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Adotta un quadro di Vermeer

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Ebook realizzato dagli studenti della classe I B del liceo "Giovanni Pico" di Mirandola. A.S. 2013-14

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Page 1: Adotta un quadro di Vermeer

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Adotta un quadro di Vermeer

Racconti in scrittura collaborativa

classe I B Liceo “G.Pico”

Mirandola – MO

A.S. 2013-14

iisgluosi Edizioni

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“Adotta un quadro di Vermeer”

Racconti in scrittura collaborativa

by:

Gianluca Barelli, Matteo Battilani, Chiara Belloni, Cindy Berti, Miriam Calzolari, Sara Campagnoli, Fabio Carnevali, Luca Cavicchioli, Hajar Ezzaki, Martina Fattori, Rossella Grana, Francesco Guicciardi, Gaia Lodi, Rossana Magliocca, Giada Mantovani, Valentina Marando, Monica Massarenti, Chiara Moretti, AlicePenzo, Rebecca Pignatti, Lisa Polo, Giulia Sbardellati, Mihaela Scurtu, Alessia Vescovini, Chiara Voza.

A cura di: Marina Marchi, Emanuela Zibordi

I edizione, Settembre 2014

Licenza: Creative Commons BY- NC - SA 3.0 Italia

Realizzazione a cura di iisgluosi Edizioni

via 29 Maggio, Mirandola, MO

http://www.iisgluosi.com

ebook a cura di Emanuela Zibordi

Copia di questo ebook in .epub e .mobi qui:

http://www.emanuelazibordi.it/wp/ebooks/

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Prefazione

La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, con la Gioconda di Leonardo e L’urlo di Munch, è unanimemente riconosciuta come una delle tre opere d’arte più note, amate eriprodotte al mondo.

Dall’8 febbraio al 25 maggio 2014, il capolavoro di Vermeer è stato in Italia, precisamente a Bologna, a Palazzo Fava, in una mostra unica, che ha ripercorso il mitodella Golden Age. Per la prima volta è stato possibile ammirarla in Europa al di fuori della sua sede storica da dove, conclusa la mostra bolognese, probabilmente non uscirà mai più. La scuola non è rimasta indifferente a tale avvenimento e proprio perchéinserita all’interno di un contesto territoriale, che la influenza , ne ha saputo cogliere spunti, ma anche momenti di riflessione e condivisione con l’intera comunità.

Questo fatto è stato così il motore di un percorso tematico che è ruotato intorno al famoso quadro di Vermeer, partendo dalla visione dell’opera d’arte, passando attraverso il romanzo omonimo di Tracy Chevalier per approdare poi alla visione del filmdel regista Peter Webber del 2004.

Il ritratto de La ragazza con l’orecchino di perla evoca bellezza e mistero e il suo volto da oltre tre secoli continua a stregare coloro che hanno la fortuna di poterla ammirare dal vero, o che magari l’hanno scoperta per la prima volta attraverso i romanzi e il film, di cui la bellissima ragazza dal copricapo color del cielo è diventata, forse suo malgrado, protagonista.

Il quadro e il romanzo ci hanno offerto lo spunto per ripercorrere un po’ tutti i quadri dell’artista, sia quelli di certa attribuzione che quelli incerti e con i loro colori, con i loro chiaroscuri e le loro figure hanno ispirato un “laboratorio di scrittura creativa”.

Ogni studente ha così adottato un quadro di Vermeer, scegliendolo fra quelli elencati e attribuiti al pittore da una ricerca effettuata su Wikipedia.

L’analisi e la descrizione di ogni quadro è stata fatta nelle lingue straniere, che i ragazzi studiano a scuola, inglese, francese e tedesco. Poi intorno ad ogni quadro è stata creata una storia, un racconto, che ha preso spunto dalla ricerca del soggetto del quadro, dalla motivazione del quadro o dal personaggio ritratto nel quadro stesso.

Dopo un attento studio della storia e della realtà del Seicento, epoca in cui sono state per lo più ambientate le storie create dai ragazzi, gli studenti hanno potuto vedere tutto il percorso creativo dello scrittore, anche grazie ad un incontro con Marco Fregni, autoredi racconti e poesie (Al di là di ogni aldilà e Dialoghi con il padre). Il laboratorio di scrittura è partito dall'ispirazione per passare poi all’ideazione e lo sviluppo della trama,

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si è soffermato sulla costruzione e caratterizzazione dei personaggi e le tecniche narrative, fino ad arrivare alla revisione.

Apprendere tecniche di scrittura narrativa, confrontarsi con i propri compagni e consultarsi per le scene dei propri racconti, porsi in ascolto e riscoprire il piacere della lettura, mettersi alla prova, conoscere qualche segreto del mestiere dello scrittore: il laboratorio di scrittura è stato un po’ tutto questo, oltre ad un modo pratico e divertente attraverso il quale ritrovare la propria creatività.

Per produrre la stesura definitiva dell’opera si sono utilizzati diversi strumenti informatici:

1- Documenti di Google Drive per la scrittura cooperativa;

2- Open Office per la revisione off line, la gestione delle immagini, la prima bozza di epub e quella definitiva in pdf;

3- Sigil per il perfezionamento del file per dispositivi mobile;

4- Calibre per l'edizione per Kindle.

che hanno sollecitato competenze caratteristiche del Web 2.0, così come si utilizzano ormai diffusamente per redigere documenti digitali a più mani, sia scientifici sia umanistici.

Marina Marchi

Emanuela Zibordi

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Contenuti

1 - Fortuna improvvisa

2 - Le lettere nascoste

3 - Una lettera misteriosa

4 - Maria Elisabetta - L'inizio

5 - Maria Elisabetta – Il ricatto

6 - Maria Elisabetta – La nuova vita

7 - Scienza in corso

8 - Il sentiero dei garofani rossi

9 - Un brano misterioso

10 - Il mistero della spinetta

11 - Maledetta lettera

12 - Il chicco di riso

13 - La storia di Philip

14 - Era vero amore?

15 - L'ultima lettera

16 - Ti scrivo da Berlino...

17 - La melodia finale

18 - Quella porta aperta

19 - Un nuovo inizio

20 - Un volto dal passato

21 - L'attesa

22 - La peccatrice

23 - Jaimy

24 - Il cappello rosso

25 - Spettacolo di canto

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Erano le undici di sera ed eravamo tutti a dormire fino a quando all'improvviso si sentì una finestra rompersi, di conseguenza scesi le scale e andai a vedere intanto che le donne della servitù si calmavano. Immaginai che fossero i teppistelli che solitamente vanno di casa in casa per riuscire a raccogliere qualcosa in denaro o rubare oggetti di lavoro per venderli dopo.

Una volta sceso mi ritrovai tre fratelli, tutti all'incirca di otto anni, che tenevano in mano un cesto di legno che già conteneva un soprammobile di inestimabile valore sia indenaro sia morale per me, dato che me lo aveva regalato mia madre prima di morire a causa dell'epidemia di peste. Uno di loro si voltò di scatto e appena mi vide ordinò agli altri due di rimettere a posto tutto, perché erano stati scoperti e che, questa volta, sarebbero andati nei guai.

“Chiedo scusa, signore. Noi lo facevamo solo per poter mangiare e dare a nostra madre un momento di sollievo. Ci perdoni,signore, noi non verremo più a disturbarla e aderubarle qualcosa.” mi disse uno di loro. Li osservai bene e notai che indossavano pantaloni larghi molto vecchi di un marrone sbiadito e una maglietta grigia tutta strappata e sporca di fango a causa che fuori aveva appena finito di piovere e il terreno era molto umido. “Bambini,ditemi quanti anni avete e i vostri nomi. E parlatemi della vostra situazione a casa.” questi ragazzini mi incuriosivano e volevo veramente sentirnela storia. Volevo capire il motivo di quello che avevano appena fatto e cosa li spingeva a ciò. I miei pensieri vennero interrotti bruscamente dal richiamo della mia amata moglie in camera da letto che mi chiedeva cosa stesse succedendo in sala e quindi le risposi che sarei arrivato tra pochi minuti e che stavo chiarendo la situazioni con dei bambini, lei non mi rispose ma pensai che avesse capito quindi ritornai a guardare in faccia il bimboche poco prima si era scusato. “Signore, io sono Alexander e questi sono i miei fratellini Daniel e Andreas. Io ho noveanni e loro, essendo gemelli, hanno entrambi cinque anni e mezzo. Sono giorni ormai che giriamo per la città alla ricerca di qualche moneta o qualcosa da vendere perché noie nostra madre stiamo morendo di fame. Nostro padre è morto un anno fa e da allora fatichiamo a sopravvivere e nostra madre era una semplice serva presso una famiglia che, però, la licenziò per sospetto che lei avesse rubato loro una collana d'oro. Quindi lei è rimasta senza un'occupazione e noi cerchiamo di aiutarla.” “Domani, bambini, portate vostra madre qua che le voglio parlare riguardo a ciò che avete fatto. Però potete stare tranquilli perché non vi farò denuncia! Andate a casa, buonanotte!”. Li accompagnai alla porta e li salutai con la mano quando si allontanarono, mi era venuta in mente una brillante idea e di ciò ne avrei discusso con tutta la famiglia la mattina seguente. Il giorno dopo, poco prima di fare colazione, svegliai la mia amata e gli raccontai di tutta la conversazione avuta con i giovanotti della notte e le parlai della mia idea e lei,

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insicura sul da farsi, accettò. Scendemmo giù in cucina e chiesi a Matilda, nostra serva da ormai sette anni, di preparare due tazze di caffellatte per noi due e di mettere a riscaldare il latte per i nostri quattro figli che ancora dormivano e che l'altra serva Greta stava andando a svegliare. Subito dopo aver fatto il pasto più importante della giornata, sentimmo suonare il campanello e corsi alla porta per aprire e dissi a mia moglie di essere cortese con la nostra ospite e futura domestica. Salutai la donna dall'aria disperata e la feci accomodare nella sala dove avevo parlato la notte scorsa coi suoi bambini dove, attualmente, c'era mia moglie. “Signore, chiedo perdono dell'intrusione dei miei figli nella vostra casa successa ieri notte. Sono dispiaciuta del vetro della vostra finestra rotto.” “Non vi scusate, i vostri figli mi hanno parlato della perdita di vostro marito e del suo lavoro e vi abbiamo chiamata qua al fine di chiederle se voleva venire a lavorare qua come domestica per poter sfamare i suoi figli e essere più tranquilla. Accetta?” La madre dei ragazzi mi guardò stupita e dopo aver realizzato che ciò che le avevo chiesto era vero e non si trattava di un sogno lei sorrise prima a me e poi volse lo stesso sorriso alla mia compagna e ciò mi sollevo l'umore. “Signore, certo che accetto. Grazie mille, pensavo che questo non sarebbe mai successo e finalmente ricevo una proposta di lavoro. Sarei veramente incosciente se non accettassi e poi se non le avessi detto di sì avrei fatto probabilmente del male ai miei tesori, ai miei figli che tanto amo”. Aveva un bellissimo sorriso sul viso ed ero feliceper ciò che avevo fatto. *quattro mesi dopo* Ero lì, seduto nella sala e stavo sorseggiando la mia tazza di tè e stavo riflettendo sul mio prossimo quadro e al mio prossimo soggetto. Andai in cucina per posare la tazza e vidi Anita, la domestica assunta quattro mesi fa, versare del latte in una ciotola che poi sarebbe stata riempita con i cereali per i miei figli. Subito mi ispirò, non era una cattiva idea immortalarla in quell’azione quotidiana. Lei era impegnata, concentrata nel suo lavoro per portare a casa dai figli un po’ di monete per sfamarli e per permettergli di andare a scuola e ne ero molto soddisfatto e in qualche modo la dovevo premiare. Salii in fretta e parlai con la mia amata compagna della mia idea e lei mi disse che se lo meritava per tutto il duro lavoro che faceva e per la gentilezza che aveva nei nostri confronti, il ricavato dalla vendita del quadro gliene avrei dato una parte in modo da mandarla a vivere da sola senza doversi occupare di cucinare per persone che non erano la sua famiglia e, magari, lei voleva andare in un’altra casa e cambiare un po’ o voleva cercare un nuovo compagno di vita che così poteva mandare avanti lei stessa e isuoi bambini. Dopo aver riflettuto su come avrei voluto dipingerla presi la tela e i colori che mi servivano per stendere la base e per rifinire le forme e di conseguenza i colori e tutti i particolari dell’immagine. Mi diressi nel mio atelier e osservai l’angolo della finestra e ci misi un piccolo tavolino e ci appoggiai degli oggetti che avevo preso in prestito dalla

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cucina come uno straccio blu che le domestiche usavano per asciugare i piatti, una cesta di pane di cui riposi delle pagnotte sparse sul tavolo, infine, una brocca d’acqua. Sullo sfondo non avevo ancora notato che per terra c’era il mio scaldino per i piedi che usavo in inverno e che sul muro erano appese un cestone e una piccola lanterna. Mi piacque subito questa atmosfera, così andai a chiamare Anita e le proposi di posare peril quadro. Lei non rifiutò, pensando che io potessi darle una parte del ricavato, io ovviamente non le dissi nulla. *cinque settimane dopo* Avevo finito il quadro e avevamo tutti visto il risultato, era venuto molto bene ed ero soddisfatto della mia idea e di come avevo dipinto. Quel giorno erano venuti più di dieci committenti a vederlo e ciò dimostrava che avevo realizzato un capolavoro ancora una volta e che questo quadro mi avrebbe fatto guadagnare tanto. In questo modo sarei riuscito a dare una parte alla mia “modella”. Anita era l’unica domestica che avevo assunto perchè mi stava a cuore la sua storia, perciò desideravo il meglio per lei. Una volta venduto il quadro, la sera stessa iniziai a fare i conti con la mia famiglia e il mattinodopo avrei dato le monete ad Anita e , con forte dispiacere, l’avrei licenziata. Il mattino seguente, verso le dieci, la chiamai in sala e lei, in breve tempo, mi raggiunse preoccupata chiedendomi che cosa lei avesse combinato e se avesse sbagliato qualcosa nelle pulizie. Le risposi semplicemente che non aveva commesso nessun errore ma che la volevo premiare, lei era rimasta stupita dalla mia affermazione e mi chiese subito che cosa intendessi dire. Arrivò mia moglie e le diede un sacchetto pieno di monete, dicendole “Anita, noi ti ringraziamo per tutti questi pochi mesi che hai lavorato da noi e grazie per aver posato per il quadro. Questa è una parte del guadagnodi ieri, te la sei meritata. Purtroppo ti dobbiamo dire anche che, volendo il meglio per te non vogliamo vederti lavorare in queste misere condizioni e ti licenziamo. Noi vogliamo che tu ti possa trovare un marito, che tu accudisca i tuoi figli e la tua famiglia. Ti auguriamo tutta la fortuna possibile.”. Era senza parole quando io finii il discorsetto che mi ero preparato la sera prima. L’unica cosa che lei riuscì a dire fu un “Grazie.” sussurrato. Quella fu l’ultima giornata che la vidi, se ne era andata con un sorriso stampato in viso e, da quanto ero venuto a sapere, lei, dopo un mesetto o due, riuscì a trovare un compagno per giunta benestante così si risposò. Insomma, aveva iniziato una nuova vita. Alexander, Daniel e Andreas stavano frequentando la scuola, lei era casalinga e, secondo le voci del paese, era incinta del quarto bambino, infine lui era un ricco mercante. Stavano bene loro e stavo bene anche io perché avevo fatto una buonaazione verso qualcuno che mi stava a cuore. Grazie a me era iniziato un capitolo felice della loro vita e su questo, non c’era soddisfazione più grande per me.

Rossana Magliocca

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2 – Le lettere nascoste

Johannes Vermeer - Donna in azzurro che legge una lettera

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"Sophie, riordina i vestiti e tu Carol aiutala a rimetterli in ordine. Bea tu aiutami a preparare il cibo perchè papà oggi torna a pranzo."

Era raro che nostro padre tornasse a casa per pranzo quindi quelle poche voltevolevamo che la casa fosse pulita e in ordine al suo rientro. Essendo la sorellamaggiore, spettava a me occuparmi delle faccende domestiche e badare alle mie tresorelline, Beatrice e le due gemelline di 8 anni, Sophie e Carolina, che erano unal’opposto dell’altra, sia come modo di fare, sia come aspetto esteriore. Sophie avevapreso gli occhi da papà, color blu mare e i capelli mori mori dalla mamma, per quelloche posso ricordare di lei; Carol invece aveva preso tutto da papà, biondina con gliocchi azzurri. Sophie amava le favole, le principesse e le fate, mentre Carol desideravadiventare una naturalista come Beatrice; Bea di 10 anni era la più tranquilla di noiquattro e stava delle ore in giardino a curare le sue piante e i suoi fiori e ad osservaregli insetti assieme a Carol. Lei assomigliava in tutto a mamma, come diceva sempre papà, mora con gli occhicolor castano. Io, invece, 3 anni maggiore a Beatrice e 5 alle gemelline, mi distinguevoda tutte loro e avevo gli occhi color verde e i capelli castano chiaro; probabilmenteavevo preso da qualche nonno.Avevo cinque anni e mezzo circa quando la mamma sparì completamente dalla miavista. Io ricordo poco di lei poiché ero ancora troppo piccola per capire quanto fossegrave la mancanza di una persona cara come la mamma; ricordo quando lei alla seraprima di andare a letto si recava nella mia cameretta e mi cantava sussurrando, perfarmi addormentare, una dolce canzone di cui non ho mai saputo il titolo, con una vocecosi delicata e amorevole da far precipitare in un tempo brevissimo le palpebre. Poiricordo quando mi coccolava, accarezzandomi o pettinandomi i capelli con manoleggera senza mai stancarsi. Quando io avevo 3 anni e nacque Beatrice, fui la primapersona a cui diede in braccio la neonata, alla sera andavamo sempre insieme nellasua cameretta a cantarle la ninna nanna. Papà non ci ha mai raccontato il motivo della morte della mamma e neanche a meche sono la maggiore, non ci ha mai parlato di lei a parte ogni tanto, quando gli capitavadavanti un oggetto o qualcosa che la ricordasse.Una o due volte al mese arrivavano delle lettere per papà che mi hanno sempreincuriosita, ma non ho mai saputo chi gliele mandasse, da dove provenissero e dove lenascondeva; ho sempre pensato che magari fossero lettere di qualche nuova donnache stava iniziando a frequentare o magari solamente lettere di lavoro, ma non sonomai andata a rovistare nel suo studio. Di solito mi recavo ogni domenica al mercato del paese per delle commissioni e inuna di queste incontrai Peter, il figlio del fornaio, con cui giocavo sempre da piccolina.Io e Peter molto probabilmente provavamo gli stessi sentimenti; io piacevo a lui e luipiaceva a me, ma la cosa che preferivo maggiormente erano i suoi occhioni azzurri che

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mi guardavano con aria dolce. Papà si era accorto che c'era qualcosa tra me e luipoiché la gente qui nel paese andava a riferire tutto quello che vedeva. Una sera, eravamo tutte e quattro pronte per andare a letto, tutte già sotto allecoperte al buio, e Carol improvvisamente si era alzata e aveva esclamato: " Ragazze mimanca tanto tanto la mamma" poi era scoppiata a piangere. Tutte ci eravamo alzate, ioper prima, l'avevo presa in braccio e ci eravamo messe tutte sul mio letto a parlare dellamamma mentre io intanto la coccolavo. Sophie disse: " Ma se lei si è dimenticata dinoi? E magari se ne è andata perché non ci voleva più". A tutte mancava tanto lamamma ma io, essendo la più grande e la più matura, dovevo tranquillizzarle erassicurarle; io le avevo prese tutte e tre fra le mie braccia e avevo detto loro:" Bambinenon dovete preoccuparvi, la mamma sta benissimo e di sicuro di noi non se nedimenticherà mai come noi non lo faremo di lei. E' andata in un posto migliore da doveci segue in tutte le ore del giorno". Ci eravamo abbracciate forte forte da vere sorelle poiognuna di noi era ritornata nel proprio lettino a dormire.

Era domenica mattina e il cielo era grigio, molto probabilmente sarebbe piovuto da unmomento all’altro, quindi non ero andata al mercato ma mi ero dedicata solamente allepulizie di casa. Avevo appena finito di pulire la nostra cameretta e quella di nostro padrequando mi sono recata per la mia prima volta nello studio di mio papà per curiosare unpo’; c’ erano pile di fogli e buste dappertutto, tutto era in disordine con carte a terra epolvere sopra ai mobili e alla scrivania; avevo iniziato a rovistare nelle buste per trovarequelle famose lettere che arrivavano una o due volte al mese e che probabilmente nonsi trovavano sulla scrivania, dove c'erano solo quelle di lavoro. Avevo deciso di rovistarein tutti i cassetti ma anche qui avevo trovato nulla. Ad un certo punto avevo visto sultavolo una specie di bauletto color marrone chiuso con un lucchetto d’oro; sembravauno di quei bauletti del tesoro, ma dovevo assolutamente trovar la chiave per aprirlo escoprire cosa c’era al suo interno. Avevo iniziato a scaraventare tutto quello che mi trovavo davanti, stando attenta però anon rompere niente di importante o che comunque si potesse ammaccare. Ero riuscita a trovare la chiave dentro il cassetto del comodino di papà di fianco al letto. Mi ero seduta sulla sedia della scrivania di mio padre con il bauletto appoggiato sulleginocchia e la chiave nella mano tremolante; avevo aperto il bauletto facendo quattrogiri di chiave e subito avevo visto un plico di lettere e sfogliandole avevo scoperto chenon erano le solite lettere di lavoro, ma provenivano tutte dallo stesso posto “Serdine”(che ricordavo non molto lontano da qui), ma sopra non c’era scritto il mittente. Cosiavevo iniziato ad aprirle ed ero rimasta sopraffatta poiché tutte queste lettere eranostate mandate dalla mamma “Giovanna Luce” e l’ultima inviata era solamente dellasettimana prima.

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Avevo deciso di recarmi a Serdine per scoprire la verità, di conseguenza avevoraccontato anche alle mie sorelline la faccenda. Eravamo partite dopo pranzo senzadire niente a papà, ma lasciandogli un biglietto di fianco il bauletto aperto.Avevamo camminato per più di un’ora e mezza e poi avevamo visto il cartello con la

scritta SERDINE in grassetto e avevamo iniziato a correre fino a quando eravamoarrivate in piazza dove quella poca gente che c’era girava sotto i viali. Avevamo chiesto ad un uomo alto e magro magro dove si trovava questo posto scrittosu tutte le lettere: “ospedale Camirana”. Avevamo dovuto camminare per un’altramezz’oretta fino a quando ci eravamo trovate questo edificio enorme, tutto in mattoni esilenzioso. Siamo entrate col cuore che batteva più forte che mai e avevamo iniziato a guardarci in giro dove c’erano solo persone vestite di bianco, infermieri, carrozzine e malati che urlavano dalle loro stanze.Avevamo trovato un dottore e dopo aver chiesto ci avevano detto che la mamma si trovava nella stanza 13 a sinistra. Man mano ci avvicinavamo a quella stanza tutte e quattro ci stavamo stringendo la mano forse dalla paura e dalla felicità insieme. Quandosiamo arrivate davanti a quella stanza abbiamo aperto la porta, davanti a noi c’era nostro padre che dava la mano a nostra madre addormentata.In quel momento non sapevamo come comportarci, siamo rimaste immobili davanti a quella situazione mentre nostro padre si era alzato dal letto e ci era venuto incontro piangendo. Aveva iniziato a chiederci scusa per non aver mai raccontato della mamma perchè aveva sempre avuto paura, non voleva farci vedere la mamma in quelle condizioni, dopo una malattia che da più di 8 anni la perseguitava. Ci eravamo seduti tutti insieme sul letto della mamma e in quel momento aveva aperto gli occhi forse perché aveva sentito il calore della nostra famiglia e la felicità di tutti noi. Non riusciva a parlare ma riusciva a scrivere e comunicavamo scrivendo su una sua agenda dove sfogliando avevo visto tutte le nostre foto di Natale di tutti gli anni e di quando eravamo piccole. In quel momento gli occhi mi si sono gonfiati di lacrime fino a quando non sono scoppiata a piangere.

Da quel giorno tutti i giorni sono andata a trovare la mamma con le mie sorelline fino aquando lei a causa di quella sua malattia morì dopo 5 anni.

Ora sono qui a casa che aspetto Peter che torni dal lavoro e aspetto anche Kevin il nostro bambino, che tra qualche mesetto nascerà. Intanto rileggo l’ultima lettera della mamma che ci aveva mandato due settimane prima di morire e le lacrime mi segnano il volto.

Martina Fattori

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Era inverno. Odiavo quella stagione in Olanda, perché la casa era sempre particolarmente fredda durante quel periodo. Non che fosse più calda nelle altre stagioni, ma almeno il sole dava un’ illusione di tepore.

Il sole quel giorno non c’era, ma io avevo comunque preso la mia decisione, anche sele condizioni non erano perfette; avrei dipinto la mia padrona mentre suonava. La lettera che avevo scritto qualche giorno prima probabilmente era andata persa in mezzo a tutta l’altra posta che entrava in quella casa, non era stata una grande idea. Ma anche se l’avesse letta, non avrebbe mai ricambiato i miei sentimenti essendo io un servo e lei una dama. Sospirai e preparai i colori, probabilmente avrebbe cominciato a suonare da un momento all’altro. La stanza in cui mi trovavo era sopra il soggiorno dove lei stava e potevo sentire ogni suono che proveniva da lì; era inoltre collegata a uno sgabuzzino tramite una scala a chiocciola che dava perfettamente sul salone; per dipingere senza essere visti, quello era un luogo perfetto. Sentii della musica. “è ora di andare.”

La dama era seduta su uno sgabello, sulle sue spalle era posato uno scialle di ermellino e indossava un voluminoso abito giallo. Al suo grembo poggiava il mandolino, e con leggiadri movimenti delle dita stava suonando una meravigliosa musica. Rimasi incantato per qualche secondo osservandola, ma ritornai alla realtà pensando al quadroche dovevo dipingere. Socchiusi le ante che davano sul soggiorno senza fare movimenti bruschi e cominciai a tirare fuori i colori. Fortunatamente avevo tempo per dipingere perché la mia padrona passava molte ore a suonare, forse perché le ricordava suo marito. Il mio padrone era infatti morto 2 anni fa di tifo, e ancora la dama non era riuscita a dimenticarlo. Da quel momento i giorni felici finirono e sulla grande casa calarono un freddo e buio eterni. Se prima i miei padroni suonavano ogni giorno, lui il flauto e lei il mandolino, ora si sentiva solo un eco di uno strimpellare solitario. Chiunque si trovava nelle vicinanze, era pervaso da un sentimento di tristezza ascoltando quella melodia. Lasua musica era monotona perché da quando lui era scomparso anche l’ispirazione se n’era andata. Incominciai a dipingere e, come se lei avesse capito che la stavo ritraendo, compiva movimenti lenti e leggeri in modo da non muoversi più di tanto. Dopo alcune ore avevo quasi finito il quadro, mi mancavano soltanto le ultime pennellate.“Signora Roxanne!” disse Jodie, una serva, interrompendo la melodia.La padrona non si era accorta che la ragazza era entrata nella stanza e, un po’ meravigliata, un po’ seccata le rispose:”Cosa c’è?”“è arrivata una lettera un po’… strana.”“Spiegati meglio.”

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“Ecco.. Non ha il mittente!”“Fammela vedere.”Jodie teneva in mano la lettera e appena sentito l’ordine gliela porse con un sorriso divertito sulle labbra. Probabilmente l’aveva letta, pensai io. Ma nel guardare meglio capii cosa stava succedendo e un senso di panico mi pervase; quella era la mia lettera! Pensavo di averla firmata, ma probabilmente nell’agitazione del momento mi dimenticai di scrivere il mio nome. Anche se avevo origini umili e non andavo a scuola, da piccolo mio padre mi aveva insegnato l’alfabeto e qualche frase,che a sua volta aveva imparatoda un maestro. Ero molto contento di questo, perché in quell’epoca saper scrivere era un lusso.Volevo entrare nella stanza e riprendermi quella lettera, ma cosa avrebbe pensato dopola padrona? Ci sarebbero state molte domande che avrebbe potuto rivolgermi, e sarei sicuramente finito fuori di casa. Quindi mi calmai e pensai che comunque non avrebbe mai saputo chi l’avesse scritta e ritornai a dipingere tranquillo. Aggiunsi anche Jodie perriempire il quadro. Nel frattempo la padrona Roxanne stava leggendo con occhi attenti la lettera. Non riuscivo a capire che cosa stesse pensando. Quando finì di leggere, guardò con aria interrogativa la serva e finalmente parlò.“Si tratta di uno scherzo, vero?” chiese a Jodie.“Non lo so signora,io l’ho solo trovata tra la posta.”“è sicuramente uno scherzo di qualche uomo che vuole approfittare di me.” E, detto questo, la strappò. Capii che che forse era spaventata, ma il mio cuore fece comunque un sussulto.“Gettala via, per favore.” Ordinò la padrona a Jodie. E ritornò a suonare, mentre io, col cuore spezzato, mi rifugiavo nella mia stanza lasciando il quadro incompiuto.

I giorni passavano. L’inverno finì in fretta lasciando spazio alla primavera. Ogni volta che finivo i miei lavori in casa andavo in giardino a disegnare fiori, animali, alberi, nuvole, oppure la gente che passava. Non davo più importanza alla storia della lettera, sapevo che comunque la signora non avrebbe mai accettato i miei sentimenti.“Cosa disegni?” Non mi accorsi che la padrona era di fianco a me. Non rispondendole, le mostrai gli schizzi. “Che belli,sei proprio bravo” arrossii , e lei aggiunse: “allora forse ho capito da dove viene quel quadro.” Arrossii ulteriormente “Di che quadro parla signora?”“Qualche tempo fa ho trovato un quadro nello sgabuzzino del soggiorno, e non sapevo da dove provenisse … Non è che lo hai fatto tu?”Sospirai e le spiegai tutto col cuore in gola, preoccupato per le conseguenze di quelle parole. Le rivelai i miei sentimenti e le dissi anche della lettera, e lei non batté ciglio. Alla fine del discorso, rimase in silenzio per alcuni minuti, non sapendo che cosa dire.

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Trovò le parole giuste e mi disse sorridendo: “Sei proprio un bravo ragazzo.”, e se ne andò dal giardino, lasciandomi solo e confuso. Quando rientrai in casa sentii nell’aria una dolce melodia; la padrona stava componendo una nuova, bellissima canzone. Ero estremamente sorpreso; Jodie mi venne di fianco e mi sussurrò: “La signora ha ritrovato l’ ispirazione! Non è forse fantastico? Chissà cos’è successo..” Senza risponderle andai verso il soggiorno: la dama era lì, con il mandolino tra le mani e con un dolce sorriso sulla bocca. Indossava gli stessi vestiti con cui l’avevo ritratta.“Sapevo saresti venuto.” Disse. “Grazie a te ho ritrovato l’ispirazione, e di questo ti ringrazio moltissimo. Voglio che tu finisca il quadro.” Mi guardai intorno e lo vidi, incompleto, su un cavalletto davanti a Roxanne.“Puoi finirlo, anche se Jodie non è qui.”Sia felice sia nervoso, mi sedetti su uno sgabello posizionato davanti al cavalletto e sorpreso trovai i miei colori su una tavolozza. Erano rimasti ancora nello sgabuzzino da quel giorno in cui avevo interrotto il quadro. Sorrisi e cominciai a dipingere. Era molto più bello lavorare senza la paura di essere scoperto e con una canzone di sottofondo tanto melodiosa. In due ore finii il quadro e lei venne a vederlo; era sinceramente contenta.“D’ora in poi voglio che tu dipinga per me, vuoi farlo?” mi chiese.“Ne sarei onorato” risposi.E, sorridendomi, ritornò al suo posto a suonare.Io andai nella mia camera soddisfatto; finalmente avevo finito il quadro e avevo rivelato alla padrona i miei sentimenti. Dal soggiorno sentivo la padrona suonare. Ero felice.

Monica Massarenti

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4 – Maria Elisabetta - L'inizio

Johannes Vermeer - Donna con collana di perle

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Lui, il pittore che tutti stimavano, aveva perso l’ispirazione. Ormai non poteva neanchepiù permettersi una serva che lavorasse a tempo pieno e che andasse al mercato, così decise di andarci lui stesso. Mentre si incamminava a testa bassa, pensava a tutti quei quadri che l’avevano reso famoso. Ne aveva creati così tanti ormai, che non aveva più nulla da dipingere. Aveva perso l'ispirazione e aveva tentato con ogni cosa, ma niente! Ogni quadro che provava a impostare sembrava una copia di un altro fatto qualche tempo prima.

Perso nelle sue riflessioni, era quasi arrivato al mercato, distolse il pensiero da ciò che lo preoccupava e iniziò ad addentrarsi nel caos delle bancarelle che vendevano grandi quantità di cibarie. Si diresse verso l’angolo destinato a legumi e ortaggi, ormai lacarne era troppo cara per lui. Mentre si avvicinava al banco da cui si serviva sempre, vide una ragazza che lo colpì. Aveva un viso dolce, i capelli quasi del tutto coperti, ma si intravedevano delle ciocche castane. Vide che si avviava verso l’uscita del mercato, così decise di seguirla. In mezzo a tutta quella gente era difficile tenere d’occhio qualcuno, ma lui non la perse di vista un momento. Ad un certo punto la fanciulla svoltò in un vicolo molto stretto ed entrò nel cortile di una casa. Il pittore la seguì e si nascose dietro all’entrata del cortile. Sentì un’altra ragazza arrivare e urlare: “Maria Elisabetta! È tornata finalmente!” . Il suo nome era Maria Elisabetta, e probabilmente l’altra ragazza era la sua serva. Il pittore restò un po’ fuori dal cancello poi, vedendo che la fanciulla non usciva più, se ne tornò a casa. La sera pensò molto a lei e decise che il giorno seguente le avrebbe chiesto di fare la modella del suo quadro.

L’indomani all’alba il pittore si avviò verso la casa della fanciulla e quando lei uscì la seguì fino al mercato. Ad un certo punto la vide voltare in un vicolo buio nel quale si vedeva solo una piccola panchina in legno dove lei si sedette. Il pittore colse l’occasione al volo e le si avvicinò. I due iniziarono a parlare, e dopo poco il pittore le chiese di posare per il suo quadro.

Messa da parte la sua iniziale titubanza, lei accettò a condizione che l’opera rimanesse segreta, almeno fino al suo compimento.

Si diedero appuntamento l’indomani nello stesso posto per poter parlare dei dettagli.

Il giorno seguente decisero che la fanciulla sarebbe andata a casa del pittore ogni mattina con la complicità della serva che avrebbe mantenuto il segreto con il marito. Se egli l’avesse saputo sarebbe andato su tutte le furie e l’avrebbe abbandonata, perchè avrebbe macchiato il nome della sua nobile famiglia.

Il primo giorno il pittore fece accomodare Maria, ma non riuscì a trovare una posa chelo soddisfacesse, così la mandò a casa senza aver neanche iniziato il quadro. I giorni seguenti furono uguali al primo, se non per un piccolo particolare. Il pittore ogni giorno

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vedeva Maria con occhi diversi, gli sembrava sempre più bella. Maria pareva non accorgersene ma anche lei dopo poco tempo capì di essere attratta dal pittore.

Dopo alcune settimane, il pittore decise di spendere i suoi ultimi risparmi e comprare un regalo degno per dichiararsi a Maria. Quando, il giorno seguente, esse vide la collana e gli orecchini di perla, fu felicissima, ma entrambi sapevano che, se avessero voluto stare insieme, avrebbero dovuto fare i conti con il marito della donna. Il pittore finalmente trovò la posa giusta e iniziò a dipingere Maria Elisabetta con i gioielli che le aveva regalato.

Nel quadro c’era solo lei, la sua amata, con i gioielli che lui le aveva donato per dichiararle il suo amore. Nel quadro si intravedevano anche la finestra e il tavolo dello studio che davano un tocco di mistero alla creazione del pittore.

Dopo tre mesi il quadro era quasi pronto, mancava solo da disegnare la cartina geografica sul muro, sarebbe stato il segno della loro fuga. Avevano iniziato a progettarla due mesi prima, per poter stare insieme senza subire le ire del marito di Maria Elisabetta. Il pittore quel giorno uscì di casa un po’ più tardi del solito per sbrigarele sue commissioni. Maria Elisabetta intanto, mentre percorreva la strada che la portavadal pittore, si sentiva strana, quasi osservata, le sembrava che qualcuno si stesse nascondendo nell’ombra e la seguisse.

Quando arrivò, bussò alla porta della casa del pittore, le aprì la nuova serva che la fece accomodare e le disse che il pittore era ancora fuori per svolgere delle commissioni. Il marito, che l’aveva seguita per tutto il tragitto, era entrato di soppiatto dalla finestra e al sentire quelle parole, si fece avanti intimando a Maria di mostrargli il quadro. Lei decise così di portarlo nell’atelier. Quando furono là, il marito vide il quadro e iniziò ad urlare contro Maria Elisabetta.

Dopo poco, il pittore, tornato a casa pensando di essere in ritardo, entrò nell’atelier e non trovò la donna, trovò solo un piccolo alone sul pavimento e qualche goccia di rosso ramato. Doveva essere stata la serva, che mentre puliva aveva versato un po’ di colore.Quel giorno Maria Elisabetta non arrivò.

Gaia Lodi

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La osservavo sempre, amavo guardarla e avrei potuto passare giornate intere a scrutare i suoi movimenti senza mai stancarmi. Quello che più mi affascinava di lei erano senza alcun dubbio i suoi occhi, così piccoli e delicati ma in grado di far trasparirela forza incredibile di quella donna, che ne aveva passate tante e nonostante questo la vita aveva deciso che per lei non era ancora giunto il momento di essere felice e di lasciarsi alle spalle il passato. Aveva sempre vissuto in un mondo che non le apparteneva e fin da giovane aveva cercato di ribellarsi, ma la vera sofferenza per lei arrivò quando si rese conto che i suoi genitori erano più interessati a difendere il buon nome della famiglia che alla sua felicità. A soli sedici anni era stata rinchiusa in una torre, anche se purtroppo il principe azzurro a salvarla non arrivò mai. Dopo alcuni anni i genitori morirono a causa di una grave pestilenza a cui lei scampò miracolosamente, eper quanto possa essere crudele tale affermazione, Maria Elisabetta ne fu sollevata. A ventidue anni acquistò una reggia ed iniziò a cercare servitù, così la conobbi e mio malgrado, me ne innamorai. Ormai sono passati dieci anni, ma ricordo ancora come fosse ieri il nostro primo incontro, non riuscii mai a spiegarmi cosa di un semplice domestico come me catturò così violentemente la sua attenzione, ma di questo sono certo, ricambiava i miei sentimenti come mai nessuno prima d’ora. Purtroppo, a differenza di ciò che pensavamo ingenuamente, l’amore ha una classe sociale e non permette a nessuno di violarla. L’amore più forte e vero che avessimo mai provato era finito per colpa di una stupida classe sociale e non pensavamo di poter ricevere notizia peggiore, ma mi sbagliavo: Maria Elisabetta si sarebbe presto sposata con un principe verso il quale non provava alcun sentimento. Un marito che a distanza di dieci anni non esisteva già più, forse uno dei tanti misteri celati dietro la dama. Non che a me dispiacesse di questa perdita, Maria Elisabetta dopo il lutto aveva riallacciato i rapporti con me, non avevo mai smesso di lavorare per lei ma dopo il suo matrimonio si era creato il gelo tra di noi, e finalmente ora avevo la possibilità di recuperare tutto il tempo perso. Negli ultimi giorni passava gran parte del suo tempo nello sgabuzzino a cucire furtivamente dei merletti. Aveva sempre avuto la passione per il cucito, ma ero convinto che ci fosse di più, non aveva motivo di nascondere le sue creazioni in una cassapancachiusa da un lucchetto, o probabilmente un motivo lo aveva. Questo diventava uno dei tanti enigmi che andava ad aggiungersi ad una lunga lista. Ma stavolta ne ero più sicuroche mai, non mi sarei lasciato sopraffare dal suo carattere impetuoso e sarei riuscito a scoprire, almeno in parte, cosa mi nascondeva quella donna. Non ero di certo la persona adatta per parlare di sincerità, era una delle tante cose che mi accomunava a Maria Elisabetta, ci eravamo conosciuti nella menzogna e avevamo costruito il nostro rapporto su bugie che speravamo non sarebbero mai emerse. Nonostante questo il nostro amore era vero e andava oltre tutte le sporche verità mancate. Dopo diverse settimane passate a meditare su cosa potesse turbare Maria Elisabetta e a scrutarla, cercando di non essere notato, decisi che era giunto il momento di parlarle; ero

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convinto che si fosse accorta della mia furtiva presenza da tempo, ma essere osservatala faceva sentire importante come mai per nessuno lo era stata, nessuno a parte me. Entrai nella stanza buia e la trovai intenta nella decorazione dei suoi merletti, cercai di scordarmi per un attimo delle sue stranezze e mi sedetti dolcemente su uno sgabello al suo fianco. Le chiesi cosa la tormentasse, la sua risposta fu "niente". Scoprii che il niente di cui parlava era un enorme problema, una valanga che se non fosse stata fermata in tempo avrebbe travolto non solo lei, ma anche me. Eravamo stati scoperti, il nostro enorme segreto lo sarebbe rimasto ancora per poco e tutto questo a causa di Don Lucio, una persona tanto crudele quanto falsa che aveva deciso di ricattarci. In caso non fossimo riusciti a soddisfare la sua richiesta, l’intero mondo sarebbe venuto a conoscenza di una scandalosa verità: la nobile Maria Elisabetta aveva messo al mondo una bambina con il suo maggiordomo, per lo più durante il matrimonio con il suo poverovedovo. Non avremmo dovuto dare spiegazioni solo dell’accaduto, ma anche della scomparsa di questa fanciulla, che era morta a causa di una feroce epidemia.

Decidemmo così di incontrare Don Lucio; era una mattina d’inverno ed un timido sole splendeva nel cielo, ci dirigemmo verso la chiesa e appena giunti lo trovammo, ci invitò a sederci, iniziando il suo crudele discorso. Era venuto a conoscenza di tutto questo grazie all’archivio comunale delle morti premature, quando Francesca venne a mancareaveva solo sei anni, era stata con mia madre nella nostra umile dimora fino alla sua morte, motivo per cui nessuno si accorse della sua esistenza. Maria Elisabetta era statauna madre perfetta, nonostante l’avesse dovuto fare in incognita, purtroppo la sua morte ci aveva recato tanto dolore che avevamo dovuto nascondere in noi, senza mai lasciar trasparire nulla. Dopo un discorso di alcuni minuti, arrivammo ad una conclusione: avremmo dovuto fabbricare merletti per l’intero convento, che Don Lucio non poteva più permettersi. Riuscimmo ad accontentarlo e a proteggere il nostro grandesegreto, ma mi resi conto che avevo passato fin troppi guai a causa di Maria Elisabetta, dovevo cambiare vita e potevo farlo solamente dimenticandomi di lei. La amavo con tutto il cuore, ma preferii la mia vita alla sua e la abbandonai miseramente. L’avevo ingenuamente lasciata come tutte le altre persone per le quali fino a poco prima provavo ribrezzo. Venni a sapere che in seguito si era trasferita in una meravigliosa villasul mare, dopodiché non mi giunsero più sue notizie, “spero tu sia felice, te lo meriti veramente” erano state le ultime parole che le avevo rivolto prima di lasciarla, e le pensavo davvero. Quella donna non meritava altro che serenità e comprensione che non aveva mai avuto.

Alice Penzo

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Maria Elisabetta non amava restare da sola. Non ne poteva più di Vienna, una città così piena di ricordi che le procuravano dolore, perciò si era trasferita da qualche anno in una tenuta sulla riva dell’oceano.

Leggeva libri sacri, quelli che la madre aveva letto da giovane con le sorelle, riposava, talvolta perdeva ore ad osservare le onde e la schiuma del mare, quella bianca schiuma che arrivava fino alla spiaggia, accarezzando la sabbia. Quelle belle giornate d’infanzia però Maria le aveva dimenticate insieme a tutti i gioiosi ricordi della giovinezza. Adesso era tutto diverso e l’aria portava con sè malinconia e rassegnazione. In inverno le giornate erano lunghe, interminabili, gli orologi sembravano dormire e le lancette pietrificate scandivano con triste lentezza i secondi: un giorno durava un anno e quel maledetto anno sarebbe durato una vita. La sua non era stata proprio una vita felice, e forse non la sarebbe mai stata. Era ancora intrappolata in quella realtà scomoda, falsa e ingombrante, a dover sorridere anche quando il cuore piangeva, ad accrescere dentro di sè i sensi di colpa e il rimpianto di non aver vissuto a pieno le gioie e le opportunità che quella stessa vita le aveva offerto, i momenti del passato le tornavano in mente spesso, troppo spesso.

Quel mattino era più abbattuta che mai, anche le galline del pollaio erano più taciturnedel solito e il gallo al mattino non cantò. Il sole, proprio quel sole pallido e malato, si nascose dietro la fitta cortina di nubi, scomparendo. Non c’era nemmeno lui ora a tenere compagnia alla donna, in quella casa fredda e smisuratamente grande per lei. Lepareti grigie e scure contrastavano le brillanti e lussuose cornici dorate che incorniciavano i quadri di Ludovico. Eh, si, a lui ci pensava ogni mattina quando, al risveglio, osservava quella splendida tela in cui si rivedeva da giovane, testarda e viziata, mentre provava i meravigliosi gioielli che ancora dopo tanti anni conservava nel cofanetto ornato con una sottile filigrana d’oro. Il tempo era passato e il rimpianto dei momenti sprecati, dei misfatti compiuti e degli orrori commessi la portava al pensiero di una vita da concludere con un nulla di fatto e ciò non le dava pace..Sentiva il gocciolio della pioggia penetrare dal tetto e cadere rimbombando nelle catinelle appoggiate sul pavimento del solaio. Teodoro se n’era andato e nessuno più sarebbe salito sul tetto per trovare l’origine di quelle infiltrazioni, non di certo lei. Anche se sola non aveva perduto la sua classe ed eleganza, in fondo, pur essendo sempre stata una ribelle, era stata allevata da una famiglia nobile ed abituata ad un ambiente sfarzoso… Dalla veranda vedeva le gocce cadere a terra, tuffarsi e perdersi nell’azzurro del mare. Avvertiva la brezza sfiorarle i ciuffi dei capelli, muovere il colletto del vestito e le tendine di pizzo ricamate dalla nonna che decoravano finemente le finestre della cucina.

Entrò in casa lasciando spalancata la porta. Entrò nella stanza della musica dove teneva i libri, la chitarra e il clarinetto. Afferrò la chitarra e strimpellò per un paio di minuti. Erano già passati alcuni giorni da quando aveva cominciato a comporre.

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Appoggiò con delicatezza la mano sinistra sulla chitarra della figlia Francesca. Cominciò a diffondersi tra le stanze della villa una dolce melodia. Era uno dei pochi momenti felici. Intonò i versi di un’allegra ninna nanna. Quella musichetta le suonava sempre nella testa, a volte la tormentava e a volte invece le ricordava la figlioletta persatristemente a causa di un’epidemia. A lei stava dedicando quella canzone e quelle parole poetiche. A lei aveva dato tutto e per lei aveva sempre fatto tutto. Quei pochi anni di vita di Francesca avevano assorbito completamente l’anima di Maria.

Era giunta la sera. Maria accese le candele e cucinò una gallina con alcuni aromi coltidall’orto dietro casa. Cenò bevendo vino e cantando quella melodia che sembrava ormai non avere più un inizio e una fine ma continuava a risuonare nelle stanze della villa. Stanca si distese sul letto e osservò il dipinto di Ludovico. Ripensò anche a Teodoro e a Francesca. Ripensò ad Ernest, il marito tanto più grande di lei che diede origine a tutti i suoi tormenti. Pensando e riflettendo si addormentò, con la stanza e i quadri che la fissavano.

Cominciò a sognare e viaggiò ritornando indietro nel tempo al giorno in cui il marito la picchiò a casa del pittore per quei meravigliosi dipinti. Fu l’istinto, un momento di rabbia,la voglia di indipendenza. Prese il cavalletto di un quadro e lo colpì. Lo vide cadere a terra. Era morto. L’aveva ucciso. Non pianse, finalmente non l’avrebbe più rivisto, era libera. Si stava rivedendo, ripercorreva i drammi e le disgrazie. Riuscì a coprire la situazione, dicendo ai genitori di Ernest che il figlio era tragicamente morto travolto da un calesse. Intanto Francesca cresceva. Altro dolore e bugie si stavano accumulando. Maria Elisabetta era scappata, non avrebbe più voluto vedere Ludovico. La vita a Vienna era caotica e Teodoro diveniva sempre più distaccato. Maria voleva che lui la smettesse di comportarsi come i membri della servitù. Era stato il suo servo, ma poi, si erano innamorati. Il sogno ripercorse anche i ricatti di Don Lucio, il viscido parroco approfittatore che obbligava Maria a cucire e a lavorare per non rivelare all’importante famiglia di Ernest che Francesca era in realtà figlia di Teodoro. Alla morte di Don Lucio i ricatti terminarono e vennero sostituiti dal senso di colpa di Maria che la spinse in una profonda depressione, culminata con la morte della figlioletta a causa di una malattia. Rivide il giorno in cui Teodoro la salutò e se ne andò per sempre nonostante lei lo amasse così tanto.

Si risvegliò di colpo tutta sudata e pianse a lungo. Non ricordava l’ultima volta in cui aveva pianto perché le donne forti non hanno il tempo per piangere. Quel terribile incubo aveva portato alla luce le intricate peripezie di una ragazzina cresciuta in modo diverso rispetto alle coetanee. Voleva solo essere lasciata in pace da quei pensieri, dal passato che la divorava lentamente. Voleva solo una vita diversa, una vita migliore.

Sara Campagnoli

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Edward Van Varten era ormai conosciuto, a Breda, per la sua fama di astronomo.

Egli, infatti, desiderava ardentemente scoprire i segreti dell’italiano Galileo Galilei, colui che era rimasto accecato dalla luce del sole. Il sole, esatto, la grande passione di Edward.Il suo sogno infatti era costruire una sonda abbastanza resistente da poter essere mandata su di esso, o almeno nelle vicinanze.Lui portava avanti questa passione perché voleva essere visto e ricordato per il suo contributo alla scienza. Il suo compagno di lavoro era il suo migliore amico, William, appartenente alla classe aristocratica, che si era guadagnato il suo posto grazie ad un’’impresa straordinaria: erastato il primo Olandese ad attraversare l’Oceano Pacifico. Egli era, come avrete già capito, un geografo. Edward aveva avuto un’ infanzia molto difficile, era cresciuto in Spagna, in un orfanotrofio, insieme ad altri dieci ragazzi, provenienti da Tibet, Australia, Israele, Italia e altri tra i più curiosi paesi al mondo.Da essi apprese nuove nozioni sulle differenti culture. All’età di sette anni fu adottato da una coppia americana e andò a vivere in Arizona. Lí in una sera estiva conobbe quelle che sarebbero diventate le sue ossessioni, le stelle.Quella sera faceva particolarmente caldo in casa, così decise di uscire. Stelle.. nella sua mente non vi era nient'altro.Astri, stelle, palle di differenti colori e dimensioni, per lui la definizione non aveva alcunaimportanza, d'altronde come Shakespeare ci ricorda : "Cosa c'é in un nome ? Ciò che chiamiamo rosa conserverebbe il suo profumo anche con un altro nome."Guardando quelle lievi luci il suo cuore palpitava a più non posso, da quella sera non fu più lo stesso. Una volta completati gli studi, si recò in Olanda per sapere di più sulla fama del geografo William Buston. Una volta incontratolo, ne rimase fortemente colpito al punto che si mise a studiare la geografia, dopo pochi mesi i due divennero inseparabili compagni di avventure, progettarono, infatti, un razzo capace di attraversare sia la galassia che l'Oceano. Lo chiamarono Helter-Skelter, ossia, scivolo.Ovviamente, questa invenzione portò loro una buona fama.Durante la presentazione ufficiale del razzo, Edward conobbe un’incantevole fanciulla, chiamanta Lidia Galilei, un’italiana, parente lontana del famoso astronomo italiano, tanto amato da Edward. Non poté fare a meno di chiederle informazioni sempre più dettagliate sul suo “ mentore “.Dopo pochi mesi di uscite, le chiese di sposarlo, all’esibizione della grande filarmonica Olandese.

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Lei, pur se colta di sorpresa, non esitò ad accettare.Le nozze furono stupende, William fece loro da testimone e in luna di miele andarono a Venezia, la città sull’acqua.Qui trascorsero più di tre settimane.Una volta tornati, Edward e William decisero di intraprendere un nuovo progetto, la sonda per il Sole.“Questo progetto sarà molto costoso da finanziare, dovremmo chiedere un prestito alla banca!” disse William. Edward annuì sorridente e si mise a riflettere sulle possibilità di riuscita e funzionamento della sonda.Se l’impresa fosse stata un fiasco, si sarebbero trovati con debiti molto pesanti, ma ciò non preoccupava Edward, egli pensava principalmente alle conseguenze della riuscita, a quanto denaro e fama avrebbero acquisito.Infatti, questa impresa sarebbe stata molto proficua per entrambi e li avrebbe proiettati nella classe più alta, dove avrebbero potuto aver un posto come geografi e astronomi del re. Questi e altri pensieri influenzavano la mente di Edward e William.Una volta progettato il razzo, avevano bisogno dei materiali giusti e resistenti al calore del Sole. Codesti erano quasi introvabili, e ciò costrinse loro ad intraprendere un lungo viaggio.Il materiale era una particolare pietra vulcanica chiamata Dunite, che si trovava solo in Nuova Zelanda. Decisero di partire il giorno stesso, portandosi dietro solo l’essenziale, con l’aereo di William.Impiegarono un giorno ad arrivare e furono subito confusi dal “ Jet lag “.Il Monte Tongariro, fortunatamente, non era lontano. Dopo una bella dormita si incamminarono verso il vulcano.Dopo poche centinaia di metri iniziarono a vedere i “blocchi” di Cunite, che venivano inondati ogni due minuti da lava incandescente.Edward decise di correre il rischio, si avventò su uno dei blocchi con un piccone e staccò una quantità sufficiente di roccia e, con grande fortuna, riuscì ad allontanarsi poco prima dell’arrivo dell’ondata di lava.Recuperata la pietra preziosa i due impavidi viaggiatori tornarono a casa pieni di orgoglio e il mattino seguente, senza perdere un attimo, iniziarono a costruire la sonda.L'impresa fu lunga e complessa, ma dopo quasi sei estenuanti mesi riuscirono a completare il progetto. Fissarono la data del lancio per la settimana seguente e si dedicarono a passare del tempo con la famiglia.Quella sera era tutto perfetto, Edward e sua moglie erano a casa di William, a sorseggiare un buon tè e a fumare un grosso sigaro cubano.

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La settimana passò molto velocemente, il clima familiare era piacevole. La mattina del lancio William e Edward erano emozionati, non riuscivano a credere di aver realizzato il loro più grande sogno.Quando Edward premette il tasto per la partenza, la folla cominciò lentamente ad esaltarsi. Sua moglie piangeva lacrime di gioia, fiera del suo amato marito, poiché era riuscito nel suo sogno più grande. William ed Edward si strinsero la mano davanti al razzo che si innalzava. Un uomo scattò una foto.

Matteo Battilani

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Sbatté con forza la porta alle proprie spalle e, con ancora nelle orecchie i suoni stonatidi quel dannato strumento, si avviò lungo il corridoio.La casa era deserta e tutto pareva immobile, imprigionato in uno statico silenzio.Cominciò a trascinare i piedi lungo il corridoio, senza sapere dove fermare lo sguardo.Negli ultimi giorni aveva cercato, disperatamente e con tutte le sue forze, di trovare in quella casa qualcosa che le portasse alla mente ricordi felici, qualcosa di cui avrebbe sentito la mancanza.Non aveva avuto successo. Tutto di quel posto la disgustava. Ogni ricordo che la legava a quelle mura le istillava, sempre più prepotente, il desiderio di scappare.I ritratti dei suoi antenati, appesi alle pareti, le incutevano un grande timore e i loro occhidalle tinte glaciali la inquietavano, al punto che ogni volta che vi passava davanti si costringeva ad abbassare il capo. Le pareti bianche come la neve, d’altro canto, non erano uno spettacolo migliore. Tutto quel candore la faceva sentire fuori posto, troppo piccola e troppo sporca per vivere tra tutta quella meraviglia. Il peggio, però, erano senza dubbio l’oro e l’argento che spuntavano in ogni angolo della casa, piazzati a forzaanche nei locali più umili. Erano ormai lontani i giorni in cui lei e sua sorella Angelique giocavano beate nelle stanze di quella enorme casa, fingendo di essere principesse nel loro personalissimo castello. I giorni in cui ancora la divertiva il suono che i tacchi delle scarpe producevano sul pavimento d’ebano, in cui lei e sua sorella erano un’unica entità, che mai niente le avrebbe separate.Erano i giorni in cui si sentiva amata ed importante.Rise di se stessa e della sua ingenuità, perché, di certo, importante lei non lo era affatto, men che meno in quella prigione d’avorio.Un suono ovattato, come di caduta, le arrivò leggero all’orecchio.Sorrise intimamente e voltò lo sguardo alle proprie spalle, per farlo cadere sulle chiazzevermiglie che interrompevano le rigide striature del legno.I suoi occhi seguirono la scia di petali rossi, fino a posarsi su quelli che, con grazia, stavano rotolando tra le pieghe della sua gonna, in una lenta caduta verso il suolo.Dal fondo della sua gola sorse una risata debole e meschina, che persino lei stentò a riconoscere.Si girò nuovamente verso la fine del corridoio e riprese a camminare.Aprì piano la porta della sua stanza e il vestito rosso rubino, piegato malamente nel baule aperto ai piedi del letto, attirò subito il suo sguardo.Sfiorò la seta vermiglia in una carezza leggera e scandagliò con gli occhi il resto della stanza. Quello era l’unico luogo della casa che parlasse realmente di lei, dal pettine in argento posato sul comò al suo libro preferito nascosto sotto al cuscino.Accarezzò con lo sguardo la struttura in legno di noce del letto a baldacchino, da cui

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pendevano, pesanti, le tende damascate. Mosse qualche passo e si affacciò alla finestra, che dava direttamente sulle vie di Delft.Sotto di lei, un gruppetto di cinque bambini giocava per strada, rincorrendosi tra il disappunto dei passanti. Tutto imbacuccato in un cappotto grigio fumo, un ometto occhialuto zoppicava appoggiato al suo bastone da passeggio.Ai margini del suo campo visivo, notò un puntino di luce sul muro alla sua destra.Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che, alle sue spalle, appesi ad un leggio mai utilizzato, pendevano sette pezzi di vetro colorato che proiettavano i raggi del sole morente in giro per la stanza. Si girò, infine, verso lo specchio a figura intera appeso alla parete. Fissò con disgusto la cornice dorata, incastonata di rubini, e sbuffò sonoramente. Certamente, di tutto quel ciarpame, quello era l’oggetto di cui avrebbe sentito meno lamancanza. Faticava a ricordare l’ultima volta in cui aveva sorriso di fronte alla propria immagine.Per un attimo, su quella fredda superficie, rivide la se stessa di qualche anno prima. La bambina dolce ed ingenua che non aveva un problema al mondo, se non quello di decidere cosa far indossare alle proprie bambole.Da ormai sei anni di quella bambina non v’era più traccia.Era stata spazzata via, all’improvviso, come un castello di sabbia durante l’alta marea.La vita le aveva scagliato contro un’onda anomala che l’aveva cambiata per sempre.

Dieci anni.Aveva soltanto dieci anni quando i primi buchi neri cominciarono ad insinuarsi nella sua mente.Era il giorno del suo compleanno e tutto sarebbe stato perfetto se non avesse notato, a metà della cena, le lacrime che rigavano il volto di suo padre.“Padre, perché piangete?” chiese con tono sommesso.Un silenzio tombale scese d’improvviso sulla tavolata, il respiro di sua sorella Stephanies’interruppe in un verso strozzato e la serva Caroline, sempre sorridente, si ritirò in cucina con un’espressione desolata dipinta sul volto.L’uomo le lanciò uno sguardo gelido e, con movimenti meccanici, si alzò da tavola.“Io vado nello studio, vi prego di non venire a disturbarmi” dichiarò con voce rotta.Mentre i passi del padre rimbombavano attraverso il corridoio, le ragazze rimasero immobili al loro posto.Lei continuò a muoversi inquieta sulla sedia per qualche minuto, mentre le sorelle terminavano la cena nel più completo silenzio.“Ho detto qualcosa di sbagliato?” non potè trattenersi dal chiedere.Stephanie posò stizzita la forchetta sul tavolo e Angelique le rivolse un’occhiata curiosa.La maggiore alzò lo sguardo su di lei, stampandosi in viso un sorriso tirato.“O Claire, non essere sciocca. Non hai fatto nulla di male. Nostro padre è solo molto

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stanco”Il suo tono era teso e le mani, che stringevano convulsamente le pieghe del vestito, rendevano chiaro alle altre due che stesse mentendo. Era la più grande, parlava spessocon loro padre, ma mai avrebbero pensato che quei due avessero dei segreti con loro.Perché la dolce, premurosa e tranquilla Stephanie era arrivata a fare qualcosa di cui non era minimamente capace, come mentire?Claire e Angelique si lanciarono uno sguardo d’intesa e, in assoluta sincronia, si alzarono da tavola, porgendo un saluto sbrigativo alla sorella e lasciandola sola in sala da pranzo.“Hai notato anche tu?” domandò la più piccola.L’altra annuì convinta e affrettò il passo, deviando il percorso di entrambe verso la biblioteca.Si chiusero alle spalle il portone in legno e si gettarono senza grazia sulle poltroncine rosse, nascoste in un angolino tra gli scaffali.“Erano tutti talmente strani. Non capisco cosa gli sia preso” mormorò Angelique, portandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio.Sulle sorelle scese il silenzio, interrotto soltanto dal ticchettare della pendola che si trovava alle loro spalle. Claire non staccava gli occhi castani dalle finestre, mentre la sorella dondolava i piedi oltre il bordo della poltrona, lanciandole ogni tanto qualche occhiata obliqua.Dopo svariati minuti la minore emise un lungo sospiro.“Angie?”“Sì?”“Credi … credi che papà piangesse per colpa mia?” chiese con un fil di voce.L’altra si voltò di scatto con un’espressione sorpresa.“No! Assolutamente no! Perché mai pensi questo?” domandò con un tono tra il preoccupato e lo sconvolto. La bambina tentennò, torcendosi le dita delle mani e tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. “Oggi, in fondo, è il mio compleanno, magari se è triste in questo giorno è colpa mia. E poi… si comportavano tutti in maniera così strana. Se la colpa non è mia, perché Stephanie ha dovuto mentirmi?”Ad ogni parola, la sua voce scendeva di tono, portandola a pronunciare le ultime lettere in un sussurro colmo di tristezza.La sorella si alzò di scatto e corse da lei, cingendole le spalle esili con le proprie braccia.Claire si strinse nel suo abbraccio e nascose il viso nell’incavo del suo collo, cercando di nascondere le lacrime che si era lasciata sfuggire.“Claire, basta adesso. Ti prego, smettila. Non è così, credimi! Anzi, se vuoi, vado a parlare con Stephanie, così ti dimostro che tu, con il malumore di nostro padre, non

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c’entri un bel niente” le sussurrò la bionda all’orecchio.Detto questo, imboccò a grandi passi l’uscita e sparì oltre la porta della biblioteca.Claire si passò una mano sul volto, asciugando le lacrime, e fece un profondo respiro. Gettò qualche occhiata impaziente alla porta e cominciò a battere nervosamente un piede per terra. Le era praticamente impossibile rimanere lì ferma ad aspettare, nessuno poteva pretendere questo da lei. Troppo ansiosa, o troppo curiosa, si alzò di scatto e seguì la sorella lungo il corridoio.Passò davanti ad una decina di stanze prima di trovarsi davanti alla porta chiusa della camera da letto di Stephanie. Accostò l’orecchio alla superficie di legno e sentì le voci delle sue sorelle che discutevano.

“Angelique, ho detto basta. Non mettere il naso dove non devi, tutto questo non ti riguarda.” Sbottò Stephanie con voce alterata.“Steph, insomma! Certo che mi riguarda, ci riguarda tutti, siamo una famiglia!” esclamò Angelique.“NO!” urlò la maggiore da dietro la porta.Il respiro di Claire si spezzò, infrangendosi contro la superficie lignea. La bambina fissò sconvolta il vuoto davanti a sè, incapace di formulare un pensiero concreto.“Cosa stai dicendo?” chiese in un tremolio la secondogenita.Ci fu un momento di pausa, come se Stephanie stesse raccogliendo dentro di sé la forza per rispondere.“Sorellina, non chiedermi di spiegarti. Sarebbe troppo doloroso, per entrambe. È meglio per te non sapere, fidati di me.”“MA COSA?! Cosa è meglio che io non sappia?!” fu lo strillo esasperato a cui seguì un forte tonfo.“ANGELIQUE! Abbassa la voce e non osare mai più utilizzare quel tono in questa casa!Sei una bambina intelligente, ma devi imparare a rispettare chi ti circonda, se non vuoi finire come nostra madre!”Il cuore di Claire mancò un colpo e le sue mani si strinsero a pungo. Mamma?“Cosa c’entra la mamma adesso?”Si sentì un forte sospiro, poi qualche attimo di silenzio. La tensione nell’aria era tale cheClaire, ne era certa, avrebbe potuto tagliarla con un coltello.“Siediti sorellina”“Non voglio sedermi, voglio una spiegazione!”“È MORTA DI PARTO, VA BENE?!” sbottò improvvisamente.Le gambe di Claire tremarono e lei temette di non riuscire a rimanere in piedi. Respirarele sembrava sempre più difficile e grossi goccioloni salati premevano da dietro le palpebre per uscire. Tentò di inghiottire il groppo che le si era formato in gola e ricacciò indietro le lacrime.

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“E se proprio vuoi saperla tutta, sono fermamente convinta che Nostro Signore le abbia dato la punizione che meritava!”Un verso strozzato, appena udibile da dietro quella porta che le stava celando la concitata discussione che la stava lacerando dentro.“Come puoi dire questo?” un singhiozzo sommesso, il tono della voce impregnato di lacrime trattenute a stento, lo sdegno contenuto nelle parole.Quella semplice domanda scosse Claire nel profondo.Da un angolino oscuro del suo animo qualcosa si mosse, in punta di piedi, appena percettibile, tanto discreto da passare inosservato. “Non guardarmi a quel modo, come se non sapessi più chi ti trovi davanti! Non sono io ilmostro, lei lo era! Ha distrutto la nostra famiglia, ha spezzato il cuore di nostro padre, haperfino osato portare il suo amante in casa nostra! ERA SOLTANTO UNA SGUALDRINA! Forse è meglio per te non averla mai conosciuta.”Queste parole risolute furono l’ultima cosa che Claire udì, prima che una fitta nebbia, sorta dal profondo di lei, la avvolgesse completamente.Buio. Le ore seguenti rimasero per sempre immerse nella più totale oscurità.In seguito Claire tentò più volte di ricordare cosa avesse fatto, visto, detto, ma aveva ottenuto soltanto una lunga lista di fallimenti. Quanto avrebbe desiderato sapere cos’eraaccaduto nella giornata che aveva distrutto la sua infanzia. Ma, in fin dei conti, forse non era nemmeno così importante capire. No, probabilmente, era qualcosa di irrilevante.Irrilevante davanti al fatto che Angelique non le aveva più rivolto la parola da quel momento. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare a quel pomeriggio, nella biblioteca, esentire nuovamente la sua vocina sottile che la avvolgeva con parole d’affetto.

I sei anni seguenti furono anni di assoluto inferno.Imprigionata nella propria casa, insieme ad una famiglia che, ormai lo sapeva, non la considerava altro che l’incarnazione di un tradimento bruciante.Si sentiva sempre più un peso e non riusciva a risolvere la questione.Un mese prima era arrivata la stoccata finale, il colpo di grazia.

Era chiusa in biblioteca, stanza che non abbandonava quasi mai, quando suo padre era entrato con incedere deciso e le si era parato davanti.“Ho concluso un accordo con il signor Lefevre.” Dichiarò con voce gelida.Claire alzò il naso dal libro che stringeva tra le mani e fissò la figura slanciata dell’uomo.I suoi occhi grigi splendevano di risolutezza e la bocca sottile era contratta in una smorfia scocciata.Si aspettava una risposta da lei?Una domanda?

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Una qualsiasi forma di interesse?Sarebbe rimasto deluso.Fece un vago cenno di assenso e si rigettò a capofitto tra le pagine ingiallite dal tempo.Il respiro dell’uomo si fece più pesante e rumoroso, in un’evidente pretesa d’attenzione.Claire trattenne a fatica un sorriso di soddisfazione per cui, lo sapeva, avrebbe pagato un caro prezzo.“Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi. Ho già firmato i documenti per farti diventare sua moglie.”Un tonfo sordo riempì l’aria e la ragazza guardò inorridita il tomo, che pochi istanti primastringeva fra le mani, giacere a terra aperto malamente.Alzò lo sguardo sull’uomo, ma si trovò a fissare il vuoto, mentre nelle orecchie le rimbombavano i passi pesanti che lo stavano conducendo lontano da lei.Ho concluso un accordo con il signor Lefevre.Il respiro le si fece sempre più affannoso e un nodo le strinse la gola.Raccolse timidamente il romanzo da terra, per riporlo con cura sullo scaffale lì accanto.Allungò una mano verso il bracciolo della poltrona, in cerca di un appoggio.Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi.Le gambe le tremavano e non era più sicura di riuscire a reggersi in piedi.In quale momento la stanza aveva cominciato a girare?Ho già firmato i documenti per farti diventare sua moglie.E poi il nulla.

Di quei giorni ricordava la rabbia.Ricordava le lacrime e le urla soffocate nel cuscino , come ogni notte da sei anni a quella parte, che si facevano sempre più forti, più disperate, quanto più i suoi incubi si facevano crudeli.Ricordava lo scricchiolio delle proprie nocche contro il muro e il dolore che le aveva preso la mano.Ricordava più di tutto il silenzio, che regnava ogni giorno con più fermezza sulla casa, el’oscurità, che la avvolgeva sempre più spesso.Tuttavia erano tante, troppe, le cose che proprio non riusciva a ricordare.Non ricordava il momento in cui aveva buttato a terra tutti i libri dallo scaffale, né quando aveva tirato giù le tende del proprio letto a baldacchino e neppure il momento incui aveva assaltato la casa delle bambole di quando era bambina.Sapeva soltanto che, tornata in se stessa, aveva trovato il pavimento della propria camera cosparso di corpi di pezza con arti mancanti e manine di porcellana mezze distrutte. I piccoli visi, di un bianco innaturale, la osservavano, con le loro crepe sulle guance e i loro nasi spuntati.Accidenti, guarda cos’hai combinato.Un moto di terrore l’invase nel profondo. Si portò le mani sulle orecchie, in un inutile

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tentativo di scacciare quella voce tagliente, che conosceva fin troppo bene, dalla propriatesta.Perché provi ancora a liberarti di me? Sai bene che non ci riuscirai.Basta, ti prego!Ma guardati! Sei patetica! Supplichi te stessa di lasciarti in pace. Per quanto ancora pensi di riuscire a scappare dalla verità? Loro ti detestano, tutti quanti, non hai visto com’era contento nostro padre mentre ti diceva che si sarebbe liberato di te?“Smettila! Sono stanca di sentirtelo ripetere! Tu non sai niente, niente di niente!” urlò con tutto il fiato che aveva in golaUna furia cieca la invase e, senza nemmeno avere il tempo di realizzare cosa stesse facendo, le sue mani artigliarono la struttura del letto.Graffiò, con forza, finché non vide dei solchi interrompere le nervature del legno, finché non sentì le proprie unghie spezzarsi, grosse schegge entrarle nella carne e il sangue che le imbrattava i polpastrelli.Pensi davvero che questa sia la soluzione?La schernì la voce.Cosa speri di ottenere, dimmi? O, meglio ancora, ammettilo a te stessa. Cos’é che vuoi? Punirti?Perché mai dovrei? Non è stata colpa mia, non sono io la responsabile!Di cosa, Claire? Di cosa vuoi convincerti di non essere la causa? Dillo!IO NON HO UCCISO NOSTRA MADRE!Un altro graffio contro al letto.Dolore, intenso e pulsante. Le mani cominciarono a tremarleNo, magari no. Ma di sicuro hai distrutto una famiglia.Il tono di voce si faceva sempre più sibilante e Claire non desiderava altro che spegnereognuno dei suoi sensi.Voleva che i lividi sulle nocche smettessero di dolerle, che le mani smettessero di tremare, gli occhi di piangere…Voleva pace, voleva l’amore della sua famiglia, voleva la felicità che le era stata strappata.Ma insomma Claire, non lo sai? Non c’è gioia per chi procura l’infelicità altrui.Le ginocchia cedettero.E poi, per l’ennesima volta, il Buio.

Aveva aperto gli occhi, senza avere la minima idea di quanto tempo fosse passato.Poteva essere rimasta nell’oblio solo per pochi minuti.O per svariate oreEra in piedi al centro della propria stanza. Abbassò lo sguardo, ma il pavimento era sgombro e delle bambole distrutte non v’era più traccia.

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Fissò la parete lucida dello specchio davanti a sé e ne accarezzò delicatamente la cornice, decorata con intarsi dorati.Fece scorrere le dita sui piccoli rubini incastonati nel metallo, che riflettevano i raggi del sole, creando punti di luce rossastri in giro per la stanza.Passò lentamente lo sguardo su tutta quella manifestazione di superbia e ricchezza, cercando di ritardare il più possibile lo scontro con la sua immagine riflessa.Il suo cuore ebbe un leggero sussulto quando, nell’estremità più bassa dello specchio, vide chiara l’immagine di un morbido panneggio di seta rossa. La sua mano corse automaticamente all’ampia gonna che le stringeva la vita e, sotto i polpastrelli, percepì chiaramente la consistenza della stoffa pregiata.Mentre passava le dita tra le pieghe della gonna, il panneggio rosso nello specchio si mosse, quasi fosse animato di vita propria.Osò alzare timidamente lo sguardo verso l’immagine riflessa e quello che vide la sconcertò al punto da farla indietreggiare di un passo.La ragazza riflessa nello specchio indossava un ampio vestito di un rosso acceso. La seta le fasciava il corpo minuto, per poi cadere un una cascata di morbide pieghe lunga fino al pavimento.Quando aveva indossato quell’abito?Non riusciva proprio a ricordare.La consapevolezza dell’aver perso il controllo di sé per l’ennesima volta si fece spazio in lei, mentre un profondo senso di vergogna le stringeva lo stomaco. Fece scorrere lo sguardo sulla propria figura riflessa, inorridendo alla vista delle mani.Il sangue incrostato bordava le unghie spezzate, le nocche livide si erano gonfiate e le dita avevano, ormai, un’angolazione strana.La sua linea di pensieri venne interrotta da un deciso bussare sulla porta alle sue spalle.“Claire, la carrozza è giù che ci aspetta. Non farmi fare tardi, mastro Vermeer è mio amico e non ho certo intenzione di fargli perdere tempo. Sbrigati.” la esortò la voce di suo padre.Giusto, l’incontro col pittore.Quando suo padre le aveva annunciato che il suo futuro marito desiderava avere un suo ritratto le era mancato il fiato.Ogni giorno l’idea del matrimonio combinato la opprimeva di più e le sue gambe fremevano dalla voglia di correre via. Scappare lontano, dalla famiglia che la odiava, dalle mura di quella casa che le sembravano sempre più strette, da tutto.Costrinse i propri piedi a seguire il padre lungo il corridoio, fuori dal portone di casa, fin sulla carrozza. Come era solita fare in presenza dell’uomo, o di qualsiasi altra persona, si stampò in faccia una gelido sorriso d’educazione, nascondendo l’orrore che la lacerava da dentro. Qualcosa dentro di lei stava urlando e si dovette mordere forte la guancia per trattenerlo.

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Scese con movimenti meccanici dalla carrozza, seguendo suo padre in casa del rinomato pittore. Si scambiarono inutili convenevoli, come era giusto fare, e poi si diressero nello studio. Quando varcarono la porta dell’atelier, Claire si trattenne a stentodallo storcere il naso. Una spinetta, molto simile a quella che aveva a casa, occupava una buona parte della stanza.Rivolse uno sguardo interrogativo e di vago rimprovero all’artista che le sorrideva amichevolmente.“Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni.”Sorvolò tranquillamente sull’affermazione di suo padre e sul fatto che lei non sapesse suonare e si posizionò dove il pittore le indicava. Rimase immobile al suo posto, il viso rivolto verso mastro Vermeer, ma con gli occhi persi nel vuoto. Quelle ore le scorsero addosso come acqua, senza realmente toccarla.Che grande errore avevano commesso i due uomini, permettendole di rimanere sola coisuoi pensieri!Aveva riflettuto, valutato le ipotesi e finalmente si era decisa.Quel ritratto sarebbe stato totalmente inutile.Non si sarebbe celebrato nessun matrimonio.

Era stata decisamente fortunata quel giorno: suo padre sarebbe rimasto fuori tutta la giornata per lavoro e Angelique era andata al mercato.Non avrebbe più avuto un’occasione del genere.Si alzò dal letto, lentamente, senza fretta e si avvicinò a quel vecchio leggio abbandonato, da cui pendevano, indolenti, sette pezzi di vetro di colori diversi.Due gialli, tre blu,uno rosso e uno solo trasparente.Ricordava ancora quando, da bambine, lei e Angelique avevano creato quella piccola opera d’arte tutta per loro e la voce di Stephanie che le rimproverava.Allungò la mano tremante e staccò quello trasparente dal filo che lo teneva sospeso.Se lo rigirò fra le dita, valutandone la forma, tracciandone il contorno coi polpastrelli.Fece un profondo respiro e, chiudendo a fatica la mano dolorante, impugnò quel piccolopentagono incolore.Lo portò al polso, chiuse gli occhi e premette forte.Un forte bruciore accompagnò il lacerarsi della pelle, mentre il sangue cominciava ad affiorare. Claire si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: ogni millimetro di epidermide che recideva veniva liberato dalla tensione di cui, prima, non si rendeva nemmeno conto.Spingi di più! L’ordine arrivò dal profondo della sua mente e, immediatamente, le sue dita aumentarono la pressione. Il dolore si fece più intenso e lei si sentì solo più sicura.Ripeté l’operazione sull’altro polso e riappese il vetrino al leggio, come se niente fosse. Vedeva il proprio sangue sporcare la punta e colare verso il basso.

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Un’idea le balenò improvvisa in mente e si diresse spedita verso la sala da musica.Varcò la porta e la lasciò sbattere alle sue spalle, puntando lo sguardo sulla spinetta che troneggiava nel centro della stanza.Si avvicinò e alzò le mani insanguinate.Sentiva la sostanza calda che colava lentamente lungo le sue dita, imbrattando lei e la sua camicia da notte. Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente, mentre la rabbia cominciava a riaffiorare.Premette con forza le dita sui tasti e sorrise nel vederli tingersi di rosso.Ogni suono che quell’arnese emetteva accresceva in lei la rabbia e faceva aumentare la velocità delle sue mani.Così com’era iniziata, la sua ira cessò di colpo e lei lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi.Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni.Addio Vincent. Tu e la tua musica potete anche andare all’inferno.Beh, dopo di me, ovviamente.Gli angoli della sua bocca si tesero in un sorriso inquietante e dalla gola le sorse una risata folle.Si avvicinò il polso destro al viso e puntò gli occhi sul taglio orizzontale che lo attraversava. Il sangue che fuoriusciva lento si espandeva tutt’intorno, formando una corolla vermiglia che cresceva. Riconobbe i bordi frastagliati dei petali che si espandevano. Un garofano fiorì dalla ferita e, nel giro di pochi istanti, rotolò giù, fino alla punta delle sue dita, dove rimase sospeso, prima di cadere a terra.Si voltò e uscì dalla stanza.

Sbatté le palpebre, riaprendo gli occhi sul presente.La testa cominciava a farsi leggera e lei si sentiva sempre più stanca. Guardò il pavimento e vide il parquet impregnato del suo sangue.Ci sei quasi Claire, un ultimo sforzo.Si voltò e alle proprie spalle lo vide.Un macabro sentiero rosso attraversava tutta la casa.La luce che entrava dalla finestra si fece d’un tratto accecante e lei dovette portare una mano a coprire gli occhi. Tutti i colori della stanza si fusero in un bianco abbagliante. Era già arrivata? Era questa la Morte?Ai suoi piedi le macchie vermiglie fiorirono, una ad una, trasformandosi in splendidi garofani.All’improvviso non era più nella propria stanza, ma in piedi in mezzo ad un enorme prato e davanti a lei si stendeva una via di fiori rossi come il tramonto che toccava l’orizzonte.

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In fondo a quella bizzarra via, vide comparire tre figure, avvolte da un’aura buia.La sua famiglia.Angelique, i suoi sorrisi di bambina, i suoi anni di silenzio, il suo odio per lei.Suo padre, la sua voce gelida, le sue occhiate di fuoco, il suo odio per lei.Stephanie, la sua apprensione per la famiglia, il suo disprezzo per la madre, il suo odio per lei.Non gli mancherai Claire, a nessuno di loro.Un sospiro.Un masso le si era depositato sul petto e le sue mani tremavano incontrollate.Lascia andare, è il momento.Si piegò sulle ginocchia e colse un fiore, lo portò al viso e un odore ferroso le invase le narici. Lo strinse forte nel pugno, mentre questo le si liquefaceva tra le dita.Si stese sulla schiena e i suoi capelli rosso rame si mischiarono ai garofani vermigli.Sorrise e, con un sospiro, si lasciò avvolgere per l’ultima volta dal Buio.

Giulia Sbardellati

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Ero sempre stata affascinata da quella spinetta.

La vidi per la prima volta quando avevo cinque anni e mio padre ne portò a casa una. Io volevo imparare a suonarla, ma lui disse che ero troppo piccola e che, una volta cresciuta mi avrebbe insegnato. Passai ore ed ore della mia infanzia seduta ad ascoltare mio padre che suonava: era veramente bravo. All’età di undici anni lo vidi arrivare a casa con una viola da gamba. Disse che avrei potuto imparare a suonarla, ma quello strumento non mi attirava minimamente, allora mi concentrai ad imparare a suonare la spinetta. Come regalo per il mio tredicesimo compleanno me ne comprò una e iniziammo a suonare insieme. Quando ormai a quindici anni avevo imparato tutte le basi dello strumento espresse il desiderio di portarmi con sé a suonare ad un suo concerto; purtroppo avvenne un tragico evento. Ricordo ancora la scena: era una fredda notte di novembre e tutti dormivamo quando mio padre venne svegliato da alcuni strani rumori. Scese nel salone a controllare e lì sorprese un ladro. Questi per nulla intimorito iniziò a colpirlo, ma quando vide che mio padre reagiva prese il primo oggetto appuntito che trovò e lo ferì violentemente alla testa. Cadde a terra con un lamento. Io, che ne frattempo mi ero svegliata ed ero scesa al piano terra, avevo assistito alla scena nascosta dietro alla porta. Scappai di corsa nella mia camera e finsi di dormire. Quando il ladro si accorse che mio padre era morto scappò a mani vuote. Non toccai la spinetta per anni, mi ricordava mio padre e ancora non sopportavo che non fosse più con me. Dopo una paio d'anni dal tragico incidente si presentò un uomo, diceva di chiamarsi Van Halen. Anch'egli, come mio padre, era un noto poli strumentista dell'epoca e si offrì di insegnarmi quello che ancora non avevo imparato. Tuttavia non me la sentivo di riprendere la spinetta che era stata di mio papà, così gli chiesi di darmi lezione a casa sua a suonare, in modo da non utilizzare la spinetta di casa. Lui capì e accettò e da quel giorno mi recai a casa sua una volta a settimana. Un giorno gli chiesi come aveva conosciuto mio padre, mi rispose:“L’ho conosciuto quando eravamo ancora dei ragazzi, studiavamo insieme al conservatorio” Da quel giorno iniziai a fare sempre più domande riguardo il passato di mio padre finoad arrivare a parlarne normalmente; con il tempo il dolore per la sua perdita si stava attenuando.

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Mi disse che mio padre aveva molto talento e che lui lo aveva sempre invidiato per questo. Parlavamo sempre di lui, spesso mi raccontava sempre degli anni passati al conservatorio e del loro maestro: diceva che era il migliore e che gli insegnava loro brani composti da lui stesso. Nel frattempo io miglioravo con la spinetta, era davvero un bravo insegnate. Mi dicevasempre che avevo lo stesso talento di mio padre, ma ogni tanto potevo percepire un po’di invidia nelle sue parole. Un giorno decisi che ero pronta per il grande passo: chiesi a Van Halen di tornare a casa mia a fare lezione. Lui accettò subito. Da quel giorno io usai sempre la spinetta di mio padre, ma con il tempo notai che lui la fissava sempre, quasi come se dovesse cercare qualcosa al suo interno. Iniziai a insospettirmi. Gli chiesi sempre più spesso di parlarmi del loro passato e quando notavo l’invidia affiorare, cercavo di approfondire. Iniziai anche a chiedere a mia madre di parlarmi di luie di mio padre, lei era a conoscenza di molti fatti del loro passato e mi raccontò che da giovani erano rivali, a volte litigavano anche pesantemente e spesso la causa era il loro maestro che preferiva mio padre a lui. Un giorno Van Halen mi raccontò che il loro insegnante, durante una delle ultime lezioni disse ai due che aveva composto un nuovo brano, il migliore che avesse mai scritto e che gli sarebbe piaciuto che uno dei due lo interpretasse, ma solo dopo la morte del maestro. Così lo fece suonare a entrambi e, dopo le rispettive esecuzioni, decise che lo avrebbe interpretato mio padre. Notai che in quel momento disse il nome di mio padre in modo quasi dispregiativo.

Nonostante ciò feci finta di niente e gli chiesi di parlarmi di quel brano; disse che avendolo suonato una sola volta non lo ricordava, ma che mio padre aveva gli spartiti e mi chiese se sapevo dove si trovavano.

I sospetti crescevano, lo sguardo con cui guardava quella spinetta e il tono di voce dispregiativo che assumeva quando nominava mio padre mi feriva. Ma chi avrei potuto chiedere aiuto? Chi avrebbe ascoltato una ragazza.

Sentii un giorno parlare di un pittore e scoprii che anche lui era stato un caro amico di mio padre: Jan Vermeer, famoso in tutta Europa. Chiesi a mia madre come potevo contattarlo, lei mi disse che non viveva lontano da noi, così andai a cercarlo a casa sua e gli chiesi aiuto. Conosceva anche Van Halen e confermò quanto mi aveva detto mia madre e aggiunse anche che il mio maestro non era mai stato neanche lontanamente paragonabile a mio padre e che quel brano di cui mi aveva parlato avrebbe garantito uningaggio presso qualche nobile.

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Lui fu il primo a cui confessai i miei sospetti: credevo fosse stato Van Halen ad uccidere mio padre e Vermeer si offrì di aiutarmi ad indagare. Lui sarebbe stato ascoltato da qualcuno a differenza mia che ero solo una ragazzina. Ora dovevamo trovare il modo di incastrarlo. Ci pensammo per giorni fino a quando alpittore venne l’idea perfetta: io dovevo imparare il brano composto dal maestro di mio padre e suonarlo fingendo di aver trovato gli spartiti per caso, lui avrebbe sicuramente tentato di uccidere anche me se la causa dell’omicidio fosse stato proprio quel brano. Lui si sarebbe nascosto e al momento opportuno lo avrebbe preso. Era rischioso, ma accettai. Imparai il brano come voleva Vermeer e la settimana seguente lo suonai per Van Halen. A quel punto lui, riconoscendo il brano provò a prendere gli spartiti, ma io glielo impedii. Mi chiese perché non volevo che guardasse la composizione e gli risposi che mio padre era molto geloso di quel brano e non voleva che qualcuno lo vedesse. A quelpunto il mio insegnante non si trattenne, prese lo stesso oggetto con cui l’avevo visto uccidere mio padre, ma a quel punto Vermeer uscì allo scoperto e lo colpì alle spalle facendolo svenire. L'assassino venne portato davanti a un giudice, dove confessò tutto e venne condannato. Conoscere chi aveva ucciso mio padre di certo non lo riportò in vita, ma mi tranquillizzò il fatto di sapere che era stata fatta giustizia e l’assassino era stato condannato. Questo quadro è stato realizzato da Vermeer per ricordare mio padre attraverso i suoistrumenti, la viola da gamba e la spinetta, alla quale siedo per iniziare a suonare.

Fabio Carnevali

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10 – Il mistero della spinetta

Johannes Vermeer - Lezione di musica

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Amanda fin da piccola, come tutte le giovani di buona famiglia, venne avviata allo studio della musica in particolare della spinetta; al compimento del 15° anno divenne una ragazza molto affascinante e curiosa di ciò che la vita poteva offrire. Tra i vari studi e interessi che intraprese le fu consigliato di approfondire in particolare quelli musicali. Per la famiglia agiata di Amanda non fu un problema trovarle un degno insegnante. Fu così che si rivolse al maestro Jan Vignarellì celebre maestro poli-strumentista. Era il giorno della prima lezione, e la ragazza assieme al padre si recò presso la lussuosa abitazione del maestro. Mentre s’incamminavano, s’imbatterono in un bizzarro personaggio con un pennello e una tavolozza in mano, avvolto in un mantello nero. Costui si trovava già di fronte all’abitazione di Jan Vagnarellì. Amanda si chiedeva cosapotesse farci un uomo così, vicino alla lussureggiante abitazione del maestro; probabilmente era un noto pittore considerando il luogo in cui si trovava. Amanda e il padre si fermarono davanti al grande portone dell’ingresso del palazzo in cui abitava Jan Vagnarellì. Si addentrarono nell’atrio nel quale si trovavano tre porte e su indicazione del misterioso pittore che nel frattempo si era avvicinato, andarono in quellasul fondo del grande atrio. Entrarono e qui furono accolti dal famoso maestro. Dopo la presentazione e alcune frasi di convenienza il maestro congedò il padre, anche Amanda salutò il proprio famigliare accordandosi per l’ora del ritorno a casa. Sola con il maestro Vagnarrellì fu invitata nello studio adiacente alla sala. Entrò e rimase incantata, esplorò con lo sguardo quello che le parve subito una splendida stanza da musica. Si accorse della grande luminosità che entrava dalla doppia finestra, tipicamente Olandese che faceva esaltare il pavimento a scacchiera bianco e nero e che creava una particolare prospettiva nella stanza. Girò attorno all’enorme tavolo coperto da tessuto drappeggiato con al centro un vassoio e una brocca bianca. Amandaproseguì verso la spinetta che aveva a fianco una viola da gamba. Il maestro invitò Amanda a provare la tastiera, quest intimidita si avvicinò e vedendosi riflessa nello specchio posto sopra la spinetta, cominciò a suonare timidamente. Jan Vagnarellì capendo l’imbarazzo della ragazza la interruppe e le chiese: “vuole accompagnarmi mentre io canto così potrò meglio comprendere la bellezza di questo strumento?” Fu mentre diceva queste parole che si accorse che tra i vari decori dello strumento compariva una scritta: musica letitiae(me) s medicina dolor (um), la musica è compagnadi gioia e balsamo per il dolore. Cominciarono a suonare e cantare. Durante l’esecuzione ci fu un attimo di distrazionee Amanda alzò lo sguardo sopra la spinetta e si accorse che c’era il grande specchio che rifletteva l’immagine del pittore incontrato in precedenza. Si girò verso il maestro e si accorse della strana e particolare somiglianza che aveva con il pittore. Si voltò, il pittore non c’era, ma la sua immagine era ancora riflessa nello specchio. Fu presa da un attimo di smarrimento...e pensò, che mistero e mai questo? Ma…Non sarà che il pittore e il maestro sono la stessa persona? Allora, forse, sopra il spinetta non c’è uno

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specchio, ma un quadro. Se così fosse, pensò, non dovrei vedere il mio viso e nemmeno la stanza si dovrebbe riflettere! Guardò il maestro che impettito teneva il tempo della musica con il suo bastone. Amanda si accorse che Jan Vagnarellì la osservava in modo particolare come se volesse catturare quel momento e imprigionarlonella memoria…fu lì che capì, forse, lo specchio serviva a questo, non a riflettere , ma acatturare i momenti belli e piacevoli della musica. Se così fosse; dov’era e chi era il pittore? Amanda disse a se stessa che stava farneticando il gioco dello specchio, era forse dato dalla luce. Continuarono a eseguire ilbrano e improvvisamente le parve di udire il suono della viola da gamba. Non c’era nessuno che la suonava, allora si ricordarono delle lezioni di acustica in cui mi spiegarono che uno strumento a corda può vibrare per simpatia se le corde degli strumenti sono esattamente accordate tra di loro, anche se solo uno strumento suona l’altro, vibra ugualmente. Però…il mistero rimase, i suoni erano troppi e non riproducibilidal solo effetto acustico. E il riflesso nello specchio? C’era ancora il pittore? Sì, questa volta forse dipingeva lascena, a questo pensava la ragazza. Amanda girò di nuovo lo sguardo tutto divenne buio. Sentiva delle voci in lontananza che la chiamavano, aprì gli occhi e si accorse, con meraviglia,che era a casa sua nel suo letto con i genitori e la tutrice che la incoraggiavano a svegliarsi a prepararsi in quanto era in ritardo per la lezione di musica e che doveva affrontare con il grande maestro Jan Vagnarellì.

Francesco Guicciardi

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Andai ad aprire alla porta. Davanti a me c'era un'altra domestica. Ero sicura di averla già vista da qualche parte, forse al mercato o dallo speziale, ma non avrei saputo dire chi fosse. La salutai, aprendo la porta per farla entrare almeno per cinque minuti. Tiravaun vento pazzesco fuori e, malgrado ci fosse il sole, sicuramente non faceva caldo. La fantesca si strinse nello scialle, ma non entrò. Mi porse una lettera senza dire nulla, poi girò i tacchi e se ne andò.

Probabilmente aveva altre faccende da sbrigare e forse non voleva impiegarci troppo tempo per via del freddo. Chiusi la porta osservando la liscia superficie della busta, cercando qualcosa che potesse aiutarmi a capirne la provenienza. Non c'era scritto il mittente, ma comunque non sarebbe stato d'aiuto dato che non sapevo leggere. Sul sigillo di ceralacca era impresso lo stemma della città di Rotterdam, dove vivevamo. Probabilmente erano brutte notizie per la mia padrona. La famiglia dove lavoravo era composta da sole due persone, tre aggiungendo me. Erika, la mia padrona, aveva solo diciotto anni, mentre la sorellina Charlotte appena dodici. Avevano un legame speciale, fortissimo e indissolubile, come quello che nasce dopo un periodo difficile e una grande disgrazia. Due anni prima,infatti, i genitori delle ragazze erano morti schiacciati da quel morbo terribile che chiamano peste. Io lavoravo per i loro genitori da molto tempo, fin daquando avevo quattordici anni. Loro mi stimavano molto perché ero discreta ed eseguivo alla perfezione le mie faccende, inoltre non ficcavo il naso nei loro affari, cosa per cui tutte le domestiche erano ben note. I miei padroni non erano nobili, ma a forza dilavorare si erano arricchiti notevolmente e avevano comprato la casa dove noi vivevamo ancora.

Era veramente grande, già per cinque persone era enorme, per tre era immensa. O almeno così mi sembrava, abituata com’ero alla mia piccola casetta dove abitavo prima di iniziare a lavorare per loro.

Erika non aveva avuto il coraggio di venderla perché le ricordava i bei momenti passati con i genitori. Inoltre, le sembrava di vanificare i loro sforzi, perché avevano lavorato tanto per permettersi una casa del genere. A dir la verità anche io mi ero affezionata a quella casa e mi sarebbe dispiaciuto molto andarmene.

Quando i genitori erano morti, Erika aveva solo sedici anni e non sarebbe mai riuscita a prendersi cura di tutto da sola. Così mi tenne a servizio da loro. Le aiutai moltissimo inquel periodo, e loro aiutavano me dandomi quella paga che mi permetteva di mantenere la mia famiglia, o quanto meno dare un piccolo contributo: avevo tre sorelle da mantenere.

Conoscevo molto bene Erika e Charlotte: le avevo sempre seguite io, Charlotte l’avevo addirittura vista nascere. Erano entrambe molto tranquille e giudiziose. Erika ormai era diventata adulta e si occupava da sola della gestione della casa. Insegnava

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spesso alla sorella a svolgere i normali lavori di una donna: le mostrava come cucire, rammendare, ricamare, cucinare, stirare… e da qualche tempo aveva iniziato ad insegnarle a leggere e scrivere. Scrivere era infatti la grande passione di Erika. Una volta, mentre lei era al mercato, Charlotte aveva iniziato a leggermi uno dei racconti della sorella. Quel giorno rimasi sorpresa dal suo talento, e mi chiesi come mai non me ne aveva mai parlato prima.

Da qualche tempo, però, i soldi lasciati dai genitori iniziavano a scarseggiare. Avevano debiti ovunque: dal macellaio, dal fornaio, dallo speziale, persino al banco dove compravamo il pesce.

Non c’era giorno che non ci arrivasse una lettera che ci ricordasse i nostri mancati pagamenti.

Proprio come dal fondo dell’oceano buio non si vede la luce del sole che splende in superficie, noi eravamo sommerse dai debiti e non vedevamo una via d'uscita.

Per questo appena arrivavano lettere avevo smesso di sperare che fossero buone notizie.

Lasciai cadere nel secchio lo straccio che stavo usando per pulire i vetri e che tenevo ancora in mano e salii le scale. Trovai Erika e Charlotte in quella che un tempo era statala grande e lussuosa sala da pranzo, con un lungo tavolo di legno pregiato, preziosi arazzi venuti da lontano e un grande lampadario con le candele ormai consumate.

Ora la stanza non sembrava più quella di una volta: l’aria era impregnata di un forte odore di solitudine che si percepiva in ogni angolo e tutto si era fatto più cupo e spento, o forse appariva così ai miei occhi tristi.

Anche i quadri e gli arazzi che raccontavano storie incredibili e meravigliose sembravano aver perso la brillantezza e la vivacità ed erano diventati tristi figure che riposavano afflitte su uno sfondo grigio, senza alcuna traccia di vitalità.

Le ragazze erano sedute vicine e lavoravano in sintonia. Charlotte stava rammendando il suo grembiule ormai logoro, la sorella sembrava osservare il suo lavoro; in realtà fissava il vuoto con occhi assorti. In mano aveva un foglio pieno di calcoli.

-È arrivata una lettera, signora. - le dissi.

Lei si alzò e venne verso di me con aria stanca, forse sapeva già di cosa si trattava. Allungò la mano con un gesto automatico e fece per aprire la lettera, ma quando passòlo sguardo distratto sul sigillo, si fermò, aggrottando le sopracciglia.

-Charlotte, vai a prendere l’acqua alla fonte, tra poco è ora di pranzo. –

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La ragazzina si alzò controvoglia e scese al piano di sotto. Solo quando sentì la porta chiudersi, Erika si diresse verso l’altra parte della casa ed entrò nella stanza che prima era stata lo studio del padre.

Purtroppo avevamo dovuto vendere l’antica scrivania e molti dei libri, per ricavarne unpo’ di soldi così era rimasto unicamente un tavolino accanto alla finestra, solitario e, dietro di esso il quadro preferito del padre di Erika. Lo aveva fatto commissionare proprio lui, rappresentava il ritrovamento di Mosè nelle acque del Nilo. La scelta di quel soggetto mi sembrava strana all’inizio, ma in seguito il padrone mi aveva spiegato che per lui rappresentava una nuova vita, come quella che aveva da poco iniziato in quegli anni.

Spesso quando entrava in quella stanza, Erika vi rivolgeva lo sguardo carico d’affetto e di immensa malinconia, ma quel giorno non lo degnò nemmeno di un’occhiata. Tolse in fretta il sigillo e cominciò a leggere la lettera con aria sempre più preoccupata. Gli occhi scorrevano velocemente le frasi, le sue mani tremavano lievemente e io me ne accorsi; di sicuro erano notizie ancora peggiori di quelle a cui ci eravamo abituate. Prese l’ultimo foglio rimasto e cominciò a scrivere la risposta. Provai a raccogliere la lettera che giaceva abbandonata sul pavimento, ma Erika mi disse fermò, l’avrebbe raccolta lei.

Così mi misi accanto alla finestra, aspettando che finisse di scrivere per poter consegnare la risposta.

Tra una frase e l’altra faceva lunghe pause per trovare le parole giuste. A volte riprendeva a scrivere, a volte scuoteva la testa e i grandi orecchini di perla della madre brillavano alla luce del debole sole.

Fuori il vento non si era calmato e la prospettiva di uscire non era molto allettante. Quando seppi che dovevo consegnarla alla casa del borgomastro, esattamente dall’altra parte della città, fui ancora meno contenta. Così mi avviai lungo le fredde stradine di Rotterdam.

Quel giorno dopo essere tornata a casa e aver pranzato, Charlotte mi raccontò di essere riuscita a leggere le ultime parole della lettera prima che la sorella la raccogliesse da terra.

-C’era scritto che se non paghiamo i nostri debiti entro poco tempo ci cacceranno da casa e saremo costrette ad andarcene- mi disse.

Fu come uno schiaffo in pieno viso, una frustata, come se qualcosa di pesante mi fosse piombato addosso improvvisamente. Non potevano arrivare a quel punto. Non potevano! E invece evidentemente potevano, perché qualche anno prima la nostra

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vicina di casa aveva subito la stessa sorte e ora viveva per strada chiedendo l’elemosina.

Per tutto il giorno rimasi pensierosa, svolgevo i miei doveri in modo meccanico, mentre con gli occhi mi soffermavo su ogni particolare della casa, come se tutto fosse potuto scomparire da un momento all’altro. Ero così persa nei miei pensieri che mi accorsi solo dopo che Erika era uscita per tornare un’oretta più tardi con dei nuovi fogli e qualche boccetta d’inchiostro in più.

Nelle settimane seguenti cominciammo a vendere alcuni mobili per ottenere un po’ di denaro.

Erika era sempre meno presente nella vita di casa e se ne stava tutto il giorno nello studio. Non sapevo cosa facesse chiusa lì dentro dalla mattina alla sera, ma non mi attentavo a chiederle spiegazioni; non volevo sembrare impicciona. Comunque le giornate passavano molto più lente del solito: ora che Erika non si occupava della sorella toccava a me farlo.

Aggiungendo anche tutti i miei normali compiti, il lavoro si moltiplicava per mille. Trascorsero così più di quattro mesi e niente cambiò, fino a quando un giorno di prima mattina, Erika uscì con un voluminoso plico di fogli sottobraccio e tornò la sera tardi conun sorriso radioso sul volto. Quando la sorella ne chiese il motivo, lei si limitò a risponderle con uno scorbutico “Affari miei”. In realtà il giorno dopo, sotto la continua insistenza di Charlotte, Erika fu costretta a raccontarci tutta la storia.

Per tutto quel tempo, chiusa nello studio, non aveva fatto altro che scrivere. Aveva scritto, sempre. Ogni secondo passato in quella stanza lo aveva impegnato scrivendo. Aveva scritto “come una dannata”, citando le sue stesse parole. E io sapevo che quando diceva così, significava che si era impegnata veramente moltissimo. Aveva scritto con l’anima.

La mia padrona quella sera raccontò che qualche giorno prima aveva conosciuto un ragazzo di nome Christian che definì “veramente gentile e carino” e anche “piuttosto attraente” (al che mi sorpresi abbastanza: non aveva mai usato queste parole per descrivere un giovane) e che scoprì più tardi essere il figlio del direttore della tipografia di Rotterdam.

A quel punto Erika disse che si era affrettata a scrivere il finale del suo libro – perché di questo si trattava, un libro! Ancora oggi sono meravigliata da quello che è riuscita a fare – e di aver consegnato il tutto a Christian, perché lo facesse leggere al padre e lo convincesse in qualche modo a stamparlo.

Ma non ce ne fu bisogno. Il padre di Christian rimase affascinato fin dalle prime righe dell’opera di Erika e si disse disposto a stamparne un gran numero di copie, ovviamentedietro giusto pagamento.

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Erika investì tutti i proventi della vendita della vendita dei mobili per realizzare finalmente il suo sogno e dopo qualche giorno fu pronta già la prima copia.

L’atmosfera in casa era euforica, talmente diversa dal giorno in cui era arrivata quella maledetta lettera!

Le stanze erano più spoglie che mai, ma la nostra allegria le rendeva luminose e accoglienti. In qualunque angolo di quella grande dimora si andasse si sentiva il leggeroe felice canto di Erika, seguito subito dalla splendida voce di Charlotte. Come si faceva a non rallegrarsi?

Spesso Erika usciva a fare delle lunghe passeggiate con Christian e tornava a casa con grandi e colorati mazzi di fiori dai colori sgargianti, che immancabilmente finivano nei bei vasi in sala da pranzo.

Erano rimasti vuoti per così tanto tempo!

Così la nostra casa (come anche i nostri animi) si era fatta più luminosa e tutto risplendeva di gioia.

In un mese o poco più il libro era stato stampato nel numero di copie promesso ed iniziava ad essere comprato da qualche ricco signore o qualche dama ben istruita. Erikae Charlotte in visita da amici di vecchia data dei loro genitori, scoprirono che anche loro lo avevano letto e che il suo stile li aveva conquistati: perciò lo avevano consigliato a tutti i loro amici.

La fama del libro e della sua autrice crebbe e si diffuse a dismisura, tanto che dovettero ristamparlo per far contenti i ricchi lettori. Dai proventi delle vendite ricavammo così tanto che non solo riuscimmo a pagare tutti i debiti, ma una parte la conservammo per il futuro.

Otto anni sono passati da allora.

E adesso? Adesso viviamo ancora nella grande casa dei genitori delle ragazze che ormai ragazze non sono più. Erika ora è una signora, sposata con Christian e con due bellissimi e vivacissimi bambini che corrono su e giù per la casa e rallegrano le nostre giornate. Charlotte ormai è prossima al matrimonio e si è rivelata un’abile sarta, mentre la sorella continua a scrivere.

E io continuo a prendermi cura di tutti loro, come ho sempre fatto e come farò sempre, fino a quando Dio lo vorrà.

Alessia Vescovini

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La mia vita non è mai stata lussuosa, anzi. Da bambina giocavo insieme a mia sorellacon quello che trovavo; adoravamo il “ gioco delle pulci” con i sassolini trovati in giardino. Io e Charlotte, mia sorella appunto, siamo sempre state unite, fino a quando fummo in età da marito. Lei aveva pretendenti che arrivavano da ogni dove, mentre io ero già destinata ad un ragazzo, figlio di un mercante che viveva nel mio stesso paese. Le uniche informazioni che avevo su di lui erano il nome, Frans Broghen, e la sua età, una ventina d’anni circa. Malauguratamente mio padre non si era curato di farmi sapereche il mio futuro marito era indebitato fino al collo; era convinto che i soldi del padre avrebbero risolto tutto, ma non fu così. La data del mio matrimonio fu stabilita per il 20 Aprile del 1634.

I mesi precedenti il grande giorno, i miei genitori erano elettrizzati; continuavano ad offrirmi cavalli per la cerimonia, decorazioni per il vestito, cibo a volontà. Il giorno fatidico arrivò in fretta e ancora non mi sentivo pronta, non per il fatto che sarei dovuta andare via di casa d’un colpo, ma bensì perché non avevo mai visto in faccia il mio fidanzato e lui non aveva mai visto me. Il 20 Aprile giunse infine, agitata e impaziente allo stesso tempo, mi rendevo conto di essere intrattabile. Mancavano due ore all’inizio della cerimonia e non avevo ancora indossato il vestito. Mio padre aveva speso una fortuna per l’abito del giorno che sarebbe dovuto essere il più bello della mia vita; l'aveva fatto cucire su misura ed il risultato finale era splendido: di colore bianco come la neve, con un lunghissimo velo che dalla testa scendeva fino ai piedi, dove iniziava unmeraviglioso ricamo floreale. Aveva una scollatura rotonda e maniche a tre quarti di pizzo con lo stesso ricamo floreale del velo; ad esso si abbinavano perfettamente un paio di guanti di raso .

Ero entusiasta di avere un vestito così bello e lo indossai, poi mi acconciarono i capelli intrecciandoli in modo elaborato ed inserendo piccoli fiori azzurri e perle; due ciocche mi ricadevano ai lati del viso. Il parrucchiere che mio padre aveva ingaggiato per me era un ragazzo alto, con occhi scuri e capelli castani. Con estrema precisione creò uno chignon e con le ciocche tralasciate, formò due trecce che poi avvolse intorno allo chignon stesso. Ero pronta … la cameriera completò l'opera con un trucco molto leggero, dopodiché miamadre, che fino ad allora era rimasta in disparte a guardare, si avvicinò per darmi un bacio in fronte e per mettermi al collo una sottile catenella d'oro con un piccolissimo pendaglio in vetro contenente un chicco di riso, simbolo della sua casata, a ricordarmi che anche io come lei mi sarei adoperata nel mio nuovo ruolo di sommessa tessitrice della gestione famigliare del nuovo nucleo che stavo per formare.Quel pendaglio era passato di madre in figlia e la sua origine veniva da un lontano passato di donne che avevano tante volte risollevato le sorti delle loro famiglie, senza

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averne riconosciuti i meriti, tessendo fili invisibili fatti di operosità ed intelligenza. Ne sarei stata degna? Sperai di non doverlo mai dimostrare.

Mancava solo un’ora alla cerimonia, trascorsi il tempo rimanente a pensare a come si stesse per trasformare per sempre la mia vita una volta sposata e mi piacevano quei pensieri.La cerimonia si sarebbe tenuta nel grande giardino della mia casa paterna, infatti nel corso della mattina stessa fu tutto un viavai di operai, domestici, cuochi, tutti indaffarati ad allestire il giardino.Ad un tratto entrò nella stanza la mia amata sorella che mi informò che il momento tantoatteso era finalmente arrivato. Quindi mi alzai, mi misi i guanti e, accompagnata da Charlotte, scesi le scale. Una volta arrivate davanti al grande portone di legno, ingresso principale della villa, mia sorella mi sistemò il velo e lo strascico, poi mi fece cenno di uscire. Appena scesi i tre scalini che portavano al viottolo di ghiaia, riuscii ad intravedere una folla di persone tutte elegantemente accomodate sulle sedie disposte nel giardino. L’altare, posizionato in fondo al corridoio formato dalle sedie, spiccava sul verde dell’erba perché addobbato ad arte con ghirlande di fiori bianchi ed azzurri; Il parroco era già pronto a celebrare e il mio futuro marito attendeva il mio arrivo. Mi sentivo le gambe tremendamente deboli, e soprattutto ero molto agitata. Percorsi composta la navata immaginaria della mia chiesa all'aperto verso l’altare.Fatti alcuni passi riuscii a distinguere più chiaramente il suo viso, dalla pelle candida.Portava un paio di baffi e, i capelli castani lunghi fino alle spalle, gli incorniciavano il viso. Era vestito con pantaloni color salvia, con panciotto e giacca abbinati riccamente ricamati in oro. Sotto il panciotto portava una camicia bianca e le scarpe erano nere conuna fibbia che luccicava sotto i raggi del Sole. Mi avvicinavo sempre più e il cuore era a mille per l’agitazione. C’era una leggera brezza che faceva agitare debolmente il velo dietro di me; ero così concentrata a osservare Frans, che non mi accorsi delle parole che mi rivolgeva mia sorella Charlotte: <Devi lasciare il braccio di papà, tesoro … ><Sì certo, > replicai staccandomi dolcemente dal suo braccio che mi accompagnò versoquello di Frans. Che buffo, pensai. Sapendo della sua situazione finanziaria, lui avrebbedovuto appoggiarsi a me…e non io a lui; come avrei agito per risollevare il destino della famiglia che stavamo creando? Lo guardai negli occhi e vidi gentilezza d'animo, non altezzosa e maschile arroganza.

La cerimonia si concluse e venimmo acclamati dagli invitati: ovunque bambini che si rincorrevano, famigliari e parenti dell'uno che si presentavano a quelli dell'altra, cani festanti e camerieri ossequiosi. Nel tardo pomeriggio salutammo i convenuti, li ringraziammo grati della loro presenza e benevolenza, poi ci trasferimmo nella nuova casa, dove finalmente realizzai davvero la svolta che stava avendo la mia vita.

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Seduti, dopo un breve silenzio, mio marito mi rese partecipe con mio grande stupore, dello stato delle nostre finanze. Per azzardi e malconsigliati acquisti, Frans aveva una grossa cifra da recuperare e restituire entro una scadenza già prefissata. Si scusò del momento poco opportuno ma asserì che la nostra vita insieme doveva cominciare nella totale sincerità. Lo rassicurai e lo ringraziai dell'alta considerazione che mi rivolgeva; aggiunsi che forse una soluzione l'avremmo trovata più facilmente insieme.

Passeranno tre anni dal matrimonio i nostri problemi finanziari non sembravano migliorare. La casa nella quale vivevamo era nata come dimora lussuosa, ormai spogliaa causa nostra. Eravamo stati costretti a vendere i mobili e gli oggetti preziosi, per guadagnare qualche soldo. Dopo un lungo periodo di fame e povertà, un lontano cuginodi mio marito morì a causa di un incidente sul lavoro, lasciando un’ eredità alla nostra famiglia; i suoi beni vennero spartiti tra i parenti più stretti, tra i quali mio marito. I soldi che ci vennero dati non erano molti, ma abbastanza per mantenere due persone. Qualche giorno dopo una fabbrica di calzature assunse Frans come apprendista, che riuscì a guadagnare qualche soldo. La nostra vita andò avanti così, ci accontentavamo di quello che avevamo, instaurando un rapporto di fedeltà e amore che ci consentì di rimanere uniti e affrontare la nostra vita familiare nel migliore dei modi.Dopo una seria riflessione, decidemmo di celebrare la nostra felicità commissionando un dipinto che ci raffigura nella nuova stanza da pranzo, uniti e in attesa del primo di altri quattro figli che lo seguirono negli anni.Io sono raffigurata mentre bevo un bicchiere di vino a sostentamento del nuovo germoglio che sto generando e che ben presto si trasformerà in una nuova pianta.Questo quadro è stato appositamente appeso nella nostra stanza da pranzo per poterci sempre ricordare dei valori che ci hanno illuminato il cammino, valori che abbiamo trasmesso ai nostri figli ed in particolare ad Agnes, la femmina più grande alla quale, a tempo debito, tramanderò un tesoro povero ma ricco di significati...

il chicco di riso delle donne di famiglia.

Lisa Polo

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Philip era ormai da anni che studiava e gli mancava davvero poco per laurearsi. Era una calma giornata di primavera e si trovava sulla costa a guardare l’orizzonte. Quanto gli piaceva! Nella sua mente i ricordi riaffioravano e in quel giorno si fermò a riflettere sul suo percorso che lo porterà a diventare un geografo.

A cinque anni di età la sua famiglia si era trasferita in Giappone e, grazie ad un insegnate trovato dal padre, imparò bene sia la lingua sia la cultura. Si ambientò subito in quel bellissimo paese, di cui ne aveva sentito tanto parlare dal padre. Conobbe subitodue nuovi amici: Kesuke e Holly e con loro strinse una grande amicizia.Philip non era alto e aveva un enorme naso, perciò era sempre preso in giro dai ragazzipiù grandi. Aveva capelli corti e ricci, portava sempre con sé un piccolo astuccio regalatogli dalla sua nonna prima che lui partisse.

All’età di sei anni iniziò la scuola. Era in classe con Kesuke e Holly, ma loro non eranobravi quanto lui. La sua vera passione era di esplorare e sempre quando era in casa nascondeva degli oggetti per giocare alla caccia al tesoro. Una volta adolescente, dovette dire addio a Holly, infatti, si era ammalato di tubercolosi nell’estate e morì poco dopo, mentre Kesuke si trasferì a Tokyo a causa del lavoro del padre.

Ogni giorno andava da un vecchio saggio per alcune lezioni. Già in quegli anni pensava di diventare un geografo, una scelta dettata soprattutto dalla sua passione di navigare in mare come il padre. Purtroppo non tutto andò bene, la nonna paterna di Philip morì, e il padre Frans ritornò in Olanda; Philip sentì molto l'allontanamento del padre, tanto che decise di interrompe gli studi fino a che non sarebbe tornato; in quel periodo si ammalò anche la madre e in punto di morte le giurò che avrebbe ripreso gli studi.Non fu così, aspetto due anni prima di riprenderli, intanto era andato a lavorare al mercato del pesce. Ripresi gli studi, li concluse e s’iscrisse all’università di scienze geografiche. Si trasferì a Tokyo, dove trovò posto per dormire nella casa del suo vecchio amico Kesuke. Kesuke non sembrava più lui. Aveva lasciato gli studi a diciotto anni ed era entrato nelladitta del padre. Si era sposato e stava diventando padre. Si trovava bene in quella città che era molto più grande del piccolo paesino, dove aveva vissuto fino a poco tempo prima.Gli studi proseguivano bene, però ormai la casa dell'amico Kesuke era piccola e con il figlio in arrivo Philip non voleva essere d'intralcio, allora trovò una piccola pensione, poco distante dall'università, gestita da due anziani.

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Erano ormai passati cinque anni dalla morte della madre e sei dalla partenza del padre per l'Olanda. In quei sei anni si erano sempre scritti e finalmente era giunto il momento di rincontrarsi.

Quanto era cambiato suo padre, era diverso da quello che si ricordava, più vecchio, basso, capelli bianchi e una barba lunga. Anche Philip era diverso più maturo, sveglio, con i capelli lunghi e ricci. Appena si videro scoppiarono in un lunghissimo pianto di gioia. Tutti e due sapevano cosa si erano persi in quei sei anni di lontananza. Philip portò il padre nella piccola pensione, lo fece accomodare e si fece raccontare come si trovava in Olanda e di come andasse il suo lavoro. Frans disse a suo figlio che una volta finita l’università, aveva già trovato il lavoro per lui in Olanda, così si potevano riunire. Philip non era del tutto contento di questa scelta, perché era felice di rincontrare il padre, ma non voleva lasciare il Giappone dove si era ambientato benissimo.Il padre si fermò li con lui per un mese ed a Philip sembrava di essere tornato indietro dialcuni anni quando ancora c’era la sua mamma.Il padre partì, Philip sentì subito la sua mancanza, allora decise di raggiungerlo appena in Olanda fosse giunta la primavera, per stare con lui sia per prendersi una pausa dagli studi. Prese una nave mercantile, che lo avrebbe riportato in Olanda.

I primi giorni sulla nave era passati tranquillamente, ma quando meno se lo aspettava Philip conobbe un olandese che come lui, raggiungeva la madrepatria dopo tanti anni. Si chiamava Johannes Van Ruijven, era un poliziotto, era scappato con la famiglia da piccolo, perché il padre aveva fatto molti debiti. C’era ritornato poco volte in Olanda, l’ultima volta era stata dieci anni prima per salutare per sempre il nonno. Ora ci ritornava perché aveva trovato lavoro presso il commissariato di Rotterdam, proprio la città dove doveva andare Philip.Philip aveva 25 anni mentre Johannes ne aveva 29 e sulla quella nave fantasticavano su come avrebbe trovato l’Olanda dopo tanto tempo.Finalmente dopo una settimana la nave giunse nel porto di Rotterdam ed appena scesi si diedero appuntamento dopo due giorni davanti al commissariato per parlare delle loroimpressioni sull’Olanda.

Philip giunse in quella vecchia via dove aveva passato i suoi primi anni di vita e non gli sembrava molto diversa da quella che aveva lasciato vent’anni prima. Arrivò davanti al civico 25 la sua vecchia casa, era tutta sporca all’esterno mentre all’interno si vedeva un lungo corridoio tutto in giallo con molte finestre che facevano luce ed allora sospirò: “Dolce casa!”Entrò e subito si ricordò quanto gli era dispiaciuto lasciare la casa e tutti gli amichetti. Poi sentì un profumino venire dalla piccola cucina in fondo al corridoio, si affacciò alla porta e vide il padre che cucinava un arrosto. Gli disse: “Mi scusi avrebbe una camera per un gentile ragazzo?”

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Il padre riconobbe subito la voce, corse verso il figlio, che gli aveva fatto una grande sorpresa.“Cosa ti porta dal tuo vecchio?” – chiese il padre.“La voglia di riabbracciarti e di rivedere anche come ti vanno le cose qui, vecchio!” – rispose Philip.

I due pranzarono insieme, poi Philip andò a fare un giro nel suo vecchio quartiere. C’erano nuove famiglie e scoprì che tutti i suoi amici d’infanzia s’erano trasferito in altre città.

Dopo due giorni si rivide con Johannes e passeggiarono lungo il fiume che passava per il centro di Rotterdam. Johannes gli disse che aveva sentito alcuni gendarmi parlaredi una piccola isola molto lontana dalla costa dove alcune persone avevano sentito provenire delle urla; andarono a controllare, ma non tornarono mai più indietro. Philip rimase scioccato e sorpreso dal racconto dell’amico, gli chiese di cercare più notizie sull’argomento. Tornato a casa ne parlò con il padre che gli disse di aver sentito una storia simile qualche giorno prima al mercato delle carni.Philip andò a letto e sognò questa isola come un posto dove vivevano draghi che mangiavano umani, sputavano fuoco e gridavano per attirare l’attenzione degli uomini ed egli, come una sorta di cavaliere sterminatore, uccideva questi terribili mostri. Si svegliò di soprassalto pensando: “Ho fatto un sogno da bambino”.La mattina seguente il padre gli disse di andare a vedere per quel lavoro di cui gli avevaparlato l’ultima volta che s’erano visti.Philip non aveva voglia di andarci perché il suo sogno era quello di diventare un geografo e non di lavorare in una bancarella a vendere delle carni.Dopo una piccola discussione con il padre, costretto ci andò e subito l’amico del padre Pieter, lo mise dietro al banco a tagliare insieme a suo figlio pezzi di carne da vendere.Johannes e Philip si erano dati appuntamento dopo due settimane, ma Johannes quel giorno non si presentò. Philip chiese a due poliziotti che fine avesse fatto il suo amico e questi gli dissero che era ammalato.

Philip andò qualche sera più tardi a casa di Johannes e andarono a fare un giro per lacittà. Johannes gli raccontò che quell’isola era soprannominata “dell’orrore” e non era molto grande, inoltre il suo comandante voleva organizzare una piccola flotta per cercare di scoprire il mistero di questa isola.Tornato a casa Philip pensò che sarebbe stata una grande occasione per un’aspirante geografo, ma fino a che il comandante della polizia non avrebbe annunciato il progetto non volle parlare con nessuno di questa cosa.Intanto il lavoro come macellaio andava avanti da mesi quando un giorno, mentre ritornava a casa, vide un volantino dove c’era scritto: “SEI UNA AMANTE DELLA SCOPERTA AIUTACI A SCOPRIRE IL MISTERO DELL’ISOLA DELL’ORRORE”.

Philip strappò il manifesto e corse a casa di Johannes e gli disse:

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“E’ uscito questo volantino e io voglio partecipare e tu vieni con me!”

“Non se parla nemmeno” – disse Johannes “non voglio morire, sono ancora giovane”.

“Non muori e al massimo sarai ricordato come uno che ha rischiato la vita in onore dell’Olanda” – rispose Philip.

La discussione si protrasse per ore e Philip riuscì a convince Johannes.

La mattina seguente si recò al commissariato insieme a Johannes, che quel giorno non era di servizio, e subito vide che c’era molta gente a fare la fila.

Quando arrivò il loro turno il comandante Tosser fu sorpreso di vedere un suo collega e insieme ad un altro giovane.

Philip si presentò dicendo di essere un’aspirante geografo e che sarebbe stata una grande occasione per lui partecipare a quella spedizione insieme ad un amico poliziotto.

Il comandante dopo aver preso qualche appunto li salutò dicendogli che avrebbe sicuramente detto qualcosa a Johannes.

Infatti dopo un mese Tosser chiamò Johannes, gli disse che potevano partecipare allaspedizione e il comandante sarebbe stato Philip.

Johannes corse al mercato delle carni e comunicò la decisione del comandante a Philip che dall’euforia scappò via dal mercato ed insieme andarono a casa per lavorare al progetto.

Alla sera quando il padre rincasò chiese al figlio come mai aveva lasciato il lavoro e Philip gli disse che doveva organizzare una spedizione per scoprire l’isola “dell’orrore”.

Il padre pensando che tutto ciò non fosse vero, gli diede una sberla e gli disse che se non si fosse andato subito a scusarsi con il macellaio e la mattina dopo non si fosse presentato al lavoro, lo avrebbe rispedito in Giappone.

Philip gli fece vedere il volantino e quasi stizzito gli rispose che non ci sarebbe andato, perché ora doveva preparare un progetto.

La mattina seguente prima di recarsi al commissariato per iniziare insieme al comandante il progetto, il padre lo fermò e gli chiese scusa, ma Philip non lo degnò di uno sguardo. Una volta in commissariato ispezionò tutte le notizie raccolte dalla polizia sul quell’isola e si mise subito a lavorare al progetto.

Dopo due mesi il progetto fu pronto, sulla nave donata da un ricco mercante di Rotterdam, salparono l’amico Johannes, il comandante Tosser, alcuni poliziotti e altri geologi e scienziati; erano in tutto ventidue e Philip aveva pieni poteri sulla spedizione. Philip fin da piccolo avrebbe voluto essere come Cristoforo Colombo e ora era finalmente arrivata la sua occasione.

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La spedizione partì dopo alcune settimane ed ancora Philip non aveva fatto pace con il padre. Giunti al largo delle coste iniziò una forte tempesta che li bloccò per tre giorni inmare aperto. Dopo molti giorni di navigazione con continui cambi di rotta a causa di fortiprecipitazioni che cadevano sul mare, raggiunsero questa isola.A poche centinaia di metri si sentì un fortissimo grido, che fece capire a Philip e ai suoi compagni quanto fossero vicini al pericolo.

La nave attraccò, non vedevano nessun mostro e nessuna persona, fino a che non sentirono il canto di una allegra fanciulla dai capelli chiari e con le lentiggini, che appenali vide scappò via intimorita.Philip la rincorse, ma non la trovò in compenso si trovò smarrito in un bosco molto fitto eil grido sembrava più un brontolio ed era sempre più vicino. Gridò e gridò per farsi sentire, ma non udiva niente se non le cicale che cantavano.Passavano le ore e Philip girava spaesato nel bosco urlando e cercando una via di uscita, quando gli venne incontro un signore anziano con la ragazza di prima, puntandogli il fucile. Philip dalla paura svenne.

Quando si svegliò, era in una stanza buia e fredda con una piccola finestra, che dava su un grande giardino. Si apri la porta, entrò il vecchio e gli chiese perché si trovava nel bosco. Allora Philip gli disse che stava compiendo una esplorazione insieme ad altre persone, perché volevano scoprire il mistero dell’isola, a questa risposta l’uomo dalla folta barba rise ed accompagnò Philip sulla costa a prendere le altre persone.Una volta raggiunti i compagni, il vecchio li riportò nel bosco.

Arrivarono in un villaggio, il vecchio raccontò loro che era stato fondato cent’anni prima da alcuni esiliati olandesi, che per colpa di una tempesta si erano trovati su quest’isola. Philip nel sentire questa risposta fu molto sollevato, perché ora sapeva che non c’erano più mostri come si era immaginato e anche perché aveva trovato un nuovo villaggio conosciuto da pochi. Philip e i suoi amici erano tutti felici ma non capivano cosa erano quelle grida che si sentivano, allora l’uomo disse che non erano grida ma era il vulcano dell’isola che, essendo attivo, brontolava.A quella risposta tutti scoppiarono a ridere.Philip e molti dei suoi compagni come Johannes ed il comandante Tosser rimasero sull’isola per più di un anno e qui Philip conobbe ancora meglio quella ragazza che aveva visto appena sbarcato e che diventò sua moglie.

Philip non era ancora contento, perché erano circa due anni che non sentiva il padre, allora decise di fargli un regalo: sull’isola c'era un grande pittore, così si fece ritrarre nel suo studio mentre lavorava ad una nuova spedizione.Per il ritratto indossò il suo abito preferito il kimono che aveva preso in Giappone prima di partire, tutto intorno a lui c’erano le sue carte.Il pittore in questo ritratto mise in evidenza lo sguardo di Philip perso nel vuoto, perché nonostante lavorasse, il pensiero era rivolto al padre che non vedeva da molto tempo.

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E mentre Philip dalla costa guardava l’orizzonte con accanto il quadro, pensava che è importante studiare, ma è anche importantissimo avere una famiglia.

Gianluca Barelli

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14 – Era vero amore?

Johannes Vermeer - Due gentiluomini e la fanciulla con il bicchiere di vino

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Nel 1600 in Olanda viveva una giovane donna Janet Vogel. Io ero al suo servizio come cocchiere da parecchi anni ormai. Lei era di origine nobili e da alcuni anni era fidanzata con un importante uomo della zona, Edward. Le loro nozze sarebbero state dilì a poco. I rispettivi genitori avevano combinato loro il matrimonio, perciò la loro unione non era per amore, ma esclusivamente d’interesse.

Un giorno però la giovane donna si era recata al mercato per qualche commissione e aveva incontrato un gentil uomo che l’aveva aiutata a portare le sporte e si era presentato, sin dal primo istante, molto disponibile nei suoi confronti. I due si erano incontrati ancora al mercato o vicino al fiume, dove la giovane dama amava trascorrere le sue giornate in tranquillità e serenità. La fanciulla aveva capito sin dal primo istante che quel uomo di fronte a lei era “il principe azzurro” che fin da piccola sognava di incontrare. Lei sapeva solo il suo nome: Anastasio.

Alcune settimane dopo…

Passata una decina di giorni dall'ultimo incontro, la donna si trovava a casa da sola poiché il suo fidanzato era partito da una settimana circa per un viaggio d’affari. Sarebbe ritornato a casa dopo una ventina di giorni.

Un mattino ricevette una lettera dove c’era scritto che lei il giorno seguente sarebbe dovuta andare in città alla locanda “le noci” dove avrebbe alloggiato lì per suppergiù quattro o cinque giorni. In fondo all’epistola c’era scritto: “con amore, Anastasio”, l’uomodel quale la fanciulla si era invaghita. I due, infatti, si sarebbero incontrati lì e avrebbero trascorso alcuni giorni insieme.

La mattina seguente, la giovane donna mi chiese di accompagnarla in città. Quel giorno indossava un imponente vestito rosso con le maniche color oro. La aiutai a salire e caricai sulla carrozza il borsone con alcuni abiti da indossare nei giorni seguenti e tutto il necessario per un breve soggiorno in città. Era una fresca mattina di primavera l’erbetta dei campi era ricoperta da una sottile coltre di rugiada che il sole pian piano scioglieva con il suo tiepido calore. Il vento ci accarezzava i nostri volti con massima delicatezza. Nel cielo azzurro vi erano solo alcune nuvole bianche che lo completavano.

Dopo due ore circa di viaggio arrivammo alla locanda “le noci”. Il palazzo era grande ed imponente, color panna e con un tetto molto spiovente. La donna scese ed io scaricai la valigia; l’accompagnai all’ingresso dove ad aspettarla c’era un uomo di bel aspetto con un importante mantello e i capelli che arrivavano alle spalle. I due si salutarono e si diressero in una stanza li accanto per bere qualcosa. Intuii che l’individuo affianco alla signora Janet doveva essere proprio il famoso Anastasio.

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Li seguii anche io, perché dopo due ore di viaggio avevo proprio bisogno di rinfrescarmi il palato o comunque, avrei dovuto portare il borsone della fanciulla nella stanza in cui avrebbe alloggiato, al piano superiore.

Entrammo in un salone molto luminoso; la luce infatti entrava da una grande finestra araldica al centro di parete. Sotto all’apertura vi era un tavolino sul quale vi era steso undrappo di seta blu. Vi erano anche un vassoio in metallo con alcuni frutti di stagione, un telo bianco e una brocca. Accanto al tavolo vi erano due seggiole; su una si sedette la giovane donna mentre sull’altra mi sedetti io. Sopra alla sedia sulla quale mi ero seduto vi era un quadro di un antico uomo aristocratico. Ero molto stanco perché la sera prima non avevo riposato molto bene e quindi ne approfittai per rilassarmi un po’.La fanciulla si era accomodata sull’altra seggiola e il giovane uomo le offrì un bicchiere di vino bianco (bianco in segno alla purezza della dama non ancora sposata). Poi le fece cenno di voltarsi e in un angolino buio della stanza vi era un famoso pittore della zona: Johannes Vermeer che immortalò in un quadro la giovane donna con il suo amante Anastasio, chinato verso la fanciulla che teneva in mano il calice di vino.

Il quarto giorno alla locanda, i due dovettero separarsi e ritornare alla solita vita di sempre. La fanciulla si sposò con Edward e Anastasio con un’altra dama. Nonostante ciò, i due si continuarono ad incontrare al mercato o al fiume ma nei loro cuori non vi era più quell’amore di una volta.

Chiara Belloni

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Entrai nella stanza di Dominique per avvisarla del fatto che il signore che chiedeva di lei se ne era andato. Vidi la boccetta contenente l’acqua profumata che adoperava alla fine di ogni lettera per darle un tocco della sua personalità e per farsi riconoscere attraverso la sua fragranza preferita. Subito abbassai lo sguardo e la vidi distesa sul pavimento senza sensi; preoccupata mi chinai su di lei per sentirle i battiti del cuore, maa mio avviso non c’era più niente da fare. Chiamato un medico che confermò rammaricato le mie ipotesi, toccò a me spiegare l'accaduto a tutta la sua famiglia. I funerali vennero celebrati due giorni dopo la sua morte, la sua bara di ciliegio laccato si adagiò in quella buca che l'avrebbe tenuta stretta a sé per molto tempo ancora, la madre addolorata lasciò cadere un mazzo di fiori bianchi , ed era lì che per Dominique Debois finiva l'esistenza. Ma quando si muore così giovani, sani e belli per gli altri inizia una lunga serie di interrogativi che passano per la testa, e torturano, torturano. Passarono le ore , passarono i giorni ed anche i mesi. Ma questi pensieri non volevano lasciarmi in pace. Tutti erano tranquilli, il dolore lo lasciavano racchiuso nel fondo più imperscrutabile, nella loro dura corazza da nobili e sorridevano -gli fosse crepata una mascella con queisorrisi falsi che porgevano a tutti quanti- e tutti quanti che, ipocriti come loro, mentivanonel credere loro. Era questo il loro mondo: la presenza che avevi, il vestito che indossavi, l'acconciatura e la pelle chiara e luminosa, una bella casa spaziosa e pulita ma cosa sentivano veramente dentro di loro? Quali erano i loro sentimenti? I sentimenti non esistevano, se c'erano bisognava nasconderli. E sospettavo che quei sentimenti in Dominique l'avessero uccisa. Tutti facevano finta che non fosse successo, erano più liberi, erano più leggeri. Solo io, solo io a vederli così leggeri mi appesantivo. Chi si stava occupando di capire? Chi? Importava forse davvero a qualcuno che una giovane ragazza nobile fosse morta? Importava a me, Si, a me, ma io da sola che cosa potevo fare?

-Georgie- mi chiamò sua madre che stava leggendo sulla poltrona della biblioteca mentre io spolveravo -Tutto bene?- mi disse

-Si, grazie, lei?- risposi

- Bene, a cosa stai pensando? Ho visto che ti sei fermata con una faccia un po' preoccupata.- Io? no. no. Sono solo un po' stanca. Mi scusi, ha ragione dovrei davvero dormire qualche ora in più.- La madre di Dominique, Charlotte sorrise e, appoggiando delicatamente i suoi occhiali sul libro, sul tavolino a fianco a lei se ne andò, lasciandomi sola.

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-Giorgie?-

- Sì?- Potresti pulire il ripostiglio? Dovrei mostrare qualche quadro a degli amici- Sì. Certo, mio padrone, vado subito.

Andavo. Andavo dritta per non girarmi, non volevo vedere nemmeno con la coda dell'occhio la camera di Dominique. Non volevo. Mi misi subito al lavoro. C'erano davvero tantissimi quadri. Non sapevo fossero così interessati all'arte in questa famiglia, sembravano così incuranti di quella stanza da non farmela pulire mai. Cominciai a spolverare, a spostarli e ad esporli nel miglior modo possibile, così che gliamici del padrone potessero ammirarli in tutta la loro bellezza. Ce n'era uno però in fondo alla camera appoggiato ad uno specchio, era già avvolto in una tela di cotone bianca, non sarebbe dovuto essere spolverato, ma la mia curiosità di vederlo era troppaper contenerla e lasciarlo stare. Lo aprii mi allontanai un po' per avere la panoramica del quadro ben esposta ai miei occhi, e vidi qualcosa di davvero strano, vidi qualcosa che diceva molto, vidi qualcosa che sapevo non avrei dovuto vedere, vidi forse quello che aspettavo da tanto, ma che non mi spiegavo. Aprii la porta di quel ripostiglio poco tempo prima, senza immaginare cosa avrei visto dopo. Un bel quadro, niente da dire. Ma guarda un po’ nel ritratto c’ero anche io. C’ero io che porgevo forse una lettera a Dominique che mi guardava preoccupata. Cosa voleva dire? Cosa significava tutto questo? Io non sapevo di essere stata ritratta e sono sicura non lo sapesse nemmeno Dominique, sono anche sicura del fatto che quel quadro sarebbe dovuto rimanere nascosto alla mia vista per sempre, ed era questo che mi portava in una sola via. Qualcuno sa cos’è successo davvero e lo ha ritratto. Adesso dovevo sapere. Non ero nelle condizioni di pensare però. Ma nelle condizioni di cercare si, ma certo! Dovevo cercare quella lettera. Dovevo. Uscii dal magazzino lasciando tutto com’era senza nascondere nulla di quello che avevo fatto. Non pensavo, non guardavo, non capivo quello che stavo facendo. Mi sentivo così vicina alla risposta, ma anche così lontana. Dovevo capire per Dominique eanche per Daniel che la amava e la voleva sposare. Aprendo il suo cassetto scoprii in un biglietto che ad amarla non c’era solo Daniel, ma anche Alexander. Non l’avevo mai visto né me ne aveva parlato, ma c'era e Dominique lo amava sebbene il matrimonio con Daniel fosse imminente. La mia memoria si fece strada tra i miei pensieri e mi ricordai subito che pochi giorni prima della sua morte, qualcuno era venuto a portare quel biglietto, e qualcosa mi diceva che era quel bel giovanotto che me l’aveva portato, e la faccia di Dominique quando lo lesse… si! Era proprio lui… lei era felice di leggere che era tornato e stava bene. Certo, era preoccupata perché sapeva di dover sposare Daniel e non avrebbe potuto fare altro. Sapeva bene che non la lontananza da Alexander non significava non

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amarlo. Lei, però, non mi diede mai lettere da portare a nessuno. Ora che sapevo queste cose, ora che avevo letto quella lettera, ora che avevo fatto tutte le cose che unabrava domestica non dovrebbe fare, mi chiedevo come andare avanti nelle mie indagini.

Per ora però chi erano i sospettati? Daniel? Gli assassini è vero sembrano di solito persone normalissime, ma lui avrebbe avuto il coraggio di uccidere la sua Dominque? La amava fin dall’infanzia, erano cresciuti insieme, avevano pianto e riso insieme, anche scoprendo un tradimento non l’avrebbe fatto. Alexander? Non lo conosco. Non so chi sia. Ma dalle belle parole che sono impresse suquel foglio, l’amore per Dominique doveva essere davvero grande. E il movente? Perché lei non gli rispose? Intanto che pensavo a queste cose capivo quanto Dominquefosse amata così puramente da questi due ragazzi, che nessuno dei due le avrebbe torto un capello ma per lei avrebbero dato la loro stessa vita, e questo mi faceva piacere per lei, perché io sarei felice se qualcuno provasse dei sentimenti così belli per me. Ma io sono solo una serva ficcanaso, nessuno si innamorerebbe di quelle come me. Dovevo di certo rintracciare Alexander, o Daniel? O tutti e due? Sentivo la testa girare, girare tra pensieri e parole… non svenire Georgie, la lettera che hai letto e non dovevi leggere è sul tavolo, prima devi nasconderla, Georgie no, così combinerai un disastro.

Aprii gli occhi, e vidi sopra di me un soffitto bianco, ero distesa su un lettino, mi girai e vidi il dottore che mi aveva assistito probabilmente dopo il mio malessere. Mi sussultò il cuore, era proprio lui, Alexander. L’avevo trovato. Oh, il destino mi aveva aiutato. Per la prima volta…avevo qualcuno dalla mia parte.-Allora Dominique...- esordì Alexander, cosa ti è successo? I valori sono del tutto normali... Io lo guardai sapendo che francamente non potevo rispondere. Probabilmente è stato solo un attimo di stanchezza-Sì, lo credo anche io Dominque. In ogni caso dovesse ricapitare faremo esami più accurati. D’accordo?- Certamente. Risposi io. Prima che io potessi dire qualsiasi altra cosa entrò Asia.- Alexander, non ti sei dimenticato del pranzo vero? - No. Certo che no. Lasciami mandare a casa questa ragazza e sono subito pronto.- Asia mi guardò quasi infastidita e uscì.

Il giorno dopo ricevetti a pranzo la famiglia di Asia con suo fratello Daniel, il ragazzo che avrebbe dovuto sposare Dominique e la famiglia di Alexander. Servii tutto ciò che era stato preparato accuratamente, per queste tre famiglie legate da così tanto tempo. Tra una portata e l’altra sentii nei discorsi tra Asia e Daniel un certo dissidio, fatto strano, dato che loro sono sempre stati uniti e accordi.

Dopo mangiato li sentii sul davanzale e, come avevo immaginato, l’attrito era Dominique.

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-E tu hai anche il coraggio di guardare negli occhi quelli che in questa casa ti portano il pranzo e quelli che te lo offrono?- Asia lo fulminò con lo sguardo. -Se uccidere una persona non è nulla per te, non ti riconosco proprio più Asia.

-Tu, tu non hai idea di cosa ha voluto dire per me trovare questa lettera!- la passò in mano a Daniel che la guardò sconcertato-Cosa fai? Te la porti dietro? Caso mai avessi voglia di fare una lettura? – Asia guardando a terra rispose- No. La voglio riportare nel cassetto in cui l’ho trovata. È così... bella, il fatto è che è bellissima anche quella che Alexander ha scritto a lei.- Daniel guardandola malissimo - E' proprio questo infatti il problema.- Detto questo andò via indignato.

Io mi nascosi dietro una tenda e sospirai, ero davvero agitata per tutto quello che stava accadendo. Ho tanto voluto sapere chi era stato ad uccidere Dominique, ma ora che lo sapevo, avevo davvero paura di aver acquisito quella conoscenza. Come avrei potuto tacerla? Semplice. Non avrei dovuto farlo.

Dopo poco mi riferirono che facevo parte della servitù per il matrimonio di Asia e Alexander. Non sapevano che pasticcio sarebbe successo. Non lo sapevano...Mi misi subito all’opera e invece di preparare i menù, mi misi a preparare il piano di movimento verso la rovina di chi aveva tolto la vita ad una persona che come unica colpa aveva quella di aver amato. Durante le pulizie trovai la lettera che Dominque aveva scritto come risposta ad Alexander ma che non era mai stata spedita.

La ricopiai tutta notte. Ne feci molte, tante, troppe copie. Era l’unica prova che avevo. E sarei stata licenziata, lo so. Ma purtroppo sono sempre stata dalla parte della giustizia eda quel gran pantano adesso volevo solo uscirne.

Asia e Alexander si sposarono la mattina del 9 Aprile 1667, alla fine del rinfresco, dopo le danze, le congratulazioni, sostituii il quadro che il padre di Asia avrebbe regalato ai due sposini con quello che un incognito mi ha fatto un gran piacere a riprodurlo. E quando tirarono su il telo e quando tutti si accorsero che i tovagliolini eranodecorati dalle parole che una povera giovane non aveva potuto esprimere tutti sgranarono gli occhi. Allora io feci le valigie e me ne andai, stanca da tutto quello che avevo vissuto.

Ciò è tutto quello che ricordo di quegli anni, figliolo, gli anni in cui avrei dovuto vivere spensierata anche se non fu per niente così. Tornai in quella città nel 1690 delusa. Delusa dal fatto che Asia era ancora sposata con Alexander e rientrava nella loro bella casa dopo aver fatto la spesa senza alcun problema. Ma come succede spesso le persone che vogliono la giustizia... avranno problemi!

Rossella Grana

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Era un giorno come tanti e stavo facendo la mia passeggiata mattutina in un giardino vicino alla mia villa, un po’ fuori città. Era uno splendido giorno di primavera, gli uccellinicantavano melodiosamente tra gli alberi fioriti, l’odore dei peschi che volava nell’aria e ilrosso dei tulipani che splendeva alla luce del sole. Ad un certo punto mi sentii gridare dietro il mio nome: ”Signorina Janis, signorina Janis...!!” Era Mary la mia serva che portava in mano una lettera sigillata con la ceralacca, questo significava che non proveniva da Rotterdam, infatti era stata mandata da Berlino.

La lettera diceva:

Cara Janis, ti scrivo da Berlino per comunicarti che finalmente dopo tutti questi anni di lungi viaggi ritorno a casa. Però devo dirti che partirò tra una decina di giorni perché il treno che conduce direttamente a Rotterdam non era disponibile nei giorni a venire. Prima della partenza vorrei visitare un po’ Berlino, è una bella città anche se è molto trafficata, ma non si può paragonare con la bellezza di Parigi, dove mi sono fermato di più rispetto alle altre città.

Non vedo l’ ora che sia il giorno della partenza, anzi il momento dell’arrivo per riabbracciarti e rivederti. Prima di ritornare a casa dalla mia famiglia vorrei incontrare te,perché sei molto importante per me. Vicino alla stazione c’ è una locanda chiamata “Il ciliegio” ed è proprio li che ti aspetterò il giorno del mio arrivo, il treno dovrebbe arrivare nella mattinata.

Il tuo Ivan

Dopo aver letto la lettera mi sentii come sollevata da un peso che mi tormentava da qualche anno, perché ero in pensiero per Ivan. Era un amico che conoscevo dall’infanzia, con lui sono cresciuta, con lui ho imparato e con lui ho giocato. Dopo tutti quei bei momenti passati insieme, una volta diventati adulti, Ivan dovette partire nel 1820 per viaggiare nel mondo per ragioni di lavoro così rimasi sola.

Mentre camminavo verso casa si faceva buio ed era ormai ora di cena, appena giunsi mio padre mi rimproverò per l’orario, così cenai con la servitù. Andai a letto tardi,e non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte ripensando alle parole della lettera.

Il tempo passava e il giorno dell’arrivo di Ivan si avvicinava sempre di più e io non sapevo come mi sarei comportata; comunque ero molto emozionata e felice di poterlo riabbracciare.

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Più mi avvicinavo al giorno dell’incontro più diventavo impaziente, trascorrevo ogni istante pensando al momento in cui avrei visto Ivan entrare dalla porta della locanda e avrei incrociato i suoi limpidi occhi azzurri.

Mancava un’ora all’appuntamento e io non ero ancora pronta, impietrita dall’emozione. Aprii il mio armadio per cercare un vestito adatto all’incontro, non troppo elegante ma neanche troppo semplice, provai il mio abito rosso con le maniche di pizzo ma lo scartai subito. Non sapevo perché ma non mi ispirava, così presi il mio solito vestito giallo con le maniche decorate di nero, lo indossai e mi misi le mie scarpette nere con il tacchetto. Uscii dall’ingresso con il cuore in gola ripensando a ciò che sarebbe successo, il mio cocchiere era lì che mi aspettava.

Appena partita notai che il figlio dei vicini, un ragazzo che aveva circa la mia età, forsequalche anno in più, mi osservava con ammirazione mentre riordinava il giardino, ma io feci finta di non notarlo. Si chiama Gabriel se non sbaglio, in tutti gli anni che ho vissuto nella mia villa non gli ho parlato quasi mai. Il tragitto tra casa mia e la locanda era breve ma in quel momento sembrava che i campi che si estendevano fuori dal finestrino della carrozza fossero infiniti, ma poi finalmente entrammo nella piazza. Essendo sabato era molto affollata, e la gente correva qua e là per sbrigare le commissioni e per fare le spese per la domenica e per la settimana a venire. Io chiesi a George, il mio cocchiere, di lasciarmi lì in piazza perché volevo proseguire da sola visto che lui non era a corrente del mio incontro e neanche la mia famiglia. Avevo detto loro che sarei andata a passeggiare per il mercatovisto che da molto tempo non uscivo di casa. Mentre camminavo notavo dei bambini che giocavano per le strade e mi ricordavo della mia infanzia quando lo facevo anche io con i miei fratelli maggiori, che erano partiti per lavoro e non vedevo da più di due anni. Mi distolsi dai miei pensieri e proseguii fino ad arrivare alla locanda, mi fermai davanti alla porta e lì attesi l’ arrivo del treno. Vidi un grande ciliegio a destra della locanda, era magnifico con i suoi fiori rosa che ondeggiavano al vento leggero della primavera. Fui investita da una cascata di petali che si fermarono sui miei capelli e si posarono delicatamente sul pavimento a lastroni, formando un leggero e soffice tappeto rosa.

La locanda era una modesta casetta di legno, con una grande insegna sopra al portone d’entrata dove tante decorazioni coprivano la liscia superficie lignea. Finalmente si udiva in lontananza il fischio del treno che giungeva, ero emozionata, nonsapevo come avrei reagito vedendolo scendere. Attesi fino a quando scesero tutte le persone, non lo vidi subito quindi decisi di aspettare fino a quando tutta la gente fosse andata via.Però una volta che la stazione fu deserta Ivan non c’ era, mi preoccupai ma fui paziente

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e aspettai per un po’, ma lui non scese, il treno partì e non c’erano tracce di Ivan. Mi consolai con il fatto che poteva essere in un altro treno, ma non ne arrivarono altri.

Tornai a casa dispiaciuta e non pranzai dicendo che mi sentivo poco bene ed in effettiera così, il mio cuore era spezzato. Mi ritirai nelle mie stanze e decisi di mandare una lettera a Ivan dicendogli che mi aveva molto offesa, visto che io ci tenevo a lui e non vedevo l’ora di incontrarlo. Nel pomeriggio feci spedire la lettera da Mary e restai nelle mie stanze a ricamare dei pizzetti per delle vesti della mia sorellina Anja. Non riuscii a dormire, pensai tutta la notte a Ivan e all’immagine della sedia vuota nella locanda. Non sapevo cosa fare durante il giorno e aspettavo la lettera di risposta, sperando che non fosse successo niente.

Verso sera andai a fare una passeggiata nel solito giardino vicino alla mia villa, mentre camminavo sentivo il frinire dei grilli e l’ultimo canto degli uccelli.Speravo solo di sentirmi chiamare da un momento all'altro da Mary per consegnarmi la lettera di Ivan, ma tutto quello che sentivo era il soffio candido del vento che mi scompigliava i capelli. Ad un certo punto mi sentii chiamare da lontano subito pensai a Mary ma poi mi resi conto che si trattava di una voce maschile. Mi girai e vidi Gabriel, il figlio dei vicini, mi stupii visto che non ci eravamo parlati dal momento in cui Ivan partì per andare in giro per il mondo. Mi ricordo che giocavamo insieme quando eravamo piccoli anche con Ivan, ma dopo il giorno della partenza io mi isolai per mesi interi nella mia villa e non ci incontrammo più da allora. Mi salutò gentilmente e io risposi con un inchino. Lui mi sorrise e mi chiese: "come statesignorina Janis?", "bene" risposi io, lui mi guardò un po' perplesso e mi disse: "da come le vedo il viso non penso che stiate tanto bene". Io non riuscii a trattenermi e visto che prima e poi dovevo sfogarmi gli raccontai tutto. Mi disse che anche a lui mancava Ivan egli sarebbe piaciuto rivederlo. Poi cominciammo a ricordarci dei bei momenti passati insieme durante la nostra infanzia. Chiacchierando non ci accorgemmo che era diventato tardi, così una volta arrivata a casa dovetti cenare di nuovo con la servitù. Quella notte riposai molto meglio rispetto alle ultime sere, Gabriel era riuscito a tirarmi su il morale e a farmi dimenticare Ivan per quel momento. La mattina dopo mi svegliò Mary dicendomi che era arrivata una lettera, me la porse e vidi che era da parte di Ivan, non avevo il coraggio di aprirla, ma lo dovetti fare se volevo sapere il motivo della sua assenza. La lettera diceva:

Cara Janis, mi scuso per la mia assenza, ma ho avuto un problema prima di partire per Rotterdam ed è di questo che ti voglio parlare in un altro appuntamento sempre al "ciliegio", questavolta il treno dovrebbe arrivare nel pomeriggio la prossima domenica.

A presto, con affetto Ivan

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Questa volta non ero preoccupata per Ivan, all'improvviso non sentivo più le sensazioni che provavo quando leggevo le sue lettere, ma ero in pensiero per quello che mi doveva dire. Quei giorni prima dell'incontro ero agitata, fino al momento in cui Gabriel una sera mi chiamò fuori per passeggiare nel giardino, mi distolsi dai miei pensieri, non so ma quel ragazzo mi faceva sentire molto felice quando ero insieme a lui. Infatti quando ci avviammo verso il parco sentivo le farfalle nello stomaco, ma ignorai quella sensazione. Gli parlai della nuova lettera, lui mi ascoltò con piacere e quando parlavo mi guardavacon i suoi occhi castano chiaro che brillavano alla mia vista. Partii con George per andare nel centro della città e come la prima volta mi avviai da sola verso la locanda, vidi che il treno era già arrivato e visto che fuori non c'era nessuno decisi di entrare dentro. Prima di aprire la porta sospirai e poi entrai, notai un piccolo tavolino vicino alla finestra dove vidi un uomo girato di spalle con un gran cappello, mi sembrava Ivan ma per essere sicura mi avvicinai. Si girò, era veramente lui, rimasi pietrificata finché lui si alzò e mi baciò la mano. Mi accomodai e mi scusai peril ritardo lui mi disse che era il treno che era arrivato in anticipo. Poi cominciò a dirmi: " cara Janis tu lo sai che io ti voglio bene ma questa cosa che sto per dirti potrebbe rattristarti. Sai che nella mia prima lettera ho detto che a Parigi mi sono trattenuto di più rispetto alle altre città ed è stato perché ho conosciuto una meravigliosa donna che ho portata con me a Berlino ed è lì che abbiamo deciso di restare per vivere insieme. Però non è stato questo il fatto che mi ha impedito di venire qui a incontrare te, ma è che ho scoperto che diventerò padre e quindi per questa meravigliosa notizia non sono riuscito a partire e non riuscirò a trattenermi più di una settimana." Ero felice per lui, non so ma ero abbastanza indifferente a quello che mi comunicò e subito sentì come un grande bisogno di dover vedere Gabriel. Non volevo però neanche sembrare scortese nei confronti di Ivan, cosi gli risposi: "Ivan, io ti voglio bene e te ne vorrò anche in futuro, anche se mi hai fatto stare tanto male il giorno della tua partenza, io volevo solo la tua felicità e sono contenta che sia riuscito a costruirti una famiglia. Mi dispiace doverti lasciare così presto ma devo andare, ti faccio tanti auguri e ti saluto con tutto il mio affetto." Dopo queste parole lui rimase sorpreso, cosa credeva che mi mettessi a piangere? Lui mi salutò e mi baciò sulla guancia dicendomi all'orecchio "Buona fortuna!". Mi avviai di corsa verso la carrozza di George che mi aspettava vicino alla piazza. Mentre mi riportava a casa mi resi conto che Ivan non era il mio uomo e che infatti la sua vera vita lo aspettava a Berlino. Chiesi a George di accostare la carrozza di fianco alla casa di Gabriel, io scesi, bussai al grande portone, e mi rispose una fantesca, domandai se poteva chiamarlo mami disse che era uscito incamminandosi verso il giardino. Mi girai verso l'immenso prato

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e lo scorsi, cominciai ad andargli incontro, pian piano che mi avvicinavo notavo che lui mi sorrideva e portava un mazzo di fiori in mano.Quando fui vicino a lui, me li porse, ci prendemmo per mano e continuammo la nostra passeggiata nel grande parco fiorito. Solo in quel momento capii che ero innamorata...

Mihaela Scurtu

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Era una bella famiglia quella di Bruno Mayer, ricco borghese arricchitosi con il commercio estero. Aveva tre bellissime figlie: Becky, Guenda e Helen. Erano molto unite e amavano la cultura, perciò chiamò degli insegnanti, potendoseli permettere, per dare loro delle lezioni private.

Becky, la più giovane, amava molto il ricamo ed era la sognatrice delle sorelle: credeva nell’amore e sperava che un conte dolce e comprensivo la portasse via per vivere insieme in un castello. Aveva lunghi capelli biondi e occhi verdi tendenti al grigio, carnagione chiara. Era la più indifesa e la più sensibile, per questo motivo era la più attaccata alle sorelle che le volevano bene e per nessuna ragione al mondo l’avrebbero fatta soffrire.

Guenda era la secondogenita e, al contrario, era forte e coraggiosa e non era facile avere la sua fiducia. Amava la musica perché credeva che fosse l’unica arte che avrebbe potuto dare sfogo ai suoi sentimenti, infatti nonostante il suo carattere forte era rimasta scioccata dalla morte della madre. Tendeva sempre ad avere qualcosa in testa,la sua carnagione era giallognola e aveva occhi scuri.

Helen, la primogenita, amava la pittura, adorava i colori e il profumo della tempera. Aveva capelli scuri e occhi verdi, era generosa, leale e sincera. Era anche la più paziente e stava molto male quando vedeva le sue sorelle litigare, anche se non parlava molto, i suoi gesti dicevano tutto.

La moglie di Bruno era una donna alta e bionda, dai modi di fare cortesi e i suoi occhi verdi avevano rapito il cuore del marito, all’epoca un uomo non molto benestante. Lei era di una famiglia borghese. Quando si sposarono ci fu una grande festa in tutto il paese. Partorì le tre figlie e poco dopo morì per cause ignote. Questo fatto cambiò i comportamenti delle figlie e del marito, che in un primo momento andò in depressione.

Era primavera quando arrivarono i maestri privati. Il sole risplendeva, gli uccellini cinguettavano e le strade si riempivano con persone di tutte le età. I bambini correvano e giocavano: era la loro stagione preferita. I tre insegnanti non si erano mai conosciuti, ma avevano avuto lo stesso maestro: Ian.

Era un uomo molto colto, parente lontano di Bruno, un bel uomo di classe, sempre elegante. Con il suo lavoro guadagnava molto, ma la cosa che gli piaceva di più era chepoteva conoscere nuova gente, che come lui, amava la cultura. Molto spesso si confrontava con i propri allievi su questioni di ogni genere: arte, musica, filosofi, scienza.

Bruno e Ian si ritrovavano spesso in un locale e, un giorno mentre discutevano, il maestro confidò al parente che stava insegnando ad una donna di classe, molto intelligente e affascinante. Quella donna poco dopo divenne la moglie di Bruno. Oltre a

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quella confidenza Ian aveva consigliato i maestri per le figlie: Rens e Karl. Becky non aveva un maestro perché aveva appreso l’arte dalla madre e dalla sua morte si era un po’ allontanata dal ricamo, poi si sapeva: nessun uomo ricamava.

Arrivati davanti alla porta della bella casa Rens e Karl si guardarono stupiti: entrambi si domandarono se avessero sbagliato casa, ma chiarirono l’equivoco e capirono che entrambi si trovavano lì per insegnare alle figlie del signor Mayer. Entrarono nella casa. Enorme, ma molto sobria e semplice. Se non fosse stato per i mobili pregiati e i vetri delle finestre lavorati, avresti giurato di essere in un casa di povera gente. Bruno Mayer raggiunse i due maestri, li salutò educatamente e li accompagnò alle rispettive alunne. Becky si trovava nella sala e stava ricamando, appena alzò lo sguardo i suoi occhi incrociarono quelli del maestro Rens e... fu amore a prima vista. I suoi occhi verdi tendenti al grigio incontrarono quelli marroni, un incontro di sguardi, racchiuso in un istante, ricco di furtive emozioni da parte di lei che si fermò un istante con gli occhi persi, innamorati.

Guenda entrò nella stanza per chiedere chi fosse arrivato e notò subito lo sguardo della sorella. Becky, a causa dell’imbarazzo, disse che non era successo nulla, ma Guenda non le diede ascolto: voleva sapere chi fosse il fortunato. La sorella minore nonseppe cosa rispondere perché intuiva solamente che il suo principe si trovava in casa sua, ma del suo nome e il motivo non sapeva. Rise, senza un motivo in particolare, forse solo per imbarazzo o forse perché aveva già la testa tra le nuvole. Era innamoratae basta, era naturale, era bello, era come un sogno, era come se fosse il suo conte misterioso… ed era in casa sua! Guenda guardava la sorella sorridere ed era felice: erada molto tempo che in quella casa mancava il sorriso ed era diventato un momento unico e bellissimo vedere un membro della famiglia ridere.

Le due sorelle sentirono delle voci provenire dallo studio. Becky disse solamente che c’erano due persone e Guenda, per capire qualcosa in più riguardo alla faccenda, si diresse verso lo studio.

< Oh Guenda! Stavamo giusto parlando di te. Lui è Rens Bauer, il tuo futuro maestro dimusica. Sai per caso dove si trova Helen? Avrei bisogno di anche di lei.>. Senza perdere un secondo in più, la ragazza corse in camera da letto per chiamare la sorella. Scesero, e insieme si recarono nella sala coi maestri e il padre. <Bene, ora ci siamo tutti. Salve, io sono Bruno Mayer e queste sono le mie figlie Guenda ed Helen. La prima ama la musica e adora andare al teatro. La seconda ama lapittura ed è molto attratta dai colori a tempera. Guenda, Helen questi sono Rens Bauer e Karl Pitscher i vostri futuri insegnanti.>

Le alunne guardarono incuriosite gli insegnanti (in particolar modo Guenda), si strinserole mani e, una volta raggiunte le rispettive stanze, iniziarono le lezioni. Furono impegnate tutto il pomeriggio con i loro maestri e ogni tanto Becky sbirciava dentro la

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stanza dove si trovava Rens, preso a insegnare come suonare il liuto. La primogenita era intenta a guardare i colori del paesaggio primaverile fuori dalla finestra con Karl: verde chiaro per l'erba appena spuntata, il giallo dei tulipani germogliati, l'azzurro chiarodel cielo senza nuvole,...

Bruno era nello studio e stava contando i soldi guadagnati dall'ultimo commercio estero.

E così passarono tutti i pomeriggi del mese di Aprile.

Agli inizi di Maggio, però delle cose iniziarono a cambiare...

Karl Pitscher e Rens Bauer erano uomini di famiglia ormai, le ragazze avevano appreso molto ed erano quasi terminate le lezioni. Becky, nel mese di Aprile, aveva finito di ricamare un lenzuolo e dei grembiuli delle sorelle e ormai il suo amore per Rens aumentava sempre più. Prima delle lezioni, quando Guenda era intenta a leggere la musica all’aria aperta, l’ultimogenita puliva attentamente la stanza dove sapeva che si sarebbe recato il suo insegnante preferito e,quando li sbirciava alla porta, osservava attentamente se Rens si accorgesse dei piccolicambiamenti fatti da lei. Per esempio, aveva messo il suo cuscino preferito sulla sedia dove di solito lui si sedeva affinché stesse più comodo. Helen aveva dipinto due quadri meravigliosi: il primo rappresentava il paesaggio visto fuori dalla finestra e il secondo invece raffigurava la loro casa vista frontalmente. Per lei era bellissimo passare tutti i pomeriggi ad osservare il mondo come se fosse la prima volta che lo vedesse, le facevaritornare in mente quando era bambina e sua madre le insegnava i vari colori. Era meraviglioso il modo in cui riusciva a rendere uniche le cose più banali, Helen aveva imparato che per un singolo colore esistevano mille sfumature una più diversa dell’altra e soprattutto, erano uniche tra loro. Amava proprio questo della pittura e il suo maestro la comprendeva benissimo. Per tutto il mese di Aprile Karl aveva insegnato come produrre quelle diverse sfumature e come utilizzarle per dipingere un quadro. Guenda ormai sapeva leggere perfettamente uno spartito e interpretare il messaggio del compositore. Nella musica sono le note a parlare e, involontariamente, la melodia ci fa cantare il suo messaggio; questo era quello che le trasmetteva la musica. Rens la stimava molto sia per l’impegno sia per la sua sensibilità sia per la sua intelligenza e ogni volta che tornava a casa pensava che spartito prepararle.

Agli inizi di Maggio pensò di scriverne uno lui, ma non uno qualunque: un concerto. Prese il suo libro di musica e iniziò a comporre: note allegre introducevano il messaggiopositivo, anche se la melodia nel complesso dava un tono un po’ malinconico, quasi d’addio. I messaggi che racchiudeva questo concerto era fondamentalmente due: l’amore che fa sentire allegre le persone e il triste suono dell’imminente separazione. Verso la metà di maggio l’aveva finito, decise però di non scrivere la fine: avrebbe deciso insieme a Guenda se darle un tono allegro oppure malinconico.

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Fine di Maggio: ultimissime lezioni. Karl Pischer e Rens Bauer erano in splendida forma e avevano un’aria contenta. La fine della primavera annunciava l’inizio dell’estate calda e piena di spensieratezza. Come di consueto salutarono calorosamente il signor Mayer e ognuno si recò verso le rispettive stanze. I due insegnanti avevano già pensatoche quelle ultime lezioni sarebbero dovute essere le migliori in assoluto. Karl voleva cheHelen dipingesse qualsiasi cosa fosse per lei fonte di ispirazione. Rens aveva in mente di scrivere quel concerto insieme a Guenda.

Helen nella stanza iniziava a pensare a mille cose da dipingere:< Avere la possibilità di dipingere ciò che più mi ispira…domanda difficile. Tutti i colori sono belli, la natura stessa riesce a sorprendermi…tra un po’ le lezioni finiranno e non avrò più la possibilità di avere un maestro disposto a consigliarmi ed ad aiutarmi…Idea! Dipingerò le mie sorelle con nostro padre e i due insegnanti. Fantastico! Ora vado giù ad informare Guenda e Becky!>

Nello stesso tempo Guenda era totalmente presa dallo spartito che si ritrovava da leggere. < Le prime note sono molto allegre, quindi il messaggio sembra positivo o almeno il sentimento lo dovrebbe essere…Queste note sono molto diverse rispetto alla precedenti, danno un tono malinconico…quasi fossero note…d’addio! Sì, sembrano note d’addio! Finisce così lo spartito? Sembra che sia stato interrotto…è come se dovessero esserci altre note…>< Qual è il messaggio che vuole trasmettere?>< Un messaggio triste credo…come se il compositore avesse perso una persona a lui cara.>< Forse non l’ha persa, forse la sta perdendo.>< Maestro, chi è il compositore?>< Sono io.>

Detto questo si alzò dal tavolo e si mise di fianco a lei e le porse una lettera che spiegava le intenzioni di Rens. Voleva sposarla e se lei avesse accettato quel concerto avrebbe avuto un finale allegro, in caso contrario il tono sarebbe stato più malinconico anche nella parte finale. Guenda non fece in tempo a dire una sola parola che Helen aveva aperto la porta.

Rens era rossissimo in faccia e lei aveva visto molte sfumature di quel colore e avrebbe giurato che si trattasse di vergogna e imbarazzo. La sorella non lasciava vedere alcun tipo di emozioni: era scioccata, quello sì, ma il sentimento che provava perRens non era rappresentato nell’espressione del suo volto. Con un gesto istintivo la primogenita chiuse la porta e andò da Becky, mostrandosi il più neutrale possibile.

La sorellina aveva sentito il rumore della porta e chiese cosa fosse stato. La risposta fu niente era solo la corrente. Guenda intanto le raggiunse preoccupata pensando che Helen avesse informato Becky su cosa aveva visto poco prima, ma vide la piccola

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sorella onorata di poter essere ritratta in un quadro e capì che la sorella non aveva detto nulla. Insieme prepararono il salotto (stanza dove Helen ritrasse la famiglia) e i due pittori sistemarono la postazione del cavalletto e della tela per la pittura. La pittrice però decise di escludere una persona dal ritratto: Rens. L’immagine di lui e sua sorella era impressa nella sua testa.

Bruno decise che le lezioni sarebbero terminate alla fine del quadro affinché Karl potesse renderlo un vero e proprio ritratto di famiglia. I giorni passavano e Guenda non sapeva che fare: a lei piaceva Rens, ma non avrebbe mai fatto soffrire sua sorella per nessuna ragione al mondo.

In quei giorni si chiuse in sé stessa e usciva solo per farsi ritrarre. Pur di non vedere Rens diceva di avere un terribile mal di testa e si chiudeva nella sua stanza.

Helen iniziò a dubitare che fosse successo qualcosa tra lei e il suo maestro e di nascosto, posseduta dal dubbio e dalla rabbia, iniziò a dipingere quella scena che tanto la preoccupava. Dipingere due quadri contemporaneamente era una cosa che solo i migliori pittori riuscivano a fare, ma in quel momento non le passò di mente. Dipingeva giorno e notte mentre controllava Guenda di nascosto.

Becky non ci mise molto a capire che c’era qualcosa che non andava e iniziò a preoccuparsi: pensava che sua sorella fosse gravemente ammalata.

Rens capì che lui era il problema e decise di smettere di insegnare a Guenda. Venutoa sapere di ciò, lei cominciò ad uscire e iniziò a stare meglio: da allora tutti capirono chestava male per lui.

Becky rimase molto turbata e chiese a Helen se sapesse qualcosa, quest’ultima a causa della sua sincerità le confidò ciò che aveva visto e le fece vedere il quadro che stava dipingendo di nascosto. Becky non poteva crederci: sua sorella le aveva rubato il suo amore. Calò il silenzio nella famiglia Mayer e quando Helen finì di dipingere il quadro, nessuno era contento o felice. Solo silenzio. Tristezza. Bruno, un bel giorno di Luglio, si ritrovò con Ian al solito locale per ringraziarlo di avergli consigliato quei maestri, ma…chiese maggiori informazioni su Rens Bauer.

Era un uomo sulla trentina, figlio unico di famiglia borghese. La cosa che più sconvolse Bruno era che Rens aveva due figli ed era felicemente sposato.

Le tre sorelle lo vennero a sapere la sera stessa, mentre Helen stava mostrando il suo quadro dipinto di nascosto. Guenda era scioccata forse quanto Becky ed Helen era disgustata forse quanto suo padre. E così quella sera del 15 Luglio Becky, Guenda ed Helen giurarono una cosa: mai fidarsi degli sconosciuti e mai preferire un uomo ad una sorella.

Come chiamare quel quadro che le ha rese così unite? Concerto interrotto, perché non si saprà mai com’è il suo finale: come la vita. Inizia spensierata con l’infanzia e man

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mano che si cresce assume un tono più malinconico, però solo noi possiamo decidere che melodia avrà la parte finale: allegra o malinconica?

Chiara Moretti

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Era la sera del mio sedicesimo compleanno quando ricevetti la notizia che cambiò completamente la mia vita.

Era una serata talmente nebbiosa che sembrava non esserci nulla oltre il cancello della villa in cui si stava svolgendo la grande festa in maschera organizzata in mio onore. Non era una novità: essendo il loro unico figlio, i miei genitori avrebbero fatto qualsiasi cosa per rendermi felice. Anche se confesso che mi sentivo piuttosto disorientato: era un continuo viavai di persone che mi porgevano auguri e regali, persone che nemmeno riconoscevo, mascherati come erano… Di lì a poco sentii che l’aria e la pazienza mi stavano abbandonando, così decisi di uscire a rinfrescarmi sul balcone. Non mi preoccupai nemmeno di chiudere la porta-finestra dietro di me, così non mi accorsi che una strana persona si era avvicinata nel frattempo. Indossava quello che probabilmente doveva essere stato un abito da sposa, ma ora appariva rovinato e impolverato, e aveva il volto coperto da un velo bianco che era fatto più di ragnatele che altro. Senza dire una parola, mi porse un brandello di stoffa, dopodiché scavalcò il balcone e saltò giù. Subito mi sporsi per vedere dove era finita, ma la spessa cortina di nebbia mi impediva di vedere più in là del mio naso.Rientrai nella sala. "Meno male che ti ho trovato. Vieni, è il momento di tagliare la torta!"disse con aria trionfale mia madre, sospingendomi verso il centro della sala. In quel momento un servo entrò nella sala spingendo un carrello, su cui stava la torta più grande che avessi mai visto: un gigante di sedici piani, ricoperto di panna e impreziositoda un ritratto in cioccolato di me stesso sulla sommità.Il servo mi porse un coltello d’oro, e con un sorriso a trentadue denti mi invitò a tagliare la prima fetta. Ma inavvertitamente il pezzo di stoffa scivolò dalla tasca del mio gilet e cadde a terra. Vidi mia madre impallidire, sembrò vacillare per un attimo…. Poi cadde inavanti, atterrando di faccia sulla torta con un sonoro SPLAF. Soltanto dopo che mio padre ebbe fatto uscire tutti gli invitati e mia madre si fu ripulitala faccia dalla panna potei rientrare nel salone."Dove hai preso quello straccio?" chiese mio padre. Sembrava piuttosto arrabbiato."Me lo ha dato una persona mentre ero sul balcone." Cercavo di rimanere sul vago, perché non sapevo come avrebbe reagito. "Però è scappata via subito dopo, non l’ho più vista… Non ho idea di chi sia, aveva il viso nascosto… Ma posso sapere perché è così importante?"A questo punto tirò fuori dalla giacca un altro brandello di stoffa, più grande del mio ma con lo stesso, identico disegno. "Questa è la coperta che avevi quando ti abbiamo trovato."Ero senza parole.Mio padre mi invitò a sedermi, poi iniziò. "… Successe tutto esattamente quindici anni fa. Nel bel mezzo della notte io e tua madre venimmo svegliati da uno strillo acutissimo e, quando aprimmo la porta per vedere chi fosse, ti trovammo avvolto in quel cencio,

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che urlavi come un indemoniato… Devi sapere che noi non potevamo avere figli nostri, quindi decidemmo di crescerti come nostro unico erede, e di non rivelarti nulla su tutto questo… Avevamo paura che potesse farti dubitare del bene che ti vogliamo… So che ti sembra difficile da credere, ma sappi che se le cose fossero andate diversamente ti avremmo tenuto lo stesso".Detto questo, si allontanò. Mia madre mi porse una fetta di torta e lo seguì."…Tanti auguri a me…" mormorai, mentre davo un morso alla mia testa di cioccolato. I giorni seguenti trascorsero a fatica: io avevo ripreso la mia vita di tutti i giorni, ma eracome se dentro non avessi più niente, come se fossi morto. Non odiavo i miei genitori per il loro gesto, in fondo che colpa ne avevano loro? Ma più il tempo passava, più sentivo che mi mancava qualcosa. Così qualche tempo dopo decisi che avrei ritrovato il luogo da dove venivo.Ovviamente non raccontai niente di tutto questo ai miei genitori: lasciai soltanto una lettera in cui dicevo che ero partito e che volevo restare solo per un po’, e di non cercarmi: sapevo che avrebbero capito. Partii di buon mattino. Iniziai a vagare per le vie della città, e non sapevo neanche io dove avessi intenzione di andare. Ad un tratto mi sentii molto stupido, tanto più che ero finito in un quartiere piuttosto malfamato, e un rampollo come me sarebbe stato una preda facile. Iniziai a sudare freddo.Fortunatamente vidi un negozio in fondo alla strada e mi ci fiondai; se c’erano degli altri clienti, difficilmente avrebbero potuto farmi del male. Appena entrai mi accorsi che in realtà non era altro che una stanzetta stipata di tessuti all’inverosimile, ma nonostante le dimensioni modeste questi erano i più belli che avessi mai visto.Qualche minuto dopo un anziano signore dalla pelle scura e coperto di rughe mi si avvicinò e mi chiese di cosa avessi bisogno.Possibile che non ci avessi pensato prima? Con il cuore in gola, io gli mostrai il brandello e gli chiesi se per caso avesse venduto in passato quella stoffa.Lui mi rispose: "Certamente! Qualche anno fa era uno dei più richiesti. Ho venduto questo tessuto a talmente tante persone che non so dirti precisamente a chi… Aspetta, ora che ci penso, una donna che abita nel palazzo di fronte, la signora Ellen… Mi stupii molto quando lo comprò, non credevo che potesse permetterselo".Riuscii a malapena a balbettare un "Grazie mille" e mi fiondai fuori. Speravo con tutto il cuore che fosse chi credevo. Quasi mi ruppi il collo mentre salivo le scale. DOVEVA essere lei.Finalmente ero davanti alla sua porta. Bussai tre volte con la testa che quasi mi scoppiava.La donna che si affacciò mi fissò per un attimo negli occhi, poi guardò il pezzo di stoffa…E senza dire una parola, mi tirò dentro.Solo quando ebbe chiuso la porta a chiave mi rivolse la parola. "Finalmente posso rivederti. Credevo che non ti avrebbero permesso di raggiungermi" Era molto più

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giovane di quanto mi era sembrato la prima volta che l’avevo vista, e aveva le lacrime agli occhi. Poi mi chiese "Posso abbracciarti?"Io scoppiai a piangere e mi buttai tra le sue braccia. Sembrava che non avessi mai provato una gioia simile prima.Rimanemmo abbracciati per un tempo che mi sembrò infinito. Quando smisi di piangeree mi staccai da lei, però, capii che c’era qualcosa che non quadrava. Era meglio chiariretutto, e subito."Aspetta! Perché ci tenevi così tanto a ritrovarmi, se hai fatto quello che hai fatto?"Lei non rispose, e io mi sentii subito peggio."Capisco… Ti sei assicurata che chi mi avrebbe trovato sarebbe stato disposto a pagartiuna vita più decente. Non è così?"Dovevo aver colpito nel segno, infatti il suo viso si oscurò. Mi fece segno di seguirla in cucina.Mi ero sbagliato un’altra volta. Infatti la stanza era arredata con uno sfarzo che non aveva niente a che fare con il luogo in cui si trovava. Ci sedemmo, e mentre mi versava del vino in dei bicchieri di cristallo, iniziò a raccontare:"Come vedi non desidero niente di quello che io non abbia già… A parte te.Dopo la mia incursione alla festa, immagino che tuo padre ti abbia raccontato di come tiaveva trovato…"Non riuscivo a capire dove volesse andare a parare. "…Non è andata così?""In realtà sì, è andata così, ma c’è dell’altro…"La sua faccia si irrigidì."Qualche anno fa lavoravo come domestica nella villa che ora è dei tuoi genitori, e lì conobbi tuo padre. In breve iniziammo a frequentarci, ma tutto finì quando lui dovette sposare una ragazza di nobili origini. Qualche tempo dopo però tornò da me dicendomi che ero l’unica di cui fosse innamorato. Solo quando gli annunciai che aspettavo un bambino capii. Mi fece allontanare immediatamente dalla villa e mi mandò qui, in un appartamento che lui stesso aveva predisposto; ero sorvegliata giorno e notte e non mi era permesso di uscire…"Ancora una volta ero senza parole."… e fu così fino al giorno in cui nascesti. I miei sorveglianti mi mettevano fretta, ma dovevo trovare un modo per cui ti potessi ricordare di me. Così strappai un pezzo di quella tovaglia e ti ci avvolsi. Da lì in poi non ebbi più tue notizie, e continuai a vivere quicon il denaro che tuo padre mi mandava per paura che potessi rifarmi viva".Guardai la tovaglia stesa sul tavolo, vistosamente strappata su un lato. Non potevo crederci.Quella sensazione di vuoto che opprimeva il mio cuore fino a pochi minuti prima aveva lasciato il posto a una nuvola di pensieri confusi, e il temporale non sarebbe tardato ad arrivare.

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Come aveva potuto mio padre compiere un gesto senza scrupoli come quello, proprio lui che veniva reputato da tutti un uomo dal cuore d’oro, e non aveva mai dato loro modo di ricredersi?Ora il mio unico desiderio era di distruggere lui e qualsiasi cosa fosse dalla sua parte. Ela donna che mi stava davanti doveva averlo intuito."Per favore, dimmi che non farai quello che penso…""Se intendi dire perdonarlo no, non lo farò" E me ne andai.Non mi preoccupai neanche di chiudere la porta. Avevo troppe cose a cui pensare.Organizzai tutto da solo.Non fu facile, dovetti mentire e corrompere con ogni mezzo gente di ogni tipo, ma alla fine riuscii a organizzare tutto in tempo per il compleanno di mio padre.Ormai mancavano poche ore alla festa. Finalmente arrivò il pittore; era l’unico che aveva accettato di aiutarmi senza niente in cambio, anzi si era offerto di badare a mia madre mentre preparava la "sorpresa", e io gliene ero infinitamente grato. Avevo il terrore che scoprissero tutto nonostante i miei metodi molto "persuasivi", ed ero comprensibilmente sollevato nel vederlo."Sei sicuro di non voler rimanere?" gli domandai mentre lui mi porgeva la tela."No, grazie. Mi hanno commissionato un altro quadro, e ho poco tempo a disposizione per finirlo…"Decisamente fu meglio così. Quello che sarebbe accaduto dopo mi lascia ancora senzafiato. Qualche ora dopo arrivò la carrozza di mio padre. Avevo fatto in modo che gli impegnidel giorno gli permettessero di arrivare alla festa solo nel primo pomeriggio. Due servi loaiutarono a scendere, e lui corse subito ad abbracciarmi. “Buongiorno, figliolo! Sono davvero senza parole, non mi aspettavo che sarebbe stata una festa così sfarzosa… Ah, non esiste gioia più grande per un genitore del vedere il figlio ricordarsi del suo vecchio!”Risposi al suo abbraccio con la freddezza di un blocco di ghiaccio. Potevano anche passare i suoi discorsi stucchevoli, ma ne avevo abbastanza di fingere di essere il bravo figliolo.“L’unica cosa che non capisco è perché tu abbia invitato tutti questi sconosciuti…”“Sono delle persone che ho incontrato durante il mio viaggio, ma non preoccuparti: stasera, a cena, ho organizzato un ballo con tutti i nostri amici di famiglia… Ah, perdonami, ora devo andare a controllare le cucine…”Corsi a chiamare i miei “conoscenti” e li feci accomodare nel salone, pregandoli di fare attenzione e tenersi pronti. Quando vidi uno spadone spuntare da sotto il mantello di uno degli invitati trasalii: “Credevo di avere invitato persone di un certo livello! Guardie, fatelo uscire!”Lui oppose resistenza, ma tra calci e pugni le guardie lo trascinarono via.Santo cielo, volevo un lavoro pulito!

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Detto questo, ordinai che portassero la torta. Il solito servo con il carrello entrò nella sala e gli occhi di tutti i presenti si spalancarono per la sorpresa: avevo commissionato al pasticciere più famoso in città un dolce ancora più meraviglioso di quello che avevano servito alla mia festa. Mio padre allungò una mano per afferrare il coltello, ma io lo fermai: “Aspetta! Prima voglio che tu veda il mio regalo.”A questo punto mi diressi verso il fondo della sala. Ormai era troppo tardi per tornare indietro, ma mentre camminavo sentivo come se i miei piedi volessero prendere un’altradirezione. Vacillavo, credo di essere stato sul punto di tornare indietro, anche se dovevofare solo pochi passi. Ma poi mi ricordai che stavo facendo tutto questo per mia madre.Lentamente tolsi il drappo che copriva la tela.Era la prima volta che vedevo il lavoro finito, quindi rimasi davvero strabiliato alla vista di tutti quei particolari.I bicchieri di cristallo sul tavolo, la tovaglia, le pieghe del vestito… E la porta aperta dietro di lei. Poi mi voltai verso la folla. Tutti rimasero in silenzio per un attimo, poi iniziarono ad applaudire e chiedere chi mai fosse l’autore. Mio padre era l’unico immobile in tutta la stanza. Aveva capito. Lo fissai negli occhi e quello che vidi era terrore puro.Mi avvicinai a lui. Lo abbracciai più forte che potevo, e gli dissi: “Non mi hai lasciato scelta”. Poi gli infilai nella tasca il brandello di stoffa che aveva dato origine a tutto, e midiressi verso l’uscita.Quello era il segnale.Feci appena in tempo a sentire lo stridere delle spade che venivano estratte dal fodero e il rumore della folla che si faceva da parte, prima di salire sulla carrozza che ci avrebbe portati alla nostra nuova casa. Sono passati tanti anni da allora…Finalmente sono riuscito a dare a mia madre la vita che desiderava; non ha mai chiesto di sapere nulla, e io gliene sono grato. Però, anche se dopo la misteriosa morte di mio padre non ho avuto molti problemi, mi sento ancora come se fossi uscito da quella porta.E il quadro, l’unica cosa che sono riuscito a recuperare della mia vecchia vita, è semprelì per ricordarmelo.

Miriam Calzolari

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19 – Un nuovo inizio

Johannes Jan Vermeer - La donna con brocca d ’ acqua

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Aveva pochi soldi, per questo accettò di lasciar partire il marito verso l’Olanda per vendere quel poco di stoffa e di tessuti che ancora possedevano. Era partito a dicembree sarebbe tornato il giorno della Vigilia di Natale.

Prima di partire lasciò alla moglie una somma di denaro, e nel giorno della sua partenza regalò alla moglie un fantastico abito blu con eleganti decorazioni in oro. Il giorno in cui Corinne ricevette quel vestito rimase senza parole: non era mai stata così sorpresa da un regalo. Così il marito la salutò e si diresse verso il porto della città per partire. Corinne rimase sola a casa e ogni tanto tanto andava a trovare la sua amica Marie. Era una donna forte che non si arrendeva mai davanti agli ostacoli che la vita le presenta.

Quando vide che mancava circa una settimana all’arrivo del marito, si diede da fare ed incominciò a riordinare e a preparare per bene la piccola casetta.

Il giorno in cui doveva ritornare il marito , non si presentò nessuno. Corinne si disperò e andò subito ad avvertire la sua amica Marie del ritardo del marito.

Decisero così di aspettare altri due o tre giorni in speranza che il marito tornasse. Purtroppo passarono più di due mesi e nessuno mai ebbe qualche notizia del marito. Un pomeriggio di marzo la signorina Corinne ricevette una lettera scritta dall’amico del marito. Si sedette sulla poltrona del salotto e la lesse con calma.

La lettera diceva che il marito di Corinne, purtroppo morì durante il suo lavoro da commercialista. Corinne dopo aver letto la lettera scoppiò a piangere e corse ad avvertire la sua giovane amica Marie, che fece di tutto per cercare di tranquillizzarla. Corinne, però, si sentiva in colpa per aver lasciato il marito partire, ma la giovane Marie cercò in tutti i modi di calmarla.

Dopo un mese circa Corinne riprese la sua vita tranquilla e intanto la generosa Marie le trovò un lavoro in un negozio di sartoria in cui Corinne doveva aiutare la proprietaria a riordinare i vestiti e la stoffa. Così, alla fine, anche lei trovò lavoro e già dopo la morte del marito capì che doveva rialzarsi con maggiore forza per vivere la sua vita in pace.

Una sera, Marie, la invitò a cena Corinne e le disse che le avrebbe presentato una persona. Corinne accettò l’invito e e si preparò con calma e decise di indossare l’abito che le regalò il marito.

Una volta si diresse verso la casa di Marie in cui trovò un giovane uomo seduto sulla poltrona del salotto. Marie presentò Corinne all’uomo e durante tutta la serata i due si scambiavano dolci sguardi. Ogni tanto uscivano di sera e un giorno il giovane uomo le chiese la mano e lei accettò. Le nozze si celebrarono con grande gioia e amore e in questo modo Corinne poté iniziare di nuovo la sua vita con una persona al suo fianco, in grado di aiutarla nei momenti di difficoltà.

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Hajar Ezzaki

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Nell’affollata città di New York c’era un importante uomo d’affari che viveva in un appartamento lussuoso all’ultimo piano, con tanto di piscina, vista panoramica e un piccolo giardinetto sulla terrazza. Eh beh, cos’altro ci si poteva aspettare da un uomo così importante? La sua vita non era tutta rose e fiori: la moglie lo lasciò solo con una bambina piccolissima da crescere con fatica perché sempre soffocato dal lavoro e la affidava per tutto il giorno ad una babysitter anziana che finiva per poltrire sul divano, mummificandosi davanti alla televisione al plasma e addormentandosi di conseguenza, russava decisamente forte! Lasciava la piccola Keily vagabondare per l’appartamento.

Keily aveva solamente quattro anni, dei lunghi capelli biondi, i suoi occhi erano di un azzurro ghiaccio, sempre sorridente e fantasiosa. Era la tipica bambina viziata di città che viveva nel benestare: abiti ad alta moda e ogni settimana un paio di scarpette nuove di Armani. Non le mancava nulla, aveva tutto quello che un bambino potesse desiderare al solo schiocco delle dita.

Quel lunedì iniziò come una normale giornata. Il padre uscì presto da casa per andareal lavoro, la tata arrivò e svegliò la bambina, fecero colazione con pancake al miele e unbicchiere d’arancia.

Dopo la colazione andò in camera a giocare sul letto.

Aveva una stanza molto grande, con un letto a baldacchino, una scrivania di legno pregiato, una cabina armadio traboccante di vestiti e due quadri: uno al di sopra del letto e uno di fianco alla scrivania.

Alzò lo sguardo perché sentiva come se una presenza stesse cercando di attirare la sua attenzione, buttò subito lo sguardo sul quadro sopra il letto. Una ragazzina dallo sguardo misterioso e inquietante e gli occhi neri come l'oscurità, dove si nascondevano i demoni più perfidi, la stava guardando. Sbatté le ciglia e la bambina balzò sul letto e, stupita, rimase a fissarla per assicurarsi che non fosse stato frutto della sua fantasia. Laragazza del quadro le sorrise e bambina lo ricambiò.

-Mi chiamo Marion- disse il quadro.

-Tu parli?!

-Certo che parlo, proprio come fai tu.

Keily si avvicinò usando il cuscino come scudo.

-Non avere paura. Stai giocando con le bambole vedo, magari avessi potuto giocarci anch'io.

-perché non ci hai mai giocato?- chiese con quella vocina tra stupore e diffidenza.-perché vedi, piccola, ai miei tempi le persone povere non potevano permettersi di

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prendere delle bambole. Noi alla tua età iniziavamo a fare lavoretti in casa, mentre i padri erano fuori a lavorare per i padroni. Io li chiamavo angeli, tutte quelle persone ricche, graziate dalla bella vita, la cui la tavola a cena strabordava di leccornie.

-Leccornie?- chiese la bambina divertita.

-Le leccornie sono cibi molto buoni, che non smetteresti mai di mangiare.

-E tu, Marion, facevi parte di quegli angeli?

-No... vedi cara Keily, al di sotto degli angeli vivevano i demoni: quella gente che, per sopravvivere, derubava gli angeli, anche solo lavorando. Io ero tra loro. Rubavo qualchegallina, ingannavo i loro figli e loro non se ne accorgevano. Ci provavo quasi gusto, ma quando divenni grande mi accorsi che, in realtà, noi eravamo gli angeli. Eravamo come Robin Hood, sai quel libro che leggevi l'altro giorno? Ecco, noi facevamo come lui: rubavamo ai ricchi per dare a noi poveri, per sopravvivere, nemmeno per vivere. Gli angeli, in verità, erano demoni che facevano qualsiasi cosa per arricchirsi. Quelli sì che erano demoni, come lo sceriffo di Notthingham.

Mentre stava raccontando, gli occhi le si riempivano di lacrime, ma continuava lo stesso, come se fosse stata l'unica persona con cui aveva parlato nella sua vita.

Le raccontò di un angelo pittore, che la usò soltanto per il suo scopo artistico. L'aveva ingannata, illudendola di essersi innamorato di lei, ma al termine del quadro la lasciò e se ne andò.

A Marion scese una lacrima. Keily, dolcemente, le porse un fazzoletto, con il quale si asciugò e le chiese scusa.

-Era davvero brutta la vita a quel tempo! Quindi, io sarei un demone insieme a papà?

-Adesso le cose sono cambiate. Vedi, tuo padre è un demone, ma ora come ora non si può mai distinguere veramente un demone da uno che viene classificato solo per ciò che è costretto a fare dalla società. Ma non te ne devi preoccupare, pensa che fuori splende il sole.

La piccola Keily annuì e gettò lo sguardo ai raggi caldi che entravano dalla finestra. Quando si volse verso Marion, lei era tornata immobile. Le sorrise e corse fuori dalla stanza.

Cindy Berti

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Succede tutto all’improvviso. Non c’era bisogno di far capire quanto fossi turbata il quel momento, nessuno poteva capirmi.Scendevo dalle scale, ero talmente tanto stanca dopo la lezione pomeridiana di matematica che a mal la pena riuscivo a tenere aperti gli occhi. Ero anche infastidita da quel vestito che mi stringeva la schiena, se mi fossi piegata probabilmente si sarebbe tutto scucito. Avevo i capelli raccolti in uno chignon e appena un velo di rossetto sulle labbra. Le scarpe che indossavo erano quelle nuove che mi aveva comprato la mammaapposta per questa serata e anche se non mi piacevano decisi di indossarle. Era una delle solite feste, quelle che organizzavano i miei genitori nella speranza di farmi conoscere qualche buon uomo, uno che però sarebbe dovuto piacere principalmente a loro, senza conoscere il mio parere.Come tutte le feste era stato invitato lo zio Hullis, che per carattere penso che sia l’unico che sia uguale a me in famiglia. Mi ha sempre raccontato fin da quando ero piccola storie di fantasia, storie d’amore e solo ora cominciava a raccontarmi storie serie, dato che ero cresciuta. Mi faceva conoscere sempre cose nuove ogni volta che civedevamo parlandomi di aspetti della vita che nemmeno immaginavo. Stava per cominciare a parlarmi di una delle sue tante esperienze, che anche se possono essere banali per me non lo erano dato che ero sempre chiusa in casa e ciò che mi raccontava era il mio unico modo di svago, quando improvvisamente un giovaneragazzo si postò al centro della sala e cominciò a suonare una bellissima melodia con uno strano strumento che mio zio mi disse che si chiamava “liuto”. Aveva un modo di suonare che era incantevole, ma si notava subito che non era di nobile famiglia. Un ospite mi spiegò che era un giovane ragazzo che per guadagnare qualche soldo girava di palazzo in palazzo suonando con il suo strumento. Sembrava un po’ imbarazzato e quando suonava non si azzardava ad alzare lo sguardo. Riuscii a mal la pena a intravedere il suo viso, davvero bellissimo. La stanza si era illuminata al suono di quella melodia, tutta la gente che era intenta a mangiare intorno alla tavola si era girata per vedere chi fosse colui che stava suonando. Proprio mentre mi facevo cullare da quella melodia la voce di mia madre che mi chiamava mi distrasse. Mi prese per una mano e mi portò da un suo vecchio amico. Era un duca di una terra non molto lontana da noi al quale sarebbe piaciuto conoscermi perché sarei stata perfetta per suo figlio. Odiavo miamadre quando si comportava in quel modo. Non ero una che si faceva affascinare dai soldi, non me ne importava nulla. Quando finalmente anche l’ultimo ospite se ne era andato mi prese da parte nel suo studio e mi parlò dicendo:“Figlia, ormai sei grande per capire certe cose. Il tuo atteggiamento di stasera quando ti ho fatto conoscere il duca non mi è affatto piaciuto, tanto meno al duca Marchesi. Ahimè lui è molto più potente e ricco di noi e dato che io non voglio ritrovarmi a cucire come una poveretta tra qualche anno, tu sposerai suo figlio”. Tra tutti i mali che mia

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mamma mi aveva provocato quello che mi disse quella sera penso che sia stato il peggiore. Non ebbi una reazione precisa, perché tanto non sarebbe cambiato nulla, quello che decideva lei in casa era legge. Corsi in camera e cominciai a piangere, comeuna bambina. Come quando non mi faceva mai uscire da piccola a giocare con gli altri perché diceva che noi eravamo troppo superiori. Non è una madre una persona che si comportava in quel modo, chissà com’è una vera madre pensai, chissà com’è dare tuttol’amore del mondo a una persona. Lei di sicuro non lo sapeva.Cercai di addormentarmi senza pensarci, ma come potevo. Avevo troppa paura, paura di quello che mi sarebbe aspettato. Sarei voluta scappare, scappare da tutti i miei problemi. E dato che ero piccola per affrontare una situazione del genere mi parve l’unica soluzione. E così, in una notte fredda e buia, quando si vede a mal la pena la luce della luna, cominciai a preparare una borsa, che presi dalla soffitta. Mi cambiai in fretta e furia, senza fiatare e senza fare rumore. Ero come impazzita, ma mi sembrava l’unica soluzione. Non avevo alcuna intenzione di sopportare una cosa del genere. Presi un po’ di vestiti e un po’ da mangiare, non avevo idea di dove andare, sentivo soloche dovevo farlo. E come un ladro, aprii lentamente la porta di casa e riuscii a scappare. Mi lasciavo alle spalle la meravigliosa casa dove ero nata e cresciuta, la quale mi piaceva solo esteticamente, perché al suo interno per come venivo trattata non potevo considerarla casa mia. Avevo solo 15 anni e quella notte presi la scelta più giusta della mia vita, non sapevo cosa mi sarebbe aspettato. Scavalcato il cancello sorrisi. Finalmente ero libera, finalmente potevo fare quello che non avevo mai fatto. Non ebbi ripensamenti ,non mi importava di nulla, volevo solo scappare. Volevo vivere un’esperienza come quelle che mi raccontava lo zio. Il cielo si era schiarito e riuscivo a vedere le stelle. Non ero molto lontana dal centro, però non dovevo farmi vedere, ero sicura che mi avrebbero riconosciuta. Passai vicino al parco dove vedevo dalla finestra i bambini giocare e solo ora capivo cosa mi ero persa. La libertà. E come un bambino che scopre un nuovo gioco, io mi divertivo a girare per i parchi, per le strade, con la consapevolezza che avrei potuto fare quello chevolevo. Mi sdraiai su un prato, appena sotto un albero e cominciai a dormire, sperando che quello non fosse stato solo un sogno. La luce del sole mi scaldava la pelle, il rosso delle mele dell’albero appena sopra mi fece capire dov’ero. Non era un sogno, era la pura realtà. Chissà cosa avrebbero pensato a palazzo dopo la mia scomparsa, sarei stata curiosa di vedere la faccia di mia madre e di mio padre. Nessuno si sarebbe mai aspettato una cosa del genere da me, dato che mi hanno sempre considerata una ragazza tranquilla e con la testa a posto. Ma ora non avevo tempo per pensare, dovevo capire cosa fare. Mi alzai e mi accorsi che il mio vestito era tutto rovinato, avevo fame e sete, quindi decisi di incamminarmi verso il paese, e dato che non molto lontano da me c’era una strada decisi di proseguirla. Scorsi subito le case, la gente e cominciai a sentire gli odori della città. Vi

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era un tanfo pazzesco, mi ritrovai nel bel mezzo del mercato, tra urla di bambini che giocavano e donne che cercavano di barattare qualche vestito per un po’ di carne. Erano tutti mal ridotti e dato che dovevo entrare nella parte presi un po’ di terra e cominciai a macchiare il vestito che indossavo. Nessuno doveva accorgersi da dove venivo. Improvvisamente lo risentii. Risentii quella melodia che aveva accompagnato i racconti di mio zio la sera precedente. La riascoltai e mi sembrò di rinascere. Era ancora il ragazzo dell’altra sera, era sempre lui. Si era posizionato giusto accanto alla piccola porta di una casetta e suonava. Si dedicava a ciò che probabilmente sapeva fare meglio, forse era il suo unico e vero modo di esprimersi. E nel mentre in cui lo ascoltavomi accorsi che davanti a me c’era un banco di frutta e feci per prendere una mela rossa che era sul bancone, quando improvvisamente il banchiere mi afferrò le mani e mi minaccio:” Cosa avevi intenzione di fare eh? Disgraziata, aspetta solo che scopra chi sei e……” Non face in tempo a finire la frase.Si cominciarono a far spazio tra la folla degli uomini sui cavalli. Dovevo andarmene. Li aveva sicuramente chiamati mia madre nella speranza di ritrovarmi. E mentre la folla si accerchiava intorno ai cavalieri per sapere che messaggio avessero, io cominciai pian piano ad indietreggiare, cercando di non farmi notare. Ma qualcuno mi notò. Sentii una mano stringermi sulla bocca e quindi non lasciandomi nemmeno la possibilità di urlare. Pensavo di essere stata scoperta, era la fine oppure pensai che qualcuno mi volesse rapire perché forse aveva capito chi ero. Mi lasciai trascinare in un angolo della strada dove non girava nessuno. Dopodiché mi lasciò. Mi girai di scatto per capire chi fosse. Era il ragazzo che suonava il liuto. Rimassi per un attimo perplessa e spaventata. Tentai una fuga ma lui mi placò dicendomi: “Non ti conviene scappare, laggiù è piano diguardie. Ti ho riconosciuta e non ti farò del male, vorrei solo sapere perché sei qui”. E iovelocemente risposi:”Promettimi che non mi farai del male e che mi aiuterai a scappare”e lui me lo promise dicendomi: “una promessa è una promessa”. Gli confidai tutto e lui come promesso mi aiutò. Anche se suo padre non era molto d’accordo mi diede rifugio nella piccola soffitta di casa sua. Chiaramente non era il massimo della comodità, ma no mi importava, finalmente mi sentivo bene. Avevo finalmente trovato un amico che mi aiutava e con il quale potevo confidarmi. Non sarei mai e poi mai potuta stare meglio e la mia vecchia vita non mi mancava affatto. Ci piaceva correre nei boschi e arrampicarcisugli alberi. Avevamo trovato anche un albero perfetto dove poterci mettere comodi e dove raccontarci tutto quello che ci pareva senza che nessuno ci sentisse. Il padre del mio nuovo amico guadagnava il giusto per riuscire a sfamare lui e suo figlio e dato che ora c’ero anche io a me pensava lui. Quando andava a suonare per le piazze guadagnava un po’ di monete che lasciava apposta per me. Fino a quando decisi di cominciare a dare il mio contributo anche io, magari cominciando a suonare uno strumento proprio come faceva lui. La mattina lui usciva per fare i suoi giri e io stavo in casa per mettere a posto, ma poi al pomeriggio ci occupavamo della mia istruzione. Mi aiutava a imparare a suonare. Devo ammettere che sembrava molto più facile da

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vedere. Mi ci volle molto tempo e molta pratica ma alla fine ci riuscii. Ovviamente non potevo uscire a suonare giù nella piazza nel bel mezzo del mercato, dato che le guardieche venivano a cercarmi erano sempre in allerta. Passai giorni meravigliosi con il mio nuovo amico e non li sarei mai dimenticata. Dalle corse sotto la pioggia al rincorrere le galline in campagna. Finalmente in quelle poche settimane ero riuscita a vivere tutto quello che avevo sempre sognato. Il momento di infelicità si interruppe quando la signora che abitava di fronte alla nostra casette cominciò ad avere sospetti su di me, nonostante il padre di Francesco cercò di placare ogni suo dubbio dicendole che ero una loro lontana cugina. Era passato giusto un mese dalla mia scomparsa da palazzo e ancora non mi avevano trovata. Fino a quando un giorno i cavalieri arrivando in piazza annunciarono che avrebbero dato una ricompensa a colui o colei che mi avrebbe ritrovata. L’idea di ritornare in quel posto mi preoccupava, ora che avevo finalmente imparato a suonare. Quando sentii l’annuncio mi misi a piangere. per fortuna c’era lui, il mio unico e vero amico. Ripensai a tutti i momenti con lui. Non volevo abbandonarlo. Gli feci promettere di non abbandonarmi. E mi sentivo meglio. La sera cenammo tutti insieme e ci divertimmo a raccontarci storie. Per loro la vita che facevo era il massimo, ma io invidiavo molto la loro. Il giorno seguente il mio sogno svanì. La vicina di casa mi aveva riconosciuta ed era andata a dirlo alle guardie. La mattina presto bussarono la porta e dato che non sapevoche fossero loro io aprii con tutta tranquillità. Mi riportarono subito a palazzo e diedero un’ enorme ricompensa alla donna. Con me portarono anche quelli che mi avevano aiutata. Quando fummo a palazzo non ebbi un’accoglienza, mia madre azzardò nemmeno a guardarmi, l’unico fu mio zio che quasi fosse fiero di me mi fece l’occhiolino. Volevano arrestarli. Mi opposi, non avevo alcuna intenzione che venisse fatto loro del male. Ma non potei oppormi. Li trascinarono in cella, ma la stessa notte, rubando le chiavi a una guardia che dormiva li feci scappare. Mi aveva promesso che non mi avrebbe abbandonata, ma in quell’istante capii che non sarebbe stato possibile. Per quanto io fossi tentata di scappare con loro non potei, non volevo causare altri danni.E poi oggi mi sono svegliata, mesi dopo quel giorno. Mi era arrivato un regalo. Non so come, non so tramite cosa, il mio amico si era fatto vivo, mi aveva fatto capire che non ero sola. Mi aveva mandato uno liuto a palazzo. Lo suonavo tutti i giorni e ora dopo annicontinuo a suonarlo, sono sicura che lo rivedrò.

Chiara Voza

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Era impassibile, niente poteva distrarla era sempre nella sua piccola stanza concentrata nel suo lavoro. L'unica cosa che la faceva sorridere era sentire il tintinnio delle monete per i suoi gioiellietruschi.

Per i cittadini quella donna era spietata, non aiutava nessuno; i suoi risparmi voleva tenerseli, infatti nonostante la sua ricchezza, i suoi vestiti non assomigliavano per nientead abiti aristocratici. Non si sapeva perché non utilizzasse i suoi risparmi, neanche per aiutare i suoi poverigenitori che, ormai, vivevano in strada.I cittadini le stavano lontano, solo qualche poveretto le chiedeva l'elemosina senza profitti; la vedevano come un demone venuto sulla terra. Per questo decisi di ritrarla, alla mia galleria mancava il quadro di un ritratto di una persona superba. Decisi dunque di dipingerla nella sua stanza, in una piccola casetta vicino al mare dove lavorava ininterrottamente.Quel giorno il tempo non era dei migliori, la nebbia si poteva tagliare con la lama. Man mano che mi avvicinavo alla casa nel cielo scompariva la nebbia e diventava sempre più cupo. Nel tragitto incontravo gente di tutte le classi sociali: aristocratici e cavalieri che non salutavano e non rivolgevano lo sguardo; borghesi e povera gente che dando una piccola monetina mi santificavano come se fossi il Cristo. Entrai cautamente con i miei attrezzi da lavoro. Chiusi la porta e in fondo al corridoio vidi la stanza dove lei lavorava. Camminai lungo quello spazio stretto, ogni mio passo era accompagnato dallo scricchiolio del legno marcito. Entrai nella stanza e lei guardandomi mi disse di fare in fretta.Mi preparai per cominciare a dipingere. La tela era liscia, intinsi il mio pennello nell'acqua, amalgamai dolcemente i colori e trassi tutti i lineamenti della donna. Finii il quadro in fretta, ogni dettaglio era perfetto e ne ero orgoglioso, tranne per lo sfondo. Lo sfondo era liscio, color panna ed era vuoto. Quel particolare mi faceva detestare il quadro, mi serviva un'idea per completarlo. Mi appoggiai comodamente sullo sgabello e iniziai a pensare a cosa potessi mettere per riempire il muro. Ero molto stanco e mi appisolai. Mi svegliai di colpo, io e la signora eravamo sperduti nel bosco. Iniziammo a urlare per cercare aiuto. Girammo per tutta la pineta fino a quando non trovammo una collina dalla quale spuntava un raggio di sole che mi accecava. Scivolai e caddi ai piedi di un cespuglio dal quale sentivo dei grossi sospiri... Mi girai e vidi degli occhi rossi. Iniziai a correre e dalla folta chioma di foglie spuntarono una lince, un leone e un lupo. Urlai alla giovane fanciulla e scappammo dalle tre belve. Arrivammo davanti alla riva di un fiume.

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In lontananza, tra la nebbia, vedemmo un uomo su una piccola barca con la barba lunga e bianca e un bastone tra le mani. Salimmo sulla barca, noi facevamo molte domande ma lui non rispose, per tutto il tragitto non parlò. Ci portò sull'altra sponda, appena scesi lui tornò indietro senza degnarci di uno sguardo. Io e la fanciulla vedemmo di fronte a noi una porta da cui provenivano grida estreme. Sulla porta c'erano le seguenti parole: ”Lasciate ogne speranza, voi ch' intrate”.Ciò mi ricordò Dante: eravamo all'inferno. La porta si aprì; attratti noi entrammo, cercando di capire come potevamo essere finiti lì e che cosa fosse successo. Ondate di vento ci trasportavano a ogni passo che facevamo. Passammo per il Limbo, il primo cerchio del quale facevano parte i puri che non hanno ricevuto battesimo, vedemmo anche Elena di Troia e Achille che appartenevano al cerchio dei lussuriosi. C'erano Paolo e Francesca che erano travolti dal vento. Superammo anche i golosi, e a quel punto mi domandavo a che cerchio dovessimo appartenere. L'aria si faceva sempre più pesante entrammo in uno scontro tra avari e prodighi. Cercammo di uscire ma Plutone, il quarto guardiano infernale, ci costrinse a combattere. Quelle povere persone erano destinate a scontrarsi per l'eternità mentre facevano rotolare massi di pietra lungo la circonferenza del cerchio. La battaglia era dura e sanguinosa, mentre scagliavo la mia spada cercavo di capire come io e la pesatrice potevamo essere morti e come io potessi essere finito all'inferno, quando avevo già un posto in paradiso. Cercai di uscire dall'inferno, ma Plutone mi fermò e mi sbatté contro il suolo.Io e la fanciulla eravamo abbracciati e iniziammo a piangere, pentendoci dei nostri peccati. Sentii un dolore atroce al cuore, mi toccai il petto e vidi sangue: una lancia ci aveva trafitto. Cademmo a terra, sbattei la testa e aprii gli occhi, iniziai a gridare di dolore, quando mi resi conto di essere semplicemente caduto dallo sgabello. La donna mi guardava stranita, poiché io ridevo come un bambino: mi era venuta l'idea per riempire il quadro. Decisi dunque di ritrarre il giudizio universale, per indicare la superbia della donna e lafine che farà una volta nell'aldilà a causa della sua avarizia.

Giada Mantovani

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Ero seduta al tavolo per la colazione, quando la domestica mi porse una lettera. Sapevo già chi me l’aveva mandata o almeno lo immaginavo. Mia sorella Jaimy, quella maggiore, era partita insieme a suo marito Patrick. Il suo sposo era un importante commerciante e cercava nuovi prodotti da commercializzare qua in Olanda e un po’ in tutta l’Europa. Infatti l’Olanda era una delle poche regioni che aveva risentito meno dallacrisi di questo secolo e mio cognato insieme ad altri olandesi si era recato nell’estremo oriente per importare spezie. Mia sorella, essendo da sempre una persona ricca di curiosità, non esitò un attimo davanti alla proposta del marito. La lettera descriveva l’oriente, tutto era molto diverso dall’Olanda, usi completamente diversi e mia sorella nonostante a volte si sentisse a disagio era molto divertita da tutto ciò. Aveva conosciuto una giovane ragazza di nome Lia. La nobile fanciulla le aveva mostrato la città, che notava decisamente più tranquilla di quelle nostre occidentali. Scriveva anche di Patrick, di quanto stava andando bene con il lavoro. Infine mi salutava dicendomi chemi avrebbe scritto non appena avrebbe potuto e ovviamente aspettava una mia lettera con l’andamento della casata e le mie impressioni su ciò che mi aveva raccontato.

Andando in soggiorno notai un nuovo oggetto incartocciato. Subito pensai a un regaloda parte di mio marito Ray, forse aveva capito cosa mi stava succedendo dato che non cadeva nessuna festa o giornata importante e non era solito fare regali senza motivo. Sulla porta apparve una delle serve dicendomi che era arrivato stamattina insieme alla lettera e sir Ray l’aveva fatto posizionare lì. Lo scartai subito, era un quadro, un quadro che raffigurava mia sorella mentre scriveva una lettera, probabilmente la lettera a me indirizzata. La ritraeva di prima mattina, da come si poteva notare dai bigodini non ancora sciolti. Indossava la sua veste preferita gialla. Infatti il giallo era il suo colore preferito, diceva spesso che fosse un colore che la ritraesse, caldo e raggiante come lei. Inoltre apprezzava la veste particolarmente per la morbida pelliccia intorno al collo che le teneva caldo. La stanza non era molto addobbata ma era caratterizzata da diversi mobili in legno. Sul muro era raffigurato un quadro che purtroppo non mostrava nei dettagli l’immagine dipinta. Il quadro da me ricevuto era molto scuro, l’unica cosa che brillava e illuminava la stanza era mia sorella con il suo vestito giallo, e probabilmente questo era il suo intento: sottolineare il suo carattere solare ed egocentrico. Per questo l’ammiravo era sempre stata decisa e sicura di sé, al contrario di me che non sapevo neanche scegliere cosa mangiare a colazione. Tra noi nonostante la differenza di carattere c’era sempre stata molta sintonia, più che con le altre sorelle. Il suo carattere era molto maturo ed avrei passato intere giornate a parlare con lei perché i suoi discorsierano davvero profondi, interessanti e mi arricchivano sempre. Era una vera miniera di sapere. Con uno sguardo lei riusciva a capire cosa avevo, come mi sentivo e aveva sempre il consiglio che trovavo utile alla mia esigenza. Certo non era perfetta a volte il

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suo egocentrismo prendeva il sopravvento diventando davvero odiabile, ma solo in rare occasioni. Era quasi passato un mese dalla sua partenza e mi mancava terribilmente, inoltre avrei voluto dirle un'importante notizia a voce. Sapevo che sarebbe rimasta entusiasta.I giorni passavano inspiegabilmente uguali. In mattinata avevo incontrato la nostra vicina di casata Mrs. Oort. Tornata a casa, nel pomeriggio, scrissi a Jaimy. Le raccontai del probabile matrimonio di Miss Oort, la figlia maggiore con lord Jansen. Infine sapendo che non sarebbe tornata presto e avendo voglia di raccontarle la nuova notiziale annunciai la nascita del suo futuro nipotino. Ero incinta da qualche mese, e anche se immaginavo che la maggior parte della corte avrebbe voluto nascesse un figlio maschio, io desideravo una bella bambina. Le raccontai delle prime nausee e del fatto che cominciavo a sgattaiolare di notte in cucina per la maggiore fame. Infatti non volendo far capire agli altri la mia situazione, mangiavo addirittura un po' meno rispetto al solito. Neanche Ray sapeva o aveva intuito nulla, volevo che Jaimy fosse la prima, glielo scrissi. L'indomani non appena avessi trovato il coraggio e un certo autocontrollo per non emozionarmi troppo l'avrei sicuramente detto a mio marito. Infine la salutai dicendole che mi mancava e che aspettavo nella prossima lettera una possibile data delsuo ritorno anche se non precisa. Era notte fonda e mi ero diretta sul retro della casa, un immenso giardino. Passeggiavo immersa nei miei pensieri fino quando non incontrai Ray, che mi aveva seguita. Aveva notato qualcosa di strano nel mio comportamento nelle ultime notti. Mi chiese cosa stesse succedendo e allora presi coraggio e gli dissi che aspettavo un bambino, un nostro bambino. Lui rimase ammutolito come se stesse elaborando i dati appena ricevuti, non era sbiancato o altro era solo stupito e incredulo. Subito dopo mi prese in braccio facendomi girare diventando subito euforico. Sul suo viso pian piano si accentuò un bellissimo sorriso, era felicissimo. Rimanemmo tutta notte in giardino discutendo di come avremmo addobbato la camera del futuro nascituro, su come l’avremmo cresciuto e di dove l’avremmo portato. Passarono altri mesi, e la mia pancia cominciò a farsi notare, anche se a dirla tutta era diventata bella tonda. Non potevamo sapere ancora il giorno della nascita, ma ormai ero al termine. Jaimy aveva mandato un’ultima lettera, stava per tornare. Jaimy era su una nave diretta verso l’Olanda, o almeno credevo, mentre io partorii. Nacque una bambina. Molti rimasero delusi, come del resto avevo immaginato, e a dir la verità anche Ray rimase un po’ colpito all’inizio, anche se poi si fece molto contento. Aspettandosi tutti un maschio avevamo scelto soli nomi per tale sesso. Così io e Ray rimanemmo da soli per discuterne con la nostra bambina fra le braccia. Era così dolce, isuoi occhi erano ancora chiusi e dava un certo senso di tranquillità. Tutto ciò durò finché non arrivò una serva che ci annunciò una notizia, una notizia su Jaimy, la notizia più brutta che potessi mai sentire. La nave era affondata. Jaimy, Patrick e tutti i passeggeri non si erano salvati, erano ancora troppo a largo e l’acqua era fredda e profonda.

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Non so bene come reagii, ero stata travolta dal dolore. Mia sorella era morta, mia sorella Jaimy, la mia sorella preferita. No, non poteva essere. Era solo un brutto incubo mi ripetevo, anche se sapevo che non era così. Scoppiai ben presto in un pianto lungo eangosciante e mi ci volle un po’ per riprendermi. Anche se dopo diversi giorni mi ripresi fondamentalmente per mia figlia Jaimy, così avevamo deciso di chiamarla, in ricordo di mia sorella e nella speranza che quella piccola creatura potesse diventare forte, esuberante e curiosa come lo era stata la vecchia Jaimy.

Valentina Marando

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Lavorava da quella bellissima donna, la famosa stilista di cappelli Eléa Boucher. Era il suo garzone da anni, comprava le stoffe, preparava fogli e gessetti, si accordava con le modelle, ingaggiava i pittori per ritrarle e la aiutava sempre in tutti i suoi problemi.

Stava arrivando marzo e bisognava iniziare a preparare le bozze per la nuova collezione primaverile. Eléa era come sempre indaffarata, piena di idee e confusa su come buttarle sul foglio di carta che iniziava a dare vita alle sue creazioni. Era una donna molto allegra, gentile e generosa, capricciosa e arrogante, era un’ unione di aspetti buoni e cattivi che la rendevano speciale.

Janvier era il suo aiutante, era un ragazzo giovane, aveva i capelli biondi tagliati corti, era alto e robusto, la sua carnagione era chiara, non era un tipo di troppe parole, ma quando era in compagnia sapeva divertirsi e divertire. Era educato, sempre gentile e disponibile, sapeva cogliere i sentimenti, non era superficiale ma guardava nel profondo. Amava stare all’aria aperta, camminare in luoghi isolati, lontani dalla confusione della città, in una pace profonda, in un silenzio disturbato solo dal cinguettare di uccellini e dal fruscio del vento fresco che dava ristoro dal caldo afoso dell’estate. Da quando lavorava nell’atelier, nel cuore di una cittadina trafficata nell’ovest della Francia, non aveva molto tempo per sé. Era sempre indaffarato per lavoro e durante l’inverno, la stagione dei cappelli, non aveva pace. Certo non c’era stagione senza cappelli; in inverno riparavano la testa dal freddo, in autunno e in primavera dal vento e in estate dal sole. Aveva pazienza infinita e sapeva stare con lei meglio di chiunque altro.

La mattina era iniziata chiara e fresca, il cielo era limpido e senza nuvole, le foglie erano di un verde chiaro che brillava al riflesso con il sole, un’arietta fresca e leggera piegava i primi boccioli da una parte e dalla finestra filtrava un fascio di luce bianca che illuminava tutta la sala. L’atelier era ancora chiuso.

Quando Janvier arrivò, aprì la porta e iniziò a sistemare tutte le cose nella perfezione che la stilista gli imponeva. Erano circa le nove della mattina, il sole era leggermente piùcaldo quando lei entrò, era sorridente, la primavera le piaceva e la faceva sentire a suo agio, era la sua stagione preferita e Janvier lo sapeva, aveva aperto le finestre per fare entrare aria e sole e aveva trasformato l’atelier in un luogo di pace.

Quella mattina era soddisfatta aveva sognato il cappello principale della collezione e prima di dimenticarsi l’idea si doveva mettere al lavoro. Prese un foglio e un gessetto rosso, era un colore primaverile, ma nelle sue collezioni il rosso era apparso molto raramente, era parte di qualche piccolo particolare, e invece adesso era il solo colore.

La bozza era strana, non era chiaro come sarebbe stato il cappello. Eléa disegnava, non si era accorta che la finestra si era chiusa a causa di una forte ventata, lei continuava, niente la poteva fermare; di solito faceva le cose con molta calma, non le importava il tempo che ci avrebbe messo, lei era la stilista, quando sarebbe stata pronta

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per presentare qualcosa lo avrebbe fatto, non le importava delle voci degli altri. Si alzò improvvisamente sventolando il foglio nella mano e urlò:

“ Ho finito! Questo sarà il cappello principale della collezione!”

Janvier dall’altra stanza corse, quasi impaurito, non aveva capito bene probabilmente.

Quando vide la ragazza sventolare il foglio e sorridere tirò un sospiro di sollievo. Dovette chiamare subito il pittore e la modella che non sarebbero arrivati prima di un mese e mezzo. Eléa era tornata la solita di sempre, si era accorta della finestra e della polvere che aveva fatto con il gessetto, ma nei suoi occhi si vedeva una luce di soddisfazione per il lavoro svolto perfettamente. Era ormai mezzogiorno, si mise il suo cappello primaverile, aprì il piccolo parasole e si avviò verso casa per desinare.

La sua era una grande casa, una villetta in una via poco trafficata con un bel giardino sul retro, dove riposava e passava i pomeriggi più caldi ricamando. La sua serva, Eveline, era una donna esile, di giovane età, che lavorava da lei da pochi anni. Il suo ruolo principale era cucinare per lei e per la sua famiglia, composta da suo padre Kevin,da sua madre Charlotte e dalla sua sorellina Marta.

Eveline era di poco più giovane di Eléa, era sempre ordinata e precisa, accettava le critiche anche se dentro forse non tutto le sembrava da correggere. Marta, aveva circa cinque anni , amava giocare all'aria aperta, nel cortile sul retro, dove nel pomeriggio c'era una penombra e un'arietta piacevole dovute alla grossa quercia.

Era una bella giornata, sembrava fosse quella la causa della gioia improvvisa di Eléa e della sua ispirazione. Quel cappello disegnato sul foglio era stato risistemato dall'efficiente garzone nel primo cassetto del comò chiuso a chiave. Era particolare, sembrava spumeggiante, come ricoperto di piume.

La giornata di lavoro per Eléa era finita, solitamente d'estate lavorava solo nella mattina, il pomeriggio era libero e l'atelier rimaneva chiuso; lei ricamava, si riposava o faceva alcune passeggiate sulla riva del fiume che percorreva la città, un luogo tranquillo che la rilassava e le lasciava il tempo di pensare e forse, a volte anche trovarequalche nuova idea. Allo stesso modo Janvier passava i suoi pomeriggi lungo quelle sponde a volte anche pescando. Non era un uomo molto ricco, si dava da fare per mantenere se stesso e la sua famiglia. Prima di chiudere l’atelier, quel pomeriggio aveva contattato Norman, il loro pittore; non aveva ancora organizzato un appuntamento con una modella, forse voleva essere Eléa stessa la protagonista di quelquadro.

Il pomeriggio passò tranquillo, non accadde nulla di speciale.

Era martedì ed era sicuro che l’indossatrice per il quadro sarebbe stata la sua creatrice. Mancavano solo due settimane prima dell’arrivo di Norman. Le stoffe erano già pronte sugli scaffali, e le piume erano già arrivate dall’Italia, tutto era tranquillo, il

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clima era più estivo, tutto era perfetto. Quella stessa mattina Eléa iniziò a cucire e a dare forma al cappello.

Indossare quel cappello era sogno di tanti, ambizione principale di Rachel, la modella degli altri cappelli, che da quando seppe la notizia non si fece più sentire. Era una cosa importante per Eléa e non le interessava del pensiero di Rachel, lei sarebbe stata la protagonista, finì il cappello in poco tempo e quando il pittore arrivò per fare una bozza del quadro era tutto perfettamente pronto, grazie certo al lavoro diligente di Janvier.

L’atelier rimase chiuso il fine settimana per dare respiro dalle settimane intense che avevano passato. Il lunedì il quadro sarebbe stato ultimato, nei minimi particolari e poi esposto nella vetrina dove poteva essere ammirato da tutti i passanti verso il mercato delle carni che era alla fine della via.

Sabato pomeriggio il sole splendeva nel cielo limpido, i boccioli erano sbocciati e il petali coloravano intere distese di erba verde tra le sponde del fiume. Era là che passeggiava tranquillamente Eléa, lo sguardo perso nell’immensità di quel paesaggio che aveva visto milioni di volte ma che le sembrava sempre nuovo, immersa nel profumo dei fiori di lavanda che inondavano l’aria, stava sognando a occhi aperti qualcosa che le sarebbe piaciuto molto, qualcosa che l’avrebbe resa veramente felice, forse era una vita fuori da una piccola città, forse era una sua famiglia, forse era solo unricordo di un’infanzia felice che non tutti avevano potuto vivere ma che avrebbero desiderato. Indossava un vestito azzurro pastello, somigliava al cielo velato da qualche piccola nuvola bianca, e un cappello di paglia intrecciato con un nastrino lilla che le aveva fatto sua madre e a cui era molto affezionata,era sorridente, si sentì improvvisamente chiamare, si voltò di scatto spaventata o ansiosa dal tono della voce.

Era una ragazza che conosceva bene. Era Rachel. Le chiese il perché voleva essere lei la protagonista del quadro, perché le aveva tolto la sua soddisfazione più grande, il suo desiderio. Litigarono. Eléa spiegò che sarebbe stata la sua ultima creazione, che avrebbe cambiato la sua vita e che per questo motivo voleva essere lei la ragazza dipinta e ricordata. La lite sembrava finita, senza pace, ma finita, Eléa si era voltata per continuare la sua passeggiata, Rachel la spinse di scatto nel fiume che scorreva tranquillo. L’ acqua era bassa e fangosa, il corpo scomparve improvvisamente sul fondo, girandosi un paio di volte fino a scomparire del tutto.

Si accorse di quello che aveva fatto. Non avrebbe voluto. Tutti avrebbero sospettato di lei e lo sapeva. Fuggì. Cercò di rimanere calma come se non avesse fatto niente e tornò in città dove si perse tra la folla.

La famiglia di Eléa era ansiosa, poiché la figlia non tornava ed erano passati ben due giorni dalla sua partenza. Poteva già essere partita per la sua nuova vita, ma non avevapreso niente con sé e questo era strano. Janvier si era recato solo una volta a casa della sua padrona ma si ricordava perfettamente dov'era. Bussò, venne accolto, si

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sedette e restò là per un pomeriggio. Lunedì quando il pittore arrivò trovò tutto in ordine,dipinse quella ragazza con il cappello rosso, o almeno così pensava.

Eléa non tornò mai più in quell’atelier, ma il suo corpo grazie al suo sempre fedele Janvier venne trovato, aveva visto tutto e lo aveva raccontato alla famiglia di quella povera vita innocente che da lì a poco avrebbe lasciato quella città e tutte le persone che la circondavano. L’atelier non chiuse mai, il quadro in onore di Eléa era sempre esposto in vetrina, nessuno sapeva la verità. Eléa era andata via dopo aver fatto il quadro e aveva lasciato il suo tesoro più grande al suo migliore e fedele amico di sempre si fece credere in città; Rachel ebbe la possibilità di farsi una nuova vita, lontano dalla verità che faceva male, che l’avrebbe svegliata nel cuore della notte, che avrebbe rivisto in ogni campo di lavanda, in ogni bella giornata di primavera, in ogni cappello.

Janvier era il nuovo proprietario, gli mancava la confusione di Eléa, per cui forse aveva provato un sentimento così grande da tenerlo legato a tutti quei ricordi. La famiglia gli era riconoscente ogni giorno per tutto quello che aveva fatto per loro, era diventato un ospite, ogni domenica aveva il piacere di essere invitato a pranzo e di passare il pomeriggio in compagnia di persone che lo apprezzavano e che non gli sarebbero mai stati riconoscenti abbastanza. Eléa era nel ricordo di tutti loro che la pregavano e amavano ogni attimo della loro vita e che non l’ avrebbero mai dimenticata, ma al contrario sempre portata d’esempio nei loro cuori.

Rebecca Pignatti

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Era una giornata bellissima, la ricordo ancora, era il 13 Maggio e correva l'anno 1666. Era la vigilia per quel concerto tanto atteso da Catarina, mia figlia. Prendeva lezioni di canto da ormai due mesi dal migliore maestro del luogo, Ludovico. Era rinomato in tutto il paese, aveva un'abilità unica a suonare la spinetta e altri strumenti.

Ricordo ancora come l'ho conosciuto, era il 1 Marzo e mia figlia era stata scelta come protagonista dello spettacolo annuale della città, l'unico suo problema era che il canto non era proprio la sua dote, sapeva suonare perfettamente la spinetta, ma la sua voce era stonatissima e non riusciva mai a tenere il tempo. Ricordo come mi guardava quando era tornata da teatro, era uno sguardo strano, nei suoi occhi si leggeva la determinazione e la voglia di imparare, ma anche la paura che in quel poco tempo non sarebbe riuscita a migliorarsi e avrebbe dovuto esibirsi facendo una brutta figura. Nel pomeriggio mandai il mio domestico in paese a cercare un degno insegnante per mia figlia, passò un’ora e non era di ritorno, passarono due ore e ancora non c’era, cominciavo a preoccuparmi, poi dopo ben tre ore tornò; mi disse che aveva trovato la persona che faceva al caso nostro. "Il miglior maestro del luogo" lo chiamavano in città, già da quello mi aveva convinto, lui avrebbe insegnato a mia figlia come si canta, però subito il domestico mi fermò, mi disse che il costo sarebbe stato elevatissimo, circa 100 fiorini ogni lezione, ma a me non importava, avrei speso qualsiasi cifra pur di far contenta Catarina. Il giorno dopo mi recai alla dimora di questo maestro, per organizzare qualche lezione, la casa non era nulla di speciale, subito pensai che avrei solo buttato via del denaro, perché da un istruttore che guadagna 100 fiorini ogni lezione mi aspettavo una casa molto più grande e curata. Dopo andai nella sala delle lezioni e subito cambiai idea, era una stanza fantastica, il pavimento era in mattonelle bianche e nere, dando l’impressione di una scacchiera e al centro della stanza c’era un tavolo enorme, costruito in legno d’acacia, con sopra un tappeto in stile orientale. Subito non mi accorsi della viola sotto al tavolo perché il mio sguardo si era perso nei bellissimi colori di quella pedana e alla parete vi era la spinetta,anch’essa decorata con dipinti, si capiva che era importata, perché dalle nostre parti di strumenti così non se n’erano mai visti, infine vi erano due quadri che davano un il tocco finale a quella stanza magnifica, subito mi accorsi che uno dei due dipinti era di Vermeer, un famoso pittore, il nome del quadro penso sia “La Mezzana”. Dopo aver dato un veloce sguardo alla stanza mi rivolsi all’istruttore:“Beh, questa stanza è veramente bella. Le dispiace dirmi il suo nome?”“Mi chiamo Alexander Van Leeuwen, e lei?”“Io preferisco non dirlo, il tappeto e la spinetta sono importati, giusto?”“Ogni cosa che vede in questa stanza è importato”

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“Ho notato anche un quadro di Jan Vermeer sopra la spinetta, per curiosità, quando ha dovuto pagare per averlo?”“Nulla, io e il pittore ci conosciamo da quando eravamo piccoli, frequentavamo entrambilo stesso corso d’arte”“Capisco, comunque, vorrei farle tantissime altre domande sulla stanza, ma non sono venuto qui per questo, vorrei sapere se mia figli può prendere lezioni canto da lei.“Certamente, però non sarò disponibile tutti i giorni, visto che posso dare questo tipo di lezioni solo in presenza di mia moglie Alisse, che è disponibile solamente tre volte a settimana.”“Non credo sia un problema. Il costo di ogni lezione?”“Sono 113 fiorini per lezione”“Va bene, quando può iniziare?”“Lunedì della prossima settimana alle 15 qui a casa mia.”“Grazie, arrivederci”“Arrivederci” Poi tornai a casa, per dire a Catarina che avevo trovato l’istruttore perfetto per lei. Appena glielo dissi lei era entusiasta e non vedeva l’ora. Arrivò il lunedì, si preparò, poi incaricai il domestico di portarla da Van Leeuwen. Tornò dopo circa due ore. Ero curioso di sapere la sua prima impressione su Alexander; entrò in casa, mi diede uno sguardo fulmineo poi andò subito in camera e si chiuse dentro a chiave. Era evidente che qualcosa non andava quindi mi recai sulla soglia della stanza e le chiesi cosa era accaduto, con una voce singhiozzante mi disse che non sarebbe più tornata dall'insegnante, non capivo, ma conosco mia figlia e so chese l'avessi lasciata da sola per la notte alla mattina mi avrebbe cosa era successo. Giunse la mattina:"Buongiorno Catarina""Buongiorno""Passato bene la notte?""Sì..."Si introdusse il domestico"Desiderate la colazione signorina?""No grazie, non ho appetito" Aspettai che si dileguasse, per poter parlare con mia figlia. Quando fummo soli provai a chiederle perché ebbe quella reazione il giorno prima appena tornata dalla lezione, non rispose subito, aspettò un istante, poi mi guardò e mi disse che non sarebbe mai più tornata da quell'uomo e se ne andò, ma io volevo una spiegazione. Arrivò l'ora di pranzo, aspettai che Catarina si sedette, poi mi misi di fianco a lei:"Catarina, vuoi cortesemente dirmi cosa è successo ieri a casa del professor Alexander?""...""Catarina..."

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"...""Catarina, rispondi!""...appena arrivata mi accolse molto calorosamente e mi portò nella stanza delle lezioni dove mi presentò sua moglie, seduta alla spinetta, poi iniziammo subito a provare. Mi chiese di cantare un pezzo che aveva composto lui stesso, provai, ma appena iniziai a cantare fermò sia me che sua moglie, mi guardò, poi disse di riprovare. Riprovammo e come la prima volta ci interruppe subito, si alzò e mi chiese se avevo mai cantato prima di quel giorno, io dissi che avevo provato, ma non sono mai stata portata, allora in modomolto scontroso disse che se non avessi avuto voglia sarei potuta andare a casa, me la presi e andai via”. “Quindi deduco che tu non abbia voglia dalla tua reazione”“No, io voglio imparare, ma è troppo severo con me, è la prima volta che prendo lezioni di canto”“Andrò a parlarci io” Il giorno dopo mi recai alla dimora di Alexander per chiarire la questione con lui, appena entrato mi disse che era dispiaciuto per quanto accaduto con Catarina, e aggiunse che reagì così perché è un uomo che pretende molto dai suoi allievi e che perottenere il meglio diventa molto aggressivo e che aspettava ancora Catarina per la seconda lezione. Tornai a casa e parlai con mia figlia, dicendole che poteva tornare tranquillamente a lezione, lei annuì. Dopo quel giorno non ci furono più problemi, per due mesi le lezioni continuarono senza nessun problema, fino al 16 Maggio, il giorno tanto atteso era arrivato. Catarina si preparò e si recò al teatro della città per le prove, io mi recai là alle otto di sera, un’ora prima dell’inizio. Trovai un posto da dove potevo assistere ottimamente allo spettacolo. Iniziò. Aspettai con ansia il debutto di mia figlia e dopo quindici minuti salì sul palco, mi staccai dallo schienale, ero molto curioso. Si fermò in mezzo al palco, con gli occhi fissi sul maestro, la musica si attenuò e lei iniziò a cantare, era la voce più dolce e armoniosa che io avessi mai sentito, era fantastica, cantò per dieci minuti e in quell’arcodi tempo non stonò nemmeno una volta, era stata bravissima, ero veramente molto fiero di lei. Quando lo spettacolo finì andai da lei, la abbracciai e le feci i complimenti, lei mi ringraziò e scoppiò in lacrime, poi ci recammo verso la carrozza per tornare a casa. Unavolta arrivati il domestico ci aspettava, ma non era solo, c’era anche Alexander che aveva assistito allo spettacolo, strinse la mano a Catarina, si complimentò con lei e le propose di entrare a far parte della più importante accademia musicale nazionale. Lei senza esitare un attimo rispose di sì. Provavo tante emozioni nello stesso istante, ero stupito, ma anche allo stesso tempo felice per lei che del canto, che non ha mai apprezzato, ha fatto la sua fortuna, sì, la suafortuna, perché oggi lei è una delle migliori cantanti nel mondo.

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Luca Cavicchioli

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