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Steve Jobs. L'uomo che ha inventato il futuro

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La biografia di Steve Jobs, fondatore della Apple, scritta dall'ex Vice Presidente Apple Jay Elliot assieme allo scrittore William L. Simon, edita in collaborazione con Hoepli. In postfazione, un saggio di Massimo Temporelli, curatore di BasicGallery e storico dell'Informatica.

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STEVEJOBS

Gente in Movimento

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STEVEJOBS

Jay ElliotWilliam L. Simon

L’uomo che ha inventato

il futuro

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

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Titolo originale: The Steve Jobs Way. iLeadership for a New Generation.Copyright © 2011 by Jay Elliot and William L. Simon. First published 2011 by Vanguard Press, division of The Perseus Group.All Rights Reserved

Per l’edizione italianaCopyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2011via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy)tel. +39 02 864871 – fax +39 02 8052886e-mail [email protected]

www.hoepli.it

Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali

ISBN 978-88-203-4883-0

Edizione speciale perBasicEdizionisu licenza Ulrico Hoepli Editore S.p.A.Release 1.1.1

Traduzione: Ilaria KaterinovProgetto editoriale e realizzazione: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali ([email protected])Immagine di copertina © Corbis

Stampa: L.E.G.O. S.p.A., Stabilimento di Lavis (TN)

Printed in Italy

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A mia moglie Liliana e ai miei figli Jay-Alexander

e Federico, per il sostegno e l’amore.

E ad Arynne, Victoria e Charlotte,e Sheldon, Vincent ed Elena.

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VII

Prefazione all’edizione italiana IXNota dell’autore XIIIPrologo XV

PARTE I Lo zar del prodotto1 La passione per il prodotto 32 Il successo è nei dettagli 19

PARTE II Le regole del talento3 Lavoro di squadra 374 Trovare il talento 555 Ricompensare i pirati 73

PARTE III Sport di squadra6 L’impresa orientata al prodotto 877 Conservare l’energia 1098 La ripresa 1319 Lo sviluppo olistico dei prodotti 14510 Evangelizzare all’innovazione 163

PARTE IV Diventare cool: un nuovo approccio alle vendite

11 L’apripista: il branding 18112 Alla conquista del punto vendita 18913 Cool per definizione: “C’è un’app per questo” 199

Sommario

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IX

PARTE V Diventare come Steve14 Sulle sue orme 217

Una lettera a Steve 225Ringraziamenti 229

Postfazione

Steve Jobs e la giovinezza dell’innovazione 233

Prefazione all’edizione italiana

di Luca De Biase

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IX

Lo hanno definito un genio, un tiranno, un leader carismatico. Ma più spesso, molto più spesso, Steve Jobs è stato descritto come un mago: per gli ammiratori, un creatore di realtà che nessuno aveva visto pri-ma; per i critici, un prestigiatore che tira sempre fuori dal cilindro la sua nuova sorpresa. Perché un visionario è sempre una persona che pensa diversamente e che, dunque, suscita reazioni contrastanti: c’è chi crede che il suo sia un potere soprannaturale e c’è chi non cessa di tentare di scoprire quale sia il trucco. C’è chi lo applaude e c’è chi lo perseguita. Da questo punto di vista, non è cambiato proprio tutto dai tempi di Giordano Bruno. E in effetti, ci sono poche biografie di imprenditori segnate come quella di Jobs dalla sperticata adorazione dei suoi seguaci e dalla violenta incomprensione degli scettici: perché Jobs fondò la Apple con Steve Wozniak e la portò al successo, perché fu poi cacciato dalla sua creatura e visse in esilio una dozzina d’anni, trovando il tempo di fondare altre due aziende come NeXT e Pixar, e

Prefazione all’edizione italiana

di Luca De Biase

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X

perché solo quando l’azienda era sull’orlo del fallimento fu chiamato a rifondarla. Nel 1998, quando al MacWorld di San Francisco, dopo la presentazione dei nuovi prodotti, facendo simpaticamente finta di essersi ricordato all’ultimo momento di avere “ancora una cosa” da dire, annunciò “siamo in utile”, fu un trionfo: ma non sarebbe stato lo stesso se per arrivarci non avesse dovuto attraversare un inferno. La di-mostrazione di come un uomo potesse fare la differenza, in un’impre-sa, non sarebbe stata altrettanto chiara se il suo amore per Apple non avesse dovuto superare una prova tanto dura come l’esserne stato bru-talmente respinto e allontanato. I momenti di trionfo sono stati tanti, da quel 1998, da aver riempito le cronache in ogni parte del mondo. La reinvenzione del business della musica, con l’accoppiata iTunes-iPod. La ridefinizione del telefono, con l’iPhone. L’apertura di una nuova dimensione della lettura e della fruizione dei contenuti digitali con l’iPad. La conquista dei vertici dell’imprenditorialità globale con il ri-conoscimento registrato a Wall Street, quando Apple ha raggiunto la capitalizzazione di borsa più alta di tutta l’industria tecnologica.

Ora tutti si chiedono come ci sia riuscito. E quale sia il suo insegna-mento per la comunità degli innovatori. Chi lo conosce bene, come Jay Elliot, antico collaboratore di Jobs e autore della magnifica bio-grafia che in questo momento state cominciando a leggere, non esita a definirlo “un artista”. Ed è difficile non comprendere che in questa definizione c’è qualcosa di molto vero: guardando i suoi prodotti, gli ammiratori non vedono strumenti elettronici, ma rivelazioni, capaci di far scoprire nuovi mondi di senso, capaci di spostare il limite del possibile dal punto di vista tecnologico e nello stesso tempo di gra-tificare chi li usa in modo più estetico che funzionale. Sarebbe d’ac-cordo, lo stesso Steve Jobs? Nell’unico momento di autobiografia che Jobs abbia voluto condividere, la lezione a Stanford nel 2005, divenuta uno dei video più commoventi e importanti che si possano trovare su YouTube, suggerisce ai ragazzi di coltivare la passione e l’ingenuità, la fame e la follia: “Solo amando quello che fate, farete grandi cose”. Un’idea non troppo diversa da quella che aveva espresso presentando

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il Mac, più di vent’anni prima: “Irragionevolmente grande”. Lui, Jobs, non si è raccontato se non attraverso le sue opere e in esse ha proiet-tato la sua passione, visione ed esperienza: come un artista, come un esaltato, come un creatore, senza alcuna distanza tra la sua esistenza e ciò che ne ha fatto. Eppure, ci sono molti esaltati che non sono altrettanti Steve Jobs. È chiaro che il suo valore non si riassume in una parola. Piuttosto, lo si scopre nella sua vita esemplare. Una vita proiettata a cercare di realiz-zare opere eccellenti condotte dalla tensione verso l’essenziale. Solo questa tensione spiega la sua maniacale attenzione per i dettagli. Ha sempre voluto conoscere tutti i particolari dei prodotti dell’azienda, come ricorda Elliot, e occuparsi di tutto. Il che ha sempre generato un certo timore in chi gli stava di volta in volta accanto, anche perché Jobs non si è mai tirato indietro quando ha pensato che fosse giunto il momento di esprimere le critiche più feroci; ma questo atteggia-mento, nello stesso tempo, è sempre stato un motivo di entusiasmo per i collaboratori: perché un fatto è certo, chi ha avuto la fortuna di lavorare con lui ha vissuto un’esperienza indimenticabile. Non ha mai smesso di interloquire con gli ingegneri sulle soluzioni tecniche, non ha mai cessato di mettere tutto se stesso nella scelta delle persone da assumere, ha sempre trovato il tempo per mandare una mail di com-plimenti per un lavoro ben fatto anche all’ultimo collaboratore. Scelse personalmente il marmo di un negozio Apple in California, mandan-dolo a comprare in Italia, e andò regolarmente a ispezionare lo stato di avanzamento dei lavori: quando si accorse che il marmo si sporcava in seguito al passaggio delle persone, ordinò di rifare il lavoro usando nuovi materiali per fissare il marmo, scelti in modo che non trattenes-sero la polvere. La sua leggenda era tale che bastò che girasse la voce secondo la quale la sua bibita preferita era il succo di frutta Odwalla per fare di quella marca un successo internazionale. Al centro della sua carriera, ancor più che i prodotti o i clienti, sta una ricerca continua, incessante, appassionata, di qualcosa da ama-

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XII

XIII

prefazione all’edizione italiana

re. Una ricerca perseguita con un rigore senza paragoni. Che gli ha fatto vivere una vita disciplinata solo dallo scopo di esprimere quel-lo che ne voleva fare. A cinquant’anni ha detto, agli studenti di Stan-ford: “Siate autori della vostra vita, non lasciate che gli altri la scrivano per voi”. E a trent’anni governò il team che progettava il Macintosh con il motto: “Non siete la Marina, siete pirati!”. Questa sua ricerca lo avrebbe condotto a combattere con i limiti che gli imponevano le regole abituali. A scuola era stato tanto ingovernabile da aver rischiato l’espulsione e in un’occasione addirittura la galera. In Apple, escluso dalla progettazione dei prodotti, ai tempi dell’Apple II, aveva trovato il modo di imbrogliare l’azienda e di sviluppare un team segreto con il quale avrebbe creato il Macintosh. E poi avrebbe causato danni enor-mi alle pur ricche casse di Apple imponendo ai progettisti di togliere la ventola per rendere silenzioso il Mac, pagando quest’idea con cinque mesi di ritardo nella produzione, e imponendo all’azienda di costruire una fabbrica per assemblare il prodotto: era tanto convinto che fosse unico e meraviglioso che non poteva lasciare ad altri il compito di costruirlo. Aveva ragione sul fatto che il Mac avrebbe cambiato molto più che il mondo dell’informatica, ma doveva ancora imparare quali regole invece non si possono ignorare. Al suo ritorno in Apple, la sua conduzione sarebbe stata molto più consapevole. Ma lo spirito non era cambiato: si era semplicemente allargato dalla cura del prodotto, alla cura di tutta l’azienda. Quando un imprenditore coltiva la sua azienda come un artista lavora alla sua opera, quando vede quello che la sua azienda può creare e trascina tutti a realizzarlo, allora il leader non è un capo: è un maestro di vita che conduce tutti a fare qualcosa di grande. In quel caso, non c’è differenza tra economia e cultura. E l’innovazione non è l’insieme delle novità: ma la costruzione del futuro.

Luca De Biase – Il Sole 24 Ore

Nota dell’autore

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XIII

Scrivere ogni volta “prodotti e servizi” renderebbe la lettura macchinosa, quindi ho usato solo il termine “prodotto” e prego il lettore di includere anche i servizi nell’accezione di questa parola.

A volte, le cose si mettono talmente bene…

… che non avremmo saputo pianificarle meglio neppure se fosse di-peso da noi.

Naturalmente, quelli che vengono definiti “lavori di prestigio” – nel cinema, in televisione, nel mondo della musica o della moda – sembrano affascinanti solo visti da fuori: lavorare in quegli ambienti significa dover affrontare ostacoli e frustrazioni continue.

Nessuno considera la tecnologia un ramo prestigioso; ma io non mi sono mai divertito ed entusiasmato più di quando lavoravo con Steve Jobs.

Nota dell’autore

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XIV

Prologo

XV

nota dell’autore

Ho collaborato con i dirigenti di IBM e Intel, ho conosciuto grandi imprenditori e intellettuali come Jack Welch, Buckminster Fuller e Jo-seph Campbell, e ho discusso con John Drucker del prossimo cambio di paradigma nella teoria delle organizzazioni.

Ma Steve è un mondo a parte.Le principali riviste di economia sono spesso in disaccordo, ma è

opinione diffusa che Steve Jobs sia a capo dell’azienda più straordina-ria della storia. Steve fa ogni giorno cose teoricamente impossibili.

Cosa lo rende così unico? Com’è riuscito a diffondere in tutto il mondo prodotti così pratici, divertenti e funzionali? A questa doman-da intendo rispondere nelle prossime pagine.

Non si tratta solo di cambiare prospettiva, ma di fare in modo che l’azienda cambi insieme a voi. I principi di iLeadership che enuncerò in questo libro riguardano il prodotto o i servizi che offrite, le persone e i team, l’azienda stessa e il motore dell’innovazione che connette le vostre attività e i vostri prodotti alla clientela che volete raggiungere. Steve Jobs rappresenta forse l’esempio perfetto di un leader che, ap-plicando questi principi, guida una grande azienda come se fosse una startup.

Alcuni dei consigli che darò non sono facili da mettere in pratica. Vi chiederò di pensare in un modo nuovo, a cui non siete abituati. Ma se avrete il coraggio di applicare i principi di iLeadership che troverete in queste pagine, potrete migliorare la vostra azienda e la vostra vita.

Jay Elliot

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Prologo

XV

Ero nella sala d’attesa di un ristorante…

… un’ambientazione davvero improbabile, per un incontro destinato a cambiarti la vita.

Stavo leggendo sul giornale la triste storia della startup Eagle Com-puter. Un ragazzo, seduto accanto a me in sala d’aspetto, stava leg-gendo lo stesso articolo: ci mettemmo a parlare e gli spiegai cos’avevo a che fare con quella vicenda. Di recente avevo detto al mio capo, il presidente dell’Intel, Andy Grove, che intendevo dimettermi dalla sua azienda per lavorare con i fondatori della Eagle Computer, che si pre-paravano a quotare la propria azienda in borsa.

Il giorno dell’offerta pubblica, l’amministratore delegato divenne multimilionario in poche ore e decise di festeggiare concedendosi una bevuta insieme con i co-fondatori. Da lì andò dritto a comprarsi una Ferrari, prese un’auto dal concessionario per una prova su strada ed ebbe un grave incidente. Morì, l’azienda morì con lui, e l’impiego per cui avevo lasciato Intel si volatilizzò prima ancora che mettessi piede in ufficio.

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XVI prologo

Il ragazzo a cui avevo raccontato questa storia iniziò a fare un muc-chio di domande sulla mia esperienza lavorativa. Eravamo molto di-versi: lui era un hippie poco sopra i vent’anni, in jeans e scarpe da ginnastica; io ero un uomo dal fisico atletico, alto due metri, sulla quarantina: un classico uomo d’affari in giacca e cravatta. L’unica cosa in comune fra noi era la barba, che all’epoca portavamo entrambi.

Ma presto scoprimmo una passione condivisa: i computer. Quel ragazzo era instancabile, traboccava di energia: si entusiasmò quando gli dissi che ero stato un dirigente di alto livello nel settore tecnologi-co, ma che avevo lasciato l’IBM perché la trovavo restia ad accettare nuove idee.

Si presentò come “Steve Jobs, presidente del Cda di Apple Compu-ter”. Avevo sentito parlare in termini vaghi di Apple, ma non riuscivo a figurarmi quel ragazzino come presidente di un’azienda informatica.

Poi Steve mi colse completamente alla sprovvista: disse che gli sa-rebbe piaciuto assumermi. “Non credo possiate permettervi il mio stipendio”, gli risposi. All’epoca Steve aveva venticinque anni, e di lì a qualche mese Apple sarebbe stata quotata in borsa e quel ragazzo sarebbe valso qualcosa come 250 milioni di dollari. Eccome, se la sua azienda poteva permettersi di assumermi.

Un venerdì, due settimane dopo, iniziai a lavorare per Apple – con una retribuzione leggermente più alta e con molte più azioni di quante ne avessi all’Intel. Andy si accomiatò da me dicendomi che stavo com-mettendo “un grave errore: Apple non ha futuro”.

A Steve piace stupire tutti, tenendo segrete le informazioni fino all’ultimo minuto: forse lo fa per lasciarti sempre un po’ sulle spine, per controllarti meglio. Il primissimo giorno che ero lì, dopo un pomerig-gio passato a chiacchierare per conoscerci meglio, mi disse: “Domani andiamo a farci un giro. Ci vediamo qui alle dieci, voglio mostrarti una cosa.” Non avevo idea di cosa aspettarmi, o di come prepararmi.

Il sabato mattina salimmo sulla macchina di Steve e partimmo. Da-gli altoparlanti, i Police e i Beatles rimbombavano a volume fastidiosa-mente alto. E non sapevo ancora dove stessimo andando.

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XVIIprologo

Steve entrò nel parcheggio del PARC, il centro di ricerca Xerox di Palo Alto; da lì fummo accompagnati in una stanza piena di compu-ter: uno spettacolo che mi mozzò il fiato. Steve era stato lì un mese prima con un gruppo di ingegneri del software di Apple, ma non era riuscito a persuaderli che quelle meraviglie fossero applicabili anche ai personal computer.

Ora Steve era tornato a dare un’altra occhiata e ne era esaltato. Gli cambiò la voce quando vide qualcosa di “incredibilmente bello”, e quel giorno ne fui testimone. Vedemmo una versione primitiva di uno strumento che in seguito avremmo chiamato “mouse”, una stampan-te, un monitor che non si limitava a mostrare testo e numeri, ma pote-va riprodurre disegni, immagini e menu in cui si potevano selezionare le varie voci con il mouse. In seguito Steve definì “apocalittiche” quel-le visite al PARC. Era sicuro di aver visto il futuro dei computer.

Il PARC stava sviluppando una macchina per le aziende: un mainframe che avrebbe potuto competere con quello di IBM e che sarebbe costa-to tra i dieci e i ventimila dollari. Steve, però, aveva intravisto un’altra possibilità: un computer per tutti.

Ma le sue intuizioni non si limitavano alla tecnologia informati-ca. Come un ragazzo dell’Italia medievale che entrando in monastero scoprisse Gesù, Steve si era convertito alla religione dello user friendly. O forse, aveva soltanto scoperto come appagare un desiderio preesi-stente. Steve – il consumatore per eccellenza, l’uomo capace di im-maginare prodotti perfetti – si era imbattuto per caso nel sentiero che conduceva a un futuro glorioso.

Certo, la strada era irta di ostacoli. Steve avrebbe commesso molti errori gravi, costosi e quasi disastrosi, spesso per colpa della sua illu-sione d’infallibilità, quella sicurezza testarda che ha dato vita al cliché: “Fa’ come ti dico, altrimenti quella è la porta.”

Ma per me, il suo nuovo assistente, era straordinario osservare quanto fosse aperto alle nuove idee, con quanto entusiasmo apprez-zasse, e facesse suo, un nuovo modo di pensare. E il suo entusiasmo è contagioso: Steve comprende la psiche dei consumatori perché è uno

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XVIII prologo

di loro. E poiché ragiona come i suoi futuri clienti, è consapevole di intravedere il futuro.

Con il tempo sarei giunto a vedere in Steve un uomo di straor-dinaria intelligenza, ricolmo di energia, motivato da una visione del futuro, ma anche molto giovane e molto impulsivo. E lui cosa vedeva in me? Probabilmente qualcosa che cercava invano da tempo: un diri-gente con i piedi per terra e un buon fiuto per il business. Il mio nuovo titolo era vicepresidente operativo senior, ma ricoprivo anche le mansioni non ufficiali di mentore, spalla e grande saggio; avevo 44 anni. Ben presto Steve avrebbe iniziato a dire in giro: “Non fidatevi di nessuno che abbia più di quarant’anni, tranne Jay.”

Steve non aveva competenze tecniche approfondite, ma voleva cre-are un prodotto tutto suo. Mentre Woz sviluppava i primi computer dell’azienda, Steve si era occupato di trovare finanziatori e stringere accordi; ma adesso non vedeva l’ora di dimostrare la validità delle sue idee, creando una macchina che portasse la sua firma. Quando cer-cò di trasmettere la sua visione del futuro ai progettisti del computer Lisa, per scrollarselo di dosso quelli gli dissero: “Se le tue idee ti sem-brano così buone, vai a costruirti un computer da solo.”

No, Steve non aveva la sfera di cristallo: non poteva sapere che avreb-be creato un prodotto dopo l’altro, tutti straordinari e trend setter. E non è mai stato abbastanza introspettivo per fermarsi a riflettere sulla strada percorsa. Insomma, accumulava credibilità senza neppure accorgersene.

Ma all’epoca, mi sembrò straordinaria quell’apertura mentale, quell’entusiasmo di fronte a nuovi schemi di pensiero.

L’illuminazione ricevuta da Steve al PARC sarebbe diventata uno degli eventi più celebri e più discussi nella storia della tecnologia. Sulla base di quanto aveva visto quel giorno, Steve Jobs si prefisse di cam-biare il mondo.

E, naturalmente, c’è riuscito.

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PARTE I

LO ZAR DEL PRODOTTO

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La passione per il prodotto

Alcune persone scelgono la loro strada nella vita, altre se la vedono imporre. E poi ci sono quelli che scoprono la loro vocazione quasi per caso, senza averla mai cercata.

Steven Paul Jobs non ha deciso di diventare uno Zar del Prodotto. Se l’avessi chiamato così all’inizio della carriera, forse non avrebbe ca-pito di cosa parlavo. Forse avrebbe riso di me.

D’accordo, non dirò di essermene accorto subito. Nessuno lo sape-va. Certo non Paul e Clara Jobs, che con affetto e dedizione l’avevano sopportato negli anni della scuola: era così indisciplinato da rischiare, come ammette lui stesso, persino la galera.

È davvero sorprendente, quindi, che sia diventato l’industriale e il creativo più famoso del mondo. Ma fin dall’inizio mi accorsi che era determinato e motivato e che, come tutti i grandi leader che avevo conosciuto prima di lui, aveva con il suo lavoro un legame quasi ir-razionale: ma quel tipo di concentrazione ha reso il mondo un posto migliore. L’ossessione di Steve è la passione per il prodotto… la passione per la perfezione del prodotto.

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4 steve jobs

Che forma assume quest’ossessione? Facile: Steve è il più grande consumatore del mondo. L’ho imparato il giorno stesso in cui sono stato assunto in Apple. Steve ha dato vita al Macintosh con l’intento di farne “il computer per tutti noi”. Ha creato l’iTunes Store e l’iPod perché amava la musica e voleva portarsela sempre addosso. Trovava comodo il telefono cellulare, ma odiava i telefoni presenti sul mercato – pe-santi, sgraziati, brutti e difficili da usare; e questa insoddisfazione l’ha spinto a creare l’iPhone, per se stesso e per tutti noi.

Steve Jobs sopravvive, prospera e cambia la società perché insegue le sue passioni.

Ho visto in azione per la prima volta queste passioni il giorno in cui andammo al PARC. L’ufficio che mi avevano assegnato, in uno dei primi edifici Apple su Bandley Drive a Cupertino, era a pochi passi dall’ufficio di Steve, e ne avevo approfittato per fare un salto da lui: speravo di poter riprendere la conversazione avviata al ristorante a proposito dei suoi progetti per Apple e, inoltre, volevo capire quale ruolo avesse in mente per me in azienda. Fu durante quella chiacchie-rata pomeridiana che mi chiese di andare a fare quella visita con lui il giorno dopo.

Per il resto di quel fine settimana, continuai a rivivere l’esperienza della visita al PARC. Riflettevo su ogni istante di quelle due ore: ero consapevole di aver assistito a qualcosa di straordinario. Steve era in-contenibile, non riusciva a trattenere l’entusiasmo. Quella era la pas-sione nella sua forma più pura, la passione per un’idea. Ma in lui si stava già coagulando nella passione per un prodotto specifico.

Da tutto quel che mi aveva detto, lì al PARC e sulla via del ritorno, avevo tratto due conclusioni: già allora Steve aveva idee molto chiare sul fatto che i computer potevano cambiare la vita delle persone e sapeva di aver visto da vicino gli strumenti che avrebbero consentito questo cam-biamento. In particolare, era rimasto molto colpito dall’idea di un’icona mobile sullo schermo – un cursore – che si poteva controllare con il mo-vimento della mano. In un nanosecondo, Steve aveva avuto una visione del futuro dei computer.

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5la passione per il prodotto

A impressionarlo non era stata solo la tecnologia del PARC, ma anche le persone: e l’ammirazione era reciproca. Vari anni dopo, lo scienziato del PARC Larry Tessler avrebbe ricordato con il giornalista e autore Jeffrey Young la visita di Steve e del team Apple: “Mi impres-sionò la profondità delle loro domande: nei miei sette anni in Xerox, nessuno – dipendenti, visitatori, docenti universitari o studenti – mi aveva posto domande così acute. Da quelle domande era chiaro che comprendevano tutte le implicazioni, tutte le sottigliezze. Nessun al-tro, tra coloro che avevano visto la demo, aveva mostrato altrettanto interesse per i dettagli: cosa ci facessero quei motivi di sfondo nel ti-tolo della finestra, perché i menu a comparsa fossero fatti proprio in quel modo.”

Tessler restò così colpito che di lì a poco lasciò il PARC e fu assunto in Apple con il titolo di vicepresidente, diventando al contempo il pri-mo Chief Scientist (“scienziato capo”) di Apple.

Nei miei dieci anni in IBM avevo conosciuto molti professionisti di prim’ordine che facevano un lavoro eccezionale ma erano demoraliz-zati perché raramente le loro idee si trasformavano in prodotti veri. Al PARC avevo fiutato nell’aria l’odore rancido della frustrazione, quindi non mi stupì apprendere che avevano un turnover del personale del venticinque per cento, uno dei più elevati in quel settore.

Quando entrai in Apple, l’entusiasmo era alimentato soprattutto dal team che lavorava a un computer che poi sarebbe stato battezzato Lisa e che, secondo le loro previsioni, era destinato a stravolgere il mercato: una vera rivoluzione rispetto alla tecnologia di Apple II, che avrebbe portato l’azienda in una direzione nuova, sfruttando alcune delle inno-vazioni viste al PARC. Steve mi disse che il Lisa era così rivoluzionario “che produrrà un’ammaccatura nell’universo”. Sono frasi che lasciano il segno e quella frase, in particolare, è sempre stata un monito per me: non puoi generare entusiasmo nelle persone con cui lavori se non ti entusiasmi tu per primo… e se non lo fai sapere a tutti.

Il Lisa era in fase di sviluppo da due anni, ma questo non conta-va: la tecnologia che Steve aveva visto al PARC avrebbe cambiato il

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6 steve jobs

mondo e il Lisa andava ripensato da capo con queste nuove premesse. Steve cercò di trasmettere quel suo entusiasmo al team che lavorava sul Lisa: “Dovete cambiare direzione”, insisteva. Gli ingegneri e i pro-grammatori del Lisa erano fedelissimi di Woz e non avevano certo intenzione di lasciarsi convincere da Steve Jobs.

In quei giorni Apple era una specie di nave in fuga, che solcava le acque a vele spiegate con tutto l’equipaggio sul ponte ma nessuno al timone. L’azienda, nata da appena quattro anni, aveva già un fatturato netto annuo nell’ordine dei 300 milioni di dollari. Steve era il co-fonda-tore, ma non esercitava più il potere dei primi tempi, quando c’erano solo i due Steve (Woz si occupava del lato tecnologico e SJ di tutto il resto). L’amministratore delegato se n’era andato, l’investitore in start-up Mike Markkula faceva l’amministratore ad interim e Michael Scott (“Scotty”) era il presidente: entrambi erano più che competenti, ma non avevano le qualifiche necessarie per gestire un’azienda tecnologi-ca in forte crescita. Mike, il secondo principale azionista, mi sembrava più interessato ad andarsene in pensione che a occuparsi dei problemi quotidiani di un’azienda giovane e dinamica. I due dirigenti voleva-no evitare che il Lisa arrivasse sul mercato troppo tardi, a causa delle modifiche richieste da Steve. Il progetto era già in ritardo sulla tabella di marcia e l’idea di buttare via quanto fatto finora e ricominciare da capo era semplicemente inaccettabile per loro.

Per obbligare il team Lisa e i dirigenti a piegarsi al suo volere, Steve aveva progettato di farsi nominare vicepresidente dello Sviluppo Nuo-vi Prodotti, ovvero comandante supremo del team Lisa: così avrebbe avuto l’autorità per imporre il cambiamento di rotta che desiderava.

Invece, con un rimpasto aziendale, Markkula e Scott avevano asse-gnato a Steve il titolo di presidente del consiglio di amministrazione, spiegandogli che questo avrebbe fatto di lui il “volto” dell’azienda in occasione dell’imminente offerta pubblica iniziale delle azioni Apple; quel venticinquenne carismatico e telegenico sarebbe stato un ottimo portavoce, gli dissero: il valore delle azioni sarebbe aumentato e lui si sarebbe arricchito.

Steve restò molto ferito dal tranello che Scotty aveva escogitato

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7la passione per il prodotto

senza informarlo né consultarlo: era la sua azienda, dopotutto! E gli dispiaceva molto perdere il coinvolgimento diretto nel progetto Lisa. Si offese a morte.1

La trappola scattò impietosa: il nuovo coordinatore del gruppo Lisa, John Couch, disse a Steve che doveva piantarla di andare lì a di-sturbare i suoi ingegneri; doveva starsene per i fatti suoi e lasciarli la-vorare in pace.

Steve Jobs non conosce la parola “No”, ed è sordo a frasi del tipo: “Non possiamo” o “Non hai il permesso”.

Cosa fai se hai in testa un prodotto rivoluzionario, che però alla tua azienda non interessa? Steve decise di darsi da fare: invece di piagnu-colare come un bambino a cui avevano rubato i giocattoli, vidi che si concentrava sul lavoro con disciplina e determinazione.

Non gli era mai capitato di essere estromesso in quel modo dalle attività della sua stessa azienda; è un’esperienza che capita a poche persone. Alle riunioni del consiglio di amministrazione lo vedevo più capace e competente degli altri dirigenti, che pure erano più anziani, più equilibrati e molto più esperti. Aveva in testa dati aggiornatissimi sulla posizione finanziaria di Apple, sui margini, il flusso di cassa, le vendite di Apple II in diversi segmenti di mercato e zone geografiche e così via. Oggi tutti lo ritengono un grande esperto di tecnologia, uno straordinario creatore di prodotti, ma Steve è molto di più, e lo è sempre stato.

D’altro canto, però, gli era appena stato sottratto il ruolo di ideato-re e creatore di prodotti. Steve aveva una visione chiara sul futuro dei computer, una visione che gli martellava in testa, ma non sapeva cosa farsene. Le porte del gruppo Lisa gli erano state sbattute in faccia e chiuse a doppia mandata. E allora?

• • •

1. Jeffrey S. Young, Steve Jobs: The Journey Is the Reward, Scott Foresman Trade 1987.

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8 steve jobs

Tutto ciò accadeva in un periodo in cui Apple aveva in tasca milioni di dollari, grazie alle buone vendite di Apple II. Quel capitale consentiva di avviare piccoli progetti innovativi a ogni livello dell’azienda. Era il genere di atmosfera da cui ogni azienda avrebbe tratto vantaggio: la voglia di creare un mondo nuovo sognando qualcosa di radicalmente diverso, qualcosa che nessuno avesse mai fatto prima.

Fin dalla mia prima settimana in ufficio avevo percepito la passione e la motivazione che riempivano tutti di energia. Immaginavo scene del tipo: due ingegneri si incontrano in corridoio, uno dei due descrive un’idea che gli è appena venuta e l’altro risponde “Fantastico, dovre-sti metterla in pratica”; allora il primo torna in laboratorio, riunisce un team e passa mesi a sviluppare l’idea. Sarei pronto a scommettere che in quel periodo andava così in tutta l’azienda. La maggior parte dei progetti non avrebbe mai trovato sbocchi commerciali o fatturato un dollaro. Accadeva che due gruppi lavorassero allo stesso progetto l’uno all’insaputa dell’altro, ma non importava: un numero sufficiente di progetti sarebbe riuscito a fare la differenza. L’azienda era ricchissi-ma e traboccava di idee creative.

C’era un progetto, in particolare, che era nelle prime fasi di sviluppo e che poco tempo prima Steve aveva cercato di stroncare perché te-meva che entrasse in competizione con il Lisa. Quando andò a con-trollare a che punto fosse, trovò il piccolo team al lavoro in un edificio che tutti gli altri chiamavano “Texaco Towers” perché era vicino a un distributore Texaco. Il team si prefiggeva di costruire un computer poco costoso e facile da usare per un pubblico molto ampio e, in pochi mesi, aveva già sviluppato un prototipo funzionante. E il loro computer aveva già un nome: Macintosh. (Il direttore del team, un brillante ex professore universitario di nome Jef Raskin, aveva scelto il nome della sua varietà di mela preferita, in analogia con il nome dell’azienda; narra la leggenda che Raskin intendesse usare la stessa grafia, McIntosh, e che avesse sbagliato a scrivere; ma in seguito Ra-skin affermò di aver usato intenzionalmente uno spelling diverso, per evitare confusioni.)

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9la passione per il prodotto

Steve cambiò idea: non voleva più fermare il progetto. Se il team Lisa opponeva resistenza alla sua nuova visione dell’informatica, invece il piccolo team Macintosh era composto da hacker con una mentalità affine a quella di Steve, e potevano dimostrarsi più aperti alle sue idee.

Quando il co-fondatore, presidente e uomo-simbolo dell’azienda iniziò a farsi vedere sempre più spesso nel laboratorio Macintosh, il team non seppe bene come reagire: si sentivano stimolati dalla passio-ne e dall’impegno di Steve, ma allo stesso tempo, come scrisse uno di loro in un memorandum, ritenevano che Steve portasse nell’ambiente di lavoro “tensione, fastidio e beghe politiche”.2 Certo: le persone di grande successo, i visionari, spesso non possiedono particolari doti di socializzazione, o semplicemente non si sforzano di apparire educati o di avere tatto.

Ma non ebbero scelta: Steve prese il comando del team e iniziò ad assumere gente, a convocare riunioni e a fissare nuove rotte. Lo scon-tro più duro con Raskin verteva su come l’utente avrebbe impartito i comandi al computer. Jeff voleva che le istruzioni fossero digitate sulla tastiera, ma Steve pensava che doveva esserci un sistema miglio-re: un oggetto o un apparecchio che controllasse i movimenti del cur-sore sullo schermo. Ordinò al team Macintosh di trovare un sistema che consentisse di usare il cursore per impartire i comandi: aprire un file o visualizzare un elenco di opzioni. Gli elementi fondamentali dei computer che usiamo oggi – spostare il cursore con il mouse, cliccare per selezionare, trascinare un file o un’icona e tutto il resto – erano idee nate al PARC e sviluppate poi dal team Mac grazie alla continua insistenza di Steve sulla semplicità, sull’eleganza del design e sull’in-tuitività.

Oltre alle mie mansioni dirigenziali, Steve cercava in me anche una cas-sa di risonanza, una sorta di mentore o consigliere, soprattutto nelle questioni economiche e organizzative. Quindi mi assegnò un secondo ruolo, all’interno del team Macintosh: diventai un consulente infor-male, membro a pieno titolo del team ma senza uno status ufficiale. Io

2. ivi pag. 7.

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e Steve ci vedevamo quasi ogni giorno e spesso passeggiavamo intor-no a Bandley Drive. Mi chiedeva un parere o una seconda opinione su persone, progetti, strategie di marketing, vendite… su tutto. In quelle lunghe discussioni riflettevamo su come trasformare il gruppo Mac nel nuovo paradigma dell’imprenditorialità americana.

In me Steve vedeva un socio che l’avrebbe aiutato a realizzare il suo sogno, un uomo che si era fatto da sé e che aveva accumulato una vasta esperienza in due aziende leader nel settore della tecnologia. Credo che vedesse in me anche una persona conciliante – al contrario di lui – e un mediatore. L’assistente di Steve, Pat Sharp, era solita dire: “Quando Jay entra nella stanza, Steve diventa una persona diversa.” Cioè, Steve si calmava.

Le doti che Steve mi attribuiva mi derivavano da un’infanzia piut-tosto insolita. Mio padre era quello che molti chiamerebbero un con-tadino, ma per noi era un “rancher”. Le nostre terre costituivano il ranch di “Año Nuevo” (“Anno Nuovo”): mille acri lungo la costa di Monterrey, nella California settentrionale, con tre miglia e mezza di spiaggia e due laghi nell’entroterra che potevano ospitare piccole bar-che a vela. La zona era stata colonizzata da padre Junipero Serra in-torno al 1770. Mia madre veniva da una famiglia di pionieri che erano migrati all’Ovest su carri coperti e si erano stabiliti in quelle terre alla fine dell’Ottocento, quando la California era appena diventata uno Stato. (In seguito abbiamo ceduto allo Stato gran parte di Año Nuevo, oggi meta turistica per le migliaia di persone che ogni anno vengono a vedere gli elefanti marini.)

Un mio trisavolo, Frederick Steele, aveva frequentato l’accademia di West Point con Ulysses S. Grant, ed era stato il suo braccio destro duran-te la Guerra civile. Possiedo ancora un cimelio di famiglia: il documento firmato da Abramo Lincoln con cui Steele veniva nominato generale.

I campi e il bestiame non aspettano nessuno: ci alzavamo ogni mat-tina alle cinque, anche nei fine settimana, e non vedevo mio padre fino all’ora di cena, alle sei, quando intorno al tavolo si riunivano i miei genitori, la nonna, due sorelle, a volte mio fratello con sua moglie, e il nostro colono, un uomo rigido e impettito.

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In una fattoria anche i ragazzi lavorano molto, tra la scuola, i com-piti a casa e le faccende domestiche. Le mucche devono essere munte alle cinque del mattino e alle cinque del pomeriggio, nei giorni feriali e in quelli festivi: che piova o che ci sia il sole, la nebbia o la tempesta. Quando diventi grande abbastanza da guidare il trattore, ti conviene imparare anche a ripararlo: perché se ti ritrovi in panne a venti miglia dal fienile e non sei bravo nel fai-da-te, devi farti una bella scarpinata per chiedere aiuto (ma questo oggi non è più un problema, grazie ai telefoni cellulari).

Non è una vita facile, ma ti insegna l’indipendenza. Bisognava esse-re creativi per inventarsi dei passatempi: io mi costruivo tavole da surf, e costruii due barche a vela che stavano a galla piuttosto bene. Poi, quando avevo quindici anni, mio padre annunciò che nell’anno succes-sivo si sarebbe concentrato sulle sue mansioni nel comitato scolastico e in altri enti pubblici, e mi avrebbe affidato la gestione della fattoria. A tutt’oggi non so come potesse pensare che ci sarei riuscito.

Volevo fare la differenza. In un grande ranch, di solito basta un ot-timo raccolto ogni cinque anni per restare in attivo. Io volevo ottenere quel raccolto eccezionale… ma di cosa? Quali semi potevo piantare? La coltura va decisa sei mesi prima e bisogna indovinare quale sarà il livello dei prezzi al momento del raccolto. Mi scoprii affascinato dal Farmer’s Almanac, una pubblicazione davvero incredibile. Sulla base delle previsioni meteo dell’almanacco per la stagione del raccolto e dopo aver chiesto consiglio ai coltivatori di frutti di bosco della zona, decisi di piantare fragole e affidai parte del lavoro a una famiglia giap-ponese che conosceva bene quel tipo di coltura.

Si rivelò un anno di guadagni straordinari, per il ranch e per me. Penso che quell’esperienza mi abbia aiutato a costruire la mia auto-stima e mi abbia convinto che potevo ottenere più di quanto avessi mai creduto possibile.

Ecco un’altra cosa che ho imparato coltivando la terra. Forse ogni ranch è fatto a modo suo, ma Año Nuevo non era governato da una gerarchia top-down, in cui fosse richiesta un’obbedienza cieca: se ti accorgevi che qualcosa non funzionava bene, dovevi dirlo subito.

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Quell’atteggiamento si è radicato nella mia personalità; e nel mio pri-mo impiego in azienda, alla IBM, mi condusse a prendere un’iniziativa che pochi altri, credo, avrebbero preso trovandosi nei miei panni. Il presidente dell’azienda Tom Watson Jr., figlio del primo presidente di IBM, andò a testimoniare al Comitato per gli Affari Esteri del Senato che aveva aperto un’inchiesta per capire cosa fosse andato storto in Vietnam, e dichiarò che c’era stato un problema a livello logistico.

Quando lessi sul giornale la testimonianza di Watson, mi tornò in mente la regola che vigeva al ranch quand’ero bambino: se qualco-sa ti sembra sbagliato, devi alzare la voce. Allora mi sedetti e scrissi con molta cura una lettera in cui dicevo che secondo me anche IBM stava commettendo un errore di quel tipo. Ammiravo il rispetto con cui l’azienda trattava i dipendenti e i clienti aziendali, ma secondo me IBM si stava lasciando sfuggire un’opportunità preziosa, scegliendo di non entrare nel mercato consumer.

Ricevetti una telefonata dall’assistente di Watson: la settimana successiva il presidente avrebbe visitato la sede IBM in cui lavoravo e voleva vedermi. Andai da lui con i nervi molto tesi: ero convinto che quello fosse il mio ultimo giorno in azienda. Invece, Watson mi disse che era rimasto colpito dalla mia idea, che aveva apprezzato la mia scelta di parlare chiaro e che avrebbe preso in considerazione i miei suggerimenti. Da quel giorno in poi, ogni volta che passava in quello stabilimento IBM, Tom Watson chiedeva di vedermi per fare due chiacchiere.

Credo che a guadagnarmi il rispetto di Steve Jobs sia stata l’espe-rienza che avevo accumulato in IBM e in seguito in Intel, unita alla mia indole tollerante e alla capacità di dire come la penso senza acredine o livore.

I primi due prodotti di Apple erano stati due computer ideati dal co-fondatore Steve Wozniak (noto a tutti come Woz, anche se preferi-sce farsi chiamare Steve). La scalata al successo di Woz è una storia non meno interessante di quella del suo futuro socio. Da ragazzo era stato influenzato dai libri della saga di Tom Swift, il cui protagonista era “un giovane inventore che sapeva progettare macchine di ogni tipo, aveva

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13la passione per il prodotto

un’azienda tutta sua, catturava gli alieni, costruiva sottomarini e gira-va il mondo. Erano storie davvero coinvolgenti, come certi telefilm dell’epoca”. Suo padre, ingegnere, spingeva Steve a creare progetti di elettronica per i concorsi di scienze organizzati dalla scuola. Gli elo-gi degli insegnanti per i buoni voti in scienze “mi fecero venir voglia di diventare ancor più bravo in quella materia. In quinta elementare costruivo grandi progetti di elettronica simili a computer. In prima media costruii un vero computer: ci si poteva giocare a tris”.

Per tutto il liceo e il college, Woz continuò a studiare informa-tica da autodidatta, finché riuscì a progettare e costruire computer completi.

Quando gli hanno chiesto di riassumere la sua vita in una parola, ha risposto senza esitazioni: “Fortunato. Ogni sogno che abbia mai avuto nella vita si è realizzato dieci volte meglio di quanto sperassi. Sono la persona più fortunata al mondo, per tutto ciò che ho.” In parte attribuiva la buona sorte ai sani valori che aveva coltivato in gioven-tù. “Non ho mai frequentato la chiesa, ma ogni tanto ero influenzato da storie di ispirazione cristiana; per esempio l’idea di porgere l’altra guancia: se qualcuno ti fa del male, non rispondergli a tono, ma trat-talo bene, sii buono con lui, amalo dal profondo del cuore. Capire l’importanza della comunità in cui ero cresciuto, le scuole che avevo frequentato, le città in cui avevo vissuto. Valori come il rispetto per gli altri.” Woz è stato profondamente influenzato dal pensiero individua-lista, sulla scia di autori come Henry David Thoreau e, in particolare, i suoi testi sulla disobbedienza civile.

Ma un lato negativo della fama, a giudizio di Woz, è il fatto che la tua storia può essere raccontata male e venire fraintesa. “Trovo strano il fatto di dover leggere il giornale per scoprire chi sono e poi sforzar-mi di diventare quella persona. Piccoli errori giornalistici sfuggono di mano, e la storia viene scritta. Un grande quotidiano nazionale scrive l’opposto di ciò che hai detto tu, e quella diventa la verità scritta nei libri. E altri libri la ripetono. Probabilmente è andata così per tutta la storia dell’umanità.”

Eppure, malgrado l’importanza del suo contributo alla rivoluzione

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informatica, Woz non riesce a capire il motivo di tutta l’attenzione che riceve: “Non mi sembra di aver mai fatto nulla di speciale: sono di-ventato un bravo ingegnere, proprio come sognavo, ma allora perché mi considerano un eroe, una persona speciale? La gente vuole qualcu-no di speciale da ammirare, ma in realtà i computer sono nati grazie all’impegno di tante persone, alla somma delle loro idee.” Woz è fatto così: gli piace condividere il merito.3

Steve Jobs non possedeva neppure un decimo delle conoscenze tec-niche e dell’abilità di Woz: com’è riuscito a diventare un esperto in un settore complesso come la tecnologia informatica?

Un giorno mi disse che aveva scoperto il fascino dei computer mol-to presto, prima dell’adolescenza, quando aveva visitato il centro di ricerca Ames della NASA, nella vicina Mountain View. In realtà ho poi scoperto che non aveva visto davvero il computer, ma soltanto il terminale. Si illumina in volto con l’entusiasmo di un bambino quan-do ne parla, quando dice che quel giorno “si innamorò” dell’idea dei computer.

Parlando di quei primi tempi, nel documentario Triumph of the Nerds prodotto dalla PBS, Steve ha illustrato meglio questo punto: “Si digitavano questi comandi sulla tastiera e poi dovevi aspettare un po’; a un certo punto la macchina faceva dadadadadadada e sputava fuori una risposta. Niente male per un ragazzino di dieci anni, riuscire a scrivere un programma in Basic o in Fortran e vedere che la macchi-na… prendeva la tua idea e… la trasformava in realtà, produceva un risultato. E se il risultato era quello previsto, voleva dire che il tuo pro-gramma funzionava davvero. Era un’esperienza entusiasmante.”4

Non si diventa un imprenditore leader nel settore della tecnologia senza prima studiare sodo. È una regola ferrea che, però, per qualche motivo, non si applicava a Steve. Fui testimone di un fenomeno quasi

3. Tutte le citazioni di Steve Wozniak in questa sezione sono tratte da un’intervista condotta da Jill Wolfson e John Leyba, consultabile su www.engology.com/engint-wozniak.htm e www.thetech.org/exhibits/online/revolution/wozniak/.4. Triumph of the Nerds, documentario in tre parti della PBS scritto e presentato da Robert X. Cringley, trasmesso per la prima volta nel giugno 1996. Trascrizione disponibile su www.pbs.org/nerds/transcript.html.

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incredibile. Un ragazzo che aveva lasciato il college dopo un semestre o poco più, era partito per l’India non come turista ma come monaco-mendicante, ed era rimasto affascinato dal buddismo, che avrebbe pra-ticato per il resto della vita. (Un giorno, su un treno in Giappone, mi indicò un tempio buddista e spiegò che dopo il viaggio in India aveva deciso di andare a vivere lì e diventare un sacerdote. E l’avrebbe fatto, mi disse, se non fosse stato per quel piccolo progetto avviato con il vi-cino di casa Steve Wozniak. È straordinario come a volte le nostre vite imbocchino una strada diversa da quella che ci aspettavamo.)

E ora, invece di prendere i voti, Steve Jobs si stava trasformando in un mago dei computer.

Ben presto divenne esperto di ogni dettaglio del progetto Macin-tosh, dell’architettura di sistema e delle funzionalità. Conosceva la macchina così a fondo che poteva scendere con ciascun ingegnere nei particolari del suo lavoro: chiedeva i motivi di ogni decisione, moni-torava i progressi, imponeva modifiche. Interveniva anche nelle que-stioni centrali, come la scelta del microchip per il Macintosh: ordinò al team di creare un nuovo prototipo del computer con un chip diverso, il Motorola 68000, che aveva più capacità di memoria. Loro brontola-rono ma alla fine obbedirono; e si dimostrò la decisione giusta.

Una volta, intervistato sul suo periodo in Apple, l’ingegnere del gruppo Mac Trip Hawkins attribuì a Steve “una forza visionaria che fa quasi spavento. Quando Steve crede in qualcosa, il potere di quella visione può letteralmente spazzar via ogni obiezione, barriera o osta-colo. I problemi cessano semplicemente di esistere”.5

Come ci riusciva? Per me, che ero il suo braccio destro (o sinistro, dato che è mancino), la risposta è nel modo in cui parlava del suo ruolo e dei suoi obiettivi. Solo chi è mosso dalla passione può crea-re grandi prodotti. I grandi prodotti sono opera di squadre coinvolte dalla passione.

5. Anthony Imbimbo, The Brilliant Mind Behind Apple, Gareth Stevens Publishing, New York 2009.

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La “visione” di cui parlava Trip Hawkins nasceva dall’impegno di Steve, ma ancor più dalla sua passione. Mi piaceva il modo in cui ne parlava lui stesso: diceva che occorre fissare per sé e per gli altri l’obiettivo di svolgere ogni compito al meglio delle proprie possi-bilità, “perché in una vita si può fare un numero limitato di cose”. Come ogni artista, si è sempre lasciato guidare dalla passione crea-tiva, dall’amore per i suoi prodotti. Il Mac (e tutto ciò che è venuto dopo) non è un semplice prodotto: è il risultato dell’impegno instan-cabile di Steve Jobs. Un visionario è in grado di creare grande arte o grandi prodotti perché il suo lavoro non si svolge in orario d’ufficio. Ogni azione di Steve era come lui: intuitiva ma ispirata. Si atteneva inconsapevolmente al consiglio di Einstein: “Segui ciò che è miste-rioso.” Ma solo molti anni dopo il primo Macintosh, dopo che molta acqua era passata sotto i ponti e dopo aver commesso molti errori imbarazzanti, Steve si sarebbe reso conto che la sua vera passione non era semplicemente creare prodotti fantastici, ma qualcosa di più specifico, più preciso… come vedremo nelle prossime pagine. Que-sta intuizione gli avrebbe permesso di creare gli apparecchi eleganti, accessibili, dall’uso intuitivo, belli, potenti ed economici che hanno plasmato la sua carriera. Il mondo intero sarebbe cambiato grazie a lui… e lui avrebbe cambiato il mondo.

“Potrei fare tante altre cose nella vita”, diceva, “ma il Macintosh cambierà il mondo. Io ci credo, e ho scelto di avere intorno persone che ci credono.”

Questa passione per il prodotto è viva in tutta l’azienda: dalle re-ceptionist agli ingegneri, fino ai dirigenti. Se i leader non riescono a trasmettere questo entusiasmo ai loro sottoposti, devono chiedersi perché.

In quanto zar del suo prodotto, Steve svolgeva molti ruoli nel team Macintosh, a iniziare da quello di “ideatore capo”. Dal primo dise-gno preparatorio fino al giorno della consegna finale, Steve abitava il prodotto, ne percepiva ogni dettaglio come se fosse un organismo vivente.

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Sapeva di doversi circondare di persone che, come lui, puntassero all’eccellenza. La passione è uno dei grandi segreti del successo di Ste-ve. È esigente, è severo, e – sì – a volte agisce in modo avventato. E lo fa proprio perché è animato da una passione bruciante.

Steve è convinto che la maggior parte delle persone non abbia la stoffa per diventare un imprenditore o un responsabile di prodotto. Negli anni in cui cercava il successo con la NeXT, dichiarò: “Molta gente viene da me e mi dice: Voglio diventare un imprenditore. Allora io chiedo: Qual è la tua idea?, e mi rispondono: Non ne ho ancora una.”

A quelle persone, Steve replicava: “Secondo me devi trovarti un lavoro come bigliettaio dell’autobus o una cosa del genere, finché non trovi qualcosa che ti appassiona davvero.” È convinto che “una buo-na metà di ciò che distingue l’imprenditore di successo da quello che fallisce è la semplice perseveranza. Ti impegni così tanto, investi tutto te stesso in quest’impresa, e molti si arrendono nei momenti difficili. Non li biasimo: è un lavoro duro, che può stravolgerti la vita”.6

A motivarti dev’essere “un’idea, o un problema da risolvere, o un torto da riparare”. Se non è la passione a spronarti fin dall’inizio, non resisterai mai fino alla fine.

6. Le citazioni sono tratte da un’intervista condotta da Daniel Morrow, direttore esecutivo del Computerworld Smithsonian Awards Program, il 20 aprile 1995.

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Postfazione

di Massimo Temporelli

Steve Jobs e la giovinezza dell’innovazione

Farsi crescere i baffi per camuffare la propria giovane età. Lo fece il venticinquenne Guglielmo Marconi all’inizio del Novecento, men-tre si preparava a comunicare al mondo che la sua tecnologia senza fili (wireless) era pronta a unire il Vecchio con il Nuovo continen-te. E lo fece, alla fine degli anni Settanta, un altro venticinquenne, l’imprenditore Steven Paul Jobs (detto Steve), in occasione della promozione commerciale del suo Apple II, primo vero personal computer della storia.

L’inaugurazione dei collegamenti radio transoceanici e la nasci-ta dell’informatica moderna, due eventi destinati a segnare indisso-lubilmente il XX secolo, necessitavano espressioni credibili e volti maturi da inventori autorevoli e così i due giovanissimi inventori si prestarono al gioco, invecchiando, dietro baffi “posticci”, la propria immagine.

In fondo, si trattava di convincere l’intero pianeta di avere i con-notati di chi può cambiare il corso della storia.

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Guglielmo Marconi su La Domenica del Corriere nei primi del Novecento e Steve Jobs sulla rivista Time all’inizio degli anni Ottanta.

A ben pensarci, noi tutti abbiamo l’idea di una scienza e di una tec-nologia che progrediscono grazie ai contributi di scienziati e di tecnici maturi e autorevoli. Se dovessimo scegliere un’immagine rappresenta-tiva di uno scienziato o di un inventore, molto probabilmente sceglie-remmo un signore attempato, in camice da laboratorio, con capelli bianchi (magari arruffati) e con occhiali dalle grandi montature.

Per quanto caricaturale, questa idea dello scienziato è molto diffu-sa e non regna solo nei romanzi e nei film di fantascienza ma anche nell’iconografia che correda la narrazione della storia ufficiale dell’in-novazione.

Facciamo una prova, partendo dal web: interroghiamo google im-magini, scrivendo il nome del primo scienziato o del primo inventore che ci salta in mente, per esempio Albert Einstein, lo scienziato della teoria della relatività che all’inizio del Novecento sconvolse il pensie-ro scientifico occidentale. Eccolo apparire sul nostro monitor, capelli bianchi, baffi, rughe e sguardo da luminare.

Non basta? Proviamo con Isaac Newton e Galileo Galilei, gli scien-ziati padri fondatori della teoria gravitazionale, con Michael Faraday

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e James Clerk Maxwell, padri dell’elettromagnetismo o, infine, con Charles Darwin il biologo e zoologo che formalizzò la teoria della selezione naturale. In tutti questi casi, barbe, capelli bianchi e parruc-coni da accademici faranno capolino sul nostro monitor.

Adesso proviamo a pescare anche nella magica scatola degli invento-ri. Scriviamo il nome di James Watt, l’inventore della prima macchina a vapore e padre della prima rivoluzione industriale o quello dei più con-temporanei Antonio Meucci o Alexander Bell, inventori del telefono.

Il nostro monitor si riempirà ancora una volta di stempiature, capelli bianchi, rughe e pose da luminari. Ma il web non c’entra, il medium digitale, attraverso i suoi motori di ricerca, non fa altro che riproporre quello che già succedeva sulla carta stampata, mostrandoci l’idea predominante e più diffusa che la nostra cultura ha della figura dello scienziato e dell’inventore.

Tutte queste immagini, insomma, sembrano sottintendere e sup-portare la tesi secondo cui le scoperte della scienza e le conquiste del-la tecnologia siano state compiute solo da persone mature e da grandi luminari.

Nulla di più sbagliato. In realtà questo è un grande e grave errore di percezione. Infatti, la maggior parte delle più rivoluzionarie teorie scientifiche o delle più importanti conquiste tecnologiche della sto-ria sono state il frutto dei sogni visionari di giovani innovatori di età compresa tra venti e trent’anni. Menti giovani, traboccanti di energia che, senza timore reverenziale, non si accontentarono di assecondare le idee e le teorie in auge nella loro epoca ma con azzardo provarono a immaginare nuove soluzioni per vecchi problemi.

Solo per fare alcuni esempi, il già citato Albert Einstein (1879-1955) concepì e scrisse la sua teoria della relatività all’età di 25 anni, men-tre Charles Darwin (1809-1882) formulò la sua celebre teoria della selezione naturale addirittura all’età di 21 anni, anche se la pubblicò trent’anni dopo (1859), ben conscio delle conseguenze della sua teoria sul pensiero “creazionista” dell’epoca.

La stessa considerazione si può fare per i fisici Michael Faraday, James Klerk Maxwell, Heinrich R. Hertz e per molti altri grandissi-

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mi scienziati della storia. Nelle loro biografie troviamo la genesi delle idee più rivoluzionarie della loro opera mentre ancora erano studenti o giovani dottorandi.

Tra i tecnologi e gli inventori, la media sembra addirittura abbas-sarsi. L’italiano Guglielmo Marconi, per esempio, inventò la radio nel 1894 quando ancora non aveva compiuto 20 anni, mentre lo statu-nitense Philo Farnsworth, considerato l’inventore della televisione elettronica, immaginò questa tecnologia mentre ancora era studente delle scuole superiori, costruendo il suo primo prototipo funzionante all’età di 20 anni.

La stessa cosa si può dire per i due pilastri della prima e della secon-da rivoluzione industriale, citati in precedenza, rispettivamente James Watt e Thomas Alva Edison che ottennero le loro prime importanti conquiste nel mondo del vapore e dell’elettricità mentre ancora erano ventenni.

Anche le innovazioni più recenti, legate alla rivoluzione informa-tica, che repentinamente stanno ridisegnando il nostro mondo, sem-brano non sfuggire a questa regola (la regola della giovinezza) e, na-turalmente, Steve Jobs non poteva che incarnarne l’emblema. Non solo perché fu giovanissimo inventore ma anche e soprattutto perché capace di riconoscere e celebrare il valore della gioventù nel mondo dell’innovazione.

Come raccontato nelle prime pagine di questo affascinate libro, anche Steve Jobs iniziò ben presto la sua carriera: nel 1976, quando aveva solo 21 anni, intuì prima di tutti che l’informatica stava entran-do in una nuova epoca, quella in cui il computer sarebbe diventato un prodotto di massa, non più una tecnologia riservata a pochi esperti. Per questo motivo, insieme all’amico Steve Wozniak, fondò la Apple Computer e iniziò a commercializzare da subito il primo prodotto prototipale: l’Apple I.

Oggi sembra la scelta più scontata ma, a metà degli anni Settanta, ci voleva un giovane visionario con un nuovo punto di vista per accor-gersi che un mercato composto da poche centinaia di esperti fruitori di tecnologia informatica si sarebbe presto trasformato in uno stuolo

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di utenti di piccole e flessibili macchine, disegnate e costruite per es-sere belle e facili da usare come ogni altro elettrodomestico presente nelle case e negli uffici.

Dunque, come potremmo dire per altri innovatori che lo precedet-tero, da Edison a Marconi, da Bell a Ford, anche l’innovazione di Jobs andava ben oltre la progettazione e la costruzione di una semplice macchina; l’intuizione vincente del giovane ventunenne portava al ripensamento di un intero settore e implicava un nuovo modo di usare e percepire la tecnologia informatica.

Riconoscendo in quella intuizione l’energia dirompente della sua giovinezza, Jobs cercò di far diventare quel modo di ragionare (o “sra-gionare”), proprio dei giovani, il suo marchio di fabbrica.

Pochi anni più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, nonostante il computer l’Apple II (discendente diretto dell’Apple I) stesse spopolan-do nel mercato, rendendo Apple una delle aziende leader di settore e il suo fondatore uno degli uomini più ricchi e influenti del pianeta, Steve Jobs, ormai vicino alla trentina, intuì che l’informatica era nuovamen-te pronta per un altro grande salto, iniziando un percorso che avrebbe portato alla nascita del Macintosh, il primo personal computer a basso costo, dotato di mouse e interfaccia grafica.

Come apprendiamo dalle parole e dai ricordi di Jay Elliot, Jobs, con-scio della forza innovatrice della gioventù, per fare questo nuovo salto, formò un gruppo di progettisti la cui età media era al di sotto dei 25 anni. Questo gruppo di “giovani pirati”, così definiti dallo stesso Jobs, in meno di 36 mesi diede alla luce una delle macchine più rivoluziona-rie della storia della tecnologia, capostipite dei computer che ancora si distinguono per eleganza e potenza di calcolo: i Macintosh.

Anche in questo caso Jobs, dunque, come per il lancio dell’Apple I, utilizzò la leva della giovinezza per scardinare e innovare il mondo dell’informatica.

Se non fossero sufficienti questi cruciali eventi per comprendere quanto Jobs creda nella forza innovatrice della giovinezza e quanto la sua caratteristica più importante sia continuare a pensare e progettare come farebbe un giovane, concludiamo questa postfazione citando la

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frase con cui Jobs chiuse il celebre discorso all’università di Stanford il 14 giugno 2005. Davanti a migliaia di giovani neolaureati, dopo aver recitato un discorso toccante, Jobs condensò il suo augurio in due frasi diventate celebri: “Siate affamati. Siate folli”.

Come a dire: restate giovani.

Massimo Temporelli – Curatore di BasicGallery e storico dell’Informatica