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21/03/15 22:54 Vladimiro Giacchè: La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity Pagina 1 di 17 http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/4851-vladimiro-gia…e-di-austerity.html?tmpl=component&print=1&layout=default&page= Vladimiro Giacchè: La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity di Vladimiro Giacchè In un suo recente contributo sulla stagnazione secolare nell’eurozona, Paul De Grauwe, dopo aver osservato che “dalla Crisi Globale del 2007/8 gran parte dei paesi sviluppati non sono stati in grado di tornare ai livelli di crescita pre- crisi”, ha rilevato però come “da nessuna parte nel mondo sviluppato l’ipotesi della ‘stagnazione secolare’ sia meglio confermata che nell’eurozona”. Lo stesso (ri)scopritore del concetto di “secular stagnation”, Laurence Summers, ha in effetti ricordato che nella zona dell’euro «il pil reale è circa del 15 per cento inferiore a quello stimato nel 2008», e anche il prodotto potenziale «è stato rivisto al ribasso di quasi il 10 per cento». Ma torniamo a De Grauwe: lo studioso belga osserva che, se già prima della crisi il pil reale dell’eurozona evidenziava dinamiche di crescita inferiori a quelle degli Stati Uniti e degli stessi paesi dell’Unione Europea che non fanno parte dell’area monetaria, dalla crisi del 2008 in poi questa divergenza si è accresciuta ulteriormente (v. grafico 1). Lunedì 16 Marzo 2015 21:29

Vladimiro Giacchè: La Secular Stagnation e Il Fallimento Delle Politiche Di Austerity

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    Vladimiro Giacch: La secular stagnation e ilfallimento delle politiche di austerity

    La secular stagnation e il fallimento delle politiche diausteritydi Vladimiro Giacch

    In un suo recente contributo sulla stagnazione secolarenelleurozona, Paul De Grauwe, dopo aver osservato chedalla Crisi Globale del 2007/8 gran parte dei paesi sviluppatinon sono stati in grado di tornare ai livelli di crescita pre-crisi, ha rilevato per come da nessuna parte nel mondosviluppato lipotesi della stagnazione secolare sia meglioconfermata che nelleurozona. Lo stesso (ri)scopritore delconcetto di secular stagnation, Laurence Summers, ha ineffetti ricordato che nella zona delleuro il pil reale circadel 15 per cento inferiore a quello stimato nel 2008, eanche il prodotto potenziale stato rivisto al ribasso diquasi il 10 per cento. Ma torniamo a De Grauwe: lostudioso belga osserva che, se gi prima della crisi il pilreale delleurozona evidenziava dinamiche di crescita

    inferiori a quelle degli Stati Uniti e degli stessi paesi dellUnione Europea che non fanno parte dellareamonetaria, dalla crisi del 2008 in poi questa divergenza si accresciuta ulteriormente (v. grafico 1).

    Luned 16 Marzo 2015 21:29

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    Questo perch il pil reale delleurozona risultato stagnante, e ancora pi basso nel 2014 di quanto lo fossenel 2008. De Grauwe si chiede quindi: perch leurozona unisola di stagnazione nel mondo sviluppato?. Lasua risposta che questo non invidiabile primato ha molto a che fare con il fatto che gli squilibri esterni tra ipaesi delleurozona sono stati corretti in modo asimmetrico. Prima della crisi, i paesi periferici delleurozona(paesi del sud pi Irlanda) avevano accumulato deficit delle partite correnti, mentre i paesi del norddelleurozona (Austria, Belgio, Finlandia, Germania e Olanda) avevano accumulato dei surplus. Questo ha resoil primo gruppo di paesi debitore, il secondo creditore. Quando la crisi ha determinato un blocco della liquidit, ipaesi debitori hanno chiesto aiuto ai paesi creditori. E lhanno ottenuto, ma solo al prezzo di gravosi programmidi austerity che hanno li hanno costretti a pesanti tagli di spesa e li hanno spinti in forte recessione. In questocontesto, la Commissione Europea ha accettato di diventare lagente delle nazioni creditrici dellEurozona promuovendo politiche di austerity quale strumento per salvaguardare gli interessi di queste nazioni.

    Leconomista belga giustamente osserva come sarebbe stato possibile un diverso approccio, che muovessedallovvia circostanza che le responsabilit per gli squilibri di bilancia delle partite correnti sono ripartite tranazioni creditrici e nazioni debitrici, e che in effetti per ogni debitore irresponsabile deve esserci un creditoreirresponsabile. Invece si scelto di non adottare questo approccio riguardo ai creditori e ai debitoridelleurozona, ritenendo che i primi abbiano seguito politiche virtuose, i secondi politiche sconsiderate. Incoerenza con questo assunto, le nazioni debitrici sono state costrette a sopportare lintero oneredellaggiustamento. E quindi, in assenza della possibilit di svalutare la moneta, le nazioni debitrici sonostate costrette a ridurre salari e prezzi rispetto ai paesi creditori (a effettuare una svalutazione interna) senzache tale riduzione fosse compensata da un incremento di salari e prezzi nei paesi creditori (rivalutazioniinterne). Questo stato ottenuto attraverso significativi programmi di austerit nel sud effettuati senza lacompensazione di manovre espansive al nord.

    Nel secondo grafico proposto da De Grauwe si pu osservare come il costo relativo del lavoro per unit diprodotto in Irlanda, Spagna, Grecia e misura minore in Portogallo e Italia abbia conosciuto un brusco calodal 2008/2009 (grafico 2).

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    Paul de Grauwe osserva che queste svalutazioni interne hanno avuto un costo elevato in termini di perdita diprodotto e di occupazione nei paesi debitori soprattutto perch gli effetti di tali svalutazioni interne in termini diriduzione della spesa sono stati maggiori degli effetti in termini riorientamento della spesa (competitivit).

    Inoltre, non vi stato un simmetrico aggiustamento (cio una rivalutazione) da parte dei paesi creditori: in questiultimi, infatti, il costo del lavoro relativo per unit di prodotto ha conosciuto variazioni ben poco significative,come si pu vedere dal grafico 3.

    Ad avviso di De Grauwe la stagnazione nelleurozona precisamente leffetto di questo aggiustamentoasimmetrico. Il fatto che il peso del riaggiustamento sia stato caricato unicamente sulle spalle dei paesi debitoriha creato una tendenza deflazionistica che spiega come mai leurozona sia stata ricacciata in una doppiarecessione nel 2012-2013, e come mai il pil reale sia stato stagnante dal 2008, a differenza di quanto avvenutonei paesi UE che non fanno parte delleurozona e negli Stati Uniti.

    Altri effetti di questo processo sono rappresentati secondo De Grauwe dal passaggio dellintera eurozona dal

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    deficit delle partite correnti in essere nel 2008 a un surplus pari a circa il 3% del pil nel 2014 e da un bruscocalo dellinflazione, che a fine 2014 divenuta negativa per leurozona nel suo complesso (grafico 4).

    Detto per inciso, questultimo grafico testimonia anche la clamorosa inosservanza dei propri obblighi statutari daparte della BCE: infatti passano ben due anni di inflazione al di sotto del target del 2% prima che la BCEintervenga, in modo certamente tardivo e meno efficace di unazione tempestiva per il contrasto delladeflazione.

    Ma a De Grauwe interessa unaltra implicazione di quanto avvenuto: tutti i fenomeni associati allipotesi dellastagnazione secolare sono presenti nelleurozona in forme significativamente pi accentuate di quanto avvenganegli Stati Uniti e negli altri paesi dellUnione Europea. E oggi leurozona sembra essere bloccata in unequilibrio di bassa crescita e alta disoccupazione.

    Infine, De Grauwe traccia un interessante parallelo storico: Nel corso degli anni Trenta diversi stati europeidecisero di ancorarsi alloro e di mantenere fissi i loro tassi di cambio. Questo costrinse tali paesi ad adottarepolitiche di domanda deflazionistiche al fine di riportare in equilibrio la bilancia dei pagamenti. Di conseguenzamancarono la ripresa e le loro performance economiche risultarono significativamente peggiori rispetto ai paesiche si erano sganciati dalloro e avevano svalutato la propria moneta In eurozona dalla Grande Recessione inpoi accaduto qualcosa di molto simile.

    Secular stagnation: un problema non solo europeo

    Lanalisi di De Grauwe senzaltro condivisibile: il nesso tra la particolare gravit della situazione economicadelleurozona e le politiche di austerity innegabile. Per quanto riguarda specificamente lItalia, chi scrive avevaosservato gi allatto della prima manovra varata dal governo Monti quanto segue: il risultato sar undrammatico calo della domanda e dei consumi. Con il risultato di una compressione, anche molto prolungata,del prodotto interno lordo appena il caso di ripetere che il calo del prodotto interno lordo del nostro Paesepeggiorer il rapporto debito/pil e quindi far fare allItalia un altro passo nel tunnel greco. Questultimo aspettonon presente nelle pagine sopra citate di De Grauwe, la cui attenzione si appunta in particolare sullaconseguenze deflattive dellaggiustamento asimmetrico dei salari, ma era tra i motivi che avevano indotto

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    analisti finanziari di tutto il mondo, gi nellestate 2011, a contestare le politiche di austerity che si venivanodecidendo a livello europeo, e che avrebbero trovato una condensazione nel fiscal compact. La circostanza fuironicamente rilevata da una giornalista del Financial Times, che il 22 agosto 2011 osserv nelledizione onlinedel quotidiano: interessante notare che mentre la politica si fa sempre pi cauta e diciamolo reazionaria,alcuni tra i personaggi pi influenti del mondo economico e finanziario se ne escono con proposte che li fannosembrare dei comunisti rispetto alla maggior parte degli uomini di governo.

    Da allora, come noto, abbiamo assistito a rettifiche a ripetizione delle previsioni effettuate da parte delle piimportanti istituzioni finanziarie internazionali. Rettifiche delle previsioni della crescita conseguente alle politichedi austerity (sovrastimata) e degli effetti negativi del moltiplicatore fiscale (sottostimati), che sono sfociate inqualche caso (a proposito della Grecia) in un vero e proprio mea culpa, ad esempio, da parte del FondoMonetario Internazionale. Rettifiche e autocritiche purtroppo tardive.

    Dal punto di vista della crescita globale dellEurozona (mediamente inferiore a quella delle altre areeeconomiche) il fallimento delle politiche di austerity indiscutibile. un fallimento che fa apparire a posterioricome degli ottimisti visionari anche analisti molto prudenti. il caso di Jim ONeill, il quale recentemente haaffermato: Solo leurozona ha deluso malamente negli ultimi anni. Quando feci le mie previsioni nel 2010 partiidallidea che i problemi demografici e la bassa produttivit di questa regione le avrebbe impedito di crescere aun ritmo superiore all1,5% allanno. Invece riuscita a crescere soltanto di uno stentato 0,3%. Quanto allItalia,come sappiamo, la situazione peggiore, e di gran lunga.

    Ma dobbiamo allargare lo sguardo. Ci aiuta proprio il concetto di secular stagnation, o meglio ci che questoconcetto implica.

    In primo luogo una situazione globale almeno per quanto riguarda i paesi a capitalismo maturo cheSummers ha descritto facendo presente che, per quanti sforzi le autorit monetarie abbiano fatto negli StatiUniti e altrove, portando i tassi dinteresse a zero e adottando misure non convenzionali di politica monetaria(quali lacquisto di titoli di Stato e di altri assets finanziari da parte delle banche centrali), il risultato in termini dicrescita stato deludente: in particolare, la crescita economica media negli Stati Uniti stata appena del 2 percento negli ultimi 5 anni, a dispetto del fatto di partire da una situazione estremamente depressa a causa dellacrisi.

    Quanto al futuro? Le cose non dovrebbero cambiare di molto. Secondo Paul Krugman lipotesi della secularstagnation prevede che periodi come gli ultimi 5 anni e oltre, in cui anche una politica di tassi dinteresse azero non in grado di ricreare una situazione di piena occupazione, sono destinati ad essere molto pi frequentiin futuro. Anche ad avviso di Summers se negli anni a venire si vorr mantenere la piena occupazione, i tassidinteresse reali nel mondo industrializzato dovranno probabilmente essere mantenuti pi bassi di quanto losiano stati storicamente, e conseguenza importante tutto questo pu avere implicazioni importanti per lastabilit finanziaria.

    Qual il motivo di questa sorta di maledizione, che ci accompagna da quando scoppiata la crisi? SecondoSummers, il fatto che gi prima della crisi il modello di crescita era insostenibile, in quanto basato sulla finanza esul debito: purtroppo, chiaro che la difficolt emersa negli ultimi anni quanto al raggiungimento di unacrescita adeguata era gi presente da molto tempo, ma era stata occultata da una finanziarizzazioneinsostenibile. Questo riguarda tanto gli Stati Uniti che lEuropa. Quanto ai primi, Summers osserva che dacirca 20 anni che negli Stati Uniti leconomia non cresce pi a un ritmo sano e sostenuta da una finanzasostenibile (si tratta di unosservazione tanto pi significativa in quanto lo stesso Summers, nella funzione disegretario al Tesoro del governo Clinton, contribu attivamente alla deregulation del settore finanziariostatunitense). Ma le cose non stanno in modo molto diverso per quanto riguarda lEuropa: anche in questo caso

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    retrospettivamente chiaro che molta della forza che avevano le economie della periferia prima del 2010 erabasata sulla disponibilit di credito eccessivamente a buon prezzo, e che gran parte della forza delle economiedel nord Europa derivava da esportazioni [verso i paesi periferici, NdR] finanziate in modo alla lungainsostenibile.

    Lanalisi di Summers si ricollega cos idealmente a quella di De Grauwe, ma formulando una sintesi pigenerale: la crescita pre-crisi, negli Stati Uniti come in Europa, stata pagata con gli squilibri finanziari chehanno poi fatto da detonatore alla crisi.

    La crisi: fine di un modello di sviluppo basato sulla finanza e sul debito

    Come noto, linnesco della crisi nel 2007 rappresentato dal collasso del modello di consumo degli Stati Uniti,basato sullindebitamento privato, che consentiva di mantenere consumi elevati nonostante stipendi in caloormai da decenni. Ma questa soltanto la punta delliceberg. In verit la crisi che ha chiuso lo scorso decennioha rappresentato, pi in generale, il punto di approdo di oltre un trentennio di crescita asfittica, di stentatavalorizzazione del capitale, a cui si risposto con la finanziarizzazione su larga scala. Per almeno tre decenni,la risposta al pericolo della stagnazione economica stata rappresentata dalla crescita del debito e dellafinanza.

    Una crescita il cui ritmo impressionante ben sintetizzato da poche cifre pubblicate anni fa dalla societ diconsulenza McKinsey. Queste: Nel 1980, il valore complessivo delle attivit finanziarie a livello mondiale eragrosso modo equivalente al PIL mondiale; a fine 2007, il grado di intensit finanziaria a livello mondiale (worldfinancial depth), ossia la proporzione di queste attivit rispetto al prodotto interno lordo, era del 356%.

    importante osservare il nesso tra questa esplosione della finanza e del debito e landamento del saggio diprofitto.

    La pi completa ricerca in materia dimostra una tendenza generale al calo del saggio di profitto negli ultimidecenni e il suo convergere su livelli simili nei principali Paesi dellOccidente industrializzato, sia pure conandamenti tra loro non uniformi. Particolarmente eloquenti i dati riguardanti Germania, Francia e Italia, cheevidenziano un dimezzamento del saggio di profitto tra i primi anni Sessanta e i primi anni del nuovo millennio.

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    Dopo la crisi, a una moderata ripresa in Germania hanno fatto riscontro dati molto deludenti in Francia esoprattutto in Italia. Il Giappone, che muoveva da livelli relativamente pi elevati del saggio di profitto, evidenziauna diminuzione ancora maggiore dal 1970 a oggi.

    Stati Uniti e Gran Bretagna, che muovevano invece da livelli pi bassi, sembrano evidenziare una relativaripresa dagli anni Ottanta al 2007. Per, a dispetto di una diffusa convinzione, negli ultimi decenni neppure gliStati Uniti hanno conosciuto un boom dei profitti. Tuttaltro. Se si considerano i profitti medi delle impreseamericane prima delle tasse dopo il 1940, si osserva una costante diminuzione: dal 1941 al 1956 il saggio diprofitto era del 28 per cento, dal 1957 al 1980 stato del 20 per cento, per scendere ancora al 14 per cento nelperiodo 1981-2004, sia pure con un andamento che alterna anni di crescita ad anni di calo.

    Si tratta di dati che fanno giustizia di tanti frettolosi giudizi circa le presunte smentite definitive della storia alleteorie di Marx. Ma non questo che interessa in questa sede. Quei dati vanno ricordati soprattutto per un altromotivo: perch la finanziarizzazione va inserita in questo contesto. La finanziarizzazione ha avuto una triplice,importantissima funzione: mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui consumi, puntellare isettori industriali afflitti da un eccesso di capacit produttiva e fornire alternative pi redditizie rispetto agliinvestimenti nel settore manifatturiero.

    In questo modo, dagli anni Ottanta in poi, essa ha effettivamente rallentato la tendenza alla caduta del saggio diprofitto, in parallelo alla crescita della quota dei profitti legati alla finanza entro i profitti totali. Negli Stati Uniti, incui nei primi anni Ottanta il settore finanziario vantava il 10% dei profitti totali, la proporzione cresce sino al 40%del 2007. Nel Regno Unito tale proporzione raggiunge nel 2008 addirittura l80%. E vale la pena di notare cheproprio nel Regno Unito tra il 1987 e il 2008 lacquisto di asset finanziari da parte di imprese non finanziarie stato del 20% pi elevato rispetto allacquisto di attivi fissi (macchinari ecc.).

    Con la crisi del 2007/2008 si rompe precisamente questo modello di sviluppo. Ed emergono sovrapproduzione esovraccapacit produttiva di proporzioni imponenti, per di pi accresciute ulteriormente dalla semiparalisifinanziaria che si verifica a livello mondiale tra fine 2008 e inizio 2009, e poi dalla restrizione creditizia che comedi consueto accompagna la crisi.

    Dopo la crisi: business as usual?

    La risposta politica alla crisi si compone di due principali elementi: una socializzazione delle perdite didimensioni inedite e politiche monetarie ultraespansive.

    In primo luogo, al fine di impedire il collasso del sistema finanziario internazionale, viene effettuato un massicciotrasferimento di debito privato a carico della collettivit. degno di nota in proposito che, a dispetto di unadiffusa convinzione, la socializzazione delle perdite bancarie avvenuta allinterno dellUnione Europea sia statasuperiore a quella che ha avuto luogo negli Stati Uniti. Il grafico 6 mostra lentit dei capitali pubblicieffettivamente spesi o impegnati in Europa per salvare le banche nei diversi paesi. Sono numeri che nonrichiedono particolari parole di commento, se non per rilevare la circostanza che il sistema bancario oggigiudicato pi fragile in Europa quello italiano sia anche quello che ha ricevuto meno aiuti di Stato dal 2008 inpoi.

  • 21/03/15 22:54Vladimiro Giacch: La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity

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    La seconda componente della risposta alla crisi consiste in politiche monetarie ultraespansive, convenzionali(abbassamento dei tassi) e non (acquisti massicci di asset finanziari da parte delle banche centrali).

    Alla base di queste due componenti della risposta alla crisi vi la convinzione (comune alle autorit europee estatunitensi, e a quanto sembra anche ai teorici della secular stagnation) che sia possibile tornare al businessas usual: ossia che il modello di sviluppo basato sulla finanza e sul debito possa essere aggiustato e, una voltarimesso in moto, possa tornare a funzionare come prima.

    Diversi dati di fatto, per, inducono a pensare che le cose non stiano in questo modo.

    In primo luogo, dagli anni della crisi ad oggi non vi stato alcun deleveraging, alcuna riduzione del debito suscala mondiale. successo il contrario: secondo un recente studio di McKinsey, dal 2007 al 2014 il debito alivello mondiale cresciuto di 57 trilioni di dollari, a un ritmo superiore alla crescita del pil mondiale, portandoperci il rapporto debito/pil dal 269% al 286% (vedi grafico 7). E questo nonostante la ingente distruzione dicapitale operata dalla Grande Recessione.

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    Unico dato positivo laumento della solidit patrimoniale nel settore finanziario (peraltro non in Italia). Incompenso, nessuna delle economie maggiori (e solo 5 economie emergenti) hanno ridotto il rapporto debito/pilnelleconomia reale (famiglie, imprese non finanziarie, governi). 14 di esse hanno visto crescere il rapportodebito/pil complessivo di oltre il 50% (e tra questi paesi c lItalia).

    Il solo debito pubblico nelle economie avanzate cresciuto di 19 trilioni di dollari tra il 2007 e il secondotrimestre del 2014. Ovviamente, il dato relativo allaumento del debito pubblico anche laltra faccia dellamedaglia del miglioramento della patrimonializzazione delle banche. Pi in generale, evidente la funzione diammortizzatore del debito privato assunta dal debito pubblico dalla crisi in poi (grafico 8).

    In ogni caso, quale che sia la composizione del debito globale, abbastanza chiaro che la sua dinamica dicrescita su scala mondiale rappresenta un trend insostenibile.

    Il secondo aspetto che fa dubitare della possibilit di tornare al mondo di prima della crisi riguarda le politichemonetarie espansive. Esse, come abbiamo visto, sono state di limitata efficacia dal punto di vista della crescitae sono potenzialmente destabilizzanti dal punto di vista finanziario. Ma c di pi: esse non sono neutrali n intermini sociali (allinterno dei paesi interessati), n sul piano internazionale. In altri termini: queste politichehanno vinti e vincitori, o per dirlo in termini pi brutali chi ne beneficia e chi le paga, anche se il gioco non necessariamente a somma zero (in quanto benefici e danni non sono matematicamente equivalenti).

    Unaltra ricerca di McKinsey ha provato a effettuare una stima dellimpatto (positivo e negativo) di questemisure: i risultati, riferiti al ribasso dei tassi dinteresse sino al 2012 (e quindi fortemente sottostimati rispetto allasituazione attuale), sono sintetizzati nel grafico 9.

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    Se prendiamo gli Stati Uniti, tra i vincitori abbiamo il governo americano, che dal 2007 al 2012 ha guadagnato900 miliardi di dollari, soprattutto in termini di minori interessi pagati sui titoli di Stato (si tratta di una cifra pari aisoldi spesi dal governo Usa nel peggiore anno di crisi per salvare banche, societ assicurative e impresemanifatturiere); e poi le grandi imprese non finanziarie, alle quali i minori interessi hanno consentito di pagare dimeno i debiti che avevano e di emettere nuovo debito a condizioni pi favorevoli, con un guadagno di 310miliardi di dollari (cifra pari 20 per cento dei loro maggiori profitti dal 2007 in poi), poi le banche con 150 miliardidi dollari, perlopi ottenuti a spese dei depositanti (che hanno visto crollare il tasso di interesse riconosciuto ailoro depositi). E ovviamente gli investitori di borsa. Quanto a questi ultimi, riferendosi al quantitative easing(ossia allacquisto di assets finanziari tra cui titoli di Stato da parte della Fed), Richard Fisher, presidente dellaFederal Reserve di Dallas, si espresso in termini piuttosto brutali: non credo vi sia alcun dubbio che ilquantitative easing abbia giovato ai ricchi. stato un regalo di grandi proporzioni La cosa era voluta, nelsenso che speravamo di creare leffetto ricchezza Ovviamente spero che si possa giungere ad affermarelegittimamente che leffetto ricchezza risultato in ultima analisi meglio distribuito. Ne dubito. Fisher ha ragionea essere scettico sul punto: la crisi prima, le misure anticrisi dopo, hanno infatti allargato la forbice delladisuguaglianza allinterno della popolazione americana. Il motivo stato sintetizzato in poche parole da dueeconomisti di Morgan Stanley, Charles Goodhart e Philipp Erfurt, in un recente contributo: la Crisi Globale hacolpito soprattutto i poveri, in particolare coloro cui stata pignorata la casa, mentre della politica dicompensazione effettuata per mezzo dellespansione monetaria hanno beneficiato in primo luogo i ricchi.

    Tra i perdenti, negli Stati Uniti abbiamo le compagnie assicurative, che hanno perduto 270 miliardi di dollari,soprattutto perch gli investimenti in titoli di Stato Usa sono risultati negativi in termini reali (gli interessi pagatidal governo americano sono cio risultati inferiori allinflazione). Ancora pi generoso il contributo delle famiglieamericane che avevano titoli di Stato statunitensi in portafoglio, che per lo stesso motivo hanno perso 360miliardi di dollari.

    Infine, il pagatore involontariamente pi generoso: il resto del mondo, che ha perso 480 miliardi di dollari. Laricerca di McKinsey si limita ad accennare a questo pagatore, ma quello che dovrebbe interessarci di pi. Ilcinese Pingfan Hong, Responsabile dellufficio monitoraggio economico globale presso le Nazioni Unite, hasostenuto che le economie avanzate con le loro politiche monetarie espansive hanno accumulato una quantit

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    notevole di signoraggio internazionale proveniente dai paesi in via di sviluppo.

    Questo in quanto, espandendo la loro base monetaria, i paesi le cui monete sono valute internazionali di riservascaricano il costo della loro politica monetaria espansiva sui paesi emergenti, che sono costretti ad adoperarequelle valute per gli scambi internazionali. Inoltre, rendendo negativi in termini reali i tassi dinteresse sui proprititoli di Stato, il costo delloperazione viene scaricato su chi li ha comprati. Come noto, la Cina il paese cheha pi titoli di Stato americani in portafoglio (per un valore di 1,3 trilioni di dollari), ma in verit ogni altro paesedel mondo ha titoli di Stato americani in portafoglio.

    Le cifre complessive riportate da Pingfan Hong che per comprendono non soltanto il ribasso dei tassidinteresse statunitensi ma anche il QE, negli Usa come nellUe e in Giappone sono molto pi elevate diquelle stimate da McKinsey: a suo giudizio infatti qualcosa come 3.700 miliardi di dollari di valore sarebberostati trasferiti in questo modo dai paesi in via di sviluppo ai paesi pi ricchi del pianeta.

    Infine, le politiche di bassi tassi dinteresse e di QE condotte dalla Fed e dalle altre principali banche centrali delmondo esportano instabilit finanziaria nei paesi emergenti, sotto forma di flussi di capitale che si riversano inquei Paesi in concomitanza con le politiche monetarie espansive dei paesi avanzati per uscirne, in manieraaltrettanto rapida, a ogni accenno di restrizione delle politiche monetarie: ad esempio, a met 2013 vi stato unnotevole deflusso di capitali dai Paesi emergenti quando la Fed ha accennato alla possibilit di interrompere lepolitiche di QE.

    Le implicazioni di tutto questo sono molto importanti: le politiche monetarie ultra-espansive, danneggiando ipaesi emergenti, rappresentano infatti per essi e in particolare per la Cina un incentivo al superamentodellattuale sistema monetario internazionale. Non un caso che negli ultimi anni si siano moltiplicati gli accordibilaterali stipulati dal governo cinese con altri Stati per regolare le transazioni commerciali in yuan: da ognuno diquesti accordi viene un poco eroso il ruolo di valuta internazionale di riserva del dollaro (e delleuro). Gi soloper questo motivo impensabile che le politiche monetarie espansive siano destinate a durare allinfinito.

    Politiche di austerity e distruzione mirata di capitali

    Se la ripresa della crescita e della profittabilit non soddisfacente (e soprattutto in Europa come abbiamo vistonon lo ), se le politiche di espansione monetaria non sono sufficienti a rilanciare leconomia (e questosoprattutto in Europa sinora non accaduto), se, pi in generale, non sembra ipotizzabile il puro e sempliceripristino del modello di crescita a debito pre-crisi se tutto questo vero, allora dovrebbe essere attivo eoperante il meccanismo tradizionale attraverso il quale le crisi rilanciano i profitti: ossia la distruzione di quelcapitale in eccesso che impedisce al capitale di valorizzarsi adeguatamente.

    E questo precisamente ci che si sta verificando in Europa. In una configurazione specifica: nella forma di unadistruzione di capacit produttiva localizzata in alcuni paesi e non in altri.

    Per capire di cosa stiamo parlando sufficiente fare riferimento a un grafico relativo alla produzionemetalmeccanica nellUnione Europea pubblicato sul Sole 24 Ore del 5 febbraio scorso (grafico 10). Da essoemerge come nel 2014 la produzione metalmeccanica rispetto al periodo pre-crisi risulti ridotta appena dello0,7% in Germania e dell1,6% nel Regno Unito (che come noto non fa parte delleurozona), ma sia crollataaddirittura del 21,4% in Francia, del 32,6% in Italia e del 36,6% in Spagna.

  • 21/03/15 22:54Vladimiro Giacch: La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity

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    In una recente analisi focalizzata sul potenziale manifatturiero, Sergio De Nardis di Nomisma ha confermatoquesto quadro.

    Ecco gli elementi salienti della sua analisi: per quanto riguarda lItalia stimiamo che la produzione potenzialemanifatturiera ovvero quella ottenibile quando la capacit produttiva pienamente utilizzata si sia contrattadel 18% tra il 2007 e il 2014. I tre quarti di tale caduta (-13%) si sono realizzati nel corso della seconda e pilunga recessione. LItalia non sola nel ridimensionamento della base industriale: in Spagna la flessione statadel 24% (-14% tra il 2010 e il 2014), in Grecia del 20% (-12%), in Portogallo del 6,5% (-2,5%), in Franciadell11% (-6%). Questi paesi (con la parziale eccezione della Francia) condividono con lItalia il fatto di averesperimentato dal 2007 due recessioni, un forte calo della domanda interna, uno sforzo pi o meno intenso direcupero competitivo nei confronti della Germania e degli altri paesi core. In questultime economie gliandamenti sono stati opposti. Il potenziale manifatturiero cresciuto in Germania di quasi l8% nel corso dellacrisi, con i tre quinti dellincremento verificatisi tra il 2010 e il 2014 (+5%).

    Ancora: prima della crisi, la divaricazione tra i paesi del Nord e i paesi mediterranei (inclusa la Francia)delleurozona era principalmente alimentata dallandamento crescente del potenziale pro-capite dei paesi eurodel nord, mentre larea mediterranea sperimentava una sostanziale stabilit rispetto ai valori di inizio decennio.Dopo il 2007 il divario si amplia perch i paesi mediterranei prendono a calare in modo significativo, a fronte diun trend sempre crescente di quelli del nord.

    Impressionante in particolare il confronto Germania-Italia: il nostro Paese aveva allinizio della moneta unicauna capacit manifatturiera per abitante superiore alleconomia tedesca. Secondo questa misura, dunque,lItalia era pi industrializzata della Germania in rapporto alla popolazione. Tale vantaggio si annullato a metdello scorso decennio, per la sostanziale stabilit del potenziale italiano e laumento di quello tedesco. A partiredal 2007, con lesplodere della crisi, il gap divenuto negativo, allargandosi sempre di pi nel corso degli anni,principalmente a seguito della caduta dellindustria italiana. La capacit manifatturiera per abitante dellItalia nel 2014 1,5 volte pi piccola rispetto alla Germania (vedi grafico 11).

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    De Nardis nel suo contributo si sofferma anche sulla diminuzione del numero dei produttori manifatturieri, calatidi qualcosa come 10.600 unit (-2,4%) allanno tra il 2008 e il 2012 (per il 2013 non esistono ancorainformazioni, ma certo che lemorragia sia continuata).

    Di questo dato, precisa De Nardis, si pu dare una duplice lettura. La prima ha carattere positivo: la manifatturaitaliana ha subito una riduzione di potenziale grazie alleliminazione delleccesso di capacit di produzione,realizzata riducendo i produttori e contraendo il capitale in eccesso nelle imprese rimaste operative. Unamanifattura, quindi, ripulita e resa pi efficiente che sarebbe pronta a cavalcare la fase di ripresa non appenaquesta si verificasse. La seconda lettura, pur non escludendo questo effetto di selezione insito in ognirecessione, meno positiva: la riduzione di potenziale, guidata dalla straordinaria contrazione del mercatointerno e dalla rarefazione del credito, stata molto forte ed andata oltre il processo di pulizia dei segmentiinefficienti, finendo col coinvolgere un numero eccessivo di produttori e col colpire la capacit di produzioneanche delle imprese in grado di rimanere operative. In questa visione la ripresa trova unindustriaeccessivamente ridimensionata.

    Ma ovviamente, si pu chiosare, ci che eccessivo dal nostro punto di vista, razionale nel contesto pigenerale di una ristrutturazione del comparto manifatturiero delleurozona che conduca alla soppressione dellacapacit produttiva complessivamente (cio a livello continentale) in eccesso evidenziata dalla crisi.

    In questo senso le politiche di austerity, il riaggiustamento unilaterale dellEurozona che hanno condotto a unastraordinaria contrazione del mercato interno dei paesi interessati non possono essere considerate come unfallimento. E questo senzaltro anche il punto di vista dei produttori europei dei paesi del Nord che hannoeliminato concorrenti che operavano nei paesi mediterranei.

    Che questo processo sia stato voluto o meno un problema di secondaria importanza. Lessenziale intenderne loggettivit. Il risultato effettivo del processo questo: la distruzione capitalisticamente necessaria disovracapacit produttiva stata localizzata regionalmente allinterno delleurozona, modificando in profondit (ein modo irreversibile?) la mappa della produzione manifatturiera in Europa (grafico 12).

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    I tre modi, i due vincoli e lunica soluzione

    I rischi che il nostro sistema economico corre sono facili a intendersi. I modi per accrescere la competitivit, infondo, non sono molti: sono essenzialmente tre. Svalutazione della moneta, svalutazione dei salari (lacosiddetta svalutazione interna) e miglioramento della produttivit del lavoro per mezzo di investimenti.

    La moneta unica ha introdotto un vincolo che impedisce di adoperare il primo modo, la crisi ha inibito gliinvestimenti privati e attenzione le politiche di austerity hanno introdotto un ulteriore vincolo che impedisceche siano effettuati investimenti pubblici (non per caso anche nellultima legge di stabilit le spese pubblicheper investimenti sono state ridotte), e quindi anche il terzo modo precluso. Il risultato che per competere nonresta che il secondo modo: la svalutazione dei salari, ossia la riduzione del costo del lavoro per unit diprodotto.

    Ma la riduzione dei salari, che pu interessare il salario diretto (la busta paga), indiretto (le spese sociali) odifferito (le pensioni), e che pu essere anche leffetto del semplice aumento delle tasse (nel qual caso non vi neppure alcun effetto positivo sulla competitivit), porta con s altre due conseguenze.

    La prima la distruzione della domanda interna (per citare unintervista di Mario Monti alla Cnn rimastagiustamente famosa): ottima per riequilibrare la bilancia commerciale tramite riduzione delle importazioni, madistruttiva per tutte quelle imprese che producono soltanto per il mercato interno (o che comunque realizzano inItalia la maggior parte del proprio fatturato).

    La seconda linnesco di una tendenza deflattiva (tanto pi grave quanto pi la svalutazione interna necessaria maggiore a motivo del rifiuto, da parte dei paesi in avanzo commerciale, di rivalutare i propri salari): ilprocesso rilevato da De Grauwe nellarticolo da cui siamo partiti. Un processo che, siccome la deflazione facrescere il valore reale del debito, per lItalia comporta il rischio concreto dellinsostenibilit di un debito pubblicoche ha gi superato il 132% del pil.

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    Scenari possibili

    Se prolunghiamo il trend che abbiamo visto in opera in questi ultimi anni, lo scenario praticamente obbligato perla nostra economia quello di una deindustrializzazione irrecuperabile, o la sua trasformazione in unaeconomia di filiali (Filialkonomie), con conseguente scivolamento verso il basso nella divisione internazionaledel lavoro.

    In Europa esiste un precedente piuttosto recente: quanto accadde ai territori della ex-Repubblica DemocraticaTedesca a seguito dellunificazione della Germania. Circa la possibilit di unestensione continentale di questomodello va per osservato che in quel caso la trasformazione morfologica del panorama industriale del paese(sostanziale deindustrializzazione, distruzione della grande industria, acquisizione delle parti maggiormentefungibili dei Kombinate dellEst e loro utilizzo quali filiali/succursali di imprese dellOvest) ha comportato lanecessit di ingenti trasferimenti dallOvest tuttora in corso per finanziare consumi e investimenti. E, ancheal di l del fatto che a distanza di un quarto di secolo questi trasferimenti non sono stati in grado di colmare ilgap di reddito pro capite e produttivit del lavoro tra le due parti della Germania, poche cose sono chiare comelindisponibilit del governo tedesco a replicare questa seconda parte del modello-Rdt nel caso dellEuropa.

    Esistono scenari alternativi a questo sbocco? A questo riguardo le ipotesi possibili sono tre:

    1) un recupero della nostra economia trainato dal commercio estero extra-Ue. Sono in molti oggi a sperare cheleffetto combinato del calo del prezzo dei prodotti petroliferi, della svalutazione delleuro rispetto al dollaro edelle politiche antideflazioniste della Bce possano fare questo miracolo. lecito dubitarne, e per diversi motivi. Ilprimo che quei tre elementi positivi del quadro attuale sono contingenti. In particolare, possibile una ripresaalmeno a medio termine del prezzo dei prodotti petroliferi, e una ripresa di valore delleuro addiritturaprobabile: difficile infatti che il resto del mondo tolleri una svalutazione nel lungo periodo delleuro, che bene non dimenticarlo la moneta adottata da paesi che nel loro insieme vantano gi un significativo surpluscommerciale nei confronti del resto del mondo. Il secondo che anche quegli elementi positivi hanno effetticollaterali non piacevoli: il calo del prezzo dei prodotti petroliferi, ad esempio, porta con s un calo dellexportnei confronti dei paesi produttori di petrolio. Il terzo che in particolare le politiche della Bce sono senzaltrotardive, e comunque di efficacia limitata.

    2) La fine del vincolo fiscale, ossia delle politiche di austerity. Neanche questa soluzione sembra di per ssufficiente a risolvere i problemi. Al contrario, se essa avviene in assenza di reflazione in Germania, leffettosar un miglioramento di breve periodo della domanda interna, ma al prezzo di tornare ad alimentare squilibridella bilancia commerciale (perch il maggiore denaro disponibile sar speso per comprare prodotti picompetitivi importati dallestero). La stessa proposta di De Grauwe di effettuare investimenti infrastrutturali inGermania (una sorta di surrogato della reflazione salariale che la Germania in questi anni non ha voluto fare)viene incontro solo apparentemente e nel breve periodo al nostro problema: infatti, sebbene questi investimentirilancerebbero la domanda interna tedesca lasciando spazio per maggiori esportazioni verso quel paese, daltrolato nel lungo periodo essi determinerebbero un ampliamento del gap competitivo di cui gode la Germania e perquesta via una ripresa e consolidamento degli squilibri della bilancia commerciale nelleurozona.

    3) Il terzo scenario possibile rappresentato dalla fine del vincolo monetario. Essa determinerebbe il riacquistoimmediato della flessibilit del cambio, e per questa via un rapido riequilibrio delle bilance commerciali inEuropa. La necessit di distruggere capacit produttiva in eccesso in Europa, evidenziata dalla crisi, nonverrebbe meno: ma tale distruzione sarebbe meno concentrata geograficamente.

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    Quali game changers allorizzonte?

    Tutto questo lascia impregiudicata una domanda di fondo, che travalica lo stesso scenario europeo: assumendoche il modello della crescita a debito non sia pi ripristinabile, possibile oggi un ritorno duraturo allaprofittabilit del capitale che non si fondi principalmente sulla compressione del prezzo della forza-lavoro?

    Credo che in fondo sia questa la domanda cruciale sottesa (ma taciuta) alle teorizzazioni sulla secularstagnation. In effetti, non si rende giustizia a Summers se non si ricorda che oltre allo scenario inerziale (senegli anni a venire si vorr mantenere la piena occupazione, i tassi dinteresse reali nel mondo industrializzatodovranno probabilmente essere mantenuti pi bassi di quanto lo siano stati storicamente, e tutto questo puavere implicazioni importanti per la stabilit finanziaria) egli accenna anche a uno scenario differente: AlvinHansen enunci il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boomeconomico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale. senzaltro possibile che si producaqualche evento esogeno di grande portata in grado di aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura taleda accrescere il tasso di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale e da rendere irrilevanti lepreoccupazioni che ho espresso. Guerra a parte, non chiaro quali eventi del genere possano verificarsi. Chequalcuno negli ultimi tempi abbia cominciato a riflettere seriamente sulla praticabilit di questo game changer misembra fuori di dubbio.

    Una soluzione del tutto diversa troviamo in Marx: essa compendiabile nellesigenza di unsuperamentodellattualemodo di produzione superiore allattuale. Precisamente in questo senso Marx asserisce che le crisiper un verso sono soluzioni (ancorch soltanto temporanee) delle contraddizioni esistenti del modo diproduzione capitalistico, eruzioni violente che servono a ristabilire lequilibrio turbato, ma daltra parte sono unsintomo dellinadeguatezza dellattuale modo di produzione: Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute simanifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della societ rispetto ai rapporti di produzioneche ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma comecondizione della sua autoconservazione, la forma pi evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il propriotempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale.

    Negli ultimi decenni, in particolare dopo la fine dellUnione Sovietica e delle democrazie popolari dellEsteuropeo, la possibilit stessa di un livello superiore di produzione sociale stata rifiutata quale astrattoutopismo, tendenzialmente totalitario. per la realt stessa del modo di produzione capitalistico e delle suecontraddizioni a riproporre lesigenza invocata da Marx.

    Come tradurla in pratica oggi? Non possibile dare una risposta a questa domanda senza tornare al grandedibattito (rimosso e dimenticato dopo l89) sul confronto tra economia di piano ed economia di mercato e alleconcrete forme di economia pianificata sperimentate nel Novecento. Alla ricerca non di modelli, ma diinsegnamenti per loggi: in particolare sulla possibilit di combinare la programmazione ex ante della vitaeconomica con gli aggiustamenti ex post determinati dalle forze di mercato.

    addirittura ovvio che si tratta di una direzione alternativa al fondamentalismo di mercato oggi imperante, unareligione che ha nella libert assoluta dei movimenti di capitale il suo principale articolo di fede e nel dogmadella banca centrale indipendente il tratto distintivo della sua variante ultraortodossa europea.

    Oggi quella direzione alternativa, senza sognare unimpossibile fuga dal mercato mondiale (la sostanzialeemarginazione dal quale fu decisiva per decretare linsuccesso delle economie pianificate dellUrss e dellEsteuropeo), deve prevedere un ampliamento della sfera pubblica delleconomia e forme di socializzazione degliinvestimenti tali da condurre a una forma di economia mista in cui le scelte strategiche di sviluppo sianosottratte alla logica del profitto privato.

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    oggi duso, soprattutto a sinistra, chiedersi se questo possa conseguirsi allinterno di uneconomia nazionale.Si tratta di un interrogativo che spesso brandito come unarma polemica, non diversamente dallappellativo diprotezionista (cio fautore di barriere, tariffarie e non, agli scambi sul mercato) affibbiato a chiunque nonritenga un tab la fine dellarea valutaria delleuro (cio il ripristino anche in Europa del mercato dei cambi). comunque un interrogativo che va preso sul serio, e al quale non si pu rispondere in astratto, senza ciodisegnare i contorni del modello sociale che si intende realizzare e il livello conseguentemente consideratoottimale di apertura delleconomia.

    senzaltro pi facile dare risposta a un diverso interrrogativo: se questo si possa realisticamente conseguireallinterno dellattuale cornice istituzionale europea. E in questo caso la risposta non pu non essere nettamentenegativa.

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