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NUMERO DEDICATO AL CONGRESSO PER IL XV ANNO DI FONDAZIONE DEL GUONE “MULTIDISCIPLINARIETA’ in UROONCOLOGIA” Aviano, 10 settembre 2010 LETTERA DEL PRESIDENTE R. Bortolus………...............................……………….pag. 1 I SESSIONE GUONE: TRASLAZIONALITA’ E RICERCA NELL’ECCELENZA R. Bortolus, L. De Zorzi, S. Guazzieri, F. Zattoni ….....………...….……….…pag. 3 II SESSIONE INTEGRAZIONE TERAPIA SISTEMICA TRATTAMENTO LOCALE Moderatori: A. Garbeglio, G.M. Trovò Prostata O. Ishiwa….……………...…………….pag. 10 Testicolo S. Tumolo………….……………...…..pag. 11 Vescica O. Caffo…….………………………..….…pag. 12 III SESSIONE COSA SIGNIFICA SUCCESSO NELLE TERAPIE INTEGRATE E/O INNOVATIVE Moderatori: A. Fandella, A. Bertaccini G. Malossini, U. Tirelli, G. Mandoliti, S. Cosciani Cuinco …….………..pag. 15 IV SESSIONE PROSTATA Moderatori: M. Dal Bianco, S. Cosciani Cunico La terapia dell’incontinenza post prostatectomia radicale: dove siamo oggi. S. Siracusano…………………………………………..pag. 16 Recidive anastomotiche con PSA<0,2 ng/ml dopo prostatectomia radicale. R. Bertè…………………………………………………..pag. 18 La continenza nella chirurgia prostatica: prevenzione e terapia P. De Antoni, F. Bruschi, V. Pezzetta….….…pag. 19 Prostatectomia radicale robotassistita: quale approccio? F. Dal Moro……………………………………….….…pag. 20 HIFU nelle recidive postradioterapia radicale D. Maruzzi.……………………………………….….…pag. 21 Confronto tra alcune tecniche di prostatectomia radicale (perineale, retro pubica, laparoscopica) G. Catalano……………………………………….….…pag. 22 Crioterapia della prostata C. Morana...……………………………………….….…pag. 23 V SESSIONE PROSTATA Moderatori: E. Bassi, R. Zucconelli Carcinoma prostatico ormonoresistente: il dopo, vecchi e nuovi farmaci. M. Sorarù….…………………………………………..pag. 26 GUONEWS ORGANO UFFICIALE DEL GRUPPO URO-ONCOLOGICO DEL NORDEST ANNO XII – NUMERO 31 – GENNAIO 2011

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 NUMERO  DEDICATO  AL  CONGRESSO  PER  IL  XV  ANNO  DI  FONDAZIONE  DEL  GUONE    “MULTIDISCIPLINARIETA’  in  URO-­ONCOLOGIA”    Aviano,  10  settembre  2010      LETTERA  DEL  PRESIDENTE    R.  Bortolus………...............................……………….pag.  1    I  SESSIONE    GUONE:  TRASLAZIONALITA’  E  RICERCA  NELL’ECCELENZA    R.  Bortolus,  L.  De  Zorzi,  S.  Guazzieri,  F.  Zattoni  ….....………...….……….…pag.  3    II  SESSIONE    INTEGRAZIONE  TERAPIA  SISTEMICA-­TRATTAMENTO  LOCALE  Moderatori:  A.  Garbeglio,  G.M.  Trovò    Prostata  -­  O.  Ishiwa….……………...…………….pag.  10  Testicolo  -­  S.  Tumolo………….……………...…..pag.  11  Vescica  -­  O.  Caffo…….………………………..….…pag.  12    III  SESSIONE    COSA  SIGNIFICA  SUCCESSO  NELLE  TERAPIE  INTEGRATE  E/O  INNOVATIVE  Moderatori:  A.  Fandella,  A.  Bertaccini    G.  Malossini,  U.  Tirelli,  G.  Mandoliti,  S.  Cosciani  Cuinco  …….………..pag.  15    IV  SESSIONE    PROSTATA  Moderatori:  M.  Dal  Bianco,  S.  Cosciani  Cunico    

La  terapia  dell’incontinenza  post-­prostatectomia  radicale:  dove  siamo  oggi.    S.  Siracusano…………………………………………..pag.  16    Recidive  anastomotiche  con  PSA<0,2  ng/ml  dopo  prostatectomia  radicale.  R.  Bertè…………………………………………………..pag.  18    La  continenza  nella  chirurgia  prostatica:  prevenzione  e  terapia  P.  De  Antoni,  F.  Bruschi,  V.  Pezzetta….….…pag.  19    Prostatectomia  radicale  robot-­assistita:  quale  approccio?  F.  Dal  Moro……………………………………….….…pag.  20    HIFU  nelle  recidive  post-­radioterapia  radicale  D.  Maruzzi.……………………………………….….…pag.  21    Confronto  tra  alcune  tecniche  di  prostatectomia  radicale  (perineale,  retro  pubica,  laparoscopica)  G.  Catalano……………………………………….….…pag.  22    Crioterapia  della  prostata  C.  Morana...……………………………………….….…pag.  23    V  SESSIONE    PROSTATA  Moderatori:  E.  Bassi,  R.  Zucconelli    Carcinoma  prostatico  ormono-­resistente:  il  dopo,  vecchi  e  nuovi  farmaci.  M.  Sorarù….…………………………………………..pag.  26      

GUONEWS ORGANO UFFICIALE DEL GRUPPO URO-ONCOLOGICO DEL NORDEST

ANNO XII – NUMERO 31 – GENNAIO 2011

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Radioterapia  adiuvante  M.  Signor….…………………………………………..pag.  28    Radioterapia  nei  tumori  prostatici  dell’anziano  S.  Dal  Fior….……………….………………………...pag.  29    Le  associazioni  di  radioterapia  esterna  e  deprivazione  androginica  farmacologica:  realtà  e  prospettive.  F.  Campostrini….…………………………………..pag.  31    I  tumori  neuroendocrini  della  prostata  A.  Celia….….…………………………………………..pag.  32    Farmacogenetica  e  personalizzazione  della  terapia  nel  carcinoma  della  prostata.  G.  Toffoli.….…………………………………………..pag.  33    VI  SESSIONE    URETERE,  VESCICA,  TESTICOLO  Moderatori:  G.  Breda,  A.  Garbeglio    PDD  (Photo-­Dynamic  Diagnosis)  nei  tumori  vescicali.  G.  Breda..….…………………………………………..pag.  35    Chirurgia  delle  neoplasie  dell’alta  via  escretrice.  G.  Novara……………………………………………..pag.  36    Trattamento  integrato  conservativo  nei  tumori  vescicali.  T.  Sava…..….…………………………………………..pag.  37    Gestione  caso  clinico  neoplasia  alta  via  escretrice.  P.  Belmonte,  M.  Zanon.…………………………..pag.  38    Le  complicanze  della  linfoadenectomia  retroperitoneale  per  tumore  del  testicolo.  I.M.  Tavolini…………………………………………..pag.  39  

 Radioterapia  esterna  complementare  alla  chirurgia  nei  seminomi.  M.  Signor..….…………………………………………..pag.  40    Approccio  multidisciplinare  per  neoplasia  testicolare  metastatica.  O.  Lenardon..…………………………………………..pag.  41    VII  SESSIONE    RENE  Moderatori:  A.  Gava,  G.  Fiaccavento    TC  con  perfusione  e  tumore  del  rene:  studio  di  fattibilità.  F.  Gigli….....….…………………………………………..pag.  42    Tumore  renale  bilaterale  G.  Fornasiero,  E.  Bassi…......……………………..pag.  43    Chirurgia  delle  metastasi  da  carcinoma  renale  A.  Antonelli…………………......……………………..pag.  43    Carcinoma  renale  metastatico:  sequenzialità  terapeutiche  tipiche.  G.  Lombardi,  V.  Zagonel…...……………………..pag.  44    Carcinoma  renale  metastatico:  sequenzialità  terapeutiche  atipiche.  F.  Zustovich………………..…...……………………...pag.  45    Chemioterapia  nel  paziente  uro-­oncologico  anziano.  L.  Fratino………………………...………………….…..pag.  47      GUONE  HOMEPAGE    Info  &  Contatti.....................….……………………pag.  49  

       

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MULTIDISCIPLINARITA’ in URO-ONCOLOGIA

15° ANNO DI FONDAZIONE DEL GUONE Aviano, 10 Settembre 2010

Multidisciplinarità in Uro Oncologia non rappresenta solo il titolo di un convegno, ma la storia del GUONE, un gruppo di specialisti che da diversi punti di vista, integrandosi, cerca di dare delle risposte alle problematiche delle patologie oncologiche del distretto urologico. In questo convegno che si è svolto il 10 settembre al Centro di Riferimento Oncologico (Istituto Scientifico Nazionale) di Aviano (PN) e che coincide con i primi 15 anni di attività del GUONE, abbiamo cercato di consentire a varie realtà del Nord Est, di esprimersi e di confrontare la propria quotidianità con altre esperienze. Nel tentativo da una parte di dare sempre delle risposte ad una utenza che negli ultimi anni si è dimostrata tendenzialmente più informata, non sempre

sfruttando nel migliore dei modi quanto internet potenzialmente può dare, dall’altro di “sopravvivere” ad esigenze aziendali che impongono restrizioni a volte così distanti dalla reale esigenza dell’utenza, siamo costretti, essendo in prima linea, a moli di lavoro non indifferenti, ad avere pochissime possibilità di fermarsi e rivedere quello che si è fatto nel tentativo di confrontarlo con altre esperienza. E’ vero, con internet le comunicazioni, in tutti i campi, ci hanno proiettato in un’era nuova, affascinante, indispensabile quotidianità di noi specialisti, però quanti riescono non solo a recepire ma anche a diffondere un messaggio, un’esperienza? Probabilmente chi ha una struttura alle spalle che consente di promuovere ricerca e di avere “manodopera” sia nella raccolta dei dati, che nella divulgazione degli stessi. La maggior parte degli specialisti ha poco tempo per fermarsi a discutere un progetto, un’idea per realizzare quello che di innovativo l’esperienza e la conoscenza dell’argomento tenderebbero a fare. Ed è questo uno dei motivi fondamentali che ci ha indotto a creare un’opportunità, a mettere alcuni specialisti nelle condizioni di divulgare la propria esperienza, al fine di renderli attivamente partecipi ad un dialogo di reciproco scambio di conoscenze. In questo puzzle è stato impossibile creare le condizioni per la presenza di tutte le realtà del Triveneto, purtroppo alcuni centri di eccellenza hanno avuto difficoltà a trovare spazio in un programma che per la densità delle comunicazioni si è sviluppato in 2 sale contemporaneamente. Come Presidente del Congresso e del GUONE, e soprattutto come unico interlocutore locale nell’organizzare l’evento, ho commesso senz’altro molti errori e molte dimenticanze, e di questo mi scuso con tutti voi, credetemi però che tutto è stato fatto in buona fede, cercando di emergere da solo dal tunnel dell’aspetto organizzativo. Quindi un saluto a tutti quei centri, non presenti all’evento di Aviano, in cui il linguaggio della multidisciplinarità in Uro Oncologia rappresenta oramai una quotidianità ed un saluto a quei centri in cui la presenza nel contesto avianese avrebbe dato un impulso positivo ad un discorso di integrazione diagnostico-terapeutica in campo Uro Oncologico. Un saluto particolare va a tutti coloro che in questi 15 anni di GUONE hanno lavorato nel Direttivo e/o di supporto al Direttivo stesso, ai Presidenti del GUONE, da Stefano Guazzieri a Filiberto Zattoni a Walter Artibani, fino a coloro che hanno consentito una divulgazione scientifica ed una conoscenza del gruppo anche fuori dai confini nazionali: Pierfrancesco Bassi, Vincenzo Ficarra, Fulvio Di Tonno, Giacomo Novara, Tommaso Prayer-Galetti. Ringrazio i molti altri che hanno contribuito alla divulgazione del messaggio scientifico del GUONE, cito Andrea Fandella e Pappagallo Giovanni (Gigi per tutti). Un ulteriore ringraziamento è doveroso rivolgerlo al Sistema Congressi, storica segreteria del GUONE e soprattutto a Cinzia Bonomo, infaticabile e discreta segretaria dell’associazione.

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I congressisti ed i 15 anni del GUONE sono stati anche salutati sia dal Direttore Generale del CRO di Aviano, Dr. Piero Cappelletti che dall’Assessore Regionale Dr. Elio De Anna che dal Presidente del Gruppo Veneto Banca Dr. Flavio Trinca che da punti di vista differenti hanno evidenziato la positività della centralità dell’Istituto nell’ambito macroregionale soffermandosi sull’importanza della presenza di questo gruppo di specialisti nel territorio del Nord Est. Il Presidente

Dr. Roberto Bortolus

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I SESSIONE GUONE: TRASLAZIONALITA’ E RICERCA NELL’ECCELENZA

La prima sessione del Convegno, e non poteva non essere così, ha visto ripercorrere la storia del GUONE da parte del Dr. Bortolus, del Dr. De Zorzi, del Dr. Guazzieri e dal Prof. Zattoni. Il Dr. Guazzieri (Belluno) ha spiegato come all'inizio degli anni '90 sorse l'idea di costituire una associazione multidisciplinare con base territoriale comune (Triveneto) che potesse riunire per discussione, aggiornamento, produzione protocolli e linee guida le diverse specialità che sono coinvolte nella diagnosi e cura delle neoplasie urologiche. Una lunga serie di incontri per trovare una cura migliore e percorribile per il carcinoma prostatico ormono-refrattario rappresentò l'occasione per formalizzare il gruppo. I pionieri furono Giorgio Artuso, Piero Belmonte, Roberto Bertoldin, Alberto Buffoli, Andrea Fandella, Massimo Gion, Luigi Pappagallo, Stefano Guazzieri, Sandro Dal Fior, Romana Segati, Virginio Dal Bo (ora purtroppo scomparso), Gaspare Fiaccavento, Paolo Ligato. Giuseppe Patuelli fu lo sponsor discreto ed attivo, con incoraggiamenti e pianificazioni. Il 13 novembre 1995 è la data della costituzione ufficiale del GUONE a Belluno con registrazione notarile dello statuto. I firmatari furono Stefano Guazzieri, Claudio Pegoraro, Andrea Fandella, Sandro Dal Fior, Antonietta Bassetto, Gaspare Fiaccamento, Carlo Tallarigo, Pierfrancesco Bassi, Roberto Bertoldin. Al Dr. Bortolus (Aviano) è toccato il compito di ripercorrere l’attività congressuale del GUONE con i suoi circa 40 eventi che hanno spaziato su tutti i campi delle patologie uro oncologiche, dalla vescica alla prostata al rene alla patologia oncologica del pene, passando anche attraverso dei corsi pratici di Ecografia fino ai più recenti incontri multidisciplinari su casi clinici (Guonedi). Il Dr. De Zorzi (Padova) responsabile del GUONEWS (coadiuvato dal Dr. Mario Gardi) e del sito del GUONE, ha spiegato il nuovo impulso che l’attuale CD ha dato sia al sito, con veste nuova, più snella e senz’altro più accattivante, con possibilità di interazione tra specialisti, sia alla rivista, anch’essa in veste nuova e soprattutto fortemente voluta anche in cartaceo. Il Dr. De Zorzi ha spiegato come la rivista si ponga l’obiettivo della promozione del dialogo tra gli specialisti e tra i diversi ospedali in quanto molti centri del nord-est propongono terapie d’eccellenza che spesso non trovano spazio in riviste accreditate (per mancanza di tempo e/o di personale di supporto) e che quindi hanno difficoltà ad essere divulgate. Ed infine il Prof. Zattoni (Padova) che, dopo aver percorso alcune tappe della storia del GUONE in termini di integrazione con altre società scientifiche, ha ribadito che l’obiettivo principale del GUONE è rappresentare quello che il Nord Est è in grado di esprimere in termini scientifici. Emerge senz’altro la necessità di esprimere le potenzialità culturali e scientifiche di un gruppo che pur nella sua eterogeneità ha trovato con il tempo quel filo conduttore comune che rappresenta un viatico indispensabile alla produttività scientifica in ambito uro-oncologico.

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PAST PRESIDENTS STEFANO GUAZZIERI 1995-2003 FILIBERTO ZATTONI 2004-2006 WALTER ARTIBANI 2007-2009

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II SESSIONE INTEGRAZIONE TERAPIA SISTEMICA-TRATTAMENTO LOCALE La II sessione ha visto la moderazione del Dr. Garbeglio Antonio (Pordenone) e del Dr. Trovò Gaetano Mauro (Aviano) e le provocanti domande, nell’animata discussione, del Dr. Pappagallo Giovanni (Mirano). In questa sessione si è discusso sulle integrazioni terapeutiche nei tumori della Prostata (Presentazione della Dott.ssa Ori Ishiwa: Oncologia Medica Ospedale Arezzo), nei tumori del Testicolo (Presentazione del Dr. Salvatore Tumolo: Oncologia Medica Pordenone), nei tumori della Vescica (Presentazione del Dr. Orazio Caffo: Oncologia Medica Trento). Integrazione terapia sisitemica-trattamento locale nei tumori della prostata. Dott.ssa Ori Ishiwa (Arezzo)

La dott.ssa Ori Ishiwa del gruppo del Dr. Bracarda dell’Oncologia Medica di Arezzo, ha svolto l’argomento della integrazione terapeutica nel tumore prostatico, sottolineando come l’associazione tra radioterapia e terapia ormonale rappresenti nella malattia localmente avanzata il trattamento standard. I dati di Bolla pubblicati su Lancet 2002 (Studio EORTC 22863) sui T3-4 o N1 e quelli di Pilepich pubblicati sul Red Journal (Int J Rad Oncol BioPhys 2005) (Studio RTOG 8531) dimostrano un vantaggio dell’overall survival dell’associazione (OT long term + radio) rispetto alla sola radioterapia. Una ulteriore conferma, della superiorità della long term hormono therapy rispetto alla short term. durante la presentazione all’ASCO 2007. Ha parlato poi dei 2 grossi studi con il Docetaxel, sia il TAX 327 che lo SWOG 9916 in cui, nella malattia ormonorefrattaria metastatica, per la prima volta

si nota un vantaggio in termini di overall survival delle 2 associazioni a base di Docetaxel (TAX: Docetaxel + Predispone; SWOG: Docetaxel + Estramustina Fosfato) rispetto a quelli che venivano considerati i trattamenti tradizionali (Mitoxantrone). Ha citato anche studi di chemioterapia in adiuvante, da quello pubblicato da Wang sul BJU Int nel 2000 (Leuprolide vs Leuprolide + mitoxantrone) in cui si evidenzia un aumento della sopravvivenza del braccio CT+OT (p=0,044) fino allo studio SWOG 9921 (HT vs HT+CT dopo prostatectomia) e al TAX 3501 (dopo prostatectomia radicale, randomizzazione tra: niente vs terapia ormonale vs terapia ormonale + docetaxel), tuttora in corso. Sulla neo-adiuvante ha citato lo studio pubblicato su Clin Cancer Res

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2005, un fase II in cui negli alto rischio veniva somministrata una che mio settimanale a base di docetaxel. Il PSA si era ridotto più del 50% nel 58% dei casi ed il volume (misurato alla RNM) si era ridotto più del 25% nel 68% dei casi con tossicità limitata. Infine ha presentato lo studio in corso (CALGB 90203) che prevede una randomizzazione tra chirurgia e 6 cicli di docetaxel seguiti dalla chirurgia con l’end-point primario la DFS a 5 anni e dal quale potremmo trarre indicazioni sull’effettivo ruolo della che mio neoadiuvante alla chirurgia radicale nelle forme ad alto rischio. Integrazione terapia sistemica-trattamento locale nei tumori del testicolo Dott. Salvatore Tumolo (Pordenone)

Il Dr. Salvatore Tumolo, Direttore dell’Oncologia Medica dell’Ospedale di Pordenone, ha relazionato sulla integrazione della terapia sistemica a trattamenti locali nelle neoplasie del testicolo. I tumori non seminomatosi del testicolo si presentano, nel 50% dei casi, in stadio clinico I con possibilità di recidiva, in caso di sola sorveglianza, del 25-30% (Colis 99; Dangaard 03). Al fine di migliorare questi risultati, vari studi si sono indirizzati verso un programma di linfoadenectomia retroperitoneale o verso una chemioterapia adiuvante.I rischi ed i benefici delle tre opzioni terapeutiche sono diversi, se da un lato la sorveglianza potrebbe aumentare lo di stress psicologico di una CT di salvataggio, è altrettanto vero che una che mio adiuvante potrebbe rappresentare sia un overtreatment che essere alla base di una serie di complicanze

cardiovascolari, di tipo metabolico, infertilità, ed anche rischio di 2° tumori. Ci sono però dei fattori prognostici che possono indirizzare verso un approccio rispetto ad un altro, questi sono: l’istologia di carcinoma embrionale, di Teratoma, l’assenza di tumore del seno endotermico, l’invasione vascolare linfatica ed ematica (Krege S. 08). L’infiltrazione vascolare rappresenta il più importante fattore di rischio con recidive intorno al 50% a 3 anni, quando presente, e del 10-20% quando non è presente. Un grosso studio tedesco pubblicato da Albers P e coll. su JCO (J Clin Oncol. 2008) su 382 pazienti randomizzati ad una linfoadenectomia retroperitoneale verso un ciclo di chemio (Bleomicina, Etoposide, Cisplatino). Ad un follow up mediano di 4,7 anni, la sopravvivenza libera da recidiva è significativamente migliore (p=0.001) nel gruppo trattato con chemioterapia x un ciclo. Tale impatto è tanto maggiore quanto più sono presenti fattori di rischi (nell’invasione vascolare, un ciclo di BEP riduce del 90% il rischio di recidiva) (Miller, 2009). In caso di progressione ad un programma di sorveglianza attiva vi è una indicazione a 3 cicli di BEP, mentre non sembra indicata una linfoadenectomia in caso di RC dopo una chemio adiuvante (Miller K 2009). Gli argomenti a favore di un approccio chirurgico si basano sul fatto che il retroperitoneo è una zona di recidive tardive possibile presenza di cellule chemio resistenti, come dimostrano i dati delle recidive dopo BEPx1 nello studio SWENOTECA (2%) e nello studio di Albert (2/191). Nella figura sono rappresentate le linee guida europee sull’atteggiamento più idoneo. Nei seminomi, che nel 70-80% dei casi si presentano in stadio clinico I. Le opzioni terapeutiche sono la sorveglianza attiva (88% di guarigione), la radioterapia ed un ciclo di carboplatino. I fattori di rischio sono : l’invasione della rete testis e il tumore > 4 cm. In

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caso di assenza di fattori di rischio la possibilità di recidiva a 3 anni è del 12%, con un fattore di rischio del 16% e con 2 fattori di rischio del 32% (Warde, JCO 2002). Uno studio presentato all’ASCO 2008 da Oliver e coll.su 1477 pazienti in stadio I di seminoma, randomizzati ad una radioterapia adiuvante verso un ciclo di carboplatino, con un follow-up mediano di 6,5 anni, non ha evidenziato differenze in RFR (95% vs 96%). Un altro studio (Horwich A, Fössa SD, ASCO 2010-Abst. 4538) su una coorte di 2703 pazienti trattati con radioterapia adiuvante , ha evidenziato, ad un follow-up mediano di 18 anni, 385 secondi tumori in 354 pazienti, con tutti i limiti delle dosi, dei campi e delle tecniche di radioterapia di 15-20 anni fa. Le conclusioni di questi e di altri dati presentati dal Dr. Tumolo sembrano indirizzarci verso una nuova era nel trattamento non chirurgico degli stadi iniziali di tumori germinali, nuove strategie più consone a quelli che sono i fattori di rischio stanno ottimizzando l’atteggiamento terapeutico nelle forme a basso richio (sorveglianza) ed alto rischio (chemio con 2 cicli di BEP), mentre nel seminoma puro allo stadio I, in relazione ai secondi tumori, pur con i distinguo delle diverse tecnologie adottate, la strategia terapeutica dovrebbe essere rivista. Integrazione terapia sistemica-trattamento locale nei tumori della vescica Orazio Caffo (Trento)

Il Dr. Orazio Caffo, Oncologia Medica Ospedale di Trento, ha avuto il compito di trattare uno degli argomenti più dibattuti in campo uro oncologico, ossia il trattamento conservativo dei tumori della vescica. Ha infatti ribadito il concetto che la cistectomia rimane il gold standard , anche se i dati non sono così brillanti da dover escludere altri approcci terapeutici. In serie contemporanee, la RFS a 10 anni è del 55% e l’OS a 10 anni del 27%, senza considerare la qualità di vita dei pazienti malgrado tecniche chirurgiche sempre più raffinate (dalla nerve sparing alla ricostruzione della vescica). In quest’ottica si inseriscono vari tentativi di migliorare i dati con l’utilizzo di una terapia sistemica

in neoadiuvante e/o adiuvante. I presupposti per un trattamento neoadiuvante alla cistectomia si basano sulla possibile eradicazione delle micro metastasi presenti alla diagnosi con un trattamento ben tollerato, per contro sia procrastinare un trattamento chirurgico nei pazienti non responders alla chemio che eseguire una chemio neoadiuvante su una stadi azione clinica e non patologica possono rappresentare dei punti a sfavore di una neoadiuvante. Molti studi e numerose metanalisi non hanno dimostrato vantaggi, in termini di sopravvivenza di una chemioterapia neoadiuvante a base di Platino, nei tumori vescicali muscolo invasivi, pur con tossicità contenuta (Winquist, J Urol 2004). Sul ruolo dell’adiuvante i punti a favore sono innanzitutto il fatto che viene eseguita dopo una stadiazione patologica e poi, che chirurgia viene eseguita immediatamente; per contro vi è una certa difficoltà di una full dose di chemio dopo la

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chirurgia e non ci sono dati sulla chemio sensibilità (i soli end point sono la DFS). Le metanalisi sui dati pubblicati risentono del basso numero di pazienti inseriti, delle vecchie combinazioni chemioterapiche e del fatto che spesso i pazienti inseriti in trials clinici corrispondono poco a quella che è la quotidianità (pazienti anziani, con comorbilità, in cui a volte è difficile somministrare dei regimi chemioterapici ottimali). Un grosso lavoro su 3947 pazienti da 11 centri trattati con chirurgia per neo vescicale localmente avanzata,trattati da 1979 al 2008, ha dimostrato che il gruppo (932 pazienti) che avevano ricevuto una chemioterapia adiuvante, aveva un significativo aumento della OS (HR 0.75, 95%CI 0.62-0.90, P=0.002). Sulla bladder preservation, i dati di Shipley-Zietman (Refresher Course 104: Astro 2000), dimostrano come il tasso di risposte complete vada dal 27% con la sola chemio, al 45% con la sola Radio, al 51% con TUR+Chemio per raggiungere il 71% con la Trimodality Therapy (TUR+CT+RT). I candidati ad una decisione terapeutica che preveda una conservazione d’organo, sono pazienti con unico T2 o iniziale T3, con tumore < 6 cm, che non abbiano idronefrosi, che abbiano avuto una TURV completa, che non abbiano un carcinoma in situ associato e che abbiano una adeguata funzionalità renale (in previsione di un trattamento a base di Cisplatino). Molti studi sono stati impostati combinando la TURV (il più radicale possibile), con la chemio e la radioterapia.

Ulteriori dati del Massachusetts GH (Urology 2002) , dell’Università di Erlangen (JCO 2002) e del gruppo di Trento (Br J Urol 1997) hanno confermato il ruolo della combinazione terapeutica nella preservazione d’organo. Viene da chiedersi se nuovi farmaci o combinazioni con nuovi farmaci possono essere in grado di incrementare ulteriormente quelle che sono le aspettative (in termini di OS) di un trattamento integrato conservativo.

Affascinante sembra la nuova era terapeutica delle targeted-therapies (Dovedi & Davies Cancer Metastasis Rev 2009) sulla quale anche nei tumori della vescica si spera di ottenere quei vantaggi noti in altre neoplasie come i tumori renali.

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Al momento la terapia sistemica dovrebbe essere considerata una parte integrante di un’opzione terapeutica conservativa, una chemio neoadiuvante non sembra in grado di produrre vantaggi, mentre un trattamento concomitante con radioterapia e Cisplatino rappresenta lo standard x una conservazione d’organo. Nuovi farmaci come la gemcitabina o i taxani rappresentano possibili nuove strategie terapeutiche nel trattamento conservativo dei tumori vescicali localmente avanzati.

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III SESSIONE COSA SIGNIFICA SUCCESSO NELLE TERAPIE INTEGRATE E/O INNOVATIVE

La III sessione si è articolata su un panel di esperti che hanno discusso su casi clinici presentati dal Dr. Andrea Fandella (Urologia Monastier) e dal Dr. Alessandro Bertaccini (Urologia Bologna) intercalati dalle provocazioni metodologiche su base scientifica del Dr. Giovanni Pappagallo (Mirano). Il panel di esperti comprendeva: Gianni Malossini (Urologia Trento), Umberto Tirelli (Oncologia Medica CRO Aviano), Giovanni Mandoliti (Radioterapia Rovigo), Sergio Cosciani Cunico (Clinica Urologia Brescia).

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IV SESSIONE: PROSTATA

La IV sessione, moderata dal Dr. Massimo Dal Bianco, Direttore della Urologia Ospedale S. Antonio di Padova e dal Prof. Sergio Cosciani Cunico, Direttore della Clinica Urologia dell’Università di Brescia, ha visto esperienze a confronto su tematiche riguardanti i tumori della prostata, che si sono sviluppate attraverso una diagnostica di eccellenza anche in caso di minimo aumento del PSA post chirurgia, ad un confronto tra i vari approcci chirurgici (Perineale, retropubica, laparoscopica), tra varie ed innovative tecniche (dall’HIFU alla Crio ad un confronto tra vari accessi nella chirurgia robotica) per discutere poi della prevenzione dell’incontinenza post chirurgica e delle ultime novità in termini di trattamento della stessa. La terapia dell’incontinenza urinaria post-prostatectomia radicale: dove siamo oggi Salvatore Siracusano (Trieste)

Le attuali linee guida sull’incontinenza urinaria dopo prostatectomia radicale per neoplasia prostatica, sono state l’argomento di dibattito della relazione del Prof. Salvatore Siracusano, della Clinica Urologica dell’Università di Trieste. L’incidenza varia dallo 0,8 all’87% secondo i dati pubblicati su Eur Urol 2002 da Augustin e coll. Tale incidenza tende a diminuire con il passare del tempo dalla chirurgia tanto che sembra necessario almeno un follow up d 12 mesi per stabilire l’esatta entità di tale fenomeno. Le strategie terapeutiche, ha spiegato il Prof. Siracusano, spaziano da terapie non invasive a trattamenti chirurgici a trattamenti farmacologici. In questa tabella sono riportati 3 grossi studi sull’approccio non invasivo alla incontinenza. Sulla terapia farmacologica, non ci sono terapie standardizzate ed unanimamente

riconosciute nel trattamento dell’incontinenza. In anni recenti il pefezionamento delle conoscenze sui meccanismi di rilascio di sostanze deputate alla contrazione della muscolatura striata dell’uretra distale sembra aver indirizzato alcuni studi sull’aggiunta della serotonina e noradenalina nell’incrementare il fenomeno cotrattile della muscolatura uretrale (Michel and Peters, BJU 2004). Una recentissima revisione di Borgemann (Dtsch Arzteblatt Int, 2010) indica i vari tentativi di terapia farmacologica. Il 2-5% dei pazienti con incontinenza, presentano una sintomatologia persisitente anche dopo un anno dall’intervento, in questi casi deve essere preso in considerazione

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un approccio chirurgico (injecton therapy, stem-cell therapy, slings, pro-ACT system, artificial urinary system).

L’iniezione di varie sostanze come il collagene, teflon,silicone,grasso acido ialuronico ecc., sono di buona efficacia per periodi di tempo breve in quanto spesso quanto iniettato tende a muoversi determinando una minore efficacia meccanica dello stesso. I vari studi presentati, hanno evidenziato da un 12 % di continenza dopo la prima iniezione ad un 60 % dopo 4 iniezioni (con un 16% che non ha modificato l’incontinenza ed un 24% che ha presentato un lieve migliorameto)(Kylmala e al), al 58% di continenza dopo 4-8 settimane dall’iniezione (Alloussi et al), all’80% di miglioramento dopo 1-2 iniezioni (Imamoglu et al). Sull’uso delle stem cell, è stat proposta l’interessante esperienza del gruppo di Insbruck pubblicata su J Urol nel 2008 (Mitterberger M. et al) su una casisitica di 63 pazienti trattati con iniezione di fibroblasti e mieloblasti (sotto guida ecografica), ottenuti da biopsie della muscolatura. Di questi 63 pazienti, 41 presentavano una ottima continenza dopo 12 mesi dalla iniezione di cellule staminali, 17 dimostravano un miglioramento e 5 non presentavano variazioni dal loro stato di incontinenza. In questa analisi completa, non potevano non mancare le citazioni ad altre procedure di compressione esterna dell’uretra (con l’utilizzo di veri e propri elastici ancorati all’osso). I vantaggi sono legati al fatto di essere una procedura meno invasiva dello sfintere artificiale, che non necessità di revisioni chirurgiche (per anomalie funzionali e/o atrofia dell’uretra), con scarse complicanze, mentre non ci sono dati a lungo termine sul reale matenimento dell’eficacia di tale approccio (Migliari R et al: J Urol 2006). Il lavoro del gruppo di Savona pubblicato su J Urol 2009 (Gilberti C. et al): revisione critica dopo un follow up di 3 anni e quello pubblicato su Eur Urol 2007 (Sousa Escandon et al) su 52 pazienti con follow up mediano di 32 mesi ed un tasso di recuper completo della continenza nel 64% dei casi con miglioramento nel 19,6 % e la disamina delle tecniche e dei materiali usati per tale procedura, sono stati oggetto di interessante ed acattivante revisione. Interessanti anche altre due possibilità terapeutiche presenate: l’impianto di espansori e lo sfntere artificiale. Il posizionamento ottimale dell’espansore (PRO-ACT system) è considerato essere dietro 5-10 mm dalla parte distale del collo vescicale e 2,5 mm lateralmente all’uretra. Le complicanze intraoperatorie di questoimpianto sono sprattutto legate alla perforazione vescicale (2,5%), mentre le complicanze postoperatorie son sorattutto legate alla ritenzione urinaria (1,2%), mentre le tardive sono legate soprattutto alla possibile migrazione dell’impianto protesico (4,8%): il tutto pubblicato su Eur Urol 2010 dal gruppo del “ Luigi Sacco” di Milano su una casisitica di 79 casi (Gregori A. et al). Sullo sfintere artificiale il Prof. Siracusano ha presentato un’ampia revisione della letteratura con una dsamina dei maggiori studi apparsi. Nuove tecnologie e nuovi approcci sono

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necessarie per definire il reale impatto del chirurgo sul paziente con incontinenza dopo chirurgia per neoplasia prostatica, le strade percorse sono molte e tutte promettenti anche se il problema non è vicino dall’essere risolto. Recidive anastomotiche con PSA< 0.2 ng/ml dopo Prostatectomia Radicale Rolando Bertè (Gorizia)

Partendo da un quesito fondamentale sulla distinzione tra recidiva locale o a distanza dopo prostatectomia radicale nei tumori prostatici, il Dr. Rolando Bertè si chiede se sia sufficiente la valutazione dei fattori prognostici o sia Utile anche la Biopsia della Fossa Prostatica. Ci sono dei conetti generali oramai codificati come il valore soglia di recidiva biochimica del PSA più comunemente accettato corrisponde allo 0.2 ng/ml (o meglio due aumenti dopo lo 0,2) e la Recidiva Biochimica si manifesta nel 20-40% dei pz trattati con P.R.; ulteriori importanti concetti generali sono rappresentati da fattori prognostici preoperatori (PSA, Gleason score, numerosità dei campioni positivi, percentuale di coinvolgimento di ogni singolo campione) e postoperatori (Stadio, pT, Gleason score patologico,margini chirurgici positivi,PSA

post chirurgia, PSA DT< 6-10 mesi, PSA azzerato < 2 anni, PSA Velocity>0,75 ng/ml/ anno). I margini chirurgici positivi sono presenti nel 14-46% delle prostatectomie radicali, ed il PSA rimane indosabile dopo la chirurgia a 2-5 anni nel 42-70 % dei casi. Del resto è difficile determinare la presenza di malattia metastatica con valori di PSA così bassi, un PSA<40 ng/ml , presenta una probabilità di esprimere una scntigrafia ossea positiva in meno del 5% dei casi (J.Urol July 2010), mentre con valori < 1ng/ml, solo il 5% delle PET con Colina possono risultare positive, percentuale che sale al 28 % in caso di valori del PSA > 2ng/ml (J.Urol Sept 2010). La RT rimane l’unica opzione terapeutica con potenzialità curativa in caso di recidiva biochimica, importante in tal senso l’introduzione della IMRT – Intensity Modulated Radiotherapy con possibilità di incremento della dose in sede di pT o pN e risparmio degli organi vicini. Nelle Linee Guida la biopsia dell’anastomosi vescico-uretrale non trova una indicazione routinaria, essa è limitata a casi selezionati , in protocolli terapeutici, nei casi in cui viene ecograficamente o alla ER evidenziato un nodulo, oppure nei casi in cui la dimostrazione di recidiva locale influenza la decisione terapeutica. In Letteratura la biopsia dopo PR è stata eseguita in generale con livelli di PSA elevati, con la ricerca di aree ecograficamente evidenti, non eseguendo settori specifici di mappatura, però, si chiede il Dr. Bertè, se il PSA diventa “dosabile” (0.2 ng/ml) per almeno due test successivi “qualcosa” c’è ed inoltre, se PSA da “indosabile” comincia a salire da 0.003 a 0.05 a 0.12 a 0.18 perché devo aspettare la “soglia”? In corso di Biopsia Prostatica ormai non si ricercano più le aree sospette , ma si esegue un mappaggio della prostata e quindi il lecito quesito è del perché devo cercare aree sospette dopo PR se so che queste sono presenti solo se PSA molto elevato ? Non è meglio muoversi prima considerando che la RT di Salvataggio dà migliori risultati con PSA basso? Queste ed altre riflessioni hanno portato il gruppo di Gorizia a esegure uno studio sulle biopsie a livello anastomotico con valori di PSA bassi. L’importante casistica presentata dal Dr. Bertè parte dal 1995 fino al 2010. Sono state eseguite 295 biopsie dell’anastomosi, di queste 50 con valori di PSA<0,2 ng/ml, 29 con valori di PSA tra 0,2 e 0,29 ng/ml. La tecnica bioptica prevedeva la via di accesso transrettale, la vescica non vuota, due campioni nelle regione anastomotica, due a livello del collo vescicale e due nella regione del retrotrigono. Delle 50 bio eseguite per pazienti con PSA<0,2, 7 sono risultate positive , 4 per pazienti il cui stadio era pT2, 1 per pazienti con stadio pT3a e 2 per staddo pT3b (il Gleason all’atto operatorio era < = 7 in 49 pazienti, 8 in un paziente).

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Le biopsie positive tra i 29 pazienti con PSA tra 0,2 e 0,29 sono risultate essere 9, di cui 5/17 in pT2, 3/8 nei pT3a, ¼ nei pT3b. Questa interessantissima esperienza presentata dal Dr. Bertè ci indica una strada da seguire alla luce delle nuove tecnologie in dotazione ai reparti di radioterapia in cui è possibile sia selezionare la dose che indirizzarla in modo sempre più preciso verso un obiettivo stabilito e le conclusioni dell’esperienza non potevano non indirizzarsi in questo senso: non far passare troppo tempo (2 rialzi seriati di PSA in 3 mesi possono bastare), mappare la fossa prostatica (area dell’anastomosi, area del collo vescicale, area del sottotrigono) senza cercare immagini sospette, indicare al Radioterapista le aree istologicamente documentate di recidiva. La continenza nella chirurgia prostatica: prevenzione e terapia. P. De Antoni, F. Bruschi, V. Pezzetta (Chirurgia Generale - Urologia Gemona, Urologia Tolmezzo)

Il Dr. Ferdinando Bruschi dell’ASL 3 (Gemona- Tomezzo), ha portato la propria esperienza sulla tecnica di posizionamento del Sling nella incontinenza post chirurgia per neoplasia prostatica. Dopo una disamina della classificazione eziologica della incontinenza secondo le linee guida EAU 2010 , in cui tale disfunzione viene classificata in relazione ad un deficit sfinteriale (post operatoria, post-traumatica, traumi uretra, prostata, pavimento pelvico, chirurgia per IPB, per RRP per K, cistectomia, post RT,post Brachiterapia crio ecc.) o a cause vescicali (vescica iper attiva, ridotta compliance), il Dr. Bruschi ha parlato dei diversi gradi di incontinenza valutata in base all’incremento in grammi dopo il pad test (assente: incremento< 1gr; lieve: incremento 2-9,9 gr; moderata:

incremento 10-50 gr; severa: incremento > 50 gr), specificando soprattutto ai non addetti, in modo semplice ma rigroso, l’esecuzione del pad test, in accordo con le raccomandazioni della I.C.S. (International Continence Society): 1) il test inizia a vescica vuota 2) viene posizionato il pannolino (pad test) ed inizia il periodo di 1 ora. 3) da 0-15 minuti il soggetto beve 500 ml di liquidi privi di sodio e rimane seduto o a riposo. 4) dai 15-45 minuti il soggetto cammina e percorre gradini equivalenti a salire e scendere di un

piano. 5) dai 45-60 minuti il soggetto compie le seguenti attività: si alza e si siede 10 volte, tossisce

vigorosamente 10 volte, corre sul posto per 10 minuti, si china a terra per raccogliere piccoli oggetti 5 volte, si lava le mani sotto acqua corrente per 1 minuto

6) al termine del test di 1 ora il pannolino viene pesato. 7) il soggetto minge e viene calcolato il volume residuo.

Le cause, dopo prostatectomia radicale, sono molteplici, indagate da vari autori:trauma sfinterico (1989 Hellstrom), nerve sparing (1989 O’Donnel), deficit pressione sfinterica (1990 Tanagho), dissezione chirurgica (1991 Walsh), dissezione apice pr. ed età >70 y. (1993 Gautier), preservazione collo vescicale (1994 Levin), preservazione c. v. in tecnica dissezione (1995 Soloway), radicalità oncologica e pr. c.v.(1996 Gillennwater–Lowe), supporto uretrale post. retto-uretromioplastica (1997 Gomella), risparmio innervazione del trigono (Hauri et al. 2000), supporto uretra posteriore (ric. rabdomiosfintere uretrale) (2007 Rocco). La preservazione del collo vescicale in corso di prostatectomia radicale retropubica non migliora in generale il grado di continenza nel paziente operato ma favorisce un più precoce recupero della continenza stessa, migliorando sensibilmente la qualità di vita e rendendo più accettabile il disagio derivato dall’intervento

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chirurgico. Viene presentata l’esperienza da agosto 2009 ad agosto 2010 su 16 pazienti trattati con tecnica chirurgica omogenea (incisione perineale longitudinale, isolamento del bulbo uretrale, sling T.O., controllo cistoscopico) e con intervento di RRP eseguito da più di un anno, liberi da malattia (non eseguita radioterapia). Di questi 16 pazienti, 14 hanno recuperato la continenza. Tra gli effetti indesidrati: un caso di ematoma, uno di ritardata guarigione della ferita, 2 casi di RAU precoce risolta con Ch, 14 per 5 gg. Tale procedura si è dimostrata sicura e riproducibile con una curva di apprendimento minima che non pregiudica ulteriori opzioni (AUS), con necessaria solamente una strumentazione standard . Le conclusioni dell’intervento del Dr. Bruschi richiamano quello che dovrebbe essere il ruolo della chirurgia nei tumori prostatici ossia: il programma “chirurgico” ideale del Paziente sottoposto a chirurgia prostatica radicale dovrebbe concludersi, nei limiti concessi dallo stadio di malattia, con il ripristino della continenza urinaria nel rispetto della qualità di vita, utilizzando tutti i mezzi tecnici e riabilitativi a nostra disposizione. Prostatectomia radicale robot-assistita: quale approccio? Fabrizio Dal Moro (Padova)

L’esperenza padovana sulla prostatectomia laparoscopica robot-assistita è stato l’argomento della comunicazione del Dr. Fabrizio Dal Moro (Padova). Dopo un’introduzione sull’approccio più idoneo transperitoneale o extraperitoneale, e la presentazione del lavoro pubblicato su Urology 2006 in cui si dibatte l’opportunità di un approccio piuttosto che dell’altro, è stata presentata la casisitica padovana nel perido febbraio agosto 2010. Sono stati trattati 62 pazienti con età mediana di 63 anni (47-75), 42 con accesso transperitoneale (TP), 20 extraperitoneale (EP). Il tempo medio per EP è stato di 138,5 min (80-15), per TP è stato di 116,5 min (63-169), significativamente inferiore: p=0.0054. La posizione del paziente è in

Trendelenburg 20° per EP, 33° per TP. Particolare importanza viene dedicata al posizionamento delle gambe al fine di ridurre al minimo l’incidenza della neuroaprassia per compressione del nervo peroniero ed iperestensione del nervo femorale, una complicanza non osservata se il tempo chirurgico è inferiore ai 180 min (Angermeir et al). Posizionamento trocars: tempo mediano per EP = 3 min (15-45), per TP = 8 min (4-30). Le complicanze sono estremamente contenute sia in termini di lesioni vasolari o intestinali, che lisi

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aderenziali e complicanze post operatorie. Sulle problematiche riguardanti il numero dei linfonodi prelevati, in base a casistiche pubblicate, il numero medio di linfonodi asportati con l’accesso TP era di 13,2, con l’accesso EP 8,7. Dopo la presentazione dei dati della letteratura e dell’esperienza personale, il Dr. Dal Moro conclude la presentazione con un grosso punto interrogativo: nella prostatectomia radicale laparoscopica robot assistita, è più idoneo l’approccio transperitoneale o extraperitoneale? HIFU Nelle Recidive Post Radioterapia Radicale Daniele Maruzzi (Pordenone)

Il trattamento con HIFU nei fallimenti locali dopo radioterapia con intento radicale è stata la comunicazione del Dr. Daniele Maruzzi, esperienza maturata al CRO di Aviano e continuata, con l’acquisto del macchinario deputato, presso l’Ospedale di Pordenone. Circa il 30-40 % dei casi trattati con radioteraia presenta fallimento biochimico. Questo fallimento biochimico è stato ampiamente valutato da una aalisi multivariata apparsa sul Red Journal nel 2008 (Zelefsky Int J Radiat Oncol Biol Phys 2008). Si pone quindi la necessità di definire in modo accurato quali pazienti possano eneficiare di un trattamento locae di savataggio tenendo presente che in liena di massima 2 sono le condizioni

richieste per una terapia di salvataggio: che ci sia una biopsia positiva con temp trascorso dalla radioterapia maggiore di 2 anni, che non ci siano metastasi a distanza (sapendo che al tempo della progressione biochimica, circa il 50% dei pazienti potrebbe avere delle meta occulte). In questa decisione è importante il lavoro apparso su Eur Urol nel 2007 (Thomas K et al) in cui pone l’accento sulle aratteristiche dei pazienti che più favorevolmente potrebbero rispondere ad una terapia locale di salvataggio: stadio iniziale T1-2, PSA DT > 6 mesi, tempo di recidiva > 1 anno, PSA al momento della terapia di salvataggio < 10 ng/ml, Gleason score <=7, biopsia positiva. Dal resto indagini diagnostiche possono essere di aiuto relativo, la scinigrafia ossea ha un valore liitato quando il PSA<1, la TAC potrebbe solo identificare secondarismi linfonodali o a parenchimi raramente presenti al momento della sola recidiva biochimica. Indagini più promettenti sono rappresentate dalla PET con Colina che per sola recidiva biochimica (con PSA<2,5) sembra avere una sensibilità del 89% (Rinnab et al. World I Urol 2009), e la MRI con una sensibilità del 68%, la MRS (Magnetic Resonance Spectroscopy) con una sensibilità del 77%,, la Diffusion MRI (DWI) del 62% : Boukaram et al.( Cancer Treatment Reviews 2010). Quali sono quindi le opportunità terapeutiche potenzialmente curative: Salvage Radical Prostatectomy, Salvage Cryoablation, Salvage Brachy, Salvage HIFU. Dopo la presntazione dei dati delle singole possibiità terapeutiche, il Dr. Maruzzi ha focalizzato l’attenzione sul ruolo del’HIFU, un trattamento non ivasivo, con scarsi effetti collaterali, rietibile, di provata efficacia nei tumori prostatici, che non presenta un aumento delle difficoltà tecniche se eseguito dopo radioterapia

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(trattamento primitivo vs trattamento dopo RT: no differenze). Scuola in questo campo è senz’altro quella francese con una grossa casistica presentata all’EAU 10 (A.Gelet, EAU Barcellona 2010) su 277 casi (19% a basso rischio, 30% a rischio moderato, 43% alto rischio, 8% rischio no definito) con un tempo medio dalla RT di 39 mesi ed un PSA mediano pre-HIFU di 4,6. Ad un follow up di 48mesi (mediano di 40), il PSA nadir mediano era di 0,13 ng/ml, il controllo locale presente nel 65% dei casi e l’Overall Survival a 5 anni era del 87% (a 7 anni del 81%), la sopravvivenza cancro specifica a 5 e 7 anni era rispettivamente del 90% e 86% mentre la sopravvivenza libera da metastasi a 5 e 7 anni era del 87% e 85%. Esaminando i valori di PSA pre HIFU e PSA nadir post HIFU, il gruppo francese ha evidenziato l’importanza di tali parametri a livello prognostico. Per valori di PSA pre HIFU da 0 a 4 ng/ml, la sopravvivenza libera da progressione a 5 anni era del 39%, scendeva al 27% (per PSA tra 4 e 10 ng/ml) e al 15% con PSA pre HIFU > 10 ng/ml. Vi è una stretta correlazione anche con il PSA nadir dopo HIFU: la sopravvivenza libera da progressione, a 5anni, era del 59% per PSA nadir tra 0 e 0,3 ng/ml, del 27% per PSA nadir tra 0,31 e 1,0 ng/ml e del 10% per PSA nadir>10 ng/ml. Sulla tossicità, il gruppo di Gelet ha avuto una incontinenza nel 46% dei casi (20% di Grado I, 18% di Grado 2 e l’8% di Grado 3), fistolizzazione retto-uretrale nello 0,4% dei casi e nessun caso di incontinenza anale. In conclusione il trattamento con HIFU si è dimostrata maggiormente efficace in pazienti con rischio,prima della RT, basso o intermedio ed un PSA al tempo dell’HIFU < 4 ng/ml, si è dimostrata importantissimo a livello predittivo il PSA nadir post HIFU, il tutto con una tossicità accettabile anche se il rischio di stenosi e di incontinenza potrebbe ancora essere migliorato. Confronto tra tecniche di prostatectomia radicale (perineale, retropubica, laparoscopica) Giuseppe Catalano (Pordenone)

Il confronto tra varie tecniche chirurgiche e soprattutto l’esperienza della prostatectomia radicale per via transperineale (RPP) è stato l’argomento di discussione del Dott. Giuseppe Catalano, Direttore della Urologia della Casa di Cura San Giorgio di Pordenone. La RPP è una procedura minimamente invasiva per il trattamento del carcinoma localizzato della prostata, utilizzata nel reparto del Policlinico di Pordenone accanto alla prostatectomia radicale retropubica (RRP) da oltre 18 anni ed i dati presentati si riferiscono all’esperienza unificata su circa 2000 interventi di RPP di due soli chirurghi, rispettivamente del reparto di urologia della Casa di Cura Policlinico San Giorgio di Pordenone e del reparto di Urologia del Dr. Keller della Sanaklinik di Hof in Germania. La

linfoadenectomia nell’RPP veniva una volta eseguita preliminarmente per via laparoscopica. Nel video viene presentato l’intervento di linfoadenectomia estesa , eseguito per la stessa via, simultaneamente alla RPP,con l’aiuto del divaricatore autostatico Omnitract, l’uso di occhiali con potere d’ ingrandimento 4x e luce coerente frontale ad alta intensità. Il Paziente viene posto in posizione litotomica spinta e l’incisione condotta semicircolarmente attorno all’ano, medialmente alle tuberosità ischiatiche. La dissezione per piani, con tecnica soprasfinterica sec. Yung, conduce allo scollamento del m. elevatore dell’ano dalla prostata , successiva preparazione ed apertura del foglietto posteriore della fascia di Denonvillie e dei peduncoli prostatici. Isolata la prostata si prepara fin all’interno dell’apice della ghiandola l’uretra risparmiando il più possibile il muscolo retto uretrale. Deconnessione della prostata dal collo vescicole con tecnica in parte smussa ed in parte tagliente,preparazione delle vescicole

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seminali,sezione delle ampolle ed asportazione del pezzo operatorio. Viene quindi incisa la fascia pelvica un lato alla volta ed una lunga valva del divaricatore autostatico sposta medialmente la vescica permettendo di preparare i vasi iliaci esterni,le arterie iliache interna ed esterna fino all’arteria iliaca comune. Viene eseuita la linfoadenectomia iniziando dalla vena iliaca esterna portandosi poi all’a. iliaca esterna l’interna e la biforcazione dell’a.iliaca comune,per ultima viene svuotata la fossa otturatoria,la linfostasi si esegue mediante clip. Da uno studio prospettico di Keller il numero di linfonodi che normalmente si asportano durante tale tecnica può variare da 19 a 31(bilateralmente).Ciò fa della RPP con simultanea linfoadenectomia una procedura mininvasiva. I risultati di uno studio prospettico multicentrico di paragone tra la RPP,RRP ed intervento laparoscopico senza linfoadenectomia, su casistica omogenea eseguito dai reparti di Salisburgo, Hof e Linz (centri che attivamente collaborano con il Dott. Catalano), ha evidenziato:

Durata media dell’intervento più bassa per la via perineale e più alta per la via laparoscopica.

Perdite ematiche minori per la RPP (circa 200ml) e maggiori per RRP (700ml). Trasfusion rate 0% in RPP, 8% nella laparoscopica, 2% nella RRP. Dolore: catetere peridurale per 3 gg nella RRP, lo score più basso per la RPP Nessuna differenza tra le tre tecniche per quanto riguarda i margini positivi e la recidiva

di PSA Continenza ad un anno migliore per la RPP peggiore per la laparoscopica. Dimissione più precoce e costi inferiori per RPP

Da questo studio e dalla letteratura disponibile si può concludere che tutte e tre le metodiche sono sicure, RRP e RRP sono paragonabili dal punto di vista oncologico, mentre qualche riflessione merita la tecnica laparoscopica in relazione alla durata dell’intervento,alla ripresa della funzione ed alla morbilità. La RPP ha i risultati migliori in termini di durata dell’intervento, perdite ematiche, emotrasfusioni, dolori e funzione menzionale dopo un anno. La tecnica RRP risulta migliore circa la continenza rispetto alle altre, ma solo entro i primi tre mesi. Crioterapia della prostata Carmelo Morana (Pordenone)

Il Dr. Carmelo Morana, Urologo della Casa di Cura Policlinico S.Giorgio di Pordenone, ha parlato della crioterapia nella cura dei tumori prostatici indicando come sia le linee guide dell’EAU che quelle americane dell’AUA pongono la crioterapia come una efficace alternativa terapeutica ai trattamenti considerati standard (Radio e Chirurgia). La crioterapia provoca la morte cellulare attraverso due meccanismi: Quando la temperatura raggiunge il livello ipotermico, l’acqua al di fuori delle cellule inizia a cristallizzarsi, creando cosi un ambiente extra-cellulare iperosmotico che disidrata le cellule stesse. In seguito, ghiaccio

cristallizzato inizia ad aumentare a livello extra-cellulare, le cellule si rimpiccioliscono e di conseguenza le membrane e le cellule che ne fanno parte sono danneggiate in maniera rilevante. L’effetto di disidratazione della cellula a soluzione concentrata, chiamata danno soluzione-effetto (solution effect injury) non è sempre letale per le cellule; la formazione di ghiaccio all’interno

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stesso della cellula, è molto più efficace nella distruzione del flusso delle cellule ed è di solito letale. Il secondo meccanismo è l'aggregazione piastrinica che provoca la formazione di microtrombi nei piccoli vasi sanguigni, che conduce ad un’ischemia nella zona di tessuto rifornito dai vasi sanguigni interessati. Tali modifiche causano necrosi coagulativa e provocano una lesione ben demarcata. In relazione alle EAU Guidelines 2010, le indicaioni alla crioterapia sono: PSA< 20 ng/ml e Gleason <7, tumore organo confinato o con una minima estensione oltre la prostata. La prostata deve avere un volume <40 ml; per le ghiandole > 40ml si effettua un trattamento ormonale per indurre una citoriduzione in modo da evitare qualsiasi difficoltà tecnica nell’inserimento delle cryoprobes sotto l'arco pubico. E 'importante che i pazienti con un'aspettativa di vita >10 anni dovrebbero essere pienamente informati del fatto che non ci sono dati, o solo dati minimi, sui risultati a lungo termine per il controllo della malattia a 10 e 15 anni. Long et al. hanno eseguito un'analisi retrospettiva multicentrica, valutando i risultati di 975 pazienti sottoposti a Crio e stratificati in tre gruppi di rischio. Utilizzando soglie PSA di 1.0 ng / mL e <0,5 ng / mL , il tasso a 5 anni BDFR è stata: 76% e 60% per il gruppo a basso rischio; 71% e 45%, per il gruppo a rischio intermedio; 61% and 36%, per il gruppo ad alto rischio. Un altro lavoro interessante è quello pubblicato su Cancer 2010 (A randomized trial of external beam radiotherapy versus cryoablation in patients with localized prostate cancer. Donnelly BJ, et al. Cancer. 2010 Jan 15;116(2):323-30) in cui 244 uomini sono stati randomizzati a ricevere un trattamento co crio o con radioterapia (tutti hanno avuto una terapia ormonale neoadiuvante). Il follow-up mediano è stato di 100 mesi. Progressione della malattia a 36 mesi: Crioablazione: 23,9% (Phoenix definition, 17,1%); Radioterapia: 23,7% (Phoenix definition, 13,2%). Tra le complicanze, la disfunzione erettile si verifica in circa il 80% dei pazienti e rimane una complicanza coerente della Crio, indipendentemente dalla generazione del sistema utilizzato, altre complicanze della crio sono la desquamazione uretrale in circa il 3%, l’incontinenza nel 4,4%, il dolore pelvico in 1,4%, la ritenzione urinaria in circa il 2% mentre lo sviluppo della fistola di solito è raro, essendo meno dello 0,2% , la sua frequenza aumenta nei re-trattamenti o nei trattamenti dopo fallimento di radioterapia. Circa il 5% di tutti i pazienti richiedono una resezione transuretrale della prostata (TURP) per la comparsa di ostruzione cervico-uretrale. Un ruolo fondamentale ha la Crioterapia di salvataggio dopo fallimento di radioterapia esterna o della brachiterapia, con biopsia prostatica positiva e la conferma dell’assenza di metastasi ossee. E’ raccomandato un intervallo di 2 anni tra radioterapia e crioterapia di salvataggio. Interessante la review presentata da gruppo della Duke University e pubblicato su BJU nel 2010 in cui sono stati messi a confronto gli aticoli pubblicati dal 1982 al 2008 sulle 4 opzioni terapeutiche in caso di ecidiva locale dopo rdioterapia radicale (Chirurgia, Crio, HIFU, Brachi) (Current salvage methods for recurrent prostate cancer after failure of primary radiotherapy. Kimura M, et al :BJU Int. 2010 Jan;105). Un argomento nuovo è l’utilizzo della Crio come terapia focale, a tale proposito un gruppo multidisciplinare di esperti ha pubblicato su J of Endourology (Rosette JDL et al. 2010 : 24:775-780) un Consensus Panel approvato sia dal’ASTRO che dal comitato EAU:il trattamento focale dovrebbe essere proposto in assenza di biopsia positiva sul lobo controlaterale e le caratteristiche quelle di una malattia unilaterale, ≤ T2a, Gleason ≤ 3+4, nessun limite di PSA; la diagnosi fatta mediante biopsia transperineale o biopsia TRUS + RM ed il trattamento dovrebbe prevedere sia la crio che l’HIFU, nel follow-up una valutazione della qualità di vita in base ai questionari già esistenti, una biopsia tra i 6 e 12 mesi dopo il trattamento. Il Dr. Morana ha poi illustrato la propria esperienza dal giugno 206 al novembre 2009 in cui sono stati trattati 40 pz con età media di 75,2 anni (range 69 - 83) ed un valore medio del PSA pretrattamento di 8.12 ng/ml (range 24 – 2,8 ng/mL). Il Gleason score medio era di 6,2.Le classi di rischio erano: 12 casi a basso rischio, 21 a medio rischio e 7 casi di neoplasie ad alto rischio di progressione. Il trattamento, in anestesia spinale, ha avuto una durata media di 119 minuti (90 – 180 min) mentre la degenza postoperatoria media è stata di 2,5 giorni, i pazienti venivano dimessi con catetere vescicale che mantenevano in sede per 10-15 gg. Follow-up medio: 21,5 mesi. La risposta

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biochimica (PSA < 0,5 ng/ml) si è avuta nell’84,0% nei tumori a basso rischio, nel 71,2% in quelli a medio rischio e nel 63,1% in quelli ad alto rischio. Le complicanze: infezioni delle vie urinarie asintomatiche nel 5 %, prostatiti nel 2,5 %, ematuria transitoria nel 8 %, stenosi della uretra nel 2,5 %, sclerosi del collo vescicale nel 12,3%, edema dello scroto nel 20 %, una stress incontinence di grado lieve, ossia l’utilizzo di non più di un pad/die, si è osservata nel 4,1 % dei casi, disfunzione erettile nel 77,8% dei pazienti potenti prima del trattamento. La crioterapia prostatica è pronta per il debutto? Certamente è una valida alternativa, sul debutto in prima linea, una buona risposta è la comunicazione di Pisters (Cryotherapy for prostate cancer: ready for prime time? Pisters LL. Department of Urology, University of Texas, M.D. Anderson Cancer Center, Houston, Texas, USA. Curr Opin Urol. 2010 Mar 10).

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V SESSIONE: PROSTATA

La V sessione, moderata dal Dr. Evangelista Bassi Direttore dell’Urologia di Conegliano e dal Dr. Renzo Zucconelli, Direttore dell’Urologia di Portogruaro, ha visto svilupparsi varie tematiche riguardanti un confronto di esperienze su tematiche innovative nei tumori prostatici, dal ruolo della chemioterapia nei tumori ormono-refrattari (farmaci nuovi e meno nuovi), al ruolo della radioterapia in adiuvante e nei pazienti anziani, alle associazioni con nuovi farmaci ormonali, all’eterno problema dei tumori neuroendocrini, ad argomenti completamente innovativi riguardanti la farmacogenetica. Carcinoma prostatico ormonoresistente: il dopo, vecchi e nuovi farmaci Mariella Sorarù (Camposampiero)

Le problematiche relative alla qualità di vita (quindi palliazione) e quantità di vita (quindi sopravvivenza) nel paziente con tumore della prostata metastatico ormonoresistente, sono state trattate dalla Dr.ssa Sorarù della oncologia medica dell’ospedale di Camposampiero. Le possibilità terapeutiche, in questi pazienti, sono rappresentate dalla chemioterapia, dal mantenimento OT in corso, watch and wait, da terapia ormonale di seconda linea, da radioterapia mirata, uso di radioisotopi, BSC (best supportive care), difosfonati, inserimento in studi clinici. Il problema grosso e a chi proporre un trattamento e quando proporglielo. Dopo una valutazione dei due grossi studi che per primi hanno evidenziato un aumento significativo dell’Overall Survival in pazienti metastatici ormonorefrattari, TAX 327 e SWOG 9916, la

Dr.ssa Sorarù ha posto l’accento su quelli che sono sempre più gli obiettivi dell’oncologo: per ogni paziente va individuato il giusto obiettivo, con la scelta terapeutica piùadatta a raggiungerlo tenendo presente sia il tipo di progressione che il costo per il paziente in termini di effetti collaterali e ricordando che l’aumento della sopravvivenza non significa guarigione. Da una valutazione di un sottogruppo di pazienti nello studio TAX si comprende l’importanza, come fattore prognostico, del PSA elevato e/o elevato doubling time: pazienti con PSA> 114 e DT<55 giorni, avevano una Overall Survival di 14 mesi , paragonata a 24 mesi del gruppo di controllo. I pazienti candidati ad una chemioterapia sono :giovani, anziani fit (se parzialmente fit: valutare wTXT), con buon PS, PSA elevato e/o elevato doubling time, PSA basso con estesa malattia (indifferenziati), malattia

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disseminata, malattia sintomatica (valutare RT combinata), Gleason elevato, breve durata risposta a OT, paziente consapevole e motivato. Quali i candidati a continuare il BAT con un atteggiamento di watch and wait:lenta crescita PSA, solo PSA senza malattia valutabile, anziani “fragili”. Una attenzione particolare alle sindromi ansiose per eccessivo valore dato al dosaggio del PSA, a volte innescate da noi medici (paura di catastrofe imminente se PSA passa da 0,7 a 0,9; consulti con secondo, terzo, quarto specialista ecc.). I candidati ad una terapia ormonale di seconda linea (Estracyt, Estrogeni, Ketokonazolo+cortisone, Corticosteroidi, Abiraterone acetato+ prednisone, nuovi farmaci come MVD3100) sono quei pazienti con lenta crescita PSA, basso Gleason, senza molta malattia, paucisintomatici, senza metastasi viscerali, con malattia già ormonoresponsiva,non candidabili a chemioterapia. Il Ketokonazolo (KC) è un vecchio farmaco che blocca la produzione di androgeni a livello surrenalico, per tale motivo richiede una terapia sostitutiva steroidea (da adattare); richiede pH acido per assorbimento; provoca una rapida riduzione degli androgeni circolanti (livelli abbattuti già dopo 48h ), ed un tasso di risposte biochimiche intorno al 33-62%. Una esperienza dal 2005 al 2010 su 19 pazienti con età mediana di 76 anni (69-81) e tempo mediano intercorso tra l’inizio della terapia ormonale e l’inizio del Ketokonazolo di 45 mesi (16-237), ha evidenziato una risposta biochimica nel 79% dei casi, con una durata mediana di 27 mesi (7+-61). Il dosaggio è stato di 400x2 in 8 casi, 400x3 in 8 casi, 400+200 in un caso, 200x2 in 2 casi, è stata dimostrata una ulteriore risposta con KC dopo una sua sospensione, modesta è stata la tossicità osservata (lievi rialzi transaminasi, riattivazione HBV) con costi contenuti in circa 6 euro/mese (Spagna). Anche la radioterapia ha un ruolo nel paziente metastatico ormonorefrattario sia per terapie mirate sulla singola metastasi che sulla sede più sintomatica che a livello di palliazione in loggia prostatica. In caso di metastatizzazione ossea diffusa un trattamento radiometabolico può portare a riduzione del dolore nel 35-89% dei casi con una durata della risposta di 3-12 mesi. Una chemioterapia di seconda linea viene intrapresa nel 83% dei pazienti in progressione alla prima linea , mentre una chemio di terza linea viene intrapresa nel 40% delle progressioni alla 2° linea. Oltre ai ritrattamenti con Taxotere e all’uso del Mitoxantrone, i farmaci più usati in linee successive alla prima sono: Vinolerbina (ben tollerata ache per os), Carboplatino, Satraplatin (33% di risposte biochimiche; somministrazione orale). Numerosi sono gli studi in corso sia con il docetaxel come base (Txt+thalidomide, txt+bevacizumab, txt+calcitriolo) che con altri tipi di molecole (immunoterapia, target-therapy). Le conclusioni della dottoressa Sorarù sono : Il trattamento del k prostatico ormonoresistente va individualizzato in base a caratteristiche del paziente e caratteristiche della malattia; il Taxotere + prednisone ha dimostrato di prolungare la sopravvivenza, oltre a migliorare la QoL; pazienti con solo progressione del PSA o con poche localizzazioni di malattia vanno valutati per eventuale WW o ormonoterapia 2° linea o radioterapia mirata; oltre al tipo di presentazione, sono utili per valutare l’aggressività della neoplasia anche il tempo di raddoppiamento del PSA, valori di Fal, anemia, Gleason, numero di sedi ossee coinvolte; l’ormonoterapia di seconda linea comprende vecchi (ketoconazolo) e nuovi farmaci (abiraterone acetato), e va considerata sia prima che dopo il TXT; non ci sono trattamenti standard in caso di progressione dopo TXT; opzioni da considerare sono il ritrattamento con TXT o l’inserimento in studi clinici, la palliazione dei sintomi resta una priorità nell’ambito di un approccio multidisciplinare.

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Radioterapia adiuvante Marco Signor (Udine)

Il Dr. Marco Signor della Radioterapia Oncologica di Udine, ha presentato la propria esperienza sul ruolo della radioterapia adiuvante nei tumori prostatici operati, una radioterapia adiuvante (entro 6 mesi) che va distinta dalla radioterapia di salvataggio (dopo 6 mesi). Il razionale sull’indicazione ad una RTE adiuvante sta nel fatto che circa il 40% delle neoplasie prostatiche è in stadio patologico localmente avanzato o con margini positivi, che il “local failure” è prevalente e la RTE sul “surgical bed”, assicurando il miglior controllo locoregionale, potrebbe ridurre l’incidenza di metastasi , inoltre bisogna considerare che la probabilità di eradicare la malattia residua è maggiore quando il carico tumorale è minore; quindi è fondamentale individuare quei fattori di rischio (estensione extra capsulare, margini positivi, invasione vescicole, PSA

elevato post chirurgia, Gleason score sfavorevole, pN+) che possono essere indicativi nell’indirizzare il paziente verso una RTE postoperatoria. Tale trattamento adiuvante dovrebbe avere la finalitàsia di sterilizzare le cellule clonogeniche residue nel letto operatorio che potrebbero promuovere recidiva locale e/o disseminazione secondaria, che migliorare il controllo biochimico/clinico della malattia e impattare sulla sopravvivenza libera da malattia e causa specifica. A supporto del ruolo della radioterapia adiuvante, ci sono 3 grossi studi randomizzati: EORTC 22911 (Bolla M, van Poppel H, Collette L, et al. Lancet 2005;366:572–8); ARO 96-02 AUO AP 09/95 (Wiegel T, Bottke D, Steiner U, et Al. J Clin Oncol 2009; 27: 2924-2930; 2009); SWOG 8794 (Thompson Jr IM, Tangen CM, Paradelo J, et al. JAMA 2006;296:2329–35). Lo studio europeo condotto dal 1992 al 2001 con l’arruolamento di 1005 pazienti classificati come pT3 pN0 con capsula infiltrata o margini positivi o vescicole seminali interessate dopo prostatectoma radicale rtropubica, prevedeva la randomizzazione tra radioterapia (60 Gy) e osservazione. Ad un follow-up mediano di 5 anni, la sopravvivenza libera da progressine clinica e biochimica (primary enpoint) era significativamente aumentata (p=0.0009 e p<0.0001 rispettivamente) nel gruppo con la radioterapia adiuvante ( con un impatto ulteriormente favorevole nei margini positivi: 30%) anche le recidive locoregionali erano inferiori (p<0.0001) , mentre non era ancora dimostrato un miglioramento significativo nella sopravvivenza cancro specifica e nella sopravvivenza libera da metastasi. A fronte di questi vantaggi non si osservava un aumento significativo della tossicità ; nessuna tossicità di grado 4, mentre una tossicità di grado 3, a 5 anni, era osservata nel 4,2% dei pazienti trattati con Radioterapia verso 2,6% di quelli non trattati (p=0.0726). Lo studio tedesco (ARO 96-02 AUO AP 09/95), arruolati più di 300 pz con fattori di rischio istologici e PSA azzerato dopo chirurgia, ha confermato il vantaggio della radioterapia adiuvante in termini di sopravvivenza libera da progressione (p<0.001) senza peraltro impattare in modo significativo sulla overall e metastases-free survival. Lo studio americano (SWOG) ha arruolato 425 persone ,tra il 1988 ed il 1997, che erano randomizzate ad una Rt adiuvante (60-64 Gy) verso una osservazione. L’end point primario era la sopravvivenza libera da metastasi mentre quello secondario includeva la sopravvivenza libera da recidiva clinica e

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biochimica e la overall survival (anche la sopravvivenza libera da terapia ormonale e le complicanze). Lo studio ad una prima valutazione (JAMA 2006;296:2329–35), aveva dimostrato il vantaggio della Rt adiuvante anche se non aumentava in modo significativo la sopravvvenza. Con un follow up maggiore (Journal of Urology 2009; 181:956-962) di 12 anni, la sopravvivenza libera da metastasi era aumentata in modo significativo nel grupo della Rt, con un prolngamento mediano di 1,8 anni. Anche la sopravvivenza (overall) a 10 anni era aumentata nel bracco della Rt adiuvante (74% vs 66%) con un prolungamento mediano dellasopravvivenza di 1,9 anni. Le linee guida europee 2010 indicano nei pz classificati come pT3pN0 con alto rischio di recidiva dopo chirurgia (per margini postivi, per infiltrazione capsulare e/o invasione delle vescicole seminali, con PSA<0,1 ng/ml) i candidati ad una radioterapia adiuvante. Dopo aver parlato della definizione dei volumi da irradiare (con le recenti, 2010, linee guida dell’ RTOG sul clinical target volume) e della incertezza sul reale impatto di una terapia ormonale, il Dr. Signor ha presentato la propria esperienza , in collaborazione con il Dr. S. Fongione ed il Dr. A. Magli, sugli indicatori di qualità in 309 casi trattati con RT adiuvante. Radioterapia nei tumori prostatici dell’anziano Sandro Dal Fior (Belluno)

In un’era in cui vi è probabilmente un eccesso nella diagnosi di tumore prostatico dovuta ad un discutibile impiego del PSA, il Dr. Sandro Dal Fior, Direttore della Radioterapia di Belluno, si chiede che ruolo abbia la Radioterapia in termini di costi e di complicanze soprattutto rapportate al paziente anziano e si pone un quesito fondamentale: gli anziani sono dei “diversi”? Prendendo spunto dal lavoro pubblicato da Etzioni R e coll (Overdiagnosis due to prostate-specific antigen screening: lessons from U.S. prostate cancer incidence trends. J Natl Cancer Inst. 2002), si definisce una “overdiagnosis” quella diagnosi di malattia che non causerà mai sintomi o morte del paziente durante la sua spettanza di vita. L’U.S. Preventive Services Task Force, in relazione ad una diagnosi precoce con l’uso del PSA, raccomanda di non inserire pazienti over 75 in questi programmi

(Ann Intern Med, 2008). Il tumore della prostata spesso è trovato in reperti autoptici di pazienti deceduti per altra causa, con una incidenza che arriva all’80% per pazienti di 80 anni. Uno studio pubblicato su J Natl Cancer Inst nel 2010, ha confermato da un lato l’alto rischio della familiarità e dall’altro che forse sono più necessari studi epidemiologici e genetici che campagne di screening. Interessante quanto pubblicato da Jang e coll. (Arch Intern Med, 2010) sull’influenza degli specialisti nel determinare la scelta di un trattamento nei pazienti anziani. Tra il 1994 ed il 2002, il 50% degli uomini aveva consultato solo l’urologo, il 44% aveva consultato l’urologo ed il radioterapista. Pochissimi avevano consultato l’oncologo medico. La maggior parte degli uomini tra 65 e 69 anni, venivano avviati dall’urologo alla chirurgia, mentre uomini più vecchi, visti dagli urologi, venivano trattati prevalentemente con terapia ormonale. I pazienti visti dal radioterapista e dall’urologo, generalmente venivano avviati ad un programma di radioterapia. Le pubblicazioni sul ruolo della radioterapia nell’anziano al fine di valutarne l’efficacia e gli effetti collaterali sono molte. Uno studio pubblicato su IJROBP nel 1997 su pazienti con età > 80 anni (203 pz con età 80-94 anni di cui 53 con tumori pelvici) ha dimostrato che solo il 6% ha interrotto il trattamento, la risposta terapeutica si è avuta nel 77% dei casi con 67% di risposte complete. Per i trattamenti pelvici, una enterite di gradi 1°2 si è avuta nel 43% dei casi. Le conclusioni: l’età non è una controindicazione da un trattamento radioterapico aggressivo. Un altro lavoro pubblicato nel 2005

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(Hans Geinitza e coll.: Rad Oncol 76 27–34) su pazienti con età > 75 anni trattati con 70 Gy per neo prostatica localizzata e confrontati con un gruppo di pazienti più giovani con le stesse caratteristiche, non ha evidenziato differenze nella tossicità acuta e tardiva tra i 2 gruppi, i pazienti più anziani avevano una migliore bNED a 4 anni rispetto ai più giovani (76% vs 61%, p=0,042). Convenzionalmente si considerano anziani tutti gli individui di età uguale o superiore ai 65 anni. All’interno di un insieme così delimitato esistono però numerosi sottogruppi fra loro fortemente distinti, quali:

i vecchi-giovani o i grandi vecchi appartenenti alle decadi di vita più avanzate; gli anziani autosufficienti; quelli che invece esprimono vari gradi di non autosufficienza, da lieve (solo per alcune funzioni complesse della quotidianità) fino alla dipendenza totale; gli anziani soli che vivono ancora al proprio domicilio; gli anziani istituzionalizzati; quelli con morbidità di rilievo; quelli che patiscono una condizione di grave disagio economico

Sebbene l'età di 65 anni sia frequentemente adottata come arbitrario punto di partenza per definire la popolazione anziana, l'età biologica o fisiologica di un individuo, ossia il suo stato di salute e la sua condizione fisica, è di gran lunga più importante. Essa consente un giudizio più appropriato sulla "robustezza" o "fragilità" del paziente e su come egli/ella possa far fronte all'impatto della terapia. L'età cronologica può, comunque, rappresentare un'utile cornice di riferimento L'età di 70 anni può essere considerata come il limite inferiore di senescenza, in quanto l'incidenza di cambiamenti legati all'invecchiamento comincia ad aumentare bruscamente proprio tra 70 e 75 anni. L'età di 85 anni può essere considerata come un confine superiore oltre il quale vi è rischio di fragilità clinica, in quanto la maggioranza degli individui presenta qualche forma di disfunzione organica, mentre la demenza incide in oltre il 50% degli ultraottantacinquenni. Tuttavia, l'età anagrafica non può essere considerata un criterio assoluto per considerare anziana una persona,come risulta anche dalle differenti categorie di anziano che l'ISTAT definisce sulla base di semplici indicatori demografici. "Anziani giovani": rappresentano circa il 30% della popolazione sopra i 65 anni. Si tratta di individui per i quali l'età è semplicemente un fatto anagrafico. Il Dr. Dal Fior, dopo aver ricordato che nel febbraio del 2003 è nato a Milano (INT) il primo ambulatorio integrato per gli anziani malati di cancro, ha posto l’accento anche sui costi (Regione Veneto, ULSS n.1 – Belluno, 2010) dei vari approcci terapeutici nel tumore della prostata: Radioterapia 3D, costo euro 4484,40; prostatectomia radicale (DRG 334), costo euro 5210,99; prostatectomia radicale (DRG 335), costo euro 7364,86; Enantone 11,25 mg, costo euro 460,14 (239,15); Decapeptyl 11,25 mg, costo euro 524,59 (238,45); Eligard 22,5 mg, costo euro 387,49 (171,90).

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Le associazioni di Radioterapia Esterna e deprivazione androgenica farmacologica: realtà e prospettive Franco Campostrini (Legnago)

Il Dr. Franco Campostrini, Diettore della Radioterapia di Legngo (VR), fa il punto di quello che appare uno degli argomenti attuali di maggiore interesse, ossia l’associazione tra terapia ormonale (OT) e radioterapia (RT). Esiste un razionale ben consolidato, la OT eseguita in fase neoadiuvante alla RT riduce il volume della ghiandola fino al 30-50%. Ne risultano vantaggi sia per la BRT sia per la RT esterna. Inoltre la OT ha un effetto sulle micrometastasi, migliorando la prognosi, DFS OS, FFBF. Tale sinergismo si basa su effetti biologici tale che la OT ha un effetto sinergico con la RT nell’indurre la morte cellulare per apoptosi. Inoltre la OT migliora

la vascolarizzazione e quindi l’ossigenazione del tumore ed infine sposta le cellule dalle fasi attive del ciclo alla fase G0, riducendo il ripopolamento cellulare durante la RT. Alcuni punti, tuttavia, rimangno controversi e oggetto di studio, come il significato della dose-escalation in associazione alla OT, la durata del trattamento farmacologico (breve o lungo periodo) e il timing (neoadiuvante, e/o concomitante, e/o adiuvante). Nei tumori a basso rischio, l’associazione non è stata sufficientemente sperimentata, ma non sembra migliorare l’outcome poiché le probabilità di metastasi sono basse e queste determinano la prognosi .Ne lavoro di G.Lu-Yao (2008) nei pazienti T1-2, a basso rischio, non vi era differenza tra la OTs (7862) e Wait and see (1104) in CSS e OS a 10 anni, tranne in un sottogruppo poco differenziato in cui il miglioramento era solo per la CSS. Nei gruppi di rischio intermedio e alto, l’associazione OTs e RT migliora decisamente la prognosi, con impatto significativo, in alcuni studi, anche sull’overall survival. Visti i risultati un quesito viene spontaneo: La RT a dose escalation + OTs è superiore alla RT standard + OTs ? Studi randomizzati e non randomizzati hanno dimostrato un beneficio delle alte dosi (78-80 Gy) sul controllo biochimico della malattia in pazienti con ca. prostatico ad alto rischio (livelli di evidenza 1-3) e ne giustificano l’impiego. Ma tutti i pazienti ad alto rischio dovrebbero essere trattati anche con OT e quindi servirebbero trials prospettici al fine di valutare l’effettivo beneficio della dose escalation associata alla OT (prospettiva : 78-80 Gy + OT vs. 74-76 + OT). Sulla durata della OT, negli HR la OT neoadiuvante-concomitante ed adiuvante (2 anni) alla RT è statisticamente superiore alla OT neoadiuvante-concomitante (Horwitz 2008) (Livello 1); vi è discreta evidenza che la durata della OT neoadiuvante alla RT dovrebbe essere modulata dalla risposta clinica (Livelli 2 e 3) (Crook J 2009 , Hejmann JJ 2007); una larga metanalisi trascorsa dimostra una superiorità della OT long-term rispetto al regime short-term. (Livello 3) (Roach 2000); al contrario , una metanalisi più moderna di 3 studi randomizzati dimostra sostanziale equivalenza fra 3 anni o 6 mesi di OTs + RT (D’Amico 2006) (Livello 2). Sulle prospettive, il Dr. Campostrini ha parlato del nuovo antagonista del GnRH, il Degarelix, che è in grado di provocare una più rapida caduta del testosterone ed una riduzione più rapida del PSA rispetto all’analogo preso di riferimento (Klotz L et al. BJU Int 2008;102:1531-8) oltre che un vantaggio statisticamente significativo nella rapidità di abbattimento della ALP (Schroder 2010). Nelle fasi avanzate, l’associazione di RT + Degarelix può rappresentare una nuova arma terapeutica per sindromi acute in pazienti ormonoresponsivi.

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I Tumori Neuroendocrini della prostata Antonio Celia (Bassano del Grappa)

Il Dr. Antonio Celia, urologo dell’Ospedale Bassano del Grappa (VI), ha posto alcune certezze su un argomento molto dibattuto e di estrema attualità, i tumori neuroendocrini della prostata che hanno una incidenza fluttuante in un ampio range (30%-100%) a seconda del volume e delle modalità di prelievo del materiale studiato (biopsia, TURP, prostatectomia). Le cellule neuroendocrine (NE) sono distribuite ubiquitariamente nella prostata del neonato, diminuiscono nella zona periferica dopo la nascita per ricomparire nella pubertà. La massima espressione si ha tra i 25 e 50 anni con prevalente localizzazione in sede peri-uretrale. Per identificarle ci si basa sulla microscopia ottica (argirofilia indotta dalle Cromogranine A,B,C; argento-affinità

dove è presente Serotonina), su quella elettronica (granuli secretori citoplasmatici di cromogranine, piccole vescicole chiare contenenti sinaptofisina), sulla immunoistochimica (marcatori comuni a tutte le cellule NE come neurofilamenti del citoscheletro, Cromogranine, NSE ecc, o più specifici quali la Serotonina e la Dopamina, oppure Peptidi ormonali: Somatostatina, Bombesina, Calcitonina, PTHrP), o sulla ibridizzazione in situ (individuazione di mRNA diretti alla sintesi dei prodotti neuroendocrini e di componenti recettoriali). Le ipotesi sulla istogenesi dei tumori NE vanno da una degenerazione delle cellule NE ad una sdifferenziazione delle cellule adenocarcinomatose esocrine fino ad assumere connotazioni NE, ad una degenerazione neoplastica delle cellule totipotenti basali. La diagnosi di tumore NE della prostata è confermata solo dall’esame istologico, mentre l’incremento dei marcatori NE associato a riduzione PSA riflette l’acquisizione del pattern NE del tumore. La CgA si presenta come precoce marker di iper-attivazione del citotipo NE, correlata a progressione/metastatizzazione del tumore in fase ormono-indipendenza. Il tumore NE è caratterizzato da “terminalità” differenziativa (status post mitotico in fase G0), attitudine antiapoptotiche, assenza di recettori androgeni ed il trattamento chirurgico può essere curativo solo nelle forme localizzate. La terapia con analoghi della Somatostatina (Octreotide, Lanreotide, Vapreotide, RC-160) si attua sia con una inibizione diretta della crescita tumorale per azione diretta su recettori di membrana che tramite un impedimento indiretto della proliferazione cellulare neoplastica bloccando IGF e GH ipofisario che rimuovendo gli effetti antiapoptotici esercitati da bcl-2 e survivina. Molti lavori sono stati publicati sull’efficacia del trattamento con analoghi della Somatostatina nel migliorare la sintomatologia dei pazienti. Maulard C e coll. (Cancer Chemother Pharmacol 1995), su 30 pz con CaP ormonoresistente, ha ottenuto un miglioramento del PSA nel 20% dei casi ed una stabilizzazione el 16%, un miglioramento del PS e del dolore osseo nel 40 e 35% dei casi associando il Lanreotide. Dimololous Ma e coll (Urology 2004) hanno pubblicato i dati di uno studio randomizzato su 38 pazienti ormonoresistenti. La randomizzazione era tra Estramustina 140 mg + Etoposide 50 mg giorni 1 e 21 verso lo stesso + Lanreotide 30 mg ogni 14 gg + cortisone (senza sospendere la terapia ormonale). Risultati: riduzione del PSA nel 45% dei pz trattati con chemio, del 44% in quelli trattati con l’associazione; PS migliorato nel 31% e nel 41% (ristettivamente CT e CT+Lanreotide); miglioramento del dolore nel 56% del gruppo con sola CT, 62% nell’altro. Non variazioni nella soravvivenza. Il gruppo di Torino (Berruti e Dogliotti, Prostate. 2001) su 9 casi ormonorefrattari, che presentavano livelli basali di cromogranina superiori alla norma, con un trattamento con Lanretide alla dose di 30 mg ogni 14 gg per 60 giorni, hanno evidenziato una riduzione della Cromogranina in 8 pz. La caratterizzazione del fenotipo neuroendocrino del Ca P ha già dimostrato un ruolo prognostico nel paziente ormonorefrattario e potrebbe, nel paziente ormonosensibile, essere predittiva di

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ormonoresistenza. Le recenti acquisizioni del comportamento dinamico del fenotipo neuroendocrino, con incrementata espressione dopo androgeno deprivazione, suggeriscono un ruolo importante dei livelli di CgA a completamento delle informazioni ottenute con la immunoistochimica. I livelli di CgA non si riducono a seguito di trattamenti antineoplastici specifici come endocrinoterapia o chemioterapia, mentre diminuiscono dopo trattamento con analoghi della somatostatina in pazienti con malattia ormonorefrattaria. Farmacogenetica e personalizzazione della terapia nel carcinoma della prostata Giuseppe Toffoli (CRO Aviano PN)

Il ruolo della farmacogenetica e la personalizzazione dei trattamenti nei tumori prostatici è stato l’argomento affrontato dal Dott. Giuseppe Toffoli, Direttore dell’Unità di Farmacologia clinica e sperimentale del CRO di Aviano. La farmacogenetica è la scienza che si occupa di indagare come le caratteristiche genetiche di ciascun individuo possano influenzare l’effetto terapeutico del farmaco o la predisposizione alla comparsa di effetti indesiderati. Un problema questo di rilevante importanza in campo oncologico. Queste varianti genetiche, definite polimorfismi genetici,

rappresentano alterazioni stabili nella sequenza del DNA di ciascun individuo, presenti in percentuali anche rilevanti della popolazione. Tali varianti sono compatibili con una vita del tutto normale ma possono rendersi evidenti in situazioni di particolare stress per l’individuo, come l’esposizione ai farmaci o alle radiazioni. Ciò accade quando l’alterazione genetica va ad influenzare la capacità dell’individuo di assorbire, metabolizzare, ed espellere il farmaco dall’organismo ( farmacogenetica) oppure va a modificare l’effetto che il farmaco o la radioterapia (radio genetica) svolge sulla cellula. L’obiettivo della farmacogenetica e della radiogenetica è quello di definire dei markers genetici che permettano di individuare, a priori, in quali pazienti un dato trattamento anti-tumorale sarà davvero efficace e in quali pazienti è probabile che si manifestino anche alcuni effetti tossici. Questi markers, predittivi dell’esito della terapia, potranno essere di aiuto nella scelta del farmaco giusto e della dose più idonea di terapia per ciascun individuo. La non ottimizzazione del trattamento farmacologico, con i possibili effetti tossici privi di efficacia terapeutica, rappresenta una delle maggiori criticità per il paziente e un problema di rilevanza economica per l’intera società legato ai costi delle reazioni avverse ai trattamenti farmacologici. Alcune varianti geniche coinvolte nell’azione dei farmaci o della terapia radiante possono anche influenzare il rischio relativo all’insorgenza del tumore e/o possono costituire fattori di prognosi della malattia. Molti effetti biomolecolari legati all’azione dei farmaci sono comuni infatti al trasporto ed al metabolismo di endo o xeno biotici involti nell’insorgenza e nella progressione della malattia o nel riparo del DNA. L’azione della terapia (ormonale o citotossica) nel carcinoma prostatico non è sempre prevedibile e l’evoluzione della malattia rappresenta ancora molti aspetti di difficile comprensione. Generalmente queste forme neoplastiche rimangono indolenti per molti anni , tuttavia in un subset di pazienti il carcinoma prostatico è aggressivo con esiti letali. Recentemente sono stati individuate più di 20 polimorfismi legati al rischio d’insorgenza di cancro prostatico (geni legati al trasporto e al metabolismo ormonale, al riparo del DNA, ecc.). Alcuni di questi polimorfismi è stata associata anche all’aggressività biologica, in particolare il polimorfismo rs4054823 nel cromosoma 17p12 (genotipo TT) che risulta essere più prevalente nei pazienti con malattia aggressiva. Sono state recentemente descritte varianti costitutive del patrimonio genetico dei pazienti in grado di influenzare l’azione dei farmaci o delle radiazioni utilizzati nella pratica

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clinica del carcinoma prostatico. In particolare sono stati descritti polimorfismi a carico di geni involti nel trasporto del trasporto del docetaxel (SLCO1B3 and ABCC2) del suo metabolismo ( CYP 450), dei recettori androgenici e della loro via di “signalling”. Al CRO di Aviano è in corso uno studio di farmacogenetica che riguarda più di 900 pazienti con carcinoma della prostata trattati con radioterapia sono stati analizzati polimorfismi a carico di 37 geni potenzialmente involti nell’effetto radiante. I dati preliminari mostrano un effetto significativo dei polimorfismi XRCC1 26304 C>T e XRCC3 4541 A>G nell’intervallo libero da malattia (disease free survival ) dopo radioterapia radicale. Anche il genotipo “nullo” di un enzima di fase II involto nei processi di detossificazione, l’isoforma M1 dell’enzima glutatione-S-transferasi (GSTM1 null), è risultato significativamente associato ad un aumentato intervalli libero di malattia dopo terapia radiante probabilmente a causa di un maggiore effetto delle radiaziazioni ionizzanti a carico delle cellule tumorali in questi pazienti. In conclusione lo studio dei polimorfismi coinvolti nell’azione dei farmaci (farmacogenetica) o delle radiazioni (radio genetica) rappresenta un potenziale innovativo strumento per la personalizzazione della terapia del carcinoma prostatico. Sono tuttavia necessari studi di validazione dei risulti preliminari riportati in letteratura in casistiche di pazienti sufficientemente numerose ed omogeneamente trattati .

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VI SESSIONE: URETERE, VESCICA, TESTICOLO

La VI sessione, moderata dal Dr. Guglielmo Breda, Direttore dell’Urologia di Bassano del Grappa e dal Dr. Antonio Garbeglio, Direttore dell’Urologia dell’Ospedale di Pordenone, ha visto un confronto di esperienze su tematiche riguardanti le neoplasie delle alte vie, della vescica e del testicolo. Dall’aspetto diagnostico del PDD nei tumori vescicali alla chirurgia delle neoplasie delle alte vie fino ad una esemplificazione pratica attraverso un caso clinico. Non si poteva non accennare al trattamento conservativo dei tumori vescicali, con interessanti proposte di studio. Le complicanze della linfoadenectomia retroperitoneale ed il ruolo della radioterapia come adiuvante nei seminomi hanno rappresentato momenti di discussioni di alto valore scientifico. PDD (Photo Dynamic Diagnosis) nei tumori vescicali Guglielmo Breda (Bassano del Grappa)

Da sempre sperimentatore delle più svariate ed innovative tecnologie, Guglielmo Breda ci porta l’esperienza Bassanese sulla diagnosi fotodinamica della neoplasia vescicale mediante di una sostanza fluorescente e luce blu. In Italia infatti, diversamente che altrove, pochi centri hanno sperimentato l’Hexvix, nome commerciale dell’esaminolevulinato o estere esilico dell’ac. Aminolevulinico, unico farmaco attualmente in utilizzo per la diagnosi fotodinamica. Come ci spiega Guglielmo Breda, la pratica della diagnosi fotodinamica non è un campo inesplorato, ma è solo nell’ultima decade che è diventata ‘utilizzabilè grazie alla sintesi di sostanze

fluorescenti liposolubili in grado di attraversare le membrane cellulari. Tralasciando il razionale che sta alla base di questa pratica, pure ben illustrato da Guglielmo Breda, la presentazione sottolinea come siano numerosi gli studi che dimostrano che sensibilità della diagnosi fotodinamica è superiore di circa il 20% rispetto alla tradizionale cistoscopia a luce bianca; restringendo il campo alla diagnosi di neoplasia in situ, tale aumento raggiunge quasi il 40%. Tale vantaggio rimane

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mitigato da una diminuzione della specificità rispetto alla pratica tradizionale; come mostrano i numeri della serie del centro di Bassano, la proporzione di falsi positivi rasenta il 50%. Nonostante questo svantaggio, i dati presenti in letteratura hanno portato la società europea di urologia a redigere, per opera di un panel di esperti, una consensus paper in cui la diagnosi fotodinamica con esaminolevulinato e luce blu è raccomandata: alla prima resezione endoscopica, in caso di citologie urinarie positive che non trovano riscontro alla cistoscopia tradizionale, in generale per le prime fasi del follow-up nei pazienti con malattia multifocale alla prima diagnosi o con neoplasia in situ. Inoltre, contemporaneamente a questo documento un gruppo multidisciplinare europeo ha portato a termine una metanalisi che oltre a confermare il vantaggio di sensibilità della metodica rispetto alla cistoscopia a luce bianca, conferendo a tale affermazione un livello di evidenza 1a, ha il merito di aver raccolto le informazioni disponibili riguardo l’impatto dell’utilizzo della metodica sull’outcome oncologico, stabilendo che la sopravvivenza libera da recidiva è più lunga quando la diagnosi e la resezione vengono eseguite con l’utilizzo della fotodinamica. Rimane aperto il problema dei costi, che continua ad essere il motivo principale della scarsa diffusione della metodica, nonchè il fatto che rispetto ad una cistoscopia tradizionale la procedura è time-consuming. Chirurgia delle neoplasie dell’alta via escretrice Giacomo Novara (Padova)

Di grande pregio è stata la relazione di Giacomo Novara sulla neoplasia dell’alta via escretrice, tematica per la quale si è speso in prima persona, in collaborazione con colleghi di ben 21 centri sparsi tra Asia, Europa, Canada e USA, nello sforzo di produrre, con rigorose metodologie scientifiche, informazioni sull’outcome oncologico e la sua previsione. Le conoscenze in termini prognostici sono infatti per lo più mutuate dall’analogo istotipo vescicale. Esiste un unico documento orientativo per la gestione delle neoplasie dell’alta via escretrice, fornito dal National Comprhensive Cancer Network, i cui concetti fondamentali sono che la patologia necessita di un trattamento chirurgico, che può essere più o meno demolitivo (nefroureteropapillectomia vs trattamento endoscopico ± terapia topica o ureterectomia terminale) a seconda del grado istologico e della sede della

malattia. Il gruppo di ricercatori ha compiuto lo sforzo di validare il valore prognostico di questi ed ulteriori fattori allo scopo di stratificare il rischio legato alla malattia in termini di sopravvivenza libera da recidiva (RFS) e di sopravvivenza globale (OS), disponendo di una casistica multicentrica che risulta essere, con più di 750 Pazienti, la seconda più ampia al mondo. Tra i risultati più interessanti mostrati da Giacomo, emerge la significatività in termini prognostici di alcune caratteristiche legate alla neoplasia. Si è visto ad esempio che la sede della neoplasia ha un impatto significativo; la neoplasia in sede ureterale ha una RFS più breve rispetto alla neoplasia in sede pielica, così come la neoplasia multifocale, a sede sia ureterale che pielica, influisce in maniera indipendente sia sulla RFS che su OS. Un valore prognostico indipendente è stato dimostrato anche per la neoplasia sessile rispetto a quella papillare, per la presenza di invasione linfovascolare e per la presenza di carcinoma in situ, mentre la necrosi intratumorale, sebbene associata ad altre caratteristiche di aggressività biologica, non ha raggiunto un valore predittivo indipendente. Le implicazioni di queste osservazioni sono evidenti; viene da sè, come risvolto pratico, che i patologi dovrebbero essere inclini a ricercare e riportare queste importanti variabili, ma soprattutto ciò consente di definire più precisamente il destino della malattia, e quindi indirizzare scelte di terapia adiuvante allo scopo di migliorare l’outcome oncologico. Ed è infatti ciò che questo gruppo di

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ricercatori ha in cantiere; Giacomo conclude elencando i ‘lavori in corso’ scaturiti da queste osservazioni, che comprendono la generazione e la validazione di nomogrammi predittivi dell’outcome oncologico post-chirurgico, l’identificazione di markers molecolari legati alle caratteristiche predittive di una prognosi più infausta, e la valutazione dell’impatto delle terapie adiuvanti sulla RFS e OS. Trattamento integrato conservativo nei tumori vescicali Teodoro Sava (Verona)

Teodoro Sava, Oncologo medico dell’Azienda Ospedaliera Università Integrata di Verona, affronta uno degli argomenti più attuali dell’urologia oncologica, ovvero i trattamenti integrati nella neoplasia vescicale muscolo-invasiva erogati allo scopo della preservazione d’organo. La cistectomia radicale con linfoadenectomia pelvica rimane infatti il trattamento che offre i risultati oncologici migliori (sopravvivenza globale 60% circa a 5 anni); a questo non ha aggiunto molto la recente introduzione della chemioterapia neo-adiuvante a base di platino, raggiungendo un beneficio assoluto di sopravvivenza globale a 5 anni del 5%, senza peraltro prescindere dai fattori prognostici classici, ovvero lo stadio della malattia primitiva e dei linfonodi loco-regionali. Tuttavia gli obiettivi enunciati non vanno solo nella direzione

dell’aumento della sopravvivenza globale, ma si spingono verso una necessaria riduzione della tossicità dei trattamenti e il miglioramento della qualità di vita, che in questo contesto significa meno chirurgia (la cistectomia radicale è l’intervento chirurgico con più morbidità in assoluto), no derivazione urinaria e preservazione della funzione sessuale. Il Dr. Sava ha esplorato nella sua relazione quali sono le possibilità attuali di preservare la vescica ottenendo gli stessi outcome oncologici della cistectomia. Storicamente le monoterapie (chemio o radio) non si sono mai dimostrate al pari della cistectomia. Lo schema degli studi più importanti ha visto in generale l’utilizzo della chemioterapia e della radioterapia dopo la resezione endoscopica, sole o variamente associate; la restadizione clinica comprensiva di resezione endoscopica dopo i trattamenti permette poi di selezionare quei Pazienti che hanno ottenuto una risposta completa. Una delle esperienze con i risultati più favorevoli è stata quella Italiana della Dr.ssa Sternberg in cui 104 Pazienti con neoplasia vescicale muscolo-invasiva cT2-4N0M0 sono stati sottoposti a tre cicli dello schema M-VAC dopo la resezione endoscopica, per poi essere candidati alla preservazione della vescica o alla cistectomia radicale in base alla risposta alla chemioterapia definita sulla base di una resezione di restadiazione. Ebbene, circa il 70% di questi Pazienti hanno ottenuto una riduzione di almeno due stadi clinici dopo la chemioterapia, ottenendo una sopravvivenza globale di circa il 70% a 5 anni per stadi post-M-VAC inferiori al T2, contro il 26% degli stadi post-M-VAC T2-T4. Da almeno 15 anni si studia l’efficacia di vari schemi di combinazione di chemio e radioterapia. Come si vede nella figura riportata, le sopravvivenze globali a 5 anni, sono per lo più inferiori o sovrapponibili a quelle della cistectomia, tenendo conto del fatto che in media solo il 40% circa dei Pazienti manterrà realmente la vescica nativa. Gli studi più conosciuti provengono rispettivamente dal Massachussets General Hospital e dall’Università di

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Erlangen, in Geramania, e ancora precedente l’RTOG 8903, che hanno proposto il cosiddetto schema ‘trimodale’. Alla prima resezione segue l’associazione radio-chemioterapia, seguita a sua volta da un’endoscopia di restadiazione; in caso di risposta incompleta il Paziente viene candidato alla cistectomia, altrimenti ad una chemio o radio-chemioterapia di consolidamento con vari schemi a seconda dello studio. Una grande limitazione nell’interpretazione di questi studi è che si tratta esclusivamente di studi di fase II, senza mai un confronto diretto con la cistectomia. Un’implementazione dell’approccio integrato è stata proposta dal gruppo di Trento del Dr. Caffo, che ha introdotto l’utilizzo della gemcitabina rispetto agli studi sopracitati, sfruttando la sua attività nei confronti della neoplasia transazionale e contestualmente la sua proprietà radiosensibilizzante (schmea TRACHIS). Tuttavia, la prosecuzione dello studio in fase 2 è stata problematica, come ci testimonia il Dr. Sava per l’esperienza diretta avuta nel centro di Verona, a riprova della nota difficoltà di portare a termine studi di confronto nella neoplasia vescicale muscolo-invasiva. La conclusione è che la preservazione della vescica non è lo stato dell’arte ma è un’opzione percorribile per quei Pazienti ad esempio che non sono candidabili alla chirurgia o che la rifiutano; è necessario tuttavia tener conto del fatto che il circa il 60% dei Pazienti andrà comunque incontro alla cistectomia, e che la probabilità sarà tanto maggiore quanto minore è la risposta alla chemioterapia di induzione. Su questi presupposti il Dr. Sava prendo lo spunto per stimolare delle prospettive all’interno del GUONE, come ad esempio il completamento della fase 2 dello studio TRACHIS, o una sua evoluzione implementando lo schema con la chemioterapia neo-adiuvante. Gestione caso clinico neoplasia alta via escretrice Pietro Belmonte, Marco Zanon (Portogruaro)

I colleghi di Portogruaro hanno riportato l’esperienza di un caso di neopalsia non muscolo-invasiva dell’alta via escretrice in Paziente ultrasettantenne monorene congenito, in cui si sono adoperati per reiterare il più possibile un atteggiamento conservativo in condizioni non facili. La peculiarità del caso emerge fin dall’esordio, avvenuto con ematuria, insufficienza renale acuta ostruttiva e riscontro radiologico di una neofromazione a carico del polo inferiore del rene superstite. La lesione presenta carattere solido alla TC, ma l’aspetto alla RM è discordante. Nel

frattempo lo studio endourologico della via escretrice comprensivo di esame citologico selettivo rivela un uretere dilatato ma senza segni di patologia. A fronte di episodi di ematuria recidivanti, del persistere della lesione al polo inferiore del rene, che mostra nel tempo diminuzioni ed aumenti delle sue dimensioni, e dell’infruttoso tentativo di controllare il sanguinamento con embolizzazione selettiva dei rami per il polo inferiore, il Paziente perviene ad una resezione polare inferiore del rene superstite ove si pone diagnosi istologica di neoplasia uroteliale papillare di basso grado associata a carcinoma in situ a carico del distretto caliceale inferiore. Il follow-up è caratterizzato dallo sviluppo di una malattia di basso grado in vescica, con citologie urinarie sempre negative, ma dal persistere di episodi di ematuria e, ad un certo momento, dalla ricomparsa della lesione nella sede del polo inferiore, che assume ora aspetto cistico. Al termine di ulteriori tentativi di gestione conservativa, il caso culmina con una nefroureterectomia con riscontro di neoplasia transizionale non muscolo-invasivo di alto grado a carico delle cavità calico-pieliche e dell’uretere. Le criticità che emorgono dal caso sono molteplici, dalla gestione di Pazienti anziani spesso poco adatti alle consolidate terapie chirurgiche, alla identificazione del confine tra preservazione della funzione renale e sicurezza oncologica, alla validità di eventuali trattamenti topici dell’alta via escrterice ed

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alla possibilità di erogarli. Una considerazione in particolare va fatta sulla ineluttabilità della neoplasia in situ ed in generale dell’alto grado per ciò che riguarda la neoplasia transizionale dell’alta via, entrambi fattori che la recente letteratura ha identificato come predittivi indipendenti di cattiva prognosi. Le complicanze della linfoadenectomia retroperitoneale per tumore del testicolo Ivan Matteo Tavolini (Venezia)

Matteo Tavolini, dell’Unità Operativa Complessa di Urologia dell’Ospedale S.S. Giovanni e Paolo di Venezia, noto cultore della materia nella storia più recente della Scuola Padovana, ha presentato una puntuale disamina delle complicanze della linfoadenectomia retroperitoneale (RPLND), bagaglio culturale essenziale per un consesso multidisciplinare qual’è quello delle figure specialistiche che si occupano di questa patologia. Ci ricorda subito che la RPLND primaria e quella eseguita per masse residue vanno trattate in maniera differenziata per ciò che riguarda il profilo delle complicanze, in considerazione del fatto che nel secondo setting si hanno pazienti che hanno subito chemioterapia, per i quali va tenuto conto in particolare della tossicità della bleomicina sulla funzione respiratoria e renale. In generale è un intervento che ha un tasso di complicanze basso, e l’esperienza ha insegnato

che per lo più si tratta di complicanze ‘minori’; per contro, le complicanze maggiori come gli eventi vascolari o intestinali, se pur rare, sono di difficile soluzione e richiedono spesso il ricorso ad un re-intervento. Tra i numeri della tabella mostrata da Matteo risaltano quelli dell’Indiana University, indiscusso centro di riferimento con la casistica di RLPND tra le più cospicue al mondo, che mostra un tasso di complicanze pari al 10% nella RPLND primaria e al 20-21% circa per la RPLND post-chemioterapia. Globalmente gli eventi più frequenti sono l’infezione della ferita (circa 5%), il linfocele (2-3%) ed eventi polmonari del tipo atelettasia/polmonite (5-6%), questi ultimi per lo più appannaggio della RPLND post-chemioterapia. Come è facile comprendere, molte serie evidenziano come in epoche più recenti la frequenze delle complicanze sia inferiore rispetto agli anni ’80-primi anni ’90. Riguardo la mortalità peri-operatoria la voce più autorevole viene da un’analisi recente dei dati del SEER statunitense, da cui emerge che globalmente muoiono lo 0,8% dei pazienti a 90 giorni dall’intervento, con tassi prossimi allo 0% per pazienti più giovani (<29 anni) e che eseguono una RLPND primaria e punte fino a 3-6% per età >40 anni e, rispettivamente, per RPLND post-chemioterapia. Esaminata la morbilità e mortalità in generale dell’intervento, il Dr. Tavolini offre la sua esperienza su alcuni aspetti peculiari delle complicanze dell’intervento. Ci spiega come ad esempio di fronte ad un quadro radiologico di linfocele, che può essere del tutto asintomatico se non ha dimensioni tali da provocare compressione di strutture circostanti, si può porre un problema di diagnosi differenziale con una recidiva sottoforma di teratoma cistico maturo, fino a dover richiedere una puntura con ago sottile per dirimere il dubbio. Peculiare è anche, come si accennava in precedenza, la particolare predisposizione allo sviluppo di complicanze polmonari dei pazienti sottoposti a chemioterapia. Il fenomeno è legato alla tossicità polmonare della bleomicina, che provoca modificazioni in senso fibrotico dell’interstizio alveolare. In tali circostanze sussiste un rischio aumentato di sviluppare un distress respiratorio già all’induzione dell’anestesia, evento che ha una mortalità pari ad un terzo. Per lo stesso motivo tali pazienti sviluppano più facilmente polmoniti e/o atelettasie nel post-operatorio. In fine è interessante la disamine delle complicanze vascolari, le più temibili, che possono richiedere l’utilizzo di innesti vascolari fino all’evenienza più sfortunata di praticare una nefrectomia per lesione irreparabile

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dell’arteria renale. Forte è il messaggio che la probabilità di complicanze vascolari si riduce al minimo quanto più rigorosi sono lo studio dei rapporti tra la massa ed i grossi vasi e la pianificazione pre-operatoria della strategia chirurgica. Radioterapia esterna complementare alla chirurgia nei seminomi Marco Signor (Udine)

I lavori del centro di Radioterapia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Udine sulla radioterapia esterna (RTE) nei seminomi, promossi e presentati da Marco Signor, prendono spunto dall’esigenza, sempre più contingente in epoca moderna, di ottimizzare i trattamenti allo scopo di ridurre la loro tossicità senza compromettere l’eccellente probabilità di sopravvivenza a lungo termine. Ormai acquisiti i dati di evidenza sull’efficacia e sulle dosi della RTE esterna dei campi paraortici per la riduzione del rischio di recidiva retroperitoneale dei seminomi al I stadio, gli obiettivi di ottimizzazione del trattamento vanno ricercati nel miglioramento degli aspetti tecnici dell’erogazione del trattamento. La moderna radioterapia ‘conformazionale’ offre la possibilità di ‘conformare’ l’erogazione RT sul target dettagliando la dosimetria su tutti i volumi d’interesse, ed in questo

contesto i colleghi di Udine hanno lavorato sull’elaborazione di una conformazione ottimale del volume linfatico lomboartico. La tecnica prevede la conformazione del volume target sulla base dei riferimenti di anatomia radiologica vascolare (aorta, vena cava inferiore, vena renale ipsilaterale) mediante l’utilizzo di un campo anteriore analogo a quello tradizionale e due campi obliqui anteriore con gantry angles rispettivamente di 285-300° e 60-70° (3 anterior-oblique fields, 3AOF). Confrontando i dati dosimetrici di un trattamento così programmato con un trattamento conformato secondo i tradizionali fasci rettangolari lomboaortici opposti, antero-posteriore e postero-anteriore (2 opposed fields – 2OF), si è concluso che la tecnica 3AOF fornisce un conformity index significativamente migliore ed una copertura dosimetrica nettamente superiore, ottenendo inoltre una dosimetria più favorevole a livello renale ed epatico. Il messaggio fornito da Marco Signor attraverso l’esperienza riportata è che gli obiettivi di ottimizzazione del trattamento radiante, al fine di garantire a ciascun paziente la migliore personalizzazione volumetrica e dosimetrica, si devono raggiungere attraverso la massimalizzazione della perizia tecnica nel programmare ed ‘ideare’ i trattamenti. Si fa cenno, a questo proposito, anche all’implementazione del calcolo degli indici dose risposta (NTCP, Normal Tissue Complication Probability) mediante software come strategia atta alla ulteriore selezione e personalizzazione del trattamento.

2OF

3AOF

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Approccio multidisciplinare per neoplasia testicolare metastatica Oliviero Lenardon (Pordenone)

Oliviero Lenardon ha presentato un caso emblematico, frutto di una maturata esperienza del centro di Pordenone diretto da Antonio Garbeglio sul trattamento della neoplasia non seminomatosa del testicolo in stadio avanzato. Il caso tratta di un giovane di 30 anni cui nell’anno 2000 viene posta diagnosi di neoplasia germinale non-seminomatosa mista a primitività testicolare con cattiva prognosi secondo IGCCCG (International Germ Cell Cancer Collaborative Group). In particolare il giovane presenta alla diagnosi una malattia retroperitoneale voluminosa, metastasi viscerali polmonari ed extrapolmonari (epatiche) multiple ed elevati livelli di

marcatori sierici (S3). Dopo l’orchifunicolectomia, una prima linea di chemioterapia con schema PEB ed una seconda linea con schema PVI, il quadro clinico è costituito dalla presenza di masse residue retroperitoneali, polmonari bilaterali ed epatiche al lobo destro e sinistro con persistenza di un modesto aumento dell’alfa-fetoproteina. Le soluzioni chirurgiche intraprese sono tanto estreme quanto eleganti, dalla linfoadenectomia retroperitoneale con metastasectomia del I e II segmento epatico in un primo tempo chirurgico, alla metastasectomia polmonare destra e sinistra in due tempi con resezione di 9 lesioni in totale, ed infine all’epatectomia destra preceduta di qualche mese dall’embolizzazione percutanea del ramo portale epatico destro allo scopo di rendere ipotrofico il corrispondente lobo epatico, sede di multiple lesioni residue, ed ipertrofico il parenchima del fegato sinistro rimanente. All’istologia si rileva teratoma maturo a livello retroperitoneale ed assenza di malattia nei restanti pezzi operatori. Il lungo follow-up, pari ad oggi a 10 anni, mantenutosi in stato di non evidenza di malattia, fa di questo caso un’esperienza davvero peculiare, che, al di fuori di una trattazione sistematica sull’argomento, stressa la necessità di una gestione multidisciplinare in una patologia in cui tale approccio offre tra i migliori risultati in campo oncologico.

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VII SESSIONE: RENE

La VII sessione, moderata dal Dott. Alessandro Gava, Direttore della Radioterapia di Treviso e dal Dott. Gaspare Fiaccavento, Direttore dell’Urologia della Casa di Cura Rizzola di San Donà, si è incentrata su esperienze a confronto nella patologia renale, dagli aspetti diagnostici con la presentazione di uno studio di fattibilità con TC perfusionale, alla gestione di tumori bilaterali fino alla chirurgia delle metastasi, ed infine gli aspetti consolidati e non consolidati della terapia medica con i farmaci biologici, con particolare attenzione a quelle che sono le problematiche del paziente anziano. TC con perfusione e tumore del rene: studio di fattibilità Francesca Gigli (Padova)

La Dr.ssa Gigli del gruppo del Prof. Zattoni della Clinica Urologica dell’Università di Padova ha presentato i dati preliminari di un’indagine volta ad indagare la performance della TC con studio di perfusione nella valutazione preoperatoria delle masse renali. L’esperimento prende le mosse dall’incapacità di discriminare pre-operatoriamente la natura di una piccola massa renale, reperto sotto la cui forma si presentano ad oggi oltre il 50% dei tumori del rene, ma che comprende anche una serie di lesioni benigne o meno aggressive che potrebbero, se discriminate, beneficiare di trattamenti diversi dalla chirurgia. Come illustrato dalla Dottoressa, lo studio della perfusione vascolare di una lesione o di un organo in una particolare situazione patologica ha dato dei risultati soddisfacenti in altri settori, ad esempio nella

differenziazione tra diverticolite e neoplasia nelle lesioni del colon-retto; ancor di più, e con particolare interesse per la neoplasia renale, è stata applicata nella determinazione precoce della risposta alle terapie anti-angiogenetiche. Il gruppo del Prof. Zattoni, in collaborazione con l’Istituto di Radiologia dell’Università di Verona, ha pertanto applicato la metodica in 10 pazienti con diagnosi di massa renale con diametro medio di 4,4 cm (range 2-13). Di questi sei sono andati incontro ad intervento chirurgico con possibilità di correlazione tra i riscontri anatomopatologici e i dati di perfusione. Dopo un’esposizione preliminare circa la tecnica di acquisizione e di post-processing, i risultati hanno messo in evidenza che la metodica fornisce informazioni molto utili; la midollare e la corticale hanno un comportamento perfusionale diverso tra loro, come peculiare risulta quello delle masse renali rispetto a corticale e midollare. Inoltre, nell’analisi di correlazione con i dati anatomopatologici relativi ai sei casi operati, è emersa una possibile correlazione tra elevati valori di perfusione ed istotipo a cellule chiare. L’esperienza preliminare del gruppo sancisce

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la possibilità di ottener informazioni utili dallo studio della perfusione con TC; ampliando i numeri ed analizzando approfonditamente le variabili significative, potrebbe essere dimostrato che i dati ottenibili con questa tecnica possono orientare l’iter terapeutico di una massa renale. Tumore renale bilaterale Giuseppe Fornasiero, Evangelista Bassi (Conegliano)

Argomento peculiare quello affrontato dai colleghi urologi di Conegliano, riguardo la gestione delle neoplasie renali bilaterali. Dall’esperienza maturata nel corso degli ultimi 10 anni, periodo in cui la chirurgia nephron-sparing ha avuto la maggiore diffusione, il Dr. Fornasiero ha ricordato i principi metodologici della tecnica e riportato l’esperienza del centro di Conegliano. La chirurgia nephron sparing si basa sul principio che per le neoplasie di piccole bimensioni la terapia conservativa vanta gli stessi indici di sopravvivenza di quella demolitiva. Pilastri della tecnica sono la nefrectomia parziale (resezione polare, resezione cuneiforme), e l’enucleoresezione (asportazione della masserella tumorale, rimozione della pseudocasula che circonda la

neoformazione e rimozione di tessuto sano per spessore di 0,5 cm). La casistica riportata copre il decennio 1999-2009 e comprende 246 casi di neoplasie renali singole, 7 casi di neoplasia renale bilaterale sincrona, 3 casi di neoplasia renale controlaterale metacrona, 3 casi di neoplasia dell'alta via escretice sincrona. L'indicazione alla terapia conservativa in questa casistica è stata posta per masse di diametro non superiore ai 4-5 cm, mentre sono state escluse le masse superiori ai 7 cm e quelle con interessamento del sistema pielo-caliceale. Un atteggiamento discusso, che i colleghi ritengono di fondamentale importanza e che praticano sistematicamente, è la biopsia estemporanea sul letto di enucleo resezione, al fine di limitare la probabilità di recidiva locale. L’approccio alle neoplasie renali bilaterali è stato essenzialmente chirurgico; ove le due neoplasie erano suscettibili di chirurgia conservativa è stato praticato un intervento simultaneo, con accesso laparotomico mediano e aggressione primaria del rene migliore in ischemia calda. Un accenno è stato rivolto alle terapie ablative (Radiofrequenza, Crioablazione, HIFU), ritenendole approcci da riservare a pazienti altamente selezionati, vale a dire con piccole neoplasie incidentali corticali, età avanzata, condizioni generali compromesse, ridotta spettanza di vita, e in casi estremi nel setting metastatico. Chirurgia delle metastasi da carcinoma renale Alessandro Antonelli (Brescia)

Il Dr. Antonelli della Clinica Urologica dell’Università di Brescia affronta un altro argomento che giace nel limbo di quelle pratiche ampiamente condivisibili ma che rimangono orfane di evidenza scientifica. Il Dr. Antonelli ci rimanda al novembre del 2000 quando il Prof. Cosciani, in occasione di un simposio tenutosi a Verona e presieduto dal Prof. Mobilio, enunciava i propri razionali della metastasectomia formulati sulla solida esperienza bresciana: procedura nella maggior parte dei casi facile e sicura, possibilità di una diagnosi di certezza (tenuto conto del fatto che nella casistica bresciana oltre il 15% di lesioni ritenute maligne in realtà non lo sono), e non ultimo, raggiungimento dello stato di ‘tumor free’. Probabilmente tutto ciò è ancora valido, nonostante l’aumento delle

conoscenze della biologia della malattia e lo sviluppo delle terapie biologiche; la metastasectomia

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infatti rimane il trattamento con le più elevate probabilità di rendere il paziente metastatico libero da malattia, evento sostanzialmente raro con i nuovi farmaci che pure hanno il merito di rallentare la progressione. Attraverso l’analisi dell’esperienza bresciana il Dr. Antonelli da ragione di questi concetti e si propone di identificare quali sono i criteri che identificano i pazienti che realmente beneficiano di una terapia chirurgica delle metastasi. La casistica vanta più di 1700 pazienti, con un follow-up medio di quasi 6 anni, di cui 385 riconosciuti affetti da metastasi sincrone o identificate nel corso del follow-up. Nella stragrande maggioranza di questi, il burden metastatico è costituito da una singola metastasi, mentre sono meno di un quarto i pazienti con due metastasi e ancora meno coloro con 3 o più metastasi. La sede più frequente è il polmone, seguita dall’osso, il surrene, il fegato e il cervello. Diversi i tipi di trattamento erogati; oltre alla chirurgia, è stata praticata una qualche forma di trattamento locale associato a terapia sistemica, la sola terapia sistemica, in qualche caso di metastasi ossea la sola radioterapia, oppure nessun trattamento. La metastasectomia è stata eseguita in quasi la metà dei pazienti con metastasi singola e in una minoranza di soggetti con metastasi multiple. Tracciando le curve di sopravvivenza di questa popolazione di pazienti in accordo con le diverse variabili, si dimostra che i fattori predittivi di un outcome più favorevole sono la presenza di una metastasi singola, il non interessamento dei linfonodi loco regionali a parità di numero di metastasi, la terapia chirurgica della metastasi nei soggetti con metastasi singola, in particolare per le metastasi polmonari (per le metastasi osee l’impatto della terapia chirurgica non è in realtà significativo), e, nei soggetti con metastasi singola trattata chirurgicamente, la sincronicità della metastasi oppure una latenza superiore ai 12 mesi. Il vantaggio della chirurgia nei soggetti con metastasi multiple è invece appena appena evidente, non discostandosi molto da quello ottenuto con la sola terapia sistemica. Se di questa popolazione di pazienti si estraggono coloro che sono stati sottoposti a chirurgia per una metastasi singola, sincrona o metacronia con latenza >12 mesi, in assenza di malattia linfonodale documentabile, si vede che un terzo di questi non presentano segni di malattia al follow-up attuale e che globalmente la sopravvivenza di questi pazienti è di oltre 70 mesi. Bisogna tenere conto che questa esperienza è fatta per lo più di casi raccolti in un’epoca di assenza di terapie sistemiche efficaci quanto gli attuali farmaci biologici. Se le informazioni sulla validità della metastasectomia nel paziente correttamente selezionato vengono contestualizzate nella realtà delle moderne terapia biologiche, si delinea la possibilità di un trattamento integrato che ha grandi potenzialità di migliorare l’outcome oncologico anche per i soggetti con metastasi multiple. Ciò è testimoniato dalla citata esperienza congiunta di Houston e della Cleveland Clinic, portata al tavolo dell’ASCO e dell’AUA 2010, in cui la metastsectomia dopo targeted therapy si è dimostrata sicura ed ha portato a prolungati stati di tumor free e ad una dilazione del tempo di comparsa di nuove metastasi. Carcinoma renale metastatico: sequenzialità terapeutiche tipiche Giuseppe Lombardi, Vittorina Zagonel (Padova)

La grande acquisizione degli ultimi 10 anni per la gestione della neoplasia renale metastatica è certamente quella dei farmaci biologici. Pur non essendo farmaci ‘salva-vita’, rappresentano la prima categoria di farmaci a mostrare efficacia nei confronti della neoplasia renale in maniera epidemiologicamente

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misurabile, e il loro utilizzo ha migliorato le sopravvivenze libere da malattia e probabilmente anche la sopravvivenza globale. Al Dr. Lombardi dell’Istituto Oncologico Veneto è toccata la disamina degli studi di fase III che hanno portato alla registrazione di ben 6 farmaci nell’arco di 2 anni (sunitinib, sorafenib, temsirolimus, bevacizumab, everolimus, pazopanib) e le considerazioni su ciò che succede nella pratica clinica, considerato il fatto che i farmaci biologici sono terapie croniche e che ad un certo punto smettono di funzionare. La prima linea di trattamento viene condotta con Sunitinib o Bevacizumab associato all’interferone alfa nei pazienti con carcinoma renale metastatico a rischio basso o intermedio secondo i criteri di Motzer. Temsirolimus ha mostrato, invece, maggiore efficacia in prima linea nei pazienti con malattia ad alto rischio e nei non-cellule chiare. Per quanto riguarda la seconda linea, il Sorafenib è certamente il farmaco che maggiormente viene utilizzato, pur essendo lo studio registrativo eseguito in seconda linea dopo citochine. Di Lorenzo et al (JCO, 2009) in uno studio prospettico di pazienti refrattari al sunitinib e trattati in seconda linea con Sorafenib ha riportato un tasso di risposta obiettiva dopo il primo ciclo di trattamento di circa il 77% a fronte di una scarsa tossicità di grado 3 e 4. Un successivo studio prospettico di Garcia et al (Cancer, 2010) ha analizzato i pazienti trattati in prima linea con Sunitinib o con Bevacizumab+interferone e in seconda linea trattati con Sorafenib. L’autore ha dimostrato che i pazienti trattati inizialmente con Sunitinib avevano un tasso di risposta obiettivo, dopo l’uso del sorafenib, leggermente superiore rispetto ai pazienti che erano stati trattati con Bevacizumab+interferone (54% vs 44%), anche se questa differenza non è risultata statisticamente significativa. Queste informazioni si intersecano con i risultati dello studio registrativo dell’everolimus, che ha mostrato efficacia nei pazienti in progressione con sunitinib o sorafenib, rendendo di fatto il suo uso idoneo sia in seconda che in terza linea. Pur essendo questo schema rafforzato dalle raccomandazioni delle linee guida, rigidamente ispirate all’evidence based medicine, non ci sono ad oggi studi conclusi che definiscano quale sia la migliore sequenza terapeutica; la scelta attualmente deve tener conto di numerosi fattori come la tossicità del farmaco, la comorbidità del paziente, il profilo molecolare del paziente ove possibile e la presenza o meno di fattori prognostici e predittivi per quella determinata terapia, in modo da raggiungere il giusto equilibrio tra efficacia e qualità di vita del paziente. Carcinoma renale metastatico: sequenzialità terapeutiche atipiche Fable Zustovich (Padova)

Stabilito che è la terapia sequenziale la strategia destinata a migliorare gli outcome oncologici del paziente con carcinoma renale metastatico piuttosto che la terapia di combinazione, non è affatto definito quale sia la ‘sequenza’ terapeutica ottimale, come già ribadito nella relazione precedente. E’ l’argomento che il Dr. Zustovich, dell’Istituto Oncologico Veneto di Padova nonché membro del direttivo del GUONE, approfondisce nella sua relazione. La non disponibilità di evidenze sulla sequenza ottimale riconosce diverse ragioni, non ultimo il fatto che l’approvazione dei nuovi farmaci è sostanzialmente recente, e le sequenze sono ad oggi valutate sulla base di pochi studi prospettici e molte serie retrospettive. La citazione da Brian Rini e Ronald Bukowski dà inoltre l’idea di quanto l’utilizzo di questi farmaci sia

sostanzialmente ‘patient tailored’ sulla base dell’attività mostrata dai singoli farmaci negli studi registrativi: l’obiettivo terapeutico finale è ottimizzare la tempistica e la tipologia di trattamento in modo da ritardare il più a lungo possibile il raggiungimento di una quantità di tumore letale per il paziente, mantenendo la miglior qualità di vita possibile. Gli unici due studi prospettici randomizzati sono i già citati TARGET e RECORD-1, rispettivamente riguardo l’utilizzo di

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sorafenib dopo citochine e di everolimus dopo TKI. Entrambi presentano tuttavia delle criticità. Sorafenib ha mostrato superiorità rispetto a placebo dopo citochine, ma ci si pone la domanda se sia ancora attuale un trattamento con citochine. Esistono effettivamente alcune voci che sostengono l’utilizzo di citochine in quei pazienti che hanno dimostrato le migliori risposte, ovvero con fattori prognostici positivi, basso burden metastatico e malattia a lenta crescita, ma nella realtà clinica l’utilizzo dell’interferone è di fatto tramontato. Everolimus ha mostrato una superiorità in seconda linea rispetto al placebo, ma lo studio non consente di stabilire se everolimus sia migliore o meno rispetto agli altri antiangiogenetici. Vickers e coll. hanno pubblicato una ricerca retrospettiva su 216 pazienti, con tutti i limiti del caso, dove parrebbe evidenziarsi un vantaggio in termini di TTF a favore dei non-mTOR anche se tale vantaggio non si conferma all’analisi della sopravvivenza. Inoltre nel gruppo “mTOR” vi era una maggior percentuale di sarcomatoidi e “non-clear cell”. Per contro, esiste un’altra esperienza retrospettiva (MacKenzie, 2010) con temsirolimus dopo TKI o Bevacizumab in cui si è ottenuto un beneficio clinico in circa il 70% dei pazienti valutabili. Particolarmente interessante è lo studio retrospettivo italiano coordinato da Camillo Porta, a cui i colleghi dello IOV hanno dato un contributo, sulla sequenzialità sunitinb-sorafenib versus sorafenib-sunitinib. Da cinque centri italiani sono stati raccolti 189 pazienti, abbastanza omogeneamente suddivisi nelle due sequenze; i dati di questa esperienza mostrano che è evidente la mancanza cross-resistenza tra i due farmaci, che in prima linea vi è differenza di efficacia, e che la PFS sembra maggiore nei pazienti sottoposti alla sequenza sorafenib-sunitinib (17.2 vs 11.7 mesi), in accordo con altre esperienze simili. Altro dato che suscita interesse riguarda l’utilizzo di sunitinib alla progressione dopo un qualche regime a base di bevacizumab. I dati sono prospettici nel contesto di uno studio di fase 2 (Rini, 2009), in cui si è ottenuta una risposta globale del 22% in 62 pazienti con una discreta tollerabilità, se si fa eccezione per la faticabilità di grado 3 che ha interessato circa un terzo dei pazienti. Dati prospettici esistono anche per un antiangiogenetico non ancora registrato, Axitinib, che in una coorte di 62 pazienti in progressione dopo citochine + sorafenib, sorafenib + sunitinib o solo sorafenib ha fornito una PFS media di 7,4 mesi ed una OS di 13,6 mesi con un buon profilo di tolleranza (Rini, 2009). Aneddotico ma curioso è l’utilizzo di bevacizumab in II linea; lo stesso gruppo del Dr. Zustovich ed un altro gruppo italiano hanno condiviso in uno e quattro casi, rispettivamente, PFS sino a 20 mesi. Con la tabella qui riportata il Dr. Zustovich illustra gli studi randomizzati in corso, che forniranno qualche evidenza in più

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sulla gestione delle sequenze terapeutiche nel carcinoma renale metastatico. La conclusione rivolge particolare enfasi al fatto che ad oggi vale la pena di considerare la sequenza di sorafenib-sunitinib seppure sulla base di dati retrospettivi. Ciò anche in considerazione del fatto che, probabilmente, nella pratica clinica attuale la scelta della II linea di trattamento è molto legata alla disponibilità dei diversi antiangiogenetici. Chemioterapia nel paziente uro-oncologico anziano Lucia Fratino (Aviano - PN)

Di grande interessa è stata la voce della Dr.ssa Lucia Fratino, del centro ospitante, che da anni si occupa della gestione dei pazienti oncologici anziani. In ambito uro-oncologico si tratta di un argomento di grande attualità, sia per un motivo epidemiologico (aumento della vita media e conseguente aumento di incidenza delle neoplasie urologiche), sia per il miglioramento degli out come oncologici che, in un modo o nell’altro, aumentano la sopravvivenza globale. Ciò è particolarmente vero per la neoplasia renale, in cui i nuovi farmaci richiedono sostanzialmente un uso cronico, e ci si pone il quesito se questo è possibile nel paziente anziano e quanto impatta sulla sua qualità di vita. Nella prima parte della relazione la Dr.ssa Fratino ha mostrato ciò che si può desumere dai trial registrativi, in cui globalmente si sono arruolati circa

1/3 di pazienti ‘elderly’ (>65 anni), e quanto è stato specificatamente dimostrato tramite le analisi di sottogruppo dei rispettivi trials. Per ciò che riguarda sunitinib, i dati dell’expanded-access trial hanno mostrato che il beneficio clinico nei pazienti >65 anni è uguale a quello della popolazione di studio globale. Un’analisi di sottogruppo dello studio TARGET pubblicata su Oncology ha dimostrato che sorafenib è parimenti efficace nei pazienti elderly, per cui le curve di OS e PFS sono sovrapponibili a quelle dei pazienti <70 anni, ma soprattutto il tasso di eventi avversi di grado

severo è risultato sostanzialmente uguale nei due gruppi. Bevacizumab ha invece mostrato risultati meno brillanti nei pazienti over 65; l’analisi di sottogruppo dello studio AVOREN ha messo in evidenza una PFS leggermente inferiore, fatto probabilmente legato alla minore tolleranza al farmaco (maggiore l’incidenza di tossicità severa) e una conseguente minore intensità di dose sia di

interferone che di bevacizumab. Lo stesso è valso per temsirolimus; l’analisi dei fattori predittivi di risposta ja dimostrato che l’età impatta negativamente sull’efficacia del farmaco in termini di OS. Globalmente i dati suggeriscono una qualche differenza tra i diversi agenti target per ciò che riguarda l’effetto dell’età sul beneficio clinico, mentre la frequenza e la severità degli eventi avversi globalmente non sembrerebbe essere maggiore nei pazienti più anziani, tenendo però conto dei diversi profili di tossicità. Emerge pertanto la necessità, più volte ribadita e ancora più stringente nei

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pazienti anziani, di valutare le implicazioni dei diversi profili di tossicità sulle comorbidità dello specifico paziente. Si pongono quindi un’altra volta al centro della questione le caratteristiche del singolo paziente, anche in termini di età biologica piuttosto che età anagrafica. In quest’ottica infatti la Dr.ssa Fratino ha coordinato uno studio prospettico sull’utilizzo del sorafenib in pazienti anziani affetti da neoplasia renale metastatica screenandoli attraverso il Comprehensive Geriatric Assesment (CGA), uno strumento che si propone di fornire una sorta di indice di candidabilità ad una determinata terapia. Nella seconda parte della relazione sono stati presentati i dati di questa esperienza, peraltro già presentata all’ASCO GU 2008. Il work-flow dello studio è riportato nella figura; in accordo con il CGA, i pazienti vengono suddivisi in tre categorie (‘fit’, ‘unfit’ e ‘frail’) e successivamente candidati alla terapia. Dei 28 pazienti valutati, le cui caratteristiche sono riportate in tabella, ne sono stati trattati 19. Le comorbidità registrate erano per lo più di tipo cardiovascolare (ipertensione, cardiopatia valvolare o ipertensiva), e le terapie croniche più frequentemente assunte erano quelle antipertensive. Come indici di out come sono stati valutati OS e PFS, risultati pari a 16,1 e 5 mesi, rispettivamente. I dati di tossicità hanno mostrato globalmente una bassa incidenza di eventi avversi di grado severo, di cui la più alta è stata quella dell’anemia, verificatasi in 5/19 pazienti; l’analisi dei fattori predittivi per lo sviluppo della tossicità ha dimostrato un hazard di 1.2 per l’esito della valutazione CGA e l’ECOG-PS, e un hazard di 1.8 e 2.5 per la classe II e III di Motzer, rispettivamente. L’esperienza del centro di Aviano suggerisce che l’utilizzo degli antiangiogenetici è possibile anche nei pazienti ultraottantenni e unfit, e che l’utilizzo di una valutazione oncogeriatrica nel processo decisionale terapeutico amplia le capacità di utilizzo di tali farmaci e la gestione degli effetti collaterali, senza escludere gli anziani in base al solo criterio anagrafico.

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