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J.R.R. TOLKIEN LA CADUTA DI GONDOLIN Assemblaggio e giunzioni di Nicolò Masi

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J.R.R. TOLKIEN

LA CADUTA DI GONDOLIN

Assemblaggio e giunzioni di Nicolò Masi

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La Caduta di Gondolin

TUOR E IL SUO ARRIVO A GONDOLIN

Rían, sposa di Huor, dimorava con quelli della Casa di Hador; ma quando nel Dor-

lómin giunse voce della Nirnaeth Arnoediad, e però non aveva notizie del suo signore,

Rían, la mente sconvolta, si addentrò da sola nelle selve. Quivi sarebbe perita se gli Elfi

Grigi non fossero accorsi in suo aiuto. Ché c'era una dimora di questo popolo tra i monti a

occidente del lago Mithrim; e ivi essi la condussero, e Rían vi diede alla luce un figlio

prima che l'Anno di Cordoglio fosse finito.

E Rían disse agli Elfi: « Che il suo nome sia Tuor poiché è quello scelto da suo padre

prima che la guerra ci dividesse. E io vi prego di crescerlo e di tenerlo nascosto sotto la

vostra tutela; perché prevedo che da lui verrà un gran bene per gli Elfi e per gli Uomini. Io

però devo andare in cerca di Huor, mio signore. »

Allora gli Elfi la compassionarono; ma un certo Annael, unico fra quanti di quel

popolo erano andati alla guerra che fosse tornato dalla Nirnaeth, le disse:

« Ahimè, signora, ormai è noto che Huor è caduto al fianco di Húrin suo fratello; e giace,

ritengo, sul gran cumulo di cadaveri che gli Orchi hanno accatastato sul campo di battaglia.

»

Sul che, Rían si levò e lasciò la dimora degli Elfi, e attraversò la terra di Mithrim, e

giunse alla fine allo Haudh-en-Ndengin nel deserto di Anfauglith, e quivi si giacque e morì.

Gli Elfi però si presero cura dell'infante figlio di Hour, e Tour crebbe tra loro; ed era bello

di volto, con i capelli dorati come quelli della stirpe paterna, e divenne forte, alto e valente,

ed essendo stato cresciuto dagli Elfi aveva dottrina e abilità non minori dei principi degli

Edain prima che la rovina piombasse sul Nord.

Col passare degli anni, però, la vita della prima gente di Hithlum, quanta ancora ne

rimanesse, Elfi o Uomini, divenne più che mai ardua e perigliosa. Ché, come altrove si

narra, Morgoth venne meno alle promesse fatte agli Orientali che l'avevano servito,

negando loro le ricche terre del Beleriand su cui avevano posto gli occhi, ed esiliò quella

mala genia in Hithlum, ordinando che vi dimorassero. Ed essi, sebbene più non amassero

Morgoth, continuarono a servirlo per paura, odiando gli Elfi tutti quanti; e spregiavano il

resto della Casa di Hador (gli anziani e donne e bambini, per lo più) e li opprimevano, e ne

sposavano a forza le donne, e si impossessavano delle loro terre e beni, e ne facevano

schiavi i figli. Orchi andavano e venivano per il paese a loro piacimento, perseguendo gli

Elfi ancora viventi nei ridotti montani, e molti erano i prigionieri che trassero alle miniere

di Angband per faticare quali schiavi di Morgoth.

Annael pertanto guidò la sua poca gente alle caverne di Androth, dove condussero vita

dura e circospetta, finché Tuor non fu in età di sedici anni e divenne forte e abile nel

maneggio delle armi, l'ascia e l'arco degli Elfi Grigi; e il cuore gli si accese in petto al

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racconto delle afflizioni del suo popolo, e desiderò andare a trar vendetta sugli Orchi e gli

Orientali. Ma Annael glielo proibì.

« Lungi da qui, a mio parere, è il tuo destino, Tuor figlio di Huor » gli disse. « E

questa terra non sarà liberata dall'ombra di Morgoth finché i Thangorodrim stessi non siano

rasi al suolo. Siamo giunti pertanto alla conclusione di lasciar perdere e di muovere a sud; e

con noi tu verrai. »

« Ma come sfuggiremo alla rete dei nostri nemici? » chiese Tuor. « Perché tanta gente

in marcia tutt'assieme non potrà non essere notata. »

« Non andremo allo scoperto » rispose Annael; « e con un po' di fortuna raggiungeremo il

cammino segreto che noi diciamo Annon-in-Gelydh, la Porta dei Noldor, essendo che la si

deve all'abilità di quel popolo, che l'ha costruita molto tempo fa, ai giorni di Turgon. »

A quel nome Tuor si sentì sommuovere, pur non sapendo perché; interrogò Annael

circa Turgon. « È un figlio di Fingolfin » Annael rispose « e oggi, dacché Fingon è caduto,

è considerato Re Supremo dei Noldor. Poiché ancora vive, temutissimo tra tutti i nemici di

Morgoth, ed è sfuggito al disastro della Nirnaeth quando Húrin del Dor-lómin e Huor tuo

padre tennero i Guadi del Sirion alle sue spalle. »

« Quand'è così, andrò in cerca di Turgon » disse Tuor « poiché certamente mi presterà

aiuto per amore di mio padre. »

« Impossibile » replicò Annael. « Il suo ridotto infatti è celato agli occhi di Elfi e

Uomini, e ignoriamo dove si trovi. Può darsi che qualcuno dei Noldor conosca la strada che

vi mena, ma non lo dirà a nessuno. Comunque, se con loro vuoi parlare, vieni con me come

t'ho già detto, poiché nei remoti porti del Sud non è escluso che ti imbatta in viandanti

provenienti dal Regno Celato. »

Avvenne così che gli Elfi abbandonassero le caverne di Androth, e Tuor con loro. Ma i

nemici ne tenevano d'occhio le dimore, e ben presto seppero che erano in marcia; e non si

erano allontanati di molto dalle colline quando, nella piana, furono assaliti da una forte

schiera di Orchi e Orientali, e ne furono ampiamente dispersi, fuggiaschi nella notte

incombente. Ma nel cuore di Tuor s'accese la fiamma della battaglia, ed egli non volle fug-

gire ma, giovinetto qual era, prese a roteare l'ascia di suo padre e a lungo tenne testa agli

assalitori, molti uccidendone; alla fine, però, venne sopraffatto e, prigioniero, condotto al

cospetto di Lorgan l'Orientale. Ora, codesto Lorgan era considerato il capo degli Orientali e

affermava la propria signoria su tutto il Dor-lómin quale feudo appartenente a Morgoth; e si

prese Tuor per schiavo. Dura e amara fu allora la vita di Tuor, poiché Lorgan si compiaceva

di trattarlo tanto più crudelmente, in quanto era della schiatta degli antichi signori, ed egli

mirava a spezzare, potendolo, l'orgoglio della Casa di Hador. Ma Tuor ebbe saggezza e

sopportò tutte le pene e gli insulti con circospetta pazienza; sicché, con l'andar del tempo la

sua sorte migliorò alquanto, e per lo meno non morì di inedia come invece molti degli

infelici schiavi di Lorgan. Egli era infatti forte e abile, e Lorgan le sue bestie da soma le

nutriva bene, finché fossero giovani e in grado di lavorare.

Ma dopo tre anni di schiavitù, a Tuor finalmente si presentò una possibilità di fuga.

Ormai era giunto quasi a pieno sviluppo, ed era più alto e più svelto di qualsivoglia degli

Orientali; ed essendo stato inviato con altri schiavi a lavorare nei boschi, d'improvviso si

gettò sulle guardie, con un'ascia le spacciò e si rifugiò tra i colli. Gli Orientali gli diedero la

caccia con i cani, ma fu invano; infatti, pressoché tutti i cani di Lorgan erano amici suoi, e

quando lo scovavano gli facevano festa e poi, al suo comando, tornavano indietro di corsa.

E così Tuor giunse alfine alle caverne di Androth e vi dimorò solo. E per quattro anni fu un

fuorilegge nella terra dei suoi padri, torvo e solitario; e il suo nome era temuto perché egli

compiva frequenti scorrerie e uccideva molti degli Orientali in cui si imbattesse. Misero

allora una forte taglia sul suo capo; e però non osavano spingersi fino al suo nascondiglio,

neppure in forze, poiché temevano il popolo degli Elfi e stavano alla larga dalle caverne

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dove questi avevano abitato. Si dice però che Tuor non fosse mosso alle sue spedizioni dal

proposito di vendetta, ma piuttosto dal desiderio di cercare la Porta dei Noldor, di cui gl i

aveva parlato Annael. Ma non la trovava, non sapendo dove cercarla, e quei pochi Elfi che

ancora stessero tra i monti non ne avevano udito parlare.

Ora, Tuor ben sapeva che, ancorché la fortuna continuasse a essere dalla sua, a conti fatti i

giorni di un fuorilegge sono contati e sono sempre più disperati. Né aveva intenzione di

vivere per sempre a quel modo, a guisa di uomo selvatico tra colli senza case, e il cuore lo

spronava a grandi imprese. E qui, si dice, si mostrò la possanza di Ulmo. Il quale aveva

sentore di tutto ciò che accadeva nel Beleriand, e ogni corso d'acqua che dalla Terra-di-

mezzo scendesse al Grande Mare era per lui come un messaggero in entrambe le direzioni;

ed egli continuava a essere amico come un tempo di Círdan e dei Carpentieri delle Bocche

del Sirion1. E a quel tempo Ulmo era soprattutto attento ai destini della Casa di Hador poi-

ché nelle profondità dei suoi propositi voleva far sì che avessero vasta parte nei suoi disegni

di aiuto agli Esuli; e ben sapeva della situazione di Tuor, ché Annael e molti dei suoi erano

riusciti a fuggire dal Dor-lómin, giungendo alfine da Círdan nel lontano Sud.

Avvenne così che un giorno ai primi dell'anno (ventitré ne erano trascorsi dalla

Nirnaeth), Tuor sedesse accanto a una sorgente che fluiva non lungi dall'ingresso della

grotta che lo ospitava, e che volgesse lo sguardo a occidente, al rannuvolato tramonto. Ed

ecco che all'improvviso il suo cuore seppe che non doveva restar lì più a lungo, ma alzarsi e

andare. « Abbandonerò subito la grigia terra della mia gente che più non è » gridò « e andrò

in cerca della mia sorte! Ma dove dirigerò i miei passi? A lungo ho cercato la Porta, ma non

l'ho trovata. »

Diede allora di piglio all'arpa che sempre portava con sé, abile com'era a pizzicarne le

corde, e, incurante del pericolo costituito dalla sua chiara voce solitaria nel deserto, intonò

un canto elfico del Nord per il sollievo dei cuori. E mentre cantava, la fonte ai suoi piedi

prese a bulicare per grande afflusso d'acqua, e traboccò, e davanti a lui un ruscello corse giù

per il pendio roccioso. E Tuor vide in questo un segno, e subito si levò e seguì il rivo.

Giunse così ai piedi degli alti colli del Mithrim e si trovò nella piana settentrionale del Dor-

lómin; e di continuo la corrente cresceva, seguendola egli verso occidente, finché, dopo tre

giorni, poté scorgere in quella direzione le lunghe, grigie creste dell'Ered Lómin, che in

quelle regioni correvano da nord a sud, isolando le remote terre delle Spiagge Occidentali.

Mai Tuor nelle sue peregrinazioni era giunto a quelle alture.

Ed ecco adesso il terreno farsi più rotto e nuovamente sassoso, a mano a mano che alle

alture ci si avvicinava, e ben presto cominciò a salire sotto il piede di Tuor, e la corrente

sprofondò in un letto incassato. Ma, mentre il terzo giorno del suo viaggio cedeva a un

livido crepuscolo, Tuor si trovò di fronte a una parete rocciosa, e in essa era un'apertura

simile a un grande arco; e la corrente l'attraversava e scompariva. Allora Tuor se ne

sgomentò e disse: « Così dunque la speranza mi ha ingannato! Il segno tra i colli mi ha

condotto soltanto a un buio termine, nel bel mezzo della terra dei miei nemici. » E, il cuore

pesante, si sedette tra i massi sull'alta riva del fiume, vigilando per tutta un'amara notte

senza fuoco; perché si era appena al mese di Súlimé e nessun brivido primaverile s'avvertiva

in quella nordica terra remota, e un vento aspro spirava da est.

Ma, quando la luce del sole nascente si diffuse pallida tra le lontane nebbie del

Mithrim, Tuor udì voci e, volgendo lo sguardo all'ingiù, scorse, con grande stupore, due

Elfi che guadavano l'acqua bassa; e come presero a salire lungo i gradini intagliati nella

sponda, Tuor si levò in piedi e diede loro una voce. Subito quelli trassero le spade lucenti e

corsero alla sua volta. E Tuor s'avvide che erano, sì, ammantati di grigio, ma sotto

portavano un giaco di maglia; e se ne meravigliò, poiché erano più belli e terribili a vedersi,

a cagione della luce dei loro occhi, di qualsiasi altro Elfo da lui conosciuto. Si levò in tutta

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la sua statura e li attese; ma come quelli notarono che non impugnava armi, ma che era solo

e li salutava in lingua elfica, rinfoderarono le spade e gli rivolsero cortesemente la parola. E

uno dei due disse: « Gelmir e Arminas noi siamo, della gente di Fínarfin. Non sei tu uno

degli Edain che un tempo abitavano in queste terre prima della Nirnaeth? E anzi ritengo che

tu sia parente di Hador e Húrin, perché tale ti rivela l'oro dei tuoi capelli. »

E Tuor rispose: « Sì, sono Tuor figlio di Huor figlio di Galdor figlio di Hador; ma ora

voglio finalmente andarmene da questa terra dove vivo da fuorilegge e solitario. »

« Quand'è così » replicò Gelmir « se vuoi fuggire e trovare i porti del Sud, i tuoi piedi

ti hanno condotto proprio sulla strada giusta. »

« Era quel che pensavo » disse Tuor. « Ho infatti seguito una sorgente zampillata

all'improvviso tra i colli, finché s'è gettata in questo fiume infido. Adesso però non so più

dove volgere il passo, perché il fiume è sprofondato nelle tenebre. »

« Attraverso le tenebre si può giungere alla luce » osservò Gelmir.

« Ma chiunque preferisce procedere sotto il sole finché lo può » replicò Tuor.

« Poiché però voi a quella gente appartenete, ditemi, se potete, dove si trova la Porta dei

Noldor. A lungo infatti l'ho cercata dacché Annael, mio padre adottivo tra gli Elfi Grigi, me

ne ha parlato. »

Risero allora gli Elfi e dissero: « La tua cerca è conclusa, poiché noi stessi siamo or

ora passati per la Porta. Eccola qui davanti a te! » E indicarono l 'arco sotto il quale l'acqua

fluiva. « Su, vieni! Attraverso le tenebre giungerai alla luce. Noi ti guideremo ma non pos-

siamo andar lontano: siamo inviati nelle terre donde fuggimmo, per una missione urgente. »

« Ma non temere » soggiunse Gelmir: « Un grande destino è iscritto sulla tua fronte, e ti

porterà lontano da queste regioni, suppongo anzi assai lontano dalla Terra-di-mezzo. »

Tuor allora seguì i Noldor giù per la ripa e procedette nell'acqua fredda finché penetrarono

nell'ombra sotto l'arco di pietra. E a questo punto Gelmir cavò una di quelle lampade per

cui i Noldor andavano celebri, perché in tempi antichi erano fabbricate in Valinor, e né

venti né acqua potevano spegnerle e quando le si scappucciava mandavano una chiara luce

azzurra emessa da una fiamma imprigionata in un bianco cristallo 2. E al lume che Gelmir

levava sopra il proprio capo, Tuor s'avvide che la corrente d'un tratto prendeva a scendere

per un dolce pendio penetrando in una grande galleria, ma che, accanto al suo corso scavato

nella roccia, si susseguivano lunghe rampe di scale che conducevano in giù, verso

un'oscurità profonda di là dal raggio della lampada.

Giunti che furono ai piedi delle rapide, si trovarono sotto una gran volta rocciosa, e

qui il fiume si gettava in una precipite cascata con un gran frastuono di cui echeggiava la

volta, poi, superato un altro arco, si immetteva in una nuova galleria. Accanto alla cascata i

Noldor si fermarono e presero congedo da Tuor.

« Adesso dobbiamo tornare e riprendere la nostra strada in tutta fretta » spiegò

Gelmir, « perché nel Beleriand stanno verificandosi eventi pericolosissimi. »

« È dunque giunta l'ora in cui Turgon deve fare la sua comparsa? » chiese Tuor.

Al che gli Elfi lo guardarono sbalorditi. « Questa è una faccenda che riguarda più i

Noldor che i figli degli Uomini » replicò Arminas. « Che ne sai tu di Turgon? »

« Ben poco » rispose Tuor. « So solo che mio padre lo aiutò a mettersi in salvo dalla

Nirnaeth e che nel suo ridotto nascosto dimora la speranza dei Noldor. E, non so perché,

sempre il suo nome mi risuona in cuore e mi sale alle labbra. E se potessi fare di testa mia,

andrei a cercarlo, anziché seguire questa buia strada di paura. O forse questa via segreta è

quella che mena alla sua dimora? »

« Chi può dirlo? » ribatté l'Elfo. « Dal momento che la dimora di Turgon è celata,

segrete sono anche le vie che vi conducono. Non le conosco, benché a lungo le abbia

cercate. Ma se le conoscessi, non le rivelerei né a te né a nessun altro degli Uomini. »

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Intervenne però Gelmir: « Pure, ho udito dire che la tua Casa gode del favore del

Signore delle Acque. E se i suoi propositi ti conducono da Turgon, senza dubbio da lui

arriverai, quale che sia la strada da te seguita. E adesso segui quella cui l'acqua ti ha

condotto dalle colline, e non temere! Non procederai a lungo nel buio. Addio! E non

credere che il nostro incontro sia stato casuale, poiché l'Abitatore del Profondo ancora

regge molte fila in questa terra. Anar kaluva tielyanna! » 3

Ciò detto, i Noldor si volsero e risalirono la lunga scalinata; ma Tuor rimase dov'era,

finché la luce della loro lampada non scomparve e si ritrovò solo in una tenebra più

profonda della notturna, tra il fragore delle cascate. Poi, facendo appello al proprio

coraggio, posò la sinistra sulla parete di roccia e riprese ad andare, dapprima lentamente,

quindi sempre più in fretta a mano a mano che s'abituava al buio e non trovava nulla che gli

impedisse il passo. E dopo molto tempo, o almeno così gli parve, stanco e tuttavia poco

propenso a concedersi riposo nella negra galleria, scorse lontano davanti a sé una luce; e

affrettando il passo giunse a un alto e stretto crepaccio, e seguì la corrente fragorosa che,

intrufolandosi tra le pareti incombenti, lo immise in una sera dorata. Era giunto infatti in un

profondo burrone con alte, ripide pareti, che andava diritto verso ovest; e di fronte a lui il

sole al tramonto, che calava in un cielo limpido, spandeva i suoi raggi nella ravina,

accendendone le pareti di giallo fuoco, e le acque del fiume scintillavano come oro,

rompendosi e schiumeggiando sulle tante pietre luccicanti.

Per il profondo spacco Tuor procedette ora pieno di speranza e di gioia, lungo un

sentiero che aveva scoperto al piede della parete meridionale, parallela a un'angusta riva. E

quando scese la notte, e il fiume continuò a frusciare invisibile salvo per un barlume di alte

stelle riflesse in negre pozze, finalmente si concesse riposo e dormì; poiché non aveva

paura lì accanto all'acqua nella quale fluiva il potere di Ulmo.

Allo spuntar del giorno, riprese il cammino senza fretta. Il sole sorse alle sue spalle e

tramontò di fronte a lui, e là dove l'acqua schiumeggiava attorno ai massi o si precipitava in

abrupte cascate, al mattino e alla sera arcobaleni scavalcavano la corrente. Per questo egli

denominò la gola Cirith Ninniach.

Così Tuor proseguì lemme lemme per tre giorni, bevendo l'acqua fredda ma senza

desiderio di cibo, sebbene molti fossero i pesci che balenavano come argento o splendevano

di colori simili a quelli degli arcobaleni tra i sovrastanti vapori. E il quarto giorno la gola

s'allargò, le sue pareti si fecero più basse e meno ripide; il fiume però correva ancor più

profondo e tumultuoso, perché alti colli si susseguivano d'ambo i lati e nuove acque si

gettavano in Cirith Ninniach con sfolgoranti cascate. Qui a lungo Tuor sedette, a osservare

il mulinare delle acque e prestando orecchio alla loro voce senza fine, sinché ancora calò la

notte e stelle s'accesero fredde e bianche nella buia fetta di cielo sopra il suo capo. Allora

levò la voce e pizzicò le corde dell'arpa, e sopra il fragore delle acque il suono della sua

voce e i dolci accordi dello strumento furono riecheggiati dal sasso e moltiplicati, e si

propagarono rimandati dalle colline che la notte ammantava, finché la terra vuota fu

riempita di musica sotto le stelle. Ché, sebbene lo ignorasse, Tuor era giunto ai Monti

Echeggianti di Lammoth sul Fiordo di Drengist. Lì, molto tempo prima, Fëanor era giunto

dal mare, e le voci della sua schiera si erano gonfiate in possente clamore sulle coste del

Nord prima che la Luna sorgesse4.

Allora Tuor fu colto da meraviglia e si tacque, e lentamente la musica smorì tra i colli e

fu silenzio. E poi, in quel silenzio Tuor udì, nell'aria sopra di lui, uno strano grido, senza

che riuscisse a immaginare da quale creatura fosse emesso. E ora si diceva: « È una voce

incantata», e ora invece: «Macché, è un animaletto che geme nelle solitudini»; e poi,

riudendola, si diceva: «Ma sì, non è che il grido di qualche uccello notturno a me ignoto. »

E gli sembrava fosse un suono dolente, e tuttavia desiderava di udirlo e seguirlo, poiché

chiamava lui, verso dove Tuor non sapeva.

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Il mattino successivo udì la stessa voce sopra il proprio capo, e levando lo sguardo scorse

tre grandi uccelli bianchi che volavano lungo la gola contro il vento dell'ovest, e le loro

forti ali splendevano nel sole appena sorto, e passando sul suo capo gli uccelli stridettero

forte. Così per la prima volta egli vide i grandi gabbiani amati dai Teleri, e allora si levò per

seguirli e, per meglio vedere dove andassero, si arrampicò sulla ripa a manca e stette sulla

sommità e sentì un gran vento che, soffiando da ovest, lo investiva facendogli svolazzare i

capelli. E Tuor aspirò a fondo l'aria nuova e disse: «Questa rallegra il cuore come se si

bevesse vino freddo! ». Non sapeva però che il vento spirava direttamente dal Grande

Mare.

Tuor riprese il cammino, cercando con lo sguardo i gabbiani, alti sul fiume; e come

procedeva, i fianchi del burrone tornarono a convergere, ed egli giunse a uno stretto

passaggio, tutto pieno di un gran rumore di acque. E, guardando in giù, Tuor scorse quella

che gli sembrò essere grande meraviglia, perché un flusso violento risaliva la strettoia

lottando con il fiume che continuava a correre, e un'ondata simile a una parete si levò sin

quasi alla cima della scogliera, crestata di spume che il vento faceva volare. Poi il fiume fu

respinto, e il flusso entrante s'avventò ruggendo nel varco, sommergendolo con acque

profonde, e il rotolio dei macigni era come tuono che passa. Così Tuor fu salvato, dal

richiamo degli uccelli marini, da morte sicura nella marea montante; e fu gran cosa,

considerata la stagione dell'anno e il forte vento che spirava dal mare.

Ma Tuor era ormai sgomentato dalla furia di quelle strane acque, e si volse e

procedette verso sud, per cui non giunse alle lunghe rive del Fiordo di Drengist, ma per

qualche giorno ancora s'aggirò in un'aspra contrada priva di alberi e spazzata da un vento

marino, e tutto quanto vi cresceva, erba o cespuglio, era piegato verso oriente perché il

vento soffiava perennemente da ovest. Fu così che Tuor passò nel Nevrast, dove un tempo

era vissuto Turgon; e alla fine, senza avvedersene (poiché le cime delle rupi al margine

della contrada nascondevano i declivi retrostanti), all'improvviso si trovò sul nero margine

della Terra-di-mezzo, e scorse il Grande Mare, Belegaer il Senzarive. E in quel momento il

sole calò dietro il limite del mondo, come un enorme incendio; e Tuor rimase solo sulla

scogliera, le braccia spalancate, il cuore colmo di un'ardente brama. Si dice che fosse il

primo degli Uomini a raggiungere il Grande Mare, e che nessuno, salvo gli Eldar, abbia

avvertito più profondamente la smania che suscita.

Tuor trascorse molti giorni nel Nevrast, e ci si trovò bene perché il paese, difeso

com'era da monti a nord e a est e dalla parte del mare, aveva un clima più mite e favorevole

delle piane di Hithlum. Da lungo tempo era abituato a cavarsela da solo, cacciando per le

selve, né lì il cibo gli mancava; la primavera infatti era in pieno rigoglio nel Nevrast, l'aria

risuonava delle grida degli uccelli, sia quelli che frequentavano, ed erano moltitudini, le

rive marine, sia quelli che abbondavano nelle paludi di Linaewen nel mezzo delle terre

basse; ma in quei giorni nelle solitudini non si fece udire voce né di Elfo né di Uomo.

Tuor giunse nei pressi della grande palude, ma non poté scendere all'acqua a causa

degli ampi pantani e delle foreste di canne impenetrabili che la circondavano; e ben presto

tornò alla costa, attratto com'era dal mare, e non voleva dimorare a lungo dove non si

udisse il suono delle onde. E fu sulle rive che Tuor per la prima volta rinvenne tracce degli

antichi Noldor. Infatti, tra le scogliere alte ed erose dal mare di Drengist molte erano le

insenature e le calette ben protette, con spiagge di candida sabbia tra le nere rocce rilucenti,

e Tuor trovava spesso scale serpeggianti tagliate nella viva roccia, che vi conducevano; e

sulla battigia si vedevano moli in rovina, costruiti con grandi blocchi ricavati dalle

scogliere, dove un tempo attraccavano navi elfiche. In quelle zone a lungo Tuor rimase,

osservando il mare di continuo mutevole, mentre lentamente l'anno declinava nella

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primavera e nell'estate, e le tenebre si infittivano nel Beleriand, e si avvicinava l'autunno

del destino di Nargothrond.

E forse, uccelli videro da lungi il Funesto Inverno che stava per sopraggiungere 5; tant'è che

quelli di loro abituati a migrare a sud si radunarono prematuramente per la partenza, mentre

altri, adusi a venire nel nord, giunsero ai loro nidi nel Nevrast. E un giorno che Tuor se ne

stava sulla riva, udì il fruscio e il cigolio di grandi ali e, volgendo lo sguardo in su, scorse

sette candidi cigni che volavano in rapido cuneo verso sud. Ma quando furono proprio

sopra di lui, rotearono e subitamente scesero, ammarando con un grande scroscio e

tramestio di acque.

Tuor amava i cigni che gli erano noti dai grigi stagni di Mithrim; e i cigni, poi, erano

stati l'emblema di Annael e del suo popolo adottivo. Si levò quindi per salutare gli uccelli, e

diede loro una voce, meravigliandosi a vederli più grandi e più fieri di ogni altro esemplare

della loro specie che avesse visto in precedenza; ma quelli batterono le ali e lanciarono

aspre strida, quasi fossero in collera con lui e volessero tenerlo lontano dalla riva. Quindi,

con gran fracasso tornarono a levarsi in volo passandogli sopra la testa, e l'impeto delle loro

ali lo investì come un vento sibilante; e, roteando in ampio cerchio, gli uccelli salirono alti

e sparirono verso sud.

Allora Tuor gridò: « Ecco un altro segno che ho indugiato troppo a lungo! ». E subito

s'arrampicò in cima alla scogliera, e di lassù scorse i cigni ancora roteanti in alto; ma

quando volse il cammino a sud, apprestandosi a seguirli, quelli via se ne andarono.

Tuor continuò a procedere verso sud lungo la costa per sette giorni, e ogni mattina a

svegliarlo era il rombo delle ali sopra il suo capo all'alba, e ogni giorno i cigni

continuavano il volo ed egli li seguiva. E come andava, le grandi scogliere si fecero più

basse, mostrando sommità fittamente rivestite di zolle fiorite; e laggiù a est erano boschi

che viravano al giallo nello scorcio dell'anno. Ma davanti a lui, più vicina ancora scorse una

successione di grandi alture che gli sbarravano il passo e che, andando da est a ovest, qui

culminavano in un alto monte: un torrione scuro, ammantato di nuvole che, drizzato su

spalle possenti, dominava un grande capo verde che si protendeva nel mare.

Quei grigi colli erano in effetti le propaggini occidentali degli Ered Wethrin, la barriera

settentrionale del Beleriand, e il loro culmine era Monte Taras, la più occidentale delle

cime del paese, il cui cocuzzolo un marinaio avrebbe scorto da miglia e miglia di distanza,

mentre andava avvicinandosi alle rive mortali. In giorni andati, a piedi dei suoi lunghi

declivi, Turgon aveva dimorato nelle aule di Vinyamar, la più antica delle opere in pietra

erette dai Noldor nella terra del loro esilio. E ancora si drizzava Vinyamar, deserta ma

imperitura, alta sopra grandi terrazze che affacciavano sul mare. Gli anni non l'avevano

minata, e i servi di Morgoth le erano passati accanto; ma vento, pioggia e gelo l'avevano

segnata, e la superficie dei muri e i lastroni del tetto erano coperti di un fitto di piante

grigioverdi che si nutrivano di aria salmastra e prosperavano persino nelle fessure tra le

nude pietre.

Ed ecco che Tuor giunse ai resti di una strada abbandonata, e passò tra grandi cumuli

di pietre crollanti, e così pervenne, mentre il giorno moriva, all'antica aula e alle sue ampie

corti ventose. Non vi si acquattava ombra di paura o di male, e tuttavia Tuor fu pervaso da

un timore reverenziale al pensiero di coloro che vi avevano dimorato e se n'erano andati,

nessuno sapeva dove: la fiera gente, immortale ma colpita dalla malasorte, giunta da

lontano oltre il mare. E si volse e spinse lo sguardo, come tante volte avevano fatto coloro,

oltre lo scintillio delle acque agitate, fino al limite dell'orizzonte. E quando tornò a volgersi,

s'avvide che i cigni erano atterrati sulla terrazza più alta e stavano di fronte alla porta

occidentale dell'aula; e batterono le ali, e a Tuor parve che gli facessero cenno di entrare.

Allora salì l'ampia scalea semisommersa dai rovi e dai licheni, e passò sotto il possente

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architrave ed entrò nelle ombre della casa di Turgon, giungendo alfine a una sala dalle alte

colonne. Per grande che fosse apparsa dall'esterno, ancor più vasta e imponente sembrò a

Tuor dall'interno, e pieno di reverenza egli si propose di non risvegliare gli echi nello

spazio vuoto. Nulla vi vide, se non il fianco di un alto seggio sopra una predella, e Tuor si

avviò a quella volta più silenziosamente che poté; ma il suono dei suoi piedi echeggiò sul

pavimento lastricato quasi i passi della sorte, e si diffuse, precedendolo, per le navate.

Quando fu davanti al grande seggio nella semioscurità, e s'avvide che era scolpito in un

unico masso e che recava iscritti strani segni, il sole al tramonto venne a trovarsi in

corrispondenza di un'alta finestra sotto il frontone occidentale, e un raggio di luce colpì la

parete di fronte a lui, che ne risplendette quasi fosse di metallo brunito. E allora Tuor

s'avvide, e se ne stupì, che sulla parete dietro il trono pendevano uno scudo e un grande

usbergo, un elmo e una lunga spada nel fodero. L'usbergo brillava come se fosse forgiato di

lucido argento, e il raggio di sole lo ornava di scintille d'oro. Lo scudo era però di forma

che parve strana a Tuor, lungo e sfilato com'era; il campo era blu, e al suo centro spiccava

l'emblema, un'ala di candido cigno. Allora Tuor parlò e la sua voce si levò quasi a sfidare il

tetto: « Per questo segno prenderò queste armi, caricandomi della sorte che ciò comport i6. »

Staccò lo scudo e costatò che era leggero e maneggevole più di quanto non avesse

supposto; ché appariva fatto, o così sembrava, di legno ma ricoperto, grazie all'abilità di

elfici fabbri, di placche metalliche, forti eppure sottili come foglia, che l'avevano preservato

da tarli e intemperie.

Poi Tuor si rivesti dell'usbergo, si piantò l'elmo in testa, si cinse della spada; neri erano

fodero e cintura con borchie d'argento. Così armato, uscì dall'aula di Turgon e stette sulle

alte terrazze di Taras nella rossa luce del sole. Nessuno era a vederlo, ed egli volse lo

sguardo all'occaso che splendeva d'oro e d'argento, e seppe che in quel momento aveva

l'aspetto di uno dei Signori dell'Ovest, e adatto a essere padre dei re dei Re di Uomini oltre

il mare, com'era invero sua sorte di essere7; ma rivestirsi di quelle armi comportò un

mutamento per Tuor figlio di Huor, e il cuore gli si ingrandì in petto. E mentre usciva dalle

porte, i cigni lo riverirono, e ciascuno strappandosi una penna dalle ali gliela offerse, sten-

dendo il lungo collo sulla pietra ai suoi piedi; e Tuor prese le sette penne e ne ornò la cresta

dell'elmo, e subito i cigni si levarono e volarono verso nord nel tramonto, né più Tuor li

rivide.

Ed ecco, i suoi passi furono attratti verso la riva del mare, e scendendo una lunga

scala egli giunse a un'ampia spiaggia sulla costa settentrionale di Capo Taras; e andando

vide il sole sprofondare in una gran nuvola nera levatasi all'orizzonte del mare che si

incupiva; e si fece freddo, e s'avvertì il sommuoversi e il brontolio di una tempesta in

arrivo. E Tuor ristette sulla spiaggia, e il sole era come un fuoco fumoso dietro la minaccia

del cielo; e gli parve che una grande onda si levasse laggiù lontano rotolando verso riva, ma

la meraviglia lo trattenne, ed egli rimase lì immoto. L'onda venne alla sua volta, sovrastata

da un'opaca nebbia. Poi d'un tratto, quando fu vicina, si arricciò e si ruppe, e si precipitò in

avanti con lunghe braccia di schiuma; ma, là dove si era spezzata, si stagliava, scura contro

la tempesta avanzante, una viva forma di grande statura e maestà.

Allora Tuor si inchinò reverente, sembrandogli di essere al cospetto di un potente

sovrano. La figura portava un'alta corona come d'argento, da cui lunghi capelli spiovevano

a mo' di schiuma, rilucenti nel crepuscolo; e quando aprì il manto grigio che lo copriva

come una nebbia, o stupore!, era rivestito di una cotta scintillante, fitta come le squame di

un enorme pesce, e di una tunica verde scuro che baluginava e fremeva di marino fuoco

mentre lentamente la figura procedeva verso terra. In questa guisa l'Abitatore del Profondo,

colui che i Noldor chiamano Ulmo, Signore delle Acque, si mostrò a Tuor figlio di Huor

della Casa di Hador ai piedi di Vinyamar.

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Ulmo non mise piede sulla spiaggia, ma parlò a Tuor stando immerso fino alle

ginocchia nel mare brumoso e, per la luce dei suoi occhi e il suono della sua voce fonda che

pareva giungere dalle radici del mondo, paura piombò su Tuor, che si prosternò sulla

sabbia.

« Alzati, Tuor figlio di Huor » disse Ulmo. « Non temere la mia collera, ancorché a

lungo ti abbia chiamato senza che tu prestassi orecchio; e finalmente ti sei deciso a metterti

in cammino, ma molto tempo hai perso strada facendo. In primavera, avresti dovuto essere

qui; ora, invece, un crudo inverno ben presto verrà dalla terra dell'Avversario. Devi

imparare la fretta, e la strada piacevole che ti ho preparata deve cambiare. Ché i miei con-

sigli sono stati spregiati 8 e un grande male striscia lungo la Valle del Sirion, e già una

schiera di nemici si interpone fra te e la tua meta. »

« Qual è dunque la mia meta, Signore? » chiese Tuor.

« Quella che il tuo cuore ha sempre bramato » rispose Ulmo: « Trovare Turgon e

cercare la Città Celata. Sei infatti in questo arnese per essere mio messaggero, con le

insegne che da un pezzo ti ho destinato. Ma ora dovrai affrontare il pericolo tenendoti

nell'ombra. Avvolgiti dunque in questo mantello, e non sbarazzartene mai finché tu non sia

giunto alla fine del tuo viaggio. »

Parve allora a Tuor che Ulmo fendesse il suo grigio manto e gliene gettasse un pezzo,

e come questo gli cadde addosso s'avvide essere una grande cappa in cui s'avvolse tutto, da

capo a piedi.

« Così procederai coperto dalla mia ombra» disse Ulmo. «Ma non indugiare dell'altro,

perché nelle terre di Anar e nei fuochi di Morgoth il mantello non durerebbe a lungo. Sei

disposto a eseguire il mio incarico? » « Sì, Signore » rispose Tuor.

« Quand'è così, ti metterò parole in bocca che riferirai a Turgon » riprese Ulmo. « Prima

però ti istruirò, e udrai cose che nessun altro Uomo ha mai udito, no, neppure i possenti tra

gli Eldar. » E Ulmo parlò a Tuor di Valinor e del suo Occultamento, dell'esilio dei Noldor,

della Sorte di Mandos e del celarsi del Regno Beato. « Bada però! » continuò

« nell'armatura del Fato (così lo chiamano i Figli della Terra) c'è sempre una crepa, e nelle

mura della Sorte una breccia, e ci sarà sino al pieno compimento, quello che voi chiamate la

Fine. E così sarà mentre io duri, una voce segreta che contraddice e una luce dove dovrebbe

essere oscurità. Ragion per cui, sebbene nei giorni di questa tenebra possa sembrare che io

mi opponga alla volontà dei miei fratelli, i Signori dell'Ovest, tale è il mio ruolo tra loro,

impostomi fin dalla creazione del Mondo. Ma la Sorte è potente, e l'ombra dell'Avversario

si allunga; e io sono sminuito tanto da essere ridotto, nella Terra-di-mezzo, a non più di un

segreto sussurro. Le acque che vanno a ovest inaridiscono, e le loro fonti sono avvelenate, e

il mio potere si ritira dalla terra, e ciò perché Elfi e Uomini si fanno ciechi e sordi a me a

causa del potere di Morgoth. E adesso la Maledizione di Mandos s'avvicina ratta al proprio

compimento, e tutte le opere dei Noldor periranno, e ogni speranza da essi accarezzata

andrà in fumo. L'ultima speranza sola rimane, la speranza che non hanno cercato né si sono

prospettati. E quella speranza è in te; perché così io ho voluto. »

« Dunque Turgon non si leverà contro Morgoth, come pure sperano tutti gli Eldar? »

volle sapere Tuor. « E cosa desideri da me, Signore, una volta che io sia giunto da Turgon?

Perché, sebbene io sia ben deciso a fare come mio padre, e a stare al fianco di quel re nel

suo bisogno, pure di ben poco aiuto gli sarò, semplice uomo mortale tra tanti e così valorosi

dell'Alto Popolo dell'Ovest. »

« Se ho scelto di mandare te, Tuor figlio di Huor, non credere che la tua spada sia

indegna della missione. Ché del valore degli Edain gli Elfi per sempre si ricorderanno, nel

susseguirsi delle ere, meravigliandosi che così facilmente facessero gettito di una vita di cui

in terra avevano tanto poca. Ma non è solo per il tuo valore che io ti invio, bensì anche per

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portare nel mondo una speranza la quale è al di là della tua vista, e una luce che squarcerà

le tenebre.»

E mentre Ulmo così parlava, il brontolio della tempesta crebbe ad alto grido, e il

vento si rafforzò e il cielo si fece nero; e il manto del Signore delle Acque si spalancò come

una nube volante. « Va', adesso, » disse Ulmo «prima che il mare ti divori! Ossë infatti

obbedisce alla volontà di Mandos ed è irato, poiché è un servo della Sorte. »

«Come vuoi tu » disse Tuor. «Ma se sfuggo alla Sorte, quali sono le parole che dovrò

dire a Turgon? »

« Se giungerai da lui, » rispose Ulmo « le parole ti si formeranno nella mente, e la tua

bocca le pronuncerà come potrei fare io. Parla e non temere! E poi fa' come ti detteranno il

tuo cuore e il tuo valore. Tienti stretto il mio mantello, perché così sarai protetto. E io man-

derò a te uno salvandolo dalla furia di Ossë, e così avrai una guida: sì, l'ultimo marinaio

dell'ultima nave che abbia diretto il corso verso Occidente fino al levarsi della Stella. E ora,

tornatene a terra! »

Poi vi fu un rombo di tuono e un lampo s'accese sul mare; e Tuor scorse Ulmo che si

levava dalle onde come una torre d'argento barbagliante di fiamme saettanti; e gridò di

contro al vento: « Vado, Signore! Ma il mio cuore anela piuttosto al mare! »

Sul che Ulmo levò un enorme corno e vi soffiò dentro un'unica, alta nota, a paragone della

quale il rombo della tempesta non era che il soffio di una brezza su un lago. E all'udire

quella nota, e ne fu tutto avvolto e repleto, sembrò a Tuor che le coste della Terra-di-mezzo

svanissero, e in una gran visione gli apparvero tutte le acque del mondo: dalle vene delle

terre alle bocche dei fiumi, e dalle spiagge ed estuari all'oceano. Il Grande Mare lo vide in

tutte le sue inquiete regioni pullulanti di strane forme, e ne scorse persino gli abissi senza

luce dove nel buio eterno echeggiavano voci terribili per orecchie mortali. Ne percorse le

piane smisurate con il rapido sguardo dei Valar, le distese che giacevano immote sotto

l'occhio di Anar o che scintillavano sotto la Luna cornuta, o si levavano in furibonde col line

che si frangevano contro le Isole Ombrose 9, finché, remota al limite del campo visivo, al di

là di innumerevoli leghe, indovinò una montagna, che si levava, oltre i limiti della sua

mente, verso e dentro una nuvola luminosa, e ai piedi di essa scintillava una lunga risacca.

E mentre si sforzava di udire il suono di quelle onde lontane e di mettere meglio a fuoco

quella luce distante, la nota cessò, ed egli si ritrovò sotto il tuono della tempesta, e fulmini

pluriforcuti fendevano il cielo sopra di lui. E Ulmo se n'era andato, il mare tumultuava, le

selvagge onde di Ossë cavalcavano contro le mura del Nevrast.

Allora Tuor fuggì la furia della tempesta, e faticosamente tornò alle alte terrazze, ché

il vento lo spingeva contro la roccia, e quando raggiunse la cima lo piegò sulle ginocchia.

Rientrò dunque nella buia e vuota aula per ripararvisi, e tutta la notte sedette sul trono di

pietra di Turgon. I pilastri stessi tremavano alla violenza della tempesta, e a Tuor pareva

che il vento fosse pieno di gemiti e grida feroci. Ma, stanco com'era, dormì tutto il tempo, e

il suo sonno fu turbato da molti sogni, di cui nulla gli restò nella memoria al risveglio,

salvo uno: la visione di un'isola, nel cui mezzo si levava un ripido monte dietro il quale il

sole calava e ombre scattavano in cielo; ma sopra di essa scintillava un'unica, abbagliante

stella.

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Dopo questo sogno, Tuor piombò in un sonno profondo, perché prima che la notte

finisse la tempesta passò, spingendo le nuvole nere verso l'Oriente del mondo. Tuor riaprì

gli occhi nella luce grigia, e si levò e lasciò l'alto seggio e, sceso nell'aula oscura, s'avvide

che era piena di uccelli marini spintivi dalla tempesta; e uscì all'aperto che le ultime stelle

impallidivano a occidente davanti al giorno nascente. Notò allora che le grandi onde not-

turne erano montate in alto sulla terra, lanciando le proprie creste oltre le cime delle

scogliere, e alghe e ciottoli erano stati scagliati persino sulle terrazze, davanti alle soglie. E

Tuor guardò giù dalla terrazza più alta, e vide, che s'appoggiava al muro di questa tra le

pietre e i relitti marini, un Elfo avvolto in un grigio mantello zuppo d'acqua di mare. Sedeva

in silenzio fissando, di là dallo sconvolgimento delle spiagge, i lunghi flutti. Tutto era

silenzio, non era suono salvo, in basso, il fragore della risacca.

Stando a guardare la silenziosa figura grigia, Tuor si ricordò delle parole di Ulmo e

un nome mai udito prima gli venne alle labbra, e chiamò a gran voce: « Benvenuto,

Voronwë! Ti aspettavo »10

Allora l'Elfo si volse e guardò insù, e Tuor incontrò gli occhi grigio mare dell'Elfo, e seppe

trattarsi di uno dell'alta gente dei Noldor. Ma paura e meraviglia apparvero nei suoi occhi,

vedendo Tuor torreggiare sul muro sopra di lui, avvolto nella grande cappa simile a un'om-

bra, fuori della quale gli balenava sul petto il giaco elfico.

Per un istante rimasero così, ciascuno scrutando il volto dell'altro, poi l'Elfo si alzò e

si inchinò profondamente ai piedi di Tuor. « Chi sei, sire? » gli chiese. « Lunga è stata la

mia fatica sul mare impietoso. Dimmi: sono accaduti grandi eventi dall'ultima volta che ho

calcato la terra? L'Ombra è stata spodestata? La Gente Celata è uscita? »

« No » rispose Tuor. « L'Ombra si allunga e i Celati tali rimangono. »

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Allora Voronwë lo guardò a lungo in silenzio. « Ma tu chi sei? » tornò a chiedere.

« Ché molti anni fa la mia gente lasciò questa terra, e nessuno da allora vi ha dimorato. E

ora m'avvedo che, nonostante il tuo arnese, non sei di loro, come pensavo, bensì della stirpe

degli Uomini. »

« Lo sono » confermò Tuor. « E non sei tu l'ultimo marinaio dell'ultima nave che

salpò verso ovest dai Porti di Círdan? »

« Lo sono » rispose l'Elfo. « Voronwë figlio di Aranwë, sono. Ma non capisco come

tu conosca il mio nome e il mio destino. »

« Li conosco perché il Signore delle Acque ieri sera mi ha parlato » spiegò Tuor « e

ha detto che ti avrebbe salvato dalla collera di Ossë e ti avrebbe inviato qui per farmi da

guida. »

Allora, pieno di timore e meraviglia Voronwë gridò: « Hai parlato con Ulmo il

Possente? Quand'è così, grandi invero devono essere il tuo valore e la tua sorte! Ma dove

dovrò guidarti, signore? Perché di certo devi essere un Re di Uomini, e molti devono

pendere dalle tue labbra »

« No, sono uno schiavo fuggiasco » replicò Tuor « e un fuorilegge, solo in una terra

deserta. Ma ho una missione da compiere presso Turgon, il Re Celato. Sai tu per quale via

posso giungere a lui? »

« Molti sono fuorilegge e schiavi, in questi tristi giorni, che tali non erano nati »

rispose Voronwë. « Un signore di Uomini, suppongo, sei per diritto. Ma, anche

se fossi il supremo tra la tua gente, non avresti il diritto di cercare Turgon, e vana sarebbe la

tua cerca. Perché, anche se ti conducessi alle sue porte, non potresti varcarle. »

« Non ti chiedo di portarmi oltre la soglia » disse Tuor. « Lì Sorte se la vedrà con il

Consiglio di Ulmo. E se Turgon non vorrà ricevermi, la mia missione avrà termine, e Sorte

prevarrà. Ma quanto al mio diritto di cercare Turgon, sappi che io sono Tuor figlio di Huor

e parente di Húrin, nomi che Turgon non avrà dimenticato. E se cerco è anche per comando

di Ulmo. Dimenticherà forse Turgon ciò che un tempo ha detto: Ricordati che l'ultima

speranza dei Noldor viene dal mare? E anche: Quando il pericolo sarà vicino, uno verrà

dal Nevrast ad avvertirti? 11

Io sono colui che deve venire, e sono armato dell'arnese che

per me era predisposto. »

Tuor si meravigliò sentendosi parlare a quel modo, perché le parole da Ulmo dette a

Turgon al momento della sua dipartita dal Nevrast non gli erano note prima, e del resto a

nessuno tranne che alla Gente Celata. E tanto più stupito restò Voronwë; il quale però si

volse dalla parte del mare e sospirò.

« Ahimè » disse. « Magari non fossi tornato. E sovente ho fatto voto, sugli abissi del

mare, che, se mai avessi rimesso piede a terra, avrei dimorato al sicuro, lungi dall'Ombra

del Nord, ai Porti di Círdan, e fors'anche sui bei campi della Nan-tathren, dove la primavera

è più dolce di quanto il cuore possa desiderare. Ma se il male è cresciuto mentre io ero

ramingo, e se l'estremo pericolo si avvicina a loro, devo raggiungere i miei. » Poi, rivolto a

Tuor: « Ti guiderò alle Porte Celate» soggiunse. « Il saggio infatti non confuterà i consigli

di Ulmo. »

« Allora andremo assieme, come appunto ci è stato consigliato » disse Tuor. « Ma non ti

rattristare, Voronwë. Perché il mio cuore ti dice che la tua lunga strada ti condurrà lungi

dall'Ombra, e che la tua speranza tornerà al mare. »12

« E anche la tua » replicò Voronwë. « Ora però dobbiamo lasciarlo e andar di fretta. »

« Sì » convenne Tuor. «Ma dove mi condurrai, e quanto lontano? Non faremmo meglio

a riflettere prima a come ce la caveremo nel deserto? E, se la strada è lunga, come

passeremo l'inverno senza riparo? »

Ma Voronwë nulla di preciso volle dire circa il cammino. « Tu conosci la forza degli

Uomini » rispose. « Quanto a me, appartengo ai Noldor, e lunga deve essere la fame e

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freddo l'inverno per sopprimere uno della stirpe che ha superato il Ghiaccio Stridente. Ma

come pensi che avremmo potuto faticare per innumerevoli giorni nelle distese saline del

mare? O non hai forse mai udito parlare del viatico degli Elfi? Ne ho ancora con me, di

quello che i marinai conservano sino all'ultimo. » E così dicendo mostrò, aprendo il

mantello, una borsa sigillata che portava alla cintura. « Né acqua né intemperie lo

guasteranno fintanto che è sigillato. Ma dobbiamo conservarlo finché il bisogno non sia

grande; e indubbiamente un fuorilegge e cacciatore potrà trovare altro cibo prima che la

stagione peggiori. »

« Forse » convenne Tuor. « Ma non in tutte le terre val la pena di cacciare, perché

non sempre la selvaggina abbonda. E i cacciatori perdono tempo cammin facendo. »

Tuor e Voronwë si apprestarono dunque alla partenza. Tuor prese con sé il piccolo

arco e le frecce che s'era portato appresso, oltre all'arnese che aveva trovato nell'aula; ma la

sua lancia, sulla quale era scritto il suo nome nelle rune elfiche del Nord, la lasciò

appoggiata al muro a segno del suo passaggio. Nessun'arma aveva Voronwë, salvo una

corta spada.

Prima che il giorno fosse chiaro volsero le spalle alla antica dimora di Turgon, e Voronwë

guidò Tuor a occidente dei ripidi fianchi di Taras, di là dal grande capo. Quivi un tempo

passava la strada dal Nevrast al Brithombar, che null'altro era ormai se non una verde pista

tra vecchie spalle ricoperte d'erba. E così giunsero in Beleriand e alla regione settentrionale

delle Falas; e, volgendo a est, cercarono le nere cime degli Ered Wethrin, e quivi rimasero

nascosti a riposarsi finché il giorno non cedette al crepuscolo. Ché, sebbene le antiche

dimore di Falathrim, Brithombar e Eglarest, fossero ancora assai distanti, Orchi si

aggiravano nella zona che tutta quanta era infestata dalle spie di Morgoth, il quale temeva

le navi di Círdan che a volte venivano a compiere incursioni sulle coste, unendosi alle

scorrerie mandate dal Nargothrond.

E mentre se ne stavano, avvolti nei loro mantelli, simili a ombre ai piedi dei colli,

Tuor e Voronwë a lungo parlarono. E il primo interrogò il secondo circa Turgon, ma

Voronwë ben poco disse in merito, e preferì parlare delle dimore sull'Isola di Balar e dello

Isgardh, la terra di canne alle Bocche del Sirion.

« Lì il numero degli Eldar ora s'accresce » disse « perché sempre più vi si rifugiano,

di entrambe le stirpi, sottraendosi al terrore di Morgoth, stanchi di guerra. Ma se ho

abbandonato la mia gente non è stato per scelta mia. Sappi infatti che, dopo la Bragollach e

la rottura dell'assedio di Angband, per la prima volta nel cuore di Turgon si insinuò il

dubbio che Morgoth potesse rivelarsi troppo forte. Quell'anno, egli inviò i primi del suo

popolo a superare le soglie venendo dall'interno: e furono ben pochi, incaricati di una

missione segreta. Scesero costoro al Sirion, alle rive verso le bocche, e qui costruirono

navi. Le quali però a nulla valsero loro, se non a giungere alla grande Isola di Balar e a

stabilirvi solitarie dimore, lungi dalla portata di Morgoth. Ché i Noldor non possiedono

l'arte di costruire navi capaci di reggere alle onde di Belegaer il Grande13

.

« Ma quando più tardi a Turgon giunse notizia della devastazione delle Falas e del

sacco degli antichi Porti dei Carpentieri che si trovano laggiù, di fronte a noi, e gli fu detto

che Círdan aveva salvato un resto della sua gente e aveva fatto vela verso sud, alla Baia di

Balar, tornò a spedire messaggeri. Questo è accaduto non molto tempo fa, pure mi è rimasto

nella memoria come il periodo più lungo della mia vita. Io infatti ero tra i suoi mandati,

giovane d'anni tra gli Eldar. Sono nato qui nella Terra-di-mezzo, nel paese del Nevrast. Mia

madre era una degli Elfi Grigi delle Falas, parente di Círdan stesso - molti erano i miscugli

di gente nel Nevrast ai primi tempi del regno di Turgon - e ho l'amore per il mare di quelli

di mia madre. Per questo sono stato tra i prescelti, poiché la nostra missione era presso

Círdan, a chiedere il suo aiuto per costruire le nostre navi, onde far giungere messaggi e

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preghiere di aiuto ai Signori dell'Ovest prima che fossimo perduti. Ma ho indugiato strada

facendo, poiché ben poco avevo visto delle regioni della Terra-di-mezzo, e siamo giunti

alla Nan-tathren in primavera. Incantevole al cuore è quel paese, Tuor, come tu stesso

vedrai sempreché i tuoi passi ti portino per le vie del Sud lungo il Sirion. Vi si trova il

rimedio alla nostalgia del mare, salvo per coloro che la sorte non vuol liberare. Lì Ulmo è

solo il servo di Yavanna, e la terra ha dato vita a una profusione di belle cose che

trascendono i desideri dei cuori di quanti vivono tra i duri colli del Nord. In quella contrada

il Narog affluisce nel Sirion, e più i due non s'affrettano ma scorrono ampi e tranquilli tra

ameni prati; e sulle rive del fiume rilucente gli iris sono come una foresta fiorita, e l'erba è

costellata di fiori simili a gemme, a campane, a fiamme rosse e oro, simili a una distesa di

stelle multicolori in un firmamento verde. Ma più belli di tutti sono i salici della Nan-

tathren, verde pallido o argentei al vento, e il fruscio delle loro innumerevoli foglie è un

musicale incanto; giorni e notti trascorrevano innumerevoli, e io me ne stavo nell'erba che

m'arrivava alle ginocchia, e ascoltavo. Ero incantato, e nel mio cuore s'era spento il ricordo

del mare. Lì m'aggiravo, dando nome a nuovi fiori, oppure giacevo trasognato tra il canto

degli uccelli e il ronzio di api e mosche; e lì ancora dimorerei deliziato, dimentico di tutti i

miei simili, si tratti delle navi dei Teleri o delle spade dei Noldor, ma la mia sorte non l'ha

permesso. O forse il Signore delle Acque stesso, il quale in quel paese era forte.

« Mi venne pertanto l'idea di costruirmi una zattera di rami di salice e di andare con

essa sul seno lucente del Sirion; e così ho fatto, e così sono stato rapito. Ché un giorno,

mentre mi trovavo nel bel mezzo del fiume, un vento improvviso si è levato

impadronendosi di me e portandomi via dalla Terra dei Salici, giù fino al mare. Ed ecco

come sono giunto, ultimo dei messaggeri, da Círdan. E delle sette navi da lui costruite su

richiesta di Turgon, tutte erano già finite salvo una. E a una a una salparono per l'Occidente,

e nessuna è ancora tornata né se n'è avuta più notizia.

« Ma l'aria salmastra del mare è tornata a sommuovere il cuore della stirpe di mia

madre che ho in petto, e io ho gioito tra le onde, apprendendo l'arte del navigare come se

fosse già nella mia mente. E così, quando l'ultima nave, la maggiore, è stata approntata, ero

ormai bramoso di andare, e dentro di me dicevo: "Se le parole dei Noldor sono vere, vuol

dire che in Occidente sono prati con cui quelli della Terra dei Salici non reggono il

confronto. Lì nulla avvizzisce, la primavera non ha fine. E può darsi che io, Voronwë, vi

giunga. E nel peggiore dei casi, ramingare sulle acque è di gran lunga meglio dell'Ombra

del Nord". E non avevo paura, perché le navi dei Teleri nessun'acqua può sommergerle.

« Ma il Grande Mare è terribile, Tuor figlio di Huor; ed esso odia i Noldor perché

opera la Sorte dei Valar. E ben di peggio riserva che non sprofondare negli abissi e perire: e

nausea, e solitudine, e follia; terrore di venti e tumulto e silenzio e ombre in cui ogni

speranza si perde e ogni forma vivente svanisce. E molte perfide e strane rive esso bagna, e

molte sono le isole di periglio e paura che lo infestano. Non rattristerò il tuo cuore, figlio

della Terra-di-mezzo, con il racconto delle mie fatiche di sette anni sul Grande Mare dal

Nord al Sud, mai però all'Ovest, poiché questo ci è precluso.

« Alla fine, in preda a nera disperazione, stanchi del mondo tutto quanto, abbiamo voltato le

spalle e siamo fuggiti dalla Sorte che così a lungo ci aveva risparmiato solo per colpirci

ancor più crudelmente. Perché, proprio quando avevamo intravisto, lontana, una montagna,

e io gridavo: "Mirate! Quella è Taras, la terra dove sono nato", il vento si è levato e grandi

nuvole gravide di tempesta sono salite dall'Ovest. Poi le onde ci hanno dato la caccia come

creature viventi gonfie di malizia, e i fulmini ci bersagliavano; e quando ci siamo ridotti a

uno scafo senza difesa, i mari ci si sono avventati contro con furia. Ma, come vedi, io sono

stato risparmiato; mi è sembrato infatti che venisse un'onda, più grande eppure più queta

delle altre, e mi ha preso e sollevato dalla nave, e mi ha portato alto sulle sue spalle e, roto-

lando a terra, mi ha scagliato sull'erba, e poi si è ritirata, rifluendo dalla scogliera in una

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gran cascata. Me ne stavo lì da non più di un'ora, ancora rintronato dal mare, quando tu mi

hai trovato. E ancora ne sento il terrore, e mi amareggio per la perdita dei miei amici, che

con me sono venuti tanto lontano e così a lungo, fuori vista dalle terre dei mortali. »

Voronwë sospirò e quindi, sottovoce, come se parlasse tra sé, soggiunse: « Ma

lucentissime erano le stelle sopra il margine del mondo quando, come a volte accadeva, le

nuvole che offuscavano l'Ovest si aprivano. Non so però se vedevamo soltanto nuvole

ancor più lontane o se davvero scorgevamo, come alcuni sostenevano, i monti dei Pelóri

lungo le perdute spiagge della nostra patria lontana. Remote, remotissime esse sono, e

nessuno da terre mortali vi giungerà mai più, temo ». Poi Voronwë restò in silenzio, ché la

notte era scesa e le stelle brillavano bianche e fredde.

Ben presto Tuor e Voronwë si levarono e, volte le spalle al mare, iniziarono il loro

lungo viaggio nell'oscurità; di esso, ben poco è da narrare, poiché l'ombra di Ulmo era su

Tuor, e nessuno li vide passare per bosco o pietraia, per campi o felceti, fra il tramonto e il

sorgere del sole. Ma sempre procedevano cauti, evitando i cacciatori di Morgoth dagli

occhi capaci di forare la notte e scansando le vie battute di Elfi e Uomini. Era Voronwë a

scegliere il sentiero, e Tuor lo seguiva, senza mai porre futili domande, ancorché ben

s'avvedesse che andavano sempre verso est, seguendo il decorso degli alti monti, né mai

piegavano a sud: cosa di cui si meravigliava, perché credeva, al pari di quasi tutti gli Elfi e

Uomini, che Turgon dimorasse assai lungi dalle battaglie del Nord.

Lenta era la loro marcia, al crepuscolo o nottetempo, per le selve inesplorate, e il

Crudele Inverno scese rapido dal Reame di Morgoth. Nonostante la protezione delle alture,

i venti erano forti e rigidi, e ben presto la neve s'accumulò fitta sulle vette o turbinò nei

passi, e piombò sui boschi del Núath prima ancora che ne cadessero del tutto le foglie

secche 14

. Sicché, sebbene si fossero messi in viaggio prima della metà di Narqualië, lo

Hísimë venne con gelo tagliente mentre erano vicini alle Sorgenti di Narog.

Qui al termine di una faticosa notte, nel grigio dell'alba fecero tappa; e Voronwë

appariva scoraggiato e volgeva lo sguardo attorno con angoscia e paura. Là dove un tempo

il bello stagno di Ivrin apriva il suo vasto bacino di pietra intagliato di cascatelle, e

tutt'attorno si stendeva una conca coperta di alberi ai piedi dei colli, ora gli appariva una

terra devastata e desolata, gli alberi bruciati o sradicati, e i margini di sasso dello stagno

infranti, sì che le acque di Ivrin si disperdevano formando un'ampia, vuota palude tra la

rovina. E null'altro era se non un dedalo di pantani gelati, e un sentore di putrefazione

stagnava, come sudicia nebbia, sopra il suolo.

« Ahimè, il male dunque è giunto fin qui? » gridò Voronwë. « Un tempo, ben lungi

dalla minaccia di Angband era questo luogo; ma le grinfie di Morgoth si protendono

sempre più. »

« È proprio come m'ha detto Ulmo » disse Tuor: « Le sorgenti sono avvelenate, e il

mio potere si ritira dalle acque della Terra »

« Pure » osservò Voronwë « una perfidia ha qui imperversato con forza maggiore di

quella degli Orchi. La paura grava su questo luogo. » E frugò con lo sguardo ai margini

della palude, finché all'improvviso eccolo drizzarsi e gridare ancora: « Sì, una grande

perfidia! ». E fece cenno a Tuor, e questi, andatogli vicino, scorse un solco simile a

un'enorme scanalatura, che correva verso sud, d'ambo i lati del quale, qua semicancellate, lì

invece nitide e indurite dal gelo, si vedevano le orme di grandi piedi muniti di artigli.

« Guarda! » disse Voronwë, pallido di paura e disgusto. « Non è da molto che il Gran

Verme di Angband, la più crudele di tutte le creature dell'Avversario, è stato qui! Già siamo

in ritardo con la nostra missione presso Turgon. Bisogna affrettarsi. »

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Mentre così parlava, udirono un grido tra i boschi, e ristettero immoti come grigie

pietre, tendendo l'orecchio. Ma la voce era bella, ancorché intrisa di dolore, e sembrava che

chiamasse sempre un nome, come chi cerchi qualcun altro che si sia perduto. E mentre così

stavano, ecco uno uscire di tra gli alberi, e s'avvidero che era un Uomo di alta statura,

armato, nerovestito, una lunga spada sguainata; e si meravigliarono poiché la lama della

spada era nera anch'essa, anche se i fili ne balenavano lucenti e freddi. Dolore gli stava

dipinto in volto e, come s'avvide della devastazione di Ivrin, levò alta la voce angosciato a

dire: « Ivrin, Faelivrin! Gwindor e Beleg! Qui un tempo sono guarito. Ora però più non

potrò bere l'acqua della pace ».

Poi in fretta s'avviò verso nord, come chi sia lanciato all'inseguimento o abbia una

missione da compiere in gran fretta, e lo udirono gridare Faelivrin, Finduilas!, finché la sua

voce non si spense nel fitto15

. Ma Tuor e Voronwë non sapevano che il Nargothrond era

caduto e che quegli era Túrin figlio di Húrin, la Spada Nera. E così solo per un istante e mai

più i sentieri dei due parenti, Túrin e Tuor, si incrociarono.

Scomparsa che fu la Spada Nera, Tuor e Voronwë proseguirono per un tratto, sebbene fosse

ormai giorno; si sentivano infatti pesare addosso il ricordo del dolore dello sconosciuto, e

non sopportavano l'idea di rimanere accanto a Ivrin contaminata. Ben presto, però,

cercarono un nascondiglio, perché su tutta la terra gravava ora un presagio malefico.

Dormirono poco e inquieti e quando il giorno finì si fece buio e cadde molta neve, e la notte

portò gelo intollerabile. Da quel momento, neve e ghiaccio più non allentarono la presa, e

per cinque mesi il Crudele Inverno, a lungo ricordato, tenne nei suoi lacci il Nord. Tuor e

Voronwë erano adesso tormentati dal freddo, e temevano che la neve tradisse la loro

presenza a nemici in caccia, come pure di inciampare in pericoli nascosti, proditoriamente

ammantati. Nove giorni tirarono avanti, sempre più lentamente e faticosamente, e Voronwë

deviò leggermente a nord, finché non superarono i tre rami iniziali del Teiglin; e poi tornò a

puntare verso est, lasciandosi le montagne alle spalle, e andarono cauti finché non

superarono il Glithui e giunsero al corso del Malduin che era coperto di nero ghiaccio16

.

Allora disse Tuor a Voronwë: « Terribile è il gelo, la morte è vicina a me se non anche

a te ». Erano infatti malridotti: da lungo non avevano trovato cibo nelle selve, e il viatico

scemava a vista d'occhio; e avevano freddo ed erano stanchi. « Guai se restassimo

intrappolati tra la Sorte dei Valar e la Perfidia dell'Avversario » replicò Voronwë. « Forse

che sono sfuggito alle fauci del mare solo per giacere sotto la neve? » Ma Tuor insistette:

« Quanto ancora dovremo andare? Perché è giunto il momento, Voronwë, in cui tu mi devi

svelare il tuo segreto. Mi guidi sicuro, e dove? Perché, se devo spendere le mie ultime

energie, vorrei sapere a che può giovarmi. »

« Ti ho condotto meglio che ho potuto » rispose Voronwë. « Sappi allora che Turgon

dimora ancora nel nord della Terra degli Eldan, sebbene pochi lo credano. Già gli siamo

vicini, ma molte sono ancora le leghe da percorrere anche se potessimo superarle a volo; e

dobbiamo ancora attraversare il Sirion, e grandi possono essere i perigli da affrontare

intanto. Perché tra poco giungeremo alla strada maestra che un tempo andava dalla Minas di

re Finrod al Nargothrond 17

, e lungh'essa marciano e vigilano i servi dell'Avversario. »

« Io mi ritenevo il più resistente degli Uomini » disse Tuor « e ho sopportato tra i monti le

pene di molti inverni; ma allora avevo una grotta alle mie spalle e fuoco, e ora dubito che le

mie forze reggano dell'altro, affamato come sono, con questo terribile gelo. Ma

continuiamo ad andare finché possiamo, prima che la speranza venga meno. »

« Non abbiamo altra scelta » osservò Voronwë « a meno di non distenderci qui in

attesa del sonno che dà la neve. »

Sicché, per tutto quell'aspro giorno continuarono la marcia temendo, più del pericolo

costituito dai nemici, l'inverno; a mano a mano, però, la neve diminuiva, perché ora erano

tornati a procedere verso sud scendendo nella Valle del Sirion, e lontani erano ormai i

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monti del Dor-lómin. Nel crepuscolo che si infittiva, giunsero alla strada maestra ai piedi di

un alto argine alberato. E all'improvviso udirono voci e, sbirciando cauti di tra gli alberi,

scorsero al di sotto una rossa luce. Una compagnia di Orchi era accampata nel bel mezzo

della strada, attorno a un grande fuoco. « Gurth an Glamhoth! » borbottò Tuor18

. « È tempo

che la spada esca da sotto il mantello. Sono pronto a rischiare la morte per impadronirmi di

quel fuoco, e anche la carne degli Orchi sarebbe apprezzabile. »

« No » replicò Voronwë. « In questa cerca solo il mantello ci servirà. Devi rinunciare

al fuoco o rinunciare a Turgon. Questa banda non è sola nelle selve: la tua vista mortale non

ti permette di vedere lontana la fiamma di altre pattuglie più a nord e più a sud? Uno

scontro ci attirerebbe addosso un esercito. Da' retta a me, Tuor! È contrario alla legge del

Regno Celato che chiunque s'accosti alle porte lo faccia con nemici alle calcagna; e quella

legge io non intendo infrangerla, neppure se fosse Ulmo a ordinarmelo, e a costo di morire.

Provoca gli Orchi, e io ti pianto in asso. »

« E va bene, lasciamoli perdere » accondiscese Tuor. « Ma possa io vedere il giorno

in cui non dovrò strisciare davanti a una masnada di Orchi come un vile cane. »

« Andiamo, dunque! » esortò Voronwë. « Se restiamo qui a discutere finirà che ci

fiutano. Seguimi! »

E prese a strisciare tra gli alberi, verso sud e sottovento, finché furono a mezza distanza tra

il falò degli Orchi e il successivo. Qui Voronwë: si fermò a lungo, tendendo l'orecchio.

« Non sento passi lungo la strada » disse poi « ma non sappiamo che cosa possa

acquattarsi nelle tenebre. » Scrutò nel buio e rabbrividì. « Mala è quest'aria » borbot tò.

« Ahimè, al di là si stende la terra della nostra cerca e la speranza di vita, ma la morte ce ne

separa. »

« La morte è tutt'attorno a noi » fece Tuor. « Ma ho forze solo quante mi bastano per

percorrere la strada più breve. Qui attraverserò o perirò. Mi affiderò al mantello di Ulmo

che coprirà anche te. Adesso sarò io a far da guida! »

Così dicendo, avanzò cauto fino al margine della strada; quindi, tenendosi stretto

Voronwë, coprì anche lui con le pieghe del grande manto del Signore delle Acque, e

proseguì.

Tutto era silenzio. Il vento freddo gemeva spazzando l'antica strada. Poi, d'un tratto,

anch'esso si zittì, e nella pausa Tuor avvertì un cambiamento nell'aria, come se il fiato

proveniente dalla terra di Morgoth fosse per un po' venuto meno, e debole come un ricordo

del mare giunse una brezza dall'ovest. Come una grigia nebbia portata dal vento,

superarono la carreggiata sassosa e penetrarono in un folto al suo margine orientale.

D'un subito vicino a loro si levò un grido selvaggio, e molti altri lungo la strada gli

fecero eco. Aspro risuonò un corno, e si udì rumor di piedi che correvano. Ma Tuor

proseguì. Abbastanza aveva appreso della lingua degli Orchi, durante la sua prigionia, per

comprendere il significato di quelle grida: le sentinelle li avevano fiutati e uditi, non però

visti. La caccia era cominciata. Disperatamente, incespicando, continuò a inerpicarsi, con

Voronwë al fianco, su per un lungo pendio fitto di ginestre e di mirtilli, tra ciuffi di sorbi

selvatici e di basse betulle. Sulla sommità si fermarono, tendendo l'orecchio alle grida

dietro di loro e al frascare degli Orchi nel sottobosco ai loro piedi.

Accanto, un masso sporgeva da un intrico di erica e rovi, e sotto di esso era una tana

capace di ospitare una bestia braccata, permettendole forse di sfuggire all'inseguimento o,

per lo meno, le spalle alla roccia, di vendere cara la pelle. In quell'ombra cupa Tuor trasse

Voronwë, e fianco a fianco giacquero, sotto il manto grigio, ansimando come volpi esauste.

Non una parola pronunciavano, tutt'orecchie com'erano.

Le grida degli inseguitori divennero più fioche, poiché gli Orchi mai penetravano in

profondità nelle selve d'ambo i lati della strada, preferendo andare su e giù lungo questa.

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Poco si curavano di fuggiaschi sbandati, ma temevano spie ed esploratori di nemici in armi,

né Morgoth li aveva messi di guardia alla strada per catturare Tuor e Voronwë (dei quali

fino a quel momento nulla sapeva) o altri provenienti dall'Ovest, ma per vigilare sulla

Spada Nera, per tema che fuggisse e si mettesse in traccia dei prigionieri del Nargothrond,

magari portando soccorsi dal Doriath.

Passò la notte, e un profondo silenzio si stendeva sulle terre deserte. Stanco, sfinito,

Tuor dormiva sotto il mantello di Ulmo; Voronwë però strisciò fuori del nascondiglio e

restò silenzioso, immobile come pietra, perforando le ombre con i suoi elfici occhi. Allo

spuntar del giorno svegliò Tuor il quale, uscendo all'aperto, costatò che il tempo era un po'

migliorato e che le nere nuvole stavano aprendosi. Rossa era l'aurora, e poteva scorgere

davanti a lui le cime di strani monti scintillare illuminate dall'incendio accesosi a Oriente.

Allora Voronwë disse a bassa voce: « Alae! Ered en Echoriath, ered embar nín »19

. Ciò,

perché sapeva che quelli cui guardava erano i Monti Cerchianti e le mura del Reame di

Turgon. Sotto di loro, a est, in una profonda e ombrosa vallata, serpeggiava Sirion il bello,

celebrato nei canti; e al di là, ammantata di bruma, una terra grigia saliva dal fiume alle

frastagliate alture ai piedi dei monti. « Laggiù è il Dimbar » disse Voronwë. « Ah, ci

fossimo già! Perché di rado i nostri amici osano spingervisi. O per lo meno, così è andata

finché il potere di Ulmo è stato forte nel Sirion. Ma può darsi che ora tutto sia cambiato 20

,

salvo il rischio del fiume, che è comunque profondo e rapido, pericoloso da attraversare

persino per gli Eldar. Ma ti ho guidato bene, poiché laggiù, un po' più a sud, scintilla il

Guado di Brithiach dove la Strada Orientale che un tempo univa il Taras all'Ovest giungeva

alla riva del fiume. Nessuno adesso osa servirsene, se non in caso di estremo bisogno, né

Elfo né Uomo né Orco, poiché la strada conduce al Dungortheb e alla temibile terra tra il

Gorgoroth e la Cintura dì Melian; e da un pezzo la strada sì è inselvatichita o si è ridotta a

un sentiero tra erbacce e dumeti striscianti. »21

Tuor guardò nella direzione indicata da Voronwë e lontano, assai lontano, scorse

acque che scintillavano alla vaga luce dell'alba; al di là, però, si vedeva una tenebra vaga là

dove la grande Foresta di Brethil si protendeva verso sud, rivestendo un remoto altopiano.

Cautamente procedettero nella vallata, fino a giungere all'antica strada che veniva dal bivio,

alle frontiere del Brethil, dove incrociava quella del Nargothrond. E Tuor s'avvide allora

che erano ormai vicini al Sirion. In quel punto, le rive del suo vasto letto si dilatavano e le

acque, frenate da una gran pietraia 22

si disperdevano per vasto tratto in lanche, e ovunque

era il mormorio di rigagnoli. Ma di lì a poco la corrente tornava unita e, scavandosi un

nuovo letto, procedeva verso la foresta, scomparendo lontano in una fitta bruma che lo

sguardo non poteva penetrare; perché lì si stendeva, ancorché egli non lo sapesse, la marca

settentrionale del Doriath per entro l'ombra della Cintura di Melian.

Tuor avrebbe voluto affrettarsi subito al guado, ma Voronwë lo trattenne dicendo:

« Non possiamo attraversare il Brithiach in pieno giorno, finché sussista il dubbio che

qualcuno ci insegua ».

« Allora dovremo stare qui a marcire? » replicò Tuor. « Un dubbio simile ci sarà finché

duri il Regno di Morgoth. Andiamo! Dobbiamo proseguire protetti dal mantello di Ulmo. »

Voronwë esitava ancora, e si guardò alle spalle, verso ovest; ma nessuno era in vista,

tutto era silenzio salvo il fruscio delle acque. Volse gli occhi all'insù, e il cielo era grigio e

vuoto, neppure un uccello vi volava. Poi, d'un tratto, il volto gli si illuminò di gioia, ed egli

gridò forte: « Ma sì! Il Brithiach è ancora vigilato dai nemici dell'Avversario. Gli Orchi non

ci seguiranno fin qua, e grazie al mantello passeremo inosservati ».

« Si può sapere che hai visto? » chiese Tuor.

« Corta è la vista di Uomini mortali » rispose Voronwë. « Scorgo le Aquile del Crissaegrim

che stanno venendo a questa volta. Guarda! »

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Tuor alzò lo sguardo e finalmente vide, alte in cielo, tre forme che venivano volando

su forti ali dalle lontane cime montane riammantatesi di nuvole. Le aquile discesero in

grandi, lenti cerchi, e d'un tratto si abbassarono verso i viandanti; ma, prima che Voronwë

potesse dar loro una voce, compirono un'ampia, rapida curva, e volarono verso nord

seguendo il corso del fiume.

« Andiamo » disse Voronwë. « Se nei pressi è qualche Orco, se ne starà col muso a

terra, in attesa che le aquile siano ben lontane. »

Discesero dunque in fretta un lungo pendio e superarono il Brithiach, spesso

procedendo all'asciutto su ciottoli o guadando le lanche, la cui acqua arrivava loro appena

al ginocchio. Essa era limpida e freddissima, ed era ghiaccio attorno alle pozze formate da

meandri smarritisi tra i sassi; ma mai, neppure nel Crudele Inverno della caduta del

Nargothrond, il soffio mortale del Nord riuscì a gelare il ramo principale del Sirion 23

.

Superato il Guado, giunsero a una gola che si sarebbe detta l'antico letto di un fiume

ora asciutto. Un tempo, a quel che pareva, un torrente aveva scavato in profondità, venendo

dal Nord, dai monti dell'Echoriath, e portando nel Sirion i sassi di Brithiach.

« Finalmente lo troviamo, al di là di ogni speranza! » esclamò Voronwë. « Vedi? Qui

sfociava il Fiume Secco, ed è questa la strada che dobbiamo prendere. » 24

Calarono nella gola che andava verso nord tra due ripide pareti, e Tuor incespicava alla

fioca luce sui sassi che ne costellavano il letto. « Se questa è una strada, » commentò « è

pessima per chi è stanco. »

« Pure, è la strada che porta da Turgon » ribatté Voronwë.

« Tanto più mi meraviglio, » riprese Tuor « per il fatto che l'ingresso sia aperto e non

vigilato. M'ero aspettato di trovare una grande porta e molti guardiani. »

« L'una e gli altri li vedrai » spiegò Voronwë. « Questa è solo la via d'accesso. L'ho

definita strada; ma su di essa nessuno è passato da oltre trecento anni, salvo pochi, segreti

messaggeri, e i Noldor hanno fatto ricorso a tutta la loro abilità per nasconderla dacché

sono divenuta la Gente Celata. Ti sembra accessibile? Ma l'avresti riconosciuta se non

avessi avuto per guida uno del Regno Celato? O non l'avresti piuttosto scambiata per

l'opera delle intemperie e delle acque silvane? E non hai visto forse le aquile? Esse sono il

popolo di Thorondor, che un tempo viveva sui Thangorodrim prima che Morgoth crescesse

tanto in potenza, e ora abita sui monti di Turgon in seguito alla caduta di Fingolfin25

. Solo

le aquile e i Noldor conoscono il Regno Celato, e vigilano i cieli che lo sovrastano, benché

finora nessun servo dell'Avversario abbia osato levarsi a volo; ed esse recano molte notizie

al Re su tutto quanto si muova nelle terre esterne. Fossimo stati Orchi, non dubitarne:

saremmo stati afferrati e lasciati cadere da grande altezza sulle rocce impietose. »

« Non ne dubito » disse Tuor. « Ma mi vien fatto di chiedermi anche se la notizia del

nostro arrivo non giungerà a Turgon più rapida di quanto noi non siamo. E tu solo sei in

grado di dire se è buona o cattiva cosa. »

« Né buona né cattiva » disse Voronwë. « Infatti non possiamo passare la Porta Vigilata

senza essere notati, siamo o meno aspettati; e quando vi giungeremo, i Guardiani potranno

comunicare che non siamo Orchi. Ma per superarla dovremo dare ben altre garanzie. Perché

tu non immagini neppure, Tuor, a quale pericolo saremo esposti. E non biasimarmi per ciò

che potrà accadere, come chi non sia stato avvisato; e possa il potere del Signore delle

Acque mostrarsi davvero! Solo con questa speranza, infatti, mi sono accinto a farti da

guida, e se essa verrà meno moriremo più ineluttabilmente che per i perigli delle selve e

dell'inverno. »

Ma Tuor esortò: « Inutile tentare di indovinare il futuro. La morte nelle selve è certa, e

la morte alla Porta, nonostante le tue parole, è lungi dall'essere sicura. Continua a farmi da

guida! »

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Molte miglia percorsero a fatica fra il pietrame del Fiume Secco, finché più non

poterono avanzare, e la sera portò la tenebra nella gola profonda; allora si inerpicarono

sulla parete orientale, e si accorsero di trovarsi in mezzo alle caotiche alture ai piedi dei

monti. E guardando all'insù, Tuor notò che torreggiavano in modo diverso da ogni altro

monte da lui visto, essendo che i loro fianchi apparivano quali nude pareti, l'una sull'altra,

quella superiore arretrata rispetto all'inferiore, quasi si trattasse di grandi torri precipiti a

molti piani. Ma il giorno se n'era andato, e le terre erano tutte grigie e brumose, la Valle del

Sirion ammantata di ombre. Voronwë allora lo guidò a una grotta poco profonda sul fianco

di un colle che si apriva sugli spogli declivi del Dimbar, e vi strisciarono dentro,

nascondendovisi. Mangiarono le loro ultime briciole di viatico; faceva freddo ed erano

stanchi, ma non dormirono. Così Tuor e Voronwë, al crepuscolo del diciottesimo giorno di

Hísimë, trentasettesimo del loro viaggio, giunsero alle torri dell'Echoriath e alla soglia di

Turgon, e grazie al potere di Ulmo si sottrassero sia alla Sorte sia alla Perfidia.

Allorché il primo barlume del giorno filtrò grigio tra le brume del Dimbar, ridiscesero al

Fiume Secco, il cui corso ben presto volse a est, andando verso i fianchi delle montagne; e

proprio di fronte a loro si levò, incombente, una parete liscia, che si drizzava nuda e abrupta

da un ripido pendio sul quale cresceva intricato un dumeto. In quel fitto il pietroso canale

penetrava, e là sotto era ancora buio come la notte; e Tuor e Voronwë si fermarono, perché i

rovi scendevano lungo le pareti della gola, e i loro rami, intrecciandosi, formavano al di

sopra un fitto tetto, così basso da costringere Tuor e Voronwë a strisciare come bestie che

ritornino alla tana.

Alla fine però, giunti che furono a grande fatica proprio ai piedi della rupe, scorsero

un'apertura, quasi la bocca di una galleria scavata nella dura roccia da acque fluenti dal

cuore dei monti. Vi entrarono, e dentro non era luce alcuna, ma Voronwë avanzò senza

esitazione, mentre Tuor lo seguiva tenendogli una mano sulla spalla e chinandosi, perché il

soffitto era basso. Così per un po' procedettero alla cieca, passo passo, finché sentirono sotto

il piede il terreno farsi piano e senza più sassi sparsi. Allora si concessero una sosta,

ansimando e tendendo l'orecchio. L'aria era fresca e sembrava sana, e avevano la sensazione

che attorno e sopra di loro amplissimo fosse lo spazio; ma tutto era silenzio, non si udiva

neppure il chioccolio di acque. Parve a Tuor che Voronwë fosse turbato e dubbioso, e gli

sussurrò: « Dov'è dunque la Porta Vigilata? O per caso l'abbiamo testé superata? ».

« No » rispose Voronwë. « Ma sono sorpreso, perché è strano che a un intruso

qualsiasi si permetta di giungere fin qui senza ostacoli. Temo un assalto nel buio. »

Ma i loro sussurri risvegliarono gli echi dormenti, che si dilatarono e moltiplicarono,

cozzando contro il soffitto e pareti invisibili, sibilando e borbottando come il suono di molte

voci sommesse. E quando gli echi smorirono nel sasso, Tuor udì provenire, dal cuore delle

tenebre, una voce che parlava nelle lingue elfiche: dapprima nell'Alto Linguaggio dei

Noldor, che egli non conosceva; e poi in quello del Beleriand, ma con un accento che gli

suonava alquanto strano, come d'un popolo che a lungo sia rimasto isolato dai suoi simili26

.

« Fermi! » disse la voce. « Non muovetevi o morrete, che siate nemici o amici. »

« Siamo amici » assicurò Voronwë.

« Allora fate come vi si dice » ingiunse la voce. L'eco svanì nel silenzio. Voronwë e Tuor

rimasero immobili, e Tuor ebbe l'impressione che molti minuti trascorressero, e in cuore

sentiva una paura quale non gli era stata suscitata da nessun pericolo del cammino. Poi s'udì

rumore di passi, che crebbe a uno scalpiccio sonoro come una marcia di giganti in quello

spazio cavo. D'un tratto, una lanterna elfica venne scappucciata, e il suo raggio sfolgorante

si appuntò su Voronwë che gli stava davanti, ma Tuor null'altro poté vedere se non

un'abbagliante stella nel buio. E seppe che, finché il raggio era su di lui, non gli era leci to

muoversi, né per fuggire né per avanzare.

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Per qualche istante rimasero così esposti all'occhio luminoso, e poi la voce tornò a farsi

udire e disse: « Mostrate i vostri volti! » E Voronwë gettò indietro il cappuccio e il suo

viso risplendette nel raggio, tagliente e nitido, come scolpito nella pietra; e Tuor si

meravigliò della sua bellezza. Poi il suo compagno parlò con voce fiera: « Non mi

riconoscete, dunque? Sono Voronwë figlio di Aranwë della casa di Fingolfin. O devo

presumere che pochi anni sono bastati a farmi dimenticare nella mia stessa terra? Sono

andato ramingo più in là di quanto non si possa concepire nella Terra-di-mezzo, pure

ricordo la tua voce, Elemmakil. »

« Allora Voronwë ricorderà anche le leggi di questo paese » disse la voce. « Poiché gli

è stato comandato di partire, ha anche il diritto di tornare, non però di condurre con sé uno

straniero. Questo basta a vanificare il suo diritto, e dovrà essere condotto prigioniero per

subire il giudizio del Re. E quanto allo straniero, a giudizio del Guardiano sarà ucciso o

fatto a sua volta prigioniero. »

Allora Voronwë spinse Tuor verso la luce, e come avanzarono molti Noldor, coperti

dal giaco di maglia e armati, uscirono dal buio e li circondarono con le spade sguainate. Ed

Elemmakil, capitano dei Guardiani, colui che reggeva la lampada lucente, scrutò a lungo e

attentamente i nuovi venuti.

« È molto strano da parte tua, Voronwë » disse. « Siamo amici da molto tempo, e allora

perché vuoi mettermi così crudelmente tra l'incudine della legge e il martello dell'amicizia?

Sarebbe già stato abbastanza se, senza averne avuto l'ordine, avessi portato qui uno delle

altre case dei Noldor. Ma tu hai fatto conoscere la Via a un Uomo mortale, perché tale lo

riconosco dai suoi occhi. E adesso che sa il segreto, non potrà riandarsene libero; e, quale

uno di razza aliena che ha osato metter piede qua dentro, devo ucciderlo, ancorché ti sia

amico e caro. »

« Nelle vaste terre esterne, Elemmakil, molte strane cose ti possono accadere, e può

succedere che ti si affidino compiti non previsti » replicò Voronwë. « Capita che il

viandante torni diverso da com'era partito. Quel che ho fatto, l'ho fatto in obbedienza a un

comandamento più alto della legge della Guardia. Solo il re potrà giudicare me e colui che

mi accompagna. »

Allora parlò Tuor, senza più timore: « Sono venuto con Voronwë figlio di Aranwë

perché è stato destinato a farmi da guida dal Signore delle Acque. A tal fine è stato liberato

dalla collera del Mare e dalla Sorte dei Valar. Perché sono incaricato da Ulmo di una

missione presso il figlio di Fingolfin, al quale desidero parlare. »

Lo guardò Elemmakil meravigliato e domandò: « Chi sei dunque? E da dove vieni? »

« Sono Tuor figlio di Huor della Casa di Hador e parente di Húrin, e questi nomi, a

quanto mi risulta, non sono ignoti nel Regno Celato. Dal Nevrast sono giunto, affrontando

molti perigli, per cercarlo. »

« Dal Nevrast? » domandò Elemmakil. « Dicono che nessuno più vi dimori, da

quando la nostra gente se ne è dipartita. »

« E dicono il vero » confermò Tuor. « Vuote e fredde sono le corti di Vinyamar. Pure,

è di là che io vengo. Portami dunque da colui che un tempo ha costruito quelle aule. »

« In faccende di tale importanza non spetta a me giudicare » disse Elemmakil.

« Pertanto ti porterò alla luce, dove si chiarirà meglio la situazione, e ti consegnerò al

Custode della Grande Porta. »

Impartì poi un ordine, e Tuor e Voronwë vennero messi tra alti guardiani, due davanti e tre

dietro di loro; e il comandante li condusse fuori della caverna della Guardia Esterna, e

passarono, come sembrò, per uno stretto corridoio, e a lungo procedettero sopra un liscio

pavimento, finché di fronte a loro non comparve una pallida luce. E alla fine pervennero a

un ampio arco sorretto da due alti pilastri scolpiti nella roccia, tra i quali era una grande

saracinesca di lignee barre intrecciate, meravigliosamente intagliate e borchiate di ferro.

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Elemmakil la sfiorò, e quella si sollevò silenziosamente, dando loro il passo; e Tuor

s'avvide che erano adesso in fondo a una ravina quale mai ne aveva viste o anche solo

immaginate, per quanto a lungo avesse vagato per le selvagge montagne del Nord; perché, a

paragone di Orfalch Echor, Cirith Ninniach non era che una fessura nella roccia. Qui le

mani degli stessi Valar, durante antiche guerre agli inizi del mondo, avevano squarciato i

grandi monti, e i fianchi della spaccatura erano lisci come se ad aprirla fosse stata un'ascia,

e torreggiavano fino ad altezze inimmaginabili. Lassù, remotissima, si scorgeva una striscia

di cielo azzurro cupo contro il quale si stagliavano neri picchi e pinnacoli seghettati, lontani

eppure duri, crudeli come lance. Troppo alte erano quelle possenti pareti perché i raggi del

sole d'inverno vi penetrassero e, sebbene fosse ormai giorno pieno, deboli stelle

baluginavano sopra le cime montane, e laggiù tutto era buio, se non per la pallida luce di

lampade lungo la strada in salita. Il fondo della ravina, infatti, saliva ripido in direzione est,

e a mano manca Tuor vedeva, accanto al letto del fiume, una strada ampia, lastricata, che si

inerpicava serpeggiando sino a scomparire nell'ombra.

« Avete superato la Prima Porta, la Porta di Legno » disse Elemmakil. « Ecco la Via.

Dobbiamo affrettarci. »

Impossibile, per Tuor, indovinare fin dove giungeva la via in fondo alla gola, e

guardando davanti a sé si sentì avvolgere da una stanchezza come da una nuvola. Un vento

freddo sibilava sfiorando i sassi, e Tuor si strinse addosso il mantello. « Freddo spira il

vento dal Regno Celato » osservò.

« Eh, sì » fece Voronwë. « A uno straniero può sembrare che l'orgoglio abbia reso spietati i

servi di Turgon. Lunghe e dure paiono le leghe delle Sette Porte a chi è affamato e stanco

per il viaggio. »

« Se le nostre leggi fossero meno severe, già da un pezzo frode e odio sarebbero

entrati a distruggerci, e questo lo sai bene » disse Elemmakil. «Ma noi non siamo spietati.

Qui non c'è cibo, e lo straniero non può riattraversare una porta che abbia passato. Pazienta

ancora un poco, e alla Seconda Porta sarai rifocillato. »

« D'accordo » accettò Tuor, e procedette come gli era stato comandato. Di lì a poco si

volse e s'avvide che il solo Elemmakil lo seguiva in compagnia di Voronwë.

« Non occorrono Guardiani » gli disse Elemmakil che ne aveva letto nel pensiero. « Da

Orfalch non può fuggire Elfo né Uomo, e qui non si dà ritorno. »

E così continuarono su per l'erta, a volte per lunghe scale, altre zigzagando, sotto

l'ombra incombente della roccia, finché, a una mezza lega dalla Porta di Legno, Tuor vide

che la strada era sbarrata da un gran muro eretto da un fianco all'altro del burrone, con

robuste torri di pietra a destra e a manca. Nella parete, un grande arco si apriva sovrastando

la porta, ma si sarebbe detto che i muratori l'avessero chiuso con un'unica, enorme pietra.

Come s'avvicinavano, la superficie scura e polita del muro apparve rilucente al lume di una

bianca lampada appesa al centro dell'arco.

« Questa è la Seconda Porta, la Porta di Pietra » spiegò Elemmakil; e, avvicinatosi , la

spinse leggermente. Quella ruotò su un invisibile cardine finché lo spigolo non fu verso di

loro, sì che un varco s'apriva d'ambo i lati; e, superata che l'ebbero, si trovarono in un

cortile dove stavano molti Guardiani armati vestiti di grigio. Non una parola fu detta, ed

Elemmakil condusse Tuor e Voronwë a una stanza sotto la torre nord, dove furono loro

portati cibo e vino ed ebbero il permesso di riposarsi un po'.

« Scarso può sembrare il ristoro» disse Elemmakil a Tuor. «Ma se le tue affermazioni

saranno provate, ne sarai risarcito abbondantemente. »

« Questo mi basta » replicò Tuor. « Fiacco sarebbe il cuore cui occorresse miglior

medicina. » E in effetti, tanto ristoro trovò nella bevanda e nel cibo dei Noldor, che ben

presto fu pronto a muovere.

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Poco dopo giunsero a un muro ancora più alto e robusto del precedente, nel quale si

apriva la Terza Porta, la Porta di Bronzo: enorme, a due battenti, con scudi e placche enee

che recavano molte figure e strani segni a sbalzo. Sul muro, sopra l'architrave, stavano tre

torri quadrate munite di tetto e rivestite di rame, che per qualche artificio di fabbro erano

lucenti e splendenti come fuoco ai raggi delle lampade rosse appese a guisa di torce lungo il

muro. In silenzio varcarono anche quella porta, e nel cortile retrostante trovarono un'ancor

maggiore schiera di guardiani in cotte che rilucevano come fuoco che covi; e rosse erano le

lame delle loro asce. Della stirpe dei Sindar del Nevrast erano in massima parte coloro che

difendevano quella porta.

E giunsero così alla parte più faticosa della strada, perché nel settore centrale della gola

di Orfalch l'erta era più ripida che mai, e mentre salivano Tuor si vide incombere addosso,

negre, le più possenti delle pareti. E così alla fine giunsero alla Quarta Porta, la Porta di

Ferro Battuto. Alto e nero era il muro, e nessuna lampada lo illuminava. Quattro torri di

ferro esso reggeva, e tra le due interne era collocata l'immagine di una grande aquila

modellata in ferro, ed era la copia esatta di Re Thorondor stesso, quale poteva librarsi su un

monte da aeree altezze. Ma, stando di fronte alla porta, sembrò a Tuor, e ne fu stupito, di

scorgere, attraverso rami e viticci di alberi imperituri, una pallida pianura della Luna.

Perché una luce filtrava dagli ornamenti della porta, che erano fusi e martellati in forma di

alberi dalle radici contorte e dai rami allacciati carichi di foglie e fiori. Superando la porta,

poté capire com'era possibile: il muro infatti era di grande spessore e non v'era un'unica

inferriata, ma tre una dietro l'altra, così ravvicinate che, per chi le vedesse dal di fuori,

erano tutte parti dello stesso artifizio; ma la luce al di là era la luce del giorno.

Erano infatti saliti a grande altezza al di sopra delle bassure da cui erano partiti, e di

là dalla Porta di Ferro la strada era quasi piana. Inoltre, si erano lasciati alle spalle il cuore

stesso dell'Echoriath, e le torreggianti montagne ora precipitavano ratte verso i colli interni,

e la gola s'apriva più ampia, con pareti meno ripide. I suoi lunghi margini erano ammantati

di candida neve, e la luce del cielo riflessa dalla neve giungeva bianca come luce attraverso

una bruma radiosa che riempiva l'aria.

Passarono attraverso le schiere delle Guardie di Ferro che stavano alle spalle della

porta; neri erano i loro mantelli e le loro cotte e i lunghi scudi, e i loro volti erano coperti da

celate ciascuna in forma di becco d'aquila. Poi, sempre seguendo Elemmakil, giunsero nella

pallida luce; e Tuor vide, accanto alla strada, un ciuffo d'erba dove simili a stelle fiorivano

bianchi gli uilos, i Ricordasempre, i fiori perenni che non conoscono stagione e mai

appassiscono 27

; e così, il cuore colmo di meraviglia e gioia, giunse alla Porta d'Argento.

Il muro della Quinta Porta era di bianco marmo, ed era basso e largo, e il parapetto

era un graticcio d'argento tra cinque grandi globi marmorei; e lì stavano molti arcieri

biancovestiti. La porta aveva la forma di due terzi d'un cerchio ed era fatta di argento e

perle del Nevrast a simiglianza della Luna; ma sopra di essa, sul globo centrale, stava

un'immagine di Temperion, l'Albero Bianco, in argento e malachite, con fiori fatti di grosse

perle di Balar 28

. E dietro la porta, in un ampio cortile lastricato di marmo verde e bianco,

stavano arcieri in cotte d'argento ed elmi dai bianchi cimieri, un centinaio per lato. Ed

Elemmakil guidò Tuor e Voronwë tra le loro silenziose file, e imboccarono una lunga

strada bianca che correva diritta verso la Sesta Porta; e come andavano, più ampia si faceva

la zona erbosa, e tra le bianche stelle degli uilos spiccavano molti fiorellini che sembravano

occhi d'oro.

Giunsero così alla Porta d'Oro, l'ultima delle antiche porte di Turgon costruita prima della

Nirnaeth; ed essa era molto simile alla Porta d'Argento, salvo che il muro era di marmo

giallo, e globi e parapetto di rosso oro; e i globi erano sei, e nel mezzo, su una piramide

d'oro, stava un'immagine di Laurelin, l'Albero del Sole, con fiori di topazio in lunghi

grappoli appesi a catene d'oro; e la porta stessa era adorna di dischi d'oro a molti raggi a

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simiglianza del sole, inseriti in artifici di granati, topazi e diamanti gialli. Nella corte

retrostante erano schierati trecento arcieri con lunghi archi, e le loro cotte erano dorate, i

loro elmi sovrastati da lunghe piume anch'esse dorate; e rossi come fiamma erano i loro

grandi scudi.

Ora il sole illuminava la strada che proseguiva, ché le pareti dei colli erano basse

d'ambo i lati e verdi, salvo che sulle cime innevate; ed Elemmakil affrettò il passo, poiché

breve era il tratto sino alla Settima Porta, denominata la Grande, la porta di acciaio che

Maeglin aveva forgiata dopo il ritorno dalla Nirnaeth, a bloccare l'ampio accesso all'Orfalch

Echor.

Non vi si levava un muro ma, d'ambo i lati, due torri circolari di grande altezza con

molte finestre, che s'andavano rastremando per sette piani in una cuspide di lucente acciaio,

e tra le torri possente stava una palizzata d'acciaio inossidabile, e che splendeva freddo e

bianco. Sette grandi pilastri di acciaio si drizzavano, alti e spessi come forti alberi giovani,

ma che terminavano in un'acuminata punta sottile in cima come un ago; e, tra i pilastri,

sette traverse d'acciaio, e in ognuno degli spazi sette volte sette barre diritte d'acciaio, con

sommità che parevano larghe lame di spade. Al centro però, sopra il pilastro di mezzo, il

maggiore, si levava possente l'immagine dell'elmo regale di Turgon, la Corona del Regno

Celato, incastonata di diamanti.

Né cancello né porta Tuor poté vedere in quella poderosa siepe di acciaio, ma come

s'avvicinava attraverso gli spazi tra le sbarre venne proprio a lui, così gli parve, una luce

accecante, ed egli si coprì gli occhi, e si immobilizzò sgomento e meravigliato. Ma

Elemmakil andò avanti, e nessuna porta s'aprì al suo tocco: semplicemente batté su una

sbarra, e la cancellata risuonò come un'arpa multicorde, emettendo chiare note armoniche

che corsero di torre in torre.

Subito dalle torri uscirono cavalieri, e davanti a quelli della torre settentrionale uno

venne su un bianco cavallo dal quale smontò per avanzare a piedi verso di loro. E per alto e

nobile che fosse Elemmakil, più grande e altero era Ecthelion, Signore delle Fontane, in

quel tempo Custode della Grande Porta. Tutto d'argento era vestito, e sopra il suo elmo

scintillante era posta una punta d'acciaio recante in cima un diamante; e come il suo

scudiero gli prese lo scudo, questo balenò quasi fosse coperto di gocce di pioggia, che in

effetti erano mille e più borchie di cristallo.

Elemmakil lo salutò e disse: « Ecco qui Voronwë Aranwion, reduce da Balar; e ho

portato anche lo straniero che ha condotto con sé, il quale chiede di vedere il Re ».

Si volse allora Ecthelion a Tuor, ma questi si chiuse nel mantello e rimase in silenzio,

a guardarlo; e parve a Voronwë che una bruma ammantasse Tuor, e che la statura ne fosse

aumentata, sì che la sommità del suo cappuccio sovrastava l'elmo del Signore di Elfi, quasi

fosse la cresta di una grigia onda marina cavalcante verso terra. Ma Ecthelion puntò il suo

sguardo lucente su Tuor, e dopo un breve silenzio disse con tono grave: « Sei giunto

all'ultima porta. Sappi che nessuno straniero che la varchi uscirà mai di qui, se non per la

porta della morte ».

« Non dir cose di cattivo augurio! Se il messaggero del Signore delle Acque esce per la

porta che hai detto, ebbene, tutti coloro che qui dimorano lo seguiranno. Signore delle

Fontane, non impedire il passo al messaggero del Signore delle Acque! »

Allora Voronwë e quanti erano vicini tornarono a guardare sorpresi Tuor,

meravigliandosi delle sue parole e della sua voce. E a Voronwë parve di aver udito, sì, una

grande voce, ma come di uno clamante da molto lontano. A Tuor invece parve di ascoltare

se stesso che parlava, come se un altro lo facesse per bocca sua.

A lungo Ecthelion rimase a guardare Tuor in silenzio, e lentamente timore

reverenziale gli si dipinse in volto. Poi si inchinò, s'accostò alla cancellata e vi posò le

mani, e porte s'aprirono verso l'interno d'ambo i lati del pilastro della Corona. Allora Tuor

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entrò e, giunto su un'altura che dominava la valle sottostante, poté vedere Gondolin tra la

bianca neve: si stendeva una vasta pianura, e in essa, non proprio al centro ma leggermente

più vicino al luogo dove si trovavano, si levava un grande colle con la sommità appiattita,

dove una città sorgeva sotto la luce novella del mattino. E ne fu a tal punto incantato, che a

lungo null'altro poté guardare, poiché davanti a sé aveva finalmente la visione del suo

desiderio uscita da ardenti sogni.

E così ristette, senza parlare. Silenziosa d'ambo i lati era una schiera dell'esercito di

Gondolin, e vi erano rappresentati tutti i guardiani delle sette porte; ma i loro capitani e

comandanti erano in groppa a cavalli bianchi e grigi. Poi, mentre contemplavano Tuor

stupiti, il mantello cadde di dosso a questi, che fu di fronte a loro nel possente arnese del

Nevrast. E molti erano là di coloro che avevano visto Turgon stesso appendere quegli

oggetti al muro dietro l'Alto Seggio di Vinyamar.

Alla fine, Ecthelion disse: « Rallegratevi di aver scoperto la Via, poiché ecco dinanzi a

voi la Città dai Sette Nomi, dove chiunque combatta contro Morgoth può trovare speranza.

Si dice e si canta: “Sono chiamata Gondobar e Gondolindrimbar, Città di Pietra e Città de-

gli Abitanti nella Pietra; ho nome Gondolin, la Pietra di Canto, e Gwarestrin, la Torre di

Guardia, o Gar Thurion il Luogo Segreto, poiché sono celata agli occhi di Morgoth; ma

quanti più mi amano mi dicono Loth, perché sono come un fiore, oppure anche Lothengriol,

il fiore che sboccia nella piana”. Tuttavia nella parlata quotidiana diciamo e la chiamiamo

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Gondolin, splendida alla vista e luminosa, e le sue torri trafiggono i cieli sopra il Colle di

Guardia in mezzo alla pianura. »

Proseguì Ecthelion: « Chiaro è che ormai nessun'altra prova abbisogna; e persino il

nome di figlio di Huor che costui dice suo, importa meno della trasparente verità che egli è

mandato da Ulmo stesso. »

Tuor dichiarò che il suo cuore era ansioso di percorrere le vie della bella città.

Ecthelion diede ordine che fosse suonato il segnale e trombe vennere fatte squillare dalle

torri della Grande Porta, e le colline ne riecheggiarono. Un breve silenzio, poi udirono,

lontane, altre trombe che rispondevano dalle mura della città, soffuse dal rosa dell’aurora

che inondava la piana. Furono portati i cavalli e si avviarono verso Gondolin. Note

1 Nel Silmarillion, p. 244, si dice che quando i Porti di Brithombar e di Eglarest vennero distrutti l'anno

successivo alla Nirnaeth Arnoediad, gli Elfi delle Falas scampati andarono con Círdan sull'Isola di Balar, che

divenne un rifugio per tutti quelli che vi approdarono; essi infatti tennero una testa di ponte alle Bocche del

Sirion, e quivi molte navi leggere e veloci stavano nascoste nelle cale e nelle acque dove le canne erano fitte

come una foresta ». 2 Anche altrove si fa riferimento alle lampade emananti una luce azzurra degli Elfi Noldorin, per quanto

esse non compaiano nel testo del Silmarillion dato alle stampe. In precedenti versioni del racconto di Túrin,

Gwindor, l'Elfo del Nargothrond fuggito da Angband e trovato da Beleg nella foresta Taur-nu-Fuin, era in

possesso di una di queste lampade (la si nota nel dipinto di quell'incontro eseguito da mio padre, si veda

Pictures by J. R. R Tolkien, 1979, n. 37); e la lampada, rovesciandosi e scappucciandosi, rivelò con la sua

luce a Túrin il volto di Beleg da lui ucciso. In una nota alla storia di Gwindor, sono chiamate « lampade

fëanoriane », delle quali i Noldor stessi ignoravano il segreto; sono descritte come « cristalli sospesi in una

reticella, sempre risplendenti di un'interna radianza azzurra ». 3 « Il sole splenderà sul tuo cammino. » Nell'assai più breve storia narrata nel Silmarillion, non si fa

parola di come Tuor trovò la Porta Noldor, come non si fa menzione degli Elfi Gelmir e Arminas, i quali però

compaiono nel racconto di Túrin (Il Silmarillion, p. 265) in veste di messaggeri che recano nel Nargothrond

l'avvertimento di Ulmo; di loro si dice che appartengono alla gente del figlio di Finarfin, Angrod che dopo la

Dagor Bragollach visse al Sud con Círdan il Carpentiere. In una più lunga versione della storia del loro arrivo

nel Nargothrond Arminas, istituendo un paragone tra Túrin e il suo parente a sfavore del primo, dice di aver

incontrato Tuor nelle solitudini del Dor-lomin » (v. p. 161). 4 Nel Silmarillion, pp. 93-94, si narra che quando Morgoth e Ungoliant litigarono per il possesso del

Silmaril, il primo « diede in un terribile urlo e ne riecheggiarono i monti. Ragion per cui la regione fu

chiamata Lammoth, poiché gli echi della sua voce vi dimorarono per sempre, sì che chiunque gridasse alto in

quella terra li risvegliava, e l'intero deserto tra le alture e il mare si riempiva di un clangore come di voci

angosciate ». Qui, al contrario, sembrerebbe piuttosto che ogni suono che vi fosse emesso venisse di per sé

amplificato, idea chiaramente presente anche all'inizio del capitolo XIII del Silmarillion dove, in un passo

molto simile al presente, si dice che « come i Noldor misero piede sulla riva, le loro grida furono captate dalle

alture e moltiplicate, sicché un clamore come di innumerevoli voci possenti riempì tutte le coste del Nord ».

A quanto pare, stando a una "tradizione", Lammoth e gli Ered Lómin, « i Monti Echeggianti », furono così

denominati perché avevano trattenuto gli echi del terribile urlo emesso da Morgoth alle prese con Ungoliant;

mentre, stando a un'altra "tradizione", i nomi semplicemente designano la natura dei suoni propri di quella

regione. 5 Cfr. Il Silmarillion, p. 269: « E Túrin correva lungo le vie del Nord, per le contrade ormai desolate tra

il Narog e il Teiglin, e il Funesto Inverno scese a investirlo, poiché quell'anno la neve cadde prima che

l'autunno fosse terminato, e la primavera giunse tardiva e fredda ». 6 Nel Silmarillíon, p. 53, si legge che quando Ulmo apparve a Turgon in Vinyamar, ordinandogli di

recarsi in Goldolin, gli disse: « Può dunque accadere che la maledizione dei Noldor colpisca anche te prima

della fine e che il tradimento serpeggi tra le tue mura. Esse allora saranno minacciate di fuoco. Ma, dovesse il

periglio avvicinarsi davvero, allora dal Nevrast uno verrà ad avvertirtene, e grazie a costui speranza rinascerà,

per Elfi e Uomini, di là dalla rovina e dal fuoco: Lascia dunque in questa casa armi e una spada, per modo

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che in armi a venire costui le trovi, e tu le riconosca e non sia ingannato ». Ulmo disse anche a Turgon quale

forma e dimensioni dovessero avere l'elmo, la cotta di maglia e la spada da lui lasciati. 7

Tuor era il padre dì Eärendil, a sua volta padre di Elros Tar-Mìnyatur, primo Re di Númenor. 8 II riferimento deve essere all'avvertimento di Ulmo fatto conoscere nel Nargothrond da Gelmir e

Arminas; si veda pp. 222 ss. 9 Le Isole Ombrose erano probabilmente le Isole Incantate di cui alla fine del capitolo XI del

Silmarillion, che erano « raccolte come in una rete nei Mari Ombrosi dal nord al sud » al momento

dell'Occultamento di Valinor. 10

Cfr. Il Silmarillion, p. 245: « Su sua [di Turgon] esortazione, Círdan costruì [dopo la Nirnaeth

Arnoediad] sette navi veloci che salparono per l'Occidente; ma nessuna notizia più se ne ebbe in Balar, salvo

di una, l'ultima. I marinai di quel vascello a lungo soffrirono per mare, e rivolgendo alla fine la prua in preda

alla disperazione incapparono in una grande tempesta in vista delle coste della Terra-di-mezzo, e perirono;

uno però fu sottratto da Ulmo alla collera di Ossë, e le onde lo sorressero e lo rigettarono sulla riva del

Nevrast. Il suo nome era Voronwë, ed era uno di quelli che Turgon aveva inviato come messi in Gondolin ».

Cfr. anche Il Silmarillion, p. 300. 11

Le parole dette da Ulmo a Turgon si trovano anche nel capitolo XV del Silmarillion in altra forma:

« E rammenta che la speranza vera dei Noldor sta in Occidente e viene dal Mare » e che, « dovesse il peri -

glio avvicinarsi davvero, allora dal Nevrast uno verrà ad avvertirtene ».

12

Nel Silmarillion nulla si dice del destino toccato a Voronwë dopo il suo ritorno a Gondolin con Tuor;

nella versione originaria, però (« Tuor e gli Esuli di Gondolin »), era uno di coloro che erano s fuggiti al sacco.

della città, come del resto è implicito nelle parole qui pronunciate da Tuor. 13

Cfr. II Silmarillion: Turgon « credeva tuttavia anche che la fine dell'assedio segnasse l'inizio del

declino dei Noldor, ammenoché questi non ricevessero qualche aiuto, ragion per cui in segreto mandò drap-

pelli di Gondolindrim alle Bocche del Sirion e all'Isola di Balar. Quivi costoro costruirono navi e fecero vela

per l'estremo Ovest cercando, per incarico di Turgon, Valinor, onde implorare il perdono e l'aiuto dei Valar; e

supplicarono gli uccelli del mare di guidarli. I mari erano però selvaggi e vasti, e ombra e incantesimi li

aduggiavano; e Valinor restava celata. Sicché, nessuno dei messaggeri di Turgon giunse in Occidente, ma anzi

molti perirono e pochi tornarono ».

In uno dei "testi preparatori" del Silmarillion, si legge che, sebbene i Noldor « non possedessero l'arte

della costruzione di navi, e tutti i vascelli da essi costruiti naufragassero o fossero respinti dai venti », pure

dopo la Dagor Bragollach « Turgon continuò ad avere un rifugio segreto sull'Isola di Balar » e quando, dopo

la Nirnaeth Arnoediad, Círdan e quanto restava della sua gente fuggirono da Brithombar e da Eglarest a Balar,

« si unirono a quelli dell'avamposto che Turgon vi aveva ». Ma questa componente della vicenda venne poi

abolita, con la conseguenza che nel testo del Silmarillion dato alle stampe non si trova riferimento alcuno alla

creazione di stanziamenti degli Elfi di Gondolin sull'Isola di Balar. 14

Nel Silmarillion non si fa menzione dei boschi di Núath, i quali non compaiono neppure nella mappa

che correda l'opera. Si estendevano verso ovest, dal corso superiore del Narog, verso la sorgente del Nenning. 15

Cfr. Il Silmarillion, pp. 262-263: « Finduilas figlia di Orodreth il Re [riconobbe Gwindor] e gli diede

il benvenuto perché lo aveva amato prima della Nirnaeth, e Gwindor ne amava a sua volta la bellezza a tal

punto che la chiamava Faelivrin, vale a dire il barbagliare del sole sugli stagni di Ivrin » . 16

Il fiume Glithui non è menzionato nel Silmarillion, e il suo nome non è segnato sulla mappa, dove

tuttavia ne è indicato il corso: si tratta di un affluente del Teiglin che vi si getta un po' a nord della confluenza

del Malduin. 17

Di questa strada si parla nel Silmarillion, p. 257: « Lungo l'antica strada... che conduceva per la

stretta gola del Sirion, da oltre l'isola dove si levava un tempo la Minas Tirith di Finrod, e attraverso la

contrada tra il Malduin e il Sirion, e lungo i margini del Brethil fino ai Guadi del Teiglin ». 18

« Morte ai Glamhoth! » Tale nome, sebbene non ricorra né nel Silmarillion né nel Signore degli

Anelli, nella lingua Sindarin designava genericamente gli Orchi, con il significato di « orda assordante »,

« milizie del tumulto ». Cfr. la spada di Gandalf, Glamdring, e Tol-in-Gauroth, l'Isola delle schiere dei Lupi

Mannari. 19

Echoriath: i Monti Cerchianti attorno alla piana di Gondolin. ered e- mbar nín = i monti della mia

patria. 20

Nel Silmarillion, p. 250, Beleg del Doriath dice a Túrin (alcuni anni prima dei fatti qui narrati) che gli

Orchi si erano « aperti un varco per il Passo di Anach » e che « il Dimbar, che un tempo viveva in pace, a

poco a poco cade sotto il dominio della Mano Nera ». 21

Per questa strada Maeglin e Aredhel fuggono a Gondolin inseguiti da Eöl (Il Silmarillion, capitolo

XVI); e in seguito la seguirono Celegorm e Curufin quando furono scacciati dal Nargothrond (lbid., p. 218).

Soltanto nel presente testo si accenna al fatto che essa si prolungava fino all'antica dimora di Turgon a

Vinyamar, ai piedi di Taras; e il suo decorso non è segnato sulla mappa a partire dal punto in cui si congiunge

con la strada meridionale per il Nargothrond, ai limiti nordoccidentali del Brethil.

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28

22 Nel nome Brithiach è contenuta la radice brith, « ghiaia », come pure in quelli del fiume Brithon e del

porto di Brithombar. 23

In una versione parallela di questo stesso passo, quasi certamente ripudiata in favore dell'unica

pubblicata, i viandanti non superavano il Sirion al Guado di Brithiach, perché giunsero al fiume parecchie

leghe a nord di questo. « Seguirono un faticoso sentiero che li portò alla riva del fiume, e quivi Voronwë

gridò: "O meraviglia! È cosa che preannuncia sia bene che male. Il Sirion è gelato, ancorché in nessun

racconto si trovi nulla di simile dacché gli Eldar sono venuti dall'Est. Così possiamo passarlo e risparmiarci

molte gravose miglia, troppo lunghe per le nostre forze. Ma così anche altri possono averlo passato o possono

seguirci".» I due superano il fiume camminando sul ghiaccio senza incontrare ostacoli, « e così i consigli di

Ulmo volsero a profitto la perfidia dell'Avversario, poiché il percorso fu abbreviato e, al termine delle loro

speranze e delle loro forze, Tuor e Voronwë giunsero finalmente al Fiume Secco nel punto in cui sbucava

dall'orlo dei monti ». 24

Cfr. II Silmarillion, p. 152: « C'era però una via profonda sotto i monti scavata nella tenebra del

mondo da acque che andavano a gettarsi nelle correnti del Sirion; e tale via Turgon reperì, e in tal modo

giunse alla verde piana tra i monti e scorse la collina isolata che vi si ergeva, tutta duro sasso liscio; la valle

infatti era stata, in tempi antichi, un grande lago ». 25

Nel Silmarillion non si dice che le grandi aquile abitassero sui Thangorodrim. Nel capitolo XIII (p.

133) Manwë « aveva inviato la razza delle Aquile, comandando loro di dimorare sulle balze del Nord, e di

vigilare Morgoth »; mentre nel capitolo XVIII (p. 191) Thorondor « si precipitò dal suo nido tra i picchi del

Crissaegrim » per recuperare il corpo di Fingolfin davanti ai cancelli di Angband. Cfr. anche II Ritorno del

Re, VI, 4: « Il vecchio Thorondor, che aveva costruito i suoi nidi tra le inaccessibili cime dei Monti

Cerchianti quando la Terra-di-mezzo era giovane ». Con ogni probabilità, l'idea iniziale della dimora di

Thorondor sui Thangorodrim, reperibile anche nel testo originario del Silmarillion, in seguito venne

abbandonata. 26

Nel Silmarillion non si dice nulla di specifico circa il linguaggio degli Elfi di Gondolin; ma da questo

passo si arguisce che per alcuni di essi l'Alta Lingua (Quenya) era d'uso corrente. In un successivo saggio

etimologico si legge che il Quenya era usato quotidianamente in casa di Turgon e che era stato la lingua

materna di Eärendil, ma che « per la maggior parte della gente di Gondolin era divenuta una lingua libresca, e

quanto agli altri Noldor essi si servivano comunemente del Sindarin ». Cfr. Il Silmari llion (p. 158): dopo

l'editto di Thingol « gli Esiliati presero l'abitudine di servirsi, nell'uso quotidiano, del Sindarin, e l'Alta

Lingua dell'Occidente fu parlata soltanto dai signori dei Noldor tra loro. Ed essa continuò a vivere co me

favella sapienziale ovunque i Noldor stessi vivessero ». 27

Erano questi i fiori che abbondavano sui tumuli funerari dei Re di Rohan sotto Edoras, e che Gandalf

nella lingua dei Rohirrim (tradotta in Old English) denominò simbelmynë, vale a dire « ricorda sempre »

perché fioriscono in tutte le stagioni dell'anno e crescono dove riposano i morti (Le Due Torri, III, 6). Solo in

questo passo si trova il nome elfico uilos, ma la parola ricorre anche in Amon Uilos, come il nome Quenya

Oiolossé («sempre bianco come neve», il Monte di Manwë) era reso in Sindarin. In « Cirion ed Eorl », il fiore

reca un altro nome elfico, alfirin (p. 407). 28

Nel Silmarillion, p. 109, si legge che Thingol ricompensò i Nani di Belegost con « molte belle perle.

A dargliele era stato Círdan, perché in gran numero le si trovava nelle acque basse attorno all'Isola di Balar ».

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TUOR A GONDOLIN – LO SVELAMENTO

Allora Tuor e Voronwë avanzarono a cavallo nella piana, che era meravigliosamente

uniforme e solo interrotta qua e là da massi tondi e lisci sparsi tra l'erba, o da laghetti con il

fondo roccioso. La attraversavano numerosi bei sentieri, e dopo un cammino lungo quanto

la luce del giorno essi arrivarono ai piedi del Colle di Guardia (che nella lingua dei Noldor è

Amon Gwareth). Qui cominciarono a salire per le scale tortuose che si arrampicavano fino

all'ingresso della città; nessuno infatti poteva raggiungerla se non a piedi e spiato dalle

fortificazioni. Furono alla sommità della lunga scalinata quando la porta occidentale

s'indorava dell'ultimo sole, mentre molti occhi li osservavano dai bastioni e dalle torri.

Ma Tuor contemplava le mura di roccia, gli alti torrioni e i pinnacoli della città,

ammirava le scale di pietra e marmo, orlate da balaustre sottili e rinfrescate dallo zampillare

di cascatelle filiformi che cercavano la pianura dalle fonti di Amon Gwareth, e proseguiva

come in un sogno degli Dèi, poiché non riteneva possibile che gli uomini scorgessero cose

simili nelle visioni del loro sonno, tanto grande era la sua meraviglia per lo splendore di

Gondolin.

Così giunsero alle porte, Tuor stupefatto e Voronwë colmo di gioia.

Le strade di Gondolin si svolgevano ampie e lastricate di pietra, con il ciglio di marmo,

e lungo le vie si aprivano case incantevoli e cortili fra giardini dai fiori vivaci e parchi di

mallorn, betulle e sempreverdi, mentre molte torri assai sottili e belle, costruite con il

marmo bianco e scolpite nel modo più stupefacente, s'innalzavano fino al cielo. C'erano

piazze rallegrate da fontane, dimora di uccelli che cantavano fra i rami degli alberi antichi;

nella più grande, la Piazza della Fontana, si ergeva il palazzo del re, la cui torre superava

tutte le altre della città, e le fontane che zampillavano dinanzi alla porta lanciavano l'acqua

nell'aria per ventisette braccia e la facevano ricadere in una melodiosa pioggia di cristallo:

qui di giorno il sole brillava in modo splendido, mentre di notte la luna scintillava con

grande magia. Gli uccelli che dimoravano laggiù erano del candore della neve e avevano

voci più dolci di una ninna-nanna.

Ai lati della porta del palazzo sorgevano due alberi, uno con i fiori d'oro e l`altro

d'argento, che non appassivano mai, immagini in metalli preziosi dei gloriosi Alberi di

Valinor, i quali, prima che Morgoth e Ungoliant li facessero avvizzire, illuminavano quel

luogo: i Gondolindrim li chiamavano rispettivamente Glingal, “Fiamma Sospesa” e Belthil,

“Radianza Divina”.

Sopra la porta fiammeggiavano gli otto sinuosi raggi della stella argentata su campo blu,

stendardo di Fingolfin e le quarantacinque punte degradanti del sole alato incandescente

degli Alti Re dei Noldor. Ed accanto v’era uno stemma più piccolo, ma non meno regale,

che pareva un fiordaliso, i cui petali s’allungavano in dodici sagitte che raggiungevano il

bordo del cerchio, suggerendo il rango corrispondente ad un figlio di un Alto Re.

Tuor fu condotto finalmente alla Torre del Re, sostenuta da un immenso porticato a

colonne crisoelefantine, e fu al cospetto di Turgon, Re Supremo dei Noldor, il più alto di

tutti i figli del mondo, dopo la morte del fratello Fingon. Alla destra del Re sedeva Maeglin

suo nipote, alla sinistra stava Idril Celebrindal, sua figlia, con la sua chiona di grano dorata.

Su nessun seggio ristava la Regina di Gondolin, perita assai prima durante

l’attraversamento dell’Helcaraxë, quando la terra era ancor giovane. E mai la Città Celata

ne avrebbe vista una.

Allora Turgon, figlio di Fingolfin, abbigliato di bianco con una cinta d'oro, sul capo un

diadema di granate ed una spada anch’essa bianca e oro in fodero di ruel (avorio), parlò:

« Benvenuto, o Uomo della Terra d'Ombre. Ebbene! Il tuo arrivo era segnato nei nostri libri

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di sapienza, ed è scritto che molte grandi cose debbano accadere nelle case dei

Gondolindrim quando tu vi sia giunto. »

Tuor disse allora, mentre Ulmo gli infondeva potenza nel cuore e maestà nella voce:

« O padre della Città di Pietra, colui che suona musica profonda nell'Abisso e conosce la

mente di Elfi e Uomini mi ha ordinato di rivelarti come siano ormai prossimi i giorni della

Liberazione. Ulmo ha il cuore colmo d'ira, e adirati sono i cuori dei Valar, che siedono sui

monti di Valinor e guardano il mondo dalla vetta di Taniquetil, scorgendo la sofferenza

della schiavitù dei Noldor e i vagabondaggi degli Uomini; Morgoth infatti li circonda nella

Terra d'Ombre oltre colli di ferro. Perciò sono stato condotto lungo una via segreta per

invitarti a contare le tue armate e a prepararti per la battaglia, poiché il tempo è maturo. La

maledizione di Mandos ormai si affretta al proprio compimento: le opere dei Noldor sono

vicine a perire. »

Turgon rispose: « Non lo farò, siano pure queste le parole di Ulmo e di tutti i Valar. Non

avventurerò così il mio popolo contro il terrore degli Orchi, né porrò a repentaglio la mia

città con il fuoco di Morgoth. »

Tuor allora ribatté: « No, se non sai osare parecchio ora, gli Orchi resteranno per

sempre e alla fine possederanno quasi tutti i monti della Terra, e non cesseranno di tor-

mentare Elfi e Uomini, anche qualora i Valar riescano poi, con altri mezzi, a liberare i

Noldor; ma se ora hai fiducia nei Valar, per quanto terribile potrà essere lo scontro, gli

Orchi verranno sconfitti. »

Ma Turgon s’era fatto superbo e replicò che lui era il re di Gondolin e nessuna volontà

poteva costringerlo, contro il proprio avviso, a mettere in pericolo l'amato lavoro di lunghe

ere trascorse; Tuor allora dichiarò, come gli aveva ordinato Ulmo che aveva temuto la

riluttanza di Turgon: « In questo caso mi è stato comandato di insistere affinché alcuni

uomini dei Gondolindrim discendano veloci e segreti lungo il fiume Sirion fino al mare, e

qui costruiscano barche e cerchino di tornare in Valinor: ebbene, i sentieri che conducono

laggiù sono scordati e le strade maestre svanite dal mondo, e il luogo è circondato dai mari

e dalle montagne, tuttavia gli Elfi ancora dimorano sul colle di Tirion e gli Dèi siedono in

Valinor, benché la loro felicità sia forse diminuita; essi nascondono la propria terra e le

tessono intorno una magia inaccessibile, cosicché il male non giunga alle sue rive. Eppure,

è ancora possibile che i tuoi messaggeri arrivino fin laggiù e volgano i cuori a insorgere

adirati e sgominare Morgoth, e a distruggere gli Inferni di Ferro che egli ha costruito sotto i

Monti d'Oscurità. » Le sue parole parvero quelle di un dio, perché Ulmo lo ispirava e tutti

coloro che gli prestarono orecchio si meravigliarono, dubitando colui fosse davvero un

Uomo di stirpe mortale. Le sue labbra si serrarono ed attese immoto, tessendo lo sguardo

sopra ai signori del Regno Celato.

E nel momento in cui Tuor mise gli occhi su Idril, la sua anima si rammentò di aver

visto poche donne in vita sua, e nessuna che si potesse accostare alla dama dorata, perché

da schiavo v’erano state solo le barbare superbe e riottose degli Orientali e le infelici

compagne di ceppi, obbligate al lavoro fin dall’infanzia. Le prime lo trattavano come fosse

una bestia dei boschi, e di loro ricordava il sapore della paura e dell’odio; per le seconde

solamente pietà aveva saputo nutrire. E mai altra schiatta femminile aveva incontrato sulla

sua strada, giacché tutte le donne e i figli di Annael nel Mithrim erano stati inviati a sud.

Cosicché l’intensità e la malía di quella visione non poterono più essere cancellate dai

suoi occhi.

Ma Turgon interrupe il suo turbamento e ribatté: « Ogni anno, quando l'inverno si

solleva, messaggeri sono discesi veloci e furtivi lungo il fiume che ha nome Sirion fino alle

coste del Grande Mare, e qui si sono costruiti barche alle quali hanno aggiogato cigni e

gabbiani, oppure le ali robuste del vento, e hanno cercato di tornare oltre il sole e la luna

fino a Valinor; tuttavia i sentieri che conducono laggiù sono scordati e le strade maestre

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svanite dal mondo, il luogo è circondato dai mari e dalle montagne, e quanti là dimorano

felici si curano ben poco del terrore di Morgoth o della sofferenza del mondo, ma

nascondono la loro terra e le tessono intorno una magia inaccessibile, cosicché nessuna

cattiva notizia giunga mai al loro orecchio. No, sono abbastanza quelli del mio popolo che

per anni incalcolabili hanno viaggiato verso le ampie acque per non tornare mai più, e sono

periti negli abissi o vagano ora perduti nelle ombre prive di sentieri; all'arrivo del prossimo

anno nessuno partirà di nuovo per il mare, ma ci affideremo piuttosto a noi stessi e alla

nostra città per guardarci da Morgoth: in ciò i Valar sono stati di scarso aiuto in passato. Le

spie di Angband invano ci hanno cercati; la nostra dimora è come una voce che corre, un

segreto che nessuno potrà scoprire. »

Al che il cuore di Tuor divenne greve e Voronwë pianse. Tuor sedette presso la grande

fontana del sovrano, il cui zampillo gli rammentò la musica delle onde, e la sua anima fu

turbata dalle buccine di Ulmo; avrebbe voluto ridiscendere le correnti del Sirion fino al

mare. Ma Turgon, che sapeva come Tuor, in quanto mortale, godesse del favore dei Valar,

notandone lo sguardo risoluto e la potenza della voce, lo invitò a vivere a Gondolin col suo

favore, e perfino, se lo voleva, a dimorare nelle aule regie.

Tuor allora, poiché si sentiva esausto e il luogo era incantevole, accettò la proposta; così

avvenne che Tuor dimorò a Gondolin. I racconti non narrano di tutte le sue imprese presso i

Gondolindrim, ma si dice che molte volte egli sarebbe sgusciato via da quel luogo, stanco

dell'affollarsi di popolo e sognando foreste deserte e balze rocciose, o udendo di lontano la

musica marina di Ulmo, se il suo cuore non si fosse colmato d'amore per la figlia del re.

In quei reami Tuor imparò molte cose grazie agli insegnamenti di Voronwë, il quale gli

era molto caro e che, di rimando, provava per lui un affetto enorme; oppure venne istruito

dagli uomini esperti della città o dai sapienti del sovrano. Perciò diventò assai più potente

che nel passato e i suoi consigli erano pieni di saggezza; molti fatti prima confusi gli

divennero chiari, e conobbe molte cose tuttora ignote agli Uomini mortali. Seppe di quando

scavarono la galleria nascosta che chiamavano la Via di Fuga e di come sull'argomento i

pareri fossero stati discordi, e tuttavia la pietà per i Noldor schiavi avesse infine prevalso,

ottenendone la realizzazione; gli fu riferito della guardia senza sosta che si faceva laggiù in

armi e similmente in certi luoghi bassi delle montagne tutt'intorno, e di come sentinelle

sempre vigili dimorassero sulle vette più elevate della catena di monti, accanto a torrette di

segnalazione pronte al fuoco; quella gente, infatti, non cessava mai di aspettarsi un assalto

degli Orchi, qualora la loro roccaforte fosse divenuta nota.

Allora comunque la guardia dei colli era mantenuta più per abitudine che per necessità,

poiché molto tempo prima, con fatica enorme, i Gondolindrim avevano livellato, disboscato

e scavato tutta la piana intorno ad Amon Gwareth, di modo che non appena qualcuno si

avvicinava alla città, fosse un Elfo, un uccello, un animale o un serpente, era spiato a molte

leghe di distanza, dato che molti fra i Gondolindrim avevano occhi più acuti perfino dei

falchi di Manwë Súlimo, Signore degli Dèi e degli Elfi, la cui dimora è sopra Taniquetil;

per questo motivo chiamavano il luogo Tumladen, ossia valle levigata. Essi ritenevano che

la grande opera fosse ormai conclusa e la gente era tutta occupata a estrarre i metalli e a

forgiare spade, asce, lance e alabarde d'ogni sorta, e a fabbricare cotte di maglia, armature e

corpetti, gambali e copribraccia, elmi e scudi. A Tuor fu riferito che già l'intero popolo di

Gondolin, tirando d'arco senza sosta giorno e notte, non avrebbe potuto esaurire le frecce

accumulate neppure in molti anni, e che perciò a ogni stagione la loro paura degli Orchi

scemava.

Là Tuor apprese come si costruisce con la pietra e con i mattoni, e come si spaccano la

roccia e il marmo; approfondì le arti della filatura e della tessitura, del ricamo e del

dipingere, diventando inoltre esperto nei metalli. Poté udire le musiche più delicate; in ciò

profondamente versati erano soprattutto quanti dimoravano nella parte meridionale della

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città, poiché laggiù suonavano in grande profusione fonti e sorgenti colme di mormorii.

Tuor acquistò padronanza in molte di queste raffinatezze, che imparò a intrecciare con le

proprie canzoni per la meraviglia e la gioia del cuore di tutti gli ascoltatori. Gli furono

narrate strane storie a proposito del Sole, della Luna e delle Stelle, su com'è fatta la Terra

con i suoi elementi e sulle profondità del cielo; apprese la scrittura segreta degli Elfi, le loro

lingue e gli idiomi antichi, e udì parlare di Ilúvatar, il Signore per Sempre che risiede oltre

il mondo, e della grande musica degli Ainur ai piedi di Ilúvatar negli abissi estremi del tem-

po, da cui vennero la creazione dell'universo e i suoi mondi, nonché tutto ciò che vi esiste e

come è governato.

Così, per la sua abilità e la grande padronanza in ogni arte e tradizione, e per l'estremo

coraggio del cuore e del corpo, Tuor divenne una consolazione e un sostegno per il

sovrano, che non aveva figli maschi; ed era amato dalla gente di Gondolin. Un giorno il re

volle che i suoi migliori artefici fabbricassero un'armatura completa per Tuor, a mo' di

prezioso regalo; essa venne forgiata con l'acciaio dei Noldor e rivestita d'argento, mentre

l'elmo fu ornato con un emblema di metalli e gemme in guisa di due ali di cigno, una su

ogni lato, e un'ala fu intarsiata anche sullo scudo. Egli però, invece di una spada, preferì

portare un'ascia, che nella lingua dei Gondolindrim chiamò Dramborleg, poiché il suo colpo

tramortiva e la sua lama fendeva ogni armatura.

Per lui fu costruita una casa sulle mura meridionali, poiché amava gli spazi liberi e non

gradiva la stretta vicinanza di altre dimore. Là spesso si deliziava di sostare sui bastioni

all'alba, e la gente era lieta di vedere la luce nuova sulle ali del suo elmo - molti

mormoravano, e l'avrebbero volentieri aiutato in battaglia contro gli Orchi, dal momento

che i discorsi di Tuor e Turgon dinanzi al palazzo erano noti a parecchi; ma la cosa non

ebbe sviluppi per riverenza verso Turgon. Sempre Maeglin parlava contro Tuor ai concili

del Re, e le sue parole sembravano tanto più convincenti, dal momento che coincidevano

con i desideri di Turgon, il quale alla fine respinse le esortazioni di Ulmo, ne rifiutò il

consiglio, ancorché nell’avvertimento dei Valar riudisse le parole che tanto tempo avanti,

prima della partenza dei Noldor, erano state pronunciate sulla costa di Araman; e nel cuore

di Turgon si radicò la paura del tradimento. E così venne impartito l’ordine di sigillare

addirittura l’accesso della porta nascosta nei Monti Cerchianti; e da quel momento nessuno

uscì da Gondolin per incombenza di pace o guerra, finché la città durò.

Notizie furono arrecate da Thorondor, Signore delle Aquile, circa la caduta di

Nargothrond e poi circa la rovina del Doriath, nonché dell’uccisione di Thingol e Dior suo

erede; ma Turgon si tappò le orecchie alle ominose voci esterne, giurando di mai più

marciare al fianco di qualsivoglia figlio di Fëanor; e proibì alle sue genti di superare la

cerchia delle alture.

Vennero dunque giorni in cui Tuor aveva dimorato tra i Gondolindrim ormai per sette

anni. Da parecchio tempo conosceva e nutriva nell'animo una passione per la figlia del re, e

ora il suo cuore ne era colmo. Anche Idril provava un grande amore per Tuor; i fili del suo

destino si erano intrecciati con quelli di lui fin dal giorno in cui lo aveva scorto per la prima

volta da un'alta finestra, mentre se ne stava come un supplicante esausto per il lungo cam-

mino dinanzi al palazzo del sovrano. Turgon non aveva motivo di contrastare quell'amore,

poiché vedeva in Tuor un congiunto che gli avrebbe recato consolazione e grandi speranze.

Un figlio degli Uomini ebbe la mano di una figlia degli Eldar, né Tuor fu in questo l'ultimo.

Molti hanno avuto meno felicità di loro, che infine soffersero una pena tremenda. Tuttavia,

enorme fu la gioia di quei giorni, quando Idril e Tuor si sposarono dinanzi al popolo in Gar

Ainion, il Luogo degli Dèi, vicino alle aule del re. Le nozze furono una giornata d'al legria

per la città di Gondolin, e della massima esultanza per Tuor e Idril. Così ebbe luogo il

secondo sposalizio tra Elfi e Uomini. Quindi essi dimorarono felici nella casa sulle mura

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che guardava a sud verso Tumladen, e ciò fu approvato nel cuore da tutti in città, tranne che

da Maeglin. Questo Noldor veniva da una casata antica, benché allora meno numerosa di

altre, ed era lui stesso nipote del re per parte della madre Aredhel, sorella del sovrano; ma il

racconto di Aredhel ed Eöl qui non può essere narrato.

Maeglin aveva per emblema una Talpa nera ed era un grande tra i lavoratori delle cave

e un capo degli scavatori di minerali; molti di questi appartenevano alla sua casa.

Era meno attraente della maggior parte del suo bel popolo; scuro di carnagione e niente

affatto gentile, guadagnava scarsi affetti, e si mormorava avesse sangue di Orco nelle vene,

ma non so come ciò potesse essere vero. Egli aveva spesso cercato di ottenere dal re la

mano di Idril, ma Turgon, memore dell’ostacolo di parentela e vedendo che la figlia era

assai riluttante, gliel'aveva altrettanto spesso negata, poiché gli sembrava che la richiesta di

Maeglin fosse dettata dal desiderio di trovarsi con alti poteri accanto al trono regio, oltre che

dall'amore per l'avvenente fanciulla. Essa era bella davvero e per di più coraggiosa; il

popolo la chiamava Idril dal Piè d'Argento, poiché camminava sempre a piedi nudi e con il

capo scoperto, figlia del re qual era, tranne alle celebrazioni degli Ainur: e Maeglin,

vedendo Tuor spodestarlo, si consumò d'ira.

In quei giorni si compì il tempo del desiderio dei Valar e della speranza degli Eldalië,

poiché Idril, colma d'amore, diede a Tuor un figlio, che fu chiamato Eärendil, il Mezzelfo,

nome coniato coniato con la lingua dei Gondolindrim; e questo accadde che erano trascorsi

cinquecentotré anni dall’avvento dei Noldor nella Terra-di-mezzo.

Di incomparabile bellezza era il bimbo; aveva la pelle d'un candore luminoso e occhi di

un azzurro che vinceva quello del cielo nelle terre del sud - più intenso degli zaffiri sulla

veste di Manwë; sul suo volto splendeva la venustà e la sapienza degli Eldar e la forza e

l’ardire degli Uomini antichi. Alla sua nascita profonda fu l'invidia di Maeglin, ma la gioia

di Turgon e di tutto il popolo enorme davvero.

Diversi anni si erano spenti da quando Tuor s'era smarrito fra i colli ed era stato

abbandonato dai Noldor. Sicché, all’epoca i giorni di Gondolin erano ancora tutti gioia e

pace; e nessuno sapeva che la regione in cui si trovava il Regno Celato era stata finalmente

svelata a Morgoth dalle grida di Húrin allorché, trovendosi nelle solitudini di là dai Monti

Cerchianti, impossibilitato a penetrarvi, disperato aveva invocato Turgon. Da allora, i

pensieri di Morgoth erano stati senza cessa volti alla contrada montagnosa tra l’Anach e il

corso superiore del Sirion, dove i suoi servi mai erano penetrati; ma ancora nessuna spia o

creatura venuta da Angband poteva mettervi piede a causa della vigilanza delle aquile, e

Morgoth vedeva i suoi disegni pur sempre frustrati.

Eärendil compiva in quei giorni un anno, quando in città giunse l'orribile notizia delle

spie di Morgoth. Allora Turgon si rattristò nel cuore, rammentando le parole di Tuor un

tempo lontano dinanzi alle porte del palazzo; ordinò di rinforzare la sorveglianza,

triplicandola in ogni punto, e volle che i suoi artefici costruissero macchine da guerra per

appostarle sul colle. Su chiunque assediasse le mura scintillanti si preparò a riversare fuochi

velenosi e liquidi ardenti, frecce e massi enormi; quindi attese, per quanto possibile

soddisfatto. Ma a Tuor l'animo pesava più che al sovrano, poiché ora gli tornavano sempre

in mente le parole di Ulmo, di cui comprendeva meglio che in passato l'importanza e la

gravità; né trovava grande conforto in Idril, il cui cuore presagiva eventi persino più

tenebrosi del suo.

Idril possedeva una grande capacità di trafiggere col pensiero l'oscurità degli animi di Elfi e

Uomini, e inoltre le ombre del futuro - superando perfino quello che è il potere comune fra

le stirpi degli Eldalië; perciò un giorno parlò così a Tuor: « Sappi, o mio sposo, che nel

cuore ho presagi di disgrazia per dubbio di Maeglin, e temo che egli rechi sciagura su

questo incantevole reame, benché non riesca a vedere in alcun modo come o quando -

tuttavia ho il terrore che tutto quanto egli conosce delle nostre azioni e dei preparativi

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divenga in qualche maniera noto al Nemico, e perciò questi escogiti nuovi mezzi per

sopraffarci, contro i quali non abbiamo pensato a nessuna difesa. Ebbene! Una notte ho

sognato che Maeglin costruiva una fornace, quindi, avvicinandosi a noi di sorpresa, vi

gettava Eärendil, il nostro bimbo, per poi spingervi dentro te e me; e che, per il dolore alla

morte del nostro figlioletto, io non opponevo resistenza. »

Tuor allora rispose: « Tu temi a buon motivo, poiché neppure il mio cuore è tranquillo

verso Maeglin; tuttavia è il nipote del re e tuo cugino, né esiste accusa contro di lui, e io

non vedo nulla da fare se non attendere e osservare. » Idril però ribatté: « Questo è il mio

consiglio al riguardo: raduna in gran segreto gli scavatori e i minatori che, a un'attenta

prova, rivelino di nutrire scarso amore verso Maeglin per via della superbia e dell'arroganza

con cui li tratta. Fra questi sceglierai uomini fedeli che lo sorveglino quando si reca nelle

colline esterne; a mio avviso, però, dovrai incaricare quasi tutti quelli nella cui riservatezza

puoi confidare di uno scavo nascosto, e con il loro aiuto praticare - per quanto il lavoro sarà

cauto e lento - una via segreta che dalla tua casa avanzi nella roccia del colle fino alla piana

di sotto. Il passaggio non dovrà dirigersi verso la Via di Fuga, poiché il cuore mi dice di

diffidarne, ma condurre a quel valico lontano, la Fenditura delle Aquile nei monti del sud; e

più lo scavo vi giungerà nei pressi, correndo sotto la piana, più io ne sarò soddisfatta - fa'

comunque che di quest'opera siano all'oscuro tutti, tranne pochi. »

Non esistono scavatori della terra e della pietra che uguaglino i Noldor, ma in quei

luoghi il suolo era di durezza enorme; Tuor disse perciò: « Le rocce del colle di Amon

Gwareth sono come il ferro e le si può fendere solo a prezzo di molta fatica, e se poi la cosa

dev'essere compiuta in segreto, a ciò bisogna aggiungere grande tempo e pazienza; ma la

pietra che pavimenta la Valle di Tumladen è come acciaio temprato, e non può essere

spaccata senza che i Gondolindrim lo sappiano, se non in lune e anni. »

Idril replicò allora: « Ciò potrà essere vero, ma questo è il mio consiglio, e ancora resta

tempo. » Tuor rispose che non riusciva a vederne bene lo scopo, « ma, si dice, meglio un

piano qualsiasi che nessun piano, » concluse « e io farò come tu vuoi. »

Avvenne dunque che non molto tempo dopo Maeglin si recasse sui colli in cerca di

minerali; egli amava le prospezioni minerarie e la ricerca di metalli più di ogni altra arte ed

era maestro e guida degli Elfi che lavoravano tra i monti attorno alla città. Sovente Maeglin

si recava però, con scarso seguito, oltre la cerchia delle alture e il re ignorava che il suo

ordine non veniva rispettato. E accadde così che, mentre vagava solo per i monti, venisse

catturato da alcuni Orchi a caccia di bottino. La cosa era tuttavia rimasta ignota ai

sorveglianti di Tuor. Ma il male invase il cuore di Maeglin, che disse ai suoi aguzzini:

« Ebbene, sappiate che io sono Maeglin figlio di Eöl, il quale ebbe per sposa Aredhel

sorella di Turgon, il re dei Gondolindrim. »

Quelli risposero: « E a noi che importa? » Maeglin allora ribatté: « V'importa molto; poiché

se mi ucciderete, subito oppure lentamente, perderete importanti notizie sulla città di

Gondolin che il vostro padrone sarebbe certo felice di udire. » Al che gli Orchi fermarono

la mano e dichiararono che se le informazioni da lui svelate ne fossero apparse degne, gli

avrebbero concesso di vivere. Maeglin allora spiegò loro dove fosse Gondolin, com'erano

fatte la piana e la città, e descrisse l'altezza e lo spessore delle mura e il valore delle porte e

svelò anche la Via di Fuga; parlò della schiera di soldati che ora obbedivano a Turgon e

dell'incalcolabile tesoro di armi accumulato per equipaggiarli, delle macchine da guerra e

dei fuochi velenosi.

Gli Orchi erano furenti: uditi quei discorsi volevano ucciderlo all'istante, come un

impudente che ingigantisse il valore del suo miserabile popolo per farsi beffe dell'enorme

maestà e potenza di Morgoth; ma Maeglin, aggrappandosi a una pagliuzza, disse: « Non

pensate invece di far contento il vostro padrone portando ai suoi piedi un prigioniero così

nobile, di modo che possa udire di persona le mie informazioni e giudicarne la verità? »

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L'idea parve buona agli Orchi, che partirono così dai monti intorno a Gondolin per tornare

ad Angband, alle aule tenebrose di Morgoth: con sé trascinarono Maeglin, il quale ora si

sentiva spaventatissimo. Ma quando s'inchinò dinanzi al nero trono di Morgoth, terrorizzato

dalle sagome sinistre che lo circondavano, dai lupi seduti sotto quel seggio e dalle vipere

che si attorcigliavano alle sue gambe, Morgoth gli ordinò di parlare. Maeglin non era né un

debole né un pusillanime, ma i tormenti onde fu minacciato ne piegarono lo spirito. Egli

allora riferì le notizie e Morgoth, udendo, gli si rivolse con molta gentilezza, cosicché gran

parte dell'insolenza gli tornò nel cuore.

La conclusione fu che Morgoth, aiutato dall'astuzia di Maeglin, escogitò un piano per

abbattere Gondolin. La ricompensa di Maeglin in cambio di questo doveva essere la

signoria di Gondolin quale suo vassallo, tuttavia Morgoth nel cuore non pensava affatto a

soddisfare la promessa; Morgoth inoltre avrebbe dovuto consegnare alle fiamme Tuor ed

Eärendil, mentre Idril sarebbe stata affidata all'abbraccio di Maeglin, e quel malvagio era

ansioso di mantenere simili impegni. Il desiderio per Idril Celebrindal e l’odio per Tuor

resero più facile a Maeglin il tradimento, il più infame di cui si abbia traccia nelle

cronistorie degli Antichi Giorni. Comunque, in caso di tradimento, Morgoth minacciò di

premiare Maeglin con la tortura dei Balrog. Questi erano demoni dalle fruste di fiamma e

dagli artigli come acciaio, con i quali tormentavano tutti i Noldor che osavano opporsi a lui

in qualsiasi cosa: gli Eldar li hanno chiamati Valaraukar. Quanto Maeglin disse a Morgoth

era che né l'intero esercito degli Orchi né i Balrog e il loro furore avrebbero mai potuto

sperare di abbattere, con un assalto o con l'assedio, le mura e le porte di Gondolin,

quand'anche fossero riusciti a penetrare nella piana esterna. Perciò suggerì a Morgoth di

usare uno dei suoi sortilegi per aiutare i guerrieri nell'impresa. Lo invitò, con l'enorme

tesoro di metalli e con i suoi poteri di fuoco, a creare bestie simili a serpenti e a draghi di

forza irresistibile, che strisciassero su per i Colli Cerchianti e avvolgessero la pianura e la

bella città in fiamme e morte.

Quindi a Maeglin fu ordinato di tornare a casa, prima che gli uomini sospettassero per la

sua assenza e anche perché potesse favorire l’assalto dall’interno, quando ne fosse suonata

l’ora; ma Morgoth gli tessé intorno il sortilegio del terrore senza fine e nel cuore egli non

ebbe più né gioia né quiete, ma solo nequizia. Nondimeno indossò una bella maschera di

soddisfazione e buonumore, tanto che la gente diceva: « Maeglin s'è addolcito », e lo con-

siderava con maggiore simpatia; Idril, tuttavia, lo temeva ancora di più. Maeglin dichiarò

quindi: « Ho lavorato parecchio e ora intendo riposare e unirmi alla danza, al canto e ai

divertimenti del popolo. » Perciò non andò più a cavare la pietra o i minerali sui colli: ma in

verità cercava di affogare così la paura e l'inquietudine. Era posseduto dal terrore di avere

sempre Morgoth vicino, e ciò in conseguenza del sortilegio; né osò mai più vagare tra le

miniere, temendo di imbattersi negli Orchi ed essere di nuovo sottoposto agli orrori delle

aule di tenebra.

Gli anni passavano e, incitato da Idril, Tuor prosegueva nello scavo segreto; Turgon

però, vedendo che l'assedio delle spie si era assottigliato, viveva più tranquillo e con meno

timori. Questi anni, tuttavia, Morgoth li occupava con un enorme fermento di lavoro e

l'intero popolo schiavo dei Noldor doveva scavare senza sosta per cercare metalli, mentre

Morgoth sedeva a inventare fuochi e a richiamare fiamme e fumi dai calori sotterranei, né

permetteva a nessuno dei Noldor di muovere anche solo un passo dai luoghi di schiavitù.

Poi, un giorno, Morgoth radunò tutti i suoi più astuti fabbri e stregoni, che dal ferro e dal

fuoco fabbricarono una schiera di mostri come se ne videro solo a quel tempo, e come mai

ne ricompariranno finché non giungerà la Grande Fine. Alcuni erano interamente di ferro

saldato con tanta maestria che potevano scivolare come lenti fiumi di metallo o avvolgersi

in spire intorno e sopra ogni ostacolo si parasse loro dinanzi, e negli intimi recessi erano

colmi degli Orchi più torvi armati con scimitarre e lance; altri, di bronzo e rame, furono

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dotati di cuori e spiriti di fuoco fiammeggiante, e questi annientavano qualsiasi cosa aves-

sero di fronte con sbuffi spaventosi, oppure calpestavano ciò che sfuggiva all'ardore del

loro fiato; altri ancora, però, erano creature di pura fiamma che si contorcevano come funi

di metallo fuso e mandavano in rovina qualunque costruzione cui si avvicinassero, e

dinanzi a loro il ferro e la pietra si scioglievano e divenivano come acqua.

Quando dunque dal tradimento di Maeglin fu trascorsa la settima estate ed Eärendil,

per quanto un bimbetto coraggioso, era ancora di anni assai teneri, Morgoth ritrasse tutte le

spie, poiché ogni angolo e sentiero dei monti gli era ormai noto; ma i Gondolindrim, nella

loro sconsideratezza, pensarono che Morgoth avesse cessato di tramare e continuasse ad

ignorare il sito della loro dimora celata.

Ma Idril sprofondò in un umore cupo e la luce del suo volto s'adombrò, al che molti si

meravigliarono; Turgon, tuttavia, diminuì la sorveglianza riportando il numero delle

guardie a com'era prima e un poco meno, e quando giunse l'autunno e la raccolta dei frutti

fu conclusa la gente si volse con cuore contento ai banchetti dell'inverno: ma Tuor

rimaneva sui bastioni e scrutava verso i Monti Cerchianti.

Ebbene, Idril gli si avvicinò col vento nei capelli, e Tuor pensò che era incredibilmente

bella e si chinò a baciarla; ma lei, triste in volto, gli disse: « Ora giungeranno i giorni in cui

dovrai scegliere », ma Tuor non sapeva di che cosa parlasse. Allora, conducendolo in casa,

gli rivelò come il suo cuore fosse turbato dalla paura per il figlioletto Eärendil, e dal

presagio che s'avvicinasse una grande calamità di cui Morgoth era l'anima. Tuor cercò di

confortarla, ma senza successo; essa chiese quindi dello scavo segreto e lui spiegò che si

estendeva ormai per una lega nella piana, allora il cuore le si sollevò un poco. Tuttavia gli

consigliò di affrettare l'opera, dicendo che da quel momento in poi la velocità avrebbe

dovuto essere considerata più importante della segretezza, « poiché ora il tempo è assai

vicino. » Gli diede anche un altro consiglio, che egli pure accettò, invitandolo a scegliere

con cura alcuni dei più prodi e più fedeli fra i signori e i guerrieri dei Gondolindrim per

metterli al corrente della via segreta e del suo sbocco. Gli suggerì di riunirli in una

coraggiosa guardia cui far indossare il proprio emblema, in modo che divenissero la sua

gente, e di agire così con il pretesto dei diritti e della dignità di un grande signore, parente

del sovrano. « Inoltre, » aggiunse « in ciò otterrò il favore di mio padre. » In segreto essa

cominciò anche a sussurrare tra il popolo che se la città fosse giunta alla resistenza estrema

o Turgon fosse stato ucciso, tutti avrebbero dovuto raccogliersi intorno a Tuor e a suo

figlio; la gente assentiva ridendo e comunque ribatteva che Gondolin sarebbe durata quanto

Taniquetil o i Monti di Valinor.

Con Turgon tuttavia non parlò apertamente, né permise che così facesse Tuor, il quale

l'avrebbe desiderato, e ciò nonostante il loro amore e la loro riverenza per lui - era infatti un

re grande, nobile e glorioso; ma credeva a Maeglin e manteneva con cieca ostinazione la

fede nell'imprendibile potenza della città, sicuro che Morgoth non cercasse più di nuocere.

In questa convinzione era costantemente rafforzato dalle astute parole di Maeglin. Ebbene,

la sua scaltrezza era enorme, poiché egli lavorava molto nelle tenebre, cosicché la gente

diceva: « Fa bene a portare l'emblema di una talpa nera! »; e per la follia di certi scavatori,

e ancor più per via della lingua lunga di qualcuno tra la Gente di Tuor, cui questi aveva

parlato in maniera un po' imprudente, egli venne a conoscenza dell'opera segreta e

predispose un piano contro di essa.

Così l'inverno avanzò, assai freddo per quelle regioni, tanto che la brina si distese sulla

piana di Tumladen e il ghiaccio ne coprì i laghetti; le fontane di Amon Gwareth

continuavano però a zampillare e i due alberi fiorivano; e la gente fece festa fino al giorno

di terrore che era celato nel cuore di Morgoth.

In questo modo il rigido inverno passò, e sui Monti Cerchianti la neve era più alta di

quanto mai fosse stata; ma, a tempo debito, una primavera di meraviglioso splendore

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sciolse i lembi di quei candidi manti e la valle, bevendo le acque, sbocciò di fiori. Così

venne e trascorse, fra l'allegria dei bimbi, la festa di Nost-na-Lothion, ossia della Nascita

dei Fiori, e i cuori dei Gondolindrim erano lieti poiché l'anno prometteva bene; e infine

s'avvicinò la grande ricorrenza di Tarnin Austa, le Porte dell'Estate. Era loro usanza

cominciare a mezzanotte una solenne cerimonia e continuarla finché non si levasse l'alba di

Tarnin Austa, e dalla mezzanotte fino al sorgere del giorno nella città non veniva

pronunciata parola, ma l'alba era salutata con canzoni antiche. Per anni incalcolabili ave-

vano accolto così l'avvento dell'estate, con la musica dei cori sulle scintillanti mura

orierntali; e ora giungeva la notte di veglia e la città era colma di lampade d'argento, mentre

nei boschetti luci dai colori di gemma oscillavano sugli alberi carichi di foglie nuove e

melodie tenui si diffondevano per le vie, ma nessuna voce cantava fino all'alba.

Il sole calò oltre i colli e la gente s'abbigliò per la festa con gioia e impazienza - lanciando

occhiate d'attesa verso l'Est. Quando la luce fu scomparsa e tutto divenne buio, un nuovo

lume s'accese all'improvviso, una sorta di bagliore, ma dietro alle vette settentrionali , e gli

uomini si stupirono mentre la folla si accalcava sulle mura e sui bastioni. Lo stupore si

trasformò in dubbio quando la luce crebbe e divenne ancora più rossa, e il dubbio in terrore

quando la neve sui monti fu vista tingersi come di sangue. E così fu che le orde di Morgoth

calarono su Gondolin: con i Balrog, gli Orchi ed i lupi vennero i serpenti igneii della

schiatta di Glaurung.

Quindi dalla piana giunsero cavalieri latori di trepidanti notizie da coloro che

sorvegliavano le cime dei monti; descrissero gli eserciti di fuoco e le ombre simili a draghi,

e dichiararono: « Morgoth è su di noi! »

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Grandi furono l'angoscia e la paura nell'incantevole città; le strade e i vicoli si

colmarono del pianto delle donne e del gemito dei bimbi, le piazze dell'adunarsi dei soldati

e del clangore delle armi. C'erano gli stendardi luminosi di tutte le grandi casate e stirpi dei

Gondolindrim. Possente era la schiera della casa reale, i cui colori erano bianco, oro e

rosso, e che aveva come emblema il cuore scarlatto. Nel mezzo Tuor si ergeva sopra ogni

testa e la sua cotta d'argento scintillava; intorno a lui si affollavano i più valorosi tra la sua

gente. Tutti recavano sull'elmo ali come di cigno o di gabbiano, e sullo scudo avevano lo

stemma dell'Ala Bianca. Nello stesso luogo era schierata anche la truppa di Maeglin, i cui

soldati portavano armature nere e non possedevano né simbolo né emblema, ma

indossavano tondi copricapi d'acciaio coperti di pelle di talpa e combattevano con asce a

due lame simili a zappe. Là Maeglin principe di Gondobar aveva raccolto intorno a sé

numerosi guerrieri dall'espressione fosca e con lo sguardo minaccioso, e un luccichio ros-

sastro brillava sui loro volti e avvampava sulle superfici lucide degli equipaggiamenti.

Ebbene, tutti i colli a nord erano in fiamme e sembrava che fiumi di fuoco scorressero giù

per i declivi che conducevano alla piana di Tumladen: già la gente poteva sentirne il calore.

Laggiù c'erano molte altre stirpi, come quelle della Rondine e dell'Arco Celeste, da cui

provenivano gli arcieri migliori e più numerosi e che erano schierate negli slarghi delle

mura. La gente della Rondine aveva sull'elmo un ventaglio di penne, era abbigliata di

bianco e blu scuro e di porpora e nero, e sugli scudi recava una punta di freccia. Il loro

signore era Duilin, il più veloce fra tutti gli uomini a correre e a spiccare balzi, e il più

sicuro degli arcieri su un bersaglio. Quelli dell'Arco Celeste, essendo una stirpe di

smisurata ricchezza, vestivano in un tripudio di colori e le loro armi erano intarsiate di

gemme, che risplendevano ora alla luce nel cielo. Ogni scudo del battaglione era azzurro

come la volta celeste e per borchia aveva un gioiello di sette pietre preziose, rubini,

ametiste, zaffiri e smeraldi, e poi crisoprasio, topazio e ambra, mentre sull'elmo era in-

castonato un opale di dimensioni enormi. Il loro capitano era Egalmoth, che indossava un

mantello blu sul quale le stelle erano ricamate col cristallo e che portava una spada ricurva -

nessun altro dei Noldor usava simili lame - ma preferiva affidarsi all'arco, con cui colpiva

più lontano di chiunque nella schiera.

C'erano anche le genti del Pilastro e della Torre di Neve, entrambe comandate da

Penlod, il più alto dei Noldor, e inoltre quella dell'Albero, una grande casata, i cui

appartenenti vestivano di verde. Combattevano con mazze borchiate di ferro o con le

fionde, e Galdor, il loro signore, era considerato il più valoroso di tutti i Gondolindrim

dopo Turgon. C'era là la casa del Fiore d'Oro che sullo scudo portava un sole raggiante, e il

loro capo Glorfindel indossava un mantello ricamato con fili aurei tanto da sembrare ornato

di celidonie come un campo in primavera; le sue armi erano damaschinate con abile oro.

Quindi giunse dal sud della città il popolo della Fonte, il cui capo era Ecthelion e che si

deliziava dell'argento e dei diamanti; essi brandivano spade molto lunghe, luminose e

pallide, e andavano in battaglia al suono dei flauti. Dietro di loro procedeva la schiera

dell'Arpa, un battaglione di guerrieri intrepidi; ma Salgant, il loro capo, era un codardo che

adulava Maeglin. Essi erano adorni di nastri d'argento e d'oro, e nel loro stemma un'arpa

argentea brillava in campo nero. Quella di Salgant, però, era dorata; fra tutti i figli dei

Gondolindrim lui solo veniva alla guerra cavalcando, ed era greve e tozzo.

L'ultimo dei battaglioni fu fornito dalla gente del Martello d'Ira, che comprendeva parecchi

fra i migliori fabbri e artigiani: l'intera stirpe venerava Aulë il Fabbro più di tutti gli altri

Ainur. Combattevano con grandi mazze simili a martelli e portavano scudi pesanti, poiché

avevano braccia assai forti. Nei tempi antichi il loro numero era stato parecchio rinvigorito

da Noldor in fuga dalle miniere di Morgoth, e l'odio della casata per le opere di quel

malvagio e per i Balrog, i suoi demoni, era violentissimo. Il loro capo era Rog, il più forte

tra i Noldor, appena secondo in valore a Galdor dell'Albero. L'insegna di questo popolo era

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l'Incudine Colpita e sugli scudi appariva un martello che le sprizzava scintille tutt'intorno;

essi traevano diletto dall'oro rosso e dal ferro nero. Il battaglione era assai numeroso e

nessuno dei combattenti aveva cuore debole, tanto che, fra tutte quelle splendide casate,

essi si conquistarono la massima gloria nella lotta contro il fato; tuttavia ebbero la sorte

avversa e nessuno di loro riuscì ad allontanarsi dal campo di battaglia, ma tutti caddero

intorno a Rog e scomparvero dalla Terra: e con loro molta arte e maestria si sono perdute

per sempre.

Questi erano gli schieramenti e gli abiti delle undici casate dei Gondolindrim con i loro

simboli ed emblemi, mentre la guardia del corpo di Tuor, la gente dell'Ala, era considerata

la dodicesima. Il figlio di Huor era torvo in viso e sembrava che non dovesse vivere a lungo

- e nella sua casa sulle mura Idril indossava l'armatura, cercando Eärendil. Il bimbo era in

lacrime per le strane luci rosse che danzavano sulle pareti della camera in cui dormiva; i

racconti sui fuochi di Morgoth con cui Meleth, la nutrice, lo aveva redarguito nei momenti

dei capricci gli erano tornati alla mente e lo turbavano. Ma la madre venne e lo vestì di una

minuscola cotta di maglia che aveva fatto fabbricare in segreto, al che egli si sentì lieto e

orgogliosissimo e gridò di piacere. Idril tuttavia piangeva, perché nel cuore era assai legata

alla splendida città e alla sua bella casa, e all'amore fra lei e Tuor che vi avevano abitato;

ma ora vedeva prossima la distruzione di tutto e temeva che quanto aveva escogitato

fallisse contro la schiacciante potenza dei terribili serpenti.

Mancavano ancora quattro ore a mezzanotte e il cielo era rosso a nord, a oriente e a

occidente; le serpi di ferro avevano raggiunto le spianate di Tumladen e i mostri infuocati si

trovavano sui declivi più bassi dei colli, e le guardie erano state catturate e sottoposte a

torture crudeli dai Balrog che scorrazzavano ovunque, risparmiando solo l'estremo sud dove

si apriva Cirith Thoronath, la Fenditura delle Aquile.

Allora Re Turgon convocò un'assemblea, cui accorsero Tuor e Maeglin come principi

reali; venne Duilin con Egalmoth e Penlod l'alto, si precipitò Rog con Galdor dell'Albero,

l'aureo Glorfindel ed Ecthelion dalla voce di musica. Giunse anche Salgant, tremante alle

notizie, e poi altri nobili di sangue più modesto ma di miglior coraggio.

Parlò dunque Tuor e questo fu il suo consiglio: bisognava fare subito una grande

sortita, prima che la luce e il calore divenissero troppo forti nella piana; molti sostennero

l'idea, pur esprimendo pareri diversi, e alcuni dicevano, che si doveva attaccare con tutto

l'esercito, le donne e i bimbi nel mezzo, altri con bande separate dirette in molte direzioni, e

Tuor propendeva per quest'ultima scelta.

Ma, unici, Maeglin e Salgant espressero un'opinione diversa: erano infatti dell'avviso di

arroccarsi nella città, tentando di proteggere i tesori in essa serbati. Maeglin lo disse con

perfidia, temendo che qualcuno dei Noldor sfuggisse al destino cui egli li aveva condannati

per salvare la pelle, e col terrore che il suo tradimento venisse scoperto e nel futuro lo

raggiungesse in qualche modo la vendetta. Salgant, invece, parlò sia per far eco a Maeglin,

sia perché moriva di paura all'idea di una sortita fuori della città: preferiva infatti

combattere da una fortezza inespugnabile piuttosto che rischiare tremendi colpi sul campo.

Allora il signore della casa della Talpa sfruttò l'unica debolezza di Turgon, esclamando:

« Ebbene! O Re, la città di Gondolin ospita un tesoro di gemme e di metalli, e di tessuti e

oggetti cui le mani dei Noldor hanno conferito estrema bellezza, e i tuoi nobili - più

valorosi, mi sembra, che saggi - vorrebbero abbandonare tutto al Nemico. Quand'anche la

vittoria ti toccasse sulla piana, la tua città verrebbe saccheggiata e i Balrog se ne

allontanerebbero con uno smisurato bottino. » Al che Turgon gemette: Maeglin infatti

conosceva il suo grande amore per le ricchezze e per l'incanto di quella fortezza su Amon

Gwareth. E di nuovo Maeglin parlò, infondendo fuoco nella voce: « Ebbene! Hai forse

faticato invano, per anni innumerevoli, a costruire mura di inespugnabile spessore e a

erigere porte la cui resistenza non può essere vinta? La potenza del colle di Amon Gwareth

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si è forse abbassata quanto la valle profonda, oppure la riserva d'armi qui celata e le sue

frecce incalcolabili valgono così poco che nell'ora del pericolo vuoi gettare via tutto e

andare nudo allo scoperto contro nemici di acciaio e di fuoco la cui avanzata fa tremare la

terra, mentre i Monti Cerchianti risuonano del clangore dei loro passi? »

Salgant tremò al pensiero e parlò forte, esclamando: « Maeglin dice bene, o Re, ascoltalo! »

Allora il sovrano accettò il consiglio di quei due benché tutti i nobili si opponessero, anzi, a

maggior ragione: perciò, al suo comando, tutto il popolo si dispose ad attendere l'assalto

sulle mura. Ma Tuor lasciò l'aula del re in lacrime, e radunati gli uomini dell'Ala attraversò

le vie per raggiungere la propria dimora; a quell'ora la luce era ormai divenuta enorme e

sinistra, il calore soffocava e dai sentieri che conducevano alla città si levavano fumo nero

e fetore.

Allora i Mostri attraversarono la valle e le candide torri di Gondolin s'arrossarono

dinanzi a loro; anche i più coraggiosi erano terrorizzati, vedendo i draghi di fuoco e i

serpenti di bronzo e ferro giungere ormai intorno al colle della città, e scagliavano contro di

loro inutili dardi.

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Quindi si levò un grido di speranza, perché le serpi di fuoco non riuscivano a scalare la

collina che era troppo ripida e liscia come il vetro, e per via delle acque nemiche alle

fiamme che le ricadevano dai fianchi; tuttavia si appostarono ai suoi piedi e un vapore

immenso salì dai luoghi in cui i ruscelli di Amon Gwareth s'incontrano con il fuoco della

prosàpia di Morgoth. Allora il calore divenne così forte che le donne quasi svennero e il

sudore spossò gli uomini sotto le armature, e tutte le sorgenti della città, tranne la fontana

del re, si riscaldarono esalando vapori.

A questo punto Gothmog signore dei Balrog, capitano delle schiere di Morgoth, tenne

consiglio e radunò tutte le sue creature di ferro che potevano arrotolarsi intorno e sopra

ogni ostacolo si parasse loro dinanzi. A queste ordinò di ammucchiarsi davanti alla porta

settentrionale; ed ecco che le loro gigantesche spire raggiunsero la soglia e cominciarono a

far pressione contro le torri e i bastioni circostanti, e grazie al peso enorme di quei corpi le

porte cedettero, con smisurato fragore: tuttavia la maggior parte delle mura intorno

rimaneva ben salda.

Al che le macchine da guerra e le catapulte del re fecero piovere dardi, massi e metalli

fusi su quelle bestie spietate e i loro ventri cavi risuonarono sotto i colpi, che però nulla

ottennero, perché i mostri non potevano essere spezzati e i fuochi rotolavano su di loro.

Allora quelli in cima si aprirono nel mezzo e una schiera innumerevole di Orchi, i diavoli

dell'odio, ne uscì riversandosi nella breccia; e chi dirà del bagliore delle loro scimitarre, o

del lampo delle lance larghe di lama con cui squartavano?

Allora Rog gridò con voce possente, e tutto il popolo del Martello d'Ira e la stirpe

dell'Albero con Galdor il valoroso balzarono contro il nemico. I colpi dei loro enormi

martelli e l'abbattersi delle mazze risuonarono fino agli Echoriath (i Monti Cerchianti), e gli

Orchi caddero come foglie; e quelli della Rondine e dell'Arco li bersagliarono di frecce pari

alle buie piogge dell'autunno, che, per il fumo e la confusione, facevano vittime sia tra gli

Orchi sia tra i Gondolindrim. Grande fu la battaglia, ma, nonostante tutto il loro valore, la

potenza delle schiere sempre in aumento costrinse lentamente i Gondolindrim ad arretrare,

finché i diavoli non si furono impadroniti di una parte della città settentrionale.

Nel frattempo Tuor, a capo della gente dell'Ala, combatteva nel tumulto delle strade,

riuscendo ad aprirsi la via verso casa sua, dove si trovò dinanzi a Maeglin. Fiducioso nella

battaglia appena iniziata presso la porta nord e nel trambusto della città, egli aveva atteso

quell'ora per consumare i suoi disegni. Molto aveva appreso sullo scavo segreto di Tuor

(quantunque ne fosse venuto a conoscenza solo all'ultimo momento e non avesse potuto

scoprire tutto), ma non ne aveva parlato né col re né con nessun altro, poiché pensava che

certamente la galleria sarebbe sboccata infine nella Via di Fuga, essendo questa l'uscita più

vicina alla città, e aveva in mente di sfruttare la cosa per i suoi scopi e per la rovina dei

Noldor. In gran segreto inviò messaggeri a Morgoth perché, al momento dell'assalto,

appostasse una guardia all'altro sbocco della Via; quanto a lui ora intendeva rapire Eärendil

e gettarlo nel fuoco sotto le mura, quindi catturare Idril e costringerla a guidarlo nei

meandri del passaggio, in modo da sfuggire a quel terrore di incendi e stragi e trascinarla

con sé nelle terre di Morgoth. Maeglin temeva infatti che neppure il segno di

riconescimento segreto consegnatogli da Morgoth si rivelasse utile in quel tremendo

saccheggio, e voleva aiutare l'Ainur a soddisfare le sue promesse di salvezza. In ogni caso,

non aveva alcun dubbio che Tuor fosse morto in quell'enorme rogo, poiché a Salgant aveva

affidato il compito di trattenerlo nelle aule del re e, da qui, di spingerlo subito nel punto piú

letale del combattimento - ma ebbene! Salgant era stato assalito da un terrore mortale e

aveva cavalcato fino a casa, dove ora giaceva tremante sul letto; e Tuor mosse verso la

propria dimora con la gente dell'Ala.

Tuor agì a questo modo, benché il suo valore fremesse verso lo strepito dello guerra, per

accommiatarsi da Idril e da Eärendil, e spedirli con una guardia del corpo per la via segreta,

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prima di tornare nella calca della battaglia a morire, se fosse stato necessario: ma intorno

alla porta trovò un assembramento di uomini della Talpa, e questi erano i più torvi e duri di

cuore che Maeglin fosse riuscito a trovare in città. Tuttavia, essi erano Noldor liberi, e non

subivano la malía di Morgoth come il loro signore, perciò, una volta avuto contezza dei

disegni di Maeglin, sebbene non soccorressero Idril, non volevano aver più nulla a che fare

con il suo piano, incuranti delle sue maledizioni.

Maeglin teneva Idril per i capelli e cercava di trascinarla fino ai bastioni, per crudeltà

del cuore, affinché vedesse Eärendil precipitare nelle fiamme; ma il bimbo lo ostacolava e

lei, per quanto sola, combatteva come una tigre, seppure bella e sottile. Egli ora lottava tra

le imprecazioni e perdeva tempo, mentre la gente dell'Ala s'avvicinava - ed ecco che Tuor

lanciò un grido così possente che gli Orchi lo udirono di lontano e ondeggiarono a quel

suono. Come uno scoppio di tempesta la guardia dell'Ala piombò in mezzo agli uomini

della Talpa, che furono dispersi. Quando Maeglin vide, tentò di pugnalare Eärendil con un

suo stretto coltello; ma il bimbo gli morse la mano sinistra, affondandovi i denti, e quello

vacillò e colpì debolmente, cosicché la lama fu respinta dalle maglie della piccola armatura:

al che Tuor fu su di lui, e la sua ira era terribile a vedersi. Afferrò Maeglin per il braccio

che reggeva il pugnale e glielo spezzò torcendolo, quindi lo sollevò per la vita e balzò con

lui sulle mura, da dove lo scagliò lontano. Tremenda fu la caduta del suo corpo, che

rimbalzò tre volte su Amon Gwareth prima di precipitare nel mezzo delle fiamme; e tra

Eldar e Noldor il nome di Maeglin è scomparso per la vergogna.

Allora i guerrieri della Talpa, più numerosi dei pochi dell'Ala e leali verso il loro

signore, piombarono su Tuor; corsero colpi tremendi, ma nessun uomo poteva sostenere

l'ira di Tuor, ed essi furono sconfitti e spinti a rifugiarsi in tutti i neri anfratti che riuscirono

a trovare, o vennero scagliati giù dalle mura. Quindi Tuor e i suoi dovettero unirsi alla

battaglia della Porta, poiché il fragore era divenuto enorme e Tuor nel cuore pensava ancora

che la città potesse resistere; ma con Idril lasciò, contro la sua volontà, Voronwë e qualche

altro uomo armato di spada, per proteggerla finché lui non avesse fatto ritorno o fosse

riuscito a inviare un messaggio dalla mischia.

La battaglia intorno alla porta era divenuta davvero tremenda e Duilin della Rondine,

mentre scagliava frecce dalle mura, fu colpito da un lazzo infuocato di un Balrog che si

agitava alla base di Amon Gwareth; egli precipitò dai bastioni e morì. Allora le schiere di

Morgoth continuarono a lanciare nel cielo dardi di fuoco e frecce incendiarie simili a

piccole serpi, e queste caddero sui tetti e sui giardini di Gondolin finché tutti gli alberi non

furono devastati dalle fiamme, i fiori e l'erba arsero e il candore dei muri e dei colonnati

s'annerì e bruciò. Avvenne, tuttavia, anche un fatto ben più grave: un gruppo di demoni

s'arrampicò sulle spire dei serpenti di ferro e da qui cominciò a scagliare senza sosta

proiettili con gli archi e le fionde, finché nella città non divampò un incendio alle spalle del

gruppo principale dei difensori.

Rog esclamò allora con voce possente: « Chi ora avrà paura, per terribili che siano i demoni

del Signore Scuro? Ecco dinanzi a noi i maledetti che hanno tormentato per anni i figli dei

Noldor, e che ora con le frecce hanno appiccato il fuoco dietro di noi. Accorrete, voi del

Martello d'Ira, e li ripagheremo di tutta la loro malvagità! » Al che levò la mazza dal lungo

manico e, nell'impeto della collera, si aprì un passaggio fino alla porta crollata: l'intero

popolo dell'Incudine Colpita, come un cuneo, lo seguì correndo, e ognuno mandava

scintille dagli occhi per la furia dell'ira. Quella sortita fu un'impresa eroica, come ancora

cantano i Noldor, e numerosi Orchi furono respinti nei fuochi di sotto; gli uomini di Rog

balzarono persino sulle spire dei serpenti, affrontando il Balrog e colpendolo duramente,

quantunque possedessero fruste di fiamma e artigli d'acciaio e fossero di statura enorme.

Così lo annientarono a forza di percosse, o privandolo delle fruste, le impugnarono contro

di lui, per ridurlo in pezzi come quello aveva fatto in precedenza con i Noldor; la morte di

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un Balrog fu oggetto di terrore e meraviglia per le schiere di Morgoth, poiché prima di quel

giorno nessun Balrog era stato ucciso per mano di Elfi o Uomini.

Allora Gothmog Signore dei Balrog raccolse tutti i suoi demoni che si trovavano intorno

alla città e impartì gli ordini.

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Un gruppo si schierò dinanzi alle genti del Martello cedendo il passo, ma il grosso della

compagnia si precipitò lungo il fianco e riuscì a portarsi alle loro spalle, più in alto sulle

spire dei draghi e più vicino alle porte, di modo che Rog non potesse tornare indietro se non

a prezzo di un massacro dei suoi uomini. Tuttavia Rog, vedendo i fatti, non cercò di

indietreggiare come si sperava, ma con tutta la sua gente si scagliò contro quelli che

avevano il compito di trattenerli; i quali fuggirono dinanzi a lui, ora per tremenda necessità

piuttosto che per astuzia. Furono incalzati fin giù nella piana, e le loro grida squarciarono

l'aria di Tumladen. Allora la casata del Martello proseguì, colpendo e fendendo le bande

attonite di Morgoth, finché non fu circondata da forze soverchianti di Orchi, e non le fu

scatenato contro un drago fiammeggiante. Là tutti perirono intorno a Rog, menando colpi

fino all'ultimo, fin quando non furono vinti dal ferro e dal fuoco, e anche oggi si canta che

ogni uomo del Martello d'Ira strappò la vita a sette nemici in cambio della sua. A questo

punto il terrore piombò ancora più greve sui Gondolindrim, per la morte di Rog e la perdita

del battaglione, ed essi indietreggiarono in misura crescente nella città; Penlod morì in un

vicolo con le spalle al muro, e intorno a lui numerosi uomini del Pilastro e della Torre di

Neve.

Perciò i diavoli di Morgoth andarono ad occupare l'intera porta e una gran parte delle

mura su entrambi i lati, e da qui parecchi della Rondine e quelli dell'Arcobaleno venivano

spinti giù alla morte; all'interno della città essi si erano però conquistati un ampio tratto che

arrivava fin quasi al centro, ossia alla Piazzetta del Pozzo contigua alla Piazza del Palazzo.

Tuttavia lungo le strade e intorno alla porta i loro morti erano ammassati in mucchi

innumerevoli, perciò s'arrestarono e tennero consiglio, dato che per il valore dei

Gondolindrim avevano subito perdite di gran lunga superiori a quanto avessero sperato e

assai più gravi dei difensori. Erano anche impauriti da ciò che Rog aveva compiuto, poiché

dai Balrog traevano grande coraggio e sicurezza del cuore.

Il piano che essi dunque escogitarono fu di conservare quanto avevano conquistato,

mentre i serpenti di bronzo muniti di enormi piedi per calpestare si sarebbero arrampicati

lentamente su quelli di ferro e, raggiunte le mura, avrebbero aperto una breccia attraverso la

quale ai Balrog sarebbe stato possibile entrare assieme ai draghi di fiamma e alle orde di

lupi divorauomini: sapevano però che la cosa doveva essere compiuta in fretta, poiché il

calore di quei draghi non durava per sempre e poteva essere alimentato solo con i pozzi di

fuoco che Morgoth aveva creato nella fortezza della sua terra.

Ma non appena ebbero spedito i messaggeri, essi udirono una dolce musica risuonare

nella schiera dei Gondolindrim, e ne temettero il significato; ed ecco giungere Ecthelion e il

popolo della Fonte, che finora Turgon aveva tenuto di riserva: egli infatti sorvegliava buona

parte della mischia dall'alto della sua torre. Ora queste genti marciavano con gran suono di

flauti, e il cristallo e l'argento delle loro vesti erano splendidi alla vista, tra le luci rosse

degli incendi e il nero delle rovine.

Quindi, di colpo, la musica cessò ed Ecthelion dalla bella voce gridò di sguainare le armi, e

prima che gli Orchi potessero aver sentore dell'assalto il balenare delle pallide lame fu in

mezzo a loro. Si narra che allora la gente di Ecthelion uccise più diavoli di quanti mai ne

caddero nelle battaglie tra gli Eldalië e quella razza, e che il suo nome terrorizza ancora ai

giorni nostri ed è un grido di guerra per gli Eldar.

Tuor e gli uomini dell'Ala si lanciarono nella mischia e si schierarono accanto a

Ecthelion e a quelli della Fonte, e le due schiere menarono colpi possenti e si pararono a

vicenda numerosi attacchi, incalzando gli Orchi in modo da farli indietreggiare fin quasi

alla porta. Ma in quel momento la terra tremò e s'udirono passi pesanti, poiché i draghi

s’adoperavano con grande potenza per farsi largo su Amon Gwareth ed abbattere le mura

della città; già c'era un varco con una confusione di calcinacci, nel luogo in cui le torri di

guardia erano cadute in rovina. Bande della Rondine e dell'Arco del Cielo combattevano

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laggiù aspramente tra i ruderi, contendendo al nemico le mura a est e a ovest; ma proprio

mentre Tuor s'avvicinava respingendo gli Orchi, uno dei serpenti di ottone si sollevò contro

il muro occidentale che vacillò e crollò in gran parte, mentre da dietro sopraggiungeva una

creatura di fuoco. Dalle fauci del drago uscirono raffiche di fiamme e la gente arse dinanzi

ad esso; le ali dell'elmo di Tuor erano annerite, ma egli resistette e radunò intorno a sé la

propria guardia e tutti quelli dell'Arco e della Rondine che riuscì a trovare, mentre alla sua

destra Ecthelion chiamava a raccolta gli uomini della Fonte dei Sud.

Orchi e lupi si erano fatti di nuovo animo per l'arrivo dei draghi. Là Tuor uccise Othrod, un

signore degli Orchi, fendendogli l'elmo, fece a pezzi Balcmeg e colpì Lug con l'ascia

tranciandogli di sotto le gambe al ginocchio; Ecthelion invece, con un solo movimento,

spaccò la testa di Orcobal, loro massimo difensore, colpendolo sui denti. Lo splendore della

spada di Ecthelion fendeva il ferro ed ogni altro metallo oscuro di Angband, facendo

contorcere i nemici; tuttavia essi temevano ancor più il balzo dell'ascia Dramborleg fatta

oscillare dalla mano di Tuor, poiché essa risuonava nell'aria come l'impeto delle ali di

un'aquila e quando si abbatteva era la morte.

Ma pochi non possono combattere a lungo contro molti; infatti il braccio sinistro di

Ecthelion fu penosamente squarciato da una frusta di un Balrog e lo scudo gli cadde a terra

proprio mentre il drago di fuoco si avvicinava tra le rovine delle mura. Al che Ecthelion

dovette appoggiarsi a Tuor e Tuor non poté abbandonarlo, benché le zampe della pesante

bestia incombessero su di loro ed essi fossero sul punto di venire sopraffatti: ma Tuor menò

un fendente a un piede della creatura, da cui sgorgò fuoco, e il serpente urlò, facendo

schioccare la coda; da ciò numerosi Orchi e Noldor ebbero la morte. Allora Tuor raccolse le

forze e sollevò Ecthelion, quindi, in mezzo a un gruppo di sopravvissuti, scivolò sotto e

sfuggì al drago; tremenda era stata tuttavia la strage di uomini compiuta dall'animale, e i

Gondolindrim ne erano terribilmente scossi.

Così avvenne che Tuor figlio di Huor indietreggiò dinanzi al nemico combattendo

mentre cedeva terreno, e in questa maniera sottrasse alla battaglia Ecthelion della Fonte, ma

i draghi e i nemici si erano ormai impadroniti di mezza città e di tutta la sua parte

settentrionale. Da qui bande di predatori si sparsero per le vie e si dedicarono al saccheggio,

o uccisero al buio uomini, donne e bambini; molti ne catturarono, quando era possibile, e li

condussero indietro scagliandoli nelle stanze metalliche dei draghi di ferro, per poi

trascinarli a divenire schiavi di Morgoth.

Tuor raggiunse quindi la Piazza del Pozzo di Popolo per una via che entrava da nord, e qui

trovò Galdor occupato a impedire l'ingresso da occidente, attraverso l'Arco di Ingwë, a

un'orda di diavoli; intorno a lui ora c'erano solo pochi uomini dell'Albero. Galdor divenne

allora la salvezza di Tuor, poiché questi cadde alle spalle dei suoi guerrieri, inciampando

sotto il peso di Ecthelion in un corpo che giaceva al buio, e gli Orchi li avrebbero catturati

entrambi non fosse stato per il pronto slancio di quel campione e per il colpo della sua

clava.

Qui si trovavano dunque gruppi sparsi della guardia dell'Ala e delle case dell'Albero e

della Fonte, nonché della Rondine e dell'Arco, saldati in un buon battaglione; su consiglio

di Tuor essi si ritirarono fuori dalla Piazzetta del Pozzo, dato che l'adiacente Piazza del Re

era più difendibile. Quel luogo un tempo aveva ospitato molti alberi splendidi, querce e

pioppi, intorno a un ampio pozzo di grande profondità e di estrema purezza d'acque; a

quell'ora, tuttavia, lo colmavano i tumulti e la bruttura delle orrende genti di Morgoth e le

acque erano insozzate dalle loro carcasse.

Così l'ultimo, intrepido gruppo di difensori giunse nella Piazza del Palazzo di Turgon.

Molti fra loro erano feriti e deboli, e Tuor era sfinito dalle fatiche della notte e dal peso di

Ecthelion, che era in un deliquio mortale. Mentre guidava il battaglione lungo la Strada

degli Archi da nordest (ed essi avevano un bel daffare per impedire ai nemici di

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raggiungerli alle spalle), un fragore si levò a oriente della piazza, ed ecco che Glorfindel

v’era sospinto con gli uomini del Fiore d'Oro.

Questi avevano sostenuto un terribile conflitto nel Mercato Grande, nella parte orientale

della città, dove una guarnigione di Orchi condotta dai Balrog era piombata di sorpresa su di

loro mentre, per vie traverse, marciavano verso la battaglia intorno alla porta. Avevano

agito così per sorprendere il nemico sul fianco sinistro, ma erano stati essi stessi vittime di

un'imboscata; avevano allora combattuto strenuamente per ore, finché un drago di fuoco,

appena entrato per la breccia, non li aveva sopraffatti, e Glorfindel era riuscito a farsi largo

fuori della mischia con grandi difficoltà, e accompagnato solo da pochi uomini: ma quel

luogo, con le sue provviste e gli splendidi oggetti di fattura squisita, era devastato dalle

fiamme.

La storia narra che Turgon aveva inviato uomini dell'Arpa in loro aiuto perché spronato dai

messaggeri di Glorfindel, ma Salgant aveva nascosto a quelli l'ordine, riferendo invece che

avrebbero dovuto presidiare la piazza del Mercato Piccolo, a sud, dove egli dimorava, e loro

se ne erano irritati. Ora, comunque, avevano abbandonato Salgant ed erano giunti dinanzi

alle aule del sovrano; il loro arrivo era stato assai tempestivo, poiché un'orda trionfante di

nemici era ai calcagni di Glorfindel. Senza ordini, gli uomini dell'Arpa piombarono su di

loro con grande impazienza e riscattarono così completamente la codardia del loro signore,

respingendo il nemico all`interno del mercato; privi di un capo, si avventarono con ira

perfino eccessiva, tanto che in molti rimasero intrappolati nelle fiamme o caddero dinanzi

all'alito del serpente che gozzovigliava laggiù.

A questa punto Tuor bevve alla grande fontana e si sentì rinvigorito; sciolse l'elmo a

Ecthelion e gli somministrò dell'acqua, aspergendogli il viso perché si riprendesse dal

deliquio. Allora i due signori, Tuor e Glorfindel, sgomberarono la piazza e ritirano tutti gli

uomini dagli ingressi, che vennero chiusi con barricate, tranne a meridione. Proprio da

questa parte giunse ollora Egalmoth. Egli aveva avuto il compito di occuparsi delle

macchine sulle mura; ma quasi subito, stimando che la situazione richiedesse più il corpo a

corpo nelle strade che il lancio di proiettili dai bastioni, aveva raccolto intorno a sé alcuni

guerrieri dell'Arco e della Rondine e si era disfatto del proprio arco. Quindi il gruppo era

avanzata per la città distribuendo validi colpi ogni volta che incontrava bande nemiche. Così

egli aveva liberato numerosi gruppi di prigionieri, radunando non poche persone raminghe e

sbandate, e con duro combattimento era giunto nella Piazza del Re; qui gli uomini furono

lieti di salutarlo, poiché lo avevano temuto morto. Allora tutte le donne e i bambini che si

erano raccolti laggiù o che vi erano stati condotti da Egalmoth furono ammassati nelle aule

del sovrano e le truppe delle diverse casate si prepararono a resistere fino all'ultimo. In

quella schiera di sopravvissuti ci sono rappresentanti, per quanto pochi, di ciascuna delle

stirpi, tranne che del Martello d'Ira; e la casa del re è ancora integra. Né ciò appare motivo

di vergogna, poiché il suo compito era sempre stato di rimanere fresca fino in fondo e di

difendere il re.

Ma gli uomini di Morgoth avevano radunato le forze e sette draghi di fuoco, con Orchi

intorno e cavalcati dai Balrog, ed erano discesi per ogni via da nord, est e ovest, cercando la

Piazza del Re. Vi fu allora una carneficina lungo le barricate, ed Egalmoth e Tuor si

spostavano da un luogo all'altro della difesa, mentre però Ecthelion giaceva presso la

fontana; e quella resistenza fu la più ostinata e valorosa che ogni canto o racconto celebri.

Ma, infine, un drago sfondò la barricata a nord - dove una volta si trovava lo sbocco del

vicolo delle Rose, un luogo incantevole da contemplare o da percorrere: ora c'era solamente

un vicolo tenebroso e colmo di fragore.

Tuor allora si fece incontro alla bestia, ma fu separato da Egalmoth e costretto a

indietreggiare fino al centro della piazza, presso la fontana. Qui, spossato dal caldo sof-

focante, venne gettato a terra da un grande demone, ossia da Gothmog in persona, signore

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dei Balrog, pupillo di Morgoth. Ma ecco che Ecthelion, col volto pallido come il grigio

acciaio e con il braccio dello scudo che ricadeva inerte sul fianco, balzò verso di lui mentre

cadeva; l’ Elfo mirò al demone, senza però dargli la morte, ma ottenendo solo una ferita al

braccio con cui reggeva la spada, cosicché l'arma gli cadde dalla presa. Allora Ecthelion

signore della Fonte, il più bello dei Noldor, si avventò su Gothmog proprio nell'attimo in cui

levava la frusta, conficcando in quel petto maligno la punta che ornava il suo elmo e

stringendo le gambe contro la coscia del nemico; il Balrog urlò e cadde in avanti, ma

entrambi precipitarono nel bacino della fontana regia, che era assai profondo. Laggiù quella

creatura trovò la morte; ed Ecthelion, greve di acciaio, s'inabissò con lui, e così perì il

signore della Fonte, dopo una battaglia ardente nelle fresche acque.

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Tuor, quando l'attacco di Ecthelion gli aveva dato spazio, si era rialzato e alla vista di quel

gesto valoroso aveva pianto, per l'affetto che lo legava allo splendido Noldor della Fonte;

poi, avvolto dalla mischia, era riuscito a stento ad aprirsi un varco verso gli uomini intorno

al palazzo. Qui, vedendo il nemico vacillare terrorizzato per la fine di Gothmog, il

maresciallo degli eserciti, la casa reale attaccò e il sovrano discese maestosamente fra loro e

si unì al combattimento, tanto che essi liberarono di nuovo gran parte della piazza; e

compirono un'impresa assai grande, poiché circondarono uno dei draghi di fuoco malgrado

le sue fiamme, e lo costrinsero nelle acque della fontana perché vi trovasse la morte. Per le

incantevoli acque fu la fine; le sue pozze si mutarono in vapore e la sorgente s'inaridì, né

mai più zampillò in cielo: invece, un'enorme colonna di fumo si levò nell'aria, addensandosi

in una nube che fluttuò sull'intera regione.

Quando videro la sorte della fontana, tutti furono colti dal terrore; la piazza si colmò di

vapori roventi e di nebbie che accecavano, e gli uomini della casa reale furono sterminati

dal calore, dal nemico, dai serpenti e dai compagni stessi; ma un gruppo di loro salvò il

sovrano e i superstiti si arroccarono sotto Glingal e Belthil.

Allora il re esclamò: « Grande è la caduta di Gondolin! », e gli uomini rabbrividirono,

poiché quelle erano le parole di Amnon, il profeta antico; ma Tuor, con voce resa selvaggia

dal dolore e dall'affetto per il sovrano, gridò: « Gondolin resiste ancora, e Ulmo non la

lascerà perire! » Turgon rispose però: « Ho trascinato la sciagura sul Fiore della Piana a

dispetto di Ulmo, e ora egli lo lascia avvizzire nel fuoco. Ebbene! Nel cuore non ho più

speranza per la mia città d'incanto, ma i figli dei Noldor non soccomberanno per sempre. »

Al che i Gondolindrim fecero risuonare le armi, poiché molti erano lì accanto, ma Turgon

continuò: « Non combattete contro il destino, o figli! Chi può cerchi salvezza con la fuga, se

mai ne resta il tempo: ma siate fedeli a Tuor. » Tuor ribatté allora: « Tu sei il sovrano »; ma

Turgon rispose: « Pure io non infliggerò più nessun colpo », e gettò la corona alle radici di

Glingal. Galdor, che era nei pressi, la raccolse, tuttavia Turgon non la accettò, e con il capo

scoperto salì sul pinnacolo più alto della candida torre presso il palazzo. Qui gridò con voce

simile a corno fatto risuonare fra i monti, e tutti coloro che erano raccolti sotto gli Alberi e i

nemici nelle nebbie della piazza lo udirono: « Grande è la vittoria dei Noldor! » Si narra che

fosse allora mezzanotte, e che gli Orchi lanciassero urla di scherno.

Quindi gli uomini parlarono di una sortita ed erano di due pareri. Molti ritenevano

impossibile sfondare l'attacco; comunque, neppure a quel modo avrebbero mai ottenuto di

raggiungere la piana o di attraversare i colli, e perciò sarebbe stato meglio morire intorno al

sovrano. Ma Tuor non riuscì ad approvare la morte di tanti bimbi e belle dame, sia per mano

della loro stessa gente, come ultima risorsa, sia sotto le armi dei nemici, e parlò dello scavo

e della via segreta. Perciò consigliò di supplicare Turgon affinché mutasse avviso, e

scendendo fra loro guidasse i superstiti verso sud fino alle mura e all'ingresso del passaggio;

quanto a lui, ardeva del desiderio di recarsi laggiù e di conoscere la sorte di Idril e di

Eärendil, o di inviare da lì un messaggio per ordinare loro di partire in fretta, poiché

Gondolin era presa. Il piano di Tuor sembrò davvero disperato ai nobili - data la strettezza

della galleria e l'enormità della compagnia che avrebbe dovuto percorrerla - tuttavia, in

quelle condizioni, essi avrebbero volentieri seguito il suo consiglio. Ma Turgon non prestò

loro ascolto e ordinò di fuggire subito, prima che fosse troppo tardi; dichiarò: « Tuor sarà

vostra guida e condottiero. Ma io, Turgon, non abbandonerò la mia città, e arderò con lei. »

Di nuovo quelli inviarono sulla torre dei messaggeri, che parlarono così: « Sire, chi sono i

Gondolindrim se tu perisci? Tu devi guidarci! » Ma egli insistette: « Ebbene! Io resto qui. »

La terza volta, però, rispose: « Se sono il re, obbedite a ciò che comando, e non osate più

discutere i miei ordini. » Dopo di che non inviarono più nessuno e si prepararono per il

disperato tentativo. Ma quanti della casa reale ancora erano in vita non vollero muovere un

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passo e si raccolsero fitti intorno alla base della torre regia. « Qui » dichiararono « noi

rimarremo, se Turgon non uscirà », e non fu possibile persuaderli.

Tuor era penosamente lacerato tra la riverenza verso il sovrano e l'amore per Idril e il suo

bimbo, che gli spezzava il cuore; tuttavia, già i draghi si muovevano nella piazza

calpestando i morti e i morenti, e il nemico si stava raccogliendo nelle nebbie per l'ultimo

assalto: bisognava scegliere. Allora, udendo i gemiti delle donne nelle aule del palazzo e

provando una compassione enorme per i tristi sopravvissuti delle genti di Gendolin, egli

riunì la pietosa compagnia di fanciulle, bimbi e madri, e ponendola nel mezzo schierò alla

meglio i propri uomini tutt'intorno. Li infittì soprattutto sul fianco e nelle retrovie. poiché si

proponeva di ripiegare verso sud, combattendo, mentre procedeva il più possibile con la

retroguardia; e così, se la cosa fosse riuscita, intendeva percorrere la Strada dei Fasti fino al

Luogo degli Dèi, prima che fosse inviata ad aggirarlo qualche guarnigione numerosa. Da

qui pensava di proseguire lungo la Via delle Acque Correnti oltre le Fonti del Sud, fino alle

mura e a casa sua; ma sul passaggio nella galleria segreta nutriva forti dubbi. Subito,

scorgendo i suoi movimenti il nemico sferrò un enorme attacco contro il fianco sinistro e le

retrovie - da est e nord - proprio mentre la ritirata cominciava; ma il lato destro era riparato

dal palazzo del re e il principio della colonna già entrava nella Strada dei Fasti.

Allora alcuni dei draghi iperborei più giganteschi, simili a Glaurung stesso nelle forme,

si fecero avanti spargendo una luce abbagliante nella nebbia ed egli dovette per forza

ordinare alla compagnia di correre, mentre sulla sinistra si combatteva a casaccio;

Glorfindel però resse audacemente la retroguardia, e laggiù caddero numerosi altri del Fiore

d'Oro. Così superarono la Strada dei Fasti e raggiunsero Gar Ainion, il Luogo degli Dèi;

questo era ampio e indifeso e il suo centro era il terreno più elevato dell'intera città. Qui

Tuor si aspettava una resistenza crudele e non sperava affatto di proseguire per molto, ma

ebbene, il nemico sembrava già meno insidioso: quasi nessuno li seguì, e ciò destò

meraviglia. Tuor, alla loro testa, giunse al Luogo di Matrimonio, ed ecco che Idril si stagliò

dinanzi a lui, con le trecce sciolte come nel giorno lontano delle loro nozze, ed enorme fu il

suo stupore. Accanto a lei c’era Voronwë e nessun altro, ma Idril non vide neppure Tuor,

poiché fissava alle sue spalle verso la Piazza del Re, che ora si trovava un poco più in basso

di loro. Al che tutta la schiera si fermò e guardò indietro dove erano volti i suoi occhi, e

ognuno si raggelò nel cuore; ora infatti vedevano perché il nemico li aveva disturbati così

poco e il motivo della loro salvezza. Ebbene, un drago serpeggiava proprio sui gradini del

palazzo e ne insozzava il candore; sciami di Orchi saccheggiavano l'interno, trascinando

fuori donne e bimbi scordati o uccidendo uomini che combattevano da soli, aiutati nello

scempio da un’orda di mannari. Glingal era in frantumi e Belthil tutto annerito, e la torre del

re era assediata. In alto riuscirono a distinguere la sagoma del sovrano, ma alla base un

serpente che sputava fiamme agitava e faceva schioccare la coda, attorniato da Balrog; e qui

si trovava la gente del re, in un'angoscia enorme, e urla di terrore salivano fino agli astanti.

Era così accaduto che il saccheggio delle aule di Turgon e la resistenza assai valorosa della

casa reale avevano tenuto il nemico occupato, e perciò Tuor era riuscito ad allontanarsi con

la sua compagnia, e ora sostava in lacrime nel Luogo degli Dèi.

Idril esclamò allora: « Miserevole sono io, il cui padre attende la morte sul suo

pinnacolo più alto; ma sette volte è miserevole colei il cui signore è caduto dinanzi a

Morgoth e non tornerà a casa mai più! » Era infatti sconvolta dalla disperazione di quella

notte.

Al che Tuor gridò: « Guarda, Idril, sono io, e vivo; e ora porterò via di là tuo padre,

fossero pure gli Inferni di Morgoth! » Con ciò si accinse a discendere da solo la collina, reso

folle dal dolore della sposa; lei però, tornando in sé, con uno scroscio di lacrime si strinse

alle sue ginocchia ripetendo: « Signore mio, signore! » e lo trattenne. Ma mentre parlavano

un grande strepito e urla si levarono da quel luogo d'angoscia. Ebbene, la torre fu avvolta

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dalle fiamme e cadde in un'ondata di fuoco, poiché i draghi ne avevano sbriciolato la base

insieme con tutti coloro che si trovavano laggiù. Enorme fu il fragore del tremendo crol lo: a

questo modo morì Turgon Re dei Gondolindrim, e per quell'ora la vittoria fu di Morgoth.

Allora Idril disse con voce grave: « Triste è la cecità del saggio »; Tuor però ribatté: « Triste

è pure l'ostinazione di quanti amiamo - tuttavia, è stato un errore valoroso ». Si chinò e la

sollevò baciandola, poiché contava per lui più di tutti i Gondolindrim; ma lei piangeva

amaramente per il padre. Quindi Tuor si rivolse ai capitani, esclamando: « Ebbene,

dobbiamo andarcene con la massima velocità, altrimenti saremo circondati »; subito tutti

avanzarono più rapidamente possibile e si allontanarono da quel luogo, prima che gli Orchi

si stancassero di saccheggiare il palazzo e di rallegrarsi per la caduta della torre di Turgon.

Essi si trovavano nella parte meridionale della città e incontrarono solo bande sparse di

predoni, che fuggirono dinanzi a loro; per la crudeltà del nemico, trovarono tuttavia fiamme

e incendi dovunque. Si imbattorono in donne, alcune con neonati e altre cariche di oggetti

della casa, ma Tuor non permise loro di portare via nulla se non un po' di provviste. Infine,

giunti in un luogo più quieto, Tuor chiese notizia a Voronwë, poiché Idril, quasi in deliquio,

non parlava; Voronwë allora riferì di come avessero atteso insieme dinanzi alle porte della

casa, mentre il fragore delle battaglie cresceva facendo tremare i loro cuori, e Idril piangeva

perché non sapeva nulla di Tuor. Alla fine essa aveva spedito la maggior parte della guardia

giù per la via segreta con Eärendil, costringendoli a partire con parole imperiose, e tuttavia

il suo dolore era stato enorme a quel distacco. Quanto a lei, aveva dichiarato che sarebbe

rimasta in attesa, né avrebbe cercato di sopravvivere al suo signore; quindi aveva

cominciato ad aggirarsi radunando donne e uomini smarriti per indirizzarli nella galleria e

colpendo i predatori con la sua piccola banda, né era stato possibile convincerla a non

impugnare la spada.

Infine però si erano imbattuti in un gruppo un po' troppo numeroso e Voronwë era

riuscito a trascinarla via solo per la fortuna degli Dèi, poiché tutti gli altri che li

accompagnavano erano morti, e il nemico aveva dato alle fiamme la casa di Tuor; non

aveva però trovato la via segreta. « Al che » concluse Voronwë « la tua sposa, folle di

spossatezza e di dolore, si è gettata selvaggiamente per la città, con mio gran terrore - né ho

potuto farla allontanare dal rogo. »

Mentre queste parole venivano pronunciate essi erano giunti alle mura meridionali,

presso la casa di Tuor, ed eccola abbattuta, con le rovine fumanti; Tuor ne provò una collera

amara. Un fragore, però, preannunciava l'arrivo di Orchi, e Tuor spedì la compagnia più

velocemente possibile giù per la via segreta.

Lungo la scala il dolore era enorme, mentre gli esuli dicevano addio a Gondolin; e

tuttavia non nutrivano molta speranza di vivere ancora oltre i colli.

Quando tutti ebbero oltrepassato l'ingresso Tuor fu lieto e la paura gli si placò. Nulla

sapevano i capitani di Angband del passaggio ascoso, e ritenevano che nessun fuggiasco

osasse dirigersi a nord, verso le regioni montane più alte, proprio le più prossime ad

Angband.

Alcuni ora restavano indietro e, deposte le armi, cominciarono a lavorare di piccone

dall'interno per murare l'imboccatura del passaggio, e quindi seguirono il gruppo come

poterono. Ma quando tutti ebbero disceso i gradini fino all'altezza della valle, il calore

divenne una tortura, per il fuoco dei draghi che circondavano la città; essi si trovavano in

realtà vicini, poiché lo scavo non era troppo profondo sottoterra. Massi che si staccavano

per i tremori del suolo stritolarono cadendo numerosi fuggitivi, e l'aria era colma di fumo

cosicché le torce e le lanterne si spensero. Incespicarono nei corpi di alcuni che erano partiti

prima e avevano trovato la morte, e Tuor temeva per Eärendil; ma procedettero, nella

grande oscurità e nell'angoscia. Restarono quasi due ore nella galleria sotterranea, che verso

l'ultimo tratto non era terminata e aveva i fianchi irti di rocce e la volta molto bassa.

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Infine, diminuiti di quasi un decimo, essi giunsero allo sbocco del passaggio, che

astutamente sfociava in un largo bacino un tempo colmo d'acqua ma ora coperto da fitti

cespugli. Qui era raccolta una folla non esigua di genti diverse che Idril e Voronwë avevano

inviato prima di loro per la via segreta, e che piangevano piano per la stanchezza e il dolore,

ma Eärendil non c'era. Al che Tuor e Idril sentirono la disperazione nel cuore. Anche fra

tutti gli altri si udivano lamenti, poiché in mezzo alla piana intorno a loro si stagliava in

lontananza, coronato di fiamme, il colle di Amon Gwareth, dove era sorta la scintillante

città della loro dimora. Draghi di fuoco la circondavano e mostri di ferro entravano ed

uscivano dalle sue porte. Ai capi, nondimeno, ciò fu di qualche conforto, poiché

giudicarono la piana pressoché libera dalle genti di Morgoth tranne vicino alla città, dove

tutte le creature crudeli dell’Avversario si erano precipitate per esultare della distruzione.

« Ora » disse quindi Galdor « dobbiamo allontanarci il più possibile da qui verso i

Monti Cerchianti prima che l'alba splenda su di noi, e ciò non ci lascia molto tempo, poiché

l'estate è alle porte. » Al che sorse un diverbio, in quanto un certo numero dichiarò che

sarebbe stata una follia dirigersi a Cirith Thoronath, come intendeva Tuor. « Il sole »

dissero « si leverà molto prima che arriviamo ai colli, e saremo travolti nella piana dai

draghi e dai demoni. Andiamo a Bad Uthwen; la Via di Fuga, che dista solo la metà del

viaggio, e chi fra noi è stanco e ferito può sperare di giungere fin là, se non oltre. »

Idril però si oppose alla decisione e persuase i nobili a non confidare nella magia di

quella strada che un tempo li aveva protetti dall'essere scoperti: « Poiché che magia resta, se

Gondolin è caduta? » Nondimeno, un folto gruppo di uomini e donne si separò da Tuor per

dirigersi verso Bad Uthwen, e da qui nelle fauci di un mostro che, per un tranello di

Morgoth consigliato da Maeglin, sedeva allo sbocco esterno, cosicché nessuno riuscì a

oltrepassarlo. Ma gli altri, guidati da un certo Legolas Verdefoglia della casa dell'Albero,

che conosceva tutta la piana alla luce del giorno o nelle tenebre e che vedeva nel buio della

notte, procedettero assai spediti nella valle nonostante la spossatezza, e si arrestarono solo

dopo una lunga marcia. Allora la Terra intera fu avvolta dalla luce grigia di quell'alba triste

che non contemplava più la bellezza di Gondolin; la pianura appariva però colma di nebbie -

ed era sorprendente, poiché nessuna bruma o foschia era mai giunta laggiù: il fumo

dell’incendio ed il vapore delle belle fontane regie inaridite dalla fiamma dei draghi era

calato sulla valle in luttuose spire e fu ciò a consentire la fuga di Tuor e dei suoi seguaci ,

non scorta dagli occhi degli Orchi.

Di nuovo si levarono e, coperti dai vapori, proseguirono sicuri a lungo dopo l'alba, fino

a quando non furono troppo distanti perché qualcuno potesse scorgerli in quelle arie

nebbiose dal colle o dalle mura in rovina.

I Monti, o meglio le loro propaggini più basse, si trovavano su quel fianco a sette leghe

meno un miglio da Gondolin, e Cirith Thoronath, la Fenditura delle Aquile, distava due

leghe di salita dall'inizio dei Monti, poiché era assai elevata; perciò dovevano ancora

attraversare un tratto di due leghe e parte di una terza fra gli speroni e i colli, ed erano

esausti. Ormai il sole era ben alto sopra una sella delle colline orientali, e splendeva rosso e

grande; le nebbie intorno a loro si sollevarono, mentre però le rovine di Gondolin

rimanevano del tutto celate, come in una nube. Ma ecco che al rischiararsi dell'aria essi

videro, lontano solo poche centinaia di metri, un gruppo di fuggitivi a piedi inseguiti da una

strana cavalleria, poiché, come giudicarono, grandi lupi erano montati da Orchi che

brandivano lance. Allora Tuor esclamò: « Ebbene! Quello è Eärendil mio figlio; guardate, il

volto gli risplende come una stella nel deserto, e ha intorno i miei uomini dell'Ala, in terri -

bile difficoltà. » Immediatamente scelse cinquanta uomini tra i meno affaticati e, lasciando

indietro il grosso della compagnia, avanzò con quella truppa nella piana, alla massima

velocità consentita dalle forze loro rimaste. Giunto a portata di voce Tuor gridò agli uomini

intorno a Eärendil di resistere e di non fuggire, poiché i cavalieri dei lupi cercavano di

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disperderli uccidendoli uno per volta, e il bimbo era sulle spalle di un certo Hendor, un

servitore di Idril, che sembrava sul punto di essere abbandonato con il suo carico. Allora

quelli si strinsero dorso a dorso, con Hendor ed Eärendil nel mezzo; ma presto spuntò Tuor,

benché l'intera sua truppa fosse ormai senza fiato.

I cavalieri dei lupi erano una ventina, e di uomini intorno a Eärendil ne rimanevano vivi

solo sei; perciò Tuor aveva aperto i suoi guerrieri in una mezzaluna di un'unica fila e

sperava così di accerchiare i cavalieri, per timore che qualcuno di loro, fuggendo, portasse

notizie al grosso del nemico e attirasse la rovina sugli esuli. In ciò ebbe successo, in quanto

solo due riuscirono a scappare e per di più feriti e senza gli animali, cosicché il loro rappor-

to giunse in città troppo tardi.

Eärendil fu lieto di salutare Tuor, e Tuor esultò per il suo bimbo; Eärendil disse però:

« Ho sete, padre, poiché ho corso lontano - e Hendor non aveva bisogno di portarmi. » A ciò

il padre non rispose nulla, perché non aveva acqua e pensava alle necessità di tutta la

compagnia da lui guidata; ma Eärendil proseguì: « È stata una buona cosa vedere Maeglin

morire a quel modo, poiché voleva mettere le mani su mia madre - e a me lui non piaceva;

ma non viaggerei in una galleria per tutti i cavalcalupi di Morgoth! » Tuor sorrise e se lo

caricò sulle spalle. Subito dopo arrivò il grosso della compagnia e Tuor consegnò Eärendil

alla madre, la cui gioia fu enorme; ma Eärendil non volle che lo reggesse fra le braccia,

poiché disse: « Madre Idril, tu sei stanca, e i guerrieri in armatura non vanno a cavallo tra i

Gondolindrim, eccetto il vecchio Salgant! » La madre rise, pur nel suo dolore; Eärendil

aggiunse però: « Anzi, Salgant dov'è? » Salgant infatti gli aveva talvolta narrato vicende

curiose o aveva inscenato per lui storie buffe, e Eärendil si era molto divertito con il vecchio

Elfo nei giorni in cui veniva spesso a casa di Tuor, amando il buon vino e i ricchi pasti che

qui gli erano serviti. Ma nessuno seppe dire dove si trovasse Salgant, né lo sa ora. Forse fu

sopraffatto dal fuoco mentre stava disteso sul proprio letto; tuttavia, alcuni ritengono che

venne condotto prigioniero alle aule di Morgoth e diventò il suo buffone - e questo è un de-

stino orrendo per un nobile della brava razza dei Noldor. Al che Eärendil si rattristò, e

proseguì accanto alla madre in silenzio.

Essi giunsero allora alle colline; era mattino fatto, ma l'aria appariva ancora grigia, e

laggiù, all'inizio della strada in salita, la gente si distese a riposare in una piccola valle orlata

da alberi e da cespugli di nocciolo, e molti dormirono nonostante il pericolo, poiché erano

sfiniti. Tuttavia Tuor stabilì una rigida sorveglianza e lui stesso restò sveglio. Qui

consumarono un pasto di cibo frugale e di avanzi; Eärendil placò la sete e giocò accanto a

un ruscelletto. Quindi disse alla madre: « Mamma Idril, mi piacerebbe che il buon Ecthelion

della Fonte fosse qui con noi a suonare per me con il suo flauto, o a fabbricarmi zufoli di

salice! Forse che è andato avanti? » Idril rispose di no e riferì quanto aveva udito della sua

fine. Allora Eärendil dichiarò che non gli importava più neppure di rivedere le strade di

Gondolin, e pianse amaramente; Tuor però ribatté che non avrebbe mai rivisto quelle strade,

« perché Gondolin non c'è più. »

Poi, quando il sole fu prossimo a tramontare dietro i colli, Tuor ordinò alla compagnia di

levarsi ed essi avanzarono per sentieri scoscesi. Presto l'erba scomparve cedendo il passo a

pietre coperte di muschio e gli alberi si diradarono; perfino i pini e gli abeti divennero rari.

Al calare del sole la via curvò dietro una spalla delle colline, cosicché non poterono più

guardare verso Gondolin. Allora l'intera compagnia si volse, ed ecco! La piana, nell'ultima

luce, è chiara e ridente come un tempo; ma, mentre la contemplano, una fiammata divampa

lontano nelle tenebre a settentrione - era il crollo dell'ultima torre di Gondolin, quella che

aveva resistito presso la porta meridionale, e la cui ombra spesso si allungava sui muri della

casa di Tuor. Allora il sole tramontò ed essi non rividero Gondolin mai più.

Il passo di Cirith Thoronath, ossia la Fenditura delle Aquile, era assai pericoloso da

attraversare, e quelle genti non vi si sarebbero avventurate al buio senza lanterne o torce ed

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esauste e impacciate da donne, bambini e uomini sofferenti e feriti, non fosse stato per la

paura degli esploratori di Morgoth, dal momento che erano una compagnia numerosa cui era

impossibile procedere in modo troppo segreto. L'oscurità si addensò rapidamente mentre si

avvicinavano alla cima ed essi dovettero disporsi in una fila lunga e sparsa. Galdor e una

banda di uomini armati di lancia erano in testa, e con loro si trovava Legolas, i cui occhi al

buio erano come quelli dei gatti; però riuscivano a vedere più lontano. Quindi seguivano le

meno stanche fra le donne, sostenendo i malati e i feriti che potevano ancora camminare.

Tra queste era Idril con Eärendil, che ben sopportava la fatica, mentre Tuor procedeva

dietro di loro al centro, con tutti gli uomini dell'Ala, i quali sorreggevano alcuni feriti gravi;

gli era accanto Egalmoth, che però era stato colpito nella sortita dalla Piazza. Più indietro

ancora venivano parecchie donne con bimbi, fanciulli e uomini zoppicanti, e tuttavia il

passo era lento abbastanza anche per loro. Alla retroguardia si trovava la banda più

numerosa di uomini illesi, e qui c'era Glorfindel dalle chiome d'oro.

A questo modo arrivarono a Cirith Thoronath, un luogo tremendo per via dell'altitudine,

così elevata che né primavera né estate arrivano mai lassù e fa molto freddo. In verità,

mentre la valle danza sotto il sole, in quei luoghi brulli la neve dimora tutto l’anno, e anche

quando essi vi giunsero il vento ululava soffiando da nord, dietro di loro, e pungeva

terribilmente. La neve cadeva turbinando in vortici ed entrava loro negli occhi, e ciò era

male, poiché lassù il sentiero era angusto e alla destra, ossia a occidente, sulla via si ergeva

una parete perpendicolare alta quasi sette leghe che poi, in cima, prorompeva in pinnacoli

frastagliati dove si trovano molti nidi di rapaci. Qui, sui Crissaegrim, dimorava Thorondor

Re delle Aquile, cioè Signore dei Thoronhoth. Dall'altro lato c'era tuttavia un precipizio,

non proprio a piombo eppure spaventosamente ripido, con lunghi spuntoni di roccia volti

verso l'alto, cosicché si poteva discendervi - o magari cadervi - ma in nessun modo lo si

poteva scalare. Nel burrone, poi, non c'era via d'uscita in nessun luogo se non salendo i

fianchi, e Thorn Sir scorreva sul fondo. Vi ricadeva dal sud sopra un enorme precipizio ma

con acqua sottile, poiché a quelle altitudini era un magro ruscello, e sboccava a settentrione

dopo aver percorso un miglio di rocce sottoterra lungo uno stretto passaggio che penetrava

nei monti, dove neppure un pesce avrebbe potuto sgusciare con lui.

Galdor e i suoi uomini erano ora giunti al termine, presso il punto in cui Thorn Sir

discende nell'abisso, mentre gli altri, nonostante gli sforzi di Tuor, erano sparsi indietro per

quasi tutto il miglio della pericolosa via tra il baratro e la parete di roccia, tanto che la gente

di Glorfindel era appena arrivata all'inizio, quando un grido nella notte echeggiò per la tetra

regione. Ebbene, gli uomini di Galdor erano stati assaliti all'improvviso da sagome spuntate

da dietro certi massi, dove erano rimaste celate perfino allo sguardo di Legolas. Tuor pensò

che avessero incontrato una delle compagnie erranti di Morgoth e temette solo un rapido

combattimento al buio, tuttavia mandò verso le retrovie le donne e i malati che erano con

lui, quindi unì i suoi uomini a quelli di Galdor e sul pericoloso sentiero scoppiò una

mischia. Ma poi dall'alto cominciarono a cadere pietre e i fatti volsero al peggio, poiché

queste infliggevano ferite dolorose; e le cose parvero a Tuor ancora più gravi quando dalla

retroguardia giunse un fragore di armi, e da un uomo della Rondine gli fu riferito che

Glorfindel era duramente attaccato alle spalle da guerrieri con i quali c'era un Balrog.

Allora egli ebbe il tremendo sospetto di una trappola, il che in verità era quanto

accadeva; Morgoth infatti aveva spedito guardiani su tutti i Monti Cerchianti. Tuttavia il

valore dei Gondolindrim ne aveva richiamati così tanti all'assedio, prima di riuscire a

espugnare la città, che essi erano ormai pochi e sparsi, e ridotti al minimo qui a sud.

Nondimeno, uno di loro aveva scorto la compagnia che cominciava la salita dalla valletta

dei noccioli, così contro di loro erano state radunate tutte le bande reperibili, che avevano

deciso di piombare sugli esuli di fronte e alla retrovia proprio sulla pericolosa via di Cirith

Thoronath. Galdor e Glorfindel mantennero dunque il controllo dei propri uomini

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nonostante la sorpresa dell'attacco e parecchi Orchi furorono sospinti nell'abisso; ma la

caduta dei massi sembrava prossima a spegnere il loro valore e a sospingere verso il disa-

stro la fuga da Gondolin. Più o meno a quell'ora la luna si levò sopra il passo e la tenebra si

diradò un poco, poiché la sua luce pallida s'insinuava nei luoghi bui; non rischiarava però il

sentiero, per l'altezza delle pareti. E assieme all’astro si levò Thorondor, Re delle Aquile,

che molto odiava Morgoth.

Quando dunque dal passo il clamore si levò fina al suo enorme nido, egli esclamò:

« Come mai queste laide creature, questi Orchi dei colli, si sono arrampicati vicino al mio

trono? E perché i figli dei Noldor gridano laggiù in basso per timore della progenie di

Morgoth il maledetto? Sorgete Thoronhoth dai becchi d'acciaio e dagli artigli pari a spade! »

Allora si alzò un fremito simile a un grande vento in luoghi di roccia, e i Thornhoth, il

popolo delle Aquile, piombò sugli Orchi che erano saliti sopra il sentiero, dilaniandone i

volti e le mani e scagliandoli giù lontano sulle pietre di Thorn Sir. Al che i Gondolindrim

esultarono; in seguito, adottarono l'Aquila fra gli emblemi della loro stirpe come segno di

gioia, e Idril lo indossò, mentre Eärendil preferiva l'Ala di Cigno del padre. Ora, senza

ostacoli, gli uomini di Galdor respinsero gli oppositori, poiché non erano molti e l'assalto

dei Thoronhoth li aveva terrorizzati; e la compagnia avanzò di nuovo, benché Glorfindel

avesse alquanto da combattere nelle retrovíe. Già la metà aveva superato la pericolosa via e

le cascate di Thorn Sir, quando il Balrog che era fra i nemici della retroguardia spiccò un

potentissimo balzo su certe alte rocce lungo il fianco sinistro del sentiero, sull'orlo del

precipizio, e da qui, in uno slancio furioso, superò gli uomini di Glorfindel e si ritrovò fra le

donne e i malati che li precedevano, facendo schioccare la sua frusta di fiamma. Allora

Glorfindel si scagliò in avanti su di lui e la sua armatura d'oro luccicò in modo strano sotto

la luna; colpì il demone, che di nuovo balzò verso un grande masso, e Glorfindel lo seguì.

Si svolse allora un combattimento mortale sull'alto macigno, sopra i fuggitivi; questi,

pressati dinanzi e impediti alle spalle, si erano tanto ammassati che quasi tutti poterono

vedere, pure ogni cosa terminò prima che gli uomini di Glorfindel riuscissero ad accorrere

al suo fianco. L'ardore di Glorfindel spinse il Balrog da un punto all'altro, mentre l'armatura

di maglia lo difendeva dalla sua frusta e dagli artigli. Lo colpì pesantemente e gli recise fino

al gomito il braccio che reggeva lo scudiscio. Allora il Balrog, nel tormento del dolore e

della paura, si buttò su Glorfindel, che dardeggiava la spada come una serpe; ma raggiunse

solo una spalla e venne afferrato, e i due oscillarono fin quasi a cadere dalla cima della rupe.

Al che, con la sinistra, Glorfindel cercò il pugnale e colpì, trapassando il ventre del Balrog

all'altezza del proprio viso (la statura del demone era infatti più del doppio della sua); quello

gridò e cadde all'indietro dalla roccia, ma nel frattempo afferrò da sotto il copricapo i

riccioli biondi di Glorfindel e i due precipitarono insieme nell'abisso.

E il dolore fu grande, poiché Glorfindel era assai amato - ed ecco, il colpo della loro

caduta echeggiò fra i colli e la voragine di Thorn Sir ne risuonò. Allora, al grido di morte

del Balrog, gli Orchi dinanzi e alle spalle vacillarono e furono uccisi, o fuggirono lontano,

e Thorondor in persona, Signore delle Aquile, discese nell'abisso e riportò in alto il corpo di

Glorfindel; ma il Balrog restò là, e per molti giorni le acque di Thorn Sir scorsero nere giù

lontane in Tumladen.

Ancora gli Eldar quando vedono combattere con valore e grande disparità di forze

contro una furia del male, dicono: « Ahimè! È Glorfindel con il Balrog », e i loro cuori

ancora dolgono per quello splendido fra i Noldor. Poiché lo amavano, nonostante la fretta e

la paura dell'avvento di nuovi nemici, Tuor fece erigere un enorme tumulo di pietra sopra

Glorfindel, appena oltre la pericolosa via e presso il precipizio del Fiume delle Aquile, cui

Thorondor ha finora impedito ogni danno, e fiori gialli sono giunti fin là e anche oggi

sbocciano intorno al tumulo in quei luoghi inclementi; ma la gente del Fiore d'Oro pianse

alla sua costruzione e non poté asciugare le lacrime.

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55

GLI ESULI

Chi saprà dunque narrare dei vagabondaggi di Tuor e degli esuli di Gondolin nei deserti

che giacciono oltre i monti a sud della valle di Tumladen? Patirono dolore e morte, freddo,

fame e una sorveglianza incessante. Riuscirono ad attraversare quelle regioni infestate dal

male di Morgoth solo grazie alla grande carneficina e al danno enorme che il suo potere

aveva subito nell'assalto, e alla velocità e cautela con cui Tuor li guidava; poiché di certo

Morgoth sapeva della fuga e ne era furioso. Nei lontani oceani Ulmo aveva avuto notizie

delle imprese compiute, ma ancora non poteva aiutarli perché si trovavano distanti da acque

e fiumi - e in realtà soffrivano terribilmente la sete e non conoscevano la via.

Ma dopo tappe forzate e perigliose verso il Sud, essi giunsero infine a un corso d'acqua;

seguendolo, arrivarono a terre migliori e ne furono un poco rincuorati. Qui li guidò

Voronwë, poiché aveva colto un sussurro di Ulmo nel torrente in una tarda notte d'estate -

egli sempre ottenne molta sapienza dal mormorare delle acque. Così li condusse avanti

finché non raggiunsero il Sirion, che quel ruscello alimentava, e allora sia Tuor sia Voronwë

videro di non essere lontani dall'antico sbocco esterno della Via di Fuga, e di trovarsi di

nuovo nella profonda valletta di ontani. Qui tutti i cespugli erano calpestati e gli alberi arsi,

e le pareti della valle apparivano sfigurate dalle fiamme; ed essi piansero, poiché credettero

di comprendere il destino di quanti un tempo si erano separati da loro all'uscita della

galleria.

Quindi discesero il fiume, ma di nuovo temendo Morgoth, e affrontarono

combattimenti contro bande di Orchi, con il rischio di incontrare i cavalieri dei lupi; i draghi

di fuoco però non li inseguirono, sia perché le loro fiamme si erano molto esaurite nella

presa di Gondolin, sia perché il potere di Ulmo cresceva con l'ingrossarsi del fiume. Così

dopo molti giorni - avanzavano infatti lentamente, procurandosi di che sopravvivere con

enorme difficoltà - giunsero alle vaste brughiere e alle paludi sopra alla Terra dei Salici, e

Voronwë non conosceva quelle regioni. Qui, per un tratto assai ampio, il Sirion procede

sottoterra, tuffandosi alla grande caverna dei Venti Tumultuosi, ma poi scorrendo di nuovo

all'aperto sopra le Pozze del Crepuscolo (dove Tulkas combatté in seguito contro lo stesso

Morgoth). Tuor aveva percorso quelle zone durante la notte e all'imbrunire, dopo che Ulmo

era venuto a lui fra i canneti, e non ricordava le vie. In alcuni punti quella terra era colma di

trabocchetti e assai paludosa; qui subirono lunghi indugi e furono afflitti da tormentosi

insetti, poiché era ancora autunno, e fra loro si diffusero malarie e febbri, per le quali

maledissero Morgoth.

Infine giunsero però ai grandi stagni e ai confini della dolcissima Terra dei Salici, ché il

potere di Ulmo ancora scorreva nel grande fiume e stava attorno a loro; il soffio delle brezze

che da essa spiravano portò loro pace e riposo, e la consolazione di quel luogo alleviò la

pena di chi era in lutto per i morti della grande caduta. E tennero una celebrazione in

memoria di Gondolin e degli Elfi che vi erano periti, insieme con le fanciulle, le spose e i

guerrieri di Re Turgon. Per Glorfindel l’amato molte furono le canzoni che si intonarono

sotto i salici della Nan-tathren mentre l’anno smoriva.

Laggiù le donne e le fanciulle tornarono belle, i malati guarirono e le vecchie ferite

cessarono di dolorare; tuttavia, quanti temevano a buon motivo che la loro gente vivesse

ancora nella crudele schiavitù degli Inferni di Ferro erano i soli a non cantare, e neppure

accadeva che sorridessero.

Qui dimorarono assai a lungo ed Eärendil era divenuto ormai un ragazzo, quando la

voce delle buccine di Ulmo rapì il cuore di Tuor, cosicché il desiderio del mare tornò a lui

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con una sete ancora più profonda, poiché per anni soffocata; tutta la schiera sorse al suo

comando e discese il Sirion fino al mare.

Coloro che avevano attraversato la Fenditura delle Aquile e che avevano visto la

caduta di Glorfindel erano stati quasi in ottocento - una compagnia di viandanti enorme,

eppure solo tristi resti di una città magnifica e popolosa. Ma quanti si levarono dalle erbe

della Terra dei Salici, anni dopo, e partirono per il mare, quando la primavera ebbe sparso

nei prati la celidonia e si furono tenute meste celebrazioni in memoria dei defunti, erano

solo trecento più una ventina di uomini e bimbi maschi, e duecento più una sessantina di

donne e fanciulle. Il numero delle donne era inferiore perché parecchie di loro si erano

nascoste o erano state spinte dai familiari a rifugiarsi in luoghi segreti della città. Qui erano

state arse o uccise, oppure catturate e rese schiave, e le squadre di liberazione erano riuscite

a trovarle troppo di rado; e pensare a questo era il più grande dei dolori, poiché le fanciulle

e le dame dei Gondolindrim erano belle come il sole, incantevoli quanto la luna e più

luminose delle stelle. La gloria dimorava nella città di Gondolin dai Sette Nomi e la sua

rovina fu più tremenda del saccheggio di qualunque altra città sulla faccia della Terra. Non

Bablon, non Ninwi, non le torri di Trui, non tutti i molti assedi di Rûm che tra gli Uomini

era la più grande, conobbero il terrore che calò quel giorno su Amon Gwareth tra la stirpe

dei Noldor; e questa fu considerata l'opera più tremenda che Morgoth avesse fino a quel

punto concepito nel mondo.

Allora gli esuli di Gondolin si stabilirono alle bocche del Sirion, presso le onde del Grande

Mare. Qui decisero di chiamarsi Lothlim, il popolo del fiore, poiché il nome di

Gondolindrim suonava troppo doloroso al loro orecchio. Qui mescolarono la propria gente

con quella della figlia di Dior, Elwing, rifugiatavisi poco tempo prima. E quando nel Balar

si ebbe notizia della caduta di Gondolin e della morte di Turgon, Ereinion Gil-galad, figlio

di Fingon, venne nominato Re Supremo dei Noldor nella Terra-di-mezzo.

Morgoth però ritenne il suo trionfo completo, poco conto facendo dei figli di Fëanor e

del loro giuramento che mai gli era stato di danno, e anzi si era sempre rivelato il suo più

possente alleato; e nella sua fosca mente egli rise, non rimpiangendo l'unico Silmaril che

aveva perduto perché proprio a causa di esso, così egli riteneva, fin l’ultimo residuo degli

Eldar sarebbe stato spazzato via dalla Terra-di-mezzo, non più fonte di disturbo per essa. E,

se seppe di coloro che si erano rifugiati presso le acque del Sirion, non lo diede a vedere,

fidando nel tempo e fidando nell’opera della congiura e della menzogna. Ma, sulle rive del

Sirion e sui lidi marini, crebbe un popolo elfîco, spigolatura del Doriath e di Gondolin; e a

costoro s’unirono, provenienti dalle sponde del Balar, i marinai di Círdan, i quali

affrontavano le onde ed erano dediti alla costruzione di navi, dimorando sempre vicini alle

coste dell'Arvernien, all'ombra della mano di Ulmo.

E si dice che proprio allora questi, uscito dalle acque profonde, si recò in Valinor,

dove parlò ai Valar delle angustie degli Elfi; e lì pregò di perdonarli e di salvarli dallo

strapotere di Morgoth, recuperando i Silmaril, solo nei quali ormai fioriva la luce dei Giorni

Benedetti, quando i Due Alberi ancora splendevano in Valinor. Ma Manwë non si

commosse; e chi del resto potrebbe dire quali fossero i pensieri della sua mente? Il saggio

ha detto che l’ora non era ancora suonata, e che soltanto uno, patrocinando di persona la

causa sia degli Elfi che degli Uomini, implorando perdono per le loro malefatte e pietà,

avrebbe potuto smuovere le Potenze, e il giuramento di Fëanor forse neppure Manwë

avrebbe potuto annullarlo, finché non se ne fossero verificate le estreme conseguenze e i

figli di Fëanor non rinunciassero ai Silmaril, oggetto della loro implacacbile pretesa, e ciò

perché la luce che illuminava i Silmaril era opera degli stessi Valar.

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In quel torno di tempo, Tuor sentì la vecchiaia addosso, e il desiderio per le profondità

del Mare andava facendosi sempre più forte nel suo cuore. Costruì pertanto una grande nave

che chiamò Eärrámë, cioè Ala Marina; e con Idril Celebrindal fece vela verso l’occaso e

l’Ovest, né più se ne ebbe notizia in narrazioni o canti. Ma, in tempi successivi, si proclamò

che Tuor, solo tra gli Uomini mortali, fosse annoverato tra la razza primogenita e che si

fosse unito ai Noldor da lui tanto amati, il suo fato essendo stato scisso da quello degli

Uomini.

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Genealogia utile dell’universo di Tolkien

L’Uno

Eru

Iluvatar

Melkor/Morgoth Aulë +Yavanna Ulmo Mandos Nienna Oromë Tulkas Lorien/Irmo Bauglir Manwë +Varda Kementári Namo Tauron

Súlimo Elentári/Tintallë

Elbereth Gilthoniel Ossë Gorgumoth Telimektar

Eönwë Úrion Fionwë Altri Maiar:

Sauron Istari

Gorthaur Balrog/Valaraukar[Gothmog] Tilion/Isil/Luna Olórin/Mithrandir/Gandalf

Glaurung il Dorato/Il grande Verme, Arien/Anar/Sole/Urwendi Curunír/Saruman

Ancalagon il Nero e Ungoliant Shelob Melian Radagast

Nazgûl/Úlairi Carcaroth/Anfauglir

[Angmar] Draugluin Signore dei Lupi Mannari (?) Tom Bombadil/Iarwain + Baccador

Elfi/Eldalië/Eldar/Quendi/Primo Geniti (esclusi gli Avari/Riluttanti)

Vanyar ж Ingwë Ingil

Rúmil Fingolfin (Hithlum) Finarfin + Eärwen di Alqualondë

Noldor ж Finwë + Indis

+ dei Vanyar I Fingon(Dor-Lómin) Gil-galad I Finrod Felagund(Nargothrond)

Míriel II Turgon(Gondolin)+Elenwë Idril + Tuor* II Orodreth Finduilas

la Ricamatrice III Aredhel +Eöl(Nan Elmoth) Celebrindal III Angrod Gwindor

Fëanor + Nerdanel IV Aegnor fratello di Gelmir

Curufinwë Thorondor Echtelion e Elwing + Eärendil V Galadriel + Celeborn(Lothlórien) Thingol

Re delle Aquile Glorfindel Maeglin Gil-Estel bisnipote

I Maedhros Elrond + Celebrían Amroth + Nimrodel

II Maglor Elros/Tar-Minyatur(Armenelos)

III Celegorm Mezzi Elfi Re di Númenor/Signori di Andor Elladan ed Arwen + Aragorn/Elessar Halbarad

IV Caranthir Re di Akallabêth o dell’Ovesturia Elrohir Undómiel Estel

V Curufin Celebrimbor Seguirono il destino degli Uomini 25 Sovrintendenti*

VI Amrod (Ost-in-Edhil) Tar-Minastir Gil-galad Silmariën(Andúnie) Eldarion

VII Amras Gilraen

Nandor ж Lenwë Denethor Ar-Gimilzôr Tar-Palantir Amandil Reame di Arnor (Fornost,Arthedain) +

degli Elendili Valandil Arvedui Arathorn

Laiquendi/ E. Verdi dell’ Ossirian Gimilkhâd Ar-Pharazôn L’Ultimo Re dei Dúnedain/

Teleri ж Olwë(Alqualondë) Il Dorato Raminghi

Eärwen Huan di Valinor Elendil L’Alto Reame di Gondor

Sindar ж Elwë Singollo + Melian la Maia (Annuminas)

del Beleriand Elu Thingol Mantogrigio Lúthien + Beren* (Tol Galen) Isildur Anárion Menendil Eärnur

(fratello di Olwë) Tinúviel Erchamion Haradrim/Sudroni*

e Númenoreani Neri Eldacar e Castamir l’Usurpatore

Daeron Dior + Nimloth

del Doriath Corsari di Umbar*

Elfi delle Falas/Falathrim ж Círdan il Carpentiere Elwing zio

Tuor Voronwë Turgon Celeborn

Esuli di Tirion (Kortirion/Koromas) ж Eriol, Gilfanion del Pino di Tavrobel, Valwë Lindo padrone della Casetta del Gioco Perduto + Vairë

I Valar/Ainur e i Maiar

L’Uno

(Tevildo)

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Uomini/Edain/Atani/Hildor/Secondo Geniti

Gorlim Barahir Beren Marach Haldad Capo degli Haladin

Bregor Belegund Malach 2La Gente di Haleth (Brethil) e Drúedain

1Casa di Bëor il Vecchio/

(Dorthonion) Balan Bregolas

Baragund

3Casa di Hador/ Haldan Halmir

(Dor-Lómin) Lórindol Gloredhel + Haldir

Bereg Bereth Morwen Galdor + Hareth Mîm il Nanerottolo Uomini Selvaggi

Eledhwen [Ghân-buri-Ghân]

Rían + Huor Húrin + Morwen

Maedhros• Maglor

Erendis + Tar-Aldarion Túrin Turambar×+ Nienor

×/

× Poi Valar

Tuor Brodda Mormakil/Mormegil Níniel (nei Racconti Perduti)

Bór Uldor l’Orientale

Orientali : il Maledetto Beleg• Brandir Mablung

Ulfang Ulfast Esterling (Rhûn) Arcoforte lo Zoppo

Seguaci di Morgoth il Nero Ulwarth

Carrieri Balchoth

Beorniani e Uomini del Rhovanion Uomoni delle Nevi di Forochel/Lossoth o Uomini del Nord

(quelli delle 3 Case che non andarono a Númenor Dunlandiani e Uomini Morti di Dunclivio* /Uomini Senza Requie (Roccia di Erech)

all’inizio della III Era) [Re della Montagna]

Uomini di Brea Omorzo Cactaceo

Sovrintendenti Reggenti : Denethor II Boromir (durante i Grandi Anni)

Faramir + Éowyn

Signori dei Cavalli/Re del Mark/Re di Rohan/ : Eorl il Giovane Théodwyn + Éomund Imrahil

Uomini dell’ Éothéd/Rohirrim/Eorlingas di Dol Amroth

Helm Mandimartello Thengel Éomer + Lothíriel

Uglúk Saruman Grima Théoden Erkenbrand

degli Uruk-hai Vermilinguo dell’Ovestfalda

Sono detti Uomini del Vespro i discendenti della II Casa (Haladin), cioè Rohirrim e Uomini del Nord

Sono detti Uomini dell’Ovest o dell’Ovesturia i Dúnedain

Sono detti Uomini dell’Oscurità o Bradi gli Haradrim e gli Esterling

Sono detti Uomini Neri i Troll

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Nani/Naugrim

(7 Case dei Padri)

Durin (Moria/Khazad-dúm)

il Senzamorte

Thrór (Erebor) Telkar Dwalin e Balin (Moria) cugini Óin e Glóin I Era 2763-2994

Thrain Gimli 2879-3121(?) Amico degli Elfi

Thorin Dáin (Erebor) Re Brand Poi Sire delle

Scudodiquercia Piediferro (Esgaroth su Lago Lungo) Caverne Scintillanti 2746-2941 2767-3019

zio Bifur, Bofur, Bombur Legolas•

Azog l’orchetto Smaug

Fíli e Kíli Ori, Nori, Dori Thranduil•(Bosco Atro)

Bolg Re degli Elfi Silvani Sindar

Hobbit/Mezziuomini/Periannath

Paloidi ж I Tuc (Grandi Smial)

I Brandibuck (Terra di Buck) : (Contea) Sturoi ж Popolo del Fiume

Pelopiedi ж I Baggins (Hobbiville)

Sméagol/Gollum Déagol

Brandobras Tuc prozio Gerontius

Ruggibrante il Vecchio Tuc

Belladonna Primula Brandibuck

Paladino Tuc +

cugini Bilbo Baggins zio Drogo Baggins

Mastro Samvise Peregrino/Pipino Meriadoc/Merry

Gamgee Brandibuck Frodo Baggins

+

Rosa Cotton Cioccadoro + Faramir Beorn*

Glorfindel•

Altre Specie di Gran Burrone

Ent [Barbalbero] e Ucorni (Ent addormentati)

I Pastori d’Alberi

Aquile [Thorondor] Gwaihir e Landroval I Era III Era

Draghi [Glaurung] Urulóki/Draghi di Fuoco :

Cavalli : Ombromanto Gandalf

Nevecrino Théoden

Alberi di Valinor : Telperion/Silpion e Laurelin/Culúrien

Galathilion (Túna) Celeborn (Eressëa) Nimloth (Armenelos) L’Albero Bianco di Minas Tirith

Legenda

razza ж servitore [ ] signore, capo dei / altro nome

figlio successore ( ) luogo d’appartenenza rosso R. Perduti o Ritrovati

+ matrimonio dopo generazioni ucciso blu R. Incompiuti

parente approfondimento u* umano

e fratelli derivazione (o ) e• elfo

compagno alleati o* origine incerta

Gandalf

Ancalagon

Smaug

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Araldica Eldarin Si è conservato fino ai nostri giorni un cospicuo numero di simboli araldici degli Elfi. Gli esempi

sotto riportati sono tutti basati sulle illustrazioni conservate e pubblicate.

Finwe. L'araldica di Finwë mostra un "sole alato", in contrapposizione alla luna

alata sullo stemma di Elwë. Nonostante in realtà Finwë sia morto prima del primo

levar del sole, egli fu il Re dei Noldor che raggiunse la luce di Aman e che vide i

Due Alberi. Sedici "punte" raggiungono i bordi del simbolo, rappresentando la

posizione di Finwë come uno dei più vecchi tra i Quendi e come Alto Re dei

Noldor. I suoi colori giallo acceso e rosso sembrano echeggiare negli stemmi dei

suoi eredi Fëanor, Fingolfin, e Finarfin [2].

La casa di Finwë aveva anche un altro stemma simile, identico tranne nell'essere

fornito di quarantacinque punte degradanti a formare un quadrato. Questo fu lo

stemma degli Alti Re dei Noldor e venne tramandato da Finwë a suo figlio Fingolfin e

quindi a Fingon e Turgon [1].

Elwë. Lo stemma di Elwë Singollo, meglio conosciuto come Elu Thingol, mostra

una "luna alata" su sfondo nero, circondata da stelle. È il polo opposto al sole alato

di Finwë. Probabilmente la spiegazione di ciò è che nonostante entrambi abbiano

intrapreso la Grande Marcia, Elwë venne incantato da Melian e non abbandonò mai

la Terra-di-mezzo, a quel tempo illuminata solo dalle stelle di Elbereth. Finwë,

invece, giunse ad Aman e si stabilì nella luce degli Alberi. In base al numero di

"punte" presenti nello stemma di Elwe (otto), egli raggiunse solo la metà del

"rango" di Finwë. [1]

Melian. La Maia del Doriath s'è assegnata uno stemma complesso, molto diverso da

qualsiasi altro stemma maschile o femminile. Al suo interno si trovano sia stelle che

figure simili a fiori, riflettendo gli stemmi sia di Elwë (suo marito) che di Lúthien

(sua figlia). Esso potrebbe anche richiamare (o, in verità, essere) il suo sigillo, che fu

"un singolo fiore di Telperion". All'interno del cerchio che la contraddistingue come

femmina si nota anche una losanga, che è di solito il blasone degli stemmi maschili.

Questo potrebbe simbolizzare la sua capacità come Maia di determinare da sé il

proprio "abbigliamento" corporale e quindi il sesso. [1]

Fëanor. Lo stemma di Fëanor condivide i colori fiammeggianti dell'emblema di

suo padre, ed esalta le caratteristiche infuocate attraverso fiamme ondeggianti che

vanno dal centro verso l'esterno. Questo potrebbe essere correlato al nome di

Fëanor, che significa "Spirito di Fuoco" (ma queste fiamme si ritrovano anche nello

stemma di Fingolfin , dove non si può fare la stessa deduzione). Al centro è dipinto

un Silmaril, la migliore delle opere di Fëanor. Esso è circondato da numerose

superfici colorate, che probabilmente rappresentano l'arte di realizzare cristalli,

anch'essa inventata da Fëanor. [2]

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Fingolfin. Lo stemma di Fingolfin mostra una netta correlazione con lo stemma del

fratello di Fingolfin, Fëanor, con la naturale eccezione del Silmaril di Fëanor. La

stella argentata su campo blu è probabilmente la fonte dei colori blu e argento dello

stendardo di Fingolfin menzionato ne Il Silmarillion. Otto "punte" raggiungono i

bordi, come nel caso di tutti gli stemmi dei figli di Finwë. [1]

Finarfin. Benché condivida l'aspetto "infuocato" dello stemma di suo padre e dei

suoi fratelli, i raggi infuocati nello stemma di Finarfin sono tranquilli, conferendo

allo stemma una forma più bilanciata. Dal momento che si distingue chiaramente

dagli stemmi dei suoi fratelli, viene forse fatta allusione al fatto che egli, alla

ribellione dei Noldor, rimase in Aman, mentre i suoi fratelli proseguirono verso la

Terra-di-Mezzo. Questo stemma venne anche utilizazto dagli eredi di Finarfin, ed

apparentemente in particolar modo da Finrod (benché egli avesse anche un altro

stemma). [1]

Finrod. Finrod Felagund ebbe uno stemma assai diverso da qualsiasi altro stemma

elfico: non è simmetrico e i colori sono chiaramente "terrestri". L'immagine di

un'arpa e una torcia richiama la leggenda di Finrod che cammina nei boschi del

Beleriand orientale e della sua apparizione in mezzo agli Uomini suonando un'arpa.

L'Uomo che Finrod incontrò apparteneva alla schiera di Bëor, ed è possibile che lo

stemma sia stato ideato da uno di quella schiera. [2] Finrod utilizzò anche un

simbolo che raffigurava una corona di fiori dorati. Il motivo del simbolo fu probabilmente correlato

direttamente o indirettamente allo stemma di Finarfin.

Lúthien. Lúthien Tinúviel è l'unica persona nota per aver avuto due distinti

emblemi araldici; entrambi sono basati su modelli floreali. Il

primo mostra il bianco niphredil che crebbe alla sua nascita (esso

è stato descritto come un delicato bucaneve). Il secondo

probabilmente contiene al centro un elanor . Le stelle in questo

stemma richiamano quelle presenti nello stemma di suo padre

Thingol . Ad un primo sguardo è difficile dire se esiste qualche

"punta" che raggiunge il bordo, ma probabilmente esse dovrebbero essere non più

di quattro in entrambi gli stemmi. Nel primo stemma esse puntano nei punti

cardinali nord-est, nord-ovest, sud-est, sud-ovest. Nel secondo, le sole cose simili a "punte" sono i

fiori bianchi, ciascuno dei quali potrebbe simbolizzare una punta. Questo dovrebbe darle il giusto

rango di principessa del Doriath. [1]

Idril. Lo stemma di Idril Celebrindal rivela un motivo simile a un fiordaliso. A

quanto pare Idril venne particolarmente associata a questo fiore, probabilmente a

motivo della sua chioma dorata che ricordava il grano dorato. Un'iscrizione trovata

assieme allo stemma riporta Menelluin Írildeo Ondolindello ("Fiordaliso di Idril da

Gondolin"; Írilde è una Quenyaizzazione del nome di Idril). È possibile che

Menelluin (letteralmente "blu-cielo") fosse il nome, o designazione, dello stemma.

In esso, dodici punte raggiungono il bordo del cerchio, suggerendo il rango

corrispondente alla figlia di un Alto Re. [1]

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Lo stemma di Idril venne conservato e portato da Gondolin a Númenor, dove divenne l'ispirazione

di molti motivi similari dei Númenoreani. Esso venne quindi portato a Gondor da Elendil.

Nonostante Gondolin sia nota aver avuto le proprie specifiche tradizioni araldiche, queste non si

applicano a questo stemma, il che potrebbe indicare che l'usanza fosse riservata alle Dodici Casate

della città.

Eärendil. Il focus nello stemma punta sul Silmaril di Eärendil, rappresentato al

centro, che sprigiona sei raggi di luce verso i bordi. Negli angoli scuri viene mostrata

la luna nelle sue fasi. La presenza della luna potrebbe riflettere il destino di Eärendil

di diventare una stella, ma è anche la sola cosa che preserva lo stemma dall'essere

interamente simmetrico. Questo forse lo distingue come mezz'elfo. I sei raggi di luce

sono accompagnati da altri sei, che sembrano andare nella direzione opposta. Si

formano così dodici "punte", una chiara correlazione con lo stemma di Idril (essendo

Idril la madre di Eärendil), allusione che viene rinforzata dallo sfondo blu condiviso dai due

stemmi. [1]

Gil-galad. Il suo nome significa "Stella raggiante", e inoltre le parole da La Caduta

di Gil-galad ricordano: "Le innumerevoli stelle della volta celeste / si

rispecchiavano nel suo scudo argentato" [5 ], è quindi naturale che lo stemma di

Gil-galad mostri un cielo stellato. È arduo dire quante sono le "punte" che

raggiungono il bordo, ma il suo rango dovrebbe concederne almeno quattro. [1]

I Silmarilli. È noto un solo stemma creato per designare oggetti anziché una

persona. Per quale motivo i Silmarilli debbano avere il proprio emblema araldico

non è chiaro. Forse lo stemma veniva utilizzato come uno stendardo dai Noldor

nelle guerre contro Morgoth, per marcare i loro intenti. L'albero sullo sfondo è

probabilmente Laurelin, L'Albero Dorato, da cui i Silmarilli ricevettero parte della

loro luce. [2] I Silmarilli vengono anche usati come emblemi negli stemmi di

Fëanor, Eärendil, e Beren.

LE DODICI CASATE DI GONDOLIN

I seguaci di Turgon, già nel loro vecchio regno del Nevrast, avevano sviluppato tradizioni araldiche

che sembrano essere state uniche nella Terra-di-mezzo, e prossime all'araldica delle età di mezzo. La

loro blasonatura consistette in simboli realizzati per uno sfondo monocromatico, e gli scudi a cui

venivano applicati erano "lunghi e affusolati". In Gondolin questa araldica non venne probabilmente

utilizzata per gli stemmi personali, ma fu - forse solamente - applicata agli stemmi delle "Dodici

Casate" (cfr. Idril). Queste ultime erano costituite da gruppi di nobili, forse famiglie o gilde, che

probabilmente erano responsabili della difesa della città.

La descrizione dettagliata dell'araldica deriva da una fonte che è solitamente considerata piuttosto

inaffidabile [10 ]; ma il disegno di uno degli stemmi è stato confermato da un testo assai più

affidabile [11], e a parte insignificanti discrepanze non ci sono motivi di credere che gli altri stemmi

non siano descritti ugualmente in modo accurato. Le giubbe delle sottostanti armi/braccia sono tutte

ricostruite in base alle descrizioni, e ad ogni modo non dovrebbero essere considerate ufficiali.

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La Casata dei Re. Turgon e la sua casata aveva gli emblemi de "la luna e il sole e il

cuore scarlatto" e i loro rispettivi colori furono bianco, oro e rosso, ciascuno

indubbiamente correlato con uno degli emblemi. Sono qui raggruppati i tre simboli in un

unico stemma, benché sia possibile che la casata in realtà avesse tre stemmi distinti. Il

cuore rappresenta il cuore di Fingolfin, padre di Turgon, che venne seppellito nella parte

nord della città. Ho presupposto che il sole sia correlato col sole nello stemma della casata

di Finwë (essendo Turgon il nipote di Finwë), e quindi dotato dello stesso numero di

raggi.

La Casata della Rondine. Questa casata consisteva di formidabili arcieri, vestiti di

bianco, blu scuro, porpora e nero. Il loro capitano venne chiamato Duilin e i loro scudi

vennero cambiati con una punta di freccia. La Rondine potrebbe ricordare una freccia,

che vola velocemente attraverso l'aria e che centra sempre il suo bersaglio.

La Casata del Fiore Dorato. Glorfindel condusse questa casata, il cui stemma

venne cambiato con un sole radiante. Si è scelto questo colore di sfondo perché il nome

della casata e la descrizione del vestiario di Glorfindel richiamavano "un campo in

primavera".

La Casata della Talpa. Maeglin, colui che guidò la Casata della Talpa, fu un magistrale

minatore, ed apparentemente associò se stesso ad una talpa. Ma gli scudi della casata

furono di colore nero e disadorni, proprio come lo scudo di Morgoth: e alla fine, fu

Maeglin quello che rivelò Gondolin a Morgoth.

La Casata dell'Arco Celeste. I membri della casata di Egalmoth erano tutti molto ricchi e

godevano di gioielli ed oro. Sui loro elmetti venne collocato un grosso opale, e i loro scudi

furono blu-cielo. Al centro dei loro scudi era collocato "un gioiello realizzato con sette

pietre preziose": rubino, ametista, zaffiro, smeraldo, crisoprazio, topazio ed ambra. La

disposizione delle gemme è una costruzione di fantasia; l' "Arco Celeste" va probabilmente

inteso come l'arcobaleno, e qui si presuppone che il topazio sia giallo, per completare la

gamma cromatica indicata dalla disposizione delle altre pietre.

La Casata dell'Ala Bianca. I più valorosi degli uomini del Re indossavano sui loro

elmetti ali di cigno e di gabbiano, e lo stemma dei loro scudi era un'ala di cigno su sfondo

blu. Di tal fattura era lo scudo e l'elmo che Tuor trovò nel Nevrast, destinandolo infine ad

unirsi e guidare la casata. [11]

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La Casata del Martello dell'Ira. Un gruppo di fabbri e artigiani, una forte e coraggiosa

casata, guidata da Rog, combatteva con mazze ed aveva scudi pesanti. Il loro emblema era

l'incudine colpita, ma i loro scudi mostravano "un martello che sprizzava scintille attorno

ad esso". Non viene data alcuna indicazione circa i colori dello stemma, ma un indizio

potrebbe essere che "oro rosso e acciaio nero erano la loro gioia".

Gli stemmi delle rimanenti casate non vengono descritti. Quello che si sa è questo:

La Casata dei Pilastri e La Casata della Torre della Neve erano entrambe guidata da

Penlod. Nessun suggerimento viene fornito sulle loro caratteristiche.

La Casata dell'Albero era condotta da Galdor e i suoi membri erano vestiti di verde.

La Casata della Fontana era guidata da Ecthelion, colui che uccise Gothmog, Signore dei

Balrog. I membri della casata adoravano argento e diamanti, il cui scintillio e colore senza

alcun dubbio influenzò i loro emblemi.

Riferimenti

1. Hammond and Scull. J.R.R. Tolkien: Artist and Illustrator. Patterns and Devices 2. Pictures No. 47 3. Sil. Of Túrin Turambar 4. LotR Vol. 1 A Journey in the Dark 5. LotR Vol. 1 A Knife in the Dark 6. LotR Index IV: Star 7. UT Cirion and Eorl 8. LotR Index IV: Ship 9. LotR Vol. 3 The Ride of the Rohirrim 10. BoLT 2 The Fall of Gondolin 11. UT Of Tuor and His Coming to Gondolin 12. LotR Vol. 1 A Long-expected Party 13. LotR Vol. 2 The Departure of Boromir 14. LotR Vol. 2 Flotsam and Jetsam 15. Sil. Of the Ruin of Beleriand and the Fall of Fingolfin 16. LotR Vol. 3 The Tower of Cirith Ungol 17. LotR Vol. 3 The Battle of the Pelennor Fields

La Casata dell'Arpa. I membri di questa casata indossavano nappe d'argento e d'oro, e

sui loro scudi era collocata un'arpa argentata su campo nero. Sullo stemma del capo della

casata, Salgant, adulatore di Maeglin, l'arpa era dorata. È rilevante che lo stemma

condivida il nero della Casata della Talpa, forse per la diretta influenza di Maeglin su

Salgant.