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Dal 28 gennaio al 5 febbraio 2012 fai la tua donazione al

455991 EURO via SMS / 2 EURO chiamando da telefono fisso

59^ GIORNATA MONDIALEDEI MALATI DI LEBBRA

29 gennaio 2012

LEBBROSIPER UN GIORNO

FAI DELLA TUA VITAQUALCOSA CHE VALE

“Perché il malato di lebbra cessi di essere lebbroso,bisogna guarire coloro che stanno bene dalla paura

e dall’indifferenza”. (Raoul Follereau)

NUMERO VERDE: 800 550303 www.aifo.it

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 5

Sommario

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La settimana

3/9 febbraio 2012 • Numero 934 • Anno 19

“Dovevamo spingerlo fuori della stanza e dirgli di andare a lavarsi”. Steve Jobs era vegano. Ed era convinto che la sua dieta gli consentisse di non usare il deodorante e di non farsi la doccia. Andava spesso in giro scalzo. “Alle riunioni ci toccava guar-dare i suoi piedi lerci”, ricorda uno dei ma-nager della Apple. Alternava diete alimen-tari estreme. Passava settimane mangian-do solo mele o solo carote. Esplorava gli efetti allucinogeni della privazione del sonno. Spiegava che l’assunzione di Lsd era tra le cose più importanti che aveva fatto nella vita. “Era un carismatico ispira-tore, ma a volte anche un pezzo di merda”, ha scritto Walter Isaacson, il suo biografo. Quando tornò alla Apple, nel 1997, riuscì a salvare l’azienda, ma licenziò più di tre-mila persone. Era collerico e arrogan-te, però quando si trovava in diicoltà scoppiava a piangere: durante un consi-glio d’amministrazione o discutendo con un collaboratore. Il New York Times rac-conta che nel 2007, un mese prima del lancio dell’iPhone, riunì i suoi manager e gli fece una sfuriata. Aveva tenuto un pro-totipo dell’iPhone in tasca, insieme alle chiavi di casa, e lo schermo si era rigato: “Non voglio mettere in vendita un prodot-to che si riga, voglio che l’iPhone abbia uno schermo di vetro e che sia perfetto nel giro di sei settimane”. L’unico posto dove produrre uno schermo simile, in tempi co-sì brevi, era la Cina. Insieme a Exxon Mo-bil, oggi la Apple è l’azienda statunitense che vale di più in borsa. Avrebbe il potere di migliorare le condizioni di lavoro delle migliaia di operai cinesi che fabbricano i suoi prodotti, ma inora non l’ha fatto. In realtà anche noi, i cosiddetti consumatori, abbiamo un grande potere: quello di sce-gliere cosa comprare. Ma per poterlo eser-citare dobbiamo essere informati. Dob-biamo sapere che dietro ogni telefono, ogni computer, ogni televisore che entra nelle nostre case c’è anche una storia di soferenze e di sfruttamento. Non sempre, ma più spesso di quanto immaginiamo.Giovanni De [email protected]

Potere

AttuAlità 14 L’Europa

dell’austerità The Economist

europA16 Romania

Dilema Veche

AttuAlità18 Damasco

va alla guerra The Independent

AfricA e medio orieNte20 Senegal Guineeconakry.info

Americhe 22 Cuba Le Temps

AsiA e pAcifico24 Uzbekistan Eurasianet

visti dAgli Altri26 La missione

di Pietro Ichino Bloomberg

Businessweek

medio orieNte42 Le rivolte

cambiano l’islam New Statesman

scieNzA46 Un allenatore

in sala operatoria The New Yorker

iNdiA54 Caccia

agli indigeni South China Morning Post Magazine

grAphic jourNAlism58 Alain e i rom Emmanuel Guibert

ritrAtti68 Julián Leyzaola The New York Times

viAggi70 La poesia del Volga Newsweek

ciNemA72 Un passo avanti

per i gay turchi The Guardian

pop 84 Sparalimoni

per tutti Nick Hornby87 Il treno da Nablus Raja Shehadeh

iN copertiNA

I costi umani di un iPadLa Apple è l’azienda più innovativa e redditizia del mondo. Ma il suo successo è basato su fornitori che impongono durissime condizioni di lavoro agli operai. L’inchiesta del New York Times (p. 34). Foto di Martin Williams (Alamy) e Tony Law (Redux/Contrasto).

scieNzA88 Le virtù

dell’autofagia The Economist

ecoNomiA92 Portogallo

Süddeutsche Zeitung

cultura74 Cinema, libri,

musica, video, arte

Le opinioni

21 Amira Hass

23 Jason Horowitz

31 Laurie Penny

33 Will Hutton

76 Gofredo Foi

78 Giuliano Milani

80 Pier Andrea Canei

82 Christian Caujolle

87 Tullio De Mauro

89 Anahad O’Connor

93 Tito Boeri

le rubriche13 Editoriali

96 Strisce

97 L’oroscopo

98 L’ultima

Bloomberg Businessweek È un settimanale economico statunitense. L’articolo a pagina 26 è uscito il 26 gennaio 2012 con il titolo Why would anyone want to kill Pietro Ichino? The New York Times È un autorevole quotidiano statunitense. L’articolo a pagina 34 è uscito il 26 gennaio 2012 con il titolo Working conditions ofer subtext to Apple’s success. South China Morning Post Magazine È il

magazine del più importante quotidiano di Hong Kong. L’articolo a pagina 54 è uscito l’8 gennaio 2012 con il titolo Only human. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

“Molte persone rimarrebbero sconvolte se sapessero da dove vengono i loro iPhone”

ex mANAger Apple, pAgiNA

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Immagini

L’America di RomneyThe Villages, Stati Uniti30 gennaio 2012

Un comizio di Mitt Romney alla vigilia delle primarie repubblicane in Florida. Il 31 gennaio l’ex governatore del Mas-sachusetts ha battuto con un ampio margine l’ex presidente della camera Newt Gingrich, che due settimane pri-ma aveva trionfato in South Carolina. La sida per la candidatura repubblicana alla presidenza è ancora lunga. “Delle primarie competitive non ci dividono, ma ci preparano”, ha detto Romney fe-steggiando la vittoria. Gingrich, che punta al sostengo dell’ala radicale del partito, ha annunciato che continuerà la sua campagna. Foto di Emmanuel Du-nand (Afp/Getty Images)

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Immagini

Scoperta macabraAbidjan, Costa d’Avorio25 gennaio 2012

Gli abitanti del quartiere di Yopougon, ad Abidjan, assistono alla scoperta di una fossa comune. Durante le violenze postelettorali dell’inizio del 2011 Yopou-gon è stata una delle roccaforti dei mili-ziani fedeli al presidente autoproclama-to Laurent Gbagbo. Secondo i residenti i cadaveri nella fossa comune sono quel-li dei combattenti di Alassane Ouat tara, il presidente legittimo. Nei cinque mesi di conlitto che hanno preceduto la cat-tura di Gbagbo, l’11 aprile 2011, sono morte circa tremila persone. Foto di

Emanuel Ekra (Ap/Lapresse)

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Immagini

Arrivano i pinguiniFrancoforte, Germania27 gennaio 2012

Un pinguino nuota in una vasca dello zoo di Francoforte. In questi giorni la Germania, e l’Europa intera, sono inve-stite da una delle peggiori ondate di gelo degli ultimi decenni. A Francoforte il termometro scenderà fino a 20 gradi sotto zero, ma le temperature saranno ancora più rigide nei paesi dell’est. In Polonia, Ucraina, Romania e Bulgaria oltre 90 persone sono già morte per il freddo. Foto di Michael Probst (Ap/La-

presse)

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[email protected]

Il tramonto dell’Inghilterra

u “Il tramonto dell’Inghilter-ra” (13 gennaio) dà una visio-ne incredibilmente reale di come è diventato il paese. Ho studiato lì e l’articolo mi ha fatto tornare indietro al 2008, quando ero a Londra e scop-piò la crisi. Sono d’accordo con lo scrittore su tutto tranne una parte. La mia esperienza con i treni e i mezzi pubblici è diversa: costosissimi, ma ei-cienti, comodi e con servizi utili come il wii libero. Il pae-se con le strutture fatiscenti è il nostro, tuttavia abbiamo un vantaggio: il nostro è ancora un servizio pubblico. Si può apprendere anche dagli errori altrui per migliorare se stessi. Niccolò Possamai

La ine del petrolio

u Ho letto l’articolo sulle guerre per il petrolio (27 gen-naio). La situazione è preoc-cupante: in un mondo di vec-chie potenze in calo (Stati Uniti, Europa, Giappone) e nuove potenze in ascesa (In-dia, Cina, Brasile, Russia), co-

me scriveva Charles Kupchan in La ine dell’era americana, l’eventualità di uno scontro sarà sempre più vicina man mano che il petrolio comince-rà a scarseggiare. Se alla crisi economica si dovesse sovrap-porre una crisi energetica e militare, non oso immaginare dove questo potrebbe portare. La soluzione è passare al più presto a fonti energetiche rin-novabili. Dobbiamo smettere di usare il petrolio che fa male alla salute, è una tecnologia vetusta, concentra la ricchez-za nelle mani di pochi ed è fonte di instabilità internazio-nale. Marco Schiattareggia

L’universo senza creazione

u L’articolo sul big bang (20 gennaio) riguarda una do-manda a cui i isici non sanno dare risposte accettabili. Cosa c’era prima del big bang? Se nulla si crea e nulla si distrug-ge, ma tutto si trasforma, quel che c’è da dove viene? Facile invocare un creatore, ma è so-lo una risposta irrazionale a una domanda a cui non sap-

piamo rispondere. Se qualcu-no si consola invocando l’in-tervento di un creatore, non ci sono problemi. L’importante è che non pretenda di imporre questa spiegazione a chi non ne sente il bisogno. Ferdinando Boero

Errata corrige

u Nel numero del 27 gennaio, a pagina 37: nel suo tratto più piccolo lo stretto di Hormuz ha un’ampiezza di circa cin-quanta chilometri; dieci chilo-metri è la larghezza della linea di transito. A pagina 87: oggi per produrre l’1 per cento del-la benzina consumata negli Stati Uniti servirebbero le al-ghe di undicimila chilometri quadrati di mare, non undici-mila metri quadrati.

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Come devo reagire al fatto che i miei igli di tre e sei an-ni hanno preso il controllo del mio computer? –Max

Non per fare il genitore all’an-tica, ma io sono uno di quelli che non fanno usare computer e telefono ai igli piccoli. Per due ragioni. Primo perché si tratta di apparecchi delicati e costosi. Finché parliamo di schermo coperto di ditate o di mouse incrostato di moccio passi, ma un succo di frutta ro-vesciato sulla tastiera signiica la ine. E poi perché i bambini non si limitano a guardare i

cartoni animati, ma comincia-no prestissimo a premere tasti a caso. Li lasci con Dora l’esplo-ratrice e ti ritrovi il computer con caratteri alti un centime-tro, la lettura vocale attivata e due nuovi programmi sospetti che ti ammiccano dal desktop. Per non parlare del fatto che YouTube è pieno di cartoni doppiati con parolacce di ogni genere, i cui link fanno capoli-no intorno al video originale. Insomma, o resti accanto ai i-gli tutto il tempo, oppure ri-spolveri una vecchia amica: la televisione. Eh sì, perché l’ex “cattiva maestra” è diventata

una scatola inofensiva. Nien-te sorprese, niente virus, solo il cartone animato scelto da te, meglio ancora se in dvd. Eppu-re, mentre ti rispondo, mi sem-bra di sentire la voce di quei genitori che trent’anni fa dice-vano: “Spegnete la tv e leggete un buon libro!”. E mi viene il dubbio di essere un genitore all’antica. u

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazionale. Ha scritto Hello daddy! (Mon-dadori 2011). Risponde alle do-mande dei lettori all’indirizzo [email protected]

Dear daddy

L’innocua televisione

Erroridi calcolo

Le correzioni

u “Undicimila metri quadrati di mare per produrre l’1 per cento della benzina consuma-ta negli Stati Uniti. Siete sicu-ri?”, scrive un lettore. “È un’af-fermazione insostenibile”, os-serva un altro. Hanno ragione: l’articolo di Science citato a pa-gina 87 nello scorso numero parlava di chilometri quadrati, non metri. I numeri sono tra i nostri errori più frequenti. Nel-le ultime dieci settimane ab-biamo dovuto correggerli quattro volte. Non siamo i soli. Recentemente Philip B. Cor-bett, incaricato della revisione dei testi al New York Times, ha richiamato all’ordine i colle-ghi: “Non diremmo mai ‘mille’ per dire ‘uno’. Allora perché scriviamo ‘miliardi’ invece di ‘milioni’? Il coeiciente di er-rore è lo stesso”. Un numero sbagliato fa crollare la credibi-lità di un articolo e suggerisce che chi l’ha scritto non ci ha ri-lettuto neanche un secondo. “Serve un cambiamento cultu-rale”, scrive il garante dei let-tori del Guardian, Chris El-liott. Il problema, secondo lui, è che la matematica non è con-siderata una competenza gior-nalistica. I giornalisti, però, non hanno mai avuto tanti strumenti per fare veriiche: in rete c’è tutto, dalle banche dati delle organizzazioni interna-zionali ai convertitori che tra-sformano velocemente piedi in metri, once in chilogrammi e dollari in euro.

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

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Editoriali

L’Unione europea può già ringraziare Mario Monti. Il presidente del consiglio italiano, ex commissario europeo con molti agganci nell’élite inanziaria internazionale, in poche settimane ha oferto ciò che era mancato negli ultimi due anni di incoerente gestione comune della crisi dei de-biti pubblici: una sottile combinazione di credibi-lità, tenacia e lucidità.

Noto a Bruxelles per i suoi buoni rapporti con la Germania, di cui ammira il successo economi-co, Mario Monti ha subito cambiato i termini del dibattito. La soluzione alla crisi può essere solo comunitaria, solidale e orientata a una rapida ri-presa della crescita. Se le istituzioni europee con-tinueranno a sprofondare nel rigore in nome di un’eccessiva prudenza di bilancio, iniranno per alienarsi i cittadini, inendo così in un vicolo cie-co.

Questa idea è sostenuta da un percorso ben preciso. Liberale convinto, Mario Monti è legato anche alla tradizione democristiana che ha getta-to le basi dell’Unione europea. Un vantaggio non da poco in un contesto di siducia generalizzata come quello attuale. La sua vicinanza a Herman Van Rompuy, il cattolico belga presidente del

Consiglio europeo, e la sua conoscenza della Commissione, di cui difende strenuamente le competenze, facilitano gli scambi e contribuisco-no ad aumentare la iducia verso di lui. Adesso l’Italia, terza potenza economica della zona euro, ne è anche uno dei pilastri. Il suo naufragio inlig-gerebbe alla moneta unica un colpo tale da por-tarla sull’orlo dell’implosione.

L’altra lezione europea del professore è quella impartita ad Angela Merkel. In un’intervista rila-sciata al Financial Times, Monti ha messo in guardia la cancelliera “contro il rischio di pesanti reazioni nei paesi sottoposti a enormi sforzi di di-sciplina”, invitando la Germania, “nel suo stesso interesse”, a scendere in campo con tutto il suo peso per rassicurare i mercati e consentire un ab-bassamento dei tassi di interesse.

In termini semplici, si tratta di uno scambio per ritrovare competitività. E le contestazioni che il premier italiano ha dovuto afrontare in patria sono la migliore delle argomentazioni a sostegno della sua strategia. Senza una contropartita per gli italiani, diicilmente Mario Monti riuscirà a vincere il braccio di ferro con le corporazioni. Sul piano europeo il discorso è lo stesso. u gim

La lezione del professor Monti

I debiti del calcio europeo

Richard Werly, Le Temps, Svizzera

Le Monde, Francia

Se esistesse un’agenzia di rating per le squadre di calcio, la maggioranza di quelle europee verrebbe retrocessa in seconda divisione. Come i governi del vecchio continente, infatti, anche i club sono travolti dai debiti. Secondo le cifre rese note il 25 gennaio dalla Uefa, le perdite totali delle squadre europee alla ine del 2010 hanno raggiunto la ci-fra record di 1,6 miliardi di euro, con un aumento del 33 per cento in un anno. Il 56 per cento dei 665 club di prima divisione che hanno comunicato alla Uefa i dati di bilancio hanno registrato una perdita al netto. Altro record: il totale dei debiti ammonta ormai a 8,4 miliardi di euro. Conside-rando il contesto economico globale, le previsioni per il futuro non sono delle migliori.

Il presidente dell’Uefa Michel Platini ha ragio-ne quando parla di “situazione allarmante per il calcio europeo”, e dice che “non si può chiedere ai paesi di stringere la cinghia se noi non facciamo nulla”. Per cambiare le cose Platini vorrebbe un sistema di controllo per risanare i conti dei club basato su un principio semplice di fair play: nes-

sun club deve spendere più di quanto guadagna. Da una decina d’anni, soprattutto a causa

dell’arrivo di nuovi investitori con risorse inesau-ribili e non sempre trasparenti, il calcio europeo è entrato in una spirale folle. I club si afrontano a colpi di decine di milioni di euro per assicurarsi i giocatori migliori. Un caso di scuola sono i nuovi padroni del Paris Saint-Germain, la Qatar In-vestment Authority, che hanno speso più di 100 milioni di euro dall’inizio della stagione.

Il fair play inanziario voluto da Platini è dun-que essenziale, sia per riequilibrare i conti sia per ristabilire l’equità delle competizioni. Oggi, infat-ti, i club che dominano in Europa sono anche i più indebitati. Manchester United e Chelsea sono in testa alla classiica dei debiti, seguiti a poca di-stanza da Real Madrid e Barcellona. Il presidente dell’Uefa ha promesso di punire i club che a parti-re dalla prossima stagione non rispetteranno le nuove regole del fair play inanziario. Secondo Platini ne va della “salvezza del calcio”. Vedremo se le capitaine si farà rispettare. u as

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Italieni), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Diana Corsini, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Giusy Muzzopappa, Maria Nadotti, Floriana Pagano, Gabriela Preda, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella, Nicola VincenzoniDisegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Alessia Cerantola, Catherine Cornet, Gabriele Crescente, Giovanna D’Ascenzi, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Antonio Frate, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Diana Santini, Angelo Sellitto, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 80660287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 1 febbraio 2012

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(l’intera Unione) o 28 (con la Croazia, che entrerà nel 2013). La buona notizia è che i leader europei hanno dimostrato di saper negoziare in tempi rapidi quando vogliono davvero (e quando britannici e cechi deci-dono di farsi da parte). Ma non è detto che l’elettorato europeo sarà altrettanto dispo-nibile ad accettare le imposizioni della Ger-mania in materia di bilancio. Resta inoltre da capire se i leader europei abbiano davve-ro trovato una soluzione in grado di frenare la crisi. L’obiettivo del nuovo patto è impor-re un equilibrio di bilancio agli stati irmata-ri. In un contesto di crescita economica si tratterebbe di un’ottima idea, ma in questi tempi di crisi molti temono che regole così severe possano portare alla recessione e rendere paradossalmente più diicile rag-giungere l’equilibrio di bilancio. È per que-sto che i leader europei hanno improvvisa-mente deciso di occuparsi anche di piani per la crescita e l’occupazione, con partico-lare attenzione al problema della disoccu-pazione giovanile. La cancelliera tedesca Angela Merkel, principale sponsor del trat-tato iscale, lo ha deinito un grande succes-

so. Ma c’è chi non è così entusiasta. “È un diversivo”, confessa un diplomatico. “Sia-mo passati dal dannoso all’inutile”, gli fa eco un europarlamentare. Perfino Mario Monti, di questi tempi l’italiano più apprez-zato all’estero, ha definito l’accordo “un merlo decorativo”.

Per contrasto i due elementi che nelle prossime settimane potrebbero davvero inluire sul corso della crisi – il destino della Grecia e la creazione di un sistema salvasta-ti più eiciente – sono stati ignorati o relega-ti ai margini del dibattito. Con i negoziati ancora aperti tra il governo di Atene e i cre-ditori privati sulla cancellazione del debito greco, i leader europei avranno forse pensa-to che non era il momento opportuno per occuparsi dei problemi greci. Angela Mer-kel, del resto, ha tutto l’interesse a smorza-re i toni, dopo la proposta tedesca di inviare un commissario incaricato di controllare i conti pubblici del paese. La cancelliera si è detta “frustrata” per la mancanza di colla-borazione da parte di Atene, ma ha precisa-to che non intende imporre alla Grecia una perdita di sovranità così pesante. Il presi-dente francese Nicolas Sarkozy ha aggiunto che “l’idea di mettere Atene sotto tutela è fuori discussione”.

Nel frattempo, probabilmente per paura di un contagio, i leader dell’eurozona han-no ribadito che costringere i creditori priva-ti ad assumersi le conseguenze della ristrut-

14 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

Considerati gli standard dei summit precedenti, questa volta i leader europei hanno inito presto, alle dieci di sera del 30 gennaio. Dopo gli

scontri agli ultimi vertici, l’atmosfera era distesa, quasi amichevole. L’accordo sul trattato che inasprisce le regole di bilancio è stato raggiunto in tempi record, meno di due mesi. Il contenzioso inale tra Francia e Polonia sulla partecipazione dei paesi che non hanno la moneta unica ai summit dell’eurozona è stato risolto grazie a un compromesso complicato. In futuro il nu-mero degli invitati ai vertici dell’Unione europea sarà variabile: 17 (l’eurozona), 23 (i paesi dell’ormai dimenticato Patto Euro-Plus), 25 (i firmatari del patto fiscale), 27

L’Europa dell’austerità

The Economist, Gran Bretagna

Il 30 gennaio a Bruxelles 25 paesi dell’Unione europea hanno raggiunto l’accordo sul nuovo trattato iscale. Ma il rigore basterà a salvare l’eurozona?

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u Il 30 gennaio i leader di 25 dei 27 paesi dell’Unione eu-ropea hanno raggiunto un ac-cordo su un nuovo trattato che inasprisce la disciplina di bi-lancio dei singoli stati: il dei-cit massimo tollerato sarà del-lo 0,5 per cento del pil, mentre il debito pubblico non potrà superare il 60 per cento. Que-sta norma, la cosiddetta regola d’oro, sarà integrata obbliga-toriamente nelle costituzioni dei paesi irmatari: i 17 stati dell’eurozona più altri otto pae si dell’Ue. Rimangono fuo-

ri la Gran Bretagna e la Re-pubblica Ceca. Per la ridu-zione del debito è previsto che i paesi oltre la soglia del 60 per cento possano rientrare nei parametri riducendo il debito eccedente di un ventesimo all’anno. Il trattato sarà siglato uicialmente il 1 marzo 2012 e dovrebbe entrare in vigore dal primo gennaio del 2013. I lea-der europei hanno anche deci-so di anticipare il varo del Meccanismo permanente di stabilità (Esm), che dal 1 luglio 2012, un anno prima della data

issata, sostituirà il fondo sal-vastati (Efsf ), già usato per aiutare Grecia e Portogallo. La decisione sulla dotazione inanziaria dell’Esm – 500 0 750 miliardi di euro – sarà pre-sa a marzo. Uno dei punti più discussi del vertice è stato la richiesta della Polonia di par-tecipare ai summit dei paesi dell’eurozona. Alla ine è stato deciso di portare le riunioni annuali della zona euro alme-no a tre, una delle quali sarà aperta ai paesi che non hanno la moneta unica. El País

Da sapere Cosa prevede il trattato

Attualità

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 15

turazione del debito greco è una misura “eccezionale”. Intanto lo spread dei titoli portoghesi ha raggiunto livelli allarmanti, e le prospettive per Italia e Spagna sono in-certe. Per quanto riguarda il potenziamen-to del fondo salvastati, la Germania ha ignorato le richieste di accorpare l’attuale Fondo europeo di stabilità inanziaria (Efsf) e il nuovo Meccanismo europeo di stabilità (Esm), aumentando così la dotazione da 500 a 750 miliardi di euro. Merkel ha di-chiarato che la questione sarà afrontata a marzo, come già stabilito durante l’ultimo vertice.

Le certezze di MerkelQuesta volta Londra ha deciso di evitare lo scontro, dopo che nella riunione del 9 di-cembre aveva alzato le barricate, minac-ciando di porre il veto a qualsiasi modiica dei trattati che non tutelasse il settore inan-ziario. Lo stallo ha costretto gli altri 26 stati dell’Unione a negoziare l’accordo fuori dai trattati europei, e la Gran Bretagna si è limi-tata a osservare in silenzio. In patria il pre-mier David Cameron deve fare i conti con la pressione degli euroscettici, convinti che Londra dovrebbe scatenare una battaglia legale per impedire ai irmatari del patto di fare ricorso alle istituzioni comunitarie co-me la Commissione europea e la Corte di giustizia europea. “Reagiremo solo se sa-ranno minacciati gli interessi del nostro

Le opinioni

I nvece di concentrarsi sul patto iscale e sul fondo salvastati, i leader europei che si sono riuni-

ti a Bruxelles il 30 gennaio avrebbe-ro fatto meglio a pensare alla situa-zione della Grecia”, scrive il quoti-diano tedesco Süddeutsche Zei-tung . “Gli strumenti per la stabiliz-zazione dell’euro sono misure a me-dio e lungo termine, mentre Atene rischia di fallire adesso, con conse-guenze imprevedibili per tutta l’eu-rozona”. Il tentativo tedesco di com-missariare la politica di bilancio di Atene, poi rientrato, è bocciato dal quotidiano greco Kathimerini: “La creazione di un commissario per l’austerità sarebbe inaccettabile. La Grecia è già devastata dai debiti e dai tagli, misure che non aumente-ranno la crescita ma la povertà. An-che se è stata solo una provocazio-ne, il rischio è quello di spingere Atene sempre più ai margini della zona euro”. Il quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, invece, deini-sce il nuovo patto “l’atto fondante di una nuova Unione, in cui i paesi esclusi dall’euro sono membri di se-conda categoria. Il trattato ofre an-che un’ottima opportunità per sba-razzarsi del mito secondo cui la Po-lonia dipende dalla Germania e vive di sussidi. Inine, dobbiamo congra-tularci con Parigi e Berlino per aver portato avanti una politica eicace, con obiettivi nazionali chiarissimi. Noi polacchi, invece, ci limitiamo a improvvisare”. Piuttosto critico ver-so il nuovo trattato (“non porta nes-sun beneicio politico”) è anche il ceco Hospodářské Noviny, che però è severo soprattutto con il pre-mier Peter Nečas: “Praga ha scelto di non sedersi al tavolo europeo ma nemmeno di restare in anticamera. Preferisce origliare da uno stanzino, da dove è diicile inluenzare la rot-ta dell’Europa”.

Soddisfattia metà

paese. E oggi ho fatto presente che osserve-remo attentamente l’evolversi della situa-zione”, ha sottolineato Cameron. In ogni caso il premier britannico è ancora ai ferri corti con Sarkozy. In un’intervista televisiva il presidente francese ha dichiarato che la Gran Bretagna “non ha più un’industria”, e Cameron ha risposto elencando le grandi case automobilistiche britanniche e quelle straniere che investono nel paese (Honda, Toyota e Nissan). Il premier ha poi aggiunto che già pregusta il momento in cui le ban-che francesi si sposteranno oltremanica per sfuggire alla tassa sulle transazioni inan-ziare promessa da Sarkozy.

La dinamica più interessante, comun-que, resta quella tra Germania e Francia, soprattutto in vista delle presidenziali fran-cesi di aprile. La cancelliera ha dichiarato che sosterrà Sarkozy, ricordando che in pas-sato il presidente francese aveva fatto lo stesso con lei. Tuttavia Merkel ha precisato che non sarebbe un problema se vincesse François Hollande (attualmente in testa ai sondaggi), anche se il candidato socialista ha promesso di rinegoziare l’accordo rag-giunto e ha impedito a Sarkozy di inserire la regola d’oro nella costituzione francese. In-terrogata sull’eventualità di portare in tri-bunale la Francia per il mancato rispetto delle regole sull’equilibrio di bilancio, come previsto dall’accordo appena raggiunto, la cancelliera ha risposto seccamente: “Non riesco a immaginare la possibilità di portare la Francia in tribunale, perché non riesco a immaginare la possibilità che la Francia non adotti la regola d’oro”. u as

Monti, Sarkozy e Merkel a Bruxelles il 30 gennaio 2012

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Il debito pubblico nell’eurozona, percentuale del pil

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97,2

72,2

Da sapere

44,5

45,5

49,1

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16 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

Europa

La Romania si trova in una situa-zione in cui tutte le soluzioni sembrano inutili. E questo perché dietro alle manifestazioni che dal

12 al 25 gennaio hanno incendiato le strade delle città romene ci sono gli errori di tutti. Il primo colpevole è il presidente Traian Ba-sescu, travolto di nuovo dalla sua impulsivi-tà. Basescu si è lanciato in un’inutile pole-mica con una persona che merita rispetto per quello che ha fatto: il medico Raed Ara-fat, sottosegretario alla salute e fondatore dell’eiciente servizio di medicina d’urgen-za romeno, da sempre contrario alla priva-tizzazione della sanità. Dopo aver criticato Arafat, il presidente è intervenuto in diretta in tv per attaccarlo personalmente. E così ha dato il via alle rivolte. Poi ha commesso un altro errore: ha preso in giro i cittadini, cancellando un provvedimento, quello sul-la privatizzazione della sanità, che aveva sostenuto ino a poco prima. E i romeni gli hanno voltato le spalle. Parte della colpa potrebbe anche ricadere sui suoi consiglie-ri. Ma quali consiglieri? Alla ine è sempre Basescu a prendere le decisioni da solo, senza pensare alle conseguenze.

Il secondo colpevole è il governo. Posso anche credere all’onestà del premier Emil Boc. Ma non posso non sottolineare la sua modestia come politico e amministratore. Boc guida la Romania come fosse un paesi-no di provincia. Non si capisce come abbia formato la squadra di governo né perché abbia scelto per le posizioni chiave degli inetti invece di persone competenti ed esperte. Il terzo colpevole è l’opposizione. I partiti che si oppongono a Basescu riescono a perdere consensi anche in un momento in cui basterebbe stare fermi e approittare

degli sbagli degli avversari per risalire nei sondaggi. Ma l’opposizione non convince nessuno: non è capace di proporre un pro-gramma politico più articolato di “Abbasso Basescu!”. E come i loro colleghi al gover-no, anche i leader dell’opposizione hanno contribuito ad aumentare la distanza tra i cittadini e la politica. Il quarto colpevole è la stampa, che si diverte a eccitare gli animi dei cittadini, bombardati da immagini di disastri e violenze. La retorica apocalittica e i continui piagnistei non servono a mobi-litare i cittadini, ma solo a difondere la di-sperazione e a minacciare l’informazione e lo spirito critico. Ogni sera piccoli gruppi di preiche mettono in scena manifestazioni contro il ritorno della dittatura. Non hanno un’idea o un programma chiari, ma recita-no slogan preconfezionati dalla tv: “Abbas-so la dittatura”, “Basescu come Ceause-scu”.

Colpevole numero cinque: il contesto internazionale. Molti ripetono quello che hanno visto in tv. La primavera araba, gli indignati spagnoli, i ribelli greci, Occupy Wall street: queste manifestazioni sono di-ventate dei modelli. Il messaggio che è pas-sato è: “Facciamolo anche noi, per dimo-strare che siamo nella stessa barca”. Ovvia-

mente con rivendicazioni molto confuse: dalle richieste di libertà per il presidente della lega calcio romena, coinvolto in un caso di corruzione, all’eliminazione del bol-lo auto ino alle dimissioni del governo.

Il fantasma della dittatura Alcuni dimostranti hanno lanciato pietre, altri hanno bruciato le foto dei politici, altri ancora sono rimasti a guardare, stanchi del-la povertà e della confusione istituzionale. Si è visto anche qualche politico in cerca dell’abbraccio del popolo e qualche reduce della rivoluzione del 1989. Quel che nessu-no ha detto, però, è che oggi questi problemi sono comuni a tutto il mondo. E che nessun governo con la testa sulle spalle avrebbe po-tuto prendere misure radicalmente diverse da quelle prese da Bucarest. Il rischio sareb-be stato quello di peggiorare le cose, consi-derato che, a diferenza di altri paesi, noi abbiamo un passato pieno di frustrazioni, un presente di umiliazioni e privazioni e nessuna prospettiva per il futuro. Nessuno sa cosa succederà se saranno accolte le ri-chieste della piazza. L’opposizione al gover-no? Il caos? L’arrivo di un uomo della prov-videnza? Una cosa è certa: a quelli che lotta-no contro la “dittatura”, in piazza o in tv, non piace essere contraddetti. Chi difende il governo rischia di essere aggredito. C’è il rischio di passare dalla dittatura della bor-ghesia a quella del proletariato. u gp

Andrei Pleșu è uno scrittore e critico d’arte romeno. È stato il primo ministro della cultu-ra dopo la ine del comunismo, nel 1989, ed è il direttore del settimanale Dilema Veche.

Le proteste in Romania e le colpe della politica

Le manifestazioni dei giorni scorsi nelle città romene sono state alimentate dal malcontento dei cittadini e dagli errori del governo. Ma i problemi di fondo sono comuni a tutta l’Europa

Andrei Pleșu, Dilema Veche, Romania

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Bucarest, 15 gennaio 2012

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 17

SLOVENIA

Il ritorno di Janša Nonostante la sconitta alle ele-zioni del 4 dicembre, il nuovo premier sloveno è il leader con-servatore Janez Janša (nella fo-to), che il 28 gennaio ha ricevuto

l’investitura dal parlamento con 51 voti favorevoli su 90. Due set-timane prima il vincitore del vo-to, Zoran Janković, non era riu-scito a ottenere la iducia del parlamento. Janša, che ha gui-dato il paese dal 2004 al 2008, “torna al potere in circostanze molto diverse”, scrive Delo. “Questa volta guiderà una coali-zione di cinque partiti, che stan-no già litigando per la spartizio-ne dei ministeri. Questo spiega perché uno dei deputati della maggioranza non ha votato la i-ducia a Janša”. Il governo dovrà anche afrontare la crisi econo-mica e, come se non bastasse, nei prossimi mesi Janša dovrà difendersi dalle accuse legate a un caso di corruzione nell’acqui-sto di armamenti.

La Deutsche Bank, la più grande banca tedesca e “l’unica di livello mondiale” in Germania, cambia i vertici. “Tra poche settimane”, racconta Der Spiegel, “l’amministratore delegato Josef Ackermann lascerà il posto ad Anshu Jain”, il manager indiano che negli anni della inanza selvaggia ha fatto

guadagnare miliardi all’istituto di Francoforte, puntando sui complicati titoli inanziari legati ai mutui spazzatura statunitensi. “A lungo”, osserva il settimanale, “molti hanno creduto che la Deutsche Bank fosse estranea ai pasticci inanziari che hanno spinto il mondo sull’orlo di una seconda grande depressione. Ma oggi è sempre più chiaro che le cose stavano diversamente”. I bilanci dell’istituto sono pieni di titoli tossici e negli Stati Uniti sono in corso azioni legali che potrebbero costringere la Deutsche Bank a pagare risarcimenti miliardari per aver mentito sulla solidità dei titoli venduti ai clienti. Una minaccia che rischia di avere conseguenze gravi per l’intero settore bancario tedesco. “E ora proprio Jain, il maggiore responsabile di questi afari poco trasparenti, arriva ai vertici della Deutsche Bank. È il giusto premio per uno dei manager che hanno provocato la crisi inanziaria globale?”. ◆

Germania

I guai di Deutsche Bank

Der Spiegel, Germania

FRANCIA

La Tobin taxdi Sarkozy In un’intervista con le principali tv francesi il presidente Nicolas Sarkozy (nella foto) ha annuncia-to nuove misure economiche, tra cui l’introduzione di una sor-ta di Tobin tax locale. L’imposta, pari allo 0,1 per cento delle tran-sazioni inanziarie compiute dalle società quotate in Francia, dovrebbe entrare in vigore ad agosto, “indipendentemente dalle decisioni degli altri paesi europei”, ha detto Sarkozy, che non è ancora uicialmente can-didato alle presidenziali di apri-le. Tuttavia, osserva Le Monde, la tassa farà incassare circa un miliardo di euro all’anno, molto di meno rispetto a quanto previ-sto nel progetto presentato da Parigi nel 2011 a Washington.

BELGIO

Primo scioperoper Di Rupo Il 30 gennaio il Belgio si è ferma-to per lo sciopero generale in-detto dai sindacati contro le mi-sure di rigore del governo guida-to dal socialista Elio Di Rupo. La mobilitazione, che si è svolta contemporaneamente al vertice europeo sulla crisi, ha riguarda-to soprattutto i trasporti, ed è stata più partecipata in Vallonia e a Bruxelles che nelle Fiandre. Secondo La Libre Belgique, però, non è servita a molto, per-ché le principali richieste dei sindacati erano già state prese in considerazione dal governo.

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SLOVACCHIA

In piazza contro i gorilla “Le banane sono inite”, con questo slogan volutamente iro-nico il sito protestgorila.sk invita i cittadini slovacchi a scendere in piazza il 3 febbraio per prote-stare contro i “gorilla”, cioè i po-litici e gli uomini d’afari corrot-ti. Tutto è cominciato poco pri-ma di Natale, scrive Sme, quan-do sul web è stato difuso un do-cumento dei servizi segreti dal nome in codice “Gorilla”. Il do-cumento, confermato da diversi riscontri, racconta come i politi-ci del precedente governo di centrodestra, guidato da Mikuláš Dzurinda, si sono spar-titi aziende e appalti a suon di milioni. Si tratta di un terremoto che, alla vigilia del voto legislati-vo del 10 marzo, potrebbe favo-rire i partiti più disponibili ad accettare le indicazioni econo-miche in arrivo da Bruxelles.

IN BREVE

Regno Unito Il 25 gennaio il premier scozzese Alex Salmond ha avviato le consultazioni per decidere come si svolgerà il re-ferendum per l’indipendenza della Scozia, previsto nel 2014.Russia La commissione eletto-rale ha escluso il 27 gennaio il li-berale Grigori Javlinski dalle presidenziali del 4 marzo.Spagna Il 31 gennaio il tribuna-le supremo ha respinto la richie-sta della procura di archiviare il processo contro il giudice Balta-sar Garzón, accusato di aver vio-lato l’amnistia sul periodo fran-chista con le sue indagini.

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Le violenze in Siria non accen­nano a fermarsi. La Lega araba non sa più che fare. La segreta­ria di stato statunitense Hillary Clinton continua ad alzare la

voce alle Nazioni Unite, ma il regime siria­no e i suoi fedeli sostenitori del partito Ba­ath non fanno passi indietro. Gli unici a non essere sorpresi dalla situazione sono i paesi arabi: la Siria – che è considerata dai baathi­sti la madre del popolo arabo – è da sempre un osso duro. I suoi leader sono tra i più te­naci del Medio Oriente, abituati a quelli che Shakespeare avrebbe definito “i colpi di ionda e i dardi” scagliati dai nemici e dagli

amici. Il no di Damasco alla pace con Israe­le senza un ritiro incondizionato dalle altu­re del Golan è famoso quanto il no di Char­les De Gaulle all’ingresso della Gran Breta­gna nel mercato comune europeo. Ma il re­gime siriano non ha mai dovuto afrontare una crisi come quella in corso. Il numero dei morti è ancora lontano dalle diecimila o ventimila vittime della rivolta di Hama del 1982, stroncata da Hafez al Assad. Tuttavia le dimensioni della ribellione, le defezioni nell’esercito siriano, la perdita di tutti gli alleati arabi (tranne naturalmente il Liba­no) e il lento scivolamento verso la guerra civile dimostrano che siamo di fronte al momento più diicile nella storia del paese dall’indipendenza.

Un simboloAssad può resistere? Ha l’appoggio della Russia. Il primo ministro russo Vladimir Putin e il presidente Dmitrij Medvedev non hanno intenzione di farsi mettere i piedi in

testa dall’occidente alle Nazioni Unite, co­me è successo l’anno scorso quando l’impo­sizione della no ly zone sulla Libia ha porta­to alla caduta di Muammar Gheddai. E c’è anche l’Iran, per il quale la Siria resta l’allea­to più solido in Medio Oriente. I sospetti del governo iraniano, sul fatto che la comunità internazionale stia attaccando Damasco a causa dei suoi rapporti con Teheran, po­trebbero non essere infondati. Colpire la Siria e il suo presidente alawita signiiche­rebbe colpire al cuore l’Iran.

Israele resta in disparte, perché teme che il prossimo regime siriano possa essere più intransigente di quello attuale. Ma la Siria è anche un simbolo. Agli occhi degli arabi è l’unico paese che abbia osato oppor­si agli occidentali. Damasco è stata l’unica a condannare l’accordo di pace del presi­dente egiziano Anwar Sadat con lo stato ebraico, l’unica a voltare le spalle a Yasser Arafat e al suo fallimentare progetto di pace con Israele. Damasco ha sidato coraggio­

18 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

Damasco va alla guerra Robert Fisk, The Independent, Gran Bretagna

La Siria sta scivolando verso la guerra civile, ma Bashar al Assad sembra determinato a rimanere al potere. Anche se è sempre più solo

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Combattenti dell’Esercito siriano libero a Rankus, 28 gennaio 2012

u “Il regime di Assad mostra chiari segni di cedimento”, sostiene Hazem Saghié, opinionista di Al Hayat. “C’è un’escalation di omicidi e le diserzioni nell’esercito sono numerose”. Solo nell’ultima settimana sono morti 400 siriani. La situazione economica è peggiorata, con l’inlazione alle stelle, e l’autonomia alimentare della Siria è ormai a rischio. u È chiaro che gli occidentali non sono mai stati cosi pronti a intervenire, spiega il quotidiano Al Akhbar. La Russia, però, è contraria all’intervento e sembra irremovibile. Putin, in vista delle elezioni presidenziali, tiene duro sul sostegno ad Assad anche perché vuole mostrare la sua forza all’occidente. u Il 31 gennaio il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito per discutere del piano proposto dalla Lega araba sulla crisi siriana, ma il dibattito si è arenato perché Mosca è contraria a qualsiasi ingerenza.

Da sapere

Attualità

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 19

samente l’invasore francese nel 1920 e di nuovo nel 1946, ino a quando il parlamento di Damasco è stato dato alle iamme per stroncare la resistenza. Washington accusa la Siria di essere uno stato espansionista, ma la verità è che negli anni Damasco ha costantemente perso territori. Ha perso il Libano a causa delle mire francesi. Nel 1967 ha perso le alture del Golan, passate sotto il controllo di Israele. Nel mondo arabo c’è grande simpatia per la Siria, anche se non si può dire lo stesso per il regime che la gover-na. Bashar al Assad, che non è servile come Hosni Mubarak, ma nemmeno un pazzo scriteriato come Muammar Gheddai, ne è perfettamente consapevole. Decenni di stabilità non hanno liberato la Siria dalla corruzione e la dittatura si è afermata gra-zie alla tendenza molto radicata nei popoli arabi a tollerare il male minore: meglio la dittatura dell’anarchia, meglio la pace della libertà, meglio il laicismo delle divisioni re-ligiose. Per rendersi conto di quali fossero le conseguenze di uno stato confessionale, ai siriani bastava guardare il Libano, dila-niato dalla guerra civile.

Provo un certo imbarazzo per le parole che ho scritto ai tempi del conlitto in Liba-no, quando sostenevo che un giorno, dopo che l’esercito siriano era stato per anni in missione di pace in Libano, l’esercito liba-nese avrebbe potuto essere chiamato in missione di pace in Siria. All’epoca era una provocazione, ma forse oggi non lo è più. Una missione di pace dell’esercito libanese in Siria potrebbe essere una soluzione. Sa-rebbe paradossale, considerando la presen-za dell’esercito siriano in Libano dal 1976 al 2005. Ma rende l’idea del cambiamento in corso in tutto il Medio Oriente. La verità è che il regime siriano dovrà sbrigarsela da solo. La dottrina degli Assad è sempre stata quella di resistere a tutti i costi.

Ma il bagno di sangue a Homs e nel resto del paese e le torture fanno pensare che As-sad sia davvero al capolinea. I siriani vengo-no uccisi in strada come gli egiziani, i libici e gli yemeniti. Assad sembra ancora con-vinto di poter realizzare le riforme prima che il paese si disintegri. Nessuno crede che possa farcela. Ma c’è una domanda che non ci siamo ancora posti. Se il regime siriano riuscirà davvero a sopravvivere, che ne sarà della Siria? u as

Robert Fisk è il corrispondente mediorien-tale del quotidiano britannico The Indepen-dent.

La Lega araba ha chiesto al Con-siglio di sicurezza dell’Onu di sostenere il suo piano per risol-

vere la crisi in Siria e ora la possibilità di un intervento internazionale è più con-creta. Negli ultimi mesi sono state fatte molte ipotesi su come andrà a inire in Siria. La tesi più accreditata sostiene che la violenza continuerà ino a quan-do il collasso dell’economia spingerà alcune importanti personalità del regi-me a organizzare un colpo di stato con-tro Bashar al Assad. Il golpe potrebbe essere guidato da uiciali dell’esercito, alawiti e sunniti, disposti a trovare un accordo con gli oppositori del regime.

Questo avvierebbe un percorso di autentica democratizzazione politica del paese ed eviterebbe probabili riper-cussioni contro gli alawiti (la minoran-za a cui appartiene il presidente Assad) dopo il crollo del regime. Secondo un’altra tesi molto difusa, invece, la Russia si renderà conto che l’atteggia-mento di Assad è destinato al fallimen-to e rinuncerà al veto, accettando l’in-tervento da parte del Consiglio di sicu-rezza delle Nazioni Unite a Damasco. Secondo questa tesi, la diplomazia rus-sa dovrebbe convincere Assad a fare un passo indietro e a lasciare il paese con la sua famiglia, portando con sé il suo patrimonio. Un altro punto di vista, prevede che un gruppo composito for-mato da leader alawiti, uiciali dell’esercito e uomini d’afari potrebbe organizzare un colpo di stato o costrin-gere Assad a uscire di scena, spingen-dolo a consegnare il potere nelle mani di un governo democratico di transi-zione. Una possibilità ancora più dram-matica si proilerebbe se le potenze in-

ternazionali imponessero una no ly zo-ne e aprissero delle vie di fuga lungo i conini settentrionali e meridionali del paese. In questo caso decine di miglia-ia di persone, militari e civili, lascereb-bero il paese. La fuga dei siriani potreb-be essere incentivata dal peggiora-mento della situazione economica.

L’intervento dell’OnuL’imposizione di sanzioni internazio-nali più rigide, compreso il blocco dei collegamenti aerei e delle transazioni bancarie, peggiorerebbe ancora la si-tuazione. Il primo efetto delle sanzioni sarebbe la scarsità di generi di prima necessità e un’inlazione galoppante. A quel punto potrebbero esplodere pro-teste che segnerebbero la ine degli As-sad. Lo scenario peggiore è quello che prevede la polarizzazione della società siriana su base etnica. Questo porte-rebbe a una vera e propria guerra civile e alla distruzione dello stato. Gli alawi-ti potrebbero ritirarsi sulle montagne del nord est e proclamare l’autonomia. Secondo alcuni analisti, sarebbe stato proprio questo lo scopo della crisi poli-tica, in dall’inizio. A innescarla sareb-bero state alcune nazioni straniere, con l’obiettivo di polverizzare la Siria in tanti piccoli stati fondati sulle diverse appartenenze etniche o religiose: ala-witi, drusi, curdi e sunniti. I colpevoli sarebbero Israele e Stati Uniti. Le loro aspirazioni egemoniche sul Medio Oriente, infatti, sarebbero facilitate dalla presenza di stati deboli formati su base etnica al posto di stati più grandi e forti. In un panorama di questo genere, Israele ofrirebbe il suo sostegno ad al-cuni di questi staterelli gettando le basi per la frammentazione dell’area e allo stesso tempo per il raforzamento della sua inluenza nella regione. u gim

Rami Khouri è columnist del quotidia-no libanese Daily Star.

Il coinvolgimento internazionale nel conlitto siriano sembra vicino. Ecco alcuni possibili scenari

Un futuro incerto

Rami Khouri, The Daily Star, Libano

L’opinione

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20 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

Africa e Medio Oriente

La democrazia in Africa fa un pas-so avanti e uno indietro. La ten-sione che si respira in Senegal dal 27 gennaio è un esempio per-

fetto di questa paradossale evoluzione po-litica nel continente. Altrettanto parados-sale è il fatto che a mettere in discussione le conquiste democratiche di questo paese siano state la testardaggine e la sete di po-tere del suo presidente, Abdoulaye Wade, che ha incarnato a lungo le speranze de-mocratiche dei senegalesi.

La sera del 27 gennaio i cinque giudici del consiglio costituzionale, chiamati a de-liberare sull’ammissibilità dei candidati alle presidenziali del 26 febbraio 2012, hanno deciso che l’attuale presidente potrà partecipare alle elezioni anche se concorre per un terzo mandato (una riforma costitu-zionale del 2001 limita a due i mandati pre-sidenziali). Nelle strade di Dakar sono su-bito scoppiati degli scontri tra manifestan-ti e polizia, che hanno causato la morte di un poliziotto. I giovani del Movimento del 23 giugno (M23, che riunisce i partiti d’op-posizione e i rappresentanti della società civile) hanno rovesciato la spazzatura nelle strade, incendiato pneumatici, magazzini e negozi. Le violenze si sono difuse anche a Thiès, Mbour e Kaolack.

Nessuno si aspettava che in Senegal po-tesse succedere qualcosa di simile. I primi presidenti senegalesi avevano dato una grande dimostrazione di saggezza permet-tendo la nascita di dibattiti politici e l’espressione del dissenso. Finora le diver-genze erano rimaste sul piano delle idee. Ma con l’arrivo al potere di Wade queste libertà sono state messe in discussione. Come Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio,

Wade mette in pericolola democrazia senegalese

Il presidente del Senegal, al potere dal 2000, non rinuncia a candidarsi per un terzo mandato. Ma in questo modo rischia di far sprofondare il paese nella violenza

Fodé Kalia Kamara, Guineeconakry.info, Guinea

Wade è stato un leader deludente. E ora, come ha fatto l’attuale ospite della Corte penale internazionale, rischia di mettere il paese a ferro e fuoco a causa della sua os-sessione per il potere. L’opposizione sene-galese è disorientata e sotto shock. Aveva scommesso che la candidatura di Wade sarebbe stata invalidata e ora fatica a dei-nire una strategia di contrattacco.

Fino in fondoIl problema principale della candidatura di Wade non è tanto la legittimità, ma l’età. Quando nel 2000, incarnando le aspira-zioni della gioventù senegalese, Wade era succeduto al socialista Abdou Diouf sotto il segno del sopi (cambiamento), aveva già 73 anni. In dodici anni di governo i giovani che lo sostenevano hanno subìto una delu-sione dopo l’altra. Oggi in pochi pensano che il presidente uscente, sempre più vec-chio e megalomane, possa realizzare le promesse del passato.

Dal canto suo Wade sembra deciso a superare tutti gli ostacoli sulla sua strada, incurante delle proteste. Anche a rischio di far scoppiare una “primavera subsaharia-na”, vuole perseguire ino in fondo la sua logica suicida. u gim

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u Il 30 gennaio il consiglio costituzionale di Dakar ha respinto deinitivamente i ricorsi contro la candidatura di Abdoulaye Wade alle presidenziali del 26 febbraio. I giudici hanno invece bocciato la candidatura del cantante e imprenditore Youssou N’Dour, e di altri due politici. Gli avversari più temibili di Wade saranno Moustapha Niasse, che si è già candidato alla presidenza due volte, e gli ex primi ministri Idrissa Seck e Macky Sall. Il 31 gennaio il Movimento del 23 giugno ha portato in piazza diecimila persone, ma la manifestazione è stata dispersa dalla polizia. In tre giorni di proteste contro il governo sono morte almeno cinque persone.Jeune Afrique

Da sapere

Dakar, 2011. Oppositori del presidente Abdoulaye Wade

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 21

Ecco alcuni modi diversi di co-minciare lo stesso articolo: “Mentre Israele intensiica la colonizzazione, Abu Mazen ha ceduto alle pressioni della Giordania accettando di ri-prendere i negoziati”. Oppure: “Mentre prosegue la coloniz-zazione e i negoziati appena ri-presi sono già in crisi, il segre-tario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, che ha vi-sitato Israele in settimana, ha invitato il governo a compiere alcuni gesti nei confronti dei palestinesi in vista dei colloqui diretti”. O ancora: “Mentre Al

Fatah e Hamas dialogano per mettere ine alle divisioni, i politici occidentali e Ban Ki-moon hanno chiesto all’Olp di non boicottare i negoziati”.

Contro le pressioni dell’oc-cidente si è schierato un picco-lo gruppo di giovani, prove-nienti da movimenti ispirati alla primavera araba. In due-cento hanno manifestato da-vanti alla sede dell’Anp a Ra-mallah, sidando i divieti, per lanciare un messaggio all’Olp: “Non riprendete i rapporti con Israele. Vi chiediamo di non perdere altro tempo al tavolo

dei negoziati, aperti o segreti che siano. Vi chiediamo invece di lavorare per l’unità palesti-nese, di collaborare con tutti i partiti e i movimenti della so-cietà civile per formulare una strategia nazionale basata sul-la resistenza, sulla fermezza e sul boicottaggio economico e culturale dell’entità sionista. E vi chiediamo di indire al più presto elezioni democratiche aperte a tutti i palestinesi”.

Solo il tempo ci dirà se i “palestinesi per la dignità” rappresentano la maggioranza della popolazione. u as

Da Ramallah Amira Hass

Palestinesi per la dignità

Il 23 e 24 gennaio il capo della diplomazia marocchina, Saad Eddine El Othmani, ha compiuto una visita uiciale in Algeria, la prima dal 2003. È anche la prima missione all’estero del nuovo ministro, nominato tra le ile del Partito della giustizia e dello sviluppo (islamici democratici). La scelta di incontrare le autorità di

Algeri è signiicativa, scrive Jeune Afrique, e fa sperare in una normalizzazione dei rapporti tra i due paesi. “Tuttavia la chiusura dei conini nel 1994 e il conlitto nel Sahara occidentale continuano a essere dei motivi di scontro. Per Rabat la priorità è riaprire la frontiera, per Algeri bisogna risolvere prima la questione sahrawi”. Il settimanale panafricano cita uno studio della Banca mondiale, secondo il quale i due paesi trarrebbero molti beneici dall’integrazione delle loro economie. Secondo il quotidiano libanese Al Akhbar, che cita fonti algerine, “la riapertura del conine potrebbe avvenire già questa primavera. Da quando fu chiuso, a causa di una disputa sul rilascio dei visti, si stima che il Marocco abbia perso due milioni di dollari all’anno perché non arrivano più turisti dall’Algeria”. u

Algeria-Marocco

Piccoli passi

Jeune Afrique, Francia

SUDAN

Emergenza in vista Il 28 gennaio il Sud Sudan ha in-terrotto l’estrazione di greggio dopo l’insuccesso dei negoziati tra Juba e Khartoum sui loro conini e sulla divisione dei pro-venti del petrolio (che viene estratto principalmente nel Sud Sudan ma deve transitare per gli oleodotti del nord). La decisione è stata presa dopo che il governo di Khartoum aveva sequestrato a Port Sudan alcune navi cariche di petrolio sudsudanese come risarcimento per le tasse di tran-sito sul suo territorio che Juba non aveva pagato. Intanto negli stati sudanesi del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro continua la guerra tra l’esercito di Khar-toum e i ribelli antigovernativi, tra cui il Movimento popolare di liberazione del Sudan (Splm). Ma, scrive The East African, il vero problema è che tra un mese mezzo milione di persone che vivono nelle aree di conlitto ri-schia di non avere più da man-giare. E il governo sudanese continua a impedire il lavoro delle organizzazioni umanitarie.

IN BREVE

Repubblica Centrafricana Il 29 gennaio l’esercito ha assunto il controllo di una base dei ribel-li ciadiani del Fronte popolare per il risanamento a Wandago.Iraq La coalizione sunnita di opposizione Iraqiya ha messo i-ne il 31 gennaio al suo boicottag-gio del parlamento.Israele Il 31 gennaio il premier Benjamin Netanyahu è stato confermato alla guida del Likud con il 75 per cento dei voti.

UNIONE AFRICANA

Il regalo cinese Il 28 gennaio è stata inaugurata ad Addis Abeba, in Etiopia, la nuova sede dell’Unione africa-na (Ua), un regalo di Pechino da 200 milioni di dollari (nella fo-to). Nel discorso inaugurale il presidente etiopico Meles Zena-wi ha ringraziato la Cina per il suo ruolo nel “rinascimento africano”. Al vertice dell’Ua è stato eletto il nuovo presidente dell’organizzazione: è Thomas Yayi Boni, presidente del Benin. È stata invece rimandata l’ele-zione del capo della commissio-ne dell’Ua perché nessuno dei due candidati ha ottenuto abba-stanza voti, scrive iMaverick.

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Americhe

Per afrontare la perdita di credibi-lità della rivoluzione, Fidel Ca-stro sapeva usare l’arte della pro-paganda. Suo fratello Raúl – che

ha preso le redini del governo nel luglio 2006 a causa della malattia del comandan-te in capo, prima di diventare presidente nel 2008 – non ha questo talento. Cuba sta at-traversando una grave crisi economica e Castro preferisce usare il pragmatismo.

Tra il 1960 e il 1990 L’Avana ha benei-ciato di 39,5 miliardi di dollari di aiuti eco-nomici da Mosca, di 60,5 miliardi di presti-ti a fondo perduto e di materiale bellico per un valore di 13 miliardi. Inoltre per molti anni, grazie ai 3,5 miliardi di dollari donati annualmente dal Venezuela di Hugo Chávez, l’isola ha potuto rinviare alcune scelte dolorose. Ma ora è costretta ad agire. Il 28 gennaio il presidente ha chiesto ai cu-

bani di “cambiare mentalità” per salvare il paese “sull’orlo del precipizio”, in occasio-ne della conferenza del partito comunista, la prima dal 1965. La conferenza è servita per spiegare alla popolazione le profonde riforme economiche messe in campo dal governo.

In venditaLe trecento misure economiche approvate nell’aprile del 2011 dal sesto congresso del partito comunista stanno producendo i pri-mi efetti. Da Santiago all’Avana si vedono cartelli con la scritta “in vendita”. Alla ine del 2011 il regime ha liberalizzato il mercato immobiliare e, per la prima volta dal 1959, i cubani hanno potuto comprare e vendere le

loro case. Gli abitanti dell’isola possono an-che comprare auto. Due mesi dopo l’intro-duzione della riforma sono stati registrati 15mila trasferimenti di proprietà.

Altra piccola rivoluzione: i cubani pos-sono accedere al credito bancario, aprire dei conti correnti e chiedere prestiti. Inoltre il regime ha liberalizzato più di 180 profes-sioni, dal parrucchiere al carpentiere o al restauratore. In un primo tempo i cubani hanno accolto con grande scetticismo que-sta misura, che somigliava a una riforma voluta da Fidel Castro negli anni novanta durante il “periodo speciale”. Ma in poco tempo 360mila cubani sono diventati im-prenditori indipendenti. Per far ripartire la produzione agricola, lo stato ha concesso ai contadini l’usufrutto per 25 anni di 67 ettari di terra. Si stima che entro cinque anni il 40 per cento della manodopera potrebbe lavo-rare nel settore privato. Sembra che Raúl Castro abbia intenzione di licenziare nei prossimi anni circa 1,3 milioni di funzionari dello stato, che è il principale datore di la-voro dell’isola e garantisce l’85 per cento dell’occupazione.

In molti si chiedono come sia possibile che Cuba trasformi radicalmente la sua economia senza riformare il potere politico, la stessa domanda che vale per la Cina . La morte, in seguito allo sciopero della fame, del dissidente Wilman Vilar, il 19 gennaio, e i 796 arresti ordinati dal regime a dicem-bre del 2011 dimostrano l’intenzione di continuare a reprimere qualsiasi dissenso. Il direttore del progetto Cuba siglo XXI del-la Georgetown university Eusebio Mujal-Leon conferma: “Raúl Castro non ha alcu-na intenzione di sposare il capitalismo. Vuole continuare a perseguire gli obiettivi della rivoluzione, ma limitando l’intervento dello stato. Castro è riuscito a preparare una classe dirigente capace di garantire la suc-cessione, ma per farlo ha dovuto sbarazzar-si di alcuni uomini di iducia di Fidel”.

Comandante delle Forze armate rivolu-zionarie (Far) per quasi cinquant’anni, Raúl Castro, una volta al governo, ha reso le Far il principale protagonista della scena politi-ca di Cuba. Le Far controllano i settori chia-ve del paese: la difesa, la sicurezza, le istitu-zioni economiche, gli investimenti esteri. Che succederà dopo Castro? Tutto dipen-derà dal successo delle riforme economi-che. Eusebio Mujal-Leon sostiene che “al-cuni dirigenti dell’esercito potrebbero esse-re l’embrione di una classe sociale capace di fare i conti con il capitalismo”. u adr

Cuba prova a liberalizzare l’economia contro la crisi

Raúl Castro ha chiesto alla conferenza del partito comunista di “cambiare mentalità” per salvare il paese dal collasso, ma in programma non c’è nessuna riforma politica

Stéphane Bussard, Le Temps, Svizzera

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Venditori di frutta all’Avana, 27 gennaio 2012

u Il 31 gennaio la presidente del Brasile Dilma Roussef è arrivata a Cuba in visita uiciale. Brasilia investirà nell’isola 683 milioni di dollari per inanziare la costruzione del porto di Mariel, a 50 chilometri dall’Avana. Qualche giorno prima della partenza, scrive il settimanale Istoé, Roussef ha concesso il visto turistico alla blogger cubana yoani Sánchez che le aveva scritto un appello online.

Da sapere

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 23

Stati Uniti

Romney vince in Florida

Il 20 gennaio, un’ora dopo la conclusione del diciassettesi-mo dibattito di queste inter-minabili primarie repubblica-ne, Stuart Stevens, lo stratega della campagna elettorale di Mitt Romney, se ne stava in una saletta semivuota di un hotel di Charleston a lavorarsi i giornalisti. “Sto pensando di darmi fuoco”, ha detto, esa-sperato dalla quantità di di-battiti che i candidati devono afrontare. Romney non era andato benissimo e il suo principale avversario, Newt Gingrich, aveva trionfato av-viandosi alla vittoria in South

Carolina. Sfumato il sogno di far arrivare Romney imbattu-to alla sida con Obama, Ste-vens e i suoi sono passati all’attacco, sostenendo che Gingrich non ha nemmeno or-ganizzato una campagna elet-torale: si limita a presentarsi ai confronti in tv.

“Ci sono troppi dibattiti”, ammette l’ex presidente del partito repubblicano in South Carolina, Katon Dawson. Il suo candidato, il texano Rick Perry, si è ritirato dopo una se-rie di gafe in tv. “È come un reality show sul partito repub-blicano”. E proprio come nei

reality, la trama è imprevedi-bile. Il dibattito numero 18 non è andato molto bene per Gingrich, quindi per quello successivo di Jacksonville, in Florida, Stevens ha chiamato un nuovo coach e ha deciso di dare fuoco a Gingrich, invece che a se stesso. Resta solo da chiedersi quanto andrà avanti questo spettacolo. u fas

Jason Horowitz è un giornali-sta del Washington Post. Segui-rà le primarie repubblicane per Internazionale. La rubrica di Yoani Sánchez è online: intern.az/Yoani

Da Jacksonville Jason Horowitz

Il reality show dei repubblicani

BRASILE

Il forum socialecontesta l’Onu Tra il 25 e il 29 gennaio si è svolto a Porto Alegre, in Brasile, il Fo-rum sociale mondiale, l’assem-blea dei movimenti antigloba-lizzazione a cui hanno parteci-pato 40mila persone, scrive il settimanale Veja. Il tema cen-trale dell’evento è stato l’am-biente e in particolare le propo-ste alternative a Rio+20, la con-ferenza delle Nazioni Unite sul-lo sviluppo sostenibile prevista nel giugno 2012 a Rio de Janeiro.

IN BREVE

Bolivia Il 30 gennaio duemila indigeni hanno manifestato a La Paz a favore della costruzione di una strada tra le province di Co-chabamba e Beni attraverso una riserva naturale. Il progetto era stato annullato dopo le proteste di altri gruppi indigeni.Haiti Il 30 gennaio un giudice ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex dittatore Jean-Claude Duvalier per corruzione ma non per crimini contro l’umanità.

Il 31 gennaio Mitt Romney ha vinto le primarie in Florida con un distacco di quasi quindici punti su Newton “Newt” Gingrich, vincitore delle primarie in South Carolina. Con il 46,4 per cento dei voti rispetto al 31,9 per cento del rivale, Romney si è aggiudicato i 50 delegati dello stato ed è di nuovo il favorito per la nomination. Rick Santorum e Ron Paul hanno ottenuto rispettivamente il 13,4 per cento e il 7 per cento dei voti. Le prossime primarie si svolgeranno il 4 febbraio in Nevada e Maine. u

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GUATEMALA

L’ex dittatoresotto processo Efraín Ríos Montt (nella foto su un manifesto), ex dittatore del Guatemala, è agli arresti domi-ciliari e sarà processato con l’ac-cusa di genocidio per i crimini commessi durante i 17 mesi del suo governo (1982-1983), scrive il quotidiano guatemalteco El Periódico. Ríos Montt, 85 anni, rischia ino a trent’anni di carce-re per centinaia di violazioni dei diritti umani compiute dall’eser-cito, tra cui la deportazione di 29mila persone e l’uccisione di circa 1.700 indigeni di etnia Ixil. L’ex dittatore è il primo militare del paese a essere processato per i crimini commessi durante i 36 anni di guerra civile, in cui sono morte più di 200mila per-sone.

STATI UNITI

Arrestia Oakland Il 28 gennaio più di 400 persone del movimento Occupy sono state arrestate a Oakland, in Ca-lifornia, in una giornata di duri scontri con la polizia culminata con l’irruzione dei manifestanti nel municipio. Il giorno dopo manifestazioni di solidarietà si sono svolte in tutto il paese. “A washington i ragazzi di Occupy hanno sidato l’ultimatum delle autorità che minacciavano lo sgombero piantando una gran-de tenda comune a McPherson Square”, scrive il Washington Post.

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Tampa, Florida, 31 gennaio 2012

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Asia e Paciico

Recentemente, durante una riu-nione di gabinetto, il presidente uzbeko Islam Karimov ha elo-giato il sistema economico na-

zionale, sostanzialmente un’economia di comando in chiave moderna. Evidente-mente negli ultimi tempi non è uscito dalla capitale. Per molti abitanti dello stato più popoloso dell’Asia centrale, in queste fred-de giornate d’inverno le interruzioni di cor-rente e la carenza di gas sono diventate una realtà quotidiana. Durante la riunione, Ka-rimov ha sciorinato una serie di dati econo-mici incoraggianti, a cominciare da una presunta crescita dell’8,3 per cento del pil nel 2011.

Anche se gli esperti mettono in dubbio l’attendibilità delle cifre uiciali, è verosi-mile che l’Uzbekistan stia attraversando un periodo di forte crescita economica, soprat-

Gli uzbechi non riesconoa scaldarsi

Mentre l’economia del paese cresce grazie alle esportazioni di gas, buona parte della popolazione sta passando l’inverno al freddo. Ma questo non basterà a riempire le piazze

Deirdre Tynan, Eurasianet, Stati Uniti

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Moynaq, Uzbekistan

tutto considerando le consistenti esporta-zioni di gas. Eppure sembra che il governo non abbia alcuna intenzione di condividere il benessere con la popolazione.

I residenti di una delle aree più colpite dalla mancanza di gas, la provincia di Andi-jan, raccontano che le ile davanti alle sta-zioni di servizio sono sempre più lunghe, e che la popolazione è costretta a restare per ore senza riscaldamento né corrente elet-trica. A tashkent le interruzioni di corrente sono all’ordine del giorno per gran parte della popolazione, inclusi gli uici e i nego-zi. negli appartamenti di Andijan il gas arri-va, ma la fornitura non è sempre regolare. C’è anche chi si è allacciato illegalmente alle condutture municipali, sottraendo ai

vicini il gas per il riscaldamento. In autunno le autorità hanno avvertito che le forniture di gas avrebbero potuto interrompersi, invi-tando a usare le stufe a carbone e a legna. Anche la fornitura di benzina è ormai inter-mittente. “A volte le cisterne sono vuote”, spiega un addetto a una stazione di servizio. “E se restiamo senza corrente elettrica non possiamo pompare la benzina nei serbatoi”. Un portavoce di Uztransgaz, l’azienda sta-tale responsabile della distribuzione di gas per il mercato interno e per l’estero, ha di-chiarato che “il gas arriva in tutte le provin-ce dell’Uzbekistan. Forse in alcune regioni remote la pressione è insuiciente, ma sia-mo in grado di risolvere il problema”. Il por-tavoce ha comunque ammesso che il gas per il mercato interno non è molto. “Fornia-mo il gas che abbiamo, e cerchiamo di usare le riserve in modo razionale. non possiamo erogare tutto quello che abbiamo quest’in-verno, perché potremmo restare scoperti l’anno prossimo”, spiega.

secondo gli esperti dietro la carenza di gas ci sono due cause principali: da un lato la priorità data dal governo alle esportazio-ni per accumulare valuta straniera nelle casse dello stato e, dall’altro, infrastrutture vecchie e insufficienti. “Per il governo esportare gas è molto più redditizio che venderlo sul mercato interno. In più, oltre al margine di proitto, c’è da considerare l’in-solvenza della popolazione locale, che non riesce a pagare le bollette”, spiega su-khrobjon Ismoilov, direttore dell’Expert working group, un centro di studi indipen-dente. Il problema dell’approvvigionamen-to energetico si sta aggravando “su scala nazionale”, ha aggiunto Ismoilov.

La primavera è lontanaDiicilmente la carenza di gas e i conse-guenti disagi sfoceranno in manifestazioni di dissenso, spiega Ajdar Kurtov, analista dell’Istituto di studi strategici di Mosca. “È chiaro che la carenza di gas in inverno su-scita nella popolazione risentimento e in-soddisfazione, ma è diicile che tutto que-sto abbia un impatto politico e possa provo-care un cambio di regime. Basti pensare a quando il tagikistan è rimasto a lungo sen-za elettricità e con una popolazione insod-disfatta: nel panorama politico non è cam-biato nulla”, aggiunge Kurtov. “Il regime uzbeco è molto più rigido di quello tagico, e la situazione economica non provocherà alcun cambiamento nella leadership di go-verno”. u as

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 25

TIMOR LESTE

Ramos-Horta ci riprova “Il presidente di Timor Leste José Ramos-Horta (nella foto) ha annunciato che si ricandide-rà alle elezioni in programma il 17 marzo”, scrive il New Zea-land Herald. Ramos-Horta, premio Nobel per la pace nel

1996, è il secondo presidente da quando il paese ha ottenuto l’indipendenza. Tra gli altri candidati spiccano i nomi di Francisco Lu Olo Guterres, ex guerrigliero e già presidente del parlamento, sconitto al secon-do turno nell’ultima consulta-zione, e di Taur Matan Ruak, un generale dell’esercito che è sta-to per anni a capo delle forze armate. Secondo gli osservato-ri, Ruak potrebbe riuscire, gra-zie alla itta rete di alleanze che ha costruito, a strappare la pre-sidenza a Ramos-Horta. Le ele-zioni si terranno proprio mentre i caschi blu si apprestano a riti-rarsi dall’isola. La missione del-le Nazioni Unite era iniziata nel 1999, anno in cui uno storico referendum sancì l’indipenden-za del paese dopo 24 anni di oc-cupazione indonesiana.

Il 16 gennaio la corte suprema giapponese ha stabilito che gli insegnanti delle scuole pubbliche che riiutano di alzarsi in piedi durante l’esecuzione dell’inno nazionale alle cerimonie scolastiche non dovranno ricevere sanzioni eccessive, come è successo inora in molti casi. Chi

riiuta di alzarsi lo fa perché ritiene sia un gesto legato al passato militarista del Giappone. La corte ha deciso che non si possono punire i comportamenti legati alla libertà di espressione. “Non si può parlare di atti illegali e non si possono paragonare questi insegnanti a dei delinquenti”, spiega il giudice Koji Miyakawa. La corte suprema si sta occupando di tre casi presentati da 171 docenti. La decisione della corte suprema mette ine ai provvedimenti disciplinari decisi da alcune prefetture, tra cui quelle di Osaka e Tokyo, che prevedevano tagli agli stipendi o la sospensione dall’insegnamento, oltre a conseguenze inevitabili sulle carriere. La sentenza, tuttavia, lascia la decisione di eventuali misure più blande a discrezione degli istituti e dei provveditorati locali. ◆

Giappone

Libertà a scuola

Shūkan Kinyōbi, Giappone

CINA

Se Pechinonon ascolta Dopo le proteste tibetane di gennaio in Sichuan, dove alme-no tre manifestanti sono morti e decine di persone sono rimaste ferite, Pechino ha annunciato un giro di vite contro “chi è coin-volto in attività separatiste, de-vastatrici e criminali”. Per Hu-man rights in China (Hric), or-ganizzazione indipendente con sede a Hong Kong, il governo di Pechino dovrebbe afrontare i motivi delle proteste. I tibetani, scrive Phayul, chiedono la de-militarizzazione delle aree dove vivono e un maggior rispetto delle loro libertà fondamentali. “È il caso che Pechino agisca re-sponsabilmente prima che sia troppo tardi”, aferma l’ong. Dal marzo del 2011 sedici tibetani si sono dati fuoco per protesta.

INDIA

Uttar Pradeshal voto L’8 febbraio cominciano le ele-zioni governative in Uttar Pra-desh, che si svolgeranno in sette fasi. Lo stato, tra i più poveri dell’India, ha 200 milioni di abi-tanti. La politica è dominata dai partiti locali e il voto è nelle ma-ni delle caste inferiori. La guida del governo uscente, Mayawati, leader del partito dei dalit Bahu-jan Samaj, siderà Mulayam Singh Yadav, a capo del partito Samajwadi con cui il Congress potrebbe allearsi per battere Mayawati, che ha inito il suo quarto mandato.

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AFGHANISTAN

Un documento imbarazzante Secondo un rapporto segreto della Nato pubblicato dalla Bbc e dal quotidiano Times, i servi-zi segreti pachistani stanno aiu-tando direttamente i taliban e conoscono le loro attività e i luoghi dove si trovano i loro ca-pi. Il rapporto, scrive Tolo News, si basa su 27mila inter-rogatori a più di quattromila persone tra cui taliban, uomini legati ad al Qaeda e altri guer-riglieri catturati. “I taliban non sono l’islam, sono Islamabad”, si legge nel rapporto, secondo cui a condurre le attività terro-ristiche su larga scala a Kabul è la rete pachistana degli Haqqa-ni. I taliban avrebbero dichiara-to la capitale “area libera”, do-ve è possibile agire senza coor-dinarsi con i capi locali. Il 1 feb-braio la ministra degli esteri pa-chistana Hina Rabbani Khar, in visita a Kabul, ha negato tutto: “È falso, non abbiamo nessun piano segreto”.

IN BREVE

Cina Il 31 gennaio sette dirigen-ti di aziende chimiche sono stati arrestati nel Guang xi con l’accu-sa di aver riversato riiuti tossici nel iume Longjiang. Il 15 gen-naio erano stati rilevati elevati livelli di cadmio, un metallo al-tamente tossico.Kirghizistan Più di 1.300 dete-nuti si sono cuciti le labbra dal 25 al 28 gennaio per protestare contro le loro condizioni di de-tenzione.Pakistan Il 27 gennaio l’ex pre-sidente Pervez Musharraf ha rinviato il suo ritorno nel paese per evitare di essere arrestato.P

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Numero di soldati della coalizione Nato morti in afghanistan dal 2001. Dati aggiornati al 1 febbraio 2012.

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In qualsiasi altro paese al mondo, il rischio maggiore di Pietro Ichino sarebbe di ritrovarsi da solo in un angolo durante una festa. Ichino è professore ordinario di diritto del

lavoro. E questo, in Italia, signiica rischiare la vita. Da dieci anni il docente e senatore vive sotto scorta, si sposta solo a bordo di auto blindate ed è costantemente accom-pagnato da agenti di polizia in borghese. A garantire la sicurezza di Ichino è il governo italiano, che ha buone ragioni per credere che qualcuno voglia uccidere il professore a causa delle sue idee.

Incontro Ichino all’aeroporto di Roma. È appena sceso dall’aereo, ed è già in com-pagnia della sua scorta: due uomini in jeans, giacca di pelle e quel tipo particolare di scarpe che indossano solo i poliziotti in borghese. Il senatore indossa un vestito ele-gante e un paio di occhiali da sole. È alto e magro, con un volto allungato e un naso pronunciato. Se qualcuno dovesse fargli una caricatura, probabilmente lo disegne-rebbe simile a un rapace. Senza dire una parola ai due agenti, Ichino si avvia verso una sala vip dell’Alitalia. Le porte scorrevo-li si chiudono alle nostre spalle.

L’8 novembre del 2011 Ichino ha pubbli-cato il suo nuovo libro, Inchiesta sul lavoro (Mondadori), in cui propone una riorganiz-zazione del mercato del lavoro italiano, at-tualmente in fase di stallo. Il “piano Ichino”, come lo ha chiamato la stampa, afronta uno degli elementi più problematici della politica italiana: l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, una norma degli anni settan-

ta che protegge i dipendenti dal licenzia-mento a meno di comportamenti che dan-neggiano gravemente il datore di lavoro. Ichino è convinto che le aziende italiane non saranno in grado di competere in un’economia globalizzata ino a quando le leggi sul lavoro non saranno riformate. Un’idea che sta prendendo progressiva-mente piede ai piani alti della politica italia-na. Con i tassi d’interesse sui titoli di stato decennali intorno al 6 per cento e il rischio sempre più concreto che l’Italia diventi in-solvente, il nuovo governo ha approvato importanti misure per far ripartire l’econo-mia, che negli ultimi dieci anni è cresciuta in media appena dello 0,27 per cento. In ballo non c’è soltanto la solvibilità a lungo termine dell’Italia, ma la sopravvivenza dell’eurozona.

Tutto questo ha reso Pietro Ichino un “ricercato”, in più di un senso. Dal 2008 è senatore del Partito democratico, e nell’au-tunno del 2011 il suo nome è circolato per un po’ tra i papabili per un ministero nel go-verno tecnico guidato da Mario Monti. An-che se alla ine non è diventato ministro, Ichino è tenuto in grande considerazione sia in parlamento sia dall’opinione pubbli-ca. Secondo il senatore, la riforma del mer-

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cato del lavoro italiano non dovrebbe essere contestata. Anche se gli italiani sono con-vinti che le leggi attuali a protezione dei la-voratori garantiscano un loro diritto, in re-altà impediscono alle aziende di ridurre il personale in tempi di crisi e scoraggiano le nuove assunzioni nei periodi di crescita. La riforma concederebbe alle aziende la possi-bilità di licenziare i lavoratori, ma le obbli-gherebbe anche a garantire sostanziosi sussidi di disoccupazione e programmi di formazione professionale per gli ex dipen-denti in cerca di un nuovo lavoro. Una rete di sicurezza che permetterebbe ai lavorato-ri italiani di mantenere la condizione privi-legiata rispetto ai lavoratori di altri paesi. “Resteremmo comunque lontani dai paesi con un approccio hire and ire (assumi e li-cenzia)”, spiega il giurista. Eppure siamo qui a discutere della riforma del codice del lavoro con due agenti fuori dalla porta.

Ichino è nato nel 1949 in quella che il fratello minore Andrea – economista e stretto collaboratore di Pietro – descrive co-me una “famiglia borghese benestante, istruita da generazioni”. La madre era un’ebrea convertita al cattolicesimo negli anni venti. Il padre era un uiciale, e ha pas-sato due anni in un campo di concentra-mento tedesco. Entrambi erano avvocati: il padre si è occupato prima di diritto civile e poi di diritto del lavoro, mentre la madre ha creato uno dei primi programmi di aido familiare in Italia. La coppia ha trasmesso ai igli i valori dell’istruzione e del senso ci-vico, insieme a quelli del cattolicesimo di sinistra teorizzati da intellettuali come don Lorenzo Milani.

Anni di piomboIchino ha cominciato a fare attività politica alle scuole superiori, agli albori del movi-mento studentesco degli anni sessanta. Dopo il diploma, ha cominciato a lavorare per una delle maggiori organizzazioni sin-dacali italiane, la Fiom-Cgil. Nel 1979 è sta-to eletto in parlamento nelle liste del Partito comunista, all’epoca principale forza della sinistra italiana. Tra i più giovani parlamen-tari italiani, Ichino sembrava destinato a una brillante carriera politica. Poi, però, ha scritto un libro in cui criticava il sistema dei servizi statali per l’impiego.

All’epoca in Italia esistevano forti restri-zioni per le assunzioni. I disoccupati inol-travano la loro candidatura a un uicio del governo, che creava una lista d’attesa, e i datori di lavoro in cerca di personale erano

La missionedi Pietro Ichino

Stephan Faris, Bloomberg Businessweek, Stati Uniti

Insegna diritto del lavoro. Le sue idee sono al centro della riforma del governo Monti. E sono anche il motivo per cui da anni è sotto scorta

2012

2011

Da sapereAssunzioni per tipologia di contratto, percentuale.Ultimo trimestre 2011 e primo trimestre 2012, previsioni. Fonte: Excelsior Unioncamere

Tempo indeterminato

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4,7 3,4

56,3

6,43,3

Tempo determinato

Apprendistato Altri

29,1

34,0

Visti dagli altri

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obbligati ad assumere il primo della lista. L’obiettivo del sistema era evitare le discri-minazioni, ma nella pratica succedeva l’esatto contrario: per aggirare le norme, le aziende assumevano impiegati di altre so-cietà. Cambiare lavoro era molto facile, ma trovare il primo impiego era un’impresa di-sperata. Il libro di Ichino, pubblicato nel 1982, prendeva di petto il sistema, soste-nendo che le aziende dovevano poter valu-tare i curriculum dei candidati e scegliere liberamente. Ma il Partito comunista non era della stessa idea, e quando Ichino si pre-sentò per la rielezione in parlamento perse clamorosamente, vittima della più feroce battaglia politica dell’Italia della seconda metà del novecento, quella tra la classe ope-raia e il capitale.

Negli anni settanta e ottanta, in un pe-riodo passato alla storia come “gli anni di

piombo”, gli estremisti di destra e sinistra si resero protagonisti di attentati e omicidi. A destra, le bande di neofascisti misero ordi-gni esplosivi e teorizzarono colpi di stato. A sinistra, gruppi comunisti assassinarono poliziotti e intellettuali. Fino al rapimento e all’uccisione, nel 1978, dell’ex presidente del consiglio Aldo Moro per mano delle Bri-gate rosse. Nel 1982 fu rapito il generale americano James L. Dozier, liberato dalle forze speciali italiane dopo una prigionia di 42 giorni. Gli omicidi continuarono ino al 1988, quando le Brigate rosse interruppero la lotta armata a causa della pressione delle forze dell’ordine. Ma non era ancora inita.

Nel 2002 Marco Biagi, un docente di di-ritto del lavoro, fu assassinato mentre scen-deva dalla bicicletta davanti alla sua abita-zione di Bologna. Due uomini dal volto co-perto in sella a uno scooter esplosero quat-

tro colpi d’arma da fuoco, due dei quali colpirono Biagi alla nuca. Era il 19 marzo, che in Italia è il giorno dedicato alla festa del papà. Sentiti gli spari, la moglie e i due igli di Biagi corsero in strada, e trovarono il corpo del professore accasciato davanti al portone.

Dopo aver perso il seggio in parlamento, Ichino si è dedicato alla sua professione di avvocato e ha cominciato a insegnare all’università. Biagi teneva una lezione set-timanale per il master gestito da Ichino. I due si conoscevano bene. Si incontravano spesso nel bar dell’ateneo per pranzare in-sieme. Entrambi pubblicavano regolar-mente articoli sui maggiori quotidiani ita-liani, scrivendo soprattutto di diritto del la-voro, e a volte correggevano l’uno i lavori dell’altro prima che fossero pubblicati. Quando fu assassinato, Biagi stava lavoran-do come consulente del governo di Silvio Berlusconi sulla riforma del mercato del lavoro. In cima alle sue priorità c’era il ten-tativo di abolire le misure che ostacolavano i licenziamenti. “Eravamo molto vicini, an-che se non la pensavamo sempre allo stesso modo”, racconta Ichino.

Agenti in cortileDopo la morte di Biagi, si venne a sapere che i servizi segreti italiani erano a cono-scenza di una nuova generazione delle Bri-gate rosse che aveva preso di mira alcuni docenti universitari. Nella lista degli obiet-tivi, oltre a Biagi, c’erano anche Ichino e Carlo Dell’Aringa, insegnante di economia politica all’Università cattolica di Milano. Dopo l’assassinio di Biagi, Ichino e Dell’Aringa furono subito messi sotto pro-tezione. Anna Ichino, iglia di Pietro e oggi dottoranda in ilosoia all’università di Not-tingham, ricorda che ogni mattina incon-trava gli agenti nel cortile di casa. Con il tempo Anna ha imparato a valutare il livello di allerta in base alle dimensioni della scor-ta. Quando c’era un’auto blindata era tutto normale, ma se i veicoli erano due la sua an-sia cresceva immediatamente. “Ero molto spaventata”, racconta. “Ho attraversato lunghi periodi in cui sofrivo d’insonnia”. Nelle rare occasioni in cui la famiglia si con-cedeva una cena al ristorante, gli agenti se-devano al tavolo accanto.

Dopo la morte di Biagi, Ichino, formale e austero per natura, si concentrò ancora di più sul lavoro. “A volte penso che non abbia emozioni”, spiega Anna. “Non si rilassa mai”. Quando viveva ancora con i genitori,

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Roma, 18 gennaio 2012. Pietro Ichino nel suo uicio

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a volte Anna si accorgeva che il padre era sveglio in piena notte. La mattina dopo si comportava come se niente fosse. Ancora oggi Ichino riesce a trovare un po’ di sereni-tà solo quando gioca con il nipote di due anni o quando va in montagna, a piedi o in bicicletta. “Sono gli unici momenti in cui può fare qualcosa senza essere seguito dagli agenti”, racconta Federico Picinali, nipote, iglioccio e compagno d’escursione.

Il ruolo del sindacatoPer molti di quelli che vorrebbero un cam-biamento nelle leggi italiane sul lavoro, l’anniversario della morte di Biagi è diven-tato un’occasione per ritrovarsi. Ogni anno, il 19 marzo, percorrono in bicicletta il tragit-to dalla stazione di Bologna all’abitazione del professore ucciso. Nel 2003 il governo italiano ha approvato una legge che porta il nome di Biagi, e che ha introdotto impor-tanti modiiche nel codice del lavoro. La legge ha lasciato inalterate le norme che ostacolano il licenziamento, ma ha permes-so alle aziende di assumere nuovo persona-le per singoli progetti a tempo determinato senza essere obbligate a garantire i livelli di protezione previsti dai contratti tradiziona-li. Dopo l’approvazione della legge Biagi, il tasso di disoccupazione è calato, e le azien-de hanno avuto maggiore libertà. Ma la leg-ge non ha risolto uno dei problemi principa-li del mondo del lavoro italiano, la divisione profonda tra i lavoratori con contratti a lun-go termine, protetti, e i giovani precari. Og-gi i precari, insieme ai lavoratori in nero, rappresentano la maggioranza della forza lavoro in Italia. Sono persone come Salvo Barrano, archeologo, costantemente alla ricerca di un nuovo contratto a breve termi-ne e senza nessuna certezza per il futuro.

Barrano e i suoi compagni di sventura hanno salari generalmente più bassi rispet-to a quelli della generazione precedente. Inoltre i loro contratti non comprendono alcuni dei diritti basilari dei lavoratori: nien-te malattia, niente congedo di maternità e niente ammortizzatori sociali. Il giovane archeologo confronta la sua esperienza con quella dei genitori: “Già a 25 anni loro pote-vano contare su uno stipendio garantito per il resto della vita”, spiega. Una volta rag-giunta l’età della pensione, i genitori di Bar-rano hanno cominciato a ricevere un asse-gno pari all’80 per cento del loro ultimo sa-lario, e una liquidazione suiciente per rea-lizzare il sogno di una vita del padre: com-prare una casa al mare. “Da pensionati il

loro stile di vita è migliorato, non peggiora-to”. In poche parole, negli ultimi anni la normativa italiana sul lavoro sembra aver fatto un passo indietro: invece di proteggere tutti i lavoratori, privilegia una minoranza e innalza barriere d’ingresso per la maggio-ranza. “Mi sembra una presa in giro”, dice Barrano esasperato.

Per questo Ichino insiste sul fatto che la sua è una crociata etica più che economica. La sua missione è la stessa di quando ha co-minciato la carriera politica, quarant’anni fa: garantire i diritti dei lavoratori. Ichino è ancora convinto che sostituire il divieto as-soluto di licenziamento con un sistema di corposi sussidi di disoccupazione aprirebbe i cancelli del mercato del lavoro a tutti, por-tando dei vantaggi sia alle aziende sia ai la-voratori. “Abbiamo gli stessi ideali che ave-vamo negli anni settanta”, spiega Andrea Ichino. “Sono i sindacati che sono cambiati. Oggi proteggono i rentiers, gli insider, l’an-cien régime”. Con l’uscita di scena di Silvio

Berlusconi, il progetto riformista di Ichino potrebbe vedere la luce. Mario Monti, che Ichino considera un collega e un amico, ha espresso interesse per la proposta del sena-tore milanese, e ha detto più volte che nel progetto di rilancio della crescita economi-ca italiana sarà importante anche la riforma del mercato del lavoro.

Nei dieci anni successivi alla morte di Biagi, solo due volte Ichino si è sentito ab-bastanza al sicuro da chiedere la revoca del-la scorta. In entrambi i casi la richiesta è stata respinta. Nel 2005 cinque membri delle nuove Brigate rosse sono stati con-dannati per l’omicidio di Biagi, e l’anno do-po la polizia ha arrestato un altro gruppo, che a quanto pare aveva in programma di assassinare Ichino. Tra gli estremisti c’era-no anche due studenti del dipartimento del professore.

Nonostante tutto, Ichino è sempre più convinto che alla ine il suo progetto per cambiare l’economia italiana si realizzerà. “Il problema è che non possiamo più per-metterci di perdere tempo”, spiega. “La si-tuazione dell’Italia richiede un’accelerazio-ne decisa”. Durante la nostra conversazione in aeroporto Ichino elenca tutte le battaglie che ha combattuto e vinto in passato, tra cui quella per il decentramento della contratta-zione collettiva. “Ho dedicato la mia vita a fare in modo che queste idee attecchiscano nella sinistra italiana. Ci vuole sempre un po’ per convincerli, ma alla ine cambiano idea”. Il tempo a mia disposizione è scaduto e Ichino ha altri impegni. Lo seguo fuori dalla sala d’attesa di Fiumicino. Gli agenti della scorta sono lì ad aspettarlo. u as

Da sapere

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Dicembre 2010 Dicembre 2011

Variazione del tasso di disoccupazione, percentuale. Fonte: Istat

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Roma, 27 gennaio 2012. Manifestazione nazionale contro il governo

Visti dagli altri

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Angela Merkel è in cima alla classiica delle personalità più potenti d’Europa. Il francese Nicolas Sarkozy

può vantarsi di essere il capo di stato più energico del continente. Mario Monti è invece il più interessante. Do-po un’assenza di una ventina d’anni, l’Italia è tornata al centro della scena. Il destino di Monti potrebbe coincidere con quello dell’Europa.

L’altro giorno la Casa Bianca ha co-municato che il primo ministro italiano incontrerà presto Barack Obama. Mon-ti e il presidente degli Stati Uniti do-vranno discutere “i passi generali che il governo italiano sta compiendo per ri-pristinare la iducia dei mercati e far ri-partire la crescita attraverso riforme strutturali. Inoltre parleranno della prospettiva di un ampliamento del si-stema di difesa inanziaria europeo”. Interpretando si potrebbe dire: “Oba-ma sostiene Monti in tutto e per tutto, anche quando fa pressioni su Angela Merkel”.

Un tempo l’Italia aveva voce in capi-tolo in Europa. Gli italiani hanno pro-mosso il grande balzo degli anni ottan-ta verso l’integrazione. Il vertice di Mi-lano del 1985 fece nascere il mercato unico. Cinque anni dopo un incontro organizzato a Roma deinì la tabella di marcia dell’euro. Quella fu anche l’oc-casione della destituzione di Margaret Thatcher: il suo “No, no, no” alla mo-neta unica infatti scatenò una ribellio-ne fra i tory. Per quanto strano possa sembrare, all’epoca i conservatori in-

glesi erano quasi tutti europeisti.L’era di Silvio Berlusconi ha messo ine

all’inluenza italiana. L’ex premier poteva sempre contare sulla calorosa accoglienza di Vladimir Putin, ma era evitato dai suoi colleghi dell’Unione europea, che lo con-sideravano irritante o imbarazzante. Men-tre Monti, un professore rigoroso con un progetto molto serio, è diverso sotto ogni aspetto dal suo predecessore. Silvio Berlu-sconi faceva battute volgari sull’aspetto di Angela Merkel. Monti, invece, le parla di economia.

Ai vertici c’è anche un altro italiano, Mario Draghi, inito spesso in prima pagi-na nei pochi mesi trascorsi da quando è presidente della Banca centrale europea. Draghi ha sostenuto il sistema bancario e tranquillizzato i mercati inanziari met-tendo a disposizione delle banche denaro a tasso agevolato. Il piano della Bce non è una soluzione deinitiva, ma ha permesso ai politici di prendere tempo per raggiun-gere un accordo su nuove regole per i bi-lanci degli stati dell’Unione.

Monti ha un ruolo importante perché è in Italia che si decideranno le prospettive a lungo termine dell’euro. Se la terza eco-nomia della zona euro non riuscirà a indi-care una rotta economica credibile, la mo-neta unica non avrà più un futuro. Monti ha un paio di assi nella manica. Le sue mi-sure di austerità si stanno già dimostrando impopolari, ma i politici italiani non sono certo in forma smagliante. Berlusconi lan-cia provocazioni dalla sua posizione dei-lata, ma la coalizione di centrodestra sa-rebbe duramente sconitta se si andasse a votare in tempi brevi. Per questo Monti pensa di avere un altro anno per mettere a punto la sua strategia.

Il secondo asso nella manica consiste nella sua capacità di parlare con franchez-za alla potenza tedesca. La sua fama di ri-formista liberista è indiscutibile e poi ha il

sostegno di Obama quando dice ad An-gela Merkel che un’austerità illimitata trasformerebbe il patto iscale in un suicidio.

Sarkozy è piuttosto risentito per l’intrusione di Monti. Il presidente francese non ama condividere la luce dei rilettori. Fino a oggi Parigi ha la-sciato intendere che la leadership dell’Unione europea è una questione franco-tedesca. In realtà, tra il presi-dente e la cancelliera l’intesa non è af-fatto buona. Ma Sarkozy ha più interes-se di chiunque altro a che Monti abbia successo. Perché lo smantellamento della moneta unica scaraventerebbe la Francia nel livello inferiore dell’econo-mia europea e la priverebbe di qualun-que aspirazione alla supremazia sul continente.

Dibattito polarizzatoNessuno può garantire che il piano di Monti riuscirà. I forti tagli alla spesa pubblica e gli aumenti delle tasse sono una cosa, ma il vero banco di prova sarà la liberalizzazione dell’economia. In questo ambito il presidente del consi-glio deve combattere contro una miria-de di interessi corporativi. La scorsa settimana le città italiane sono piom-bate nel caos a causa dello sciopero dei tassisti e degli autotrasportatori. Anche avvocati, farmacisti e benzinai hanno dichiarato guerra ai piani che vogliono annullare i loro privilegi. Il dibattito sul futuro dell’eurozona è polarizzato. Da una parte chi sostiene che l’impresa si potrà salvare solo se l’Europa meridio-nale cattolica assimilerà la cultura della parsimonia e del duro lavoro del nord protestante. Dall’altra c’è chi sostiene che basterebbe che i tedeschi fossero disposti a spendere di più per inanzia-re i debiti dei vicini meridionali. En-trambe le argomentazioni sono di un’ingenuità deprimente.

L’Europa dovrebbe invece adattarsi a un mondo in cui non può più dettare le condizioni degli scambi commercia-li. Quel che bisogna stabilire è se l’Eu-ropa sia in grado di competere in un mondo in cui l’occidente non è più do-minante. Per questo motivo quello che Monti sta facendo in Italia è così im-portante. u fp

L’Italia deve convincere la Germania a evitare una politica europea di austerità illimitata

Il peso dell’Europa sulle spalle di Monti

Philip Stephens, Financial Times, Gran Bretagna

L’opinione

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 31

Le opinioni

“Vorrei capire perché hanno deciso di far apparire così attraente il giovane Denis Thatcher, il mari-to di Margaret”, sussurra il mio amico del nord, guardando il Grand Hotel esplodere sullo

schermo. A pensarci bene, forse non è stata una buo-na idea andare a vedere The iron lady, il ilm su Marga-ret Thatcher, in compagnia di sette anarchici londine-si che si sono fatti forza con una pinta di sidro prima di avventurarsi nell’Odeon di Tottenham Court road. Ma quando è partita l’esaltante colonna sonora del ilm, ormai era troppo tardi.

Il modo in cui si sceglie di raccontare la storia di Margaret Thatcher avrà sempre poco a che vedere con la fragile vecchietta che sta uscendo di senno nella sua casa del quartiere londi-nese di Belgravia. E avrà tutto a che ve-dere con l’ideologia che quella donna rappresenta: il libero mercato, l’antisin-dacalismo, il fanatismo antistatalista e a favore delle imprese private che divise il paese negli anni ottanta e che lo sta divi-dendo di nuovo.

Nella prima inquadratura la mano avvizzita e coperta di macchie di Meryl Streep nei panni di Margaret agguanta una bottiglia di latte da uno scafale, un modo per ricordare, a chi ha cancellato gli anni ottan-ta dalla sua mente, il vecchio soprannome di “Milk Snatcher” (ladra di latte) che le aveva appioppato la sinistra dopo la decisione di tagliare i fondi per distri-buire il latte ai bambini nelle scuole. Ma la scena non attenua il colpo di quello che verrà dopo.

Per i 103 minuti successivi, vedo i miei amici rag-gomitolarsi sempre più in posizione fetale nelle loro poltrone mentre la storia scorre di nuovo sotto i loro occhi al suono squillante delle trombe. In questo re-cente passato inglese per lo più immaginario, siamo un popolo di uomini d’afari forti e sicuri di sé che non crede nello stato sociale.

La Thatcher è un’eroina femminista che si riiuta di “morire lavando una tazza da tè”. I sindacalisti so-no irresponsabili nostalgici del passato dei quali si ri-corda solo il fatto che negli anni settanta lasciarono accumulare la spazzatura sui marciapiedi, prima che Maggie prendesse il potere in un vortice di bandiere che scendono al rallentatore dal soitto della memo-ria.

Solo la guerra e i tagli alla spesa pubblica possono salvare la Gran Bretagna, e i disoccupati e i poveri so-no bestie ringhiose e ingrate che urlano e battono sui

finestrini oscurati dell’automobile del primo mini-stro.

Comincio a coprirmi gli occhi con le mani quando, come la protagonista di una iaba, Maggie si trasforma da dimessa matrona dell’opposizione in una domina-trice cotonata avvolta in un abito blu pavone dalla scollatura profonda e spiega al suo cancelliere dello scacchiere Geofrey Howe l’importanza dei tagli alla spesa pubblica.

Davanti a noi, due tipi con il colletto della camicia aperto all’ultima moda e i capelli lisciati all’indietro, quindi all’apparenza due giovani conservatori, si stan-no praticamente bagnando per l’eccitazione. “Oddio. I conservatori gay adoreranno questa scena”, dice l’amico alla mia sinistra, e forse fu proprio questo che

spinse la vera Thatcher a stringere la presa sulla sua borsetta.

Alla mia sinistra l’amica anarcofem-minista ha smesso di dondolarsi sulla poltrona e ha cominciato a scrivere fre-neticamente su un taccuino. “Ho capito come possiamo vedere questa storia”, dice. “Non è un panegirico, è il racconto furbo e inattendibile di una vecchia si-gnora ormai debole e tremolante che cancella tutti gli episodi negativi del suo passato e cerca di ricordare se stessa co-me un’eroina”. Poi siamo costretti ad

assistere alla scena in cui Denis Thatcher ascende let-teralmente al cielo lasciando Maggie sola in cima alle scale. “Buttati”, bisbiglia l’amica anarcofemminista a voce troppo alta. I giovani conservatori ci guardano di traverso.

Il mio amico del nord aveva detto di voler smettere di fumare. All’uscita dall’Odeon, con la musica pa-triottica ancora nelle orecchie, accende una Pall Mall dietro l’altra tremante di rabbia. “Non m’interessa se hanno deciso di girare un’agiograia, ma non si può fare un ilm sulla Thatcher senza parlare dello sciope-ro dei minatori”, sbotta. “E qui non lo nominano qua-si”.

I giovani conservatori ci passano accanto e si tufa-no nella gelida aria invernale con lo sguardo vuoto e leggermente imbarazzato di chi esce da un locale di striptease. Esistono tante Maggie Thatcher e quale storia scegliamo di raccontare rivela più cose su di noi che su di lei.

In questo momento la storia uiciale è che il nazio-nalismo, la guerra, i mercati e i maglioncini di cache-mire ben scelti hanno salvato la Gran Bretagna. Ma c’è, e ci sarà sempre, qualcuno che ricorda una storia completamente diversa. u br

Margaret Thatcher,una storia improbabile

Laurie Penny

LAURIE PENNY

è una giornalista britannica. È columnist del settimanale New Statesman e collabora con il Guardian.

Non è stata una buona idea andare a vedere The iron lady, il ilm su Margaret Thatcher, in compagnia di sette anarchici che si sono fatti forza con una pinta di sidro prima di entrare al cinema

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Le opinioni

La Gran Bretagna è diventata uno snodo nella produzione globale di auto e moto-ri. Quest’anno saranno prodotti qui da noi un milione e 400mila auto e oltre tre milioni di motori, destinati soprattutto all’esportazione. Ma questi risultati non

aiutano molto l’occupazione. La produzione di auto e motori coinvolge infatti meno di 150mila posti di lavo-ro, un numero in calo lieve ma costante da anni a causa delle moderne tecniche di produzione.

In tutto l’occidente industrializzato c’è la stessa tendenza, che suscita inter-rogativi urgenti sulla possibilità che l’eco-nomia moderna possa davvero creare occupazione di massa decentemente re-tribuita. È vero: esiste un nucleo duro di aziende manifatturiere che operano in tutto il mondo, ma in un paese come la Gran Bretagna questo crea scarsa occu-pazione. C’è poi un modesto settore dei servizi che è integrato con le aziende ma-nifatturiere, oppure – come nel caso dei fast-food – genera servizi autonomi. All’infuori di que-sto c’è tutta una rete di servizi “di scrematura”. Si tratta di broker e agenti vari che operano in una vasta gamma di attività, dall’investment banking ai cacciatori di te-ste, dagli agenti immobiliari a quelli calcistici: tutti per-cepiscono una percentuale sulle transazioni, ma ag-giungono scarsissimo valore. Si potrebbe chiamarlo “capitalismo agentista”.

A una cena con Steve Jobs, il presidente Obama ave-va chiesto al fondatore della Apple se l’azienda più ricca e famosa d’America avrebbe mai riportato negli Stati Uniti almeno una parte dei posti di lavoro che genera altrove. La risposta di Jobs fu: mai. Come l’industria automobilistica britannica, Apple è inseparabile dalle sue reti globali di produzione. Senza la globalizzazione, questa nuova struttura economica e l’andamento delle retribuzioni che a essa si accompagna sarebbero impos-sibili. Ma c’è un altro risvolto: la globalizzazione, che ha fatto tanto per tanti paesi, è instabile. Poggia infatti su nazioni come Germania, Cina, India e Giappone, che producono il grosso di ciò che passa per le nuove catene dei rifornimenti globali e accumulano surplus commer-ciali, mentre altri paesi sono oberati dai deicit. Il tutto in assenza di meccanismi che costringano gli uni e gli altri a cambiare comportamento.

Di recente l’ex ministro britannico ed ex commissa-rio europeo Peter Mandelson – che un tempo era un ti-foso dei mercati e della globalizzazione – ha dichiarato che, a diferenza di quanto fece nel 1998, oggi non si direbbe più tranquillo di fronte a uomini d’afari che si

arricchiscono in modo indecente facendo quello che gli pare. E, nel presentare il nuovo rapporto dell’Ippr – un think tank di centrosinistra – ha invocato un raforza-mento della governance globale e un impegno della Gran Bretagna a darsi una vera politica industriale, una robusta rete di welfare e regole serie per le imprese. Al-trimenti, ha avvertito, sorgeranno seri dubbi sulla legit-timità della globalizzazione e del capitalismo.

Il dibattito però deve andare oltre. Il declino del ca-pitalismo produttivo ad alta intensità di occupazione è più forte soprattutto nei paesi anglofoni, cioè quelli dove è più ra-dicata la convinzione che i mercati siano sempre saggi e non vadano messi in di-scussione. Si tratta proprio delle econo-mie in cui l’“agentismo” ha fatto più stra-da, il settore produttivo si è più ridimen-sionato e le conseguenti disparità di reddito e di opportunità sono più forti. Tutte le economie hanno il loro settore dei servizi “agentista”, ma negli Stati Uniti e in Gran Bretagna ha raggiunto di-

mensioni e retribuzioni eccessive. Le proteste delle classi medie che si impoveriscono e i conseguenti dub-bi sul capitalismo moderno rappresentano una messa in discussione non solo dell’“agentismo”, ma della glo-balizzazione stessa.

Occorrono meccanismi internazionali che impon-gano a governi, imprese e banche di rendere conto del loro operato. Per esempio, ciò che colpisce delle prote-ste contro le misure di austerità in Grecia, in Portogallo e in Irlanda è che sono nazionali. Nessuno ha pensato a collegare quelli che nei tre paesi sono contrari alle mi-sure. Neanche i manifestanti o i sindacati fanno fronte comune. E non si è sentito avanzare nessun suggeri-mento pratico su ciò che dovrebbe cambiare. I sindaca-ti britannici sono spesso accusati di essere moribondi e sulla difensiva. Ma queste debolezze le condividono con i colleghi di altri paesi. Il movimento Occupy è un inizio, ma è un fenomeno passeggero. Se vogliamo che il mondo disponga di un contrappeso eicace alla glo-balizzazione, occorrono istituzioni sociali stabili e forti che operino oltre i conini nazionali.

Una potrebbe essere rappresentata da sindacati transnazionali forti, impegnati non già a socializzare i mezzi di produzione globali, ma a pretendere che il ca-pitalismo globale sia responsabile, e a creare strumenti nuovi per ottenerlo. È un sogno? Sarà, ma qualcosa de-ve pur cambiare. Possiamo scegliere di trincerarci nei nostri conini – e sarebbe un disastro – o di costruire un mondo interdipendente, ma funzionante. In realtà, la scelta è una sola. u ma

Una risposta comunealla globalizzazione

Will Hutton

WILL HUTTON

è un giornalista britannico. Ha diretto il settimanale The Observer, di cui oggi è columnist. In Italia ha pubblicato Il drago dai piedi d’argilla. La Cina e l’occidente nel XXI secolo (Fazi 2007).

Occorrono meccanismi internazionali che impongano a governi, imprese e banche di rendere conto del proprio operato. E occorrono istituzioni sociali transnazionali

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In copertina

Un venerdì sera dello scor-so maggio un’esplosione ha fatto tremare l’edii-cio A5. È scoppiato un forte incendio che ha deformato le tubature di

metallo della fabbrica come se fossero can-nucce di plastica. I dipendenti che in quel momento si trovavano nella mensa sono corsi subito fuori. Hanno visto nuvole di fu-mo nero uscire dalle finestre del reparto dove ogni giorno gli operai lucidavano mi-gliaia di gusci di iPad. Due persone sono morte sul colpo. Tra i feriti, un operaio ave-va subìto danni particolarmente gravi: il suo volto era completamente deturpato. La vio-lenza dell’esplosione aveva ridotto il naso e la bocca a un ammasso informe rosso e ne-ro. “Lei è il padre di Lai Xiaodong?”, ha chiesto l’uomo che aveva telefonato a casa di Lai. Sei mesi prima questo ragazzo di 22 anni si era trasferito a Chengdu, nel sudo-vest della Cina. Era una delle centinaia di migliaia di rotelle umane che fanno girare gli ingranaggi della più grande, veloce e so-isticata catena di montaggio della terra. Un sistema che ha permesso alla Apple e a cen-tinaia di altre aziende di fabbricare i loro prodotti a una velocità incredibile. “È feri-to”, ha detto l’uomo al padre di Lai. “Vada in ospedale al più presto”.

Negli ultimi dieci anni la Apple è diven-tata una delle aziende più potenti e ricche del mondo anche grazie alle sue fabbriche sparse in tutto il pianeta. Le imprese high-tech, ma anche quelle di altri settori dell’in-dustria statunitense, introducono innova-zioni a un ritmo senza precedenti nella sto-ria moderna. Secondo i dipendenti delle

fabbriche e in base ad alcuni documenti pubblicati dalle stesse aziende, però, spesso gli operai che assemblano iPhone, iPad e altri prodotti simili lavorano in condizioni durissime. I problemi vanno dall’inospitali-tà degli ambienti di lavoro alle pericolose condizioni di sicurezza. I dipendenti lavo-rano troppo, in alcuni casi sette giorni alla settimana, e vivono in dormitori afollati. Alcuni raccontano che stando in piedi per tutto quel tempo le loro gambe si goniano al punto che hanno diicoltà a camminare. I fornitori della Apple assumono anche mi-norenni. Secondo i rapporti di organizza-zioni che in Cina sono considerate aidabi-li e indipendenti, queste aziende non rispet-tano le norme per lo smaltimento dei riiuti pericolosi e falsiicano i documenti.

Ma la cosa ancora più preoccupante, di-cono queste organizzazioni, è che alcune aziende non si curano minimamente della salute dei lavoratori. Due anni fa 137 dipen-denti di un fornitore cinese della Apple si sono ammalati a causa di una sostanza chi-mica tossica usata per pulire gli schermi degli iPhone. L’anno scorso, nel giro di sette mesi, due esplosioni nelle fabbriche dell’iPad, compresa quella di Chengdu, hanno provocato quattro morti e 77 feriti. Prima degli incidenti, aggiunge l’organiz-zazione cinese che ha pubblicato lo studio, la Apple era stata avvertita delle pericolose condizioni di lavoro nell’impianto di Chengdu. “Se era stata informata e non ha fatto niente, il suo comportamento è da condannare”, ha dichiarato Nicholas Ashford, ex presidente della National advi-sory committee on occupational safety and health, un organismo di consulenza per la

salute e la sicurezza sul lavoro che collabora con il dipartimento del lavoro degli Stati Uniti. “Ma quello che è ritenuto moralmen-te inaccettabile in un paese, spesso è consi-derato normale in un altro, e le aziende ne approittano”. La Apple non è l’unica azien-da high-tech che si serve di fornitori senza troppi scrupoli. Condizioni di lavoro pessi-me sono state registrate anche in alcuni im-

I costi umani Charles Duhigg e David Barboza, The New York Times, Stati Uniti

La Apple è l’azienda più innovativa e redditizia del mondo. Ma il suo successo è basato su fornitori, soprattutto cinesi, che assicurano qualità, eicienza e costi bassi imponendo durissime condizioni di lavoro agli operai. L’inchiesta del New York Times

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pianti che fabbricano prodotti per Dell, Hewlett-Packard, Lenovo, Motorola, No-kia, Sony, Toshiba e molte altre aziende.

La Apple sostiene che negli ultimi anni ha contribuito notevolmente a migliorare le condizioni di vita nelle fabbriche, imponen-do ai fornitori un codice di condotta che stabilisce degli standard di lavoro e di sicu-rezza. La Apple ha anche avviato dei con-

trolli severi, e quando scopre una condotta illecita chiede subito di correggerla. I suoi rapporti annuali sulle responsabilità dei fornitori sono spesso i primi a denunciare questi abusi. E a gennaio l’azienda ha pub-blicato per la prima volta la lista di quasi tutti i suoi fornitori. Ma ci sono ancora pro-blemi gravi. Secondo i rapporti pubblicati dalla stessa Apple, dal 2007 a oggi più di

metà dei suoi fornitori ha violato almeno uno dei punti del codice di condotta e in al-cuni casi ha infranto la legge. Molte di que-ste violazioni riguardano le condizioni di lavoro più che la sicurezza. “L’unico inte-resse della Apple è sempre stato migliorare la qualità dei prodotti e abbassarne il costo”, dice Li Mingqi, che ino ad aprile del 2011 è stato dirigente della Foxconn Technology,

ani di un iPad

Shenzhen, Cina. In un impianto della Foxconn

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uno delle più importanti partner commer-ciali dell’azienda statunitense. Li, che ha denunciato la Foxconn per il suo licenzia-mento, era uno dei responsabili della fab-brica di Chengdu.

Secondo alcuni ex dirigenti della Apple, all’interno dell’azienda californiana c’è una tensione irrisolta: i vertici vorrebbero mi-gliorare le condizioni di lavoro nelle fabbri-che, ma la loro buona volontà cede davanti al rischio di incrinare i rapporti con alcuni fornitori importanti o di allungare i tempi di consegna dei nuovi prodotti. Il 24 gennaio la Apple ha dichiarato che l’ultimo trimestre del 2011 è stato uno dei più redditizi della sua storia, e di quella di qualsiasi impresa statunitense, con un utile di 13,06 miliardi di dollari e un fatturato di 46,3 miliardi (il giorno dopo è diventata la più grande azien-da del mondo per valore di borsa, superan-do il gruppo petrolifero Exxon). Le vendite sarebbero state anche maggiori se le fabbri-che all’estero fossero state in grado di pro-durre di più.

Anche i dirigenti di altre aziende denun-ciano tensioni interne simili. Questo siste-ma non sarà perfetto, dicono, ma una sua riforma radicale rallenterebbe il ritmo dell’innovazione. I consumatori vogliono nuovi prodotti elettronici ogni anno. “Sape-vamo da quattro anni che in alcune fabbri-che le condizioni di lavoro erano disumane, ma non abbiamo fatto nulla”, ha dichiarato un ex dirigente della Apple che, come altri, ha chiesto di restare anonimo. “Per noi il sistema funziona bene così. I fornitori cam-bierebbero tutto anche domani, se la Apple gli dicesse che non hanno altra scelta. Se metà degli iPhone funzionasse male, pen-sate che l’azienda avrebbe chiuso un occhio per quattro anni?”.

Secondo i rapporti della Apple, quando l’azienda scopre una violazione delle norme sul lavoro, chiede subito di intervenire e in-terrompe il contratto con i fornitori che si riiutano di farlo. In privato, tuttavia, alcuni ex dirigenti hanno ammesso che trovare

nuovi fornitori è costoso e richiede tempo. La Foxconn è una delle poche aziende al mondo in grado di costruire un numero suf-iciente di iPhone e iPad. Per questo la Ap-ple “non la lascerà mai né lascerà mai la Cina”, dice Heather White, una ricercatrice di Harvard che ha fatto parte della commis-sione per il controllo degli standard di lavo-ro internazionali dell’Accademia nazionale delle scienze americana.

La Apple ha ricevuto un’ampia sintesi di questo articolo prima che fosse pubblicato, ma non ha voluto commentarlo. Questa in-chiesta si basa sulle interviste a una trentina di persone che hanno lavorato o lavorano ancora per la Apple. Nel 2010 Steve Jobs parlò dei rapporti dell’azienda con i suoi fornitori durante una conferenza. “Sono convinto”, disse, “che la Apple si preoccupi delle condizioni di lavoro più della maggior parte delle imprese del suo settore. Quando andiamo a visitare le fabbriche, vediamo che ci sono ristoranti, cinema, ospedali e piscine. Insomma, niente male per delle fabbriche”. I dipendenti degli impianti am-mettono che le mense e le strutture sanita-rie ci sono, ma le condizioni di lavoro sono massacranti. “Ce la stanno mettendo tutta

per migliorare le cose”, ha detto un ex ma-nager. “Ma molte persone rimarrebbero sconvolte se sapessero da dove vengono i loro iPhone”.

La strada per ChengduNell’autunno del 2010, circa sei mesi prima dell’esplosione nella fabbrica degli iPad, Lai Xiaodong aveva avvolto con cura il di-ploma di laurea con i suoi vestiti perché non si sgualcisse in valigia. Aveva detto agli amici che non avrebbe più partecipato alla partita di poker settimanale e aveva saluta-to i suoi insegnanti. Era in partenza per Chengdu, una città di dodici milioni di abi-tanti che sta diventando uno dei più impor-tanti centri manifatturieri del mondo. Lai era idanzato con una bella studentessa. Lei voleva sposarsi, quindi l’obiettivo principa-le di Lai era diventato guadagnare abba-stanza per comprare un appartamento.

A Chengdu ci sono impianti che fabbri-cano prodotti per centinaia di aziende. Ma a Lai interessava soprattutto la Foxconn Technology, la più grande esportatrice ci-nese, che dà lavoro a 1,2 milioni di persone. L’azienda ha fabbriche in tutta la Cina e as-sembla circa il 40 per cento dei prodotti elettronici di consumo del mondo per clien-ti come Amazon, Dell, Hewlett-Packard, Nintendo, Nokia e Samsung. Lai sapeva che la fabbrica di Chengdu era speciale, perché lì si costruisce l’iPad, l’ultimo e più importante prodotto della Apple. Quando è stato inalmente assunto come addetto alla manutenzione delle macchine, una delle prime cose che ha notato sono state le luci quasi accecanti: i turni coprivano 24 ore al giorno e la fabbrica era sempre illuminata. In ogni momento c’erano migliaia di operai in piedi alla catena di montaggio, seduti su uno sgabello accanto a un grande macchi-nario o alle prese con una piattaforma di carico. Alcuni avevano le gambe così gonie che zoppicavano. Sui muri c’erano cartelli che avvertivano i 120mila dipendenti: “Se non lavori sodo oggi, domani dovrai fatica-

In copertina

Da sapere Quante persone lavorano per fabbricare l’iPhone

Yantai

Kunshan

Taiyuan

HenanZhengzhou

Le fabbriche della Foxconnin Cina

WuhanChongqing

Chengdu

Langfang

Shenzhen

C I N A

500 km

u In Cina la Foxconn ha 920mila dipendenti. Solo a Shenzhen lavorano 470mila persone. Più di 150mila dipendenti provengono dalla provincia di Henan.

Da sapere

7.000–20.000A Taiwan, Singapore, Malesia,

Giappone, Europa e altrove

Processori

300–1.000In Cina

Batterie Assemblaggio

200.000In Cina

27.300Lavoratori*

negli Stati Uniti

5.000–10.000In Corea del Sud e in altri

paesi asiatici

Display

* esclusi i dipendenti dei negozi. Fonte: The New York Times

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re per trovarti un altro lavoro”. Il codice di condotta stabilito dalla Apple impone che, tranne casi eccezionali, nessuno deve lavo-rare più di sessanta ore alla settimana. Ma dalle interviste, dalle buste paga e dalle in-dagini svolte da organizzazioni indipen-denti risulta che alla Foxconn alcuni lavora-no di più. Lai era arrivato a lavorare dodici ore al giorno, sei giorni alla settimana. Se-condo gli intervistati, spesso si chiede agli operai di fare due turni consecutivi.

La laurea permetteva a Lai di guadagna-re l’equivalente di 22 dollari al giorno, com-presi gli straordinari. Più di molti altri colle-ghi. Dormiva in una stanza così piccola da contenere solo un letto, un armadio e una scrivania. Lì si immergeva in un gioco di carte online chiamato Fight the landlord, racconta Luo Xiaohong, la sua ragazza. Quel tipo di alloggio era comunque meglio dei dormitori della Foxconn, in cui vivono 70mila operai, a volte ammassati in venti in un appartamento di tre stanze. Secondo al-cuni testimoni, l’anno scorso una lite sulle buste paga ha provocato una rissa in uno dei dormitori. Gli operai hanno cominciato a lanciare dalle inestre bottiglie, bidoni della spazzatura e pezzi di carta infuocati. Sono arrivati duecento poliziotti, che hanno arre-stato otto persone. In seguito i bidoni sono

stati rimossi, ma è sorto il problema dei cu-muli di spazzatura e dei topi.

La Foxconn ha negato i doppi turni, i lunghi straordinari, l’afollamento degli al-loggi e le altre cause della rivolta. Secondo l’azienda, i suoi impianti rispettano il codi-ce di condotta imposto dai clienti, gli stan-dard del settore e le leggi nazionali: “Le nostre condizioni di lavoro non sono afatto disumane”. La Foxconn ha anche aggiunto

di non essere mai stata denunciata da un cliente o da un governo per l’impiego di la-voro minorile, per l’imposizione di turni troppo duri o per aver esposto i dipendenti a sostanze tossiche. “Tutti gli addetti alla catena di montaggio fanno pause regolari, compreso l’intervallo di un’ora per il pran-zo”, e solo il 5 per cento di quelli che lavora-no alla catena è costretto a stare in piedi. Le postazioni sono state progettate in base a

u La Apple dà lavoro direttamente a 43mila persone negli Stati Uniti e a ventimila all’estero. Molti di più sono però i dipendenti delle sue ditte appaltatrici: circa 700mila, quasi tutti all’estero. Nella prima puntata dell’inchiesta sulle delocalizzazioni dell’azienda di Cupertino, il New York Times si chiede perché non sia possibile assemblare gli iPhone e gli iPad negli Stati Uniti. I motivi sono diversi. All’estero il costo del lavoro è inferiore e permette di accumulare un surplus che

può essere reinvestito nell’innovazione. Ma, soprattutto, gli operai stranieri, spesso cinesi, hanno una professionalità, un’adattabilità e un’eicienza ormai introvabili negli Stati Uniti. In Asia la gestione delle catene di distribuzione dei componenti da assemblare è più eiciente. La Cina, inoltre, ofre una grande quantità di ingegneri in grado di gestire le linee di assemblaggio. Il mercato del lavoro cinese è molto lessibile: consente di assumere i lavoratori per brevi periodi e senza obblighi

burocratici. “Poche settimane prima del lancio dell’iPhone”, scrive il quotidiano, “la Apple decise di ridisegnare lo schermo. I nuovi componenti arrivarono alla linea di assemblaggio in Cina intorno a mezzanotte. Un caposquadra radunò ottomila operai dai dormitori dello stabilimento. A ognuno fu dato un biscotto e una tazza di tè, poi furono condotti alle loro postazioni e nel giro di mezz’ora cominciarono a montare gli schermi. In nessuna fabbrica degli Stati Uniti sarebbe stato possibile”.

Da sapere Perché la Apple delocalizza

Xinsheng, Cina. I genitori di Lai Xiaodong, l’operaio della Foxconn morto nel maggio del 2011 Ry

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In copertina

criteri ergonomici, e i dipendenti hanno la possibilità di cambiare mansioni e di fare carriera. “La Foxconn rispetta tutte le nor-me di sicurezza. È una delle aziende cinesi che si preoccupano di più delle condizioni di lavoro e dell’assistenza sanitaria ai suoi dipendenti”.

Codice di condottaNel 2005 alcuni dirigenti della Apple hanno tenuto una riunione straordinaria nella se-de centrale di Cupertino, in California. Al-tre aziende avevano stilato un codice di condotta per i fornitori. Era ora che lo faces-sero anche loro. Il documento che la Apple ha pubblicato quell’anno impone che “le condizioni di lavoro della catena di fornito-ri siano sicure, che i dipendenti siano tratta-ti con rispetto e che i processi di fabbricazio-ne non danneggino l’ambiente”.

Ma l’anno successivo un giornale britan-nico, The Mail on Sunday, ha visitato in se-greto una fabbrica della Foxconn a Shen-zhen, in Cina, dove si producevano gli iPod, e ha raccontato le lunghe ore di lavoro, le lessioni a terra imposte come punizione e i dormitori sovrafollati. I dirigenti di Cuper-tino sono rimasti sconvolti. “Alla Apple c’erano molte brave persone che non ave-vano idea di quello che succedeva”, ha di-

chiarato un ex dipendente. “Abbiamo chie-sto che la Foxconn cambiasse sistema”. La Apple ha fatto ispezionare la fabbrica e ha ordinato di migliorare le condizioni di lavo-ro degli operai.

I dirigenti hanno preso anche altri prov-vedimenti, tra cui un controllo annuale e la conseguente stesura di un rapporto, il pri-mo dei quali è stato pubblicato nel 2007. Quell’anno l’azienda ha fatto una quaranti-na di controlli: in due terzi dei casi è emerso che gli operai lavoravano più di sessanta ore alla settimana. In sei impianti venivano commesse infrazioni più gravi, come far lavorare minorenni e falsiicare i documen-ti. Nei tre anni successivi la Apple ha fatto 312 controlli, e ogni anno ha scoperto in cir-ca la metà dei casi che molti operai lavora-vano più di sei giorni a settimana e avevano turni lunghissimi. Ad alcuni non veniva pa-gato il minimo salariale o veniva trattenuto lo stipendio per punizione. In questo perio-do la Apple ha accertato una settantina di violazioni gravi del suo codice, tra cui as-sunzione di minorenni, falsificazione di documenti, smaltimento illecito di riiuti pericolosi e più di cento dipendenti intossi-cati da prodotti chimici. L’anno scorso le ispezioni sono state 229. Sono stati riscon-trati dei leggeri miglioramenti. Ma in 93

impianti almeno la metà dei lavoratori su-perava ancora il limite delle sessanta ore settimanali. In altrettante fabbriche i di-pendenti lavoravano più di sei giorni alla settimana. Sono stati registrati casi di di-scriminazione, misure di sicurezza insui-cienti, mancato pagamento degli straordi-nari. Sempre l’anno scorso quattro dipen-denti sono morti e 77 sono rimasti feriti a causa di esplosioni.

“Se si registrano gli stessi problemi anno dopo anno, signiica che l’azienda li ignora”, dice un ex dirigente della Apple con un’esperienza diretta nei rapporti con i for-nitori. “Il mancato rispetto delle norme è tollerato, purché i fornitori promettano di impegnarsi di più. Se facessimo sul serio, queste pratiche illecite sparirebbero”.

La Apple afferma che quando scopre una violazione chiede al fornitore di risol-vere il problema entro novanta giorni e di introdurre le modiiche necessarie per evi-tare che si veriichi di nuovo. “Se non vuole cambiare le cose, interrompiamo il contrat-to”, scrive sul suo sito web. Non è chiaro, però, quanto sia seria la minaccia. La Apple ha scoperto scorrettezze in centinaia di ispezioni ma, secondo alcuni ex dirigenti, dal 2007 a oggi ha interrotto i rapporti con meno di 15 fornitori per questo motivo.

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Chengdu, Cina, 20 maggio 2011. Dopo l’esplosione alla Foxconn

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“Dopo che il contratto è stato irmato e la Foxconn è diventata uicialmente una del-le ditte fornitrici, la Apple non ha fatto più caso alle condizioni di lavoro e a tutto quel-lo che non riguardava i suoi prodotti”, dice Li, un ex dirigente della Foxconn che ha la-vorato per sette anni a Shenzhen e ad aprile è stato licenziato perché aveva riiutato il trasferimento a Chengdu. La Foxconn ha risposto: “Sia noi sia la Apple abbiamo a cuore il benessere dei dipendenti”.

Gli sforzi dell’azienda di Cupertino han-no prodotto qualche cambiamento. Negli impianti che sono stati ispezionati una se-conda volta “è stato notato un continuo mi-glioramento delle condizioni di lavoro”, ha scritto nel suo rapporto sulla responsabiliz-zazione dei fornitori del 2011. La Apple ha anche organizzato dei corsi per informare milioni di lavoratori sui loro diritti e sui me-todi per evitare incidenti e malattie. Qual-che anno fa gli ispettori hanno scoperto che alcuni dipendenti erano stati costretti a pa-

gare grosse cifre per essere assunti. Nel 2011 è stato imposto ai fornitori di rimbor-sare questi soldi per una cifra pari a più di 6,7 milioni di dollari. “La Apple è una delle aziende che combattono di più il lavoro mi-norile”, afferma Dionne Harrison di Im-pactt, una società di consulenza che colla-bora con la Apple per impedire lo sfrutta-mento dei minori da parte dei suoi fornitori. “Sta facendo tutto il possibile”. Altri consu-lenti non sono d’accordo. “Sono anni che segnaliamo problemi seri e consigliamo di intervenire”, spiega un dipendente della Business for social responsibility (Bsr). “Non vuole prevenire i problemi, vuole solo evitare di trovarsi in imbarazzo”.

Nel 2006, in collaborazione con una di-visione della Banca mondiale e altre orga-nizzazioni, la Bsr ha avviato un progetto per migliorare le condizioni di lavoro negli im-pianti che fabbricano cellulari e altri dispo-sitivi elettronici in Cina e altrove. La Fox-conn ha accettato di partecipare. Per quat-tro mesi la Bsr e un’altra organizzazione hanno discusso con l’azienda cinese un pro-gramma pilota per la creazione di un servi-zio di assistenza telefonica, una “linea di-retta” con cui i lavoratori potevano denun-ciare condizioni di lavoro illecite, chiedere sostegno psicologico e parlare dei loro pro-

blemi. La Apple non partecipava al proget-to, ma secondo il consulente della Bsr veni-va informata regolarmente. Man mano che le trattative procedevano, la Foxconn cam-biava le sue richieste. Innanzitutto ha chie-sto di valutare i servizi di assistenza esisten-ti prima di crearne di nuovi. Poi ha insistito sul fatto che doveva essere escluso il soste-gno psicologico. Quindi ha imposto ai par-tecipanti di irmare un impegno a non rive-lare quello che vedevano. Alla ine è stato raggiunto un accordo: il progetto doveva partire nel gennaio del 2008. Ma un giorno prima dell’inizio, l’azienda cinese ha chie-sto altre modiiche e allora, secondo un rap-porto della Bsr, che però non cita esplicita-mente la Foxconn, è apparso chiaro che il progetto non sarebbe andato avanti.

L’anno dopo un dipendente della Fox-conn è caduto o si è gettato dalla inestra di un palazzo dopo aver perso un prototipo dell’iPhone. Nei due anni successivi altri diciotto dipendenti hanno tentato il suici-dio o sono precipitati da un edificio. Nel 2010 la Foxconn ha creato un servizio di as-sistenza psicologica gratuito. “Avremmo potuto salvare delle vite, e abbiamo chiesto alla Apple di fare pressioni sulla Foxconn, ma non hanno voluto ascoltarci”, sostiene il consulente della Bsr, che ha chiesto di mantenere l’anonimato. “Aziende come Hewlett-Packard, Intel e Nike insistono di più con i loro partner stranieri”.

In un comunicato la Bsr ha afermato di non condividere l’opinione del suo consu-lente. “Io e i miei colleghi”, ha scritto il pre-sidente Aron Cramer, “pensiamo che la Apple stia facendo tutti gli sforzi possibili per garantire che le condizioni delle fabbri-che rispettino le leggi, gli standard e le aspettative dei consumatori”.

Un cliente esigenteOgni mese i dirigenti delle fabbriche di tut-to il mondo vanno a Cupertino o invitano i colleghi della Apple a visitare i loro impian-ti a un unico scopo: diventare fornitori dell’azienda statunitense. Appena arriva la notizia che la Apple è interessata a un parti-colare prodotto o servizio, spesso si festeg-gia. Poi cominciano le richieste. Di solito la Apple pretende che i suoi fornitori specii-chino quanto costa ogni pezzo, quanti ope-rai servono per realizzarlo e qual è il loro salario. Vuole conoscere ogni minimo det-taglio. Poi decide quanto pagherà a pezzo. Alla maggior parte dei fornitori resta un margine di proitto molto basso. Per questo, secondo alcuni dipendenti, spesso cercano delle scorciatoie: sostituiscono i prodotti chimici costosi con alternative più econo-

Le reazioni

u L’inchiesta del New York Times è stata tradotta e pubblicata in Cina dal settimanale economico Caixin. A sua volta il quotidiano statuniten-se ha tradotto in inglese i commenti dei lettori cinesi, pubblicati sul sito di Caixin e su alcuni blog. “Se quel-lo che è severamente proibito negli Stati Uniti viene accettato dalle au-torità cinesi”, scrive un lettore, “non saremo mai trattati con digni-tà”. Secondo un altro, “la Apple va condannata, ma resta aperta una questione essenziale: se le condizio-ni di lavoro nelle fabbriche siano tu-telate dalla legge. Questa tutela è compito della magistratura e dei sindacati. Oggi, però, conta solo il pil. E quindi quale governo ha il co-raggio di controllare queste azien-de?”. Zengchu1982, invece, osserva: “Se la gente vedesse che vita condu-cevano molti operai prima di entra-re alla Foxconn, arriverebbe alla conclusione che quelli della Apple sono dei filantropi”. Un altro lettore aggiunge che “le condizioni nelle piccole imprese sono anche peggio-ri. Il motivo principale è che i grandi marchi possono cambiare fornitore quando vogliono. Inoltre, i lavorato-ri cinesi non hanno sindacati”. Chen Qiye racconta: “All’epoca dell’esplosione alla Foxconn lavora-vo nel settore dell’informazione a Chengdu. La stampa locale fu cen-surata. Le autorità permisero di usare solo le notizie della Xinhua, l’agenzia di stato”.u Tim Cook, l’amministratore de-legato della Apple, ha risposto all’inchiesta del New York Times con una lunga email. “Noi ci pren-diamo cura di ogni lavoratore in tut-ta la nostra catena produttiva. Dire il contrario è falso e offensivo”. Cook, inoltre, ha ribadito che la Ap-ple “ispeziona sempre più fabbriche e ha fatto molti sforzi per migliorare le condizioni dei lavoratori”, per i quali organizza programmi d’infor-mazione sui loro diritti.

Apple: “Falsoe ofensivo”

Nel 2010 la Foxconn ha creato un servizio di assistenza psicologica gratuito

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In copertina

miche o chiedono agli operai di lavorare più velocemente e per più ore. “L’unico modo per guadagnare con la Apple è fare le cose più rapidamente o a un costo più basso”, di-ce il dirigente di un’azienda che ha collabo-rato alla realizzazione dell’iPad. “E poi l’an-no successivo la Apple torna e ci chiede uno sconto del 10 per cento”.

Nel gennaio del 2010 i lavoratori di una fabbrica cinese della Wintek, un’azienda partner della Apple, hanno scioperato per molti motivi, tra cui il difuso sospetto di essere esposti a un materiale tossico. Alcu-ne inchieste giornalistiche hanno rivelato che più di cento operai hanno subìto dei danni a causa dell’n-esano, una sostanza chimica tossica che può danneggiare il si-stema nervoso e provocare la paralisi. I di-pendenti hanno dichiarato che dovevano usarlo per pulire gli schermi degli iPhone, perché evaporava tre volte più rapidamente dell’alcol e quindi permetteva di pulire più schermi al minuto. Un anno dopo la Apple ha afermato di aver “chiesto alla Wintek di non usare quel prodotto”, di aver “veriicato che tutti i dipendenti intossicati fossero cu-rati e di impegnarsi a seguire i risultati dei loro controlli medici ino a completa guari-gione”. Ha anche chiesto alla Wintek di mi-gliorare il sistema di ventilazione.

Nello stesso mese un giornalista del New York Times ha intervistato una decina di operai della Wintek che avevano subìto danni a causa dell’n-esano. Hanno detto di non essere mai stati contattati dalla Apple o da una delle sue intermediarie e che la Win-tek li aveva spinti a licenziarsi e ad accettare un risarcimento in denaro. Dopo quelle in-terviste la Wintek si è impegnata ad aumen-tare i risarcimenti agli operai e la Apple ha mandato un suo rappresentante a parlare con alcuni di loro.

L’esplosioneIl pomeriggio dell’esplosione alla fabbrica dell’iPad, Lai Xiaodong aveva telefonato alla sua ragazza come faceva tutti i giorni. Volevano vedersi quella sera, ma il direttore gli aveva chiesto di fare uno straordinario. Alla Foxconn era stato quasi subito promos-so a responsabile di una squadra che si oc-cupava della manutenzione delle macchine per la lucidatura degli iPad. Il reparto levi-gatura era rumoroso e l’aria era densa di polvere di alluminio. Gli operai indossava-no maschere e tappi alle orecchie, ma per quante docce facessero, erano riconoscibili dal leggero luccichio dell’alluminio che ri-maneva sui capelli e agli angoli degli occhi.

Due settimane prima dell’esplosione un’organizzazione per la difesa dei diritti

umani di Hong Kong aveva pubblicato un rapporto in cui denunciava le pericolose condizioni di lavoro della fabbrica di Chengdu, compreso il problema della pol-vere di alluminio. L’organizzazione, che si chiama Studenti e professori contro il com-portamento scorretto delle aziende (Sa-com), aveva ilmato alcuni operai coperti di particelle di alluminio. “Le condizioni sani-tarie e di sicurezza di Chengdu sono allar-manti”, si leggeva sul rapporto. “I lavorato-ri denunciano il problema dell’insuiciente ventilazione e dell’inadeguatezza dell’equi-paggiamento di protezione”. Una copia di

quel documento è stata mandata alla Apple. “Non è arrivata nessuna risposta”, dice Debby Chan Sze del Sacom. “Qualche set-timana dopo sono andata alla sede di Cu-pertino, ma nessuno ha voluto ricevermi. Non ho più avuto notizie da loro”.

La mattina dell’esplosione, Lai è andato al lavoro in bicicletta. L’iPad era in commer-cio da qualche settimana e agli operai ave-vano detto che dovevano lucidare migliaia di gusci al giorno. Nella fabbrica c’era una gran frenesia. Protetti dalle ma-schere, gli uomini schiacciavano dei bottoni, e ile di macchine lu-cidavano i gusci. Nel reparto c’erano grandi condotti di area-zione, ma non erano sufficienti per le ile di macchine che lucidavano inin-terrottamente. La polvere di alluminio era dovunque. Il pericolo che comportano le polveri è noto. Nel 2003 un’esplosione cau-sata dalla polvere di alluminio ha distrutto una fabbrica di pneumatici nell’Indiana, uccidendo un operaio. Nel 2008 la polvere agricola all’interno di una fabbrica di zuc-chero della Georgia ha provocato un’esplo-sione che ha fatto 14 vittime.

Due ore dopo l’inizio del secondo turno, l’ediicio ha cominciato a tremare come se ci fosse un terremoto. C’è stata una serie di esplosioni, dicono gli operai. Poi sono arri-vate le urla. Quando i colleghi di Lai sono corsi fuori, il fumo scuro si stava mescolan-do con una pioggerella leggera, come si può osservare nei video girati con i cellulari. Al-la ine ci sono stati quattro morti e 18 feriti.

Quando è arrivata all’ospedale, la idan-zata di Lai ha visto che la sua pelle era quasi completamente bruciata. “L’ho riconosciu-

to dalle gambe, altrimenti non avrei saputo chi era”, dice. Più tardi sono arrivati i fami-liari. Lai aveva ustioni su più del 90 per cen-to del corpo. “Mia mamma è corsa fuori dalla stanza appena l’ha visto. Io sono scop-piato a piangere. Nessuno poteva sopporta-re quella vista”, dice il fratello. Quando è riuscita a rientrare, la madre ha evitato di toccarlo per timore di fargli male. “Se aves-si saputo”, dice. “Gli avrei stretto il braccio, lo avrei toccato. Era molto forte. Ha resisti-to per due giorni”.

Quando Lai è morto, i colleghi hanno portato l’urna con le ceneri nella sua città natale. In seguito l’azienda ha mandato alla famiglia un assegno di 150mila dollari. Se-condo il comunicato ufficiale della Fox-conn, al momento dell’esplosione la fabbri-ca di Chengdu operava nel rispetto di tutte le leggi e, “dopo esserci assicurati che le fa-miglie dei defunti avessero tutto il sostegno necessario, abbiamo cercato di garantire la migliore assistenza medica possibile ai feri-ti”. Dopo l’esplosione, aggiunge la compa-gnia, la Foxconn ha immediatamente inter-rotto l’attività nel reparto lucidatura, ha migliorato il sistema di areazione e di elimi-nazione delle polveri e ha adottato nuove misure per la sicurezza dei dipendenti.

Nel suo ultimo rapporto sulla responsa-bilità dei fornitori, la Apple ha scritto che dopo l’incidente ha contattato “i maggiori esperti di sicurezza” e ha creato una com-

missione per chiarire le cause dell’esplosione e dare consigli per evitare che se ne veriichino altre. Ma a dicembre è esplosa un’altra fabbrica di iPad, questa volta a Shanghai. Anche in questo caso,

secondo le interviste e l’ultimo rapporto dell’azienda, la causa è stata la polvere di alluminio. Nell’esplosione sono rimaste fe-rite 59 persone.

“Dopo un’esplosione è un segno di gra-ve negligenza non rendersi conto che biso-gnerebbe ispezionare tutte le fabbriche”, aferma l’esperto di sicurezza sul lavoro Ni-cholas Ashford. “Se fosse diicile eliminare la polvere di alluminio, lo capirei. Ma la so-luzione è semplicissima. Si chiama ventila-zione. Abbiamo risolto questo problema più di un secolo fa”. Nel suo ultimo rapporto la Apple ha ammesso che entrambe le esplo-sioni sono legate alla polvere di alluminio, ma sostiene che le cause sono state diverse. Solo che non ha voluto fornire altri dettagli. Nel rapporto si legge anche che l’azienda ha ispezionato tutte le fabbriche in cui si luci-dano i prodotti di alluminio e ha imposto più precauzioni. Tutti i fornitori le hanno messe in atto, tranne uno, la cui fabbrica è

Firmare un contratto con la Apple può far aumentare il valore di un’azienda

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stata chiusa. Per la famiglia di Lai, però, la questione resta aperta. “Non sappiamo esattamente perché è morto”, dice sua ma-dre in piedi accanto al reliquiario che ha fatto costruire vicino alla loro casa. “Non abbiamo capito cos’è successo”.

La lotteria

Ogni anno, appena circola la voce che è in uscita un nuovo prodotto della Apple, le ri-viste e i siti web di tecnologia cominciano a chiedersi quali saranno le aziende che vin-ceranno la lotteria. Firmare un contratto con la Apple può far aumentare il valore di un’azienda, perché conferma implicita-mente la qualità del suo lavoro. Ma poche se ne vantano apertamente, perché di solito la Apple chiede ai fornitori di irmare un ac-cordo in cui si impegnano a non divulgare nessuna notizia, neanche quella della loro collaborazione.

La mancanza di trasparenza permette alla Apple di mantenere segreti i suoi piani. Ma secondo alcuni ex dirigenti e le organiz-zazioni per la difesa dei diritti dei lavoratori, la scarsa trasparenza impedisce anche di migliorare le condizioni di lavoro. A genna-io, dopo diverse richieste da parte di attivi-sti e mezzi d’informazione, compreso il New York Times, la Apple ha reso noti i no-

mi di 156 fornitori. Nel documento che ac-compagna la lista, l’azienda di Cupertino ha dichiarato che questi fornitori “sono il 97 per cento di quelli che collaborano alla fab-bricazione dei nostri prodotti”. Non ha però rivelato i nomi di altre aziende che non han-no un contratto diretto con la Apple né ha detto dove si trovano le fabbriche della lista. Alcune organizzazioni indipendenti dicono che quando hanno provato a ispezionare i fornitori della Apple gli è stato vietato l’ac-cesso, per ordine della stessa Apple. “Ne abbiamo parlato centinaia di volte”, dice un ex dirigente del gruppo per la responsabilità dei fornitori. “L’azienda ci tiene molto al suo codice di condotta. Ma arrivare ino in fondo e imporre dei veri cambiamenti en-trerebbe in conlitto con gli obiettivi com-merciali e di segretezza”. Gli ex dipendenti sostengono che a quasi tutti era vietato ave-re rapporti con le aziende esterne. “La cul-tura della segretezza condiziona tutto”, spiega un ex dirigente intervistato.

Se cambiasse radicalmente sistema, la Apple potrebbe rivoluzionare l’intero setto-re. “Tutti vorrebbero essere la Apple”, dice Sasha Lezhnev di Enough project, un’orga-nizzazione che si occupa della responsabili-tà delle aziende. “Se si impegnasse a elimi-nare le pratiche illecite, molti la imiterebbe-

ro”. In realtà, dicono gli ex dirigenti dell’azienda, le pressioni che vengono dall’esterno sono poche. Il marchio Apple è uno dei più ammirati. Da un sondaggio a livello nazionale condotto dal New York Times a novembre è emerso che al 56 per cento degli intervistati non veniva in mente niente di negativo a proposito della Apple. Il 14 per cento ha dichiarato che il suo difetto principale erano i prezzi. E solo il 2 per cento ha accennato alle condizioni di lavoro nelle fabbriche straniere.

Persone come Heather White di Har-vard sostengono che, inché i consumatori non chiederanno migliori condizioni di la-voro nelle fabbriche all’estero, come hanno fatto con la Nike, o inché non interverran-no i legislatori, diicilmente ci sarà un cam-biamento radicale. E all’interno dell’azien-da molti sono d’accordo con lei. “Puoi pro-durre in fabbriche confortevoli e sicure op-pure puoi decidere di reinventare un pro-dotto ogni anno per renderlo migliore, più veloce e più economico. Ma questo richiede fabbriche le cui condizioni sono molto dure per gli standard statunitensi”, ha dichiarato un attuale dirigente della Apple. “E in que-sto momento i nostri clienti sono interessa-ti più al nuovo iPhone che alle condizioni di lavoro in Cina”. u bt

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Shenzhen, Cina. Nello stabilimento della Foxconn

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Medio Oriente

Le rivoltecambiano l’islamOlivier Roy, New Statesman, Gran BretagnaFoto di Davide Monteleone

Alle elezioni in Marocco, in Egitto e in Tunisia hanno vinto i partiti islamici. Sono conservatori e tradizionalisti, ma non riusciranno a fermare il processo di democratizzazione, scrive Olivier Roy

Nel 2011, con le rivolte nel mondo arabo, abbiamo assistito all’arrivo di una nuova generazione sulla scena politica e a una rottura definitiva

con la cultura politica dominante degli ul-timi sessant’anni. Tuttavia i giovani rivolu-zionari non hanno preso il potere in nessun paese: non l’hanno voluto. Alle elezioni hanno trionfato i partiti islamici: organiz-zati, ben radicati nella società, legittimati da decenni di opposizione politica, difen-sori di quei valori religiosi e conservatori condivisi dalla maggior parte della popola-zione, hanno saputo conquistare molti più voti rispetto al numero dei loro militanti perché si sono presentati come dei veri partiti di governo. In Egitto è stato sorpren-dente il buon risultato ottenuto dai salaiti del partito Al Nour. Anche se la difusione del salaismo nella società egiziana era or-mai nota, è diicile capire cos’abbia moti-vato i loro elettori: è stato un voto di prote-sta contro il passato regime o un voto a fa-vore della sharia, la legge islamica?

In ogni caso il successo dei partiti isla-

mici fa nascere dei dubbi sul processo di democratizzazione nei paesi della prima-vera araba. Allo stesso tempo rallegra chi in occidente – in particolare nei movimenti populisti – aveva visto traballare uno dei capisaldi della teoria dello “scontro di ci-viltà”: l’idea dell’incompatibilità tra islam e democrazia.

Come i Tea partyAbbiamo di fronte due immagini contra-stanti delle società arabe. Da un lato ci so-no i giovani, in cerca di libertà e di demo-crazia, individualisti, tolleranti e progres-sisti, ma anche inesperti e minoritari. Dall’altro ci sono gli elettori dei partiti isla-mici, conservatori, tradizionalisti, preoc-cupati dei rischi legati al disordine e, alme-no in parte, attenti ai precetti islamici e alla sharia.

Sarebbe un errore pensare che questi due schieramenti siano ben deiniti e in lotta tra loro. Quello a cui stiamo assisten-

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Sidi Bouzid, Tunisia, 15 dicembre 2011. Celebrazioni nell’anniversario della morte di Mohamed Bouazizi

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Medio Oriente

do è un processo a lungo termine, in cui le trasformazioni delle società arabe e l’evo-luzione della religione (il “postislamismo”) faticano a prendere forma in uno scenario politico dominato da figure del passato. Così come negli Stati Uniti i Tea party sono una reazione all’elezione di Barack Obama – che risulta incomprensibile se non si tie-ne conto della crescita delle minoranze e del minore impatto dei valori tradizionali tra le nuove generazioni – nei pae si arabi l’ondata conservatrice è una reazione a mutamenti sociali e culturali irreversibili e allo stesso tempo destabilizzanti.

Per capire i cambiamenti in corso biso-gna superare alcuni pregiudizi. Il primo è pensare che una società possa diventare democratica solo se è prevalentemente lai-

ca. Il secondo è che un democratico sia per deinizione un progressista. Da un punto di vista storico non è stato così: i padri fonda-tori degli Stati Uniti non erano laici e ai loro occhi la separazione tra stato e chiesa ser-viva a proteggere la religione dal controllo statale, e non il contrario. La terza repub-blica francese fu fondata nel 1871 da un parlamento monarchico, cattolico e con-servatore, che aveva appena represso la Comune di Parigi. La democrazia cristiana si è sviluppata in Europa non perché la chiesa volesse sostenere dei valori laici, ma perché era l’unico modo per continuare a esercitare la sua inluenza in politica. Ini-ne non dimentichiamo che nell’Europa di oggi i movimenti populisti si uniscono ai democristiani per chiedere che la costitu-zione europea faccia riferimento all’iden-tità cristiana del continente.

Nel mondo arabo sta succedendo qual-cosa di simile. I partiti islamici criticano la laicizzazione della società, l’inluenza dei valori occidentali e l’eccesso di individua-lismo. Un po’ dappertutto cercano di afer-mare la centralità della religione nell’iden-tità nazionale e sono conservatori in tutti i campi (tranne che in economia). Il succes-so alle urne potrebbe spingerli – come spin-gerebbe qualunque partito arrivato al pote-re con un’ampia vittoria elettorale – a tra-scurare le alleanze con altri partiti e a tene-re per sé, invece che distribuire in modo equo, tutti gli incarichi nell’amministrazio-ne pubblica e nei settori sotto il controllo

governativo (stampa, tv, banche, scuola). Perché i partiti islamici, che non hanno una grande cultura democratica, dovrebbero comportarsi da buoni democratici, e ga-rantire l’alternanza e il pluralismo? Molti attivisti per la democrazia si stanno facen-do la stessa domanda.

I politici dei partiti islamici non sono laici né progressisti ma possono essere de-mocratici. La loro linea politica infatti non è determinata tanto dalle convinzioni dei dirigenti del partito quanto dai vincoli dell’ambiente che li circonda. Questi vin-coli fanno sperare in una lenta istituziona-lizzazione dello spazio democratico, anche se le politiche adottate non sembrano af-fatto progressiste. Innanzitutto i partiti islamici fanno il loro ingresso in uno spazio

politico nuovo: la rivoluzione non ha sosti-tuito la dittatura con un regime simile al precedente. Ci sono state delle elezioni, c’è un parlamento e ci sono dei nuovi partiti. Nonostante i timori e le delusioni della si-nistra laica, sarà diicile annullare tutto questo, tanto più che i fattori che ne hanno permesso la creazione (una nuova genera-zione connessa a internet con un radicato spirito di contestazione) sono ancora pre-senti. I movimenti islamici agiscono in uno spazio democratico che non hanno crea to e che è ancora legittimo agli occhi della po-polazione. È interessante notare che in nessun pae se delle rivolte arabe si è impo-sto il culto del capo carismatico. Al suo po-sto ci sono i partiti e una nuova cultura del dibattito, che ha inluenzato anche i movi-menti islamici.

Questo spazio democratico non è una

bolla nata per caso ma la conseguenza di una profonda trasformazione della socie-tà. Non si può cambiare una società per decreto. In Iran, per esempio, tutti gli indi-catori mostrano che la società è diventata più laica e moderna sotto il regime dei mul-lah. Anche se la legge autorizza il matrimo-nio di una bambina di nove anni, le statisti-che indicano che l’età media delle nozze per le donne iraniane ha continuato ad au-mentare e oggi supera i venticinque anni. In altre parole, non si può stabilire per de-creto il ritorno a una società tradizionale.

La primavera araba non è stata scatena-ta da un’ideo logia totalizzante (come in Iran nel 1978) ma dalle richieste di demo-crazia, pluralismo e buon governo. Le ele-zioni iraniane del 1979 si svolsero nel nome della repubblica islamica. E anche se non tutti erano d’accordo su come realizzarla, il messaggio era chiaro: quella era una rivo-luzione ideologica, a prescindere dal suo colore (se era il rosso dei marxisti e degli islamomarxisti o il verde degli islamici).

In Egitto o in Tunisia le cose non sono andate così. Gli elettori dei partiti islamici di oggi non sono rivoluzionari ma conser-vatori. Vogliono tornare all’ordine, rilan-ciare l’economia, afermare i valori della tradizione e della religione, e non istituire un califato o una repubblica islamica. La Fratellanza musulmana lo sa bene e non vuole inimicarsi l’elettorato, molto etero-geneo, perché ne avrà ancora bisogno. D’altro canto, le elezioni hanno conferito ai Fratelli una legittimità che possono sfruttare per resistere ai tentativi di pres-sione esterna.

Nessun monopolioUn altro motivo che ci porta a pensare a una lenta afermazione della democrazia è che i partiti islamici non hanno i mezzi per prendere il potere con la forza perché non controllano né la polizia né l’esercito e non hanno una milizia. Ci vorrebbero anni per

I partiti islamici non hanno i mezzi per prendere il potere con la forza perché non controllano né la polizia né l’esercito

Tunisia Il 23 ottobre 2011, a nove mesi dalla caduta del regime di Zine el Abidine Ben Ali, i tunisini sono andati alle urne per eleggere l’assemblea costituente. Il partito islamico moderato Ennahda, con il 37 per cento dei voti, ha ottenuto la maggioranza relativa. Il segretario generale di Ennahda, Hamadi Jebali, è diventato primo ministro.

Marocco Dopo le manifestazioni dell’inizio del 2011 contro la monarchia, re Mohammed VI ha promosso un’importante riforma costituzionale che ha portato alle elezioni legislative anticipate del 25 novembre 2011, vinte dal Partito della giustizia e dello sviluppo (islamici democratici) di Abdelilah Benkirane, che è diventato primo ministro.

Egitto Alle elezioni della camera bassa del parlamento, che si sono svolte dal 28 novembre 2011 all’11 gennaio 2012, hanno trionfato i partiti islamici. Il Partito libertà e giustizia dei Fratelli musulmani – che ino a un anno prima non potevano partecipare alle elezioni – ha ottenuto il 38 per cento, il partito Al Nour (salaita) il 28 per cento.

Da sapere

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no ai deputati islamici sono di carattere geo strategico. Questi politici non sono sta-ti eletti sulla base di un programma di jihad o di sostegno alla causa palestinese. Né la primavera araba né l’inverno arabo hanno una posizione chiara sulle grandi questioni internazionali, diversamente dalla rivolu-zione nasseriana e baathista o dalla con-trorivoluzione islamica iraniana, che si sono deinite nel quadro dei grandi conlit-ti internazionali dell’epoca. Non si è parla-to di relazioni internazionali nella campa-gna elettorale in Egitto. Indubbiamente il conlitto israelopalestinese è importante sul piano emotivo, ma nessuno è disposto a rimettere in discussione la stabilità e lo sviluppo economico del paese in nome del jihad. Questi partiti non amano Israele ma non hanno intenzione di lanciarsi in una guerra santa. All’inizio di gennaio la visita in Tunisia di Ismail Haniyeh, leader di Ha-mas a Gaza, è da vedere più come un segno di una continuità con il passato (l’Organiz-zazione per la liberazione della Palestina era stata accolta a Tunisi dopo l’occupazio-ne di Beirut da parte degli israeliani nel 1982) che come un elemento di rottura con la politica estera del passato regime.

Vincoli geostrategiciAnche la volontà dei Fratelli musulmani di aprire un dialogo con i diplomatici occi-dentali è il segno dell’interiorizzazione dei vincoli geostrategici. Non hanno alternati-ve, e di certo non vogliono un’apertura ver-so l’Iran. Dietro le quinte l’Arabia Saudita e il Qatar hanno svolto un ruolo molto im-portante, i primi spingendo i salaiti a en-trare nella lotta elettorale, i secondi soste-nendo i Fratelli musulmani un po’ dovun-que nel mondo arabo. Di conseguenza il grande conlitto che si sta delinean do non è quello del mondo musulmano contro l’occidente, ma quello del mondo arabo sunnita conservatore contro la “mezzalu-na sciita” costituita dall’Iran, con sullo sfondo un’“alleanza non santa” tra Arabia Saudita e Israele. In questa situazione i Fratelli musulmani non sanno bene che ruolo assumere e ne sono consapevoli. In ultima analisi la vittoria dei partiti islamici fa parte del processo di normalizzazione del mondo arabo sia sul piano interno sia su quello geo strategico. u adr

organizzare, sempre che lo vogliano, una loro forza armata. Inoltre non hanno il mo-nopolio sull’islam perché esistono altre correnti musulmane, come i suiti e i sala-iti. Uno dei paradossi della primavera ara-ba è che ha conferito una nuova legittimità a un’istituzione religiosa come l’università di Al Azhar, una delle più antiche e impor-tanti in Egitto. Il suo imam, lo sceicco Ah-med Mohamed al Tayyeb, si è presentato come un difensore dei diritti umani, della libertà e soprattutto della separazione del-le istituzioni religiose (tra cui Al Azhar) dallo stato. Questo signiica che i Fratelli musulmani, diversamente da quello che succede in Iran, non possono controllare le istituzioni religiose e non possono stabilire “quello che dice l’islam”. Lo spazio religio-so ha assunto un carattere più pluralistico e si sta adattando alla democrazia, anche se ovviamente per i religiosi ci sono punti su cui non si può negoziare.

Ma, al di là della centralità dell’islam, non tutti sono d’accordo su quello che può o non può essere negoziato. Bisogna nomi-nare un organismo di controllo che stabili-sca la conformità delle leggi alla dottrina islamica? E chi dovrebbe farne parte? Biso-gna applicare le hudud, le pene corporali previste in caso di trasgressione dei divieti religiosi? Per un musulmano è possibile convertirsi al cristianesimo? In Tunisia le donne potranno conservare i loro diritti? Le questioni da discutere sono tante ed è proprio sulla deinizione di libertà religiosa

che assisteremo a discussioni molto ani-mate. I Fratelli musulmani afermano di voler garantire i diritti della minoranza copta. Ma sono disposti a fare della libertà religiosa un diritto individuale e non più il diritto collettivo di una minoranza? Il di-battito su questo punto è già cominciato. Per esempio Abd al Munem Abu Futuh, un dissidente dei Fratelli musulmani, ha di-chiarato nel maggio del 2011: “Nessuno deve interferire se un cristiano decide di convertirsi all’islam o se un musulmano decide di abbandonare l’islam e diventare cristiano”.

Su tutti i temi riguardanti l’applicazione delle norme islamiche c’è un dibattito in-terno alle istituzioni religiose interessate. La democratizzazione interessa anche la comunità dei credenti. Di certo i salaiti aumenteranno la pressione per far applica-re la sharia e cercheranno di mettere i Fra-telli musulmani davanti alle loro contrad-dizioni. Ma anche i salafiti sono entrati nello spazio politico e hanno formato un partito. Sanno infatti che se non fossero presenti in parlamento perderebbero tutta la loro inluenza. Tuttavia Al Nour non è un partito di governo e, a parte i richiami alla sharia, non ha un vero programma. I Fra-telli musulmani e i salaiti sono quindi ob-bligati a distinguersi e a essere rivali tra loro, e si può immaginare che formeranno alleanze con altre forze politiche non isla-miche.

Inine, gli ultimi vincoli che s’impongo-

L’AUTORE

Olivier Roy è un professore di scienze politiche, esperto di islam. Insegna all’Istituto europeo di Fiesole. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La santa

ignoranza (Feltrinelli 2009).

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Sidi Bouzid, Tunisia, 17 dicembre 2011

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Un allenatorein salaoperatoriaAtul Gawande, The New Yorker, Stati UnitiFoto di Vincent Laforet

Per raggiungere il massimo delle prestazioni, gli atletie i musicisti si aidano a un preparatore. Perchéi chirurghi no? L’esperimento di Atul Gawande

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Faccio il chirurgo da otto an-ni. Negli ultimi due, le mie prestazioni in sala operato-ria hanno raggiunto un livel-lo stabile. Mi piacerebbe pensare che sia un fatto po-

sitivo, e che io abbia raggiunto il massimo della professionalità. Ma ho la sensazione che si tratti di qualcos’altro: ho smesso di migliorare. Nei primi due o tre anni di prati-ca si migliora quasi ogni giorno. Non è solo una questione di abilità manuale, quella si acquisisce durante il tirocinio. Come disse una volta uno dei miei professori, per quan-to riguarda la manualità praticare la chirur-gia non è più diicile che scrivere in corsivo. La padronanza del mestiere si vede dalla scioltezza e dalla capacità di valutare le si-tuazioni. S’impara quali problemi possono sorgere durante determinati interventi o nei casi in cui il paziente sofre di un certo disturbo, e si impara come prevenirli o ri-solverli.

Supponiamo di avere un paziente che deve essere operato di appendicite. In que-sti casi ormai s’interviene quasi sempre in laparotomia. Prima si fa scivolare nell’ad-dome una piccola telecamera, detta laparo-scopio, attraverso un’incisione di mezzo centimetro vicino all’ombelico. Poi s’inse-risce un lungo grasper, uno strumento per aferrare i tessuti manovrabile a distanza, attraverso un’incisione all’altezza della vi-ta. Inine s’inila uno strumento per tagliare e ricucire in un’incisione praticata nell’ad-dome. Con il grasper si strappa l’appendice, che ha più o meno le dimensioni di un dito, e con la pinzatrice si bloccano i vasi sangui-gni che vi aluiscono. Si mette l’organo re-ciso in un sacchetto di plastica, si estraggo-no gli strumenti, si richiude ed è fatta. Al-meno in teoria. Ma le cose non sono sempre così semplici. Ancora prima di cominciare bisogna fare qualche valutazione. Una struttura anatomica particolare, una grave forma di obesità o cicatrici interne nella zo-na addominale dovute a operazioni prece-denti possono complicare l’ingresso della telecamera. Si rischia di inilarla in un’ansa dell’intestino. Quindi bisogna decidere quale metodo usare per inserirla, oppure rinunciare all’alta tecnologia e operare in modo tradizionale, facendo un’incisione più ampia che permetta di vedere tutto di-rettamente. Anche dopo aver inserito la te-lecamera e gli altri strumenti, aferrare l’ap-pendice può risultare problematico. L’infe-zione la trasforma in un grosso verme in-iammato che si attacca a tutto quello che lo circonda – intestino, vasi sanguigni, ovaie, parete pelvica – e per liberarla si può sce-

gliere tra diversi strumenti e tecniche. Si può usare un lungo strumento con la punta ricoperta di cotone per cercare di staccare le aderenze. Si può usare un elettrocaute-rizzatore, un gancio, un paio di forbici, un dissettore a punta ailata o a punta arroton-data, un dissettore ad angolo retto o un aspiratore. Si può regolare il tavolo operato-rio in modo che i piedi del paziente siano più alti della testa, per far spostare le visce-re nella direzione opposta. Oppure aferra-re la parte visibile dell’appendice e tirare forte.

Una volta che questo piccolo organo è in vista, si può scoprire che la diagnosi di ap-pendicite era sbagliata. Potrebbe trattarsi di un tumore dell’appendice, del morbo di Crohn, di un problema alle ovaie che ha provocato l’iniammazione dell’appendice. A quel punto bisogna decidere se servono altri strumenti o altro personale, e forse è il caso di chiamare un collega.

Con l’esperienza s’impara a prevenire le complicazioni e, quando non è possibile, a trovare soluzioni con maggior sicurezza. In otto anni ho fatto più di duemila interventi, tre quarti dei quali nel mio campo di specia-

lizzazione, la chirurgia endocrina, che si occupa di organi come la tiroide, la parati-roide e le ghiandole surrenali. Gli altri in-terventi sono stati un po’ di tutti i tipi, dalle semplici biopsie ai tumori al colon. Nel mio settore ormai conosco le principali diicol-tà che possono insorgere, e ho trovato delle soluzioni. Negli altri, ho acquisito maggiore iducia nella mia capacità di afrontare le situazioni più diverse e di improvvisare in caso di necessità.

Via via che passavano gli anni, confron-tavo i miei risultati con i dati nazionali e a un certo punto ho visto che cominciavo a superare la media. La mia percentuale di complicazioni diventava sempre più bassa. Finché, un paio di anni fa, ha smesso di mi-gliorare. Mi è sembrato che da quel punto in poi le cose potessero solo andare nella dire-zione sbagliata.

Forse questo succede quando arrivi a 45 anni. Nel campo della chirurgia si raggiun-ge il massimo della carriera piuttosto tardi. Non è come nella matematica, nel baseball o nella musica pop, dove spesso a trent’anni hai già dato il meglio di te. A quanto pare per diventare abili nei mestieri che hanno a

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che fare con la complessità degli esseri umani o della natura ci vuole più tempo: l’età media alla quale vengono assunti gli amministratori delegati delle aziende che fanno parte dell’indice Standard & Poor’s 500 è 52 anni. I geologi raggiungono la mas-sima produttività a 54 anni. I chirurghi sono una via di mezzo, perché il loro lavoro ri-chiede una resistenza isica e una capacità di giudizio che vengono con l’esperienza. Forse il fatto che non miglioravo più signii-cava che ero arrivato al mio massimo.

Non era la prima volta che le mie presta-zioni raggiungevano un livello stabile. Mi era già successo quando andavo alle supe-riori. All’epoca vivevo nell’Ohio, e speravo di diventare un giocatore di tennis profes-sionista. Ma a 17 anni avevo raggiunto il li-mite delle mie capacità. Fu l’anno in cui giocando in doppio con Danny Trevas rag-giunsi il massimo livello nel campionato dell’Ohio valley. Mi qualiicai anche come singolo in un paio di tornei nazionali, ma fui subito eliminato. La squadra di tennis di Stanford, dove poi ho fatto l’università, era la prima del paese, e non avevo nessuna possibilità di entrarci. Negli ultimi venti-

cinque anni a cercare di rallentare l’inelut-tabile declino del mio gioco.

D’estate mi diverto ancora a scendere in campo, con una racchetta professionale, cercando di ritrovare quei momenti sempre più rari in cui la racchetta sembra un pro-lungamento del mio braccio e le gambe mi portano esattamente dove arriverà la palla. Ma ormai mi sono rassegnato all’idea che non sarò mai bravo come a 17 anni. Per non perdere del tutto l’allenamento, gioco ogni volta che posso. Spesso mi porto dietro la racchetta quando viaggio per lavoro, e cer-co di inilare una partita tra un impegno e l’altro.

In un giorno di luglio di un paio di anni fa, mentre ero a un convegno a Nantucket, un pomeriggio andai a cercare qualcuno con cui giocare. Scoprii un circolo di tennis e chiesi se c’era qualcuno che voleva tirare due colpi. Ma non c’era nessuno. Poi vidi che avevano una macchina lanciapalle e chiesi all’istruttore se potevo usarla per esercitarmi. Mi rispose che era solo per i soci, ma che potevo pagare una lezione e giocare con lui.

Era un neolaureato di poco più di vent’anni che aveva giocato per la squadra della sua università. Palleggiammo per un po’. All’inizio non mi forzava, poi cominciò a farmi correre. Avevo battuto qualche ser-vizio vincente e il maestro che era in lui era subito venuto fuori. Sa, mi disse, potrebbe rendere più potente il suo servizio.

Ne dubitavo: il servizio era sempre stato il mio forte. Ma l’ascoltai. Mi disse di pre-stare più attenzione a dove tenevo i piedi mentre servivo, e un po’ alla volta mi resi conto che mentre alzavo la racchetta in aria le mie gambe non erano nella posizione giusta. La destra restava leggermente in-dietro e questo indeboliva il colpo. Mi sfor-zai di correggere la posizione e in pochi minuti la velocità del mio servizio aumentò di almeno 15 chilometri all’ora. Battevo me-glio di quanto non avessi mai fatto in vita mia.

Poco tempo dopo vidi in televisione Ra-fael Nadal giocare in un torneo. A un certo punto la telecamera inquadrò il suo coach e mi resi conto di una cosa: perino Rafael Nadal aveva un allenatore. Quasi tutti i grandi tennisti ne hanno uno.

Gli atleti professionisti usano gli allena-

tori per essere sicuri di dare il meglio di sé. Ma i dottori no. Avevo pagato un ragazzo appena uscito dall’università per controlla-re il mio servizio. Perché invece trovavo in-concepibile pagare qualcuno che venisse in sala operatoria e controllasse la mia tecnica chirurgica?

Il concetto di coach è ambiguo. Un alle-natore non è un maestro, ma insegna. Non è lui il capo – nel tennis, nel golf e nel patti-naggio professionali, è l’atleta che assume e licenzia l’allenatore – ma è lui che dà gli ordini. Non deve neanche essere partico-larmente bravo. Il famoso allenatore di gin-nastica olimpionica Bela Karolyi non sareb-be stato in grado di fare una spaccata nean-che per salvarsi la vita. In genere, l’allenato-re osserva, giudica, guida. È come l’editor di uno scrittore, un’altra igura ambigua. Pensate a Maxwell Perkins, l’editor che sco-prì, aiutò e pubblicò scrittori come Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway e Tho-mas Wolfe. “Perkins ha la speciale capacità di nutrire la tua iducia in te stesso e nel li-bro che stai scrivendo”, dichiarò uno dei suoi autori a un giornalista del New Yorker nel 1944. “Non ti dice mai quello che devi fare”, disse un altro, “ti aiuta a capire quello che vuoi fare senza dirtelo esplicitamen-te”.

Un orecchio in piùNell’insegnamento tradizionale si presume che a un certo punto lo studente non abbia più bisogno di essere istruito. Ha inito di imparare. Può andare avanti da solo. È così che si fa con i musicisti. Nel suo libro Tea-

ching genius, Barbara Lourie Sand descrive i metodi della leggendaria maestra di violino Dorothy DeLay alla Juilliard school, la fa-mosa scuola di arti, musica e spettacolo di New York. Alla ine del novecento DeLay ha fatto da tutor a un numero incredibile di virtuosi, tra cui Itzhak Perlman, Nigel Ken-nedy, Midori Gotō e Sarah Chang. Quando arrivavano alla Juilliard questi musicisti erano molto giovani e avevano dimostrato di avere talento, ma avevano raggiunto il limite di quello che potevano imparare dai loro vecchi insegnanti. Alla Juilliard studia-vano per qualche anno con DeLay e dopo il diploma decollavano verso una brillante carriera. DeLay li preparava a farsi strada senza di lei.

Itzhak Perlman, per esempio, arrivò alla Juilliard a 13 anni, nel 1959, e studiò per otto anni con DeLay e Ivan Galamian, un altro maestro molto apprezzato. Imparò la disci-plina, un vasto repertorio e ogni possibile minuzia tecnica. “Tutti gli allievi di DeLay, giovani e meno giovani, dovevano fare le

Maria Sharapova e Justine Henin agli Us Open di New York nel 2006. Nella pagina precedente: il giamaicano Usain Bolt vince la inale dei cento metri alle Olimpiadi di Pechino, nell’estate del 2008

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Scienza

scale, gli arpeggi, i vari studi, i concerti di Bach e così via”, racconta Sand. “Quando arrivavano all’adolescenza, studiavano al-meno cinque ore al giorno”. DeLay li inco-raggiava anche a provare cose nuove e dii-cili, a non aver paura di suonare. Allargava il loro orizzonte di possibilità. Perlman ave-va avuto la polio, quindi non poteva suona-re il violino in piedi, ma DeLay era convinta che potesse fare la carriera concertistica. “Essenzialmente insegnava ai suoi allievi a pensare, e a idarsi della propria capacità di farlo”, scrive Sand. La competenza signii-cava non dover più imparare da qualcun altro.

Noi medici intendiamo la competenza nello stesso modo. La conoscenza delle malattie e le terapie si evolvono. E noi dob-biamo continuare a sviluppare le nostre capacità e non rimanere mai indietro. Du-rante la formazione ci viene inculcata l’eti-ca del perfezionismo. In medicina, la com-petenza non è una condizione statica, ma un’abilità che va costruita e mantenuta.

La formazione sportiva parte da una premessa completamente diversa: consi-dera il modello pedagogico ingenuo rispet-to alla nostra capacità di autoperfeziona-mento. Si basa sull’idea che, per quanto siano ben preparati negli anni della forma-zione, pochi riescano a raggiungere e a mantenere il massimo livello da soli. Se-condo me, una di queste due visioni è sba-gliata. Così ho chiamato Itzhak Perlman per sapere cosa ne pensava. Gli ho chiesto perché i violinisti non avevano un allenato-re come i grandi atleti. Mi ha risposto che non lo sapeva, ma che gli era sempre sem-brato un errore. Lui lo aveva sempre avuto.

Davvero? “Sono stato molto, molto for-tunato”, ha risposto Perlman. Sua moglie Toby, che aveva conosciuto alla Juilliard, era una concertista come lui, e lo aiutava da quarant’anni. “Il problema principale di chi suona è ascoltarsi”, mi ha detto. “La isicità, le sensazioni che provi mentre suoni il vio-lino, interferiscono con la capacità di ascol-to”. Quello che percepisce il violinista spes-so è diverso da quello che percepisce il pub-blico. “Mia moglie dice sempre che in realtà io non so come suono”, ha aggiunto. “Lei è un orecchio in più”. Gli dice se un passaggio è troppo veloce, troppo rigido o troppo mec-canico, se c’è qualcosa da modificare. A volte ha difficoltà a capire cosa non va e chiede aiuto a un altro esperto. Il suo orec-chio gli garantisce un giudizio esterno. “È molto severa, e questa è la cosa che mi piace di più”, dice Perlman. Lui stesso non si ida sempre del proprio giudizio quanto ascolta le registrazioni. A volte pensa che un pas-

saggio sia terribile, ma poi si accorge che si sbagliava: “Ho scoperto che esistono dife-renze anche nella capacità di ascoltare”. Perlman non sa se altri strumentisti abbia-no un allenatore, ma ha il sospetto che mol-ti si facciano aiutare come lui. I cantanti, mi ha fatto notare, si appoggiano ai maestri per tutta la loro carriera.

Quindi, un orecchio o un occhio esterno sono importanti per i concertisti e gli atleti olimpici. E per gli altri professionisti che vogliono fare il loro lavoro nel modo miglio-re possibile? Ne ho parlato con Jim Knight, che dirige il Kansas coaching project dell’università del Kansas. Insegna ai pro-fessori delle scuole. Le ricerche conferma-no che il fattore più determinante nell’ap-prendimento non è il numero di alunni per classe né la quantità di test a cui gli studenti sono sottoposti, ma la qualità degli inse-gnanti. Le autorità scolastiche ricorrono essenzialmente al si-stema dei premi e delle punizioni: licenziano gli insegnanti che la-vorano male, aumentano lo sti-pendio a quelli che lavorano bene e penalizzano le scuole in cui gli studenti ottengono i risultati peggiori. Le persone come Knight pensano che dovremmo insi-stere sull’allenamento.

I punti deboliAll’inizio degli anni ottanta, un gruppo di ricercatori californiani avviò uno studio di cinque anni sull’insegnamento in ottanta scuole, e scoprì qualcosa di interessante. Dopo un corso di aggiornamento, solo il 10 per cento dei professori usava le tecniche che aveva imparato. Anche se il corso com-prendeva una sessione pratica con una pro-va valutata dall’esterno, meno del 20 per cento cambiava il suo modo di lavorare. Ma se veniva introdotto un allenatore – un col-lega che li osservava mentre provavano le nuove tecniche in classe e dava suggeri-menti – la quota degli insegnanti che cam-biavano metodo saliva a più del 90 per cen-to. Una serie di piccoli studi su campioni

casuali l’aveva confermato. Gli insegnanti seguiti da un preparatore erano più bravi e i loro studenti riuscivano meglio nei test.

Knight lo aveva sperimentato di perso-na. All’inizio degli anni novanta aveva cer-cato di insegnare a scrivere agli studenti di un college di Toronto e si era trovato in dif-icoltà. Aveva studiato le tecniche per inse-gnare ai ragazzi a scrivere frasi coerenti e organizzare meglio i paragrai, ma aveva ottenuto poco o niente ino a quando un collega non era andato nella sua classe e lo aveva seguito. Aveva vinto un premio per l’innovazione nell’insegnamento e alla ine aveva scritto una tesi di specializzazione su come migliorare le tecniche pedagogiche. Poi aveva ottenuto un inanziamento per formare i preparatori di tutte le scuole di Topeka, la capitale del Kansas, e da allora ha sempre ampliato il suo programma. Og-

gi programmi simili sono usati in centinaia di distretti scolastici degli Stati Uniti.

Knight insegna ai preparatori a osservare alcuni aspetti partico-lari: se il professore ha un pro-

gramma preciso, quanti studenti sono coin-volti, se interagiscono rispettandosi a vi-cenda, se discutono, se sono consapevoli dei loro progressi e dei loro fallimenti.

I bravi preparatori sanno come suddivi-dere una prestazione nelle sue componenti. Nello sport si concentrano sulla meccanica, sulla psicologia, sulla strategia e sono in grado di suddividere anche queste compo-nenti. Gli artisti e gli atleti al massimo livel-lo, dicono i ricercatori, devono “esercitarsi coscientemente”, fare ogni sforzo possibile per sviluppare tutta la gamma di capacità che garantiscono il successo. Devono lavo-rare su quello che sanno fare meno bene. In teoria, potrebbero riuscirci da soli. Ma la maggior delle persone non sa da dove co-minciare né come procedere. La maestria, dicono, si raggiunge passando dall’incom-petenza inconscia all’incompetenza consa-pevole, poi dall’incompetenza consapevole alla competenza consapevole e inine da questa alla competenza inconscia. L’allena-tore fornisce un paio di occhi e di orecchie esterni e ti aiuta a capire quali sono i tuoi punti deboli. Non è facile, perché gli esseri umani resistono a qualsiasi forma di osser-vazione e di critica, il nostro cervello si di-fende. Quindi gli allenatori usano metodi diversi: possono mostrare al soggetto quel-lo che fanno altri colleghi o rivedere con lui i ilmati delle sue performance. Il metodo più comune, tuttavia, è semplicemente par-lare.

Così ho deciso di provare anch’io ad

Come la maggior parte dei lavori, anche quello del chirurgo non è quasi mai osservato da qualcuno in grado di giudicarlo

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avere un coach. Ho chiamato Robert Oste-en, un chirurgo in pensione con cui avevo studiato durante il tirocinio, per chiedergli se voleva prendere in considerazione l’idea. È stato uno dei chirurghi che ho ammirato di più in tutta la mia carriera. Quando ope-rava era veloce senza apparire frettoloso ed elegante senza apparire teatrale. Era calmo. Non l’ho mai visto perdere le stafe. Aveva un piano per ogni situazione e una capacità di giudizio impeccabile. E i suoi pazienti non incorrevano quasi mai in complicazio-ni. Era specializzato nei tumori al pancreas, al fegato, allo stomaco, all’esofago, al co-lon, al seno e ad altri organi. Un bravo chi-rurgo oncologo deve sapere quando un’ope-razione è inutile e quando invece è bene tentare. Osteen non esitava mai e non az-zardava mai troppo. “Non si può fare”, di-ceva quando apriva l’addome di un pazien-te e scopriva che il tumore era più difuso di quanto si aspettasse. E senza perdere tem-po, cominciava a richiudere.

Quando gli ho spiegato l’esperimento che volevo fare, ha detto che era pronto. Una mattina è venuto nella mia sala opera-toria ed è rimasto a osservarmi in silenzio seduto su uno sgabello a pochi passi dal ta-volo operatorio. Scribacchiava su un blocco di appunti e ogni tanto si spostava per guar-

dare sotto il lenzuolo o mettersi alle mie spalle. All’inizio ero consapevole di essere osservato dal mio ex maestro. Ma stavo ese-guendo un’operazione – una tiroidectomia su un paziente con un nodulo canceroso – che avevo fatto centinaia di volte, più di quante volte sono andato al cinema. Ben presto l’intervento mi ha assorbito comple-tamente, mi sono abbandonato alla sinfo-nia dei movimenti coordinati tra me e il mio assistente, un tirocinante esperto che era dall’altra parte del tavolo operatorio, e il ferrista che era al mio ianco.

Imparare dagli altriL’operazione è andata benissimo. Il cancro non si era esteso e, in 86 minuti, abbiamo asportato la tiroide, staccandola con cura dalla trachea e dai nervi che portano alle corde vocali. Quando esercitava, Osteen aveva fatto raramente quel tipo di operazio-ne e mi chiedevo se avrebbe trovato qualco-sa di utile da dirmi.

Appena inito ci siamo seduti insieme nella stanza dei chirurghi. Osteen aveva no-tato solo alcune piccole cose, mi ha detto, ma se non volevo che sorgessero problemi nelle prossime cento operazioni era proprio delle piccole cose che dovevo preoccupar-mi. Avevo sistemato e coperto il paziente in

modo perfetto per me che ero alla sua sini-stra, ma non per tutti gli altri. Il lenzuolo ostacolava il braccio sinistro del mio assi-stente che era dall’altra parte del tavolo e gli impediva di aprire bene l’incisione. A un certo punto dell’operazione avevamo avuto diicoltà a vedere la parte alta del collo da quel lato. Il lenzuolo costringeva anche il tirocinante a stare troppo a destra dell’assi-stente, in un punto da cui non poteva essere di nessuna utilità. Avrei dovuto lasciare più spazio a sinistra, il che avrebbe permesso al tirocinante di tenere il retrattore liberando la mano sinistra dell’assistente. Osteen mi ha anche chiesto di prestare più attenzione ai gomiti. Aveva notato che in vari momen-ti dell’operazione avevo alzato il gomito destro ino alla spalla, a volte anche di più. “Non puoi essere preciso con un gomito in aria”, mi ha detto. Un chirurgo dovrebbe tenere i gomiti lungo i ianchi. “Quando sei tentato di alzare un gomito signiica che de-vi spostarti perché sei nella posizione sba-gliata, o che devi scegliere uno strumento diverso”.

Mi ha fatto tutta una serie di osservazio-ni di questo tipo. Il suo blocco era pieno di appunti. Di solito opero con le lenti d’in-grandimento e non mi rendo conto di quan-to questo limiti la mia visione periferica.

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Una gara di ciclismo Bmx alle Olimpiadi di Pechino

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Scienza

Non avevo notato, per esempio, che a un certo punto il paziente aveva avuto un pro-blema di pressione, tenuto sotto controllo dall’anestesista. E non mi ero accorto che, per circa mezz’ora, la lampada operatoria non era stata puntata sull’incisione: avevo operato con la luce rilessa dalle superici circostanti. Osteen mi ha fatto anche nota-re che gli strumenti che avevo scelto per tenere aperta l’incisione si erano incrociati tra loro, facendomi perdere tempo.

Quella discussione di una ventina di mi-nuti mi ha dato da rilettere più di quanto non avessi fatto negli ultimi cinque anni. Era stato diicile e piuttosto imbarazzante dover spiegare alla mia équipe perché Oste-en avrebbe passato la mattinata con noi. “È qui per farmi da allenatore”, avevo detto. Ma era un fatto insolito: nessun collega più anziano era mai venuto a vedere quello che facevo negli otto anni che erano passati da quando avevo cominciato a operare. Come la maggior parte dei lavori, anche quello del chirurgo non è quasi mai osservato da qual-cuno in grado di giudicarlo. Non avevo mai avuto un occhio esterno.

Dopo quell’esperimento, Osteen conti-nua a farmi da allenatore. Prendo le sue osservazioni, ci lavoro per qualche settima-na, e poi ci incontriamo di nuovo. La mec-canica del nostro rapporto è ancora in evo-luzione. La performance di un chirurgo co-mincia molto prima di andare in sala operatoria, nel momento in cui deve decidere se intervenire o no. Io e Osteen abbiamo passato un po’ di tempo a discutere come programmo un’operazione. Ho deciso anche di fare una cosa che prima non avevo fatto quasi mai: osservo altri colleghi mentre lavorano per rubare qualche idea su quello che potrei fare. Una ex collega del mio ospedale, la chirurga oncologa Caprice Greenberg, è stata una delle prime a usare le riprese in sala operatoria. Era convinta che riprendere regolarmente gli interventi ci avrebbe permesso di capire perché alcuni riescono meglio di altri. Se fossimo riusciti a capire quali tecniche facevano la diferen-za, avremmo potuto cercare di impararle. Questo lavoro è ancora agli inizi. Finora po-chissimi chirurghi hanno accettato di regi-strare le loro operazioni e discuterle con i colleghi.

Io ho voluto provare. Come un giocatore che rivede una partita. In un pomeriggio di pioggia ho portato il mio computer a casa di Osteen e abbiamo guardato il filmato di un’altra tiroidectomia che avevo eseguito. Sullo schermo scorrevano tre lussi di im-magini: uno era stato ripreso da una video-

camera inserita nella lampada operatoria, un altro da una videocamera con il gran-dangolare, mentre una terza era stata pun-tata sul monitor dell’anestesista. Con un microfono avevamo anche raccolto i suo-ni.

Osteen è stato contento di come avevo cambiato la posizione e la copertura del pa-ziente. “Vedi?”, ha detto indicando lo schermo. “Ora l’assistente può aiutarti”. A un certo punto la luce si è allontanata dall’incisione e abbiamo calcolato quanto tempo avevo impiegato ad accorgermi che non avevo più un’illuminazione diretta: quattro minuti, invece di mezz’ora. “Bene”, ha detto. “Questa volta sei stato più atten-to”.

Aveva altre cose da farmi notare. Diceva che, dopo aver chiesto ai tirocinanti di aiu-tarmi, dovevo lasciarli in pace per un po’.

Tendevo a riprenderli dettando istruzioni precise appena rallen-tavano il ritmo. “No”, dicevo, “usa il forcipe DeBakey”. Oppu-re: “Muovi prima il divaricatore”. “Lasciagli il tempo di pensare”,

mi ha consigliato Osteen. È solo così che s’impara.

Insieme abbiamo individuato un pas-saggio critico della tiroidectomia su cui la-vorare: come trovare subito e salvaguardare le ghiandole paratiroidee, quattro ghiando-le grassocce delle dimensioni di un pisello che si trovano sulla supericie della tiroide e sono fondamentali per regolare i livelli di calcio. La percentuale dei miei pazienti che subiva un danno permanente a quei piccoli organi era intorno al due per cento. Osteen voleva che provassi ad abbassare ulterior-mente il rischio trovando le ghiandole all’inizio dell’operazione.

La guida giustaDa quando ho un allenatore, la mia percen-tuale di complicazioni è diminuita. È troppo presto per essere sicuri che non sia un caso, ma sembra proprio di no. So che sto di nuo-vo imparando. Non posso dire che tutti i chirurghi hanno bisogno di un allenatore

per lavorare meglio, ma ho scoperto che per me è così.

Da qualche anno va di moda avere un coach. Ci sono quelli per i politici, per i ma-nager, quelli che ti insegnano a vivere e quelli che ti aiutano a compilare le doman-de per entrare all’università. Se cercate su internet, troverete anche quelli per muo-versi su Twitter (“vuoi conquistare nuovi clienti, stabilire contatti utili e aumentare il tuo reddito usando Twitter? Questo pac-chetto di istruzioni è perfetto per te”, a circa 800 dollari per poche ore di lezione su Skype e qualche consulto via email). Il mi-glioramento personale ha sempre trovato un mercato facile, ma in genere quello che viene oferto è una serie di lezioni per spie-gare ai dilettanti i concetti fondamentali. È solo una forma di insegnamento con un no-me più alla moda. I consigli per migliorare le prestazioni di persone che sono già esper-te nel loro campo sono meno comuni. E anche più rischiosi: se sono sbagliati posso-no farle peggiorare.

Il famoso saltatore Dick Fosbury, per esempio, sviluppò la sua tecnica rivoluzio-naria – nota appunto con il nome di Fosbury – sidando i suoi allenatori. Loro avrebbero voluto che usasse il metodo classico, che prevede di superare l’asta alzando la gamba a faccia in giù. Lui, invece, istintivamente voleva andare avanti con la testa a faccia in su. Fu solo perfezionando questa sua strana tecnica che Fosbury vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, stabilendo un nuovo record in mon-dovisione e reinventando il salto in alto.

Il soprano Renée Fleming mi ha detto che quando dieci anni fa morì la sua mae-stra di canto, ebbe problemi a sostituirla. Voleva avere un orecchio esterno, ma non poteva essere un orecchio qualunque: “Quando arrivi al mio livello, non vuoi una persona nuova che rischia di combinare qualche guaio. Potrebbe dirti: ‘Lo so, canti così da tanto tempo, ma perché non provi questo nuovo sistema?’. Se lasci la tua stra-da, a volte puoi non ritrovarla, e allora perdi sicurezza quando sei in scena e comincia il declino”.

Probabilmente non è facile trovare il ti-po di guida che favorisce l’innovazione, migliora la capacità di giudizio e non punta solo sull’applicazione di una tecnica. Tutta-via la società moderna dipende sempre più dal fatto che persone comuni si assumono la responsabilità di fare cose straordinarie: operare all’interno del corpo umano, inse-gnare ai ragazzini delle medie concetti al-gebrici che avrebbero messo in diicoltà Euclide, costruire una strada attraverso una

Forse non siamo pronti ad accettare, e a pagare, un gruppo di persone che individua gli errori dei professionisti ai quali ci aidiamo

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L’AUTORE

Atul Gawande è un chirurgo statunitense. Lavora al Brigham and women’s hospital di Boston e insegna alla scuola di medicina di Harvard. Scrive sul New Yorker. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Checklist (Einaudi 2011).

montagna, creare una rete wii che copre un intero stato, dirigere una fabbrica, ridurre il tasso di criminalità di una città. Senza una guida, quante persone sono in grado di svolgere compiti così complessi? Ad alcuni basterà una laurea per diventare grandi esperti, ma con un buon allenatore gli esperti potrebbero essere molti di più. La consulenza ai professionisti è considerata un lusso. Potete immaginare quali spese vengono subito tagliate quando bisogna ri-durre il budget di un distretto scolastico. Ma la formazione continua è essenziale per il buon funzionamento della società mo-derna.

Esporsi alle criticheCerto, assicurarsi che i beneici di questa formazione superino i costi non sarà facile. Come non sarà facile trovare le persone giuste, anche se con l’aumento del numero di pensionati potremmo già avere una riser-va pronta di esperienze e conoscenze. Ma la diicoltà principale potrebbe essere pro-prio convincere i professionisti ad accettare quest’idea. La possibilità che qualcuno ci osservi ci costringe a rilettere sui nostri er-rori. Me ne sono reso conto dopo un’altra operazione alla quale Osteen era venuto ad assistere. Non era andata molto bene.

La paziente aveva un grosso tumore alla ghiandola surrenale sopra il rene destro, e avevo deciso di asportarlo in laparoscopia. Qualche collega non avrebbe condiviso questa decisione. Quando i tumori alle sur-renali raggiungono una certa dimensione, non possono essere asportati in laparosco-pia, bisogna farlo con la tecnica tradiziona-le. Ma io avevo insistito e presto me n’ero pentito. Lavorare su quel tumore con una

videocamera di dieci millimetri in fondo a un tubo di mezzo metro era come attraver-sare un bosco con una torcia tascabile. Ero andato avanti con questa follia per troppo tempo e avevo provocato un’emorragia. Avevano dovuto fare una trasfusione alla paziente mentre le aprivo la pancia e proce-devo con la tecnica tradizionale.

Osteen mi aveva osservato in silenzio per tutto il tempo, prendendo appunti. Ave-vo le guance in iamme, ero mortiicato. Mi rimproveravo per avergli chiesto di venire. Poi avevo cercato di razionalizzare: alla ine la paziente se l’era cavata bene. Ma avevo permesso a Osteen di vedermi sbagliare, di vedere che forse non ero quello che volevo apparire.

È per questo che non sarà mai facile ac-cettare la formazione continua, soprattutto per quelli che sono avanti con la carriera. Ormai sono considerato un esperto. Sono passati i tempi in cui ero tenuto d’occhio e messo alla prova. In teoria non dovrei più averne bisogno. Perché dovrei sottopormi a un controllo ed essere criticato?

Ne ho parlato con altri chirurghi. La rea-zione di molti è stata: “Conosco diverse persone che ne avrebbero bisogno”. Quasi nessuno ha detto: “Accidenti, mi farebbe comodo!”. Un tempo non lo avrei detto ne-anche io.

Dopo l’operazione, io e Osteen ci siamo seduti e l’abbiamo analizzata, valutando le decisioni che avevo preso in vari momenti. Ci siamo concentrati su quello che secondo me era andato bene e quello che era andato male. Osteen non sapeva dire esattamente cosa avrei dovuto cambiare. Ma mi ha chie-sto di rilettere sull’anatomia della zona che circondava il tumore.

“Sembrava che avessi diicoltà a tenere il tessuto in tensione”, ha detto. Aveva ra-gione. Non puoi incidere un tumore se pri-ma non riesci a sollevare e a tenere ben teso il tessuto che devi tagliare. Una volta capito che non vedevo chiaramente i vari piani, avrei potuto aprire subito e passare diretta-mente all’intervento tradizionale, evitando di causare l’emorragia. A ripensarci bene, tuttavia, mi sono reso conto che c’era anche un’altra manovra che avrei potuto tentare e che mi avrebbe permesso di tenere in ten-sione i tessuti circostanti e forse anche di liberare il tumore.

“La maggior parte della chirurgia si fa nella testa”, dice sempre Osteen. Il risultato non dipende dalla posizione in cui sei o da dov’è il gomito. È determinato dalla posi-zione che decidi di assumere e da dove deci-di di mettere il gomito.

Sapevo che le osservazioni di Osteen potevano portarmi a prendere decisioni migliori in futuro, ma quel pomeriggio mi sono reso conto di quanto mi sarebbe costa-to: avrei dovuto espormi alle sue critiche.

Questo vale per tutta la società: forse non siamo pronti ad accettare, e a pagare, un gruppo di persone che individua gli erro-ri dei professionisti a cui ci aidiamo e man-tiene il riserbo su quello che vede. La for-mazione continua potrebbe essere il modo più eicace per migliorare le nostre presta-zioni. Ma i formatori devono essere leali nei confronti delle persone con cui lavorano, il loro successo dipende da questo. E anche i professionisti più esperti devono ammette-re di poter migliorare. Siamo disposti a far-lo?

“Chi è quello?”, mi ha chiesto una pa-ziente mentre aspettava di essere aneste-tizzata. Aveva notato Osteen in un angolo della sala operatoria con il taccuino in ma-no. Per un attimo sono rimasto interdetto. Non era uno studente né un professore in visita. Neanche deinirlo “un osservatore” mi sembrava corretto.

“È un collega”, ho risposto. “Gli ho chie-sto di assistere per vedere se c’è qualcosa che posso fare meglio”. La paziente mi ha lanciato un’occhiata tra il sorpreso e l’allar-mato. “È una specie di allenatore”, le ho detto alla ine. Non mi è sembrata afatto rassicurata. u bt

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La gara dei 50 metri stile libero femminili alle Olimpiadi di Pechino

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India

“Ballate”, dice il poli-ziotto. Le ragazze, nude dalla vita in su, agitano i ianchi. La videocamera di un turista si sposta

su un’altra giovane donna, anche lei nuda fatta eccezione per un sacchetto di grano che tiene con imbarazzo davanti al pube. “Balla per me”, ordina di nuovo il poliziot-

to. La ragazza ride timidamente e saltella da un piede all’altro. “Balla, balla”. Ma lei non vuole. La videocamera torna sulle altre. Battono le mani, danzano e saltano; sono state pagate per farlo.

Questo video è il trofeo che i turisti so-gnavano di portarsi a casa quando sono par-titi per il safari nella giungla delle isole An-damane, perché il loro non è un safari qua-lunque: la preda è una tribù “dell’età della

pietra” scoperta da una quindicina d’anni e che sta avendo i primi contatti con il mondo esterno, iduciosa, innocente ed estrema-mente vulnerabile. Il poliziotto è lì per pro-teggere le ragazze e il resto della tribù, i ja-rawa dell’Andaman meridionale, un para-diso incastonato nella baia del Bengala che appartiene all’India, ma geograicamente più vicino alla Birmania.

Corrompere il poliziotto perché dia da

Caccia agli indigeni

Gethin Chamberlain, South China Morning Post Magazine, Hong Kong

I jarawa delle Andamane sono entrati in contatto con il mondo esterno pochi anni fa. Oggi sono un’attrazione turistica, anche per colpa di chi dovrebbe proteggerli

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Un bambino jarawa corre verso le auto dei turisti lungo la Andaman trunk road

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mangiare alle ragazze e le faccia ballare co-sta 15mila rupie (200 euro). I turisti ricchi fanno una colletta e pagano volentieri.

Ogni giorno centinaia di auto fanno la ila davanti al cancello che sbarra la Anda-man trunk road. Lì a ianco c’è un cartello con gli orari d’ingresso per i convogli: ne sono consentiti quattro al giorno, più o me-no uno ogni tre ore. Su un altro cartello c’è un elenco di regole: niente fotograie, nes-sun contatto, nulla che possa danneggiare i fragili jarawa, che da quando hanno comin-ciato a uscire dalla giungla, nel 1998, sono stati assaliti dalle malattie provenienti dal mondo esterno. Ma i cartelli sono ignorati: i tour operator hanno garantito ai loro clien-ti che potranno entrare. Le macchine foto-graiche scattano di continuo e i turisti lan-ciano banane e biscotti ai jarawa come se fossero animali selvatici.

Incontro garantitoLa bottega dei fratelli Vyas è al margine del-la principale zona commerciale di Port Blair, capoluogo delle isole Andamane e Nicobare. Vende prodotti artigianali e sta-tuette di legno jarawa. “I sistemi sono due”, spiega Rajesh Vyas quando gli chiedo come fanno i turisti a entrare in contatto con gli indigeni. Il primo è legale: si va in macchina all’estremità nord dell’isola e si torna il gior-no dopo. Se ci sono jarawa sulla strada e non ci sono troppe macchine, si può rallentare e scattare qualche fotograia (anche se non sarebbe permesso).

Il secondo è illegale. Nel suo inglese stentato, Vyas mi spiega come può convin-cere la polizia a organizzare un incontro. Ci vogliono dalle diecimila alle 15mila rupie per corrompere i poliziotti e altrettante per tutto il resto: macchina, autista, regali per i jarawa, biscotti, snack. L’incontro è garan-tito, assicura.

Il sole sorge presto alle Andamane. Alle 5.30 del mattino ci sono già 130 auto e alme-no 25 autobus in fila davanti all’ingresso della riserva. I turisti gironzolano bevendo tè, mangiando qualcosa che hanno compra-to alle bancarelle ai bordi della strada e fo-tografandosi a vicenda con i cellulari. Tutti scattano fotograie. Tutti hanno un cellula-re. Vyas ha trovato un autista, Guddu, di-sposto a trasportare un passeggero che vuo-le fotografare i jarawa nonostante il rischio che gli sequestrino la macchina. Cade una pioggerella sottile. Le auto del primo con-voglio della giornata sono già in ila.

“Jarawa”, dice Guddu, indicando il lato della strada. “Nasconda la macchina foto-graica”. Davanti al gruppetto di indigeni ci sono un poliziotto e un altro uomo in uni-

forme blu, la guardia incaricata di proteg-gere la tribù. Ci sono troppe macchine in-torno per scattare fotograie, e questi poli-ziotti non sono stati pagati. “Se non riesce a fare una foto, gliela do io. Ho anche un vi-deo”, dice Guddu.

L’automobile si addentra nella giungla. Improvvisamente Guddu rallenta e parla in modo concitato. “Scatta una foto, presto, scatta, scatta, scatta!”. Due donne jarawa sono sbucate dalla foresta. Una è davanti a noi, l’altra ci sta girando intorno. Non ci so-no poliziotti né guardiani. È tutto molto ve-loce, succede in meno di venti secondi. Una delle donne si sporge dentro il inestrino e tende la mano. Guddu lancia un grido allar-mato, la macchina riparte e le donne spari-scono. Cosa volevano? Qualcosa da man-giare, dice, o soldi. “Forse la macchina foto-graica. La polizia gliel’ha insegnato”.

L’auto raggiunge il molo per l’isola Bara-tang, dove finisce la strada. Molti turisti proseguono per andare a vedere le cave di calcare, la presunta meta del viaggio. Altri decidono di parcheggiare e di starsene se-duti un’ora in attesa di tornare indietro.

Sulla via del ritorno incontriamo altri jarawa, grandi gruppi di uomini, donne e bambini in piedi o seduti ai bordi della stra-

da. Sono sorvegliati dalla polizia che fa cen-no alle auto di non fermarsi, ma ormai è chiaro che quelle persone sono lì apposta, perché sanno che passerà un convoglio. Non vengono protette solo dai turisti, ma anche da se stesse. Il safari sta per inire. Guddu estrae un cellulare e me lo porge. Sullo schermo appare un video di una ven-tina di secondi con cinque ragazze jarawa a seno nudo con un gonnellino di paglia ros-sa. La voce di un poliziotto dice “Nacho, nacho (ballate, ballate)”, e loro obbedisco-no, battendo le mani, agitando i ianchi e saltando, in una danza tribale tradizionale. Si fermano, e la voce dice ancora “ballate”. Il video inisce e Guddu me lo invia con il Bluetooth.

“Guarda bene i jarawa seduti al bordo della strada”, suggerisce Denis Giles. Giles dirige l’Andaman Chronicle, ed è impegna-to nella difesa dei diritti dei jarawa. Dove sono gli anziani? Sono i più giovani a uscire dalla giungla afascinati dagli stranieri e da quello che hanno da ofrire. Quando diven-tano adulti perdono interesse, si rendono conto che il mondo esterno non fa per loro, spiega Giles. “Sono convinto che prima o poi dovranno uscire e mescolarsi con il re-sto della popolazione. Non possono rima-nere nella foresta per sempre. Ormai sanno che c’è un mondo là fuori. Ma non dovrebbe essere uno shock culturale, dovrebbero po-ter scegliere i loro tempi”. Invece li stanno gettando sempre più in pasto ai turisti e agli altri abitanti dell’isola. I jarawa pensano che la polizia li protegga, continua Giles, ma in realtà li sfrutta. Sono stati proprio i poliziotti a insegnare ai jarawa a chiedere l’elemosina, poi si fanno consegnare i soldi e in cambio gli danno tabacco, che prima non usavano, e cibo. È ovvio che qualcuno ne approitti, ci sono stati casi di donne jara-wa che hanno messo al mondo igli di stra-nieri. Quei bambini non sono accettati dalla tribù e vengono uccisi, aferma Giles.

Nel tentativo di limitare i contatti, le au-torità hanno ridotto il numero di convogli ammessi ma il turismo è importante per l’economia delle isole e nessuno vuole eli-minarli del tutto. Il governo indiano vorreb-be chiudere completamente la strada, ma gli abitanti la considerano indispensabile perché è da lì che passano tutti i loro riforni-menti. Il trasporto via mare, infatti, è bloc-cato dopo lo tsunami del 2004. Secondo Ajai Saxena, segretario dell’Andaman adim janjati vikas samiti, l’uicio che si occupa della difesa delle tribù, la questione è molto più profonda e complessa: spetta a lui deci-dere cosa è meglio per i jarawa, ma in realtà non sa esattamente cosa stia succedendo

Da sapere

IndigeniAnno Coloni

1901

1921

1941

1961

1981

2001

18.138

17.814

21.163

48.533

157.945

311.783

1.998

788

nd

699

469

420

Composizione della popolazione delle isole Andamane

Fonte: Census of India and Pandit, TN (1990), The sentinelese anthropological survey of India

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India

all’interno della tribù, né come afrontare i problemi che nascono. “Sono esseri umani e ci osservano. Sono a un bivio e non sappia-mo cos’hanno in mente di fare”. L’ammini-strazione chiede tempo per capire come deve comportarsi. Deve isolare i jarawa dal resto del mondo per il loro bene o permette-re a quelli che lo vogliono di entrare in con-tatto con l’esterno?

Vizi e malattie

Gli antropologi pensano che i jarawa di-scendano da alcuni dei primi popoli che la-sciarono l’Africa. Vivono alle Andamane da decine di migliaia di anni, e forse ci sono arrivati attraverso una striscia di terra tra i continenti che non esiste più. Oggi uicial-mente sono 403, coninati in una riserva di 1.021 chilometri quadrati.

Alcune fotografie della fine dell’otto-cento dimostrano che c’erano già stati dei tentativi di contatto con il mondo esterno, ma la diidenza dei jarawa è con-tinuata ino alla ine del novecen-to. Hanno cominciato a emergere dalla giungla solo nel 1998, quan-do un giovane di nome Enmai si fratturò una gamba durante un attacco a un villaggio. I suoi compagni l’ave-vano abbandonato, fu trovato e portato in ospedale. Quando tornò nella giungla, En-mai raccontò agli altri di essere stato curato e che lì fuori c’era un mondo strano e afa-scinante. Qualcun altro si avventurò all’esterno. Enmai diventò una piccola cele-brità. Fu portato perfino in aereo a New Delhi per incontrare il primo ministro. Ma alla ine si è stancato della novità, è tornato nella giungla e ora non ne esce più.

La maggior parte dei jarawa la pensa co-sì, spiega il dottor Anstice Justin, che dirige lo studio antropologico sulle Andamane. “Fondamentalmente non vogliono intera-gire con il mondo esterno”, dice. Sottolinea il fatto che i jarawa fabbricano e usano an-cora archi e frecce, il che signiica che non desiderano abbandonare la loro cultura. Ma alcuni di loro sono stati sedotti dal mon-do esterno e il risultato è stato disastroso. Alcuni hanno adottato i vizi degli stranieri: usano tabacco, alcol e masticano noci di be-tel. Secondo lui hanno imboccato una stra-da pericolosa e per il momento dovrebbero essere tenuti lontani dal mondo esterno. “Per loro la coesistenza forzata equivarreb-be a un genocidio”, aferma Justin. I jarawa non hanno difese contro alcune malattie. Hanno già cominciato a morire di morbillo, di orecchioni e di malaria, dalla quale sem-brava che fossero in parte immuni.

Nel 2007 il governo ha stabilito una zo-

na cuscinetto intorno alla loro riserva, cin-que chilometri sulla terra e dieci in mare, per cercare di proteggerli da ulteriori con-tatti con l’esterno, in particolare con un lus-suoso villaggio turistico che la Barefoot, un’azienda turistica che si autodeinisce un “movimento a favore delle popolazioni tri-bali”, sta costruendo ai margini della riser-va. La corte suprema indiana sta esaminan-do il caso. Nel frattempo il villaggio svetta abbandonato sulla spiaggia di Collinpur, nella baia di Constance, sulla costa occi-dentale dell’isola.

Ma anche la zona cuscinetto ha creato dei problemi. Quando l’India fu divisa, do-po l’indipendenza, molti indù fuggirono da quello che sarebbe diventato il Bangladesh. Il governo li sistemò nelle Andamane, dove costruirono piantagioni e si dedicarono alla pesca. Molti furono uccisi dai jarawa, ma a migliaia si stabilirono lì. Adesso non posso-no più accedere alle loro piantagioni e ne-

anche al mare. L’unico modo per farlo è corrompere la polizia, rac-conta Sapan, 35 anni.

La sua famiglia coltiva noci di cocco e di betel nella baia di Con-stance da quando arrivò lì nel

1949. Sapan, seduto a prua della barca nella quale siamo, guarda la foresta dei jarawa. In una piccola radura si vede una capanna, ma nessun segno di vita. La tribù si sposta spes-so e usa rifugi provvisori. Ma ha delle ca-panne comuni più grandi nel cuore della giungla.

I jarawa vanno nella sua piantagione due volte alla settimana in gruppi di quindi-ci o venti, dice Sapan. Chiedono da mangia-re: riso bollito, dahl, qualsiasi cosa stiano cucinando gli abitanti del villaggio. A volte portano granchi, pesci o cacciagione da scambiare. È da circa quindici anni che van-no al villaggio. Adesso sono amichevoli, ma non è stato sempre così. “I jarawa sono mol-to ingenui, non mentono e non sono cattivi. Prima, anche se ci attaccavano, venivano solo con la luna piena. Usavano arco e frec-ce”, racconta. Per il momento jarawa e co-loni sono amici, ma la zona cuscinetto sta creando tensione. “Che vivano nella giun-gla e ci lascino vivere nel nostro villaggio”, esclama Sapan. Keshab Mistry, 39 anni, guida la barca a un solo remo verso la spiag-gia di sabbia bianca. Gli unici problemi so-no la strada e il turismo, spiega. “Ci hanno mandato qui e adesso dicono che non pos-siamo più usare la nostra terra”, racconta amareggiato.

S. B. Tyagi, il sovrintendente della poli-zia dell’Andaman meridionale, sciorina la versione uiciale: i convogli sono stati di-

mezzati, la strada è controllata dalla polizia, i veicoli si spostano a 40 chilometri all’ora e nessuno si ferma. Se i jarawa vengono sulla strada, le autorità locali cercano di farli tor-nare nella foresta. Ma ammette che “ogni tanto” gli indigeni entrano in contatto con persone che gli lanciano banane e biscotti. “L’organizzazione non è perfetta ma ci stia-mo provando. Ma alcuni degli autisti e dei turisti rallentano lo stesso”.

È al corrente delle accuse rivolte ai suoi agenti e non cerca di negarle. “Quando sco-priamo una scorrettezza da parte dei nostri uomini, provvediamo subito”. Cita un inci-dente in cui era coinvolto un agente che è stato punito per aver permesso a due autisti di pullman di riaccompagnare delle ragazze jarawa nella giungla. “Chissà perché vole-vano farlo”, commenta. “Qualcuno consi-dera le donne jarawa come oggetti sessuali. Gli esseri umani sono esseri umani. Possia-mo solo cercare di educarli”. Il poliziotto è stato punito con uno slittamento di sei mesi

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della promozione, aggiunge. La popolazio-ne uiciale delle isole è di 350mila abitanti, ma si ritiene che siano quasi 600mila. C’è una continua migrazione dall’India e anche una grande richiesta di terreni: la preoccu-pazione degli attivisti è che se i jarawa sa-ranno integrati nella società, la giungla non sarà più protetta e i costruttori cominceran-no a fare pressioni per comprare la terra. Senza la giungla, non potranno più mante-nere il loro stile di vita e scompariranno dal-la storia, come gli abitanti dell’arcipelago principale delle isole Andamane, che un tempo vivevano nella zona intorno a Port Blair. Alla ine del diciottesimo secolo erano diecimila, adesso sono ridotti a una cin-quantina e la tribù è coninata su una picco-la isola.

L’idea migliore“Hanno perso la voglia di vivere”, spiega Giles. “Il governo gli ha dato tutti i servizi e un lavoro, ma hanno cominciato a bere e a chiedere l’elemosina. Hanno perso il rispet-to per se stessi, per la loro lingua e la loro cultura. È facile per i politici parlare di ‘inte-grazione’, ma metterla in pratica non è af-fatto semplice”. Forse i sentinelesi, che vi-vono nell’isola di North Sentinel, hanno avuto un’idea migliore, dice. Sono rimasti ostili e attaccano con archi e frecce chiun-que si avvicini. Il governo ha tentato di en-trare in contatto con loro, ma poi ci ha ri-nunciato. “Così lì non c’è turismo”, dice Giles. Survival international cerca di pro-teggere i jarawa da circa vent’anni. La sua portavoce, Sophie Grig, spiega che la situa-zione è instabile. “Potrebbero facilmente essere decimati o ridotti in uno stato di di-pendenza, come è successo a tante tribù in tutto il mondo”, dice. “È fondamentale che siano loro a decidere quale futuro vogliono, e che qualcuno gli spieghi quali possono es-sere le conseguenze delle loro decisioni. La realtà è che se rinunciano al loro stile di vita nella foresta, si ritroveranno al livello più basso della piramide economica”.

Prima di sparire di nuovo nella giungla, Enmai ha raccontato come vivono i jarawa. Raccolgono frutta, cacciano maiali e tarta-rughe, e si arrampicano sugli alberi. Non hanno divinità. Quando qualcuno muore lo lasciano sotto un albero inché non rimane solo lo scheletro e poi si legano le ossa al corpo come portafortuna per la caccia. Gli uomini cacciano, le donne raccolgono mie-le e frutta. Dopo aver visto il mondo ester-no, cosa preferiva? Enmai ha esitato, per non offendere i suoi ospiti, ma si capiva chiaramente quello che pensava. E ha ripe-tuto più volte: “La giungla è buona”. u bt

Turisti all’ingresso della riserva dei jarawa

Un posto di guardia sulla Andaman trunk roadGE

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Graphic journalism

UN GIORNO DI NOVEMBRE DEL 2009

VADO ALLA MEDIATECA DELLA

FNASAT, NEL 19° ARRONDISSEMENT

DI PARIGI, A CERCARE DELLE INFOR-

MAZIONI.

MUSICA!

FNASAT: FEDERAZIONE NAZIONALE

DELLE ASSOCIAZIONI DI SOLIDARIETÀ

CON GLI ZIGANI E I NOMADI.

INCONTRO IL MUSICISTA

IVAN AKIMOV.IVAN È SLOVACCO, MA HA TRASCORSO

GRAN PARTE DELLA SUA VITA IN FRANCIA.

MI PARLA DEI KESAJ TCHAVÉ.

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 59

EMMANUEL

GUIBERT

è un autore di fumetti

francese nato nel

1964. Questa storia è

tratta da Alain e i Rom

(Coconino Press-

Fandango 2011), un

reportage di Alain

Keler, Emmanuel

Guibert e Frédéric

Lemercier.

LE SUE PAROLE M’ INCURIOSISCONO,

È UN TIPO INTERESSANTE. I KESAJ

TCHAVÉ SONO UN’IDEA ASSOLUTA-

MENTE STRAORDINARIA.

CI VADO.

IL GIORNO DOPO IVAN VA IN

SLOVACCHIA PER RITROVARE I

KESAJ TCHAVÉ. FORTUNATA-

MENTE ANCH’ IO SONO DIRETTO

NELLA STESSA REGIONE, VOGLIO

FOTOGRAFARE UN VILLAGGIO

ROM CHE SARÀ DEMOLITO. IVAN

MI PROPONE DI RAGGIUNGERLO A

KEZMAROK, AI PIEDI DEI MONTI

TATRAS, QUALCHE GIORNO PIÙ

TARDI.

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Graphic journalism

TUTTI QUESTI GIOVANI MUSICISTI, CANTANTI E BALLERINI ARRIVANO DAI VILLAGGI E

DALLE BARACCOPOLI PIÙ MISERE DEI DINTORNI. IVAN E SUA MOGLIE HELENA VANNO

A PRENDERLI UNO PER UNO DA DIECI ANNI.

QUI NESSUNO SI RISPARMIA: BISOGNA FAR DONO DI SÉ PER OBBEDIRE ALL’ORDINE

DELLA FATA KESAJ: «DÀI AMORE, SE VUOI RICEVERNE». SONO LORO I BAMBINI DI KESAJ,

I KESAJ TCHAVÉ.

QUATTRO GIORNI E 1.600 CHILOMETRI

DOPO, RITROVO IVAN E LA SUA

BALALAIKA IN UN’ ATMOSFERA DI

GRANDE ECCITAZIONE.

I KesajTchavé

LA CASA APPARTIENE A PALI, UN ANZIANO MUSICISTA ROM. UNO DEI POCHI A NON

ESSERE STATO CACCIATO DAL CENTRO STORICO DI KEZMAROK, IN PIENA RISTRUTTURA-

ZIONE. IN UN CORRIDOIO COL SOFFITTO A VOLTE, GRANDE COME UN AUTOBUS, CI SONO

DECINE DI BAMBINI E DI ADOLESCENTI CHE FANNO GIRAVOLTE.

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LA SERA, CAMBIAMENTO DRASTICO D’ATMOSFERA. SIAMOIN UN ALBERGO ELEGANTE NELLA CITTÀ DI POPRAD,C’È UN CONVEGNO SUI ROM CHE VEDE RIUNITI DOCENTI UNIVERSITARI E ROM BIANCHI MOLTO CHIC. È PREVISTOUNO SPETTACOLO DEI KESAJ TCHAVÉ.

IL GIORNO DOPO ACCOMPAGNOIVAN A PRENDERE I BAMBININELLA BARACCOPOLIDI VEL’KÁ LOMNICA.

I GENITORI CI ACCOLGONO DENTRO STANZE DISADORNE E AMMUFFITE.

SULLE PARETI C’È UNA SOLA DECORAZIONE: LE FOTO DEI KESAJ TCHAVÉ.

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Graphic journalism

LO SPETTACOLO

COMINCIA: È UN TURBINE.

NON CI SONO FOTO NÉ

PAROLE PER DESCRIVERLO.

CI PROVO LO STESSO.

SPUNTANO I FAZZOLETTI

QUANDO MATEJ, SETTE

ANNI, INTONA IL GELEM

GELEM, L’INNO DEI ROM.

APPLAUSI FRAGOROSI.

DETTO FRA NOI, VI CONSIGLIO DI ANDARE SU

MYSPACE.COM/KESAJTCHAVE. DATE UN’OCCHIATA

AI FILMATI E POI NE RIPARLIAMO.

MA QUANDO TUTTI SI DIRIGONO VERSO IL PANTAGRUELICO BUFFET, IN CHIUSURA DI

SERATA, PER QUEI BAMBINI COSÌ GENEROSI CI SONO SOLO SUCCO DI FRUTTA E BISCOTTI

SECCHI.

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UN MESE DOPO I KESAJ TCHAVÉ ARRIVANO A PARIGI. SULLA PIAZZA DELL’OPÉRA

NON LI HANNO VOLUTI. PAZIENZA, SI SISTEMANO SU QUELLA DEL TROCADÉRO. FA UN

FREDDO CANE, IVAN E I RAGAZZI TENTANO DI RISCALDARE L’ATMOSFERA.

DODICI ASSOCIAZIONI

FRANCESI LI SOSTENGONO

ALL’INSEGNA DEL MOTTO:

IVAN MI PRESENTA COLETTE E JEANNE, DI MONTREUIL.

VISTO CHE NON LA SPAVENTA VIAGGIARE PER INCONTRARE

I ROM, VENGA A MONTREUIL.

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È BUFFO.

DOVEVO PASSARE DALLA

SLOVACCHIA PER ARRIVARE

ALLA PERIFERIA DI PARIGI.

*

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Graphic journalism

SEGUENDO COLETTE E JEANNE SCOPRO

LA GRANDE POVERTÀ CHE C’È ALLE

PORTE DI PARIGI. NE ERO AL CORRENTE,

MA NON NE CONOSCEVO LA PORTATA.

COLETTE, MUSICISTA «PRECARIA DELLO SPETTACOLO»,

E JEANNE, PENSIONATA, ANIMANO UN COLLETTIVO

DI SOLIDARIETÀ AI ROM DI MONTREUIL CHE SI CHIAMA

«ÉCODROM». M’ISCRIVONO D’UFFICIO CON IL MIO PIENO

E TOTALE CONSENSO.

QUANDO NON SONO

IMPEGNATO NEI

REPORTAGE SUI ROM IN

ITALIA, IN UNGHERIA O

IN SLOVACCHIA, CERCO DI

PARTECIPARE ALLA

RIFLESSIONE E ALLE

AZIONI DI ÉCODROM.

APPROFONDISCO IL MIO

TEMA. ERO UN FOTO-

GRAFO NOMADE E

ADESSO METTO RADICI,

DECISO A PRENDERMELA

CON CALMA.

NE HO VISTE DI COSE IN QUESTI QUATTRO MESI. ESPULSIONI A MASSY, ACCAMPAMENTI A

SAINT-DENIS, OCCUPAZIONI A MONTREUIL... PER RIASSUMERE LA SITUAZIONE DEI ROM

NELLA REGIONE PARIGINA NON BASTANO POCHE PAROLE E QUALCHE IMMAGINE. CI

VOGLIONO TEMPO E DEDIZIONE. IN QUESTA ZONA, UN’ORGANIZZAZIONE COME MEDICI

DEL MONDO APPLICA GLI STESSI PROTOCOLLI SANITARI RISERVATI AI PAESI IN GUERRA

O COLPITI DA CATASTROFI NATURALI.

LE ESPULSIONI NON SONO UNA SOLUZIONE. INTERROMPONO BRUTALMENTE LE CURE

E LA SCOLARIZZAZIONE, FAVORISCONO LE EPIDEMIE E I TRAFFICI ILLEGALI E COMPRO-

METTONO L’AVVENIRE DEI BAMBINI. NON RISOLVONO IL PROBLEMA, LO AMPLIFICANO E LO

PERPETUANO.

Montreuil-

sous-Bois

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COLETTE È DIVENTATA AMICA DI UNA FAMIGLIA ROM MINACCIATA DI ESPULSIONE

CHE VIVE ABBARBICATA SU UN SOTTILE TERRAPIENO DI FRONTE A CASA SUA, ACCANTO

ALL’AUTOSTRADA A186.

I RIFIUTI, RESIDUI DI VECCHI ACCAMPA-

MENTI, FACEVANO PROLIFERARE I RATTI

ATTORNO ALLE BARACCHE, PROVO-

CANDO LE LAMENTELE DEGLI ABITANTI

DELLA ZONA.

COLETTE HA OTTENUTO UN CAMIONCINO

DAL COMUNE E, UNA MATTINA GLACIALE,

CI SIAMO RITROVATI TUTTI A RIPULIRE LA

ZONA, I ROM, GLI IMPIEGATI MUNICIPALI, I

SOCI DEL COLLETTIVO.

FINITO IL LAVORO, EVA,

LA GIOVANE MADRE DI

FAMIGLIA, CI HA OFFERTO

IL CAFFÈ CON I DOLCETTI

ACCANTO ALLA STUFA

A LEGNA, NELLA

BARACCA DOVE VIVE

CON LA MADRE, LA ZIA,

IL MARITO E I DUE FIGLI.

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Graphic journalism

UN ALTRO BREVE ANEDDOTO A PROPOSITO DI IVAN. I KESAJ TCHAVÉ STAVANO

PROVANDO A MONTREUIL LO SPETTACOLO «UN CONCERTO PER CAMBIARE TANTE VITE».

CON JEANNE SONO ANDATO A PRENDERE I BAMBINI IN UNA SQUALLIDA CASA

OCCUPATA DI PLACE DE LA FRATERNITÉ. NOTARE IL NOME.

ABBIAMO PRESO LA

METRO E L’AUTOBUS.

DURANTE IL TRAGITTO,

MENTRE GLI ALTRI

BAMBINI CINGUETTA-

VANO INTORNO A NOI,

UNA SOLA RESTAVA

CHIUSA IN SE STESSA.

ERA IMPOSSIBILE

DISTRARLA DALLA SUA

TRISTEZZA.

PIÙ TARDI, SOTTO IL TENDONE, HO VISTO LA MUSICA DI IVAN SCIOGLIERE LA CORAZZA

DI QUESTA BAMBINA, TRASFIGURARLA, COINVOLGERLA NEL BALLO.

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UN’ULTIMA FOTO, UN ALTRO SPETTACOLO.

QUESTO RISALE AL 20 MARZO DEL 2010, È STATO ORGANIZZATO DA JEANNE

E DALLA LEGA PER I DIRITTI UMANI.

IN PRIMO PIANO, UNA BALLERINA CHE FA FUOCO E FIAMME E, SULLO SFONDO,

COLETTE CHE LA ACCOMPAGNA AL VIOLINO.

MI PIACE QUESTO PICCOLO COMITATO CHE SI APPASSIONA, SI COMPROMETTE,

S’INTROMETTE, VIGILA, ALLERTA, INCHIODA GLI ELETTI AI LORO IMPEGNI, NON CEDE,

NON SCENDE A COMPROMESSI CON LA PAURA, L’INDIFFERENZA O LA STUPIDITÀ E

RIPETE SENZA SOSTA CHE NON SI DEVONO MALTRATTARE I ROM. JEANNE, COLETTE,

IVAN E GLI ALTRI: QUESTE PAGINE SONO DEDICATE A VOI.

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Julián Leyzaola racconta che pochi giorni dopo aver assun­to l’incarico di capo della poli­zia di Ciudad Juárez, la capita­le messicana del crimine, gli è arrivata una telefonata. Ley­

zaola aveva già subìto minacce in passato, soprattutto quando dirigeva le forze di si­curezza di Tijuana. Ma stavolta era diver­so. La telefonata arrivava da José Antonio Acosta Hernández, il boss di un cartello criminale chiamato La Linea. L’uomo, un ex agente di polizia, voleva proporre un’al­leanza. “Sono Diego”, ha detto il boss. “So­no al suo servizio”.

Leyzaola, 51 anni, elegante ex uiciale dell’esercito abituato a trovarsi in situazio­ni diicili, sorride mentre racconta l’episo­dio. La telefonata era arrivata a marzo del 2011. A luglio la polizia ha arrestato El Die­go e alcuni suoi collaboratori, tra cui diver­si poliziotti. “Io non dialogo con i delin­quenti”, dice l’alto funzionario. Ma dopo quella vittoria sulla Linea, Leyzaola, che ormai è il poliziotto più famoso e discusso di tutto il Messico, si è trovato sempre più sotto la luce dei rilettori. Gli sviluppi posi­tivi si sono intrecciati a quelli negativi: a Ciudad Juárez la violenza è diminuita, e gli omicidi si sono ridotti di un terzo rispetto all’anno precedente, ma sono aumentate le denunce di violazioni dei diritti umani commesse dalla polizia, e in alcuni casi dal suo stesso capo. E ora che La Linea non c’è più, uno dei suoi rivali, il cartello di Sina­loa, è diventato più potente.

Sembra che con Leyzaola vada sempre

così. Una dinamica simile si era veriicata quando era a Tijuana, tra il 2008 e il 2010, e mentre gli abitanti della città ancora di­scutono sull’eredità lasciata da Leyzaola, quelli di Ciudad Juárez cercano di abituar­si ai suoi metodi con cauto sgomento. “Stiamo ottenendo quello che avevamo chiesto”, dice Federico Ziga, presidente dell’associazione ristoratori di Ciudad Juá­rez. “Non tutti concordano sull’approccio, ma i risultati ci sono”.

Gravi accuseNel corso di un’intervista nel suo uicio di Ciudad Juárez, Leyzaola racconta di aver perseguito a lungo l’obiettivo di annientare il “sogno dei narcotraicanti”, dimostran­do che le autorità potevano portargli via “i fucili, le automobili, la droga e il denaro”. Come un pugile o un lottatore, l’uiciale considera la sua immagine di tipo duro una tattica necessaria. Una volta, a Tijuana, ha colpito in pubblico il cadavere di un sicario. Ancora oggi si ostina a chiamare i crimina­li mugrosos, luridi.

“Non si può mettere in atto una strate­gia restando seduti in uicio”, dice Ley­

zaola dietro la sua scrivania, sulla quale ci sono alcuni documenti e un frullato di frut­ta. “Per realizzarla bisogna scendere in strada”. Il poliziotto spiega di aver riporta­to la pace a Ciudad Juárez suddividendo la città in settori e bloccando le vie d’accesso alle aree più problematiche, a partire dalla zona commerciale e dei servizi, che La Li­nea aveva scelto come base operativa. Per alcuni mesi, racconta Leyzaola, la polizia ha fermato e interrogato chiunque entras­se e uscisse da alcuni quartieri.

Molti obiettano che pur avendo sman­tellato La Linea, una banda particolarmen­te violenta implicata nel massacro di 16 adolescenti nel gennaio del 2010, e nell’as­sassinio di un collaboratore del consolato degli Stati Uniti, la polizia ha anche com­piuto arresti arbitrari di ragazzi e di poveri solo in base al loro aspetto. “È in corso una violazione sistematica dei diritti umani”, dice Gustavo de la Rosa, un agente investi­gativo dello stato di Chihuahua. “Tra l’ot­tobre e il novembre del 2011 la polizia ha efettuato più di cinquemila arresti irrego­lari”.

Leyzaola è stato anche accusato di aver picchiato alcuni detenuti con un’asse di le­gno dopo una rivolta nel penitenziario del­la città, nel luglio del 2011. Un cittadino statunitense rilasciato poco dopo ha detto di aver visto con i suoi occhi il funzionario picchiare i detenuti. Più di recente, due de­tenuti hanno accusato il capo della polizia e altri sette uiciali di avere ucciso un loro amico che era stato arrestato a novembre. Anche se riiuta di commentare queste ac­cuse, Leyzaola non nega di aver usato gli arresti e pattuglie “energiche” per tagliare i collegamenti tra delinquenti comuni e criminalità organizzata. I giovani, sostie­ne, devono capire quali sono le conseguen­ze a cui si va incontro quando si entra nel mondo del crimine.

Molti abitanti di Ciudad Juárez non

Julián Leyzaola Scerifo di ferroÈ stato il capo della polizia di Tijuana e ora di Ciudad Juárez, dove è riuscito a ridurre i crimini. Ma i suoi metodi sono molto contestati

Damien Cave, The New York Times, Stati Uniti. Foto di Katie Orlinsky

◆ 27 febbraio 1960 Nasce a Culiacán, nello stato messicano di Sinaloa.◆ Anni ottanta Si diploma in amministrazione militare nella Escuela superior de guerra di Città del Messico.◆ 1999 È nominato tenente colonnello dello stato maggiore messicano.◆ 2008 Diventa capo della polizia di Tijuana. Sotto il suo mandato, i crimini si riducono notevolmente, ma molti denunciano nei suoi metodi violazioni dei diritti umani. ◆ 2011 Viene scelto per guidare le forze dell’ordine di Ciudad Juárez. Riesce a sconiggere il cartello criminale La Linea. La Commissione per i diritti umani dello stato del Chihuahua denuncia i suoi metodi brutali.

Biograia

Ritratti

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sembrano preoccupati. Da anni si lamen-tavano dei gangster locali che approitta-vano dello stato di caos e paura per estor-cere denaro. Perino i difensori dei diritti umani come De la Rosa hanno riconosciu-to che ci sono molte persone interessate a eliminare Leyzaola, che a giugno del 2011 è sopravvissuto all’ennesimo attentato.

Giovani e inespertiEppure, i suoi problemi con la giustizia continuano ad accumularsi. Il funzionario dovrà presentarsi in tribunale per rispon-dere delle accuse relative al periodo in cui era capo della polizia di Tijuana. In un re-cente rapporto della commissione per i diritti umani dello stato del Chihuahua, si legge che nel 2010 Leyzaola e diversi suoi collaboratori hanno torturato quattro agenti di polizia sospettati di corruzione.

Un altro documento collega il poliziotto alla morte di cinque persone accusate di avere ucciso alcuni agenti di polizia nel 2009. Leyzaola ha respinto le accuse, af-fermando che si tratta di un tentativo di difamarlo. L’uomo nega anche di avere avuto a che fare con il caso di quattro ra-gazzi di Ciudad Juárez trovati morti in una galleria qualche settimana dopo che alcuni testimoni avevano assistito al loro arresto.

“Io ero in carica solo da dieci giorni”, dice il poliziotto. “E sono stato io a insistere perché i responsabili venissero puniti”.

Leyzaola (che dimentica di dire che so-lo alcuni dei quindici agenti accusati sono stati arrestati) sostiene di doversela cavare con una forza di polizia giovane e male equipaggiata. Ha appena licenziato circa duecento poliziotti e ha annunciato che probabilmente altri saranno rimossi dall’incarico. Oltre alle diicoltà nel reclu-tamento (oggi il suo dipartimento conta 2.300 agenti contro i tremila di qualche an-no fa), il funzionario sottolinea il problema dell’addestramento delle reclute: “Sul to-tale degli agenti, circa 1.800 non hanno più di due anni di servizio alle spalle”.

Molti agenti considerano Leyzaola un modello. Nell’atrio della stazione di polizia c’è una parete ricoperta da ritagli di gior-nale con le notizie degli arresti. È raro tro-vare un morale così alto in un dipartimento di polizia messicano. Ma molti esperti so-stengono che Leyzaola non abbia ancora capito quali sono i limiti del suo pugno di ferro. “La pubblica sicurezza non è una questione di personalità, ma di procedure e istituzioni”, sottolinea David A. Shirk, direttore del Trans-Border institute dell’università di San Diego. “Quando

Leyzaola se ne andrà, cosa resterà? Questa è la domanda fondamentale”.

La trasparenza delle indagini conta molto più delle parole e perino degli arre-sti dei grandi boss, sostengono i critici. E anche se a Tijuana e a Ciudad Juárez il tas-so di criminalità è diminuito, non è chiaro ino a che punto sia merito del capo della polizia. Secondo Shirk, questo risultato è dovuto piuttosto a dinamiche interne al mondo delle organizzazioni criminali: una tregua o un cambiamento negli equilibri di potere, per esempio, che potrebbe aver portato un gruppo a prendere il sopravven-to sugli altri. Alcuni esponenti del cartello di Sinaloa sotto processo negli Stati Uniti hanno dichiarato di aver collaborato con le autorità messicane e statunitensi per scon-iggere La Linea. Secondo De la Rosa la ri-duzione della criminalità potrebbe essere dovuta anche alla riduzione delle risorse dei clan.

Qualunque sia la causa, o l’efetto, sem-bra improbabile che in futuro Leyzaola svolga un ruolo diverso da quello che ha avuto inora. “Io sono un soldato. Sono un nazionalista”, dice, sporgendosi in avanti sulla sedia come se parlasse a una teleca-mera. “Ho un solo obiettivo: combattere la criminalità”. u fp

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Viaggi

rov fu mandato in esilio perché era un dissi-dente. E qui è sorto l’impianto automobili-stico Gorky (Gaz), iore all’occhiello dell’in-dustria sovietica del settore. C’era anche una fabbrica dove si costruivano sottomari-ni nucleari. Durante la guerra fredda a Gor’kij i turisti non erano ammessi: era una città chiusa, troppo impegnata a preparare la terza guerra mondiale. Polverosa, crude-le, sovietica: questa era la sua immagine di allora.

Poi le cose cambiarono. Boris Nemcov, prima di essere nominato vicepremier nel governo di Boris Eltsin, nel 1991 diventò governatore e provò a scuotere Nižnij dal suo torpore per riportarla ai fasti di un tem-po. Riaprì la iera di Nižnij Novgorod, che in passato era stata l’appuntamento più im-portante per i commercianti provenienti da tutta la Russia, e invitò Margaret Thatcher. Nemcov diventò governatore a soli 32 anni. “Ho governato durante la mia infanzia”, ri-corda adesso. Le cose con lui non andarono benissimo, ma Nemcov ci contagiò con il suo impetuoso senso della vita, della libertà e del cambiamento. Poi, però, alcuni anni dopo partì inaspettatamente per Mosca per aiancare Eltsin al Cremlino.

Aspettare il proprio destinoDi lì a poco Nižnij ha misteriosamente smesso di essere una delle città più innova-tive e democratiche della Russia ed è diven-tata una tipica città della “cinta rossa”. Il successore di Nemcov era un comunista. I contratti per l’industria bellica sono dimi-nuiti a poco a poco. La fabbrica automobili-stica è sopravvissuta a stento e gli altri im-pianti industriali sono praticamente scom-parsi. Tutto quello che Nemcov aveva co-minciato, compresa la iera, non ha avuto seguito. La città non è mai diventata uno snodo commerciale e si è incattivita nella malinconia e nell’inerzia. Dall’epoca sovie-tica il numero dei reati è cresciuto di sei vol-te, e le nascite sono altrettanto diminuite. La sensazione è che la città abbia smesso di

essere amica dei suoi abitanti. Le ammini-strazioni successive hanno provato a tra-sformarla in un centro borghese, nel senso deteriore del termine.

Perché conservare la vecchia Nižnij, con le sue botteghe e i suoi palazzi ottocente-schi? Meglio buttare giù quelle vecchie ba-racche e costruire al loro posto una schiera di grattacieli con prezzi al metro quadro ai livelli di Parigi. Fortunatamente, la batta-glia contro la speculazione edilizia è diven-tata una questione d’onore per tutti quelli che ancora amano la città e vogliono pre-servarla. C’è stato un momento in cui le au-torità hanno pensato di ricostruire il centro. I nuovi ediici avrebbero nascosto la vista sul Volga dalla sponda destra, uno dei punti più amati dai cittadini di Nižnij. I grattacieli avrebbero preso il posto dei campi e dei cie-

Nižnij Novgorod sarebbe potuta diventare una delle città più visitate al mondo, semplicemente perché è una delle più belle. Ogni cosa che ab-

biamo – ebbene sì, ogni cosa – è unica. L’ar-chitettura tozza e solida, i colli (gran parte della città è in collina), i ripidi argini e la vi-sta che si apre su una distesa incontaminata dove si incontrano il Volga e l’Oka. A Nižnij la conluenza dei due iumi viene chiamata Strelka. La caserma dei vigili urbani è pro-prio alla destra dello Strelka, forse per tene-re d’occhio i due grandi iumi russi e assicu-rarsi che non superino il limite di velocità.

Le autorità locali avevano promesso di trasformarla in una mecca del turismo. Hanno ottenuto tutti i fondi federali, ma poi non è successo nulla. Non sappiamo dove siano andati a inire i soldi e non osiamo nemmeno chiederlo.

Intanto l’Unesco ha inserito Nižnij tra le città con il più alto valore culturale al mon-do. Ci sono oltre seicento monumenti, tra cui trenta chiese ortodosse, monasteri, mu-sei, una fortezza con 13 torri e l’università: è una città che potrebbe fare la felicità di qualsiasi turista. Sembra però che Nižnij abbia perso la sua anima: non ci sono pro-getti culturali, ambizioni industriali o ten-sioni politiche. Non a caso in epoca sovieti-ca era stata ribattezzata Gor’kij (triste, amara) in onore dello scrittore Maksim Gor’kij. Il nome evoca molti aspetti cupi della mia città. Quando ero giovane, non somigliava afatto all’attuale Nižnij Novgo-rod, ma era esattamente Gor’kij, dove non a caso lo scienziato nucleare Andrej Sakha-

La poesiadel VolgaZahar Prilepin, Newsweek, Stati Uniti

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A Nižnij Novgorod, in Russia, la crisi economica ha fermato la speculazione edilizia. Salvando le botteghe artigiane e i palazzi ottocenteschi

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◆ Documenti. Per entrare e uscire dalla Russia bisogna avere il visto. Per maggiori informazioni si può consultare il sito dell’ambasciata russa in Italia: intern.az/ACk5Fx.◆ Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia (Aerolot, Lufthansa) per Nižnij Novgorod parte da 487 euro a/r. In treno l’opzione più veloce è il Sapsan, che da Mosca arriva a Nižnij Novgorod in poco meno di quattro ore. ◆ Clima Da novembre a marzo il paesaggio è coperto di neve e le ore di luce sono

poche. Meglio andare nei mesi più caldi: giugno e luglio.◆ Dormire Al Vorobey hotel (loungestreet.net), dieci minuti a piedi dalla fortezza e dal teatro dell’opera. Le stanze sono moderne e la

prima colazione abbondante. Il prezzo di una doppia parte da 93 euro a notte.◆ I lettori consigliano La cucina russa del Nižnij Posad, in centro (007 831 433 2367, Ulitsa Koževennaja 18). Da provare i blini con caviale.◆ Leggere Katia Metelizza, Il nuovo abbecedario russo, 66thAnd2nd 2011, 16 euro.◆ La prossima settimana Viaggio alle Bardenas Reales, in Spagna. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni praticheli sterminati. Per fortuna è arrivata la crisi economica mondiale e i sogni di gloria dell’amministrazione sono svaniti. Speria-mo che la prossima volta che si mettono in testa di costruire qualcosa di così masto-dontico ci sia un’eclissi di sole e faccia buio ino a quando non porteranno via le gru e le scavatrici. Oggi Nižnij è ferma, come se aspettasse in silenzio il suo destino. Però, ultimamente ci sono più poeti. Non siamo più una capitale industriale né una capitale commerciale, così facciamo inta di essere una capitale della poesia. Forse i poeti sen-tono il ronzio del gigante industriale sovie-tico e della Nižnij prerivoluzionaria. E se questo ronzio preludesse alla nascita di una nuova città? A me sembra che questo fer-mento lirico sia un buon segno. Promette qualcosa di nuovo. ◆ fas

Nižnij Novgorod, Russia

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Cultura

Cinema

L a settimana scorsa è stata par-ticolarmente intensa per i gay e le transessuali turche. Zenne

dancer, un ilm indipendente di Caner Alper e Mehmet Bi-

nay che ha fatto da apripista, è inalmente uscito nelle sale dopo aver vinto cinque im-portanti premi nel principale festival cine-matograico del paese, e dopo aver ricevuto un’incredibile attenzione da parte dei mez-zi d’informazione – anche se non sempre in termini entusiastici.

Nel linguaggio comune la parola zenne indica un uomo che si traveste da donna e danza davanti a un pubblico – una tradizio-ne che risale agli inizi dell’impero ottoma-no. Il ilm è ispirato a una storia vera, quella di Ahmet Yıldız, uno studente ucciso da suo padre dopo avergli detto di essere omoses-suale. Non è stato il primo crimine causato dall’odio omofobo in Turchia, né il primo “delitto d’onore” a sfondo omosessuale, ma probabilmente il primo ad aver risve-gliato l’attenzione dell’opinione pubblica. Il ilm ha contribuito ad aumentare la consa-pevolezza sulle dure condizioni di vita di transgender e gay nella società patriarcale turca.

Solo qualche giorno prima, una corte d’appello aveva obbligato un quotidiano a pagare una multa per aver definito i gay

“sessualmente perversi”. Un passo avanti importante in un paese dove alla domanda: “Chi non vorreste avere come vicino di ca-sa?”, una strabiliante maggioranza, l’84 per cento, ha risposto: “Un omosessuale”. Lo rivela un sondaggio condotto nel luglio 2011 dall’associazione World values survey. La lista prosegue poi con malati di aids, coppie non sposate e atei.

La gazzosa di GezmişOggi anche in una città cosmopolita come Istanbul è diicile parlare apertamente di omosessualità, e accettarla è ancora più dif-icile. Ma non si presuppone più che il paese sia composto da una monolitica comunità di individui omogenei. Le diferenze etni-che, religiose, politiche e sessuali comincia-no a essere prese in considerazione a un li-

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Zenne dancer, ilm su una danzatrice transessuale, riesce a catturare l’attenzione di giornali e tv

Un passo avanti per i gay turchiElif Şafak, The Guardian, Gran Bretagna

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Zenne dancer

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vello ino a poco tempo fa impensabile. Se-condo Mehmet Binay, produttore e aiuto regista di Zenne, nella Turchia di oggi tutte le minoranze, compresi gay e lesbiche, chie-dono il riconoscimento e rivendicano i loro diritti.

Ma poi accade, per esempio, che Bülent Ersoy, una delle cantanti più popolari del paese, transessuale, racconti di aver incon-trato Deniz Gezmiş, leader carismatico del 1968, morto nel 1972 e oggi non meno ido-latrato di Che Guevara. Ersoy ha dichiarato di aver cantato per lui, e che Gezmiş le avrebbe comprato una gassosa. Le reazioni sono state furibonde. Bozkurt Nuhoğlu, un avvocato ex rivoluzionario, ha rilasciato una dichiarazione al vetriolo: Gezmiş non avrebbe mai incontrato una cantante tran-sessuale, ha detto, perché non frequentava gente di dubbia moralità. Ha poi minaccia-to la cantante, dicendo che se avesse conti-nuato a raccontare falsità i compagni di Gezmiş l’avrebbero sicuramente punita.

I mezzi d’informazione turchi hanno seguito la storia con sguardo critico. Molti articoli hanno denunciato il sessismo e l’omofobia delle afermazioni di Nuhoğlu e diversi editorialisti hanno colto l’occasione per mettere in discussione la natura patriar-cale dell’ideologia di sinistra in Turchia, e il “tradizionalismo delle forze progressiste”, un soggetto solitamente tabù.

In tutto il paese si è sollevata la protesta di transessuali, gay, femministe e attivisti dei diritti umani, che hanno preteso scuse immediate da parte di Nuhoğlu. Twittando notizie sull’incidente ho ricevuto incorag-gianti reazioni positive, ovviamente insie-me ad altre reazioni omofobiche.

“Non ci chiederai di tollerare queste persone?”, ha scritto una studentessa che usa il velo. Ci si aspetterebbe che, dato il ge-nere, l’età e il velo, sappia cosa signiichi essere discriminati. E invece no.

Quello che è successo dopo dà la misura della complessità della Turchia contempo-ranea. Nuhoğlu ha inviato un’inaspettata lettera di scuse a Pink Life, un’organizza-zione che lotta per i diritti della comunità transgender. Era una lettera commovente, scritta e pensata bene.

“Uno dei miei ilm preferiti è Il bacio del-la donna ragno”, ha scritto Nuhoğlu. Tratto da un romanzo dell’argentino Manuel Puig, il ilm, che ha nel cast gli indimenticabili

Raul Julia e William Hurt, racconta la storia di un rivoluzionario, Valentin, e un omoses-suale, Molina, che per caso si ritrovano nel-la stessa cella. All’inizio Valentin è intolle-rante con Molina, ma dopo aver attraversa-to con lui ingiustizie e torture, cambia, e sviluppa nei suoi confronti uno spirito ca-meratesco e perino una forma di amore.

Come Valentin

Riferendosi al ilm, Nuhoğlu ha detto di es-sersi comportato esattamente come Valen-tin nella prima metà della pellicola. Ha chiesto poi scusa alla cantante e a tutti quel-li che ha ferito involontariamente.

La Turchia è polarizzata da disegua-glianze sociali e culturali e da pregiudizi che ancora devono essere superati. Le cose an-drebbero probabilmente meglio se la gente avesse più occasioni di trovarsi a contatto con persone che ritiene “diverse”, per sco-prire così di avere tanto in comune. Ma al-meno c’è qualche segnale di cambiamento e c’è più rispetto nei confronti di gay e tran-sessuali. Forse non ancora tra la gente, ma almeno nei mezzi d’informazione e nell’at-teggiamento dei personaggi pubblici. u nv

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Zenne dancer

L’AUTRICE

Elif Şafak è una scrittrice turca, nata a Strasburgo nel 1971. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Le quaranta porte (Rizzoli).

Alla domanda: “Chi non vorreste come vicino di casa”, l’84 per cento ha risposto: “Un omosessuale”

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Cultura

CinemaItalieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana Eric Jozsef, del quotidiano francese Libération e dello svizzero Le Temps.

AcabDi Stefano Sollima. Con Marco Giallini, Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Domenico Diele. Italia 2012, 90’●●●●● Nel 1968, commentando la “battaglia” studentesca di Valle Giulia, Pier Paolo Pasoli-ni scrisse che stava dalla parte dei poliziotti perché “igli di poveri che vengono da perife-rie”. Alla sua maniera, il ilm di Sollima cerca anche lui di rovesciare l’immagine dei ce-lerini, anzi di dare un volto, uno spessore umano ai poli-ziotti incaricati di far rispetta-re l’ordine, con la forza, di fronte alla violenza degli ultrà degli stadi. Ma anche di fare il lavoro sporco quando si tratta di sgomberare i campi rom, espellere gli immigrati clan-destini o i poveri inquilini abu-sivi di case popolari. Il ilm ruota intorno alla igura di quattro poliziotti che vivono storie personali dure come la società che li circonda, in pie-na metamorfosi e senza più valori e punti di riferimento. Si ritrovano solo nel branco del corpo di polizia, dove pen-sano di poter dettare legge. Sollima mostra un’Italia scu-ra, disincantata, in preda alla violenza e all’estremismo. Il ilm è sostenuto da un buon ritmo e da attori molto bravi. Ma la sceneggiatura non rie-sce a tirarsi fuori dall’attualità e da una narrazione troppo li-neare. Acab avrebbe guada-gnato con personaggi più complessi, come è la società italiana di oggi.

La caduta di Berlusconi e l’ombra di Robert Altman Il Torino ilm festival, per anni il più piacevole dei festival ci-nematograici italiani, è co-minciato pochi giorni dopo le dimissioni di Berlusconi, e, co-me tutto il resto d’Italia, sem-bra essersi guardato allo spec-chio. Forse anche per la pre-senza del clan Altman, com-presa la vedova e il iglio, c’era un’atmosfera un po’ spettrale (in una città famosa per spet-tri, magia, suicidi e cioccola-to). Di fronte all’hotel Genio, dove alloggiavano la maggior parte degli ospiti, c’era un ci-nema in passato usato dal fe-

stival, che oggi è una sala bin-go. Continua ad aggirarsi an-che lo spettro di Nanni Moret-ti, che negli scorsi anni ha ten-tato di rilanciare il festival. Il modello di Torino era molto buono. Una retrospettiva im-portante, di solito un regista di genere statunitense, e una cal-

da e rilassata ospitalità garan-tiva spesso la presenza di nomi come Claude Chabrol o John Landis. Quest’anno c’era una buona retrospettiva su Alt man con due gemmme: un episo-dio di Bonanza e uno di Alfred Hitchcock presenta, girati all’inizio della sua carriera. Nella sezione italiana, il ilm che meglio inquadra l’umore austero che si respira nel pae-se, è stato Sic Fiat Italia di Da-niele Segre, che spiega come molti operai della Fiat, per mantenere il posto di lavoro, abbiano rinunciato a gran par-te dei loro diritti sindacali. Un sacriicio che forse sarà inutile.Roger Clarke, Sight&Sound

Visti dagli altri

Fantasmi a Torino

Sic Fiat Italia

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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In uscita

Hugo CabretDi Martin Scorsese. Con Ben Kingsley, Asa Butterield, Chloe Moretz. Stati Uniti 2011, 125’●●●●● L’apice del ilm in 3d di Scorse-se arriva quando Hugo, un or-fano di dodici anni, e la sua amica Isabelle sfogliano un li-bro sulla nascita del cinema. Le immagini sulle pagine all’improvviso prendono vita e diventano un ilm. Questa opera meravigliosa, tratta dal libro per bambini di Brian Selz nick, unisce in modo dina-mico due periodi. I primi anni trenta, quando il piccolo Hugo si nasconde nei recessi della Gare Montparnasse, proprio come il dimenticato George Méliès che gestisce un negozio di giocattoli al suo interno, e la ine dell’ottocento, quando lo stesso Méliès, insieme ai fra-telli Lumière muove i primi passi nella settima arte. Scor-sese ha messo il suo omaggio alla nascita del cinema al cen-tro di una storia emotivamen-te coinvolgente: il piccolo orfa-no cerca una famiglia e il vec-chio Méliès cerca il riconosci-mento che non ha avuto. Il to-no rapsodico non vacilla mai in un ilm che unisce il 3d a scenograie volutamente arti-iciose, che ricordano i libri per bambini ma anche i set fanta-smagorici in cui Méliès ha am-bientato i suoi ilm. David Denby, The New Yorker

Millennium. Uomini che odiano le donneDi David Fincher. Con Daniel Craig, Stellan Skarsgård, Roo-ney Mara. Stati Uniti 2011, 160’●●●●● Nella sua versione di Uomini che odiano le donne, David Fin-cher ha fatto un serissimo up-grade sia del software sia del sistema operativo. Il remake in inglese del primo capitolo del-la trilogia di Stieg Larsson ri-sulta più elegante, più levigato e più sexy rispetto al preceden-te svedese. È un ilm potente, che sprizza autorevolezza, e la violenza brutale che li contrad-distingue entrambi in questo caso sembra ancora più insop-portabile. La sequenza iniziale è di gran lunga la scena miglio-re: un incubo liquido mono-cromatico accompagnato dalla adeguata colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross. Il resto del ilm, in confronto, è relativamente convenzionale e, nonostante lo stile di Fin-cher, meno convincente di Zo-diac. Convincente è invece Ro-oney Mara. Qualcuno ricorde-rà l’attrice come la idanzata che pianta in asso Zuckerberg all’inizio di The social network. Nei panni di Lisbeth è la vera forza trainante del ilm e senza di lei, presto o tardi, ci ritrove-remmo a notare gli elementi più improbabili della arcinota trama.Peter Bradshaw, The Guardian

Hesher è stato quiDi Spencer Susser. Con Joseph Gordon-Levitt, Natalie Port-man. Stati Uniti 2011, 106’●●●●● Nel ilm di debutto di Spencer Susser, Joseph Gordon-Levitt interpreta Hesher, una sorta di “diavolo custode” di un tredi-cenne che ha perso da poco la madre. Gordon-Levitt è un giovane attore di talento e af-

fascinante. Nel ilm è vera-mente diicile distogliere lo sguardo da lui. Ma nonostante tutte le stravaganze di Hesher (il turpiloquio, i capelli lunghi, una libido fuori controllo, la passione per l’heavy metal e gli incendi dolosi) nessuna co-sa che fa è veramente interes-sante. Ma non è colpa dell’in-terprete, il problema è nel ruo-lo. Più o meno ottant’anni fa, Jean Renoir nel ilm Boudu sal-vato dalle acque aveva creato un personaggio simile. Un buon samaritano salva dal sui-cidio il barbone Boudu e lo ospita addirittura in casa. Ma Boudu ripaga il suo salvatore sconvolgendogli la vita. Re-noir si servì di questo perso-naggio come strumento di una satira sociale. Hesher serve in-vece a Susser giusto per mette-re un po’ di ansia allo spettato-re in un ilm che per il resto poggia quasi esclusivamente su dei cliché.Joe Morgenstern, The Wall Street Journal

40 caratiDi Asger Leth. Con Sam Wor-thington, Elizabeth Banks, Ed Harris. Stati Uniti 2012, 102’ ●●●●● Non è solo doloroso. È anche irritante vedere un attore del calibro di Ed Harris impegna-to in certi dialoghi. In 40 cara-ti, il suo personaggio, David Englander, è un magnate del mercato immobiliare che urla frasi tipo: “Al mondo ci sono due tipi di persone: quelli che

sono disposti a tutto per otte-nere ciò che vogliono, e tutti gli altri”. Naturalmente En-glander, che ha organizzato il furto di un diamante per paga-re il debito contratto dopo il fallimento della Lehman Bro-thers, appartiene al primo tipo di persona e non proferisce verbo che non sia una minac-cia di morte o un insulto vele-noso. Senza un ilo di ironia. Peccato che nessuno si sia reso conto che questo thiller d’azio-ne avrebbe funzionato meglio come commedia. Raramente in un ilm si è vista una tale di-sconnessione tra realismo ur-bano e assoluta ridicolaggine.Stephen Holden, The New York Times

PolisseDi e con Maïwenn Le Besco. Con Karin Viard, Marina Foïs, Joey Starr. Francia 2011, 134’ ●●●●● Probabilmente la cosa più onesta di Polisse è la locandi-na. Si vede un agente di polizia che nasconde il suo volto die-tro la foto di un bambino. Nel ilm gli attori interpretano gli agenti della squadra di prote-zione dei minori. I bambini so-no le vittime che devono pro-teggere. Ma nel ilm, come nella locandina, i bambini so-no solo accessori, dispositivi che servono a sorprendere, a mascherare per poi svelare la vera natura di una collezione di personaggi imbrigliati in una commedia non molto di-versa dai precedenti ilm di Maïwenn. Un misto narcisisti-co di cliché condito da voyeu-rismo in cui i bambini (violen-tati, picchiati, afamati, forzati al lavoro o al matrimonio) so-no poco più che uno sfondo per quello che sembra il con-densato di un’intera stagione di una serie tv.Thomas Sotinel, Le Monde

L’arte di vincereDi Bennett Miller (Stati Uniti, 133’)

ShameDi Steve McQueen (Gran Bretagna, 98’)

Mission impossible. Protocollo fantasmaDi Brad Bird (Stati Uniti, 133’)

I consigli della

redazione

Hugo Cabret

Hesher è stato qui

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76 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

Libri

La primavera araba raccontata dagli scrittori tunisini ed egiziani In materia di libri, il Medio Oriente ha una pessima repu-tazione: in nessun altro luogo si legge di meno. Ma qualcosa è cambiato. La censura è più morbida, hanno cominciato a uscire libri che raccontano le rivolte in Egitto e Tunisia e la iera del libro del Cairo (22 gennaio-7 febbraio) coincide con il primo anniversario delle rivoluzioni. Tantissimi, poi, i libri che afrontano argomenti che ino a poco tempo fa erano tabù. Tahrir. The last 18 days of Mubarak, di Abdel Latif al Me-nawy, giornalista della tv di stato egiziana, si distinguerà forse per qualche gossip, più che per essere un resoconto imparziale di quei giorni. Di

Dal Nordafrica

La rivoluzione tra le righe

Laurent MauvignierStoria di un oblioFeltrinelli, 64 pagine, 8 euro

Mauvignier, classe 1967, è uno dei più interessanti scrittori europei, e già ne segnalammo su queste pagine la corale storia di disagi e di rimozioni Degli uomini (Feltrinelli), ma si vedano anche La camera bianca e Lontano da loro (Zandonai), ritratti di una donna comune e di un comune ventenne, comunemente disadattati al contesto in cui tutti ci dibattiamo. Breve e intensissimo, Storia di un oblio

è piuttosto un récit che un racconto e si presta a una lettura da teatro di narrazione. Spostandosi tra più punti di vista, compreso quello della vittima, l’autore evoca un comune caso di pestaggio, alle porte di un supermercato, di quattro vigilanti a danno di un giovane marginale che vi ha rubato e bevuto una birra. Il giovane è morto, per una lattina di birra si può morire. “... alla polizia… alle mogli, agli amici, alla famiglia… hanno ripetuto che non hanno picchiato così forte, hanno

colpito perché il tipo li insultava, era lui che menava e gridava e parleranno di un coltello che nessuno troverà mai…”. Questo bellissimo monologo a più voci colpisce particolarmente quando al suo centro ci sono i quattro vigilanti, giovani come la vittima e che avrebbero potuto esserne, chissà, perino amici. Nulla di eccezionale, dice l’autore, perché tutto è eccezionale nel nostro mondo brutale, anche se preferiamo ingere di non saperlo, per sopravvivere. u

Il libro Gofredo Foi

Niente di eccezionale

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Sivan Kotler, del quotidiano israeliano Ha’aretz.

Elena FerranteL’amica genialee/o, 329 pagine, 18 euro

●●●●●Nelle strade di un rione povero della periferia napoletana, due bambine, Lila ed Elena sono le protagoniste del primo capito-lo in un vasto progetto di scrit-tura irmato Elena Ferrante. In un mondo dove tutto è “bel-lo e pauroso”, dai conini ben delineati dell’infanzia e poi dell’adolescenza, nasce un’amicizia eterna in un terre-no diicile che invita la natura umana a misurarsi e conoscer-si attraverso l’altro. Una prova di forza a due, narrato da una protagonista adulta in grado di descrivere “un’infanzia piena di violenze” con la dovuta in-genuità. Una scrittura decisa e cadenzata compone un sotto-fondo musicale in cui vengono descritti gli equilibri tra le due amiche, Elena che passa il suo tempo a osservare Lila, deini-ta “troppo per chiunque”, e spesso anche di più. Il mistero letterario della Ferrante, che nel passato ha mostrato più volte la capacità di analizzare con delicatezza e precisione la complessità dell’anima fem-minile nelle sue varie età, ab-bandona questa volta la sfera anonima personale, per parla-re di un ceto sociale dove vige il desiderio costante di fuggire da ruoli e destini, dalla vita e dalla società. Inevitabili le ri-lessioni sulle impronte e le tracce lasciate e fatte lasciare dai vari amici geniali e non, sul costante bisogno dell’altro. Per poterci conoscere. Per sentire se stessi.

altro spessore la raccolta di ar-ticoli di Ala al Aswani, La rivo-luzione egiziana. Ma la forma più popolare sono gli youmiyat (diari), spesso in rima, che rac-contano i giorni di piazza Tahrir, come quello del poeta Hassan Talab. Il commedio-grafo Sondos Shabayek ha

scelto invece una forma rical-cata sui Monologhi della vagi-na, per i suoi Tahrir monolo-gues. Comunque, come indica-no i titoli inalisti del Booker prize arabo, il grande romanzo sulla primavera araba dev’es-sere ancora scritto. The Economist

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Piazza Tahrir, gennaio 2011

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Joyce Carol OatesLa ragazza tatuataMondadori, 357 pagine, 20 euro

●●●●●Philip Roth ha incentrato mol-ti suoi romanzi sulla crisi di mezza età di un autore di suc-cesso o di un professore uni-versitario disilluso dalla vita. Joyce Carol Oates ha dedicato La ragazza tatuata a Roth, e ha ripreso lo stesso tema nella i-gura di Joshua Seigl, uno scrit-tore solitario e isicamente de-bilitato che non è stato in gra-do di scrivere un seguito al suo romanzo, Le ombre, basato sui ricordi dell’Olocausto dei suoi parenti, un libro che ha vendu-to un milione di copie e l’ha re-so famoso ma che l’ha anche lasciato in un pozzo di stagna-zione emotiva. Nella speranza di mettere le sue carte (e la sua vita) in ordine, Seigl assume come sua assistente una gio-vane misteriosa, Alma, appe-na arrivata in città. I tatuaggi della ragazza lo convincono che ha avuto una vita strana e diicile. Presto però scopria-mo che Alma nutre un dissi-mulato odio per tutto ciò che è ebraico (incluso Seigl), e che ha un amante violentemente sadico e antisemita di nome Dmitri. È un inizio che pro-mette una collisione frontale tra i personaggi principali o magari un lento e velenoso in-vischiamento. Sfortunata-mente, Oates non riesce a crea re tensione. Ma il proble-ma fondamentale di La ragaz-za tatuata è che Seigl e Alma cominciano a diventare perso-naggi a tre dimensioni solo verso la ine del libro. E pro-prio quando la storia sembra trovare il suo vero scopo, Oa-tes la interrompe di colpo con un inale improbabile e melo-drammatico. Richard Zimler, San Francisco Chronicle

Anna FunderTutto ciò che sonoFeltrinelli, 396 pagine, 19 euro

●●●●●Tutto ciò che sono si basa su una storia vera ed è ispirato alle in-terviste, alle memorie e alle autobiograie di un gruppo di ebrei tedeschi che resistettero a Hitler negli anni trenta. Con l’avvento del nazismo, Ruth Blatt, sua cugina Dora Fabian e il drammaturgo Ernst Toller, insieme al marito di Blatt, Hans Wesemann, fuggono a Londra, dove continuano la lo-ro attività di resistenza. A Ber-lino, dopo l’incendio del Rei-chstag, Hitler prepara un pro-cesso spettacolo. A Londra, Fabian mette in scena un con-tro-processo, fa in modo di portare fuori della Germania alcuni testimoni, contatta un nazista che le fa avere dei do-cumenti cruciali. Minacciati dalla Gestapo, Fabian e un al-tro membro del gruppo vengo-no trovati morti nel loro ap-partamento. L’inchiesta si chiude con un verdetto di sui-cidio, ma Blatt e Toller sono convinti che siano stati assas-sinati. Anna Funder sostiene che la storia è stata ricostruita a partire da frammenti fossili, come quando si disegnano pelle e pelo su un mucchio di ossa di dinosauro per farsi un’immagine dell’animale nel suo complesso. Tuttavia, le pretese di autenticità, di “rico-struzione”, sono rischiose e complicate. Intelligente, intri-gante, incoerente, Tutto ciò che sono è pseudo-realismo cine-matograico, una fantasia sul passato basata su una ricerca meticolosa. È più eicace e commovente quando si pre-senta semplicemente come un febbrile “sogno di coloro che non ci sono più”. Joanna Kavenna, The Guardian

Jennifer EganIl tempo è un bastardo (Minimum fax)

David GraeberFrammenti di antropologia anarchica (Elèuthera)

Jodorowsky-MoebiusL’Incal. L’integrale (Magic Press)

I consigli della

redazione

David BezmozgisIl mondo liberoGuanda, 360 pagine, 18,50 euro

●●●●●Quando ci si trova di fronte a un romanzo d’esordio così si-curo di sé, elegante e acuto come Il mondo libero, in cui David Bezmozgis ci ofre un intimo ritratto dei Krasnan-sky, una famiglia ebrea letto-ne emigrata in occidente nel 1978, si ha la tentazione di di-re che l’autore dimostra una maturità di gran lunga supe-riore alla sua età. Ma Bezmoz-gis è nato a Riga, Lettonia, nel 1973: quindi ha la stessa età che aveva Philiph Roth quan-do pubblicò Lamento di Port-noy. Allora è forse più esatto dire che Bezmozgis scrive co-me uno della sua età ma di una generazione precedente.

Concentrato sulle vicende della famiglia anche se epico per raggio e ambizioni, Il mon-do libero si svolge nei sei mesi che i Krasnansky trascorrono nel limbo alla periferia di Ro-ma, aspettando i documenti che gli permetteranno di tra-sferirsi in Nordamerica.

La parentesi in Italia è una scelta appropriata, perché rappresenta un passaggio tra due mondi, un po’ come gli stessi Kras nansky, che passa-no dall’essere stranieri in uno stato all’esserlo in un altro.

Per il patriarca Samuil, ve-terano dell’armata rossa e convinto comunista nato nel 1913, che ha visto il padre uc-ciso dall’armata bianca, l’arri-vo in Italia non è il raggiungi-mento della libertà, ma un se-gno irrimediabile della sua vecchiaia. Attraverso i igli di Samuil e di sua moglie Emma,

Il romanzo

Stranieri di passaggio

Alec e Karl, e le loro mogli, Bezmozgis tratteggia i pericoli e le promesse del “mondo li-bero” nel quale sono arrivati. Alec, un imbroglione immatu-ro e sprovveduto, deve fron-teggiare insieme alla moglie Polina le conseguenze del suo essere un incorreggibile don-naiolo. Karl, “pragmatico per natura”, si ritrova immerso i-no al collo nel mercato nero.

I giovani igli di Karl non hanno un ruolo centrale nella narrazione: per loro l’espe-rienza ebraica vive nei raccon-ti di genitori e nonni, un po’ come è stato davvero per Bez-mozgis, arrivato in Canada con la famiglia nel 1980.

Tutto ciò potrebbe forse suggerire che il romanzo di Bezmozgis sia un’opera lode-vole ma in qualche modo ari-da e noiosa. Ma l’autore è un osservatore astuto e sensibile, uno storico rigoroso, e una penna rainata tanto che le pagine volano, anche se su-spense e ritmo a volte sembra-no mancare. Adam Langer, The New York Times

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David Bezmozgis

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Cultura

Libri

Walter BenjaminPiccola storia della fotograia Skira, 45 pagine, 9 euroNel 1931 la fotograia esisteva da quasi un secolo. Da pratica quasi magica, usata nelle iere per stupire il pubblico, era di-ventata un’industria. Le per-sone si erano abituate molto rapidamente e ormai non ci facevano più caso.

Nel frattempo però la ri-lessione sul nuovo mezzo non si era sviluppata in modo al-trettanto intenso. Si era conti-nuato a discutere se la foto-

graia andasse considerata un’arte, al pari della pittura, o addirittura se fosse lecito e raccomandabile riprodurre le fattezze dell’uomo, che era stato creato da Dio, per mezzo di una macchina. Per questo il terreno di ricerca che in quel momento si schiudeva a Wal-ter Benjamin era immenso e inesplorato. Il ilosofo, che di lì a qualche anno avrebbe scritto L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecni-ca, cominciò ad avventurarcisi scrivendo alcuni brevi articoli con il suo stile illuminante e

misterioso, qui riproposti in traduzione italiana.

Analizzando le immagini (qui riprodotte con cura) di pionieri come Hill, Dauthen-dey, Blossfeldt, Atget, Sander, Benjamin comincia a scoprire che la fotograia riesce a cattu-rare una verità che ai pittori sfugge, e per capire come ciò possa avvenire, rilette sulla relazione tra i limiti tecnici cui i fotograi sono costretti, la lo-ro voglia di superarli o aggirar-li, le domande di un pubblico che da spettatore si sta facen-do protagonista. u

Non iction Giuliano Milani

A me gli occhi

Alberto Barrera TyszkaLa malattiaEinaudi, 159 pagine, 13,50 euro●●●●●Il romanzo di Alberto Barrera Tyszka mette il dito nella pia-ga del grande mito dell’invul-nerabilità della vita: “Perché ci costa tanto accettare che la vita è una casualità?”, chiede l’autore. La malattia possiede numerosi pregi letterari. Un linguaggio limpido e decanta-to, frasi esatte e taglienti che nascono da una profonda semplicità e che non fanno concessioni all’odiosa presun-zione della vacua espressività. Per dirla in breve: un romanzo che sposa con singolare mae-stria passione e ragione. La te-nerezza, l’audace divertimen-to narrativo e la tragedia lanci-nante della famiglia Miranda, personiicata in un universo i-liale e afettivo (padre e iglio) oppresso dalla disgrazia di chi sa di essere condannato a mo-rire senza poter evitare l’irre-parabile. Il romanzo di Barrera

Tyszka ci ricorda, con il iloso-fo secentesco Robert Burton, che “la malattia è la madre dell’umiltà”. Rafael Rattia, Venezuela Analitica

Philippe ClaudelL’inchiestaPonte alle Grazie, 207 pagine, 16,80 euro●●●●●La missione comincia male per l’Inquirente. Una città inospitale, perino ostile, co-me ce ne sono tante. Ma dopo-tutto, che altro poteva aspet-tarsi, lui che è stato invitato a indagare sull’epidemia di sui-cidi che colpisce l’Impresa, il faro di questo paese? Il nuovo romanzo di Philippe Claudel s’immerge, secondo i modi dell’indagine, negli abominii del mondo contemporaneo, dove l’unica legge è non cer-care di capire, per assurda e inquietante che sia la quoti-dianità. Il nostro Inquirente – per deinizione e per sua di-sgrazia – non può rispettare

questa legge. Grassottello, un po’ calvo, un uomo qualun-que, da bravo impiegato di non si sa quale amministrazio-ne vuole compiere la sua mis-sione, chiarire le cose. Smisu-rata, inarrestabile, minaccio-sa, tentacolare, l’Impresa ha assorbito la Città, è diventata un mondo a parte, il mondo stesso. Al suo interno, degli esseri ridotti a un ruolo – la Guida, il Poliziotto, il Respon-sabile –decerebrati, a volta af-fabili, a volte aggressivi. Che cosa produce l’Impresa? Ri-sposta semplice: copre tutti gli ambiti possibili dell’attività umana, attraverso migliaia di computer di cui l’uomo, ormai pedina intercambiabile, è schiavo. Racconto di una lun-ga marcia verso il nulla, inter-rogazione sul senso della vita e grido d’allarme, L’inchiesta diventa davvero afascinante quando Philippe Claudel si mette a ianco di Kaka e di Al-dous Huxley.Marie-Françoise Leclère, Le Point

India

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Meenal BaghelDeath in Mumbay Random House IndiaNel 2008 un giovane produt-tore televisivo, Neeraj Grover, fu brutalmente assassinato dalla sua amante, l’attrice Ma-ria Susairaj e dal idanzato di lei, un uiciale di marina, emile Jerome. Il delitto fece enorme scalpore. ora la gior-nalista Meenal Baghel lo riesa-mina approfonditamente.

Jeet ThayilNarcopolis Faber & FaberShuklaji street, la strada di Bombay dove si trovano i bor-delli e i locali in cui si fuma l’oppio, fa da sfondo alle storie degli ambigui personaggi che vivono e che svolgono qui i lo-ro traici. Jeet Thayil è un poe-ta indiano nato in Kerala.

Mrinal PandeThe other country Penguin IndiaIn questi saggi la nota giornali-sta Mrinal Pande mescola sto-rie e aneddoti al reportage per mostrare i lati nascosti e pro-blematici dell’India moderna.

Shanta GokhaleSatyadev Dubey Niyogi BooksSatyadev Dubey era uno degli uomini di teatro più conosciuti e amati dell’India. È morto il 25 dicembre del 2011. In que-sto libro la scrittrice e giornali-sta Shanta Gokhale ne rico-struisce la biograia e i mo-menti salienti della carriera.Maria Sepausalibri.blogspot.com

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Ricevuti

Fumetti

Ali d’amore

Ludovic DebeurmeRenéeCoconino press/Fandango, 464 pagine, 29 euroLucille, la prima parte, è stato il miglior romanzo a fumetti del 2008. Renée è un nuovo capolavoro, una delle uscite più signiicative del 2011, tenendo conto, nel frattempo, dell’aumento della produzione di fumetti di qualità. Notevole il lavoro di descrizione psicologica. L’anoressia vista come maledizione isica, endemica dello spirito femminile contemporaneo, dominava il primo volume. Esseri perduti nella normalità quotidiana piccolo borghese come Renée, dominano il secondo, nato sotto il segno dell’ambivalenza: del resto qui i colpevoli sono innocenti e viceversa, padri e fratelli fantasmi veri o metaforici. Opposti forse complementari ma destinati a non incontrarsi mai. O a perdersi per sempre, magari impregnati l’uno dell’altro, come Lucille e

Arturo: l’amore dà loro consapevolezza, agli altri no.

Le vignette sono micromondi ovoidali, bolle che si vorrebbero protettive, uterine (coerentemente con l’approccio psicoanalitico e surrealista di Debeurme), sistematicamente private dei normali contorni. La sottrazione graica esprime quanto siano labili queste bolle protettive psicologiche. Il mondo esterno è in agguato, inconoscibile e inquietante come gli abissi dell’inconscio. O come l’oceano, che suscita timore e attrae. Simbolo ambivalente perché assieme abisso e utero, morte e vita.

Ma quanta potenziale bellezza c’è in noi, se solo sapessimo comporre conlitti interiori ed esteriori, superando paure ed egoismi. E se la struttura sociale incombente – o un’entità sovrastante – non piombasse le nostre fragili ali d’insettini curiosi.Francesco Boille

Henry-Louis de La GrangeGustav Mahler. La vita, le opereEdt, 496 pagine, 29 euro La più completa e appassio-nante biograia di uno dei compositori più amati del no-stro tempo. Uno strumento ideale per scoprire uno dei pa-dri della musica moderna.

Stig DagermanI vagoni rossiVia del vento, 36 pagine, 4 euro La solitudine e l’ossessione per i vagoni rossi gettano un venditore di stofe in un abisso angoscioso.

A cura di Fabio Pierangeli e Lidia SirianniCronache dal big-bang. L’unica gioia al mondo è cominciareHacca, 222 pagine, 14 euro Gli scrittori di oggi raccontano il momento esplosivo in cui comincia una narrazione. Da-vanti alla pagina bianca, un’antologia sugli incipit più amati da Omero a Marías.

Federico FerreroAlla ine della ieraAdd, 222 pagine, 15 euro A vent’anni da Tangentopoli, le storie di volti e nomi di allo-ra, spariti o ricomparsi sotto nuove vesti.

Bruno SmolarzHokusai, dita d’inchiostroBarbès, 180 pagine, 14 euro Il fantasma del pittore Hoku-sai tormenta lo scrittore Smo-larz, che sotto sua dettatura ne ha scritto la biograia.

Marina CaieroLegami pericolosiEinaudi, 394 pagine, 34 euro La storia degli ebrei e dei cri-stiani è una storia di scambi istituzionali, sociali e culturali:

legami pericolosi e proibiti, ma difusi e quotidiani.

Sean Moitt e Mike DoverWiki brandsFrancoAngeli, 351 pagine, 38 euro Appello alle aziende a spostare l’attenzione da ciò che fanno a come lo fanno, fornendo nuo-vi modelli di business.

Tomi UngererAdelaideDonzelli, 38 pagine, 17,50 euro “Adelaide cresceva e le ali di-ventavano sempre più grandi. Le piaceva guardare gli uccelli e gli aeroplani che passavano sul deserto, e desiderava tanto poterlo fare anche lei”. Età di lettura: da 4 anni.

Jon ClinchI re della terraCargo, 350 pagine, 20 euro I legami di parentela e di san-gue – retti da iducia e sospetto – i segreti e le alleanze nasco-ste che legano tra loro non solo i fratelli, ma l’intera comunità che li circonda.

Stefano Levi Della TorreLaicità, grazie a DioEinaudi, 113 pagine, 10 euro È nella laicità che spirito criti-co e fedi sia ideologiche sia re-ligiose trovano le condizioni civili della loro convivenza conlittuale.

Antonio Cianciullo ed Enrico FontanaDark economyEinaudi, 213 pagine, 18 euro Dalle terre di Gomorra alle contrade del Guangdong, dai boss dei casalesi alle broker ci-nesi in minigonna: c’è un ilo nero che collega clan, imprese troppo disinvolte, politici col-lusi, apparati statali deviati, funzionari pubblici corrotti.

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Cultura

1 Daise Bi Là-bas Non cotone e South Caro-

lina ma pomodori e Basilicata, quattro euro per raccoglierne una cassa da 300 kg, tra cam-pagne riarse e sistemazioni in casolari inghiottiti dalla polve-re: ragazzi fuggiti dall’Africa e prigionieri dell’Europa, brac-cianti abusati dal Burkina Faso a Boreano 2, provincia di Po-tenza. Sbucata da YouTube (canale Filmdiscaunt), storia vecchia come quella del blues che diventa rap, loop di batte-ria e l’energia di un narratore (in francese e poco italiano), studente in Emilia-Romagna con esperienza di schiavo: “Fiston, c’est pas le paradis!”.

2Giua + Corsi (feat. Anita Macchiavello) Beuga Bugagna

“Martin o l’è andæto in Spa-gna”, quel santo emigrato nell’antica dolceamara ila-strocca genovese con quella parlata di pane e di pesce, ri-spolverata con tenerezza (e vo-ce di nonna di lettere) su TrE, album congiunto della cantan-te Giua (che da lì viene) con il suo maestro di chitarra. Nien-te afatto taccagno, pieno di bella scrittura e canzoni legge-re e colte e semplici, chitarre a duetti e ospiti colti (l’organetto di Riccardo Tesi o il violoncel-lo di Jaques Morelenbaum) e due Volver e questo inale da mettere in bottiglia.

3’A67 (feat. Zulu) Povera vita miaLondon calling alla napo-

letana e sti quattr’ fetient’ colla band che si candida capolista del ruggito partenopeo con un Naples power, album-kolossal in cui sono riusciti a mettere insieme da Edoardo Bennato a Roberto Saviano (per il libret-to), e da Stop Bajon (canzone-cult di questa rubrica) ino alla gomorroica ’A camorra son-gh’io. Una cartolina panorami-ca dall’epicentro degli orrori e dei talenti musicali d’Italia, ca-pe toste e groove da viecchie mugliere muort’e criature (sax niro niro di James Senese); summa vesuviana con l’eco della rabbia e del ritmo.

MusicaDal vivoKill It KidSegrate (Mi), 6 febbraio, circolomagnolia.it

Pete Doherty Roma, 9 febbraio, atlanticoroma.it; Brescia, 10 febbraio, lattepiulive.it; Bologna, 11 febbraio, estragon.it; Roncade (Tv), 12 febbraio, newageclublive.it

Agnostic Front + Death By Stereo, Naysayer, Pinarella di Cervia (Ra), 4 febbraio, rockplanet.it; Romagnano Sesia (No), 5 febbraio, rocknrollclub.it; Roma, 6 febbraio, circoloartisti.it

Ronny Jordan Foggia, 5 febbraio, moodyjazzcafe.it

Nashville Pussy Vicenza, 3 febbraio, people-club.it; Roma, 4 febbraio, initroma.com

Modestep Segrate (Mi), 3 febbraio, circolomagnolia.it

Shackleton + Port-Royal, Segrate (Mi), 9 febbraio, circolomagnolia.it

Sonic Codex Quartet Roma, 6 febbraio, teatrovascello.it

Si chiamano First Aid Kit e saranno delle star

Forse non è gentile comincia-re a parlare di Johanna e Kla-ra Söderberg citando i loro fan, ma sono nomi che dico-no molto: Jack White è diven-tato il loro produttore, Robin Peckhold dei Fleet Foxes le adora, e Lykke Li ha chiesto alle due ragazze di aprire i suoi concerti. Non c’è da stu-pirsi se queste giovani sorelle di Enskede raccolgono tanta stima: perfette armonie vo-cali, una presenza sul palco sempre curata ed emozio-nante, e un repertorio di bal-late folk dolceamare e fedeli allo spirito di celebri coppie

country come Gram Parsons ed Emmylou Harris o Johnny Cash e June Parker, alcuni dei nomi citati nella loro Emmylou. “È una canzone sul legame speciale che si crea quando canti insieme a qual-cuno. Parlare non serve, can-tando dici tanto di più”. Quando aveva quattordici an-ni Klara ha cominciato a scri-

vere canzoni, “e mi ha dato il permesso di cantarle con lei”, sogghigna la maggiore, Johanna. La loro carriera è decollata nel 2008, quando hanno messo su YouTube una cover di Tiger mountain peasant song dei Fleet Foxes, che ha avuto rapidamente migliaia di contatti. Poi è arri-vato il primo album – “l’ab-biamo registrato in camera da letto, è stato molto diver-tente” – e adesso quello nuo-vo, The lion’s roar. “Per noi scrivere e cantare canzoni è una terapia, una consolazio-ne per la vita di tutti i giorni. Speriamo che lo sia anche per chi ci ascolta”. Martin Aston, Mojo

Da Stoccolma

L’armonia di due sorelle

Playlist Pier Andrea Canei

Pommarolarama

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First Aid Kit

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PopLeonard CohenOld ideas(Columbia)●●●●●

Con il passare del tempo i no-stri idoli musicali spesso ci esaltano e poi ci deludono. Non è il caso di Leonard Co-hen. Il poeta di Montréal ha imbracciato una chitarra acu-stica alla metà degli anni ses-santa e ancora oggi può essere considerato uno dei massimi interpreti della sua arte. Forse avrebbe preferito trascorrere il resto dei suoi giorni in cima a una montagna a rilettere sulla condizione umana, ma quando un ex agente ha svuo-tato il suo fondo pensione è stato costretto a intraprendere un tour di due anni e a regi-strare un nuovo album. Old ideas è un disco oscuro con improvvise schiarite. Non par-la solo di morte, tradimento e Dio, ma anche dei temi che da quasi mezzo secolo rendono Cohen indispensabile: deside-rio, rimpianto, soferenza, mi-santropia, amore e speranza. Kitty Empire, The Observer

Laura GibsonLa Grande(Barsuk)●●●●●

La Grande è una pittoresca cittadina dell’Oregon, chia-mata così per la sua bellezza naturale. Ed è proprio qui che Laura Gibson ha trovato l’ispi-razione per il nuovo disco, che parte dal folk asciutto e in-quietante del suo Beasts of sea-sons, del 2009, per arrivare a un risultato più strano ma non meno afascinante. Anche in questo caso c’è qualche tran-quilla ballata accompagnata da una chitarra acustica, ma l’album copre un territorio musicale molto più ampio,

corda il synth pop dei Depe-che Mode. La forza di Lane-gan, però, si esprime meglio altrove, per esempio nell’agile Gray goes black. Karl Fluch, Der Standard

The Cramps

File under sacred music. Early singles 1978-1981 (Munster)●●●●●

Quando Erick Purkhiser e Kristy Wallace s’incontrarono nel 1972 scoprirono di avere una passione in comune: la musica kitsch e sporca di una quindicina di anni prima. All’epoca, il revival anni cin-quanta si limitava ad Ameri-can graiti e Happy days. Per la loro band Purkhiser e Wal-lace, sotto gli pseudonimi di Lux Interior e Poison Ivy Ror-schach, presero invece a mo-dello il lato più sporco e catti-vo di quel decennio. Non ave-vano molto in comune con la scena punk contemporanea a parte il rumore e il volume, ma il punk dava loro il prete-sto per fregarsene della rispet-tabilità. I Cramps sono stati un’istituzione per oltre trent’anni, ino alla morte di Purkhiser nel 2009. La mag-gior parte dei pezzi che li han-no resi famosi sono raccolti in questo set, la cui versione in vinile è un box dei primi dieci singoli con tanto di replica delle copertine originali. Douglas Wolk, Pitchfork

World

The Lijadu SistersDanger(Knitting Factory)●●●●●

Dopo trent’anni di oblio sono di nuovo disponibili le regi-strazioni delle irst ladies dell’afrodisco nigeriana, che ricevono così inalmente un riconoscimento più che meri-

tato. Oltre alla compilation della Soul Jazz Afro-beat soul sisters, quattro cd con brani che attraversano tutta la loro carriera, nei negozi sono arri-vate anche le ristampe della Knitting Factory degli album realizzati dal duo tra 1976 e il 1979. Il primo, Danger, è un disco fragoroso e di grande maturità. Non mancano gli at-tacchi al governo, per esempio in Life’s gone down low, in cui la politica s’intreccia con una storia d’amore, ma a spiccare sono soprattutto le armonie vocali, perfezionate in anni passati a cantare insieme per gioco. Un disco che testimo-nia l’importante ruolo avuto dai gruppi femminili, troppo spesso sottovaluto, nello svi-luppo della scena musicale nigeriana degli anni settanta. Mojo

Classica

Anthony HopkinsComposerCity of Birmingham Symphony Orchestra(Classic Fm)●●●●●

A giudicare da questo suo esordio come compositore, sir Anthony Hopkins trae ispira-zione soprattutto dall’impres-sionismo. Di conseguenza i pezzi più riusciti di questo al-bum sono quelli che si con-frontano con degli scenari concreti. Come Magram, dove un malinconico piano intro-duce un’orchestra veramente toccante, o The Plaza, un omaggio al cinema del dopo-guerra che unisce confusione latina e intrighi indiani. La musica non è tutta dello stes-so livello. Ma nel complesso c’è del talento in agguato die-tro quel volto cordialmente si-nistro. Andy Gill, The Independent

con il contributo di Joey Burns dei Calexico. E poi c’è la voce. È sempre stata bella e senza tempo, ed è cresciuta ancora. La Grande è una piccola gem-ma, mistica e tranquilla, ma anche forte e solida. James Skinner, Bbc Music

Rock

Mark LaneganBlues funeral(4AD)●●●●● Dopo quasi otto anni di pausa Mark Lanegan torna con un disco solista. Tre brani porta-no la irma di Josh Homme, il leader dei Queens of the Stone Age, e potrebbero stare benissimo in un album del gruppo californiano. Ricorda-no canzoni come Hanging tree o quelle del precedente album solista di Lanegan, Bubble-gum. Il resto di Blues funeral propone un blues arricchito con suoni elettronici, tra cui spunta a sorpresa un pezzo come Ode to sad disco, che ri-

Laura Gibson

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Riccardo ChaillyBeethoven: sinfonie(Decca)

Arthur RubinsteinThe complete album collection(Rca)

Gustav LeonhardtWilliam Byrd(Alpha)

Leonard Cohen

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ClassicaScelti da Alberto

Notarbartolo

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82 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

Cultura

Amish a chi?Sabato 4 febbraio, ore 22.00 NatGeo AdventureLa storia di un gruppo di uomi-ni e donne che hanno preso la diicile decisione di abbando-nare la comunità Amish. Han-no formato una comunità in Missouri e afrontano le side della vita nel mondo moderno.

Reagan. L’uomo che fece la storiaDomenica 5 febbraio, ore 21.00 History ChannelUn eroe per alcuni, un fantoc-cio per altri. Il ruolo di Ronald Reagan è stato spesso oscurato dal suo stesso mito. Ritratto inedito di una igura chiave nell’evoluzione moderna della politica statunitense e quindi mondiale.

Le strade dell’allegriaDomenica 5 febbraio, ore 21.00 BabelIl carnevale brasiliano in quat-tro città: Salvador de Bahia, Olinda, Recife e Rio. Musiche, costumi e tradizioni rivelano la varietà delle culture brasiliane.

VietnamLunedì 6 febbraio, ore 21.00 History ChannelPrimo appuntamento con una serie documentaria in sei epi-sodi sulla guerra del Vietnam, ricostruita attraverso i ricordi dei veterani, con ilmati inediti realizzati dagli stessi soldati e restaurati per l’occasione.

L’America a RomaMartedì 7 febbraio, ore 23.00 RaiTreUltimo lavoro della trilogia do-cumentaria con cui Gianfran-co Pannone ha raccontato il sogno americano in Italia. L’at-tore Guglielmo Spoletini, in-terprete di tanti western all’italiana, ci guida tra vecchi set e location, per incontrare anziani colleghi e produttori.

Video

vice.com/it/italica Italica, la nuova serie di reportage prodotta da Vice, è dedicata al “paese con la più alta percentuale di italiani”. Questo primo episodio si occupa di un fenomeno editoriale tutto nostrano come il settimanale Cronaca Vera, nelle edicole da più di quarant’anni con una formula editoriale immutata, che prevede in ogni numero un imbarazzante mix di violenze, scandali e stranezze, rigorosamente stampato su carta di pessima qualità. Di Cronaca Vera sono celebri le copertine in bianco e nero dagli improbabili strilli tra il tragico e il piccante, ma forse pochi ne conoscono la storia e i contenuti, sanno che è il settimanale più letto nelle carceri italiane e che riceve ogni anno ventimila lettere (scritte a mano).

In rete

Swetlana Geier, 85 anni, è con-siderata la più grande tradut-trice letteraria dal russo al te-desco. Nel commovente Die frau mit den 5 elefanten la in-contriamo al termine di una nuova edizione dei romanzi di Dostoevskij noti come “i cin-que elefanti”. Insieme al regi-sta Vadim Jendrejko la prota-gonista torna per la prima vol-

ta dalla Germania nei luoghi della sua infanzia in Ucraina, ripercorrendo un’esistenza specchio del novecento. Il ri-tratto di una donna straordi-naria e instancabile, un ilm sulla passione per la letteratu-ra e il linguaggio e sull’arte della traduzione. Il dvd è usci-to in Germania e Francia.5elefanten.ch

Dvd

Dal russo al tedesco

Cara cronaca

Come si può modiicare l’im-magine di una città? A questa domanda, a cui cercano di da-re una soluzione eserciti di esperti di comunicazione e di turismo, la capitale cambogia-na ofre una risposta eclatante. Basta cambiare il senso di let-tura. Fino a cinque anni fa, at-terrando a Phnom Penh, con-trariamente a quanto succede-va in tutte le altre capitali asia-tiche, si era colpiti per la visio-ne della dolce estensione della città, adagiata senza forti con-trasti sulla riva del iume Tonlé

Sap. Una città in cui quasi nes-sun ediicio superava i due pia-ni di altezza. Questa luidità urbanistica, immediatamente visibile davanti e intorno al vi-sitatore, si ritrovava per le stra-de, dove regnava la cortesia e il rispetto degli altri, anche se gli imbottigliamenti e un’ini-nità di veicoli a due ruote ren-devano talvolta faticosa la cir-colazione.

Poi la città ha cominciato a cambiare. Oggi, durante la di-scesa in aereo, l’occhio incon-tra immediatamente ediici al-

ti dai venti ai quaranta piani, sull’isola di Koh Pich, ma an-che al centro della città. I cam-biamenti sono evidenti anche camminando per le strade: cantieri che spuntano come funghi, intere zone sono state sgomberate e il lago del cen-tro, antico polmone, colmato, al prezzo delle peggiori violen-ze sociali. Ora a Phnom Penh bisogna levare lo sguardo. Per modiicare l’immagine di una città basta obbligarci a una let-tura verticale e non più oriz-zontale. u

Fotograia Christian Caujolle

Phnom Penh, la città verticale

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 83

Il cielo e il mare di TurnerTurner and the elements, Turner contemporary, Margate, Gran Bretagna, ino al 13 maggio, turnercontemporary.orgLa prima stagione espositiva della Turner contemporary, progettata da David Chipper-ield (direttore della prossima Biennale di architettura di Ve-nezia) e inaugurata nel 2011, è stata piuttosto debole. Ora ci si chiede cosa guadagnerà la pit-tura di Turner e come cambie-rà il museo con i quadri di Tur-ner appesi alle pareti. L’edii-cio è esposto alle intemperie del mare del Nord, sotto quei cieli che il pittore deinì “i più afascinanti d’Europa”. Il tema che inseguì per tutta la vita, il movimento della luce sull’ac-qua, non avrebbe trovato una collocazione più appropriata di questa struttura sofusa di luce naturale con aperture pa-noramiche verso quello stesso mare e quello stesso cielo. I soggetti marittimi, i suoi pre-feriti, e la prevalenza di acque-relli danno una particolare lu-minosità e leggerezza dell’es-sere. L’allestimento è arioso, ogni opera respira all’interno di un proprio spazio. Dalla più rarefatta, un contrasto chiaro-scurale fatto di segni decisi ed essenziali intitolato Onde (1844), a composizioni squisi-tamente dettagliate come la veduta dell’Arsenale, dei din-torni di piazza San Marco e delle acque smeraldine di Ve-nezia. Giustamente in eviden-za è la serie di vedute di Mar-gate, all’alba, al tramonto, con il mare in tempesta, gli studi sulle sue nuvole traslucide in tutte le ore del giorno. Non so-no i capolavori eccelsi di Tur-ner, ma è materiale più che suiciente per dare alla Turner contemporary uno spettacolo degno del suo nome.Financial Times

Gary HumeThe indiferent owl, White Cube, ino al 25 febbraio, whitecube.com È facile scambiare Gary Hu-me per un artista supericiale che dipinge donne sexy e cele-brità come Patsy Kensit, Kate Moss e Michael Jackson. Il fat-to che lavori con smalti lucidi su alluminio certo non aiuta. Eleganti e scintillanti come la scocca di una Ferrari, le opere di Hume sono perfette per loft e appartamenti di single alla moda. La tentazione di dei-nirli complementi d’arredo è forte. Una mostra di opere re-

centi, però, dà l’opportunità di rivedere i pregiudizi e consi-derare i punti di forza dell’ex esponente della britart e le debolezze dell’artista consoli-dato. Il titolo della mostra, se-condo Hume, sarebbe frutto di un’epifania notturna con conseguente rilessione sull’indiferenza della gufo come metafora dell’indife-renza umana. Un aneddoto molto romantico. Ma con gli artisti spesso è meglio tappar-si le orecchie e aprire gli occhi. Gli otto dipinti sul pavimento della White Cube mason’s hanno forme sempliicate ai

limiti dell’astrazione. I colori sono audaci e brillanti, pieni di polvere blu e rosa. Le super-ici lucide respingono ogni senso di profondità pittorica e la loro qualità sembra facil-mente replicabile. Ma c’è una nota di profonda sensualità che si coglie solo di fronte al quadro, come la ioritura di un bocciolo che appassisce in fretta, e che non potrà mai es-sere riprodotta. Le immagini sono come igure disegnate dall’olio nell’acqua, visibili per un attimo, ma sul punto di dis-solversi per sempre.The Daily Telegraph

Londra

L’indiferenza del gufo

Cultura

Arte

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Gary Hume, The indiferent owl, 2010

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Uno dei motivi per cui vado volentieri a trovare il mio fratellastro, che vive in una bella casa nel Sussex, è che conosce un tizio che intrattiene i bambini sparando limoni da un ba-zooka fatto in casa. Non spara i limo-

ni contro qualcosa, ma è proprio questo il bello: un frutto giallissimo sparato a decine di metri nel cielo azzurro è uno degli spettacoli più fantastici che madre natura possa ofrire (anche se, diciamocelo, si serve di un congegno esplosivo fatto dall’uomo). Nel primo ro-manzo di Kevin Wilson, The family Fang, Buster Fang resta ferito gravemente quando, mentre sta lavorando a un arti-colo per una rivista, viene colpito da una patata sparata da un congegno simile, che gli cambia i connotati. Sono sicuris-simo che The family Fang mi sarebbe pia-ciuto comunque, ma a volte hai proprio bisogno di quel collegamento del tutto inaspettato e così azzeccato da sembrare sospetto. Buster viene investito dalla pa-tata a pagina 32 della mia edizione, pro-prio al punto in cui, se siete di quelli che lasciano i libri a metà, vi state chiedendo se andare avanti o no. E poi, all’improvviso, come fosse un segno divino, vi ritrovate a pensare: “Ehi! Ma è lo sparalimo-ni di Sam! Solo che loro usano patate!”. In passato, scri-vevo regolarmente recensioni per alcuni dei giornali più rispettabili in circolazione: ora capite perché ho smesso. Non riuscivo mai a trovare il modo di inilare lo sparalimoni nelle mie sobrie e accurate valutazioni. Eppure a volte ce n’è bisogno.

Ho scoperto The family Fang curiosando un po’ in giro, una buona vecchia abitudine che internet, la crisi delle librerie e la mia politica di acquisti dei libri ridi-colmente ottimistica (vedi tutte le mie precedenti ru-briche) ha reso quasi obsoleta. L’ho preso in mano at-tratto dalla generosa ed entusiastica segnalazione di Ann Pratchett in copertina – “In una parola: geniale” – e non l’ho rimesso a posto perché, a una più attenta indagine, sembrava un romanzo che almeno in parte parlava di arte e del perché la facciamo, e io adoro i li-bri su questo argomento. L’ho portato ino alla cassa perché ero da poco arrivato alla conclusione che avevo bisogno di leggere libri di autori più giovani, non tanto per dovere professionale, ma perché sentivo una certa carenza di gioventù nella mia dieta narrativa. Negli ultimi due mesi avevo letto Next di James Hynes e Fuo-

ri a rubar cavalli di Per Petterson, due romanzi su uo-mini anziani che ripercorrono la loro vita passata, e la magistrale vita di Dickens dell’esperta biografa Claire Tomalin: e all’improvviso avevo voglia di sapere cosa pensano i giovani. Questo mese, tutti gli autori che ho letto hanno fra i trenta e i quarant’anni, che è il massi-mo del giovane a cui posso spingermi senza che mi venga voglia di impiccarmi.

The family Fang è proprio il tipo di romanzo che uno sogna di trovare gironzolando per venti minuti in libre-ria. È ambizioso, è divertente, prende sul serio i suoi

personaggi e ha un’anima: nel senso di quel meraviglioso dolore che la narrativa può dare quando vorrebbe il meglio per tutti noi e contemporaneamente accetta il fatto che il più delle volte non si arriva neppure alla suicienza. Buster e Annie Fang sono i due igli adulti degli artisti di strada Camille e Caleb Fang, che li coin-volgevano nei loro spettacoli quando erano piccoli, mettendoli spesso e volen-tieri in imbarazzo. Una serie di calamità (il bazooka sparapatate per Buster, un’imprevista nudità con sesso poco sag-

gio per Annie) costringono fratello e sorella a tornare a casa nel Tennessee, dove i genitori continuano a lavo-rare e sperano ancora di convincere i igli che gli happe-ning familiari sono la loro vera vocazione artistica.

Capite che nelle mani sbagliate un soggetto del ge-nere poteva inire molto male: poteva diventare stuc-chevolmente stravagante, o troppo compiaciuto, o tutto fumo e niente arrosto. Ma Kevin Wilson aggira ogni ostacolo con grande sicurezza. Si diverte con le premes-se – le imprese dei Fang sono fantasiose e credibili – ma alla ine il suo è un romanzo su genitori e igli, quindi tutto è al servizio di uno scopo più serio, anche se la se-rietà non appesantisce mai il libro. The family Fang è stato e sarà paragonato a un ilm di Wes Anderson, an-che se Anderson non mi è mai sembrato molto interes-sato al lato psicologico dei suoi personaggi. E in ogni caso, nonostante l’ambientazione beatnik, Wilson rac-conta la sua storia in modo molto coerente. Mi ha ricor-dato, invece, il minuzioso realismo di Anne Tyler, l’amore che dispensa ai suoi personaggi, e il modo in cui i loro passi falsi, le loro incomprensioni e i loro rimpian-ti possono riassumere in qualche modo i tanti modi di-versi in cui tutti sbagliamo.

“L’arte, se ti sta a cuore veramente, vale tutta l’infe-licità e la soferenza che può procurare. Se per raggiun-

Sparalimoni per tutti

Avevo bisogno di leggere libri di autori più giovani, non tanto per dovere professionale, ma perché sentivo una certa carenza di gioventù nella mia dieta narrativa

NICK HORNBY

è uno scrittore britannico. Il suo ultimo libro è È nata una star? (Guanda 2010). Questa rubrica esce su The Believer con il titolo Stuf I’ve been reading.

Nick HornbyLIBRI LETTI

The family FangKevin Wilson

Wild abandonJoe Dunthorne

The end of everythingMegan Abbott

Bury me deepMegan Abbott

Your voice in my headEmma Forrest

LIBRI COMPRATI

The family FangKevin Wilson

Letters to MonicaPhilip Larkin

Bury me deepMegan Abbott

Wild abandonJoe Dunthorne

Brother of the more famous JackBarbara Trapido

Those guys have all the funJames Andrew Miller e Tom Shales

Pop

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 85

gere quel traguardo devi ferire qualcuno, è giusto farlo. Se il risultato è abbastanza bello, abbastanza strano, abbastanza memorabile, non ha importanza: ne sarà valsa la pena”. Così la pensa Caleb Fang, subito dopo aver sparato al suo compagno in una performance par-ticolarmente audace. Ho il sospetto che molti di noi tra quelli che passano le giornate a inventare storie, a un certo punto abbiano sposato una ilosoia del genere. O almeno abbiano sperato di essere abbastanza crudeli e determinati da poterlo fare. The family Fang è un ro-manzo che si domanda se questo particolare mito della creazione artistica sia davvero una cosa buona, dimo-strando contemporaneamente che l’arte dotata di sen-so morale non deve per forza essere convenzionale.

Il secondo romanzo di Joe Dunthorne, Wild aban-don, è ambientato in una comune del Galles, ma somi-glia un po’ a The family Fang. Dunthorne e Wilson con-dividono la convinzione che le battute non compromet-

tano necessariamente la serietà di un romanzo e, anzi, possano aiutare ad accorciare la distanza tra scrittore e lettore rendendo più godibile il libro. Tutti e due gli au-tori sono interessati al modo in cui l’eccentricità dei genitori possa complicare la vita dei igli. In Wild aban-don, Kate, un’adolescente gallese cresciuta in una co-mune, si scopre sempre più attratta dalla periferia su-burbana fatta di villette a schiera, dove risiede la fami-glia del suo ragazzo, un tipo piuttosto insigniicante. Nel frattempo Albert, suo fratello minore, precoce ma inevitabilmente ingenuo, si prepara all’apocalisse im-minente, attesa con iducia da una delle tante persone che gli fanno, un po’ precariamente, da genitori.

Mia cognata e la sua famiglia vivono nel Galles (è qui che entra in scena lo sparalimoni) e, come i perso-naggi di Dunthorne, hanno regolarmente a che fare con polytunnel e Wwoof. Wwoof! Polytunnel! Parole che prima di leggere questo romanzo non avevo mai visto

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scritte da nessuna parte. E di sicuro non immaginavo che una di loro cominciasse con un’improbabile e inu­tile doppia vu doppia (il polytunnel è una serra tubolare dove si coltivano piante recalcitranti e infelici; e il Wwo­of è un’organizzazione per giovani agricoltori biologici inspiegabilmente desiderosi di lavorare la terra gratis). Come Wilson, neanche Dunthorne è interessato a fare della satira, anche se il mondo che descrive gliene ofri­rebbe più di un’occasione: entrambi non disdegnano una calamità ogni tanto, ma solo per poter scrutare più da vicino quello che succede nella testa e nel cuore del­la gente. Dunthorne è anche poeta e organizzatore di eventi di spoken word, ed è una bella persona. E qui di­mostra di avere tutte le carte in regola per durare. È uno scrittore comico elegante, accessibile e interessante, e credo proprio che il suo lavoro darà gioia a un sacco di persone per molti anni ancora.

È imprudente aidarsi alla narrativa contempora­nea come fonte d’informazione? Perché la sorprenden­te notizia che ho appreso leggendo Wild abandon e The end of everything di Megan Abbott è che le ragazzine adolescenti vogliono andare a letto con gli uomini di mezza età (i romanzi non sbagliano mai, che io sappia. Ma se, come me, siete uomini di mezza età, vi consiglio comunque di fare un paio di veriiche prima di prendere iniziative di qualsiasi tipo). In Wild abandon, Kate cerca di sedurre il padre del suo ragazzo, Geraint, che trova più attraente del iglio. E in The end of everything c’è un caos sessuale trasgressivo e a tratti inquietante, che ha per protagoniste ragazzine che hanno a malapena rag­giunto la pubertà. Abbott è una scrittrice straordinaria, che ho scoperto attraverso un mezzo insolito, Face­book, anche se non saprei dirvi esattamente come. Ora sono a metà di uno dei suoi quattro romanzi noir, Bury me deep, che è intelligente, malinconico e convulso, e paragonabile alla narrativa storica di Sarah Walters per come rispetta e insieme reinventa le sue inluenze di genere. Ma The end of everything è un’altra cosa: è a metà tra il giallo tradizionale e il romanzo letterario, ed è psi­cologicamente soisticato e coraggioso.

Il mistero al centro di The end of everything è la scom­parsa di un’adolescente di nome Evie. E anche se il mi­stero viene risolto, non è di questo che parla il romanzo. Durante l’assenza di Evie, la sua migliore amica e vicina di casa, Lizzie, che è anche la voce narrante, cerca di ricostruire quello che è successo: fornisce alla polizia informazioni cruciali ma in modo poco collaborativo e un po’ subdolo, insinuandosi nella vita e nel dolore della famiglia della ragazza. Ci prova con il padre di Evie – anche se non è del tutto consapevole delle sue azioni – e fa di tutto per essere al centro dell’attenzione. Intanto sembra sempre più probabile che Evie sia fug­gita con un padre di famiglia del quartiere, forse volon­tariamente, mentre la madre divorziata di Lizzie intrat­tiene una relazione clandestina notturna ma sconvol­gentemente visibile. Il sesso aleggia sulla periferia co­me una specie di nebbia tropicale: sfuma i conini di ogni cosa, rallenta il passo di tutti, confonde i pensieri e i sentimenti, la consapevolezza istintiva di quello che è giusto e sbagliato. Ognuno, o piuttosto ognuna, sembra contemporaneamente vittima e arteice della sua stes­

Storie vere

A Flint, in Michigan, è aperto un nuovo centro di tatuaggi con una sede insolita: una chiesa. Serenity Tattoo fa parte del progetto del parroco della chiesa, il reverendo Steve Bentley, per rendere l’ambiente più interessante per i giovani. “Il tatuaggio è un’arte importante del nostro tempo”, spiega Bentley, “ed è moralmente neutro, come un piercing alle orecchie”. La chiesa ospita altre attività inconsuete, come arti marziali miste e un’autoicina. “Non vogliamo avere una sede che vale un milione di dollari ma viene usata solo ogni tanto”, dice Bentley. “È uno spreco di quel che ci ha dato Dio”.

sa sventura. Solo una donna potrebbe aver scritto un romanzo così, questo è certo. Nessun uomo avrebbe avuto il coraggio di insinuare che ragazzine poco più che adolescenti possano essere così complici, così cor­responsabili di questa cappa di desideri sessuali repres­si. Abbott si muove su questo terreno scivoloso con grande perizia: al contrario dei suoi personaggi, lei sa quello che fa.

Mi ero appena ripreso da The end of everything quan­do ho cominciato a leggere l’autobiograia di Emma Forrest, Your voice in my head. Anche in questo libro c’è parecchia sessualità oscura e dannata, insieme ad auto­lesionismo, tentati suicidi, disturbi alimentari e una profonda, inguaribile tristezza. E appena ho inito di leggerlo ho giurato a me stesso di non rivolgere mai più la parola a una ragazzina o anche solo a chi lo è stata, per paura di dire qualcosa che possa essere frainteso e usa­to contro di me. Sono quasi sicuro di non essere in alcun modo responsabile dei problemi di Forrest, ma quando una ragazza così giovane e carina si trova in guai così grossi, è diicile, come uomo, non sentirsi oscuramen­te colpevoli.

Ci sono due uomini al centro di questo libro scarno, lieve in modo ammirevole e appassionante. Uno è lo psicoterapeuta di Forrest, il saggio e amabile dottor R.; l’altro è un idanzato divo del cinema, citato solo con le lettere GH, che stanno per Gypsy Husband (marito zin­garo). Tutti e due la lasciano: il dottor R. muore, a soli 53 anni, di un cancro che con grande generosità tiene na­scosto ino alla ine ai suoi pazienti; GH cambia idea sul loro rapporto intenso e appassionato nel bel mezzo, sembra, di un volo transatlantico. Una recensione estremamente irritante apparsa sul mio giornale prefe­rito accusa Forrest di essersi “vantata” di GH: eppure è chiaro che la sua celebrità ha inciso sul loro rapporto e sulla sua brusca ine. Se fossi oggetto di una campagna d’odio su internet solo perché ho una idanzata bella e famosa, anch’io vorrei scriverne.

Sembra che Emma si sia lasciata alle spalle le sue terribili crisi depressive, e questa autobiograia lo dimo­stra. Ma la vicinanza di certi riferimenti legati a quel periodo tormentato è preoccupante: una canzone dei Beirut, l’insediamento di Obama, e Russell Brand. Il dolore peggiore potrà anche essere passato, ma non da molto. Emma Forrest è una scrittrice talmente brava e afascinante che si può solo sperare che veda quel dolo­re rimpicciolirsi sempre di più nel suo specchietto retro­visore, e che continui a scrivere tanti altri romanzi e sceneggiature in cui le sue cicatrici saranno sempre meno visibili.

Be’, a me i giovani piacciono. Quattro libri fantastici, pieni di vita, rilessioni e idee, e soprattutto senza om­bra di astuzie narrative. Cosa che per me non è necessa­riamente un male, e non solo perché nutro un’avversio­ne profonda per la sperimentazione letteraria. Questi ragazzi non hanno tempo da perdere. Hanno troppe cose da dire, troppi personaggi da raccontare, troppe battute da fare. Solo uno di loro, purtroppo, parla di un congegno fatto in casa che spara frutti e ortaggi, ma il bello della letteratura – dell’arte in generale – è proprio questo: ognuno deve trovare il suo sparalimoni. u dic

Pop

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Sono arrivato alla stazione ferroviaria di Na-blus, in Cisgiordania – una bassa struttura in pietra dalle pareti massicce – in tempo per salire sul treno delle 15.20 per Gerusa-lemme. In attesa all’entrata c’era una ven-tina di passeggeri, per lo più uomini e don-

ne giovani, in compagnia di qualche persona abbastan-za in là con gli anni da ricordare i tempi in cui, durante il mandato britannico sulla Palestina, ci si spostava in treno. L’eccitazione era palpabile: era la nostra occa-sione per fare un giretto a Gerusalemme, una città che ci è proibito visitare, evitando i checkpoint israeliani che costellano il percorso. Quando sono entrato in sta-zione un facchino in uniforme blu scuro mi ha rilascia-to un biglietto della linea verde. Il viaggio sarebbe du-rato trenta minuti. Fermate previste: Hawwarah, Zata-ra, Uyun al Haramiya, Attarah e Kalandia, tutti checkpoint. Mi sono diretto alla sala d’attesa. Era vuo-ta, fatta eccezione per alcuni tavoli bassi su cui erano appoggiate delle brochure che mostravano i percorsi dei treni locali e le loro destinazioni. Gaza. Giaffa. Haifa. Beersheba.

Poco dopo hanno annunciato in arabo e inglese che il treno avrebbe fatto il suo ingresso in stazione nel giro di tre minuti. L’ho sentito avvicinarsi, tutto ischi e se-gnali acustici. I suoni si sono fatti sempre più forti ino a diventare assordanti. Poi si sono spenti: il treno era arrivato. Le porte della sala d’attesa si sono aperte e siamo stati invitati ad andare sul binario numero due. Il treno aspettava, avvolto in un nuvola di fumo. Quan-

Il treno da Nablus

Raja Shehadeh

RAJA SHEHADEH

è un avvocato e scrittore palestinese. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il pallido dio delle

colline (Edt 2010). Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo From Nablus to

Jerusalem.

do gli sportelli si sono aperti ci siamo precipitati in avanti, pronti a prendere posto.

Ma era impossibile salire a bordo. Il treno era un’im-magine, un’immagine proiettata su uno schermo mon-tato dall’altra parte del muro. Si trattava di un’installa-zione intitolata Palestine connected, ideata dagli artisti palestinesi Iyad Issa e Sahar Qawasmi e allestita all’in-terno della fabbrica di sottaceti che ha preso il posto della vecchia stazione di Nablus. Quest’opera, che ha visto la luce a distanza di cent’anni dall’inaugurazione della stazione, era parte di Cities exhibition, una mostra curata da Vera Tamari e Yazid Anani per il museo dell’università di Birzeit, terza edizione di un appunta-mento annuale che ofre agli artisti la possibilità di esplorare la storia sociale delle città palestinesi.

Quando il treno è scomparso e lo schermo è rimasto vuoto, i passeggeri immaginari sull’immaginario bina-rio numero due sono stati soprafatti da una delusione carica di nostalgia. Un uomo anziano che sembrava trattenere a stento le lacrime si è lamentato che fossero initi “i tempi in cui si poteva prendere un treno e anda-re liberamente da una città all’altra”.

Più di un secolo fa gli ottomani costruirono una va-sta rete ferroviaria per servire tutto il Medio Oriente, connettendo inizialmente Giaffa e Gerusalemme per poi collegare le principali città del Medio Oriente arabo – Amman, Basra, Beirut, Il Cairo, Damasco, Ge-rusalemme e Medina – a Istanbul. La costruzione del segmento Nablus-Gerusalemme fu interrotta dallo scoppio della prima guerra mondiale e la stazione di Nablus fu quasi completamente distrutta durante il conlitto arabo-israeliano del 1948.

Oggi nessun treno attraversa i conini del nostro minuscolo territorio. La sola linea verde che conoscia-mo non connette le capitali del Medio Oriente, le divi-de. Eppure, anche se per un solo istante, l’immagina-zione di due giovani artisti palestinesi ci ha permesso di proiettarci oltre questo tetro presente. u mn

Nelle scuole medie e nei licei fran-cesi gli allievi più in diicoltà avranno un “accompagnamento personalizzato” in modo che tra cinque anni il numero di ragazzi che abbandonano la scuola senza aver raggiunto un titolo, oggi circa 150mila, sia dimezzato. Le Monde ha dato massimo rilievo a questa afermazione fatta dal candidato socialista alle presidenziali, François Hollande, nel discorso di apertura della campagna elettora-le nel grande salone di Le Bourget il 22 gennaio. L’idea del recupero

speciico e personalizzato dei più deboli è un perno del programma quinquennale, poi uicialmente pubblicato per intero il 26 scorso.

Premessa generale delle sue sessanta proposte è battere il ne-mico invisibile, i potentati occulti della inanza internazionale, resti-tuendo alla Francia l’orgoglio di camminare sulla via “repubblica-na” della costruzione di condizioni d’eguaglianza. Discendono di qui propositi di provvedimenti inan-ziari e sociali, ma soprattutto la centralità assegnata al terreno

educativo. Hollande, aderendo a un’idea di Claude Thélot, non pen-sa a rivoluzioni globali ed epocali, ma ad azioni singole mirate: crea-zione di 60mila nuove cattedre, scuola materna aperta ai bambini sotto i tre anni, oferta di un per-corso di formazione-lavoro ai ra-gazzi descolarizzati tra i 16 e 18 an-ni. Secondo Hollande azioni con-crete del genere faranno sì che do-po i cinque anni del suo mandato presidenziale i giovani vivranno meglio di oggi e la Francia intera vivrà una maggiore eguaglianza. u

Scuole Tullio De Mauro

Barbiana a Parigi

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Scienza

88 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

Se si dice che un rimedio fa bene a tutto è di sicuro un prodotto fasul-lo. Purtroppo la panacea non esi-ste. C’è però qualcosa che ci si av-

vicina molto, ed è l’esercizio isico. Non si sa esattamente perché, ma protegge da di-verse malattie, come l’infarto, la demenza, il diabete e le infezioni. Ora un articolo di Beth Levine e dei suoi colleghi del South-western medical centre dell’università del Texas, appena uscito su Nature, fa un po’ di luce sulla questione. La dottoressa Levine e il suo gruppo hanno testato la teoria se-condo cui la ginnastica favorisce, almeno in parte, l’autofagia. Attraverso questo meccanismo, il cui nome deriva dal greco “mangiare se stessi”, le proteine in eccesso, usurate o malformate, e altre componenti cellulari vengono scomposte e riciclate.

Per compiere l’esperimento l’équipe di

Beth Levine ha usato dei topi geneticamen-te modiicati. Un primo gruppo è stato ma-nipolato ainché i loro autofagosomi – le strutture che si formano intorno alle com-ponenti da riciclare – fossero verdi luore-scenti, e quindi più visibili. Dopo mezz’ora di corsa nella ruota si è visto che il numero di autofagosomi nei muscoli dei topi au-mentava e ha continuato ad aumentare ino al termine dell’esercizio, durato in tutto ot-tanta minuti.

Per scoprire quale efetto producesse sui topi l’autofagia incoraggiata dall’eserci-zio isico, sempre ammesso che ne produ-cesse uno, l’équipe ha manipolato geneti-camente un altro gruppo di topi in modo che fosse incapace di rispondere nello stes-so modo. Nel loro caso la ginnastica non stimolava il meccanismo di riciclaggio. Quando è stato testato insieme a topi co-muni, il secondo gruppo ha dimostrato una minore resistenza e una minore capacità di assorbire gli zuccheri dal lusso sanguigno. Si sono inoltre veriicati efetti più a lungo termine. Nei topi, come negli esseri umani, l’esercizio isico regolare aiuta a prevenire il diabete. Ma quando il team ha sottoposto il secondo gruppo a una dieta che induceva il diabete ha visto che la ginnastica non of-

friva alcuna protezione. Secondo i ricerca-tori, i risultati indicano che la manipolazio-ne dell’autofagia potrebbe fornire un nuovo approccio alla cura del diabete. E la loro ri-cerca ofre anche altre indicazioni.

L’autofagia è un meccanismo antico, comune a tutti gli organismi eucarioti (quelli che, a diferenza dei batteri, hanno il dna racchiuso in un nucleo ben separato dal resto, all’interno delle cellule). È proba-bile che sia il frutto dell’adattamento alla penuria di sostanze nutritive. Nei periodi di magra le creature in grado di riciclare parti di sé per alimentarsi sono più brave a cavar-sela di quelle che non sanno farlo. Negli ultimi vent’anni, però, è stato anche dimo-strato che l’autofagia è coinvolta in processi molto diversi, come combattere le infezio-ni batteriche e rallentare l’insorgenza di patologie neurologiche tipo l’Alzheimer e la malattia di Huntington.

Contro l’invecchiamentoUn aspetto particolarmente interessante è che sembra rallentare il processo d’invec-chiamento. I biologi sanno da tempo che sottoporre gli animali a diete da fame può allungarne sensibilmente la vita. La dotto-ressa Levine faceva parte del team che ha dimostrato che la maggiore autofagia, cau-sata dallo stress di un’esistenza di stenti, è il meccanismo responsabile del prolunga-mento della vita.

L’ipotesi è che ci si sbarazza soprattutto dei mitocondri usurati, le unità di alimen-tazione della cellula che si trovano dove il glucosio e l’ossigeno reagiscono liberando energia. Queste reazioni, però, spesso cre-ano molecole dannose, ricche di ossigeno, chiamate radicali liberi, considerati una delle forze trainanti dell’invecchiamento. Sbarazzarsi dei mitocondri difettosi ridur-rebbe la produzione di radicali liberi e po-trebbe così rallentare l’invecchiamento.

Alcuni fanatici dell’antinvecchiamento si sottopongono già a diete ultraferree, ma secondo i risultati di Levine lo stesso efetto si può ottenere in modo molto più appro-priato con l’esercizio isico. Adesso il grup-po di ricerca vuole veriicare se l’aumento dell’autofagia possa davvero spiegare gli efetti della ginnastica sul prolungamento della vita. Ci vorrà un po’. Perino negli ani-mali dalla vita breve come i topi, osserva Levine, lo studio dell’invecchiamento è un processo lungo. Eppure lei è talmente sicu-ra del risultato che, nel frattempo, si è com-prata un tapis roulant. u sdf

Le virtù dell’autofagia

Fare esercizio isico fa bene. Ma perché? Secondo una nuova ricerca, il segreto starebbe nella capacità delle cellule di scomporre e riciclare parti di se stesse

The Economist, Gran Bretagna

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IN BREVE

Ecologia Le locuste sono at-tratte dai pascoli degradati. Gli insetti preferiscono la vegeta-zione con un ridotto contenuto di proteine e quindi di azoto, co-me quella che si trova nei terreni sottoposti a erosione per pasco-lo eccessivo, scrive Science. Lo studio è stato condotto nelle steppe dell’Asia settentrionale, soggette all’invasione di Oeda-leus asiaticus (nella foto). Botanica Alcuni esemplari di Posidonia oceanica, una pianta marina del Mediterraneo, sono tra gli organismi più longevi. Si è scoperto che le piante che rico-prono vaste aree di fondale, lun-ghe anche 15 chilometri, fanno parte di un unico organismo, in quanto sono geneticamente identiche, e probabilmente han-no migliaia di anni. Il fatto che le piante siano spesso dei cloni, scrive Plos One, può avere im-plicazioni per il loro adattamen-to al cambiamento climatico.

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GENETICA

L’Homo sapiensin Arabia L’Homo sapiens fece la sua com-parsa in Africa 200mila anni fa e dal corno d’Africa migrò verso oriente alla conquista del mon-do. Ma stabilire con precisione le rotte e i tempi di queste mi-grazioni è un vero rompicapo per paleoantropologi e genetisti. L’American Journal of Hu-man Genetics pubblica uno studio che individua in Arabia il primo insediamento fuori dall’Africa. confrontando il dna mitocondriale di etnie in regioni diverse, i genetisti hanno dedot-to che le popolazioni europee, arabe e del vicino oriente hanno come antenato comune un H. sapiens arrivato in territorio ara-bo 60mila anni fa. L’ipotesi è che sia arrivato via terra dal nordafrica e non attraversando il mar rosso. Un altro studio ap-pena uscito su Science, anticipa invece il primo grande esodo da 60mila a 125mila anni fa.

SALUTE

La crisi greca dei farmaci La Grecia è a corto di farmaci, scrive The Lancet. Molti medi-cinali non si trovano perché al-cune case farmaceutiche consi-derano troppo bassi i prezzi is-sati dal governo e non sono inte-ressate a vendere i loro prodotti nel paese. e chiedono pagamen-ti immediati. Il ritardo del servi-zio sanitario nei rimborsi ai far-macisti rende ancora più diici-le comprare i rifornimenti. Per questo le farmacie minacciano di chiedere ai cittadini di pagare subito per tutte le medicine.

Una cardiopatia può veder-si dagli occhi?

La presenza nel sangue di alti livelli di grassi può causare macchie gialle in rilievo sulle palpebre note come xantela-smi. In genere sono considera-te solo un problema estetico, più comune tra adulti e anzia-ni. In uno studio del 2011 pub-blicato sul British Medical Journal però, alcuni scienziati danesi hanno cercato di capire se queste macchie possano se-

gnalare una cardiopatia legata al colesterolo alto. Seguendo quasi 13mila persone per più di trent’anni, nell’ambito del co-penhagen city heart study, i ri-cercatori hanno scoperto che chi aveva le macchie aveva un rischio d’infarto o di morte per una malattia cardiaca più alto, a prescindere da altri fattori come l’obesità e il colesterolo. nel complesso, il rischio di cardiopatia per gli uomini con xantelasmi era del 12 per cento più elevato rispetto a quelli

senza e per le donne era dell’8 per cento in più. La natura del legame non è chiara, ma un esame che comprenda un’at-tenta ispezione degli occhi po-trebbe contribuire a individua-re i soggetti con un rischio di cardiopatie maggiore tra i pa-zienti che non presentano altri segni evidenti.Conclusioni Per alcuni pazienti le macchie gialle intorno agli occhi potrebbero essere il se-gnale di una cardiopatia.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

Il cuore nello sguardo

Antropologia

L’origine della cooperazione

“Il comportamento sociale degli esseri umani è un vero mistero evolutivo”, scrive nature. Dalle donazioni di sangue all’adesione alla raccolta diferenziata ino ai volontari che vanno in guerra, nelle società moderne abbondano gli atti di cooperazione tra sconosciuti. Questi

comportamenti continuano a sorprendere i ricercatori: “come può la selezione naturale favorire azioni a beneicio di altri, o del proprio gruppo, che hanno anche un costo personale?”. Per avere un’idea delle origini della cooperazione umana, un gruppo di ricercatori ha studiato gli hadza, una popolazione di cacciatori-raccoglitori della Tanzania, che dipende da utensili e risorse simili a quelle dei nostri antenati nel paleolitico. Dallo studio sono emersi diversi modelli di cooperazione. come previsto, la parentela ha un ruolo, favorendo l’inclusione nel gruppo, e così pure la reciprocità degli scambi. Ma gli hadza tendono anche a formare gruppi di caccia che riuniscono individui con la stessa propensione alla cooperazione, che sia alta o bassa. così si creano gruppi molto cooperativi o molto poco. Le reti sociali create sulla base di queste tendenze rendono possibile la cooperazione tra individui. u

Nature, Gran Bretagna

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Grecia. Spesa pubblica per la salute

2,4 miliardi

5,2

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2004 2009 2011

*dopo la riduzione per legge del prezzo dei farmaci

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Il diario della Terra

UcrainaRomania

Polonia

Ethel

Grecia4,8 M

Perù6,2 M

MessicoEl Salvador6,3 M

Rep.Dominicana5,1 M

Messico

Costa Rica

Turchia

42,8°COodnadatta,

Australia

Isole Figi

NuovaZelanda

Malawi

Indonesia4,8 M

Hawaii,Stati Uniti

4,7 M

­52,2°CNuiqsut,

Stati Uniti

Il commercio elettronico po­trebbe aumentare la sostenibi­lità della pesca. Il suggerimen­to viene dal Giappone. A Sanri­ku, una città portuale della prefettura di Iwate, molte in­frastrutture sono state distrut­te dallo tsunami, compreso il mercato ittico. Una compagnia marittima è riuscita però a re­cuperare quattro barche, ri­prendendo l’attività grazie al commercio elettronico. Ogni peschereccio ha webcam e computer. I dati sul pescato so­no caricati in diretta su inter­net, e i clienti possono vedere la disponibilità e comprare la merce. Il sistema, scrive New Scientist, è visto da alcuni co­me un modo per fare incontra­re meglio la domanda e l’offer­ta, ridurre gli sprechi e aumen­tare la sostenibilità della pe­sca. Secondo la compagnia giapponese, il sistema permet­te di rilasciare in mare ancora vivo il pesce non richiesto.

Ci sono però molti dubbi sulla possibilità di applicare il metodo su scala industriale. Per riconoscere il pesce velo­cemente servirebbe un soft­ware, che ancora non c’è. Inol­tre, nei grandi pescherecci il pesce che viene tirato su nelle reti è già morto. Infine, il siste­ma potrebbe anche far aumen­tare la domanda, compromet­tendo ancora di più l’equilibrio ambientale. In realtà, replica l’azienda, lo scopo principale dell’iniziativa è creare un rap­porto tra pescatori e consuma­tori: “è a causa dell’anonimato dei pescatori che gli oceani so­no ipersfruttati. Mettendoli al centro faremmo capire la ne­cessità di proteggere le risorse marine e produrremmo un nuovo mercato”.

Pescaelettronica

Ethical living

Freddo L’ondata di freddo che ha colpito l’Ucraina ha causato la morte di 43 persone. In alcune zone del paese le temperature hanno raggiunto i 30 gradi sotto zero. Il freddo ha ucciso altre 20 persone in Polo­nia e 14 in Romania.

Terremoti Un sisma di ma­gnitudo 6,2 sulla scala Richter ha colpito la regione di Ica, nel sud del Perù, causando il feri­mento di 145 persone. Più di 120 case sono state danneggia­te. Altre scosse sono state regi­strate al conine tra il Messico e il Salvador, nella Repubblica Dominicana, al largo della Grecia, nell’isola indonesiana di Sumatra e alle Hawaii.

Alluvioni Sei persone sono morte nelle alluvioni causate dalle forti piogge che hanno colpito le isole Figi. u Cinque­mila persone sono state co­strette a lasciare le loro abita­zioni a causa degli allagamenti in Malawi.

Vulcani Il Turrialba, in Costa Rica, si è risvegliato proiettando cenere a cinque chilometri di altezza. L’ultima eruzione risaliva al 1866.

Siccità Il governo messica­no ha annunciato un piano da

2,5 miliardi di dollari contro la siccità che ha colpito il nord del paese. Gli stati più colpiti sono Durango e Chihuahua.

Cicloni Il ciclone Ethel, che si è formato nell’ocea­no Indiano occidentale, ha portato forti piogge all’isola di Rodrigues.

Neve Una itta nevicata ha paralizzato i trasporti a Istan­bul, in Turchia. Circa duecen­to voli sono stati annullati.

Balene Novanta balene

pilota, spiaggiate in Nuova Zelanda, sono state soccorse. All’inizio del mese altri sette cetacei erano stati trovati morti nella stessa zona.

Batteri Nelle acque antarti­che cilene sono stati pescati batteri super resistenti che potrebbero dipendere dalla presenza umana. Appartenen­ti a ceppi di Escherichia coli resistenti a diversi antibiotici, sono stati trovati soprattutto vicino agli scarichi delle acque relue di tre stazioni di ricerca cilene.

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Pitoni Il forte declino del numero di specie animali nel parco nazionale delle Everglades, in Florida, sarebbe dovuto alla pre­senza del pitone delle rocce birmano. Liberati forse nell’ambien­te dagli allevatori o sfuggiti agli zoo, questi rettili hanno comin­ciato a colonizzare il sud della Florida negli anni novanta. Si sti­ma che oggi ci siano decine di migliaia di esemplari. Secondo uno studio su Pnas, alcune specie di mammiferi, come gli opos­sum, sono quasi estinte nella zona a causa del pitone, che in me­dia raggiunge i quattro metri di lunghezza e i 60 chili di peso.

Everglades , un pitone lotta con un alligatore

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 91

u L’Australia sudoccidentale è piena di laghi salati di varie di-mensioni di cui il Dundas è uno dei più grandi. Situato a circa 130 chilometri dalla città costie-ra di Esperance, questo lago in-crostato di sale si trova in una zona molto soleggiata e scarsa-mente piovosa. Dal satellite ap-pare come una supericie com-plessa con molte isole che emer-gono dall’acqua.

L’Advanced land imager Ali a bordo del satellite Eo-1 della Nasa ha scattato questa foto il

30 novembre 2011. A sudovest del lago si vedono dei campi col-tivati, individuabili grazie ai contorni netti e dritti. Il proilo del lago, invece, è estremamen-te irregolare, con lunghe distese di terra arida che si protendono nell’acqua da est e da ovest.

Il Dundas si trova all’estre-mità meridionale di una serie di laghi salati che si estendono da nord a sud per circa 170 chilo-metri. Gli studi geologici indica-no che un tempo il lago faceva parte di un ecosistema molto di-

verso. L’analisi degli strati roc-ciosi ha rivelato che i laghi rien-travano in un imponente siste-ma di canali di drenaggio. L’an-tico canale che ora alimenta il Dundas potrebbe essersi forma-to prima del giurassico (l’epoca dei dinosauri). Allora Australia e Antartide erano un solo conti-nente. Forse il canale di drenag-gio che ora tiene in vita i laghi salati australiani era alimentato dalle sorgenti antartiche, che oggi sono ghiacciate e distano 3.800 chilometri.–Michon Scott

Il lago salato Dundas si tro-va in una zona molto arida dell’Australia occidentale. Questa foto è stata scattata dal satellite Eo-1 della Nasa il 30 novembre 2011

Il pianeta visto dallo spazio 30.11.2011

Il lago Dundas, Australia occidentale

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Economia e lavoro

Mentre tutto il mondo guarda al debito pubblico della Gre-cia, negli ultimi giorni si è sviluppato il focolaio di un

nuovo incendio europeo in Portogallo. Sempre più osservatori si chiedono se Li-sbona non abbia bisogno di un altro pac-chetto di aiuti o perino di una ristruttura-zione del debito. La situazione è precipitata dopo la metà di gennaio. Lo dimostra l’au-mento dei tassi d’interesse dei titoli di stato portoghesi a cinque e a dieci anni, che han-no siorato il 18 per cento. L’esperienza in-segna che in queste condizioni uno stato non può resistere a lungo.

La causa principale dell’aumento dei tassi d’interesse è la decisione di un numero crescente di grandi investitori di liberarsi dei titoli portoghesi. Ormai le tre principali agenzie di rating – Standard & Poor’s, Moo-dy’s e Fitch – classiicano il Portogallo come un debitore inaidabile. Molte assicurazio-ni e fondi pensione non sono più autorizza-te a detenere titoli di stato di Lisbona. E non giovano al Portogallo i rinnovati timori di un fallimento della Grecia.

Il governo cerca di opporsi al potere dei mercati inanziari. Il 24 gennaio il primo ministro conservatore Pedro Passos Coelho dichiarava ancora categoricamente che il Portogallo non avrebbe chiesto “né più tempo né più denaro” alla troika, il gruppo composto dagli esperti del Fondo moneta-rio internazionale, della Commissione eu-ropea e della Banca centrale europea. Nell’estate del 2010 il Portogallo ha già ot-tenuto un pacchetto di aiuti di 78 miliardi di euro ino al 2013 in cambio di severe misure d’austerità. “La tabella di marcia issata sa-rà rispettata”, ha detto Coelho. “Il governo

attuerà le misure concordate in modo esemplare”. Uno scenario che renda neces-sari nuovi aiuti, ha proseguito il premier, sarebbe pensabile solo se dovessero cam-biare “condizioni esterne che non hanno niente a che fare con l’attuazione del pro-gramma della troika”.

Molti economisti, però, hanno accolto con scetticismo le afermazioni di Coelho. António Saraiva, il presidente della confe-derazione degli industriali portoghesi, s’è detto convinto che il paese dovrà negoziare un nuovo programma di salvataggio entro la ine di quest’anno. Un anno fa, sostiene

Il Portogallo tornanell’occhio del ciclone

A gennaio i tassi d’interesse sui titoli di stato portoghesi hanno registrato un forte aumento. Molti esperti temono che presto Lisbona potrebbe chiedere nuovi aiuti a Bruxelles

Javier Cáceres e Harald Freiberger, Süddeutsche Zeitung, Germania

Saraiva, la troika ha sottovalutato la situa-zione efettiva del Portogallo: lo stato aveva bisogno di 106 miliardi di euro, ma ne ha ricevuti solo 78. Prima o poi questo buco di quasi trenta miliardi dovrà essere colmato.

Il problema del Portogallo non è la con-sistenza del debito pubblico: mentre i debi-ti di Atene sono pari al 165 per cento del pil, quelli di Lisbona si fermano intorno al 100 per cento. Il vero problema è l’arretratezza della struttura industriale del paese, che ol-tre al turismo ha ben poco da ofrire. Gli esperti non credono che il Portogallo sia in grado di crescere abbastanza per riportare sotto controllo il suo debito. Jürgen Michels, economista di Citigroup, prevede che nel paese la recessione si aggraverà drammati-camente. Nel giro di tre anni l’economia potrebbe contrarsi del 10 per cento. Secon-do Michels, il Portogallo potrebbe essere il secondo paese dopo la Grecia a chiedere ai creditori di rinunciare a una parte dei loro investimenti.

Anche l’Istituto per l’economia mondia-le di Kiel, in Germania, è arrivato alla con-clusione che in Portogallo un taglio del de-bito sarà prima o poi inevitabile. Più au-menteranno i tassi d’interesse dei titoli di stato, maggiore sarà il pericolo. u fp

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Da sapere

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Febbraio 2011 Gennaio 2012

Tasso d’interesse sui titoli di stato portoghesi a dieci anni. Fonte: Bloomberg

Lisbona, Portogallo

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Internazionale 934 | 3 febbraio 2012 93

Svizzera

Il numero Tito Boeri

50 per cento

Secondo un’analisi dei dati Istat sulla forza lavoro, il 50 per cento dei lavoratori con un contratto a tempo determinato ha più di trent’anni. Nel caso delle donne si arriva a più di 35 anni. Quindi il contratto di ap-prendistato (che si applica solo a chi ha meno di 29 anni) non potrebbe riguardare questi precari. Nel caso dei co.co.co., l’età mediana (cioè l’età al di sopra della quale c’è il 50 per cento dei nuovi ingressi) è an-cora più alta.

Il precariato in Italia non è solo legato a un diicile ingres-so nel mercato del lavoro, ma

anche al fatto che si resta pre-cari a lungo. In ogni caso i con-tratti di apprendistato e di in-serimento (o reinserimento) non possono afrontare eica-cemente il precariato, un feno-meno che ormai è esteso an-che al di sopra dei 40 anni e in-teressa persone con lunghe esperienze lavorative.

La riforma del lavoro do-vrebbe facilitare anche il rein-serimento dei disoccupati che aspettavano il prepensiona-mento prima della riforma di dicembre. Come dimostra l’esperienza di Austria e Fran-cia, la scelta di far crescere i

costi di licenziamento con l’età (invece che in base alla durata del rapporto di lavoro) fa au-mentare la disoccupazione tra i lavoratori più anziani. Le im-prese tendono a non prendere impegni di lungo periodo con lavoratori vicini all’età del pen-sionamento.

Riformare ogni nuovo con-tratto a tempo indeterminato, con tutele gradualmente cre-scenti in base alla durata dell’impiego, servirà anche a dare opportunità e tutele ai la-voratori bloccati dalla riforma delle pensioni varata dal go-verno a dicembre. u

Un artista imprenditore

Dieter Meier è un uomo che ha detto tante volte no nella sua vita e ha cercato continuamente di reinventarsi, scrive Brand Eins. Negli anni settanta l’artista svizzero poteva diventare famoso con le sue performance surreali (nel 1971, a New York, cominciò a vendere ai passanti le parole “no” e “sì” al prezzo di un

dollaro), ma ignorava tutti gli inviti ai più importanti festival d’arte contemporanea. Negli anni ottanta ha fondato gli Yello, un gruppo di musica electropop con cui ha venduto tredici milioni di dischi, ma invece di promuovere la sua carriera di pop star attraverso i concerti ha deciso di dedicarsi agli afari. “Grazie ai consigli del padre banchiere, ha investito i suoi guadagni decuplicandoli nel giro di vent’anni. Da buon svizzero ha comprato le azioni di un produttore di orologi. Meier ha anche investito in un’impresa ferroviaria e nella Orell Füssli, l’azienda che stampa i franchi svizzeri e le banconote di altri paesi”. Oggi produce carne e vino biologici in Argentina e in parte li vende attraverso i due ristoranti e il bar che ha aperto a Zurigo. u

Brand Eins, Germania

EUROZONA

Disoccupazionerecord Secondo l’ultimo rapporto dell’Eurostat, a dicembre il tas-so di disoccupazione nei dicias-sette paesi dell’eurozona è salito al 10,4 per cento, il livello più al-to da quando è stata introdotta la moneta unica. L’unico paese dell’area in controtendenza è la Germania, dove il tasso di di-soccupazione è sceso dal 5,6 al 5,5 per cento. Contro ogni aspet-tativa, osserva il Financial Ti-

mes, la disoccupazione giovani-le è scesa dello 0,1 per cento ri-spetto al mese precedente. Ma con il tasso del 21,3 per cento re-sta comunque molto più grave della disoccupazione generale.

FINANZA

Bruxelles fermaDeutsche Börse Il 1 febbraio la Commissione eu-ropea ha bloccato il progetto di fusione tra la Deutsche Börse, la società che gestisce la borsa te-desca di Francoforte, e la New York Stock Exchange Euronext, che gestisce le piazze inanzia-rie di New York, Parigi, Amster-dam, Bruxelles e Lisbona. L’operazione, spiega Le Mon-

de, avrebbe dato vita alla borsa più grande del mondo. Bruxelles ha motivato la sua decisione, spiegando che la fusione avreb-be creato una situazione di quasi monopolio nel mercato europeo dei titoli derivati.

ISRAELE

Il treno è meglio di Suez Il governo israeliano sta valu-tando la realizzazione di una li-nea ferroviaria, la Med-Red, che collegherà il Mediterraneo e il mar Rosso, ofrendo una via al-ternativa al canale di Suez per il commercio tra l’Europa e l’Asia. Secondo Le Soir, un gruppo di imprese cinesi, in accordo con il ministero dei trasporti israelia-no, costruirà 350 chilometri di ferrovia attraverso il deserto del Negev ino alla città balneare di Eilat, sul mar Rosso. La Med-Red potrebbe essere usata an-che per esportare in India e in Cina il gas estratto dai ricchi gia-cimenti scoperti da Israele negli ultimi due anni.

IN BREVE

Cina Le esportazioni cinesi so-no in calo. Questo fa temere un rallentamento del gigante asia-tico. Tra dicembre e gennaio l’indice sulle commesse degli esportatori elaborato da Pechi-no è passato da 48,6 a 46,9.

Tasso di disoccupazione a dicembre del 2011, percentuale

Fonte: Eurostat

Spagna

Grecia

Irlanda

Portogallo

Eurozona

Francia

Italia

Finlandia

Germania

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19,2

14,5

13,6

10,4

9,9

8,9

7,6

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96 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

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Sai che c’è… Il momento migliore è il tramonto. Pochi minuti di luce magica che dipingono

la città di rosa e di giallo. Vorrei che fosse così tutto il giorno.

Sarebbe la difesa antivampiro perfetta.

Ah ah! Per quel che mi ricordo, più che altro con l’istruttore guardavamo ilm porno splatter.

ho sempre pensato che lavorare da solo sarebbe

stato fantastico, ma caspita, sono un capo

cattivissimo.

mi costringo a lavorare venti ore al giorno, sette giorni a

settimana. anche in vacanza!

quello che faccio non mi va mai bene.

sono incontentabile e ho il morale sotto

zero.

sei un uomo molto strano. e triste.

ci deve essere un modo

più facile per

campare.

senza dimenticare le molestie sessuali. ogni pomeriggio mi

costringo a prendermi una “pausetta rilassante”.

Come fai a non sapere dove sei stato per tre

settimane?

Più diventi vecchio, più il tempo scorre in fretta. Non posso ricordarmi sempre tutto.

E di certo non mi posso ricordare cosa è successo dopo che ho mangiato delle scatole

di pennarelli.

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L’oroscopo

Rob Brezsny

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senza crearti troppe aspettative.

VERGINE

Il comico Louis C.K. ha rac-contato che una volta sua i-

glia aveva la febbre e le ha dato una medicina che sapeva di gom-ma da masticare. “Che schifo!”, si è lamentata lei. Louis era esaspe-rato. “Non puoi dire ‘che schifo!’”, le ha risposto. Con questo voleva dire che essendo una ragazzina bianca americana era tra le perso-ne più fortunate del mondo, sicu-ramente più fortunata di tutti i po-veri bambini che non hanno nes-suna medicina, e meno che mai una che sa di caramella. Vorrei far-ti la stessa obiezione, Vergine. Nell’ordine generale delle cose, la tua soferenza di questo momento è ridicola. Cerca di pensare a tutte le fortune che hai e non a quel pic-colo disagio.

BILANCIA

Qualche giorno fa mi è ca-pitato tra le mani un ma-

nuale della facoltà d’ingegneria. C’era anche un capitolo su come scrivere una relazione tecnica, che è ben diversa da un testo letterario. Il libro citava una poesia di Edgar Allan Poe: “Elena, la tua bellezza è per me come quei navigli nicei d’un tempo lontano che, molle-mente, sull’odoroso mare, riporta-vano il pellegrino stanco d’errare alla sua sponda natia”. E poi dava un consiglio agli studenti: “Per esprimere quest’idea nel linguag-gio tecnico, diremmo semplice-mente: ‘Il poeta pensa che Elena sia bella’”. Non prendere scorcia-toie come questa, Bilancia. Per la tua salute emotiva e la tua integrità spirituale, cerca di non vedere il mondo come farebbe chi scrive una relazione tecnica.

SCORPIONE

Sei pronto a giocare seria-mente con quel rebus av-

volto di mistero all’interno di un enigma? Aspetti con ansia il vio-lento piacere che proverai quando ti ci butterai a capoitto e cercherai di decifrare il suo intrigante signi-icato? Spero proprio di sì, Scorpio-ne. Mi auguro che tu non veda l’ora di trovare la risposta a quel quesito apparentemente irrisolvibile. Cer-

ca di essere coraggioso e avventu-roso, amico mio, e preparati allo sballo totale.

SAGITTARIO

Nelle prossime settimane, Sagittario, potrebbero arri-

varti lezioni da fonti impreviste e direzioni inattese. Ti arriveranno anche in forme più prevedibili da fonti familiari, quindi potresti im-parare una quantità spettacolare di cose. Per sfruttare al massimo que-sta opportunità, parti dal presup-posto che tutti possono avere qual-cosa di utile da insegnarti, perino persone che di solito ignori. Com-portati come uno studente afama-to di sapere e desideroso di riempi-re i vuoti della sua conoscenza.

CAPRICORNO

“Il desiderio che consuma la maggior parte degli esse-

ri umani è quello di mettere deli-beratamente la loro vita nelle mani di un’altra persona”, ha detto lo scrittore inglese Quentin Crisp. Se hai anche la minima tendenza a desiderare una cosa del genere, Capricorno, spero che nei prossimi giorni farai di tutto per convincerti che è un errore. Questo è un mo-mento critico per lo sviluppo della tua autosuicienza. Per il tuo bene e per quello delle persone che ami, devi trovare il modo di frenare il tuo bisogno di renderli responsabi-li del tuo benessere.

PESCI

Dopo la morte di Amy Wine house, l’attore Russell

Brand ha chiesto al pubblico e ai mezzi d’informazione di evitare commenti negativi sulla sua batta-glia contro la droga. La dipenden-za non è una posa romantica né un vizio che le persone non abbando-nano per pigrizia, ha detto. È una malattia. Prendereste in giro uno schizofrenico per la sua “stupida” propensione a sentire voci inesi-stenti? Sono convinto che tutti noi abbiamo almeno una dipendenza, anche se non è devastante come quella dall’alcol e dalla droga. Qual è la tua Pesci? La pornogra-ia? I dolci? Internet? I rapporti sbagliati? La prossima settimana sarà il momento ideale per cercare qualcuno che ti aiuti a guarire.

ACQUARIOSe questo mese andrai allo Yosemite national park, in California, potresti vedere una cascata di oro rosso. Al tramonto, alza lo sguardo sulla parete orientale dove c’è

una formazione rocciosa chiamata El Capitan, e vedrai quello che sembra un iume di fuoco verticale, noto con il nome di Hor-setail fall. Ti parlo di questa meraviglia perché nelle prossime set-timane ti sia d’ispirazione. Secondo i presagi astrali, avrai il pote-re di mescolare l’acqua e il fuoco come non hai mai fatto prima. Ti consiglio di guardare la foto della cascata su intern.az/fuocoli quido. Ti aiuterà a liberare le forze inconsce necessarie per creare la tua meraviglia naturale.

COMPITI PER TUTTI

Puoi leggere gratis alcuni brani del mio libro

Pronoia su intern.az/superfrasi.

Fammi sapere cosa ne pensi

ARIETE

Triste ma vero: molte per-sone vogliono sempre quel-

lo che non hanno e non vogliono quello che hanno. Nelle prossime settimane non dovresti fare come loro, Ariete. Perché se vorrai esat-tamente quello che hai e non desi-dererai troppo quello che non puoi avere, ti andrà tutto nel verso giu-sto. Pensi di potercela fare? Se è così, sarai sorpreso dalla pace su-blime che troverai.

TORO

Tra tutti i segni dello zodia-co, il Toro è quello che tende

meno a essere arrogante. Di con-seguenza, però, è anche quello che ha meno stima di sé. Ma ora hai un’ottima occasione per risolvere questo problema. I ritmi cosmici ti chiedono a gran voce di avere più iducia in te stesso, anche a rischio di sconinare nel terreno minato dell’arroganza. È per questo che ti consiglio di prendere a modello il musicista del Toro Trent Reznor, che non sembra avere problemi di autostima. Lo dimostra quello che ha risposto quando gli hanno chie-sto se frequenta i social network musicali: “Non mi interessa cosa ascoltano i miei amici, perché io sono più ico di loro”.

GEMELLI

“Se Mark Twain fosse nato ai tempi di Twitter”, dice lo

scrittore umoristico Andy Bo-rowitz, “avrebbe scritto dei tweet fantastici. Ma probabilmente non avrebbe mai scritto Huckleberry

Finn”. Secondo me ti trovi davanti a un’alternativa simile, Gemelli. Puoi fare molte piccole cose che ti torneranno utili a breve termine,

oppure puoi ridurre almeno in par-te i tuoi scambi quotidiani per con-centrarti su un obiettivo a lungo termine. Non sarò certo io a dirti quello che devi fare, ma volevo es-sere sicuro che sapessi che tipo di decisione devi prendere.

CANCRO

In questo momento hai un talento particolare per aiuta-

re i tuoi alleati a sfruttare le loro potenzialità e le loro energie laten-ti. Se decidi di usarlo, avrai anche la capacità di svegliare le pecorelle smarrite e gli angeli caduti dalle loro inutili trance. C’è poi un terzo tipo di magia di cui disponi in ab-bondanza in questo periodo, Can-cerino: l’abilità di costringere le ve-rità nascoste a uscire allo scoperto. Ma ti avverto: qualcuno opporrà resistenza. Qualcuno che potrebbe essere spaventato dai cambiamen-ti che rischi di mettere in moto con i tuoi superpoteri. Perciò ti consi-glio di frequentare soprattutto per-sone che amano il cambiamento.

LEONE

“Pubblicare un volume di poesie è come lasciar cade-

re un petalo di rosa nel Grand Can-yon e aspettare l’eco che produr-rà”, ha detto lo scrittore Don Mar-quis a proposito della sua esperien-za personale. Qualcosa che stai pensando di fare, Leone, potrebbe corrispondere a questa descrizio-ne. È un progetto, un’azione o un dono che ti piacerebbe ofrire, ma probabilmente ti chiedi se non produrrà la stessa eco di quel peta-lo di rosa nel canyon. Se non ti pre-occuperai troppo dell’efetto che farà, otterrai esattamente l’efetto che conta di più. Dona te stesso

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98 Internazionale 934 | 3 febbraio 2012

L’ultima

Al Forum economico mondiale di Davos. “Il divario tra ricchi e super ricchi è sempre più grande!”.

Siria, la Lega araba interrrompe la sua missione d’osservazione. “Credo che abbiamo visto abbastanza”.

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Costa Crociere. “te lo assicuro, ho veriicato. ‘noè’ non èun nome italiano”.

“preferivo i vecchi dèi a quelli del mercato: volevano mucche o pecore e non sacriici umani”.

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Le regole Guidare sotto la neve1 Allargare i piedi a spazzaneve sui pedali non serve a nulla. 2 Se di solito ti spaventa l’aquaplaning, preparatial terriicante autoski. 3 mettere le catene è un’arte che non s’improvvisa senza guanti a 15 gradi sotto zero.4 mantieni le manovre al minimo: solo parcheggi a spina. 5 non vedi nulla? o nevica troppo o non hai toltola neve dal parabrezza. In ogni caso, accosta. [email protected]

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