stare nei panni di Piero, perché è un

impostore. Il problema dell’identificazione è emerso anche in

precedenza, come se i soggetti fossero ancorati troppo ai propri

schemi di riferimento, così da non riuscire a vedere davvero l’ altro, o

provare a capirne le ragioni. Monica teme molto l’ espressione

dell’aggressività, incarnata da Piero, tuttavia senza accorgersene da’

uno spessore a quell’aspetto. Lei rifiuta Piero ma l’aggressività li

accomuna per cui lei la manifesta, come parte però del cattivo, ovvero

Piero.

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E’ emerso un processo di difesa con scissione e proiezione.

Giuse ritiene di esser stata incisiva nel ruolo di Piero. Lo

psicologo coglie anche la liberazione di una certe dose di rabbia,

anche se Giusi non ne è affatto consapevole, e ciò si situa bene nel suo

disturbo psicosomatico. Andrea nei panni di Piero ha avvertito la

situazione di emergenza e di conseguenza la necessità di sopravvivere

tramite una strategia logica.

In tutti e tre i giochi di psicodramma sono venuti a galla

l’aggressività, il bisogno di autoaffermazione, di rivalsa, di amore e

riconoscimento, indispensabili per l’autostima.

Questa tecnica è stata importante per verbalizzare emozioni e

pulsioni con spontaneità e creatività e al tempo stesso controllo

razionale per consentire il rispetto di regole e schemi personali, sociali

e relazionali.

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SUMMIT DEI DIECI INCONTRI DI GRUPPO

(In appendice sono riportati i genogrammi dei pazienti, ovvero

la rappresentazione grafica del loro personale sistema familiare, in

modo da avere una visione soggettiva e al tempo stesso sintetica del

loro mondo affettivo-relazionale).

1- INCONTRO DI MARTEDI’ 31 GENNAIO 2006-05-11

La seduta, come tutte le successive, ha avuto luogo in una

tranquilla aula destinata alle conferenze. Il setting è rimasto stabile per

dare un riferimento stabile, perciò anche l’orario è stato fissato sempre

per le 15,00. Al primo appuntamento, nel gruppo nascente si sono

presentati otto pazienti:

- Michela D.: neuropsichiatria in pensione di 66 anni, ricoverata

per ansia e depressione maggiore, unite a gravi disturbi organici,

quali cisti vaginali, occlusione dell’uretra, schiacciamento di vertebre

lombo-sacrali che le provocano dolori molto intensi, ritenzione di

liquidi. Di origine romana ora abita sola a Reggio Emilia, avendo

interrotto i rapporti con la famiglia, in seguito alla malattia insorta

immediatamente dopo il pensionamento, con tentativo anche di

suicidio. Il lavoro era la linfa, l’energia della sua vita, anche perché le

occupava attivamente tutto il tempo, anche con grosse soddisfazioni.

Era competente e impegnata con estrema passione. Inoltre era stata

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volontaria infermiera da ragazza sulle ambulanze occupandosi di

primo soccorso. In nome della carriera ha sacrificato la famiglia, ha

rifiutato di sposarsi, anche se ora fatica un po’ ad andare avanti.

L’esordio della malattia risale alla seconda metà degli anni ’90 in

seguito appunto al pensionamento.

- Andrea C.: medico-primario in pensione di

67 anni, ricoverato per disturbo bipolare, da alcuni anni

sofferente solo di depressione maggiore ricorrente, con

abuso di alcool come automedicazione. Da sempre vive a

Bologna. Si è diviso ufficialmente dalla moglie a marzo,

anche se da diversi erano già separati, rimanendo in

rapporti sereni e amicali. Ha inoltre un figlio, giovane

universitario, col quale è in buoni rapporti, anche se la

comunicazione tra loro è limitata. Andrea vive ora con la

madre che è in buona salute. La noia e il non far nulla lo

hanno reso estremamente ansioso. Anche lui ha reagito al

pensionamento con angoscia di perdita ed è lì, nel 1998,

che è iniziata la manifestazione psicopatologica.

- Monica B.: impiegata di 39 anni occupata in

una piccola azienda, è stata ricoverata in maniera quasi

coatta per insonnia persistente. Presenta un disturbo

borderline di personalità, il quale rende sensibile alle

perdite, agli abbandoni, con grande instabilità rispetto

all’immagine di sé, degli altri e delle emozioni. Si passa

da stati di depressione medicati con l’alcol, l’abuso di

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cocaina, a stati di rabbia come aggressività autodiretta e

rari scoppi di ira eterodiretta. La situazione precipitante è

stata la perdita involontaria del feto, dopo il rifiuto del

padre di riconoscere il figlio. L’ uomo infatti è sposato

con due figli, e pur essendo andato a convivere con

Monica non ha scelto di portare avanti sino in fondo il

rapporto. Massimo è anche il datore di lavoro di Monica

che ha deciso di lasciarlo, anche se risulta complessa la

convivenza sul lavoro. Ora vive da sola, troncando ogni

relazione con i familiari, in particolare con la madre

molto giudicante, critica e svalutativa rispetto a Monica.

Avverte in modo marcato il vuoto, la solitudine,

soprattutto perché sente la pressione di dover costruirsi

una sua famiglia e di avere un figlio, anche se il timore di

non riuscire a crescerlo e di non curarlo se avesse una

ricaduta depressiva.

- Paolo M. : in passato ha lavorato nel mondo

dei locali notturni, ora è volontario al Cassero di Bologna

per dare sostegno agli omosessuali in difficoltà e di tanto

in tanto scrive prefazioni a libri, ha un forte impegno

politico. Paolo ha 41 anni, è stato ricoverato per

depressione ansiosa, anche se il disturbo è inserito in un

più vasto quadro bipolare che è esordito dieci anni prima.

L’umore cambia anche nell’arco di una stessa giornata.

La struttura di personalità è un po’rigida, di tipo

ossessivo. Vive da solo con la madre pensionata, che ha

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iniziato ad avere episodi depressivi dopo la morte del

marito. Tra Paolo e la mamma si è creato un legame

simbiotico che in parte impedisce Paolo di svincolarsi da

lei e quindi dalla malattia. Inoltre, per via della sua

tendenza omosessuale è stato isolato, deriso, e poco

accettato e ciò ha ferito il suo narcisismo molto

accentuato.

Michela, Andrea, Monica e Paolo hanno rappresentato

il nucleo costante del gruppo, mentre gli altri hanno fatto una

comparsa o due, massimo tre incontri. Per questo motivo

accennerò più brevemente a loro. Si voleva anche segnalare

la presenza della prescrizione psicofarmacologica per

ciascun soggetto, variabile per qualità e quantità in relazione

al tipo di disturbo.

Ecco quindi gli altri membri del gruppo al primo

incontro:

- Andrea M.: fornaio di 39 anni, ricoverato per

un lieve disturbo alcolico. E’ curioso di vedere un

incontro di gruppo anche se sa che verrà dimesso dopo

pochi giorni,viste le sue buone condizioni.

- Rosa C.: casalinga di 35 anni, ricoverata per

disturbo di personalità borderline che in quel momento le

procurava ansia e insonnia. In precedenza ha avuto

manifestazioni bulimiche, abuso di alcol e tentativi di

suicidio. E’ sposata e madre di tre bambini. Ultimamente

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insoddisfatta del matrimonio, di non essere considerata

dal marito, lo ha tradito, ma lui l’ha perdonata. Ha

tagliato ogni legame con la famiglia di origine e ne

soffre, per cui manifesta un enorme senso di vuoto e

insieme di rabbia, che tuttavia tenta di negare. E’

piuttosto impulsiva e volubile.

- Monica M.: operaia di 31 anni, ricoverata per

un disturbo istrionico di personalità che le ha creato una

condizione di grande ansia e depressione. E’ stata lasciata

all’ improvviso dal compagno dopo nove anni. Si sente

anche arrabbiata, oltre che delusa e abbandonata. Vive da

sola.

- Roberta M.: titolare di un’ impresa di pulizie,

di 57 anni , ricoverata per depressione con inizio di abuso

di alcol come automedicazione. Questo malessere è

insorto in seguito a due gravi lutti, ovvero quello di una

cara amica, e quello del nipote di 39 anni. E’ sposata e

ha un figlio. La famiglia è unita ma lei è stanca da funger

da cuscinetto tra il marito e il figlio. Prima del ricovero

ha avuto solo un altro episodio depressivo-ansioso 11

anni prima.

- Anco Marzio Z.: conducente di treni di 50

anni, ricoverato per depressione ansiosa unita all’abuso di

alcol. Il disturbo è insorto sei mesi prima, in seguito alla

morte di un suo collega e amico che ha perso la vita in un

incidente ferroviario. Ha iniziato a soffrire di insonnia e

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ad avere un senso di persecuzione costante. Ora ha una

relazione molto intensa e importante con una donna che

lo sostiene.

- Giordano G.: facchino di 43 anni, ricoverato

per depressione e soprattutto ansia invalidante con

attacchi di panico. E’ il terzo episodio depressivo ed è

preoccupato di non guarire. Ciò che più lo attanaglia è

l’insonnia con ideazione suicidarla e un grande senso di

vuoto. L’inutilità e il senso di colpa sono accentuati. Il

cambio dei turni di lavoro ha fatto precipitare una

situazione delicata latente, in quanto ancora è presente il

lutto della madre di 15 anni prima, e del feto 12 anni

prima, senza esser poi più riuscito ad avere figli. Convive

con una compagna con cui ha un rapporto sereno.

In questo primo incontro, esprimo il senso e la

funzione del gruppo, come uno spazio mentale da

condividere esperienze, emozioni, sensazioni diverse. Il

gruppo dovrebbe piano piano diventare un riferimento che

accoglie. Chiedo loro di presentarsi spontaneamente dicendo

chi si è, il motivo del ricovero e le aspettative sul gruppo.

Inizia Andrea, poi Rosa, Monica M., Roberta, Marzio,

Giordano e Michela.

Sulle aspettative c’è l’idea comune di una ripresa di

energie, di riavviare la vita e guardare con maggiore

positività al futuro.

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Per quanto attiene alla sistemazione dei posti, ho

notato che Michela e Andrea si sono seduti a fianco a me,

come a ricoprire una posizione più autorevole, da vice leader

o consigliere. Paolo invece si è posto di fronte a me, nella

sedia diametralmente opposta. Cerca un controllo anche sul

campo visivo, in quanto è l’ unico un po’ diffidente rispetto

all’utilità del gruppo.

Gli stili relazionali osservati sono stati:

1- difesa e chiusura di Paolo con resistenza per

timore di assorbire la sofferenza altrui come una spugna.

Resta in ascolto e osservazione. E’ lo stile

dell’evitamento. Paolo è in disparte perché vuol sapere

chi ha di fronte e valutare se è all’ altezza o meno o

superiore agli altri. Il suo tratto fortemente narcisistico ed

esibizionistico deve emergere solo se ha la certezza

soggettiva della sua superiorità. Gli altri sono in qualche

modo funzionali al suo Ego. Ciò però mostra una

insicurezza di fondo e una scarsa autostima.

2- Manifestazione aperta di sofferenza, con

pianto di Rosa che ricerca il ruolo di vittima ed eroina,

estremizzando ogni emozione. Anche la rabbia è molto

forte. Il suo stile è più quello seduttivo, per aver

l’approvazione di tutti e creare legami di dipendenza. Il

borderline cerca alleanze buone per cercare un cattivo da

punire.

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3- Evasività e successivamente sottomissione

compiaciuta di Monica M. che rigetta a tutti il suo dolore

per la morte del padre dovuta alla dipendenza da alcol. E’

l’unico modo per ricevere attenzione ed esser al centro

della scena. L’istrionico è molto teatrale e drammatizza

tutto per ricevere l’ affetto.

4- Accogliente, disinvolto, anche se un po’

aggressivo e direttivo lo stile di Roberta, che ricerca un

aiuto.

5- Compiaciuto è lo stile di Andrea, velato da

un filo di ironia. Non ha mai avuto un supporto

psicologico per cui confida un po’ in un miracolo, visto

che i farmaci danno risultati deludenti.

6- Lo stile di Michela è aggressivo-invadente.

Vorrebbe occupare tutti gli spazi, non rispettando i turni.

Ha un enorme bisogno di attenzioni e cure, dato che si

sente estremamente sola. Ha molta grinta ed entusiasmo,

linfa indispensabile al gruppo, ma il suo stile

comunicativo crea un po’ di disorganizzazione e

malcontento.

7- E’ uno stile un po’ schivo che si espone solo

per necessità, anche se poi è disposto allo scambio.

8- Lo stile di Giordano è anch’esso evitante,

anche perché non ama esibirsi. Sul finale tuttavia si apre

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allo sfogo, perché crede in uno scambio costruttivo in

gruppo.

Come si può notare la diffidenza, lo scetticismo e il

timore di esporsi ed esser giudicati sono presenti, per cui

ognuno cerca la strategia che gli è più congeniale per aver

l’approvazione di tutti. La struttura è più leadercentrica con

comunicazioni prevalenti da e verso lo psicologo. Si avverte

però anche l’utilità profonda dello scambio, dell’ ascolto che

a loro mancano molto.

2- INCONTRO DI VENERDI’ 4 FEBBRAIO 2006

Mancano Giordano e Rosa che sono stati dimessi e

Marzio che si è dimenticato.

Due nuovi ingressi invece sono Monica B. e Renata S.

Renata è un’impiegata di 62 anni, ricoverata per

depressione con forti aspetti di ansia e crisi di pianto. La

situazione è precipitata con l’uso di cortisone per curare

l’ernia al disco. E’ sposata, senza figli e questo è il secondo

episodio. E’ estremamente demoralizzata, sfiduciata e

demotivata rispetto al futuro.

In questo secondo incontro somministro il test IR

sull’aggressività e poi rilancio il tema del VUOTO, di cosa

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esso significhi per loro, di quale sia il vissuto, la sensazione,

esprimendolo anche con metafore.

Per Roberta è l’ incapacità ad avere rapporti umani,

anche legato alle nuove tecnologie che isolano. Lo definisce

“il grigio”.

Per Andrea invece è la pesantezza, la costrizione, la

chiusura che porta all’esplosione. Il vuoto per lui è un

“troppo pieno”.

Per Monica M. il vuoto è la solitudine,

l’incomprensione coi familiari.

Per l’altra Monica è la rabbia che non riesce a

esternare.

Per Renata è la totale chiusura in se stessa.

Per Paolo il vuoto corrisponde ai momenti di

maggiore sofferenza, in cui la volontà viene a mancare. E’

una reale impossibilità di fare, anche la mente si svuota, non

è più produttiva, per cui ciò desta ansia. E’ un blocco, una

sorta di castrazione, perciò prova rabbia verso di sé. Ha

quindi la mania dell’ordine e della perfezione. Il disordine fa

paura, perché è soprattutto un disordine interiore.

Tutti condividono la disorganizzazione di cui parla

Paolo e la perdita di controllo sulla propria vita, con

manifestazioni estreme anche nel semplice rapporto col cibo

e col corpo.

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Per Michela il vuoto è il rifiuto da parte della sua

famiglia di origine.

Di nuovo Paolo mette in evidenza l’apetto

dell’impotenza e dell’ inadeguatezza.

Restituisco il loro materiale,con più chiarezza e

organizzazione: il vuoto si esprime anche attraverso il

rapporto con il cibo. Il cibo nutre e da’ piacere, ma quando si

sta male questo rapporto cambia, per cui emerge l’anossia

(non come patologia in senso stretto) come indifferenza e

mancanza di piacere fino al rifiuto della vita stessa, oppure

la bulimia, come compulsione a divorare il cibo, per

riempire quel vuoto, ma senza assaporare i gusti. Il cibo è

quindi una compensazione di quel piacere che la vita non da’

o al contrario rappresenta quella vita stessa che delude. Il

cibo può essere un sostituto, un riempitivo del vuoto.

Il gruppo accoglie questa osservazione.

Qui si conclude il secondo incontro del gruppo, che

inizia ad amalgamarsi e ad avere meno resistenze. Emerge la

condivisione con assimilazione e accoglimento, pur restando

presente l’aspetto delle individualità e della differenziazione.

Michela ha invaso il gruppo, senza neanche esserne

consapevole. Ho cercato di darle dei fermi, anche se il ruolo

di leader è sentito suo. Il gruppo mal tollera questa sua presa

di potere, insieme al suo stile teatrale anche con argomenti

fuori tema. Paolo invece è riuscito ad abbandonare un attimo

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il narcisismo e la diffidenza, a favore del senso del gruppo,

che può arginare il suo ego, frustrare il desiderio di

protagonismo e facilitare lo scambio tra mondo interno ed

esterno. Roberta, come antileader, tiene testa a Michela e la

invita a rispondere in modo circostanziato, anche se il suo

tono è un po’ insofferente e aggressivo.

Renata è piuttosto evitante e intimidita e alla fine

dell’incontro mi esprime la sua angoscia innanzi alle

difficoltà altrui.

Monica B. esprime la sua necessità di esser capita,

compresa e ascoltata, e il gruppo pare accogliere questa

aspettativa. Verbalizza anche quell’aggressività che dice di

non esser mai riuscita a esprimere in maniera adeguata, se

non sotto l’effetto dell’ alcol, il quale però la rende piuttosto

violenta e irascibile.

Monica M. mostra un non verbale sospettoso, quasi

freddo, in contraddizione con gli interventi in gruppo.

Sembra quasi in lotta tra fiducia e fiducia.

Infine Andrea è presente, sintetico ma efficace.

Esprime il suo punto di vista e ascolta attentamente quello

altrui, evitando giudizi.

La disposizione dei posti in cerchio è cambiata.

Renata e Monica, essendo nuove, cercano un rifugio, un

riferimento conosciuto, perciò si siedono accanto a me, una a

destra, e una a destra.

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Paolo non ha più scelto la posizione frontale, di

controllo, perché è più a suo agio, mentre è Monica M., forse

in conflitto tra fiducia e sfiducia a voler la situazione più

sotto controllo.

3- INCONTRO DI MARTEDI’ 7 FEB 2006

Al terzo incontro sono presenti quattro pazienti e il gruppo

inizia ad essere più compatto, anche perché essendo limitato il numero

dei soggetti, che già si conoscono un po’ di più, è possibile avere più

vicinanza, oltre che fisica, cioè prossemica (il cerchio è più stretto),

anche emotiva. Renata quindi ha rinunciato al gruppo, visto che le

esperienze negative degli altri la angosciano. Giordano e Roberta sono

stati dimessi, mentre Michela aveva un’urgente visita medica a cui

non ha potuto rinunciare.

Sono quindi presenti in cerchio, partendo accanto a me da

destra: Andrea, Monica M., Monica B. e infine Paolo, che quindi è

seduto alla mia sinistra.

Sottopongo il test tematico con le figure, di cui ho ampliamente

parlato nel paragrafo dedicato ai tests e a loro risultati.

Alla fine, propongo un foglio bianco che mostro loro,

invitandoli a immaginarsi delle persone e di descrivere cosa stanno

facendo.

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Andrea vi vede due pugili su un ring, mentre combattono.

L’atmosfera è di violenza e il finale resta in sospeso.

Monica M. si immagina la mamma che, disperata per Monica,

piange. Alla fine finisce bene, visto che Monica sta bene.

Monica B. trova una folla impazzita in piazza, carica di un

grosso senso di inquietudine. Le sembra la folla che incontra quando

esce per andare al lavoro.

Paolo ci vede il catalogo di una agenzia di viaggi con una nave

da crociera indirizzata verso luoghi caldi. Si tratta di un’immagine

primordiale, non realistica, quasi un sogno.

Cerco di dar un significato più consapevole a quelle immagini.

Il ring di Andrea probabilmente è una proiezione sul foglio di una sua

lotta interna non ancora risolta.

La folla di Monica pare invece riflettere il suo caos interno che

provoca appunto inquietudine. Paolo anziché folla fraintende con il

termine foglia, per cui vedendo l’immagine della foglia che cade,

coglie la solitudine. Monica comunque conferma tale aspetto da lei

avvertito in mezzo alla folla.

Colgo poi l’aspetto di distanza che Paolo pone rispetto a quella

nave, raffigurata tra l’altro su un opuscolo e non percepita come reale.

Paolo ci dice che il viaggio è un motivo di contrasto perché porta con

sé da un lato la curiosità, il desiderio di sperimentare il diverso, il

lontano, dall’altro l’enorme paura del distacco da casa.

Metto in luce la comunanza del viaggio in Andrea e Paolo, il

quale subito aggiunge le differenze. La paura che essi hanno del

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viaggio, ha ragioni diverse, poiché Andrea teme una ricaduta

depressiva, senza aver cure e sostegni sufficienti, mentre Paolo teme

l’organizzione maniacale, infinita ed estenuante.

Monica B. dice di condividere le paure di Andrea, perché

l’ansia di star male la blocca rispetto a un viaggio.

Le chiedo allora come si sente e lei ci risponde di avvertire una

profonda tristezza.

Il tema che lancio è quello dei bisogni e dei piaceri

fondamentali per loro, per poter capire meglio anche certe reazioni e

comportamenti disfunzionali e inadeguati, forse in relazione a quei

bisogni non soddisfati, anzi altamente frustrati .

Monica B. subito dice che il suo bisogno più forte è quello di

avere una famiglia sua, anche se mostra una consapevolezza

importante, e cioè che se lei non riesce a vivere bene con se stessa,

non riesce a star bene in una famiglia.

Le faccio notare che comunque i momenti di sofferenza

possono diventare punti di forza e di crescita.

Paolo condivide, aggiungendo che dalla confusione, come

quella della folla, può nascere qualcosa di buono. La certezza di no

farcela è peggiore. Vuole poi sapere da Monica cosa intende per

famiglia.

Per lei è armonia con marito e figli, basata su valori. Preciso

che concretamente la famiglia si è trasformata, per bisognerebbe

essere più flessibili nel valutarla, altrimenti se lo schema di famiglia è

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esclusivo ed estremamente perfetto e idealizzato, si rischia di restare

delusi e soffrire.

Monica spiega che è la sua famiglia di origine ad averle

inculcato il modello di famiglia classica. Ora vive sola con il suo

gatto, ma ancora deve vincere quel conflitto.

Paolo vede in lei l’idea che la famiglia sia un rifugio dal mondo

esterno.

Osservo che Monica è stata soffocata e influenzata dal suo

sistema familiare, piuttosto rigido, e lei avverte quasi l’obbligo di

costruir la famiglia allo scopo di esser accettata di nuovo,visto che la

madre soprattutto non ha capito la sua malattia, considerandola

fragile.

Il tema si sposta sul timore di Monica M. rispetto alle

dimissioni imminenti, paura che tutti condividono.

Dico che è normale questo timore di uscire e reinserirsi, poiché

la casa di cura rappresenta un rifugio, una famiglia. Il momento è

difficile, perché rappresenta un passaggio, un po’ simile a quello di un

bambino che inizia ad andare a scuola, ad affacciarsi al mondo e a

staccarsi dalla famiglia per provare a camminare un po’ da solo.

La paura dell’ impatto con l’ esterno è forte, ma il reinserimento

dovrebbe esser graduale, ciascuno con i propri tempi, senza

aspettative eccessive, come i ragazzi del gruppo sembrano avere.

Andrea parla della sua paura ad alzarsi la mattina con fatica

senza avere nulla da fare, poiché la noia e il senso di inutilità risultano

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forti. A questo proposito gli accenno a diverse opportunità nell’ambito

del volontariato, che potrebbe offrirgli più motivazioni.

Anche Paolo parla con entusiasmo del suo volontariato come

input per la malattia.

Restituisco il tutto dicendo che il volontariato rafforza

l’autostima e la sicurezza in se stessi. Sempre più ci si accorge di esser

utili e capaci di svolgere attività importanti, liberi anche da un

discorso utilitaristico di guadagno.

Ho colto un migliore equilibrio nel gruppo dovuto al rispetto dei

turni e delle regole. Il piccolo gruppo è dunque più affiatato e coeso,

per cui lo scambio è intenso, dinamico, e non solo tra pazienti e

psicologo, ma anche tra i membri stessi. La chiarificazione emerge

bene e il gruppo prende più coscienza del discorso depressivo e di

un’alternativa ad essa con uno spiraglio di speranza.

4- INCONTRO DI VEN 10 FEB 2006

Al quarto incontro chiedo ai membri del gruppo di presentarsi

in modo succinto alla nuova arrivata, e cioè Giuseppina V., detta

Giusi, impiegata al check-in dell’aeroporto, di 35 anni, ricoverata per

una accentuata somatizzazione di ansia agli occhi, che vive con il

marito e la figlia piccola. Aveva avuto già un episodio depressivo a 22

anni con ideazione ossessiva.

I presenti sono Monica B., Andra, Giusi e Michela ed io.

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Giusi tende a colludere con Michele, dandole attenzione e

richiedendole informazioni tecniche, da medico, funzionali a dare una

spiegazione puramente organica del suo disturbo, così da non guardare

all’angoscia in modo diretto. Quando Giusi parla di sé, drammatizza il

problema. Il disturbo agli occhi le ha impedito di vedere lo schermo

dei tabelloni al lavoro. E’ ossessionata in modo ipocondriaco dai

medici che devono ogni volta rassicurarla, senza però riuscirci mai.

Porto poi in maniera rapida e chiara la restituzione dei test

sull’aggressività e sulle tavole di appercezione tematica.

Sono emersi contrasti tra luce e buio, speranza e disperazione,

autonomia e dipendenza. L’importante è continuare a rafforzare il

senso di sicurezza, capacità e utilità. Una risorsa indispensabile è lo

scambio all’interno di relazioni sane e costruttive, come quelle

all’interno del nostro gruppo. Al contrario una relazione basata sull’

aggressività o sull’evitamento è dannosa. L’aggressività potrebbe

essere una cattiva difesa dal vuoto interiore, di cui abbiamo già

parlato. Chiedo quindi cosa sia per loro l’aggressività e come loro

solitamente la manifestano.

Per Andrea è la risposta all’attacco iniziale di un altro, anche se

marcato e sproporzionato rispetto allo stimolo di partenza.

Monica ribadisce quindi il suo problema a gestire la rabbia.

L’ha subita per poi rivolgerla a stessa, ad esempio con tagli

autolesionistici su gambe e braccia. Le chiedo se si è attribuita delle

colpe per cui voleva punirsi e lei conferma parlando della gravidanza

del dicembre scorso che non si è sentita di portare avanti. L’ex-

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compagno non voleva il bambino, e lei piena di rabbia, sotto l’effetto

dell’alcol l’ha picchiato. Successivamente si è fatta del male.

Giusi dice di non essere per niente aggressiva, anche se gli altri

spesso le fanno notare che lo è rispetto al non verbale, al tono, timbro

di voce e alla parlata incalzante. La vita di coppia per lei non è

soddisfacente e non riesce a litigare con il marito. La loro vita, dice, è

una tomba. Forse è lì che comprime la rabbia, che implode e

somatizza, faccio notare. Tra Giusi e il marito il dialogo è assente. Lei

sostiene che non hanno nulla in comune, se non la figlia. Lei soffre e

si sente frustrata, tra l’altro, per il fatto della diversità culturale e di

istruzione.

Per Michela l’aggressività invece è autodiretta, soprattutto

quando ha chiusi i rapporti con la famiglia, sentendo un forte senso di

abbandono e di perdita. Avendo perduto la famiglia, si era convinta di

aver perso tutto, perciò voleva togliersi la vita.

Restituisco loro ciò che è emerso. L’aggressività sembra essere

rivolta verso di sé in relazione al senso di colpa, di incapacità e di

mancanza di valore, rivolta agli altri invece nel caso di senso di

abbandono, perdita, tradimento della sfera affettiva.

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5- INCONTRO Di LUN 14 FEB 2006

Il gruppo è quello della volta precedente, con il rientro di Paolo,

il quale era mancato per via di un’influenza. Quindi i presenti sono

Paolo, Monica, Andrea, Giusi, Michela e io.

Riepilogo il discorso sull’aggressività e Paolo esprime il

bisogno di fare un’annotazione sui vantaggi del ricovero e cioè

l’isolamento, la decontestualizzazione che aiutano a ridurre l’ansia e

lo stress. Confermo che il ricovero è una forma di protezione.

Paolo spiega però che lo svantaggio del ricovero al tempo stesso

è che resti fuori dalla realtà per cui il rientro diventa complicato e

difficile.

Propongo al gruppo il tema dei sostituti, dei surrogati di quel

vuoto interiore a cui abbiamo accennato più volte. Si è parlato di

aggressività, ma vi sono altre forme di difesa o compensazione del

vuoto, come ad esempio lo shopping compulsivo, l’abuso di alcol di

alcol e sostanze, la cleptomania, la ritualità, ecc …

E’ un tema scottante, tanto è vero che tutti cercano di evitare

l’argomento proponendone altri. Tuttavia al secondo rilancio sui

sostituti del vuoto, Paolo si immerge completamente. Dice che sono

molti i metodi per fingere di risolvere un problema. Sono qualcosa di

malsano per la salute psichica. Chiede al gruppo perché si adottano

certe scelte disfunzionali e non altre. Lui ad esempio è predisposto

allo shopping compulsivo.

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Andrea invece parla con impeto del suo sostituto cioè l’impulso

a rubare cioccolatini e accendini dal tabaccaio. Gli chiedo come si

sente in quei momenti e lui risponde di sentirsi forte, contento di aver

“fregato”, anche se questa euforia dura pochi attimi. Anche Michela

soffre di cleptomania, poiché non ha bisogno di denaro, eppure

avverte un impulso irrefrenabile a rubare videocassette al

supermercato.

Monica si attaccava invece a cocaina, alcol e sigarette perché

risultava più disinibita, simpatica e socievole. Ora però ha sospeso.

Paolo in modo più sistematico parla dei suoi sostituti:

- distorsione nel rapporto con il cibo. Nasce

nell’infanzia. Da piccolo infatti aveva problemi gastrici e

il cibo rappresentava un conflitto poiché lo assimilava per

poi rimetterlo. A ciò si aggiungeva la tensione materna

coercitiva. Il rimettere il cibo era anche un rifiuto alle

insistenze della madre. Dopo il primo ricovero nel 1998 e

l’inizio dell’assunzione degli psicofarmaci ha avuto un

considerevole aumento ponderale. Ora è avido rispetto al

cibo, è al limite delle abbuffate.

- La teledipendenza con una compulsione

priva di controllo a stare innanzi allo schermo.

- Cleptomania di cui preferisce non parlare,

ma che è stato un disturbo con conseguenze anche legali.

- Shopping compulsivo che cerca di evitare

solo non andando nei supermercati. Avverte ansia

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anticipatoria e poi un picco di eccitazione per poi sentire

frustrazione, insoddisfazione e senso di colpa.

Io metto in luce come l’eccesso nell’acquisto, senza controllo,

in modo reiterato, è funzionale a compensare la sofferenza, a riempire

il vuoto, ma fallisce e per questo viene ripetuto.

Il gruppo si apre ad approfondire tematiche delicate, senza il

timore del giudizio degli altri. L’ironia è utilizzata per smorzare la

sofferenza e non cadere in moralismi banali. L’unica che rimane sulla

difesa è Giusi che restando sul fronte ossessivo, non può perdere il

controllo se non durante attacchi simili di panico e agorafobia in

ambienti affollati, in cui avverte una sorta di annegamento nella folla,

in cui si perde totalmente.

6- INCONTRO DEL 17 FEB 2006

Al sesto incontro sono presenti Paolo, Monica; Andrea, Michela

e Io. Manca Giusi a causa dei forti dolori mestruali, anche se intravedo

una resistenza all’ apertura psicologica rispetto alla fissazione

organica.

Il tema di oggi è la percezione del gruppo.

Michela dice di intravedere un sostegno importante, a cui non

vorrebbe rinunciare, anche se prima di questo gruppo non ha mai

avuto fiducia negli psicologi. E’ soddisfatta.

Andrea avverte già dei benefici.

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Monica dice che il gruppo sta rispondendo alle sue aspettative

di ascolto, comprensione e accettazione. Segue con entusiasmo.

Paolo mi elogia per il rispetto che porto loro e per la possibilità

di libera espressione che lascio loro. Il focus della terapia è il non

giudizio. Secondo lui io elaboro tutto e loro non si sentono giudicati e

non avvertono sensi di colpa.

Condivido precisando però che io sono lì con loro e con le loro

emozioni che cerco di accogliere e restituire più accettabili e fruttuose.

Paolo sostiene che io non racconto di me e delle mie esperienze,

perché essendo una psicologa devo tenere delle distanze dai pazienti.

Ripeto che ciò che è importante è la relazione umana tra di noi,

più che la fissazione sui ruoli.

Propongo quindi il test del disegno della figura umana.

Di fronte a questa prova si vergognano e dicono che è da bimbi

e che non hanno capacità artistiche.

Spiego soltanto che l’abilità artistica non ha assolutamente

importanza.

Finiti i disegni che ho riportato in appendice, ritorno al tema del

vuoto degli incontri precedenti. Utilizzo la metafora del bicchiere per

verbalizzare il vuoto. Cerco di esprime l’impossibilità a riempire la

metà vuota del bicchiere con quella mezza piena. Il vuoto c’è ed è la

sofferenza, quella che non si può ignorare, e prima o poi bisogna

guardarla e accettarla. E’ una realtà dolorosa, ma è proprio quella che

non può essere falsificata. Se la si vede, allora si può guardar più

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serenamente quel mezzo pieno, ovvero le risorse di ognuno, lasciate

spesso lì inutilizzate e sottovalutate. Sono invece da sfruttare e mettere

in gioco. Ciò consente un miglior equilibrio.

Paolo sostiene che l’equilibrio è intralciato dal consumismo

frenetico della società odierna. Monica si chiede perché si giunge alle

espressioni patologiche.

Paolo sostiene che chi si ammala è più sensibile e recettivo alla

propria sofferenza e a quella altrui e la elaborano di più. Ciò può esser

anche una risorsa per uscire dalla prigione della sofferenza.

Monica dice di essere sempre stata accusata dalla madre di

questa sensibilità, vista come fragilità.

Andrea ritiene che non sia semplice distinguere il lato positivo

da quello negativo della sensibilità. Si crea confusione.

Condivido la loro difficoltà anche perché il lavoro in gruppo è

molto intenso e condensato. Volevo offrire loro una visione d’insieme.

Distinguere i due lati della sensibilità è complesso, perché in realtà

sono molto legati tra loro. Con il tempo è possibile distinguerli.

Paolo dice di avere una visione più consapevole. L’elaborazione

gli costa fatica e la lucidità è fonte di dolore inevitabile.

Ribadisco che la sofferenza resta tale, ma se viene accettata

porta molta più chiarezza che consente di rilanciarsi con maggiore

saggezza.

Paolo quindi dice che la fragilità può portare a due

comportamenti: o l’insensibilità totale come difesa, oppure la

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l’affinamento nella percezione delle persone e delle situazioni.

Secondo lui quello che stiamo facendo in gruppo è la seconda risposta.

Michela conferma che il mezzo pieno non riesce a riempire il

mezzo vuoto, soprattutto quando per lei tutto il bicchiere era pieno.

Ora avverte moltissimo il vuoto, cioè l’ essere sola.

Monica comprende l’importanza di guardare in faccia ai

problemi e anche Andrea si rende conto che non si può stare meglio

senza inquadrare e accettare i problemi.

7- INCONTRO DI MART 21 FEB 2006

Al settimo incontro di gruppo in cui sono presenti Paolo,

Monica, Giusi, Andrea e Michela abbiamo due nuovi ingressi,

ovvero:

- Elisabetta C., telefonista di 39 anni,

ricoverata per episodio depressivo entro un più ampio

disturbo bipolare insorto 13 anni prima in seguito alla

prima delusione sentimentale. Vive con i genitori e ha un

fratello sposato. Non ha attualmente una relazione e ha

difficoltà e inibizioni nell’approccio con gli uomini.

- Valerio D.: operaio specializzato di 36 anni,

ricoverato per crisi di astinenza da eroina, associata ad

abuso di alcol, depressione maggiore e trascorsi di

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tossicodipendenza. Vive anche lui con i genitori e ha una

storia con una ragazza, anche se non è molto coinvolto.

Ai nuovi entrati gli altri membri si presentano in maniera

sintetica.

Propongo di riaffrontare il tema del vuoto da un altro punto di

vista, e cioè quello relazionale, delle incomprensioni con le persone

care. Invito loro a raccontare un episodio al riguardo, per poi

sceglierne uno e metterlo in scena come a teatro, con una tecnica

chiamata psicodramma, senza che ci siano però contati fisici. Si

mettono due sedie solitamente al centro della scena e la loro

disposizione, vicinanza e angolazione risultano indici importanti della

qualità e intensità della relazione. Lo scopo è di liberare le emozioni, o

di riviverle in maniera più elaborata.

Giusi parla di un’aggressione fattale dalla cognata al telefono,

in quanto preoccupata per il fratello, nonché marito di Giusi, e per la

nipote. Sosteneva che Giusi non voleva guarire, non ci provava e

rompeva le scatole a tutti.

Andrea parla invece dell’episodio del mancato viaggio natalizio

a Praga, non riuscito a causa dell’influenza dell’ ex-moglie Rita. Lui

era intenzionato a partire ugualmente e lei lo accusa di essere egoista.

Alla fine per non dispiacere alla famiglia resta a casa.

Monica non ha un episodio reale di scontro da raccontare,

poiché reprime la rabbia, soprattutto verso la madre che soffre della

patologia del gioco d’azzardo, anche se non la riconosce.

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Paolo ammette la sua androfobia. Il padre per lui è come se non

fosse esistito, per cui la mamma è divenuta l’unica figura di

riferimento. Giusi fa notare come Paolo sia in simbiosi con lei, vista

l’adorazione con cui ne parla e visto che non ha mai accennato al

padre.

I maschi poi l’hanno sempre riso ed emarginato ed è ha subito

una violenza verbale e maltrattamento fisico da parte di un buttafuori

di Renato Zero.

Elisabetta invece si scontra spesso con il fratello per via della

sua malattia che lui non comprende.

Valerio non vuole raccontare nulla perché ha un po’ di

“magone”. Poi però esprime comprensione affettiva verso Monica,

perché anche lui ha avuto grandi critiche e imposizioni dalla madre

che voleva per il figlio ciò che lei non ha mai avuto. Lui però ci ha

litigato in modo furibondo, si è ribellato, mentre Monica ha subito

fino a interrompere il legame.

Visto la titubanza di tutti, Andrea prende coraggio e si offre per

l’interpretazione scenica. Sceglie Paolo per il ruolo di Rita.

L’ impatto è ottimo, desta curiosità, partecipazione e attenzione

e mette in gioco emozioni, sentimenti, rapporti. Il dinamismo è

notevole. Nel paragrafo sul metodo dello psicodramma ho

approfondito meglio questo role-play.

A conclusione, preciso che non aggiungerò altri soggetti al

gruppo negli ultimi tre incontri, così da avere una maggiore coesione e

coerenza di percorso.

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8- INCONTRO DI VEN 24 FEB 2006

Valerio è assente, perché non è ancora pronto all’impatto della

sofferenza. Quindi ritroviamo Monica, Andrea, Elisabetta, Giusi,

Andrea e Michela.

Chiedo che impressione hanno avuto del precedente

psicodramma.

Condividono l’aspetto divertente-ludico insieme a quello più

concreto ed esperienziale. Monica mette in luce anche lo spavento,

perché sono in gioco emozioni forti.

Ora li invito a raccontare una situazione che crea grande

angoscia o spavento o fastidio. Non è indispensabile che l’episodio sia

reale, va bene anche se è presente nell’immaginario. Realtà e

immaginazione sono sullo stesso piano perché possono causare

ugualmente delle paure.

L’ ossessione di Giusi è di perdere la vista e continua

all’infinito ad andare a visite di controllo senza trovare nulla. Parla del

suo sogno ricorrente di costrizione a ripetere tutte le scuole fino

all’università.

Faccio notare che ciò che si ricorda ed è manifesto del sogno, in

realtà cela molteplici contenuti più profondi e angoscianti. Forse il

dovere ripetere è una sorta di vissuto di colpa, e di non riconoscimento

che la costringono a mettersi sempre alla prova innanzi agli altri.

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Un pensiero che non verbalizzo, è che forse Giusi vuole

dimostrare ai dottori che ha una malattia vera, organica, condivisa da

tutti, come se un disturbo psicologico fosse finto,inventato. Scinde

ancora il piano fisico e quello psicologico e non vi trova il nesso.

Anche Andrea sogna spesso di dovere ripetere l’esame di

anatomia patologica, di non superarlo e poi di esercitare, senza laurea,

in modo abusivo, la professione medica.

Gli faccio notare che il pensionamento è stato forzato, in quanto

lui non ha rispettato regole burocratiche. E forse in seguito a ciò si è

sentito trattato come un medico abusivo, e tale sensazione ancora gli è

rimasta. Lui conferma, e ammette la perdita di un lavoro stupendo, per

nulla monotono e carico di adrenalina.

Paolo coglie accidia e inedia nella vita di Andrea, il quale

conferma il suo sentirsi oggetto passivo.

Osservo che lo psicodramma ha fatto leva su questa frustrazione

di Andrea che ha voluto sentirsi vivo, utile e con emozioni. Andrea

dice di avere anche una certa mania di protagonismo.

Monica confessa un sogno ricorrente da 10 anni e cioè quello di

avere un bimbo in grembo e dargli dei pugni. Infatti è in forte conflitto

con se stessa, perché da un lato desidera molto un figlio, dall’altro ha

paura di non riuscire a esser madre. Ha una folle paura che la

depressione possa essere invalidante se diventasse madre. Il suo

bimbo, dice, l’ha dimenticato. Io le dico che non è così, e che forse

l’ha rimosso per non soffrire, per difendersi. Infatti Monica ammette

di non riuscire a gestire quel dolore psichico, non lo tollera.

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Paolo si associa alla catena sui sogni e riporta l’incubo in cui a

scuola si trova emarginato, isolato e intellettualmente deprivato di

qualcosa rispetto ai compagni. Lui ci trova in ciò l’incomprensione

che gli altri hanno verso di lui rispetto alla malattia. Anche gli amici lo

giudicano come accidioso. Sono convinti che si nasconda per comodo

dietro la malattia, per non lavorare e stare sulla spalle della madre

anziana. Tra questi c’è Raimondo con cui ha avuto una discussione

anche rispetto al ricovero. Anche questo scontro è stato rappresentato

con lo psicodramma con l’intervanto di Monica accanto a Paolo.

Emerge in modo forte la rabbia, la frustrazione e il senso di

incomprensione e di mancanza di rispetto. C’è come un grido

liberatorio in questa interpretazione.

In questo momento delicato, Elisabetta e Giusi non reggono la

tensione ed escono per un caffè. Gli altri criticano questa uscita per

via dell’ importanza di questo momento.

Il gruppo sembra avere iniziato a valorizzare ogni membro. Si è

offerto un buon sostegno e un’iniziale elaborazione di vissuti ed

emozioni. Si è avviata una riflessione per provare a controllare gli

impulsi, grazie allo scambio relazionale ricco. Il gruppo ora funziona

come un tutto.

9- INCONTRO DI MART 28 FEB 2006

Al Nono incontro sono presenti Paolo, Andrea, Monica, Giusi

ed Elisabetta. Manca Michela per motivi di salute fisica.

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Sottopongo nuovamente i tests TAT e IR per cogliere eventuali

cambiamenti.

Propongo poi il tema dimissioni e delle paure a esse connesse.

Paolo è estremamente preoccupato, soprattutto in relazione allo

scontro con la realtà. Teme di avere una ricaduta. Non si sente guarito

e con le difese ancora insufficienti ad affrontare i problemi. E’

perfezionista e ciò gli aumenta la difficoltà nelle attività quotidiane.

Teme di aver inoltre perso degli appuntamenti con la vita. E lo

preoccupa il fatto di sentirsi in obbligo a giustificare la sua assenza

raccontando bugie. Gli dico che non deve sentire questo obbligo di

dare spiegazioni. E’ un discorso privato e si può semplicemente

parlare di problemi personali e/o familiari.

Andrea sente invece il peso della quotidianità come monotona e

inutile. Il giorno successivo viene dimesso. Ritorna a casa volentieri

ma non è felice. Comunque ha intenzione di rilanciarsi con il

volontariato, perché ne avverte l’utilità.

Anche Elisabetta ha paura della routine esterna, mentre dentro

si sente protetta e quasi serena.

Giusi ha provato un tentativo di rientro per due giorni, ma è

scoppiata piangere, perché ha il rifiuto verso la figlia. E’ troppo

impegnativo fare la madre ora. Le si è di nuovo scatenata l’ansia,

poiché a casa si sente in prigione. Il padre e il marito premono per le

dimissioni e sono anche delusi per gli scarsi miglioramenti di salute di

Giusi. Le sembra di non trovare vie di uscita e di essere in un vicolo

cieco.

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Dato che tutti i medici le hanno escluso una patologia organica

agli occhi, le dico che forse la sua cecità è più interna, forse è quel

vicolo cieco di cui ha appena parlato in relazione alla difficoltà ad

accettare certi problemi familiari. Lei infatti più volte ha fatto capire

di non sentirsi all’altezza delle situazioni: avverte senso di colpa verso

i genitori che si occupano di sua figlia, e verso il marito che si sente

deluso da lei e infine verso la figlia che lei trascura.

Monica, già dimessa dall’ inizio degli incontri, testimonia la

vita fuori sia nei suoi aspetti positivi di recupero di un lavoro

stimolante e soddisfacente, sia negativi per l’incomprensione dei

familiari e degli amici e quindi per un vissuto di solitudine.

Paolo riassume il ricovero e la malattia come rifugi, in cui ci si

sente più curati e amati.

Alla fine dell’incontro metto in rilievo come il nostro gruppo sia

in realtà un gruppo nel gruppo della Casa di Cura. E’ un rifugio

importante che però anzichè porre una barriera rispetto al mondo

esterno, cerca di recuperare quel mondo, per reinserirsi e per

agevolare le relazioni affettive, familiari e sociali, dato che esse si

innescano già in questo piccolo gruppo, quasi fosse uno di

allenamento alla vita.

10 INCONTRO DEL 3 MARZO 2006

All’ultimo incontro sono presenti Andrea, Monica, Elisabetta,

Giusi.

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Propongo loro il tema del futuro, di cosa si prospettano e di cosa

pensano di creare.

Andrea che prima era privo di scopi, è soddisfatto di scoprire

sfumature di sé, di ritrovare l’entusiasmo di fare.

Monica è contenta per avere trovato ascolto, comprensione e di

avere potuto parlare in assoluta libertà.

Anche Elisabetta ha apprezzato il confronto e il fatto di non

sentirsi sola.

Giusi ha apprezzato l’occasione del confronto, per vedere più

punti di vista. I problemi sono simili ma la sofferenza è diversa.

Propongo l’ultima rappresentazione scenica di psicodramma

proprio in relazione al fatto che Monica abbia detto di esser riuscita a

esprimere la sua rabbia, in occasione del fallimento dell’azienda.

Piero, il titolare, ha truffato tutti e così in una riunione Monica ha

affrontato in modo diretto Piero, con accuse pesanti, ma fondate.

Questo role-play ha visto in scena Monica insieme a Giusi,

entrambe coerenti, energiche, grintose e aggressive. E’ un ultimo

spazio in gruppo in cui dar prova delle proprie risorse, della propria

spontaneità, creatività, ma anche controllo.

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FOLLOW-UP

Il 15 maggio 2006 ho svolto una breve intervista telefonica, per

riuscire a capire se il gruppo avesse lasciato o meno un segno in

coloro che vi avevano partecipato più attivamente e assiduamente.

Le domande che ho posto erano in relazione allo stato attuale di

salute, al ricordo e all’utilità del gruppo e infine al controllo e gestione

degli impulsi.

Monica dice di trovarsi in uno stato di abbassamento del tono

dell’umore, con meno energia e appetito, pur non essendo depressa.

Anche su sua richiesta esplicita abbiamo ripreso gli incontri di gruppo,

perché avverte il bisogno di uno scambio importante e profondo.

Riesce inoltre a evitare atti impulsivi aggressivi, forse perché ha il

coraggio di parlare di più, di esporsi di più senza vergogna.

Andrea sostiene di avere avuto una buona ripresa con un grande

slancio vitale verso il volontariato. Tuttavia le sue aspettative erano

legate a un’attività prettamente medica, per cui non ha trovato nulla di

soddisfacente. Ora, riavvertendo una forte ansia e angoscia, forse

dipese dalla frustrazione e dall’impossibilità di riattuare il sogno del

medico, corre di nuovo nel rifugio del ricovero, dove si sente a casa,

sicuro. Ammette l’importanza del gruppo per la sua autostima, ma non

gli è bastato per proseguire. Ha riprovato per un paio di giorni

l’automedicazione dell’alcol, quindi ha perso il controllo, per poi

riprenderlo nel momento in cui ha chiesto una mano.

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Michela è rientrata a Reggio Emilia, ma il disturbo lombo-

sacrale l’ha immobilizzata a letto, in attesa di una operazione tra sei

mesi. Assume potenti antidolorifici ed è seguita sempre da una

persona. E’ un po’ demoralizzata a volte, ma dice di avere come

obiettivo, quello di tornare a camminare. Lotta con determinazione,

senza arrendersi. Il gruppo l’ha rafforzata, l’ha fatta sentire parte di un

sistema di persone sensibili. Avrebbe voluto partecipare ad altri

incontri. Non ha avuto brutti pensieri e non ha mai perso il controllo

della sua vita, nonostante i gravi disturbi organici.

Paolo purtroppo dopo un periodo altalenante, si è trovato a

precipitare in una letargia difensiva rispetto all’angoscia depressiva.

Ha perso il controllo in certi momenti, dato che ha pensieri suicidari e

vorrebbe fuggire via. I suoi schemi ossessivi non reggono a contenere

l’angoscia. Il gruppo per lui è stato un riferimento che ora non ha più.

Vuole anche sospendere l’assunzione dei farmaci, che reputa inutili.

Per lui sarebbe stato importante continuare a venire agli incontri,

insieme a Monica. Lo ha fatto in un primo momento, per poi rallentare

e sospendere, quando pensava di non esser più all’altezza del gruppo.

Con una profonda ferita narcisistica alla sua ambizione di

onnipotenza, non poteva più esibirsi. In realtà si vergognava più

innanzi a se stesso che agli altri.

Infine Elisabetta mi parla di una buona ripresa al lavoro,

seppure con difficoltà di concentrazione. Si sente discretamente bene.

Il gruppo per lei è rimasto un luogo di scambio senza giudizio e fatto

di comprensione. Mantiene il controllo, ma teme di perderlo se

dovesse ritornare in fase euforica.

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5 CONCLUSIONI

Ora cerchiamo di vedere dove questa ricerca sperimentale

intensa e stimolante ci ha portato.

Diamo un’occhiata di insieme a questo percorso, nato verso

la metà di gennaio 2006 con colloqui individuali con i pazienti a

cui ho somministrato il test sulla Fragilità Emotiva, proseguito con

i 10 incontri bisettimanali di gruppo, dal 31 gennaio fino al 3

marzo, per concludere con un follow-up a metà maggio.

Possiamo notare che inizialmente nel gruppo si utilizzavano

grosse difese relazionali, quali aggressività, evitamento,

sottomissione e seduzione. Il test F.E. aveva fatto emergere la

suscettibilità emotiva, come condizione di partenza. I soggetti cioè

sono piuttosto vulnerabili, ansiosi, avvertono incomprensione e

solitudine, con estrema ansia sociale, per cui hanno faticato a

esporsi al gruppo. Hanno voluto verificare di potersi fidare, per poi

calare le difese sopracitate.

Infatti al terzo /quarto incontro il gruppo inizia ad esser più

coeso e ad avere una forma, una struttura, quella di un sistema di

scambi produttivi, privi di giudizi, empatici, e meno centrati sullo

psicologo e più su interscambi tra tutti i componenti del gruppo.

Successivamente la verbalizzazione con la manifestazione

delle emozioni e degli impulsi è divenuta fondamentale, soprattutto

grazie alla tecnica dello psicodramma. La catarsi emotiva si è

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realizzata, soprattutto in relazione alla rabbia, alla frustrazione del

bisogno di amore, comprensione e accettazione.

I tests iniziali in gruppo sull’ aggressività, cioè l’IR, e su

bisogni, difese e tematiche di conflitti relazionali, cioè il test

proiettivo TAT con figure umane in espressioni ambigue, sono stati

poi ripetuti negli ultimi incontri. Questa duplice somministrazione

ha messo in risalto la progressiva presa di coscienza delle

emozioni, anche quelle più angoscianti, senza ricorrere a barriere.

La visione più chiara, ha anche consentito di controllare

maggiormente gli impulsi, soprattutto quelli distruttivi.

Il gruppo è venuto a costituire un microcosmo protetto, fatto

di regole gradualmente sempre più rispettate. I turni a parlare, la

costanza della presenza agli incontri, lo spegnere i cellulari sono

diventati importanti punti di contatto e condivisione.

Probabilmente i confini con il macrocosmo sociale si sono

però irrigiditi, come se fuori dal gruppo ci fosse il nemico da

combattere. La perdita del gruppo è stata avvertita, con una

difficoltà di elaborazione di questo lutto, e conseguente vissuto

depressivo. Globalmente però gli ex-partecipanti al gruppo

risentono dell’influsso positivo del gruppo, in relazione al migliore

controllo degli impulsi, che loro stessi hanno osservato, e che ha

diminuito l’ansia di perdere il controllo con conseguente senso di

autodeterminazione e migliorata autostima.

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Infine il gruppo ha offerto la possibilità di riattivare scambi

relazionali sani, meno disfunzionali rispetto a quelli da loro

abitualmente messi in atto .

Possiamo quindi dire che il gruppo ha rappresentato un

modello operativo e interattivo, più o meno interiorizzato,

importante e anche uno strumento di crescita propositivo per tutti i

membri del gruppo.

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