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l’Uomo dei Saldi e altre pre-visioni Maurizio Frizziero ARCHIVIO MF L’Uomo dei Saldi e... I testi di questo volumetto, scritti più di venticinque anni fa e dimenticati in una scatola di Agfa Copyproof, recentemente mi sono tornati tra le mani. Li ho riletti e non potendo ignorare le loro fatiche nel sopravvi- vere ad alcuni traslochi, ho deciso di premiarli e di premiare anche me per la lungimiranza dei contenuti. Sem- bra infatti che in venticinque anni non sia cambiato nulla (o molto poco) nelle abitudini e nelle tendenze di tutti noi: gran parte dei testi potrebbero essere stati scritti ieri. L’Autore E’ facile parlarne quando chi scrive parla di sè stesso e quando lo stesso si è occupato almeno da quarant’an- ni di comunicazione spogliandola sempre più spesso delle componenti magiche che il mondo della creativi- tà le ha spesso associato. Comunica- re è un mestiere, un mestiere che va imparato come tutti gli altri mestieri e lo si impara meglio se si usa il cervello e un cervello bene allenato a percepire i segnali che gli giungo- no dall’esterno è di grande aiuto per capire non solo il presente ma anche l’immediato futuro. Comunicare per il presente significa infatti farlo per il passato, comunicare per il futuro comporta il rischio di errori: chi sbaglia di meno è bravo e io, per fortuna, scrivendo questi testi, ho sbagliato pochissimo. Maurizio Frizziero - 1982-2010

L'uomo dei saldi

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Una serie di pre-monizioni in un libro che avrebbe dovuto essere letto circa trent'anni fa, quando è stato scritto

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l’Uomo dei Saldie altre pre-visioni

Maurizio Frizziero

ARCHIVIO MF

L’Uomo dei Saldi e...

I testi di questo volumetto, scritti più

di venticinque anni fa e dimenticati

in una scatola di Agfa Copyproof,

recentemente mi sono tornati tra le

mani. Li ho riletti e non potendo

ignorare le loro fatiche nel sopravvi-

vere ad alcuni traslochi, ho deciso di

premiarli e di premiare anche me per

la lungimiranza dei contenuti. Sem-

bra infatti che in venticinque anni

non sia cambiato nulla (o molto

poco) nelle abitudini e nelle tendenze

di tutti noi: gran parte dei testi

potrebbero essere stati scritti ieri.

L’Autore

E’ facile parlarne quando chi scrive

parla di sè stesso e quando lo stesso

si è occupato almeno da quarant’an-

ni di comunicazione spogliandola

sempre più spesso delle componenti

magiche che il mondo della creativi-

tà le ha spesso associato. Comunica-

re è un mestiere, un mestiere che va

imparato come tutti gli altri mestieri

e lo si impara meglio se si usa il

cervello e un cervello bene allenato

a percepire i segnali che gli giungo-

no dall’esterno è di grande aiuto per

capire non solo il presente ma anche

l’immediato futuro. Comunicare per

il presente significa infatti farlo per

il passato, comunicare per il futuro

comporta il rischio di errori: chi

sbaglia di meno è bravo e io, per

fortuna, scrivendo questi testi, ho

sbagliato pochissimo.

Maurizio Frizziero - 1982-2010

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Archivio Frizziero

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Tutti i diritti riservati© 1982-2007 Maurizio Frizziero

Realizzazione editoriale: Roberto Barbieri

maurizio.frizziero.it

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Indice

VII Prefazionedi Marco Vimercati

1 L’Uomo dei Saldi4 La Casa Comoda

10 E le formiche si estinsero13 Chi legge e chi no16 I prati di casa nostra19 Il futuro assicurato23 L’uomo senza fantasia26 E il cantante inforcò i pattini29 La cravatta rosa33 La Macchina della Mediocrità36 Lasciapassare per meditare39 Il potere occulto41 Ama il prossimo tuo43 Il cibo nell’Era della Gabelle45 Il cielo della provincia47 L’uomo che vive solo51 La donna che vive sola54 La donna e il ricatto dell’istinto57 La donna nuova

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60 La verifica dell’identità62 Il trascorrere dei giorni65 I geni dispersi68 Il colore della libertà71 Il costo della sicurezza73 Le vittime della cultura76 L’arte e i suoi escrementi78 L’arte dello spettacolo80 Il diritto alla critica83 I valori di un saggio86 La conquista della libertà88 Nessuno fumi al cinema92 La fine

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Prefazionedi Marco Vimercati

Non c’é quasi niente di sorprendente nel fatto che uno scri-va un libro. Oggi quasi tutti lo fanno, perfino il sottoscritto.Quello che è più inconsueto è il fatto che uno scriva unlibro, lo dimentichi in un cassetto e dopo venticinque anni,ritrovandolo, lo pubblichi praticamente senza rileggerlo. Epotrei aggiungere che sembra scritto ieri. O forse domani.

Essendo un libro che parla di contingenze dovrebbe esse-re estemporaneo, e invece è metastorico. Non so dire se siabello o brutto, interessante o noioso, però è metastorico,forse profetico, come lo è il suo autore.

Siccome è difficile definire sia questo libro che il suoautore, sarei tentato di scrivere qualcosa di presuntamenteintelligente per introdurre qualcosa di presuntamente intel-ligente. Cosa che – tra l’altro – mi eviterebbe il compito di(ri)leggere il libro. Invece opto per la strada meno spettaco-lare: scrivere una presentazione di quanto state per leggeree scrivere anche una presentazione del suo autore. Lui mi haassegnato il compito di scrivere la prefazione, e siccome ioa tutt’oggi continuo a reputarmi un suo subalterno come fuinel 1979, obbedisco.

Allora, cominciamo dal testo. L’uomo dei saldi. Un’altrobuon titolo avrebbe potuto essere “Manuale delle post-Marmotte”, perché riguarda quello che è successo “dopo”.Il mondo che c’era prima, quando c’erano le GiovaniMarmotte, non c’è più.

Bisogna infatti dire che quasi tutti i viventi contempora-nei, e segnatamente quelli nati alla metà del precedente

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secolo, hanno assistito per la prima volta nella storia ad unfatto assai singolare, noto alle cronache con il vezzeggiativodi Apocalisse. Le nostre generazioni migliori, ovvero quellenate prima della barbarie finale, hanno vissuto questo tota-le cambiamento di paradigma: sono passate da un mondo incui tutto era ancora da fare (libertà, benessere, economia,modernità) a un mondo in cui tutto è già stato fatto (sosti-tuzione della libertà con la permissione totale, del benesse-re con l’opulenza narcisistica, dell’economia con la finanza,della modernità con la centuplicazione delle opzioni) edopo avere abbondantemente fermentato volge alla putre-fazione. A pensarci bene c’è di che impazzire. Cosa che,infatti, è successa a molta gente, forse a tutti. Siamo passatidalle cose alla rappresentazione delle cose, il che è esatta-mente come far l’amore con una bambola gonfiabile, comevedere trasformati gli oggetti dei nostri desideri in cadaveriinorganici a causa di una specie di cancro radioattivo. Eccoquindi un taccuino postnucleare. Ma guai a pensare che siaun libro di recriminazioni o rimpianti. È un libro di adatta-mento. È un antidoto. È un trattato spicciolo di Environ-mental Anthropology, forse. O forse è un libro di consapevo-lezza post-newage. Un manuale di sopravvivenza per cadave-ri, e anche un Nuovo Galateo. E forse qua dentro ci sono giàtutte le metabolizzazioni successive ai vaffanculo dei Grillo eai barbari di Baricco, alle prospettive futurologiche di Rifkin.

L’autore giura che dalla prima stesura, quella del 1982,non è cambiato niente. E lo confermo. Lo lessi all’epoca, ec’è ancora una stampata con i fogli ingialliti e le lettere diuna obsoleta margherita Olivetti. Capite, allora, la profezia?

Certo, sarebbe stato meglio leggerlo allora, quando forseancora si poteva salvare il salvabile. Ma qui vediamo chequalche margine di sopravvivenza forse è rimasto. Qualcheprofezia può ancora aiutare noi topi a ballare, adesso che ilgatto non si vede più. E non perchè è andato via. È solodiventato enorme: è un mondo-gatto così grande che non si

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avverte più la sua presenza, come avviene per le pulci, chepercepiscono il cane come un territorio. Così i topi ballano,o credono di ballare. Balleremo fino alla fine, ma con qual-che differenza tra gli uni e gli altri. Alcuni balleranno comegli imbecilli inconsapevoli di “Amused to death” di RogerWaters, altri balleranno con consapevole dignità, comel’Uomo dei Saldi.

A ben pensarci non c’è molto altro da fare, e la ricetta nonpuò essere che quella detta in queste pagine: “dimenticare leregole della nostra formazione per accettare quello chesiamo divenuti, nel mondo al quale siamo giunti. C’è chi cela fa, dimenticando i fantasmi del passato, e che è pronto asopportare il pensiero che la nostra società stia per finire.Senza traumi, perché il discorso è il solito: una vita è lungauna vita, e alternative ad una vita in un determinato momen-to non ce ne sono”. È cinicamente celestiale. Per il sotto-scritto è roba da guru, da profeti, da eroi mitologici. Ho sem-pre ammirato nei film americani quei protagonisti che sco-pano e festeggiano la notte prima della battaglia, quelli chequando sono sotto tiro mostrano sprezzo della morte e incal-zano a male parole il loro carnefice o fanno battute sarcasti-che. Io in genere le notti prima delle battaglie le passo sedu-to sul cesso. E non imploro i carnefici solo perché ho cono-sciuto Frizziero e da lui ho avuto diverse lezioni di dignità.

Per affrontare le cose con dignità ci vuole distacco, e ildistacco cambia il nostro punto d’unione con la realtà, (avolte forse lo sottrae del tutto) e comunque genera profezie.E tra le più accorte e utili, in queste pagine, ci sono quellesui profili della società del denaro, sull’Era delle Gabelle,come la chiama lui. Sulla colossale truffa ai danni delle for-michine. Sull’inconsistenza del denaro. Perché il denarodiventa interessante, quando a parlarne è qualcuno che ne èdistaccato. Il distacco dell’autore dal denaro ne fa certa-mente un ottimo utilizzatore. A distanza di anni, dopo aver-lo definito generoso, prodigo, scialaquatore, devo riman-

Prefazione

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giarmi tutto e ammettere semplicemente il suo considerareil denaro come energia congelata, tipo una pila, una batte-ria o un bastoncino di pesce findus. Roba da consumarepreferibilmente entro.

Al giorno d’oggi forse basterebbe questa cifra a fare di unuomo un essere fuori dal comune, un mostro o un principe.Essere distaccato da una cosa per cui la gente – tutta lagente – sbava, brama e smania, gli da già una posizione rega-le, come di chi può solo dispensare e non può chiedere.

Occorre rimarcare che questa posizione dell’autore gliconsente (forse lo obbliga ad) una eccezionale autonomia dipensiero, e all’applicazione di questa autonomia in varicampi. Semiologo, uomo di marketing, pubblicitario, com-pratore compulsivo, imprenditore, fotografo, nottambulo (enettambulo), antropologo, scrittore, collezionista, censorecinico, artista, guida spirituale e behavioristica: nessuno diquesti termini definisce con esattezza il soggetto, ma nelcumulo si profila un po’ la figura di un’intransigente dotatodi un’enorme tolleranza, pronto a perdonare qualunque –davvero qualunque – peccato, tranne l’avarizia. Ossimorovivente, destabilizzante proprio perché non inquadrabile indefinizioni precotte, solo chi non lo conosce lo definisce“un uomo pieno di contraddizioni”.

C’è chi lo definisce un ottuso di larghe vedute o un geniococciuto. Tra tutte le definizioni ossimoriche, che sono quel-le che meglio definiscono l’autore, voglio ricordare quella diGigi Miglietta: “un perdente di successo” (o un vincentesenza allori). In realtà dire che Frizziero è un razzista solida-le, che è un aristocratico democratico, che è un poeta razio-nalista o che è un ateo religioso, per coloro che lo conosco-no sono solo banalità che non fanno altro che dettagliaremeglio il Tao, simbolo di armonia cosmica e di pacifico con-vivere degli opposti.

Ma per chi non lo conosce sono frasi che dicono poco oniente. Lasciamo quindi da parte le definizioni e avventuria-

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moci nella lettura: si affrontano argomenti diversi, e il tuttosembra solo una collana di articoli giornalistici. Ma non lascia-moci sfuggire la cosa più interessante, la costante: il punto divista. L’osservazione che non è quella dell’uomo della strada eneanche quella dell’upper-class. Dell’intellettuale o dell’autoe-marginato meno che mai. È fuori-classe. È uno stato. Unostato profetico e regale, dignitosamente cinico, ricco di buon-gusto, logica, ironia ed euristica, che vale la pena di speri-mentare. Vale la pena, anche per i più idioti, di provare aseguire Frizziero nella Casa Comoda, e da lì osservare la fer-mentazione, scoprendo magari che qualche distillato di que-sta fermentazione può ancora regalarci un po’ d’ebbrezza.

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Meglio essere ottimisti e avere tortoche essere pessimisti e avere ragione.

ALBERT EINSTEIN

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L’uomo dei saldi

Le stagioni, con le loro regole e i loro umori, dettano agliuomini una precisa serie di consumi. Chi produce conoscebene l’andamento della richiesta e fa programmi con parec-chi mesi di anticipo. Anche chi distribuisce non può per-mettersi di trovarsi impreparato di fronte alla richiesta e, purcercando di diminuire il rischio, è costretto ad acquistare oper lo meno ad ordinare la merce con almeno una stagionedi anticipo. L’unico ad utilizzare il presente è il consumatoreche può permettersi di entrare in un negozio, guardare sce-gliere con calma e alla fine decidere. Il meccanismo d’acqui-sto è semplice: per le cose necessarie l’acquisto è precedutoda una serie di confronti e di considerazioni oggettive, poi ilpasso va fatto e di conseguenza viene fatto. Per le cose nonnecessarie il desiderio del possesso fa nascere l’impulso d’ac-quisto, il bene viene valutato e si decide di destinare ad essouna cifra ben precisa, pur sapendo di poterla modificareall’ultimo momento, spendendo naturalmente di più.

Tutti questi discorsi sono validi finché uno deve fare iconti con i soldi, che in teoria dovrebbero servire prima peril necessario e poi per il superfluo. Ma in momenti in cuinon si è ancora deciso se il superfluo sia più necessario delnecessario c’è sempre grossa indecisione sul da farsi e leregole del gioco non le stabilisce più chi fa i programmi machi decide gli acquisti. Proprio tra loro si annida la serpe,l’asociale che fa sballare i piani della produzione e le previ-sioni del dettagliante, l’individuo che di punto in biancodecide di avere pagato in passato tutti i tributi che gli spet-

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tavano, di avere contribuito in misura sufficiente al sosten-tamento dei Gabellieri che con perline e specchietti l’hannoallettato e vessato per anni.

All’improvviso, senza alcun sintomo, costui si ammala disalute, rifiuta la persuasione e comincia ad usare il cervello:stacca la spina e si disinserisce dagli schemi tradizionali. Lacosa più incredibile è che nessuno si accorge di queste devia-zioni dalla norma e l’Uomo Liberato addirittura comincia aricevere dei premi per la sua scelta. Scopre i saldi, le svendi-te fuori stagione, non più come fatto occasionale ma comeregola d’acquisto. Vive in leggero ritardo i consumi deglialtri, ma ad un prezzo che lo ripaga abbondantemente del-l’attesa. Non ha fornitori abituali, perché acquista in occa-sioni particolari o perché ha capito che il Gabelliere tipo hauna particolare predilezione per i nuovi clienti e concedeloro, in attesa di futuri e più proficui contatti, condizioniparticolarmente vantaggiose. Ha scoperto nel supermercatouna macchina che applica gabelle con minore soggettività oche ha tempi più lenti nell’applicare aumenti sulle giacenze.L’offerta speciale non funziona a meno che non si tratti dibeni d’uso abituale che verrebbero egualmente acquistati adun prezzo superiore.

Qualche volta, di conseguenza, vive i consumi degli altricon marche diverse, meno note ma di uguale qualità.

La sua Casa Comoda riflette a pieno la mutazione daUomo Medio a Uomo Saggio: gli oggetti simbolo del passatosono stati affiancati da altri, meno costosi anche se altrettan-to confortevoli, il tivucolor ha solo 16 canali e non 1400 e ilmodello è vecchio di un paio d’anni, la musica viene ripro-dotta in maniera più che decente nella gamma dell’udibile ebasta una bottiglia di whisky per gli amici di passaggio.

Un uomo così spende di meno e verrebbe naturale pen-sare che abbia minori gratificazioni, minori compensazioni.Sarebbe forse vero se la sua scelta fosse forzata, se per que-stioni di bilancio familiare fosse obbligato a limitarsi quoti-

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dianamente, nel necessario e nel superfluo.Con una scelta libera, una scelta che gli permette di limi-

tare razionalmente la spesa nella fase d’acquisto, egli puòtrascorrere più tempo senza l’assillo del denaro, vivere conmaggiore tranquillità.

Questa vita diversa, individuale, costituisce un pericoloper la collettività, non si adatta alle regole di un mondo ditroppi, di un sistema necessariamente impersonale e puòportare, nel momento in cui questo stile individuale diven-ta tendenza di molti, a disastrose conseguenze. Ma qui sirientra in un vicolo cieco e si ricomincia ad indagare se siamorale lottare per raggiungere il benessere individualequando ciò può creare danni alla collettività.

Per il momento non posso impegnarmi a portare avantiquesto problema, pur sapendo che solitamente ci si aspettada chi scrive una presa di posizione: tra poco apre il nego-zio qui all’angolo e mi hanno detto che fa dei saldi a prezzidavvero incredibili!

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Da qualche parte, senz’altro sopra di noi, ci sono gruppi dipersone che si occupano e si preoccupano del bene della col-lettività. Molto probabilmente stanno lottando con coraggioper andare avanti come se non stesse succedendo niente, perassicurare a tutti noi una sopravvivenza senza scossoni ecces-sivi. Una fatica improba perché malgrado tutti i loro sforzisiano concentrati sulla scelta di rimedi aderenti alla realtà èla realtà stessa che sfugge loro. E se mancano rimedi globalil’individuo deve lottare e assicurarsi una vita più vicina aisuoi desideri, senza curarsi se il suo agire sia in linea con ilbene e con le necessità della società cui egli appartiene.

Questa sua battaglia per la sopravvivenza sopisce quoti-dianamente il suo istinto per la vita e la ricerca della felicitàviene sostituita dalla ricerca di un tivucolor con 1400 cana-li. Un tivucolor privato, da non ostentare, non più simbolodi condizione sociale ma compensazione di fatiche, gratifi-cazione personale per centinaia di giornate di sacrificio,nuova tessera di quel grosso mosaico che è la casa d’oggi,una cuccia comoda e protettiva. Un tivucolor risparmiatosottraendo momenti di vita di gruppo che di giorno in gior-no diventano troppo costosi per essere assorbiti con facilitàda un bilancio familiare.

Si andava al cinema senza badare troppo al titolo del film,ci si immergeva in sale fumose senza protestare troppo, ci sisedeva in mezzo a sconosciuti senza che ciò ci desse fastidio.Si era in mezzo alla gente, lo si sentiva dal brusio sommes-so, dagli odori stantii, dai colpi di tosse isolati. La gente

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addirittura applaudiva l’arrivo dei nostri o la punizione delcattivo, si commuoveva o si arrabbiava. L’intervallo tra ilprimo e il secondo tempo sembrava fatto apposta per guar-darsi in giro, per cercare un volto noto tra i presenti, perbere una bibita o per sgranocchiare i semi di zucca.

Ricordi non lontani, ma ormai sembrano secoli.Alla cassa stava solitamente il proprietario che, nelle sere

magre, aspettava a dare il via all’operatore sperando in qual-che ritardatario.

Poi, piano piano, si scoprì che anche il cinema era culturae venne di moda il cine-forum dove, al termine della proie-zione, ciascuno poteva dire la sua o, se lo preferiva, fare delledomande. Un nuovo modo per stare in mezzo alla gente, percapire, per confrontarsi, per imparare. Poi giunsero i tempidell’impegno e, ormai critici esperti, si tornava a discuteredell’ultimo film di Antonioni o dei primi di Godard.

Si andava al cinema seguendo titoli, attori, registi, recen-sioni e se ne usciva continuando il discorso al bar, su una pan-china, camminando. Sempre in mezzo alla gente. Costavaanche del denaro, ma poco.

Dopo il cinema, prima del cinema, invece del cinema c’eraun altro posto tranquillo, dove andare in mezzo alla gente, ilbar. La gente, parlando del bar abituale, lo indicava in manie-ra possessiva, lo chiamava il mio bar. Un bar costruito inmaniera diversa da quelli attuali: niente registratore di cassa,niente cassiera dal trucco perfetto, niente vetrinette tavola-fredda, niente tante altre cose. Un’atmosfera tranquilla, quasicasalinga, dove padrone e clienti sedevano spesso allo stessotavolo a chiacchierare come vecchi amici. Un posto dove sipassava del tempo, spendendo anche del denaro, ma poco.

Lo stesso discorso per la trattoria, dove il padrone ci veni-va a salutare come se fossimo ospiti, dove il cibo non si fre-giava di nomi altisonanti ma aveva buoni sapori di casa. Eanche qui c’era gente che pagava, volentieri, perché il contoera giusto.

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Poi è arrivata l’Era delle Gabelle. La gente ha dovuto sot-tostare ad una lunga serie di vessazioni. lo stare insiemecosta molto di più di quanto non sia ragionevole perché ilPadrone Astuto ha capito che il pubblico non cerca cibo obevande ma un posto dove comunicare con gli altri e ne haintuito la potenzialità economica. Ha abbellito il suo bar,imbruttendolo, ha cercato di renderlo più comodo ed acco-gliente perché la gente, diminuita in quantità, si fermi più alungo spendendo di più. Insoddisfatto di un listino obbli-gatorio e della sua oggettività, ha introdotto varianti nonprevedibili per imporre costi non discutibili.

Al ristorante la stessa cosa anche se con meno specchi epiù oggetti di origine contadina. La bomba del rustico hafatto centro e anche qui il Padrone Psicologo ha forzato lamano con tutte le libere associazioni verbali: rustico/buono,rustico/tradizione, rustico/genuino con la stessa fatica del-l’affondare il coltello nel burro.

E così, pagando la solita gabella, la gente si è ritrovataassieme senza protestare troppo, perché la scenografia tuttosommato era corretta e assomigliava molto ad una realtà giàconosciuta.

L’Albero delle Gabelle ha dato i suoi frutti ma ora stadiventando secco: la gente che sa fare i conti ha scopertoche, se non si possono fare i conti senza l’oste, la cosa piùsemplice è eliminare l’oste. Per sostituirlo magari con untivucolor da 1400 canali.

Si conclude così un ciclo artificioso e se ne inizia un altro,molto più privato; finisce l’Era delle Gabelle e inizia quelladella Casa Comoda, una casa che difficilmente era esistita inpassato. C’erano infatti case ricche e case povere ma tutteimprontate alla funzionalità: la sala, per esempio, era per gliospiti, la camera da letto dei ragazzi serviva esclusivamenteai ragazzi per andarci a dormire, la cantina serviva per ilvino e come deposito di tutto il ciarpame che andava tenu-to con cura per qualsiasi evenienza. La sala della Casa

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Comoda è ora il centro della vita familiare, ci si può final-mente stendere sul divano, consumarlo, schiacciarlo. Lebottiglie, una volta gelosamente chiuse a chiave, compaionoin bella vista su un mobile, la luce elettrica, ben dosata edabbondante, non è più diretta contro il soffitto con effettida sala d’aspetto di dentista, ma ben distribuita con zoned’ombra e di luce intensa. I quadri hanno riempito le pare-ti, libri e accessori rendono vissuta la stanza, amplificatore,giradischi, casse acustiche e tivucolor aumentano la vivibi-lità di questo locale chiave.

Qui di inverno c’è un bel tepore, le finestre ormai hannoi doppi vetri perché si risparmia energia e quei fastidiosirumori rimangono all’esterno. Dentro rumori non ce nesono più perché la moquette ha ricoperto il vecchio pavi-mento di graniglia e il panno ci ha tolto anche la seccaturadi chiamare ogni tanto l’imbianchino a rinfrescare le pareti.

Il centro della Casa Comoda è a prova di notizia: qualsia-si cosa succeda all’esterno, per quanto grave sia, rafforza laconvinzione di avere fatto un’ottima scelta nel dedicaretempo e denaro a questa vera e propria roccaforte dove nonpossono giungere i problemi del mondo esterno. Non entra-no neppure i profumi della primavera o le notti stellate d’e-state, ma qualche piccolo sacrificio bisogna pur farlo!

D’altra parte se una volta era possibile incontrare gentedappertutto ora le cose non stanno più così e allora una casacomoda ti permette di stare di nuovo in mezzo ai tuoi amici.In effetti una casa comoda è molto più socializzante dellaCasa Funzionale che non prevedeva una vita sociale intensa.Nella casa funzionale tutto era al suo posto, in sala le cose pergli ospiti, in tinello le cose per la famiglia, in cucina le cose peril cibo. Solo i ragazzi, con la loro tendenza al disordine, crea-vano un po’ di scompiglio, portandosi addirittura la radio incamera da letto. L’uso dei liquori era subordinato a improv-vise situazioni di necessità/emergenza o a particolari occasio-ni. In entrambi i casi si utilizzava un bicchierino minuscolo,

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poco più di un ditale da cucito, perché, sia nell’un caso chenell’altro, non era certo la quantità a risolvere la situazione:una medicina va data con cautela e il superfluo va concessocon moderazione. Ora, nella casa comoda, si può bere tran-quillamente, non c’è censura sui piccoli vizi, l’esperienza chene deriva trasforma l’ospite in un intenditore e c’è un argo-mento in più per le serate conviviali. Per quando si sta zitti c’èsempre il tivucolor con 1400 canali al centro dell’attenzionepronto a sfornare migliaia di film pronti a suggerire modellidi vita e di comportamento. Battendo e ribattendo usi e con-sumi approdano sulle nostre rive e piano piano ci troviamo aservire un Martini al nostro vicino di casa o ad indossare lavestaglia da camera durante un’occasione galante, per nonparlare d’arredamento e di accessori per la casa e tanto menodi discorsi impegnati su temi universali.

È un bene o un male che questo benedetto o maledettotivucolor ci propini film, situazioni e modelli di età variantetra i dieci e i trent’anni? Se da una parte c’è una costanteriproposta di oggetti e di beni come simboli di condizionesociale, dall’altra, in film fatti vent’anni fa, da gente che allo-ra ne aveva mediamente cinquanta, c’è un grosso agganciocon la tradizione, c’è il recupero di comportamenti correttidi cui si sono, negli anni successivi, persi i modelli. Linguag -gio e maniere, a parità di contenuti, si sono deteriorati, l’e-ducazione è rimasta privilegio di pochi, il sacrificio è ormaiuna terra inesplorata.

L’involontaria riproposta televisiva di un mondo ormaiandato ci appare ingenua, fuori moda, inutile. Scavando afondo ci accorgiamo che invece svolge un lavoro lento, sot-terraneo, su individui che, avendo fatto la scelta di casacomoda, proprio per questo si trovano ben disposti all’assi-milazione dei dati che vengono loro forniti.

Se le cose vanno davvero così è come se la gente leggessetutti i giorni un giornale vecchio di dieci anni, trovandociscritto sopra tutti i giorni qualcosa di buono ma non riuscen-

La Casa Comoda

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do mai a raggiungere la realtà, ad avvicinarsi al presente.È, di conseguenza, automatico che avvenga una costante

delega di responsabilità e che la fatica di preoccuparsi per ilbene della collettività sia di quei pochi che hanno il corag-gio di cercare di essere al passo coi tempi e di cercare rime-di aderenti alla realtà per andare avanti, senza scossonieccessivi, come se non stesse succedendo niente.

E il gatto si morde la coda perché la realtà sfugge loro e ilsingolo, giudicando inutile l’opera del delegato, si mette alottare con tutte le sue forze per permettersi una casa como-da e un tivucolor a 1400 canali.

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E le formiche si estinsero

Si consumava anche una volta. Si acquistava, si seguivano lemode, si buttavano via, anche una volta, dei quattrini. Nonmolti, sia perché le occasioni di spenderli male erano mino-ri, sia perché il necessario veniva prima del superfluo inun’epoca di austerità dove era facile stabilire degli ordini dipriorità. Per consumo si intendeva logorio e dato che laqualità era di gran lunga superiore a quella dei nostri giorniil consumo era molto limitato. L’indumento logoro, cessatala sua funzione, difficilmente veniva gettato perché, proprionel momento in cui veniva smesso, iniziava la sua secondavita. Con un po’ di tempo e un pizzico di creatività il capo,smontato, rivoltato, tagliato subiva nuove e diverse destina-zioni. Nella peggiore delle ipotesi finiva, piegato e ripiegatoin attesa di riutilizzarlo, sotto naftalina in un vecchio mobi-le della soffitta o della cantina.

Questi locali hanno avuto fino a pochi anni fa un’impor-tanza strategica, pur mutando pian piano la loro destinazio-ne, passando da dispensa a magazzino. Parecchi decenni faci venivano accumulati infatti cibi e vini, in cantina quelli cheavevano bisogno di temperature fresche e costanti, in soffit-ta il resto che doveva essere fresco e aerato. Poi la casa deci-se di cambiarsi, di rinnovarsi: tutto ciò che veniva sostituitonon andava regalato, venduto, buttato via. Veniva immagaz-zinato con la certezza che, prima. o poi, sarebbe servito.D’altra parte cibo e vino cominciavano a trovarsi facilmente,potevano pure essere portati a domicilio senza alcun aggra-vio di spesa e soprattutto non si era più obbligati a quei fasti-

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diosi salti in cantina quando mancava qualcosa. La cantinae/o la soffitta acquistano una loro vita indipendente, vengo-no quasi dimenticate così come viene dimenticato spessotutto quello che contengono. L’importante era conservare,non gettare via niente.

Questo schema si trasmise di padre in figlio, di madre infiglia, divenne una regola dettata dalla saggezza e dalla pre-videnza, un monito perché la gente fosse sempre pronta adaffrontare tempi più duri. I periodi di guerra avevano inse-gnato molto, avevano prodotto più formiche che cicale. Ilricordo dei tempi bui pian piano cominciò a svanire e diconseguenza l’inutilità del sacrificio si annidò nelle coscien-ze. Mancando il presupposto per continuare ad esistere, leformiche si estinsero. Rimase però radicato lo schema del-l’accumulo delle cose inutili che porta a paradossali colle-zioni di oggetti usati diventati inservibili.

Il trauma più grave per l’ex formica o per il suo discen-dente diretto, nato ed educato in tempi d’austerità, è il mec-canismo, assolutamente nuovo, dell’usa-e-getta, nato danuovi schemi economici, dettato da un salto di qualità dellefilosofie di produzione, in ogni caso rottura col passato econ la tradizione.

L’accendino, ormai scarico, da gettare, una lattina vuota diCoca Cola, un televisore vecchio di vent’anni, un orologioannegato durante la doccia, tutti questi oggetti – ed altri –devono essere recuperati. La più facile tra le operazioni direcupero, è l’inserimento dell’oggetto in una collezione dioggetti simili, una operazione dove un criterio oggettivo puòregolare l’annessione dei nuovi pezzi. Si può invece compie-re un’altra operazione, più soggettiva; rintracciare nell’og-getto ormai degradato delle componenti estetiche che ci per-mettano di salvarlo dalla pattumiera. Se ci poniamo il pro-blema in questi termini avremo sicure giustificazioni nelraccogliere e nel tenere tutto, una massa di ciarpame privadi qualsiasi valore. Una fatica inutile. Come quando mettia-

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mo in frigorifero gli avanzi del cibo per buttarli via dopoqualche giorno.

P.S. Comunque tranquillizzatevi, la gente ha la tendenza adabituarsi a tutto. Le soffitte non ci sono più, ormai si buttavia tutto, nessuno fa più collezioni perché ormai tutti butta-no via tutto perché non c’è più niente che serva.

E le formiche si estinsero

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Chi legge e chi no

C’è un sacco di gente che ci accusa continuamente di legge-re poco. Naturalmente si tratta di un’accusa formulata sudati statistici che nella loro globalità poco ci dicono. Biso -gnerebbe isolare i buoni dai cattivi, scoprire perché questiultimi non leggono, e poi trovare rimedi corretti per identi-ficarne la tendenza negativa. Per un’analisi corretta non sidovrebbe ricorrere soltanto ai dati che gli editori ci forni-scono sulle vendite del nuovo; esistono infatti un sacco dialternative per poter accedere alla carta stampata senzaspendere una lira: i giornali vengono riciclati, i libri presta-ti, le bancarelle hanno i loro clienti affezionati. Sul nuovo cisono altri canali che non contribuiscono ad incrementare gliindici ufficiali di lettura, negozi che ripropongono a prezzoscontatissimo le rese editoriali, spesso dovute ad eccessi/errori di tiratura in campi di interesse abbastanza specializ-zati, dall’arte alla scienza dalla tecnica alla poesia.

In questo caso il migliore cliente è l’Uomo dei Saldi, abi-tuato a non farsi coinvolgere dalle correnti, dalle mode,razionale in tutte le sue scelte, parco nelle spese. Una mono-grafia su Picasso, venduta a metà del prezzo di copertina didue o tre anni fa, costa un quarto di quanto costerebbeappena stampata.

Il destinatario di un simile libro d’arte non si pone certoil problema di verificare la data di edizione o di screditarel’opera perché vecchia di un paio d’anni. Così va a finire chel’Uomo dei Saldi spenda in libri un quarto di quanto spen-dono gli altri oppure possiede una biblioteca quattro volte

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più ampia. E tutto collima perché i libri si accatastano e sot-traggono spazio e tempo agli accessori della Casa Comodache l’uomo Saggio non ama.

C’è un’altra categoria di lettori che hanno trovato nellibro una stimolante compagnia, i pendolari del lavoro edello studio. I treni sono pieni di studenti, di impiegati, dioperai che quotidianamente fanno la spola tra casa e città,tutti disposti a leggere, a documentarsi, a istruirsi. Un libroriempie i tempi morti di trasferimento, il viaggio diventa tal-volta un’occasione per istruirsi, per migliorare o per tenersiattaccati ad abitudini che a casa perderemmo, sopraffattidalla tentazione di seguire, con minore fatica, i programmidel nostro tivucolor.

Col tempo si vanno differenziando sempre più due razze,l’uomo che usa il mezzo pubblico e l’uomo che guida ad ognicosto. Il treno, per esempio, permette diverse soluzioni.L’individuo contemplativo viaggia senza alcun problema:può leggere, può isolarsi, può socializzare, può continua-mente decidere quale di queste situazioni scegliere a secon-da del proprio stato d’animo. Può in pratica mettere in attomeccanismi di autoterapia che lo fanno tornare a casa tran-quillo, avendo annullato i residui di tensione nel viaggio diritorno, su un mezzo che ormai gli è famigliare, dove la faccesono sempre le stesse e dove può scegliere la compagnia chedesidera. Il fatto di essere obbligati a far divenire tutto ciòun’abitudine non è sentito come un’imposizione, ma comeun’occasione per meglio approfondire, lontani dalle tenta-zioni della Casa Comoda, i propri interessi. Si possono cosìintraprendere programmi di mesi, di anni, senza avere paurache il tempo manchi, perché il tempo c’è, quello di un’anda-ta e di un ritorno, almeno cinque giorni alla settimana.

L’Uomo che Guida la Macchina, rispetto a suo fratelloche va in treno, accumula così grossi ritardi di informazio-ne e di cultura a meno di faticosi recuperi. E l’uomo che vain macchina ha un contatto più rarefatto con la realtà,

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conosce meno gente, le sue opinioni trovano raramentepossibilità di confronto.

Nella stessa situazione si trovano quasi tutti gli uomini poli-tici, in viaggio non incontrano mai la gente, si incontrano sem-pre fra di loro, usano un linguaggio complesso maturatodurante lunghe sedute che sembrano avere come unico scopoil tentativo di comprendersi, raramente dicono quello che pen-sano: non è che questo li porti a mentire, semplicemente aggi-rano i problemi. Difficile che salgano su un autobus, dove lagente non si cimenta in dialettica ma riesce spesso a farsi capi-re, dove gli odori e le spinte fanno anch’esse parte di un tacitolinguaggio, questa volta aderente alla realtà. La realtà sfuggeloro, l’abbiamo già detto in un’altra parte di questo libro maloro spesso non cercano nemmeno di raggiungerla. Li trovia-mo troppo spesso intenti a verificare la loro posizione con leindicazioni che da monte arrivano loro quotidianamente; man-cano di creatività perché le regole li hanno sopraffatti; sonodiventati insensibili perché devono necessariamente affrontarequalsiasi situazione in maniera teorica. I tempi sono semprelunghi e qualsiasi situazione può essere analizzata come se sitrattasse di una partita a scacchi, con un atteggiamento di stu-dio di tutte le possibili varianti. È un atteggiamento saggio que-sto, dettato da una buona dose di prudenza, una virtù che nondovrebbe mai mancare quando si è costretti a decidere per glialtri. È però un peccato che questi altri, con i loro desideri e leloro tendenze, siano identificati e conosciuti solo attraversoricerche statistiche, che i loro stimoli e i loro comportamentisiano riassunti da una percentuale in una tabella.

Sarebbe molto più interessante, nel momento delle deci-sione, ricordarsi i volti degli altri, le loro voci, i loro pareri,i loro odori; potrebbe esserci anche la sorpresa, salendo suun treno di pendolari, quella di scoprire che c’è ancora unafascia ben precisa di persone che, malgrado le grida quoti-diane di allarme lanciate dagli editori, continua a leggere, adinformarsi, a documentarsi.

Chi legge e chi no

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I prati di casa nostra

Non sono ancora stato nelle regioni del Sud, mi manca iltempo per visitarle come vorrei, senza programmi fatti atavolino, che tanto poi non rispetterei. Ogni tanto andrei acercare tracce del passato, altre volte mi limiterei a parlarecon la gente, vedere le loro facce, a verificare in che cosasiamo uguali e perché siamo diversi. La natura mi attrarreb-be molto e andrei, con la scusa di aggiungere immagini almio archivio, in giro per valli e paesi carico di attrezzaturefotografiche. Laggiù la luce del giorno è sempre abbaglian-te, me l’hanno detto e il cielo è cobalto. I contrasti me liimmagino, li ho spesso controllati in Sardegna, dove le con-dizioni sono più o meno le stesse.

Questo viaggio non fatto è ancora una fantasia, un desi-derio che presto dovrei appagare. Il sud del nostro paese èa portata di mano, basta arrivare a Roma e poi con un’orad’aereo scarsa si è dappertutto. E se uno non vuole volare cisono treni e navi per tutte le destinazioni; basta volere e nelSud ci si arriva. Prima o poi vorrò.

Non vorrò invece entrare in un’Agenzia di Viaggi per pre-notare un viaggio di quattordici ore per uno dei tanti para-disi perduti di cui abbonda l’Asia Meridionale. Non ce lafarei mai ad impiegare, con sei mesi d’anticipo, due settima-ne della mia vita in luoghi dal ritorno difficile. Eppure pareche la cosa funzioni, mai come adesso il viaggio organizzatorappresenta un grosso affare, agli sportelli delle Agenzie c’èaddirittura la coda, spesso ci si deve accontentare, se non cisi è prenotati con larghi mesi di anticipo, di un safari in

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Kenia o di una veloce scappata a Londra. Anche qui non c’èesibizione, il viaggio non è più strumentalizzato ai fini di unaqualificazione sociale, non è più usato come simbolo del-l’appartenenza ad un preciso stato socio-economico. Di soli-to chi prende una decisione di questo genere tende quasi agiustificarsi presso gli amici e i conoscenti, per motivare lascelta introduce elementi razionali che la fanno apparire van-taggiosa. In effetti, seguendo questa logica, se sommassimoal costo dei pernottamenti, dei pranzi, delle escursioni laspesa a prezzi normali del volo di trasferimento, non c’èdubbio che faremmo un grosso affare. Questo tipo di consi-derazioni accelerano la decisione: scoprire che due settima-ne in Liguria ci costa poco meno che due settimane alleMaldive/prezzo base, fa certamente pendere il piatto dellabilancia dalla parte dell’Oceano Indiano, soprattutto sesiamo in inverno. Il fascino dell’esotico, il richiamo dei maridalle trasparenze uniche, l’avventura di coprire distanzeinsolite, tutto questo contribuisce a farci dimenticare, alme-no per quest’anno, l’alternativa dei nostri mari e delle nostrecoste. Per il momento sono scelte individuali fatte da pochiintorno ai quali gravita però un grosso giro d’affari: cataloghilussuosi propongono centinaia di possibilità; ciascuna offer-ta è spesso acquistata, venduta, riacquistata e rivenduta alconsumatore finale attraverso uno strano commercio di pro-prietari, tour operators, dettaglianti. Ognuno ha natural-mente il suo profitto, così come lo hanno gli alberghi base ele compagnie aeree. Seguendo questa logica dei profitti ci simeraviglia di come il costo all’origine sia basso, ma si accet-ta ugualmente tutto il meccanismo.

Dove sta dunque lo scotto reale da pagare?Una perdita dell’identità raggiunta – con un ritorno obbli-

gato a schemi parascolastici – con la presenza di un tutoreche ci impone comportamenti, programmi, orari e luoghi daiquali ci è impossibile evadere. Lo scotto principale è la per-dita della libertà o per lo meno della sensazione di essere

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liberi di muoverci come vogliamo, esattamente come in unpranzo a menù fisso dove un prezzo più basso non ci com-pensa della mancanza di un piatto che desideriamo.

Ho finora generalizzato le mie opinioni sul tema senzatenere conto di chi non sa come muoversi, di chi ha bisognodi qualcuno che gli dica cosa deve fare, come deve farlo,dove può andare e quando. Costoro prendono due, tre oquattro piccioni con una fava. Gli altri, quelli che amanoscegliere, che non hanno paura degli imprevisti, che hannodesideri non programmabili, ebbene, costoro non hannobisogno di mari lontani, anzi preferiscono, anche se l’erbadel vicino è sempre più verde, i prati di casa nostra. E sequesti prati sono nel Sud, prima o poi mi incontreranno.

I prati di casa nostra

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Il futuro assicurato

Ci sono situazioni che ormai ci lascerebbero impotenti,incapaci di reagire. Ci obbligherebbero a fare lavorare infretta il cervello per trovare soluzioni immediate. La soprav-vivenza avrebbe priorità. Mangiare, un fatto che l’uomo nonha mai potuto sottovalutare, divenuto nelle società indu-strializzate una normale formalità, diventerebbe imperativod’obbligo in situazioni ben diverse da quella attuale, duran-te una guerra, per esempio. Una guerra impossibile, inso-spettabile, imprevedibile, non tanto nella realtà, quantonella testa degli individui che ne rimuovono costantementelo spettro. La possibilità di un tale evento ci costringerebbea modificare abitudini, a prendere in esame nuovi schemi dicomportamento, a pensare più al futuro che al presente.

Il presente assorbe infatti gran parte delle energie dellanostra gente. Il domani verrà e difficilmente lo potremo modi-ficare e l’unica alternativa d’oggi all’edonismo è l’ignavia.

Il risparmio, per esempio, che fine ha fatto? Dove sonofiniti tutti quei soldini che ogni famiglia previdente sapeva didover mettere da parte ogni mese, ogni anno, per ogni eve-nienza, per superare momenti difficili, per avvicinarsi al capi-tale necessario, sufficiente garanzia per una vita tranquilla?

Sono cambiate le cose. Si è deciso all’unanimità che ilproblema non esiste più, che non c’è più necessità di rispar-miare, che non ci si deve più preoccupare per il futuro per-ché il futuro è assicurato.

Abbasso le formiche, viva le cicale!Cosa succede quando la cicala comincia ad avere degli

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scrupoli? C’è rimedio a tutto. Basta che uno investa – lapa-lissiano – il denaro che ancora non ha. Dopo un certonumero di anni si troverà con una piccola cifra, versata conpazienza e costanza, ricco in valuta attualizzata. In ogni casosi tratta di risparmio, anche se forzato. Un risparmio natopiù dalla credibilità delle banche e degli imprenditori finan-ziari che da un modello tradizionale di previdenza. Il mec-canismo – si chiami fondo di investimento o con qualsiasialtro nome – è attuale, nuovo, accontenta chi è propenso adaccettarlo: niente più code agli sportelli delle banche, nien-te più libretti al portatore, niente più buoni postali. Aderiread una proposta nuova dà sufficienti gratificazioni, ci dà lamisura della nostra evoluzione. Sarà senz’altro avvenutoaltre volte in passato, ma ora la situazione sta superando illivello di guardia. Il desiderio di possedere si sta radicandosempre di più. C’è chi possiede e chi non possiede nulla.Chi possiede cerca di incrementare il posseduto, cosa abba-stanza facile per chi conosce le regole, che poi non sonotante. Chi non possiede ed è animato da un terribile deside-rio di cambiare condizione prima o poi ce la farà.

Qui non ci sono regole, l’improvvisazione regna incontra-stata, l’unica necessità non perdere mai tempo, cogliere alvolo le occasioni, di qualsiasi natura siano, purché vantag-giose. Alla fine quello più bravo, quello più fortunato, pos-siederà di più, ma anche gli altri la loro fettina di beni se lasaranno costruita.

Superata la fase iniziale comincia qualche piccola regola:vendere tutto se l’offerta è superiore al valore reale, non legar-si affettivamente a ciò che si possiede, non valutare i vantaggisoggettivi di una situazione. Vendere è l’imperativo d’obbligose c’è qualcos’altro da acquistare vantaggiosamente.

E poi continuare sulla stessa strada.Durante questi passaggi non è necessario divenire, di

volta in volta, un professionista. Se si acquista un bar, unristorante, un albergo, è sufficiente rimanere quello che si

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era, con le stesse carenze, gli stessi difetti, con gli stessi com-portamenti, tanto, il giorno dopo, si rivende tutto al migliorofferente. Sarebbe tempo sprecato documentarsi, imparare,evolversi, quando la via scelta porta ad altre soluzioni, adaltri mestieri. Il possesso continua a rimanere un fine, percostoro, non un mezzo e il risultato è facilmente prevedibi-le: chi comincia a possedere, possiederà sempre di più.

Questo meccanismo è assimilabile ad un vizio, irrimedia-bile come tutti i vizi.

Quest’uomo in qualche recesso del suo cervello intuisceprima o poi che, prima o poi, dovrà andarsene da questomondo. Nello stesso istante, se la natura non ha già provve-duto da sola, si preoccuperà di mettere al mondo due o trediscendenti che possano continuare la sua opera, proseguen-do nell’accumulo. Sarà loro facile avendo un cotal padre permodello. Arricchiranno, col greve fardello di tutte le carenzeche avranno ereditato durante la loro crescita. Educazione,cultura, comportamento subiranno grosse limitazioni, ma ilguaio, quello grosso, lo subiremo noi, tutti quelli che, perdecisione chiara, per impostazione familiare, per l’insegna-mento ricevuto, hanno scelto una via diversa. Una via diver-sa per noi e per i nostri figli, per tutti coloro che avranno ache fare con questa nuova generazione del possesso e chesaranno costretti a subirne, ora l’ignoranza, ora l’arroganza,come minimo l’impreparazione.

Quotidianamente.I politici hanno esaminato il fenomeno delle classi emer-

genti, hanno cercato di studiarne i progressi, le tendenze, icomportamenti statistici, li hanno divisi in gruppi e sotto-gruppi perché sia più facile identificarli e lottizzarli. Non sisono certo preoccupati di analizzare i grafici di mutazionedegli schemi, non si sono accorti che esponenziale ed esplo-sivo hanno la stessa radice e che c’è anche la possibilità chequesto continuo tentativo di emergere non faccia altro cheimporre degli schemi di una lotta senza quartiere per impor-

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re soluzioni vantaggiose di tipo individuale che con il benedella società nulla hanno a che vedere.

Quasi un paradosso: il singolo migliora (?) e la società sidegrada.

E tutti dicono che non succede mai niente.

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L’uomo senza fantasia

Un trattato sull’avaro non lo ha mai scritto nessuno. Molière eGoldoni hanno lavorato sul tema, Gilberto Govi ha divertitotutta Italia con le sue interpretazioni dell’avarissimo GiobattaParodi, l’Uncle Scroogie di Dickens ha fornito a Disney ilnome per il taccagno più famoso del mondo, Paperon de’Paperoni. Paul Getty, suo fratello di sangue, non ha scucito undollaro nemmeno davanti all’orecchio reciso del nipote rapi-to. Alberto Sordi è citato spesso come campione italiano diquesto sport, catalogato tra i vizi capitali.

L’avaro non è molto amato. Di solito perché ha di più ditutti quelli che lo circondano, gente che spesso lo invidia(uno a uno in quanto a peccati della stessa famiglia!) e vor-rebbe possedere almeno quanto lui. In queste situazioninon c’è né posto né tempo per l’amore. Ma anche queipochi disponibili, sia per abitudine che per temperamento,a voler bene al prossimo, se possono amano qualcun altro.L’avaro li allontana da sè, per essere amato sarebbe costret-to, in una maniera o nell’altra, a ricambiare e questo lo ter-rorizza. Ci mancherebbe davvero anche questo, con tutti iproblemi che ha. L’avaro è un uomo che soffre. Non c’è unattimo di tranquillità, in qualsiasi momento tutto quello cheha accumulato, tutte le sue sicurezze, potrebbe essere messoin pericolo. La svalutazione, che minaccia il suo denaro, loobbliga ad immobilizzarlo. Aumenti rapidissimi di valore,anziché renderlo felice, lo preoccupano perché lo smobiliz-zo del bene si fa ovviamente più difficile e, se anche si effet-tua, subentra il problema di un nuovo immobilizzo. Si fa

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esperto di alchimie finanziarie e ogni giorno si rafforza laconvinzione che la sua strada è quella giusta. Tutto quelloche toglie di giorno in giorno alla famiglia, sa che le verràrestituito, quando Dio vorrà, centuplicato, e tutto questofunzionerebbe, secondo logica (?), se non fosse che un per-sonaggio così ha solitamente una vita media di 150 anni e isuoi programmi di rimborso non funzionano più, per lomeno a favore di chi ne avrebbe diritto.

L’avaro soffre. La gente non lo capisce, lo confonde conun ladro, lo addita come un lebbroso.

Ma la gente, si sa, sbaglia. L’avaro è un uomo onesto, lavo-ratore, previdente, si può dire che abbia un sacco di pregiormai difficili da rintracciarsi. Certo, non sa cosa vuol direbere un gran vino, che sensazione dia sulle labbra un bicchie-re di cristallo, come sia fatto un vagone ristorante e come ci sicomporti in un grande albergo. I taxi e la prima classe gli sonosconosciuti, il film lo vede a casa, alla televisione, le variazionidella moda lo toccano marginalmente e la sua auto è un pec-cato venderla perché ha il motore praticamente nuovo. Unuomo così non è certamente un ladro, anche se possiede piùdegli altri. È semplicemente un uomo che consuma poco, ilminimo indispensabile, un uomo che ama il denaro, che pre-ferisce accumularlo anziché dedicarsi allo sperpero.

Ma cosa ha quest’ultimo – o meglio cosa non ha que-st’uomo –, in che cosa si differenzia dagli altri? Lo sappia-mo benissimo. La fantasia. Non ne ha, nemmeno un bricio-lo, né da vendere, né da acquistare. L’uomo normale, il nonavaro, vive di fantasia, acquista fantasie. Forse è solo questala differenza. Lo sanno bene i venditori che spesso nonfanno altro che assecondare le fantasie dei loro clienti. Sitrovano di fronte a gente preparata a spendere, bastanopochi elementi oggettivi sui quali trattare l’acquisto e se leassociazioni sono positive, se i vantaggi d’ordine psicologi-co sono evidenti, se la conclusione dell’affare è gratificante,ebbene, la cosa si conclude. Una casa, un’automobile, una

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vacanza, un oggetto di pregio di solito si acquistano e si ven-dono così. Di solito. Non certo ad un avaro che solitamen-te acquista case o cose per quello che sono, per la loro fun-zionalità, non certo per quello che potrebbero essere opotrebbero dare. È così che, solo perché l’avaro difetta difantasia, lo si deride, lo si emargina, lo si accusa di colpe tre-mende solo perché non sente la seduzione del superfluo.

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E il cantante inforcò i pattini

L’uomo d’oggi ha bisogno di un sacco di cose – l’abbiamo giàdetto – e questo gli crea una grossa confusione, grossa alpunto di non sapere nemmeno più riconoscere quelle pocheassolutamente necessarie. Ha bisogno di compensazioni per lafatica quotidiana, per le vessazioni che riceve e per i compro-messi che accetta. Ha bisogno di rimuovere quasi tutto quelloche ogni giorno gli succede o che accade intorno a lui. E allo-ra si agita, alla fine del lavoro inizia un’altra sorta di lavoro, chelo assorbe e lo impegna al di là dell’immaginabile.

Già lo scegliere il nuovo impegno richiede studio, previ-sioni, attenzione, intuito, documentazione. Occorre infattianalizzare tutte le possibilità prima di decidersi: rischi nonse ne possono correre, ne va della propria immagine e dellapropria dignità.

Il discorso da intraprendere deve avere il carattere di attua-lità, non deve distaccarsi molto dall’attività primaria, la sferasociale d’azione deve rimanere la stessa o per lo meno dellostesso tipo, per evitare non solo di qualificarsi attraverso ipropri sforzi, ma addirittura di degradarsi. Nell’attivitàsecondaria non è necessario essere dei geni, basta una dosenormale di preparazione e buon senso per meritare già degliapplausi, dovuti di solito più alla sorpresa che si genera piut-tosto che ad una reale capacità di svolgere la doppia attività.È un po’ come quando un attore si mette a ballare o un can-tante inforca i pattini. Per pigrizia di solito crediamo che unattore o un cantante non sappiano o non possano fare altro

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che recitare o cantare e ci stupiamo moltissimo se poi se lacavano bene nel fare dell’altro. Li riqualifichiamo immediata-mente, se per caso prima non godevano della nostra stima.

La seconda attività nasce all’interno delle ambizioni insod-disfatte, non realizzate. La potenzialità dell’individuo habisogno di sfoghi, prima che l’attività primaria, dettata disolito dalla necessità, per lo meno all’inizio, soffochi ogniaspirazione. Il piacere della scelta aumenta la disponibilitàad occuparsi di questi nuovi interessi. Interessi, perché allabase ci deve essere un obiettivo speculativo, anche se poiquesta altro non è se non una giustificazione, non solo per glialtri ma anche per se stessi. Mai come ora l’uomo, anzichédipingere nel tempo libero, suonare, occuparsi dei franco-bolli o di farfalle, si è messo in testa di produrre del denaroper piacere personale. Se ama la fotografia, anziché metterein piedi una camera oscura in cantina, si mette a colleziona-re macchine antiche, un settore che promette molto. Se è unappassionato dell’automobile va alla ricerca di modelli rari epiano piano li rimette in sesto con estrema efficienza. Allabase ci deve essere la convinzione di fare degli affari, ognispesa va considerata un investimento.

L’antico va forte, mobili, libri, orologi, tappeti, tutto vabene perché la richiesta c’è sempre e l’offerta col tempo siestingue. Basta spazzolare di volta in volta i settori che diven-tano di moda che l’affare è assicurato.

Questi acquisti sembrano quelli che una volta venivanofatti dal collezionista, il meccanismo apparente dell’acquisi-zione del bene è simile, ma mentre nell’un caso è il deside-rio del possesso, nell’altro è la dimostrazione palese del pro-prio acume e della propria esperienza specifica.

Di economia e di finanza se ne parla tutti i giorni ed eccoquesta fascia di doppio-lavoristi che si butta sulla borsa,sulla valuta, sui metalli industriali.

La mediazione è un altro canale di produzione di denaroche attrae questi signori, creare contatti tra chi ha bisogno

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di un bene o di un servizio e chi lo produce.E se ci sono arabi o giapponesi, aperture di credito,

necessità di un paio di viaggi interlocutori, il gioco si pre-senta ancora più interessante.

Ma il fisco ha imposto regole severe e chi pensa di pro-durre del denaro si informa, si documenta, trascorre ore dainotai, da avvocati, da commercialisti. Mai prima d’ora sononate tante società, che permettono di agire senza mettereallo scoperto il proprio nome, cosa che potrebbe essere incontrasto con il lavoro mattutino.

Così tutti oggi sanno dell’esseerreelle, della esseenneci edella sas, cosa conviene fare per contenere le tasse entrolimiti accettabili, come trasferire alla propria società unaparte dei propri consumi senza compiere azioni illegali.

Per muoversi con sicurezza in questo nuovo mondo c’èbisogno di una guida che giunga là dove il poco tempo adisposizione di questi nuovi affaristi non arriverebbe, cheindichi loro quali sono le mode degli uomini e tra questequali saranno le più redditizie, quelle destinate ad avere vitapiù lunga.

E il cantante inforcò i pattini

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La cravatta rosa

Va prendendo piede un linguaggio concreto. Basta diremerda una volta che la seconda diventa più facile. Si trattapoi di ripetere merda in tutte le situazioni dove non c’è pro-blema di vergogna o di forma per essere in grado, senza ver-gogna, di ridire merda, al punto giusto, anche quando ci siaproblema di forma. È un fatto di classe, c’è chi può permet-terselo e chi no, come mangiare le patatine fritte con le manio con la forchetta. E chi ha classe può dire merda senza esse-re volgare e finalmente la frase può essere più concisa, piùdensa di contenuto, più significante come direbbero coloroche non pronuncerebbero mai la parola incriminata.Quando si utilizza un simile linguaggio si può essere supera-ti in concisione solo da pochi linguisti attenti e preparati. Inogni caso non si tratta di apologia di linguaggio da trivio,tutt’altro. Io, per esempio, pur usando talvolta, di frequentedirei, vere e proprie parolacce per rafforzare i miei discorsi,rispetto la forma quanto un gentiluomo dell’ottocento e rim-piango spesso di non avere occasioni sufficienti in cui sfog-giare questa mia qualità.

Anche in queste situazioni però non riesco a non tentarela via della provocazione, soprattutto quando il discorso siallontana dagli schemi della vuota cortesia per finire suargomenti che mi coinvolgono direttamente, nei momenti incui entra in ballo la necessità di esporre opinioni decise,quando sono obbligato ad esprimere pareri o giudizi prividi diplomazia, quando è necessario stare da una parte o dal-l’altra, quando i miei interlocutori si devono accorgere

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senza ombra di dubbio che le mie posizioni sono nette.Ed è proprio l’aumento di attenzione dovuto ad un lin-

guaggio insolito che rende il discorso più secco, più incisivo.La comunicazione diventa più efficace ed è così che la formainfluenza moltissimo la partecipazione, è così che il conte-nuto acquista forza presso chi era distratto. Io mi rado, portouna camicia pulita, ci aggiungo una cravatta che spero nonstoni col resto dell’abbigliamento, scelgo anche il colore deicalzini, mi lucido le scarpe. Aggiungo al tutto un orologiod’acciaio, una cintura di vitello, una penna decente e sonopronto ad incontrare il mio prossimo dimostrando con tuttaquesta serie di codici tradizionali non aggressivi la mia dispo-nibilità a trattare. I miei codici usuali vengono riconosciutida una fascia molto ampia di potenziali interlocutori, l’iniziodel dialogo è automatico, le barriere e le prevenzioni dicarattere formale sono praticamente inesistenti. Adessointroduciamo delle varianti minime su un abito blu, norma-lissima divisa da impiegato: indossiamo una camicia celeste,normalissima anche per un tranviere, poi passiamo alla cra-vatta, necessario complemento, e scegliamola di un bel colo-re rosa shocking. Se il nostro scopo era quello di creare unasituazione d’attesa, di leggero sospetto, di curiosità, in talcaso ce l’abbiamo fatta. Però nello stesso tempo abbiamolimitato, sin dall’inizio, il potenziale di comunicazione.

Sostituiamo ora l’orologio d’acciaio con uno di quellisuperpubblicizzati – extra piatti, con un sacco di piccole vitiinutili – aggiungiamo uno spruzzo di profumo, blocchiamola cravatta con un piccolo gioiello luccicante e via così concintura di lucertola, calzini in tinta, scarpe con vezzo. Aquesto punto il signorino è pronto. Si guarda allo specchio,si passa le dita fra i capelli scalati con cura ed è pronto a par-lare. Con se stesso, naturalmente. Gli ornamenti che ha scel-to palesano la sua posizione nei confronti del mondo ester-no, degli altri, del suo prossimo. Il suo linguaggio sarà piùattento, più morbido, la forma tenderà inevitabilmente a

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prendere il sopravvento sul contenuto oppure il contenutodovrà avere davvero grossa importanza per riuscire asopravvivere. Un individuo così, forse disponibile, crea pre-venzione, lo si guarda come diverso, ci obbliga a tattiched’avvicinamento più elaborate, non spontanee, in qualchecaso ci rende non disponibili nei suoi confronti. Spesso perpigrizia, perché non ce la sentiamo di affrontare le faticheinevitabili della fase di approccio, perché non siamo certiche le nostre fatiche vengano poi ricompensate.

Come esempio opposto possiamo citare una serie di par-ticolari/barriera: barba lunga, unghie sporche, abbigliamen-to trascurato. Anche qui si tratta di un diverso, di uno chenon rispetta le regole, da lui ci sentiamo violentati. Il feno-meno di rigetto si amplifica, la nostra disponibilità diminui-sce ulteriormente. In altre parole diventiamo giudici. E finqui tutto bene. Nell’area del nostro territorio possiamo per-metterci di giudicare. Inevitabilmente però i nostri criteri digiudizio nei confronti del signorino e del barbone nonsaranno uniformi: saremo senz’altro meno critici nei con-fronti di quello che mostrerà segni di riconoscimento piùvicini a quelli che noi utilizziamo normalmente.

E ora facciamo compiere dei piccoli movimenti ai nostridue manichini, seguiamone la mimica, diamo loro delleposate e vediamo come le impugnano, facciamoli sedere adun tavolo e vediamo la posizione delle braccia, aspettiamoche bevano e controlliamo come lo fanno, passiamo in pol-trona e osserviamo la posizione del busto e delle gambe.Non facciamoli ancora parlare. Siamo già in grado di modi-ficare il nostro giudizio preconcetto sulle nostre due cavie:abbiamo infatti aggiunto elementi di comportamento chemeglio ci aiutano a definire l’individuo e il giudizio diventapiù oggettivo. Diamo loro la parola, la comunicazionediventa verbale: in pochi minuti tutti i rispettivi limiti cul-turali saranno allo scoperto, ci sarà un diverso uso delleparole, un vocabolario personale di diversa ampiezza, una

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più forte o più debole cadenza dialettale, una maggiore ominore abitudine al dialogo, alla conversazione. Tutto que-sto darà vantaggi momentanei all’uno o all’altro ma non cidarà un grosso aiuto al fine di un giudizio imparziale perchéavremo sempre il dubbio che una cravatta rosa sia decisa-mente meglio di una mano dalle unghie sporche.

Ed ecco la fase della comunicazione non verbale. Nonstaremo attenti a tutto – perchè il microscopio non ci favedere l’elefante – ma ci occuperemo di una serie di detta-gli non trascurabili: la disponibilità dell’uno ad ascoltarel’altro, la sua capacità di intervenire senza brusche interru-zioni, il timbro della voce a seconda dell’argomento e del-l’occasione, la capacità mimica di segnalare all’altro di com-prendere le successive fasi del discorso. I ruoli si alterne-ranno e ci daranno la possibilità di confronto e finalmentesaremo in grado di risolvere il nostro dubbio e di emettereil nostro verdetto. Proprio nello stesso momento i nostridue amici – e va a finire sempre così – si alzeranno e se neandranno via insieme, dopo averci spiegato che l’uno eradaltonico e il secondo era finito fuori strada con la macchi-na. In ogni caso, volontari o involontari che siano, i codicidi prima comunicazione possono essere positivi o negativi aifini dell’approccio. Quanto più importante è avvicinarsi alprossimo tanta maggiore attenzione va destinata all’interoproblema. Poi, con estrema libertà, ciascuno di noi puòvestirsi interamente di rosa o imbrattarsi le mani di merda.

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La Macchina della Mediocrità

Le pene per chi degrada il linguaggio dovrebbero esseresevere. Non serve come alibi la risata di risposta di un vastopubblico, non si accetta come giustificazione il fatto diavere confezionato un prodotto richiesto dal mercato. Giàdai tempi di un famigeratissimo personaggio televisivo dinome Pappagone, il problema era evidente nella sua gravità:scemenze gratuite e mimiche insulse trovavano terreno fer-tile nei telespettatori di tutte le età, che già all’indomaniripetevano a scuola, al bar con gli amici, negli intervalli dilavoro tutte le perle della sera precedente. Un successoincredibile, forse nemmeno previsto dagli autori dei testi.Rari furono i casi in cui l’idiozia trionfò così a lungo. Le set-timane passavano, Pappagone non mollava e la situazioneandava degenerando. Per fortuna il tempo rimette le cose aposto, l’idiozia ritrova il suo andazzo normale, senza ecces-si, e la vita continua. Ma ogni tanto qualcuno rimette il ditonella piaga e si ricomincia da capo.

La volgarità, quella gratuita, inutile, oltraggiosa, ricompa-re ad ogni piè sospinto. Basta un Salce convinto di fare com-media all’italiana o un Villaggio disposto a ripetere per lamilionesima volta le sue battute, che il rischio di contagio siriaffaccia prepotente. Le serate si ripopolano di imitatori diquesti eroi popolari e la degradazione riaffiora.

Al di là di questi pochi esempi, c’è la situazione generale arti-colata spesso su schemi simili a quelli descritti. Ci sono posti,posizioni di netto privilegio che andrebbero raggiunti permeriti reali. Gli uomini destinati a queste situazioni dovrebbe-

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ro essere capaci, consci dei propri limiti, responsabili.Prima ancora che critici verso il mondo dovrebbero esser-

lo con se stessi. In realtà questi uomini ci sono. Prendiamoun giornale, un quotidiano qualsiasi che esprime delle opi-nioni, un vero banco di prova per chi ha accesso alla stam-pa. Esprimere le proprie idee, analizzare una situazionedando dei giudizi non è il semplice resoconto di un avveni-mento qualsiasi. Si tratta di un’operazione piena di rischi edi responsabilità: si ha di fronte un pubblico che non siconosce, da una parte pronto a capire, a confrontare le frasilette con le proprie idee, pronto ad un ipotetico dibattito,dall’altra disposto a farsi condizionare, a fare propri i temidiscussi nelle colonne del “suo” giornale.

Chi scrive è su una torre. Sa benissimo che il dibattitonon ci sarà mai e che se qualcuno vorrà uno scontro lodovrà cercare nell’ambito del privato, lontano dall’attenzio-ne del grosso pubblico. Se ci sarà lotta le armi sarannoimpari. Anche per questo il giornalista è costretto ad ammi-nistrare quotidianamente privilegi che il suo lavoro gli con-cede. Di solito ciò avviene con serenità, con capacità di giu-dizio, con onestà, con intelligenza. Ma cosa succede semanca uno di questi elementi?

Se manca l’ultimo, per esempio – e così escludiamodiscorsi troppo duri – chi riceve il danno maggiore?

Il giornale ovviamente non si pone nemmeno il problema,altrimenti lo avrebbe risolto in partenza. L’imbecille nem-meno, anzi, molto probabilmente è estremamente sicuro diavere grosse doti.

Il pubblico? Il pubblico è terreno fertile. Statisticamenteride per Pappagone, ride per Salce e per Villaggio. In mezzoal pubblico c’è però chi non ama l’idiozia, chi odia i mecca-nismi di scalata alle posizioni di privilegio, che non ammet-te in simili situazioni ci possano finire dei disonesti o degliimbecilli.

Ma non c’è niente da fare, la Macchina della Mediocrità

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è troppo potente, i suoi ingranaggi girano inarrestabili,pronti a stritolare chi cerchi di rallentarli.

Nasce così una sensazione di impotenza che di giorno ingiorno si accentua. E ogni giorno ci rattrista sempre di piùl’idea che sarebbe stato meglio per tutti non piantare su unterreno fertile solo ortiche.

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Lasciapassare per meditare

Siamo divenuti più attenti. La nostra epoca ci ha dotati diun senso in più, la visione. Noi spesso non guardiamo, visio-niamo. Vediamo con attenzione, estrapolando dall’immagi-ne tutta una serie di considerazioni, operazione che pochi,prima d’ora, facevano.

Nell’osservazione di un quadro, per esempio, c’era lanecessità di riconoscere l’oggetto raffigurato, dava sicurezzariuscirci, tranquillizzava. Tutto ciò non ha più importanza,siamo sottoposti a bombardamenti visivi; l’occhio ci tra-smette con frequenza immagini che vengono decodificatesolo attraverso un commento sonoro o una didascalia. Leaccettiamo ugualmente, le visioniamo, le memorizziamo, maspesso non le vediamo, nel senso che vedere vuol dire ancheavvicinarsi al reale.

Vediamo il televisore, e come oggetto lo identifichiamo.Vediamo i prodotti che il televisore ci sforna, ci abituiamo alledue dimensioni dell’immagine teletrasmessa, ai suoi colori chetentano di riprodurre quelli della realtà, riconosciamo primal’essenza di immagine televisiva che non la realtà che in essa èriprodotta. Sfogliando una rivista illustrata ci accade una cosasimile: vediamo dapprima, nella sua evidenza, il foglio di cartastampata all’interno del quale, solo in una fase immediatamen-te successiva riconosciamo la realtà propostaci dall’immaginefotografica. Abituati come siamo a questo processo in duetempi, lo utilizziamo liberamente anche in assenza di un mezzodi comunicazione; riusciamo sempre – immaginiamo di esseresu un viottolo di campagna al tramonto – ad isolare un pezzo

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della realtà circostante e a memorizzarlo. Ripensando a quel-l’attimo riusciremo a recuperare il ricordo visivo; se saremoattenti ci accorgeremo che si tratta di un’immagine piatta dovela realtà è stata riportata alle due dimensioni che ci sono ormaiabituali. Sostanzialmente non facciamo altro che fotografare larealtà, continuando ad isolarne le fette che a noi in quel momen-to interessano o che producono in noi precise sensazioni.

Automaticamente effettuiamo una selezione delle infor-mazioni, tratteniamo per noi quelle che ci servono e scartia-mo le altre.

C’è un momento della nostra vita in cui ci troviamo anostro agio ed è quando abbiamo la macchina fotografica inmano, uno strumento per la registrazione di informazioni,coerente con il nostro metodo di assimilazione. Attraverso ilmirino isoliamo senza fatica quella parte del reale che ciinteressa, con un occhio solo la rendiamo piatta, la con-frontiamo automaticamente con immagini simili che fannoparte della nostra cultura visiva e, schiacciando il pulsanteal momento giusto, introduciamo nella fotografia la nostraidentità. Questo metodo poi ci permetterà di comunicare adaltri cosa abbiamo visto e cosa abbiano cercato di eviden-ziare, così potremo togliere oggettività a quanto c’era davedere e ad introdurre soggettività. Tutta questa serie dioperazioni ci permette di isolarci durante la fase di ripresa,di isolarci successivamente nella fase di analisi e selezionedel materiale per scegliere poi il momento migliore per rien-trare in contatto con gli altri mostrando loro la fetta miglio-re della nostra produzione per riceverne il consenso.

Rovesciamo ora il problema: ci sono momenti in cui siamosoli, sia perché lo preferiamo, sia perché siamo obbligati adesserlo dalle circostanze. Ci accorgiamo subito, e l’abbianogià detto in altra parte di questo libro, che l’individuo soloè ansiogeno, crea negli altri un supplemento di attenzione,nei suoi confronti c’è un atteggiamento di estrema circospe-

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zione. Questo clima di sospetto prima. o poi, consciamenteo meno, comincia ad agire su di noi, produce l’unica rea-zione possibile, la necessità, nel nostro fare niente, di crear-ci un alibi. Ci dobbiamo travestire, dobbiamo diventare unoche fa qualcosa: solo così potremo mimetizzarci e tornare adessere uno dei tanti.

È l’attività, anzi l’evidenza dell’attività, che ci permette discomparire dall’attenzione dei più. Meditare, indugiare, muo-versi a passi lenti, osservare, non ci è concesso in presenzad’altri, testimoni e giudici di una scelta contemplativa nonautorizzata dalle regole vigenti. Una semplice attività fisica èsufficiente per scagionare un solitario: un ciclista si può anchepermettere di meditare perché viene decodificato dall’osser-vatore come uno che va in bicicletta, uno che sta facendo qual-cosa. E così un pescatore sta pescando, un guidatore sta gui-dando, uno che legge sta leggendo. Ciascuno di essi può anchemeditare purché svolga un’attività di copertura sufficiente acreare il mimetismo necessario.

La macchina fotografica diviene in quest’ottica – buffo ilgioco di parole – un eccellente alibi. Basta esibirla comelasciapassare e siamo autorizzati a meditare, indugiare, amuoverci a passi lenti, ad osservare, un’attività – e questavolta la scelta diviene attività – contemplativa, necessaria eperfettamente coerente.

Siamo autorizzati ad osservare, a diventare indiscreti,possiamo invadere addirittura la sfera privata degli altrisenza procurare eccessive tensioni perché in fin dei contistiamo fotografando, solo fotografando.

Procurarci, seguendo questo metodo, un lasciapassareper le varie situazioni diventa facile, ci permette in ogni casodi cercare e di trovare l’alibi a noi più congeniale, quello cheaddirittura ci procuri piacere. È necessario però che lanostra macchina fotografica non sia verniciata di rosa per-ché non potremo certo trovare la scusa di essere daltonici.

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Il potere occulto

Nel luglio del 1969 l’uomo, per la prima volta, mise piedesulla luna. Un evento epico che ci tenne in piedi fino all’al-ba davanti al televisore che continuava a sfornare in direttaimmagini incredibili, talmente incredibili da generare ildubbio che si trattasse di una sofisticata messa in scena. Igiorni successivi, da un sondaggio condotto in America,risultò infatti che una fascia della popolazione era convintache si fosse trattato di un imbroglio bello e buono. Nonbastarono successivamente foto e filmati, il rientro nell’at-mosfera della capsula, il suo ammaraggio, i campioni disuolo lunare a modificare le convinzioni di costoro.

Ritroviamo questo schema mentale tutti i giorni nei discor-si di economia e di politica spicciola: in qualsiasi stato, inqualsiasi governo c’è un gruppo di persone che possonotutto, che manipolano la realtà e condizionano le esistenzedi tutti noi. Non c’è fatto di una certa importanza che acca-da da noi o nel mondo, dove questi pochi occulti non abbia-no lo zampino. Essi tessono tutte le trame, premeditano lemosse, ci mostrano della realtà la faccia che vogliono quan-do addirittura non la modificano a loro piacimento. Fannosalire e scendere il dollaro, sobillano i popoli, armano il ter-rorismo, decidono l’andamento della crisi, ci manca soloche organizzino terremoti ed altre catastrofi naturali.Hanno in mano il petrolio, danno armi a chi vogliono, inde-boliscono altri e tutto ciò secondo piani programmati che siintersecano alla perfezione, come se fossero programmati su

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giganteschi calcolatori onniscenti. Possibile davvero che lagente abbia rinunciato ad osservare criticamente i fatti, acapire la spontaneità di alcune situazioni, continui ad utiliz-zare il senno di poi per costruire tutte le premesse logiche diquanto poi avviene?

L’individuo delega costantemente le sue responsabilità adaltri ma non è poi disposto ad avallarne le azioni. E quandocostoro contribuiscono ad un evento straordinario, rifiuta-no addirittura la possibilità che ciò sia vero. L’incredulitàriappare anche quando abbiamo a che fare non con la sto-ria dell’uomo ma con la nostra piccola storia di tutti i gior-ni. È proprio questo il campo dove gli occulti operanomeglio, ci fanno vedere tutto quello che vogliamo, i mezzi diinformazione sono pilotati in un’unica direzione e noi nesiamo le vittime. Certo che se davvero potessimo contare suuomini così potremmo stare tranquilli, scegliendoli ed affi-dando loro il potere, ci saremmo assicurati un futuro tran-quillo. Questi potenti avrebbero il controllo totale dellasituazione, con il loro genio e con le loro capacità farebbe-ro del mondo ciò che vogliono. La massa sarebbe indubbia-mente usata e sfruttata da questi biechi tiranni, ma ci sareb-be anche il grosso vantaggio di sapere che le pesanti crisi ele grosse tensioni che attanagliano il mondo nient’altro sonoche invenzione di pochi.

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Ama il prossimo tuo

Si guarda da parecchie parti alla plastica come se il mondofosse sempre stato perfetto e la plastica l’avesse insozzato. Intutte queste parti si vive però in mezzo a plastiche di tutti itipi che rendono la vita decisamente comoda. La coerenza,una volta, veniva considerata dote. Il fanatismo non ha certobisogno di coerenza, è più facile che si basi su luoghi comu-ni, gli assiomi delle nuove religioni pseudo ecologiche cheprevedono liturgie complesse. Il diavolo è il progresso, lacomodità è una tentazione da cui fuggire, l’austerità più tota-le l’unica via per la salvezza. E così il mondo si salverà, lanatura tornerà ad essere rispettata ed i nostri figli vivrannonuovamente felici. Questa più che la speranza la teoria. Unasperanza costruita sulle fantasie per scacciare lo spauracchiodel tempo in cui viviamo e degli anni a venire, un modo difingere di partecipare senza sacrificio, senza approfondi-mento, senza cultura, fingendo di averne una. La storia, lageografia, l’italiano, queste sì sono discipline necessarie, fon-damentali per arrivare ad altri impegni. La matematica, lachimica, la fisica sono basi altrettanto importanti per pren-dere in esame problemi seri. Ci vuole fatica, certo, ma il pia-cere della conoscenza va pagato e la conoscenza poi ci ripa-ga di tutte le fatiche. Il primo premio del sapere è l’esserecreduti e soprattutto l’essere credibili, condizione che non siraggiunge certo arroccandosi su un cumulo di luoghi comu-ni, nient’altro che detriti di pseudo cultura. Il traguardo diquesti nuovi profeti della catastrofe è, al di là del bene col-lettivo, una precisa qualificazione personale.

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Vogliamo da questo mondo una vita felice, senza troppiproblemi, ma il mondo è quello che è, e in questi anni pro-blemi ce ne sono per tutti. Non solo sull’italiano, ma su tuttigli uomini della terra gravano pesanti nuvole, non c’è inquesti anni un attimo di tregua. Non vale allora la pena diabbandonare le utopie e di combattere per quel poco che sipuò fare intorno a noi, sperando che gli altri facciano altret-tanto? Una specie di catena di sant’Antonio che in brevepotrebbe coinvolgere tutti.

Ma finché ciascuno, dopo aver risolto il problema perso-nale della sopravvivenza, per nascondere la propria coda dipaglia fa un salto di qualità eccessivo, iniziando ad occupar-si di problemi universali, a chi è destinato il compito ingra-to di risolvere i piccoli problemi pratici della vita di tutti igiorni? A cosa può giovare contro la fame nel mondo, se chilotta trascura il vicino che muore di fame? Ama il prossimotuo come te stesso.

Il prossimo tuo ti è vicino e come puoi abbandonarlo infavore di principi universali che ti imporrebbero di occu-parti anche di lui?

È il momento di guardare in faccia la realtà e se ad alcunola situazione in cui ci troviamo può sembrare triste questo glifornirà uno stimolo per lottare con maggiore alacrità. Leresponsabilità esistono ed ognuno deve assumersene unafetta, indipendentemente dal fatto che ciò contrasti con ilsuo benessere o con le necessità individuali. E se la plasticaci sembra troppa e davvero essa insozza il nostro mondooccupiamocene, ma solo dopo aver stabilito l’ordine di prio-rità del nostro intervento. Può anche darsi che ci siano pro-blemi più importanti e più urgenti da risolvere.

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Il cibo nell’Era delle Gabelle

Volessimo continuare l’argomento precedente nessun temasarebbe così ricco come quello del titolo: il panino. Il pani-no imbottito si intende, con tutte le sue varianti italiane: digusto, di preparazione, di ingredienti e anche di ingegno. Ilpanino, un pane tagliato a metà, sostituisce il piatto di cera-mica, da noi contiene ormai lo stesso cibo che di solito ciarriva in tavola in maniera tradizionale, arrosto, bistecca,milanese, frittata e altre mille varianti. Non mancano nem-meno due foglie di insalata e le salsine piccanti. Per giunta ilpanino/supporto per pietanze è commestibile, non va lavato,non si rompe e costa quanto un piatto di plastica; paradossofinale, sostituisce il pane che in trattoria ci danno nel cesti-no. Il panino imbottito risolve il problema del pranzo per chinon vuole o non può sottostare, nell’Era delle Gabelle, allerichieste economiche dei locali produttori di cibo tradizio-nale. Il panino imbottito risolve il problema di chi non hatempo, in pochi minuti uno se la cava ed ha l’impressione diavere guadagnato un’ora della sua giornata. Il panino imbot-tito è una scelta attuale, piena di giustificazioni, nessuno sene vergogna più. Il Padrone Abile permette, per innaffiare ilcibo asciutto, di scegliere tra vini pregiati, versati a bicchie-re, che gratificano il cliente e contemporaneamente lo riscat-tano da una scelta di chiara economia. L’Era delle Gabelle ciha portato a cambiare abitudini, ad assomigliare sempre dipiù all’americano medio che vedevamo al cinema farsi unpaio di tramezzini al posto della vecchia sana bistecca. Iltutto va naturalmente a scapito della comodità. Pochi minu-

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ti in piedi o appollaiati su uno sgabello e poi via, per lascia-re il posto al cliente successivo perché la macchina del pani-no ha tempi ristretti e spazio limitato.

Una macchina efficiente, utilizzata da gente che lavora,gente che deve fare i conti col tempo o col denaro, una solu-zione che funziona solo nelle grosse città, dove la gentelavora sufficientemente lontano da casa perché non le con-venga ritornarci per pochi minuti. Costerebbe troppo farloanche solo in termini di tensione. Col panino si eliminano itempi morti dell’andata e del ritorno, i contrattempi inevi-tabili del caos dell’ora di punta, i piccoli problemi familiariche tornano a galla, la seccatura di dovere poi interrompereuna situazione confortevole per tornare al lavoro. Col pani-no si rimane in mezzo alla gente, si vedono nuove facce, sene riconoscono altre, si parla, si ride, ci si distrae. E lo sto-maco? Lo stomaco si abitua, si sfatano vecchi preconcetti eci si abitua al fatto che quello che faceva male una volta famolto meno male oggi, che sopportiamo meglio ritmi eschemi che in passato ci avrebbero preoccupato, le nostredifese sono aumentate e siamo diventati più forti.

C’è nell’aria una sensazione di precarietà che ci impediscedi prendere sul serio la possibilità di una gastrite, c’è ilrischio che il futuro ci riserbi qualcosa di più grave e allorapossiamo sorridere di un mucchio di precauzioni del passa-to che a null’altro erano servite se non a limitarci nei picco-li piaceri quotidiani. L’incertezza ci fa vivere in un clima digrandi paure che ci permettono di vincere con facilità quel-le piccole: il panino tuttalpiù ci potrà far venire l’ulcera.

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Il cielo della provincia

La provincia ha ritmi diversi. Le abitudini sono decisamen-te più radicate che nelle grosse città, le regole più precise epiù osservate. In provincia, per esempio, si va a tavola moltospesso alle 12,30, mai dopo le 13. Una consuetudine chenasce non per caso ma da una serie di particolari condizio-ni che altrove difficilmente si realizzano.

Una città piccola, il lavoro a poche centinaia di metri, sche-mi di comportamento omogenei. Appena termina il lavoro siva a casa, dove è già pronto il pranzo – per la solita ora per-ché l’ora è sempre la solita – pronto perché nella piccola cittài costi sono inferiori e spesso non c’è bisogno di lavorare indue. Appena termina il lavoro si va a casa perché la città pic-cola non ha strutture per il mezzogiorno: i locali/panino, conla casa a due passi, non avrebbero senso, la sosta al bar per unaperitivo inciderebbe troppo sui tempi del rientro, quattrochiacchiere ritarderebbero il pranzo dei figli che rientrano,anch’essi con tempi ristretti, dalla scuola. E allora si va a casa,una casa che non è più la casa funzionale del passato e non ènemmeno la casa comoda del presente.

È una giusta via di mezzo dove parenti ed amici si trova-no a proprio agio anche se il bicchiere è ancora minuscolo ese i liquori sono ancora chiusi a chiave; è un posto dove letradizioni continuano ma non c’è nessuna preclusione per lenovità che ritroviamo mescolate qua e là, senza regole pre-cise. Ci sono mobili nuovi e mobili vecchi, senza che questoponga problemi a nessuno, senza che i suggerimenti delleriviste d’arredamento siano troppo visibili o intuibili. Spazi

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più ampi non costringono a forzate soluzioni di incastri emancano leziosi accostamenti di colori e di forme. La gentedelle Piccole Città si veste nello stesso modo con cui arredale case, un po’ di funzionalità e un po’ di novità, senzapreoccuparsi troppo del risultato, anche perché tutti gli altriusano schemi simili. Lo stesso abbigliamento funziona pra-ticamente in tutte le occasioni, tranne in quelle particolaridove è di rigore un abito scuro, con camicia bianca e cra-vatta. Si vive comodi, insomma, senza eccessive imposizioniformali. In queste condizioni, con continue libertà, è piùfacile mantenere la propria identità. I tempi morti sonoridotti al minimo e ciascuno si può informare, leggere dipiù, fare una vita tranquilla senza sentire costantemente l’in-calzare dei tempi, senza venire coinvolto dal grigiore metro-politano che si riflette persino sui volti dei bambini.

In provincia l’uomo ha tempo, per se stesso e per la propriafamiglia, gli impegni non sono pressanti anzi spesso possonoessere rimandati senza che ciò danneggi qualcuno. In questecondizioni l’uomo può dedicarsi anche agli altri, seguire glischemi di comportamento degli uomini che lo hanno prece-duto, mantenere le cose buone del passato senza rifiutarequello che di buono può darci il presente. Qust’uomo lavora,risparmia, ogni giorno costruisce il futuro suo e dei suoi figliperché il cielo, in provincia, è ancora sereno.

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L’uomo che vive solo

Chiamiamolo scapolo, se volete, ma è un termine antiquatoed impreciso. Non è nemmeno un uomo solo, anche se inverità è solo, perchè questo termine porterebbe a compian-gerlo. Può essere giovane, uno studente che vive lontanodalla famiglia, meno giovane, un divorziato per esempio,anziano, vedovo o pensionato.

Di certo c’è che vive da solo, senza una donna voglio dire,e che ha dovuto inventare nuove regole per sopravvivere.Ha dovuto imparare a muoversi e a comportarsi in mezzoagli altri senza perdere l’identità, rimanendo uomo anchecon un paio di sacchetti del supermercato in mano. E anchein questa situazione nuova – l’uomo della Marlboro non hainfatti i sacchetti del supermercato ad intraciargli i movi-menti – non deve perdere in dignità, non deve assomigliarealla vicina della porta accanto. Ha dovuto imparare le rego-le del gioco, un grosso rifornimento settimanale di cibo, dascegliere con calma, guardando i prezzi, non cedendo alletrappole degli acquisti di impulso. Ha scoperto che qualchepiccola gratificazione, poche cose superflue di grossamarca, hanno un grosso effetto sulle cassiere, ne attirano lasimpatia, allontanano gli sguardi di tenerezza e comprensio-ne. In questa variante agli schemi tradizionali d’acquisto,una scatoletta di caviale o una bottiglia di champagne, c’èun pieno recupero della propria condizione di uomo.

Ha imparato a prepararsi il pranzo e ha scoperto che incucina non ci sono tutti i misteri che le donne hanno semprelasciato intuire e che il cibo si cuoce da solo. Qualche volta,

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nel momento meno opportuno, scopre che in casa non c’èun grammo di sale o che il detersivo per lavare i piatti, lascia-to su un panno umido, è diventato un blocco inutilizzabile.Non se ne dispera e fa tesoro di questa nuova esperienza.Quando invita delle gente si preoccupa molto che tutto siain ordine, cerca di fare bella figura, di nascondere tutte ledifficoltà che la vita quotidianamente gli riserva.

Il suo ruolo è nuovo – l’uomo che vive solo non è mai esi-stito in passato oppure, se è esistito, è successo per necessitàe non per scelta – e non ci sono regole collaudate da segui-re. Si tratta di inventarle, ovviamente con grossa fatica. Inogni caso è solo questione di tempo e tutti, prima o poi, leimparano. Superato il tirocinio e le prove della sfera privatascatta il meccanismo dei rapporti sociali, da sempre più faci-li per la coppia. Verso la coppia non c’è sospetto, è un anel-lo che si chiude. Il singolo invece non ha ancora una sua col-locazione precisa, è troppo libero per comunicare tranquil-lità, merita maggiori attenzioni e genera un atteggiamentocauto. D’altra parte deve dimostrare estrema sicurezza,deve apparire soddisfatto della propria condizione e si pro-cura in questo modo qualche piccola invidia. Tutto questofa aumentare la cautela degli altri.

E allora a questo punto cominciano le fatiche vere e pro-prie per farsi accettare, per fare dimenticare la differenza dicondizione. Se vuole continuare i suoi rapporti con gli altrideve diventare disponibile, interessante, deve apparire sag-gio, deve insomma convincere che la sua situazione gli stadando dei benefici. Deve soprattutto allontanare da sé lalauta dose di commiserazione che altrimenti riscuoterebbeautomaticamente.

E dato che la fatica di recitare costantemente questa partelo sposserebbe, se vuole stare con gli altri li sceglie uguali asé, uomini o donne che siano. Il dialogo diventa così più faci-le, le parole corrispondono sempre più al pensiero; situazio-ni ed emozioni, anche in virtù di un linguaggio perfettamen-

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te comprensibile, si trasferiscono con estrema rapidità. È ilsolito discorso dell’efficienza del gruppo omogeneo che puòancora permettersi un preciso territorio di cultura, parole,azione. Il piccolo gruppo assomiglia molto all’uomo che vivesolo: negli altri suscita diffidenza e cautela perché troppoevidente è la sua indisponibilità a comunicare o a scegliereschemi di comunicazione diversi da quelli ormai consueti, glistessi che edificano la barriera con gli altri.

Il Piccolo Gruppo Omogeneo, d’altra parte, è un anello,come la coppia, ma ha troppe varianti per comunicare tran-quillità agli altri. Le parole talvolta diventano incomprensi-bili, perché usate al di fuori del loro significato usuale; il lin-guaggio diventa così un gergo per iniziati e l’escluso noncapisce. D’altra parte il piccolo gruppo, anche se isolato,può lavorare con tranquillità, costruirsi delle regole di com-portamento, seguirle con facilità con la certezza che il mec-canismo funzioni.

Se l’idea è corretta è poi facile ampliare graduatamente ipropri progetti. Le regole del passato non funzionano piùperché tutte le nostre istituzioni e le nostre leggi sono stateconcepite per piccoli gruppi di persone che vivevano in pic-coli centri non sovraffollati, in piccoli gruppi, diciamo. Civogliono dunque regole nuove o qualcuno che riesca a vede-re alternative dove gli altri sono ciechi.

Chi vive solo ha grandi possibilità in questa direzione:con la sua posizione ha già modificato la tradizione inven-tando una condizione nuova, ha già fatto il primo passo diun cammino diverso. Chi vive solo dispone di tempo, dialo-ga con elevato rendimento con i suoi simili, non è distrattodai mille problemi della famiglia e può continuamente, inpiena libertà, elaborare il materiale in suo possesso e farecontinue verifiche.

C’è bisogno di soluzioni nuove per debellare quella nettasensazione di precarietà che c’è nell’aria. Soluzioni per l’e-conomia, difficili da intuire, tranquillizzerebbero senz’altro

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un mucchio di gente. C’è però un altro mucchio di genteche ha bisogno di cose più importanti, che ha bisogno disapere cosa fare, come fare crescere i figli, cosa insegnareloro, gente che vive nella speranza che un giorno le cose simetteranno meglio che adesso.

L’uomo che vive solo, che parla, che verifica, che elabora,che comunica, è l’uomo che lavora più degli altri perchéquesta speranza si avveri, perché lui, più degli altri, vive, enon solo sente, tutta l’incertezza della nostra epoca.

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La donna che vive sola

Zitelle ormai non ce ne sono più. Esistono donne non spo-sate, di qualsiasi età, ma non sono zitelle. Donne nubili allequali molto spesso l’età conferisce il titolo di signora mal-grado la palese assenza di maschi nelle vicinanze. Aggraziate,femminili, sole, ma non più bollate da un marchio discrimi-nante. Attive nel lavoro che hanno scelto, pronte di fronteagli imprevisti, non facili nella scelta di un compagno, anco-ra meno di fronte all’avventura, mostri di razionalità di fron-te alle loro madri, portano avanti la loro vita e ne affrontanoi problemi con una serietà ed una costanza del tutto nuove.Sanno benissimo che il loro ruolo, così come quello dell’uo-mo solo, è nuovo. Ne vanno inventati gli schemi, le contra-rietà devono essere superate velocemente, si deve far fintache tutto fili liscio perchè il rischio è troppo elevato. Lalibertà si radica nell’animo come non rinunciabile e ogni atti-mo di lotta per conservare lo stato raggiunto, in alcuni casiconquistato, non deve far sentire il proprio peso. Attimi dicrisi ce ne sono, ma occorre vincerli in fretta e soprattutto dasoli. Per la donna è ovviamente più faticoso vivere e supera-re questi momenti, abituata com’è per cultura e per tradizio-ne ad appoggiarsi al maschio, ad affidare a lui le responsabi-lità, ad ascoltare il suo parere, il suo giudizio, a dare perscontata la sua soluzione. Ma anche la donna, vivendo que-sta nuova condizione, deve stare attenta a non perdere la suaidentità. La zitella percorreva solitamente due strade, quelladella dolcezza o quella dell’acidità. Era certamente più faci-le che facesse l’uncinetto piuttosto che indossasse i panni del

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generale. Ma anche in questo caso rimaneva una donna. Ladonna d’oggi, l’ex zitella, se corre un rischio, nei suoi attimid’incertezza è quello di adottare, in mancanza di schemi col-laudati e con modelli di riferimento assolutamente assenti,regole e modi tipicamente maschili. Il linguaggio subisce inquesti casi sensibili modifiche; pur rimanendo il contenuto,la forma è la prima a degradarsi. Le movenze si modificano,la casa perde in ordine e pulizia, il cibo si trasforma, diventapiù semplice, oppure lascia posto a scatolame di tutti i tipi oprodotti pronti della rosticceria sotto casa. Si vive lo stesso,ma con ritmi diversi. La donna, che per tradizione non sape-va nemmeno come gli uomini trascorressero il loro temponel loro bar preferito, la loro migliore valvola di sfogo, sco-pre oggi che in fin dei conti il bar è un’ottima soluzione. Cisi incontra gente, si parla, si beve qualcosa, si passa una sera-ta e, alla fine, non c’è da rigovernare la casa. La macchina, èun’altra scoperta della donna che vive sola. Protegge inmaniera decente dagli estranei (che si incontrano sul tardi almomento del rientro) e che da sempre sono stati generatoridi ansie e di timori ancestrali. Qualche piccolo problema nel-l’attimo del parcheggio, ma subito dopo, col portone che sichiude alle spalle, tutto torna tranquillo. La macchina èsegno tangibile di una indipendenza assoluta, diventa addi-rittura più necessaria alla donna che all’uomo, sia come fun-zione, sia come simbolo. Un uomo potrebbe farne a meno,non ha bisogno di mantenere la propria indipendenza, puòanche rinunciarci ogni tanto senza sentirsi fragile, debole,sminuito. La donna no. Nemmeno quando un’auto procuraqualche difficoltà di bilancio ma, d’altra parte, l’indipenden-za in qualche modo la si deve pagare.

Una donna scopre piano piano di non avere più bisognodell’uomo. Scopre addirittura che senza uomo sta meglio, èpiù padrona di se stessa.

Questa donna, la donna che ha preso coscienza di tuttociò che non è più, ovviamente la zitella di una volta, la vec-

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chia cara zia che aveva trovato nella dolcezza un facile pas-saporto per il contatto con gli altri, è ormai una donna forte– altro passaporto – autosufficiente che sa destreggiarsi conabilità tra i mille problemi quotidiani.

Il guaio principale sta nel fatto che un uomo non è più ingrado di riconoscere come donna questa donna. Gli è ormaitroppo simile, se la immagina – e la identifica – come anta-gonista, ne ha quasi paura. L’umanità ha paura di questadonna almeno quanto ne ha dell’uomo che vive da solo: sabene infatti che da questi suoi prodotti non ricaverà nienteper il suo futuro: un mondo senza coppie, un mondo sterile,è la sicura premessa di un vero e proprio suicidio della razza.

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La donna e il ricatto dell’istinto

Difficile affrontare un discorso che coinvolga le donne,altrettanto difficile mantenere la giusta misura. Il fatto chechi scrive esprima pareri del tutto personali non lo esime dacritiche perchè il terreno scotta e le cose corrette che ver-ranno dette, difficilmente verranno condivise. Una donna diquarant’anni, valutata sulla base dell’esperienza e del com-portamento, è sicuramente più vicina a mia nonna che a meche di anni ne ho quarantadue. Nella vicina di casa trentot-tenne riconosco una sicurezza di comportamenti che ioforse non avrò mai, nel chiamarla signora ho la piena cer-tezza di essere signorino, un ragazzo abbastanza maturo, mamolto distante dall’essere l’uomo che ciascuno di noi aspiraad essere. Dubbi ed incertezze che animano la nostra vita ditutti i giorni sembrano non essere mai esititi, se non in unlontano passato, nella nostra coetanea. Un giorno è diventa-ta donna poi madre. All’interno della famiglia ha assunto unruolo preciso, con grande responsabilità. Non ha battutociglio e si è adattata con apparente facilità al suo compito,senza paura.

Una straordinaria stabilità mentale sta certo alla base delsuo comportamento, l’adattamento progressivo a tutte lemutazioni del suo stato le ha assicurato taciti diritti. LaDonna di Casa non ha problemi di identità, la sua posizio-ne è ben collaudata, i modelli del passato le vengono quoti-dianamente in aiuto. Qualche scompenso le è consentitodurante il passaggio da madre a nonna, quando le circo-stanze la costringono per qualche anno a momenti anche di

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prolungata inattività. Ma poi la vita riprende un ritmo chele è congeniale e si ritrova mamma/mamma, un secondoruolo dove la sua esperienza la eleva al rango della saggia dicasa. Ma siamo sicuri che questa donna sia sempre statacosì, che la vita non le abbia riservato, in una delle sue fasi,dei privilegi che hanno accelerato il suo processo di cresci-ta, vantaggi che il maschio non ha mai conosciuto.

Dimentichiamoci per pochi momenti della Signora vicina dicasa sicura ed efficiente e cerchiamo di ricordarcela quandoera la ragazzina di vent’anni fa, consapevole della sua gio-ventù e delle sue grazie. Già allora questa certezza la pone-va in una condizione di vantaggio, le consentiva taciti ricat-ti sui maschi che la circondavano, giovani o meno giovaniche fossero. Per accedere a questo gioco, basato più sugliistinti di razza che sul desiderio di comunicare, bastano, aduna ragazza, alcuni rudimenti di carattere formale: una certadose di educazione, un po’ di cultura scolastica, pochi pre-cedenti, recuperabili anche da occasioni familiari, di com-portamento all’interno di un gruppo.

La situazione più facile, più sperimentata, dove metterein atto, coscientemente o meno, la propria tattica, per unadonna è la cena. L’ambiente rilassato, conviviale, predispo-ne al dialogo: argomenti seri e faceti si alternano continua-mente fino a che non ci si ferma su temi che coinvolgonotutti: è il momento dei pareri individuali, delle posizionisoggettive.

Ed è anche il momento in cui la donna di vent’anni,coscientemente o meno, comincia a godere dei privilegi digrazia e di sesso, le viene concesso di interrompere, di ripor-tarci sul frivolo, di aggirare il nocciolo o di dimostrarsiannoiata della piega seria che ha preso il discorso. A leiviene concesso molto di più di quanto permetteremmo adun suo coetaneo, che non esiteremmo a definire nella stessasituazione, un bambino immaturo.

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Nei confronti della ragazza utilizziamo invece dosi di cor-tesia sufficienti a rafforzare la coscienza di aver agito e par-lato nei migliore dei modi, le permettiamo, cercando pre-messe per altro genere di rapporti, di radicare in sé unasicurezza che forse sarebbe stato meglio che non avesse. Cisi dimentica spesso di avere al nostro tavolo un ragazzino,casualmente di sesso femminile, un bambino immaturo, alquale, in virtù di una condizione sessuale diversa, concedia-mo spesso troppo.

Questa analisi razionale della situazione non ci permette,al momento giusto, di vedere con chiarezza il problema per-chè i ricatti dell’istinto sono davvero potenti e così succedespesso di trovarci coinvolti da opinioni e da pensieri chesenza la nostra benevolenza iniziale non sarebbero mai statiproferiti.

Bastano perciò pochi giorni perchè questa giovane donnaai suoi primi passi acquisti certezza e sicurezza. E quando,vent’anni dopo ce la ritroviamo nelle vesti della vicina dicasa quarantenne, non possiamo fare altro che sentirci, alsuo confronto, dei ragazzi e non degli uomini.

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La donna nuova

Una volta c’era chi guardava la madre prima di scegliere lafiglia. Era inevitabile che gli anni, con il loro lavoro lento, macostante, lavorassero sul corpo della ragazza: un’aggiunta digrasso qua e là, un po’ di cellulite sulle cosce, centinaia dicapillari frantumati, un po’ di rughe distribuite sul volto, unaspinta verso il basso al seno ed ecco, dopo venti, trent’anni,la copia esatta della madre.

Per arrivare a tale risultato era determinante anche la col-laborazione volontaria e spesso consapevole della figlia: glistessi abiti, lo stesso incedere, gli stessi capelli, lo stessotrucco, la stessa altezza dei tacchi. La moda, meno tiranna emeno volubile, permetteva questa immobilità, giustificavaquesta inerzia nel modificarsi, nell’inventare o nell’accettarequalcosa di nuovo.

Il risultato era rassicurante, un modello immutabile per-metteva di non sbagliare, di riconoscere sempre l’attimogiusto in cui fare una cosa, di adornarsi e di muoversi senzarischi al momento opportuno. Il tempo scorreva lento, lesituazioni si ripetevano, non ci si aspettavano delle inven-zioni, delle innovazioni che mutassero l’ordine stabilitodelle cose. Il fidanzamento su basi concrete, il matrimonioal momento giusto, così la maternità, l’educazione dei figli,la gestione della casa, la maturità, il diritto al rispetto, seni-lità e senescenza confortata dall’affetto della famiglia intera.Ruoli e schemi collaudati, trasmessi tacitamente di madre infiglia, un’eredità fatta di sicurezze.

Avrebbe oggi senso decidere quale donna scegliere sulla

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base delle foto e dei comportamenti della madre? Impro -babile, direi. Una vita diversa aspetta una giovane donna deigiorni nostri: una vita più attiva e interessi molteplici ladistraggono quotidianamente dalle regole quotidiane allequali era soggetta la madre. Un’alimentazione diversa, piùattenta, le impedisce di acquisire con rapidità le formematronali, così usuali in passato. Una moda più libera, piùpratica le impedisce di accentuarle.

Ma è soprattutto una cultura diversa che la distacca defi-nitivamente dagli schemi del passato, che le permette didiventare una donna nuova, mai esistita.

Nessuna donna prima di lei aveva avuto le chiavi di casa,scollature profonde e gonne a metà coscia, anche se questinon sono che gli aspetti esteriori della sua diversa condizione.

Più profonde sono le mutazioni sul piano della consapevo-lezza dei diritti personali, della dipendenza dal poteremaschile. Il suo ruolo è nuovo, non ci sono appigli a cuiagganciarsi, e l’unica sicurezza si costruisce sull’esperienza enon sui modelli del passato, che ormai, col mutare delle con-dizioni, non servono più.

Più difficile diventa il rapporto con l’uomo, minoreimportanza assumono le istituzioni ufficiali, la maternità nonè più l’unico traguardo. Diminuiscono gli obblighi, anche sein cambio ci sono meno gratificazioni, c’è maggiore libertà elo scotto, anche se preventivato, è decisamente alto, più altoancora di quello che legava le loro madri imprigionate da fer-ree regole, donne che difficilmente espressero la loro graziae la loro femminilità al di fuori dell’ambiente familiare,donne alle quali fu permesso di essere romantiche e noncivette, donne per le quali desiderio significava colpa.

Gli anni hanno lavorato, la donna nuova si è emancipataal punto di essere lontana generazioni dalla donna suamadre: sicura, aggressiva, consapevole, accetta la propriacondizione vivendola, considerando diritti gran parte di ciòche alla madre veniva attribuito come colpa.

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E allora non sapremo mai come gli anni trasformerannoquesta donna. Di certo c’è che essa non potrà più somiglia-re, nemmeno fisicamente, a sua madre.

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La verifica dell’identità

C’è un documento – lo ritiriamo all’anagrafe – che certificala nostra identità. Dice chi siamo, come siamo, cosa faccia-mo. È stabilito che dopo cinque anni tutte queste dichiara-zioni non valgano più. Anche se i dati rimangono gli stessiesiste una scadenza periodica che ci ricorda che qualcosacambia. Tanto per cominciare cambia la nostra fisionomia,ma questo è solo un aspetto superficiale del problema, per-chè in realtà cambia davvero anche la nostra identità. Simodifica il nostro ruolo, cambia il nostro modo di vedere lecose e forse cambiano anche le cose e di conseguenza cam-biamo anche noi. Il tutto però avviene con passaggi gradua-li e di giorno in giorno non ce ne accorgiamo. Anche i valo-ri in cui crediamo si modificano con noi perdendo ora dipeso, acquistandone altre volte. Di volta in volta abbiamoun’identità definita, veniamo riconosciuti dagli altri per ciòche esprimiamo, per le condizioni che ci fanno agire, per leresponsabilità che assumiamo. Viviamo in mezzo agli altri enon possiamo, o perlomeno non dovremmo vivere una vitadiversa dalla nostra. Il nostro prossimo esiste, spesso ce lotroviamo davanti e qualche volta il nostro prossimo, quelloche abbiamo incontrato, ha bisogno di noi. È il momentodella verifica. Nel momento in cui decidiamo di dare, toglia-mo qualcosa ad altri, a noi più vicini, che sembrava avesse-ro maggiori diritti di avere e di continuare ad avere. D’altraparte girare le spalle, dimenticare di conoscere chi abbiamoconosciuto e chiudere l’animo di fronte alle necessità, ebbe-ne tutto questo toglierebbe a noi stessi molto di più di quel-

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lo che siamo disposti a dare.La verifica si compie e ci permette di stabilire se stiamo

cambiando, in che misura lo stiamo facendo chi ci sta vici-no poi capisce e si riavvicina a noi perchè una vita è lungauna vita e non mille anni e perchè il nemico è l’egoismo enon la disponibilità nei confronti del prossimo. C’è un viziodi forma in tutto questo: per ogni disponibile ci sono trop-pi disposti a chiedere l’intervento. Le necessità degli altriprendono il sopravvento, le loro debolezze vengono giusti-ficate, si sottovaluta l’egoismo. Ed ecco il Disponibile som-merso da cumuli di problemi d’altri che, per incapacità d’af-frontarli o per comodità, se ne scaricano con una facilitàesagerata. È un problema trattato altre volte. La prudenzaconsiglierebbe il disinteresse, ma esso rappresenterebbe ilprimo passo di una lenta degradazione. Al diavolo la pru-denza, il calcolo, la tranquillità: vivere senza farsi violenza,senza modificare le proprie tendenze, seguendo l’istinto diaiutare chi ha bisogno, questo è naturale, ovvio, necessario.Poi, alle solite scadenze, quando avremo nuovamente biso-gno di ricodificare la nostra identità, tra le caratteristicheparticolari segnalate dall’esterno, ce ne sarà una nuova: l’in-genuità. Ci sono alternative peggiori: l’avarizia, l’ignavia, l’e-goismo… no, no, meglio essere ingenui.

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Il trascorrere dei giorni

C’è un momento nella vita in cui l’uomo comincia a pensa-re all’età che ha raggiunto. Avviene automaticamente, per lomeno questa è l’impressione dell’interessato, succede senzache sia evidente la successione dei fattori che porta, per laprima volta, a parlare di età.

La coda di paglia, nascosta più o meno volontariamente,c’è. Si parla degli anni raggiunti come se si volesse antepor-re un alibi per comportamenti futuri non corretti o per giu-stificare errori già commessi e non identificati. Questo par-lare di sé è una condizione strettamente personale che nonsuscita l’interesse altrui, questo sbandierare la propria fragi-lità reclama delle coccole, delle grosse dosi d’affetto. Ma chicapisce non può esaudire la richiesta, altrimenti il giocodiventa palese e la situazione patetica. L’aiuto va dato inogni caso, può essere tacito, ma l’appello va compreso ed ènecessario trasmettere di aver capito la situazione.

Proclamare l’età non è la stesura del bilancio degli anni pas-sati, di solito è una totale accettazione degli anni trascorsi, è unsigillo che si pone sopra ciò che di male e di bene c’è stato.Accettare un’età, pur manifestandola, è pensare al presentecon una visione critica della propria situazione, con una mag-giore attenzione ai passi che, in una direzione o nell’altra,vanno compiuti. Vuol dire esaminare possibilità, varianti, evi-tare, sempre che sia possibile, mosse dettate dall’impulso. È lalogica che comincia a prevalere. È il passaggio ad una nuovafase della vita. L’età della ragione comincia proprio quandooltre a parlare di ragione si parla anche di età. Il tempo assu-

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me una dimensione diversa, c’è una maggior coscienza del tra-scorrere dei giorni e degli anni, c’è meno margine di errore eil recupero deve necessariamente avvenire in tempi brevi. Unpo’ come quando all’università, si trascorreva il tempo senzauna meta precisa, con la laurea ancora distante e, senza saper-lo, ogni giorno più lontana. Gli anni passavano e si imparavasoprattutto a vivere senza alcun problema di identità, ancheperché tutti noi ne avevamo una precisa, eravamo degli stu-denti. Una qualifica che ci permetteva un certo numero di pic-cole follie senza che nessuno ci trovasse nulla di male. Nel frat-tempo ci si avvicinava ai trent’anni, un vero e proprio giro diboa, dopo il quale lo studente, rimanendo tale, diventava unlazzarone. Durante questa trasformazione c’era una perdita ditutti i privilegi conseguiti in passato. Le giustificazioni nonvenivano più accettate, e tutte le porte aperte dalla vecchiacondizione, piano piano si richiudevano.

A meno che con l’età non giungesse un contemporaneoinserimento sociale che rimetteva in gara l’ex studente. Eradunque necessario anche in quella fase un recupero, di esaminon dati, di rapporti trascurati, di tempi destinati all’ozio.Erano anni in cui anche alla fase di recupero si guardava conuna certa tolleranza, l’importante era che fosse iniziata, tantoil tempo avrebbe poi messo a posto tutto.

Ma dieci, venti, trent’anni dopo questa boa dei trenta c’èaltrettanto tempo per risistemare situazioni lasciate insospeso, per rivivere momenti importanti, per iniziare rap-porti mai presi in esame.

Tempo ce ne sarà sempre di meno. Sarà necessario di con-seguenza agire e pensare molto più rapidamente e altrettan-to veloce dovrà essere la decisione.

Ma tutto questo contrasta con la necessità, sopra eviden-ziata, di evitare mosse d’impulso, di dover meditare, esami-nare varianti, possibilità, prima di decidere per non com-mettere errori.

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E allora ciascuno porterà avanti se stesso, con il propriomodo di agire, sapendo che nell’un caso o nell’altro potràcommettere degli errori. E così, ancor prima di muoversi, diagire o di pensare, ciascuno di noi metterà in piazza ildiscorso dell’età, anteponendo degli alibi per comporta-menti futuri non corretti o per giustificare errori già com-messi e non identificati.

Il trascorrere dei giorni

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I geni dispersi

Odio la necessità di attribuirsi un colore politico per giusti-ficare le proprie idee, come se esse avessero sempre bisognodi patrocinio. Amare la libertà, amare il prossimo è umano,è quanto di più normale possa esserci. E se le stesse cose leha già dette qualcuno o qualche partito se ne fa vessillo, nonc’è niente di male ad arrivare alle stesse conclusioni, soprat-tutto quando ci si arriva da soli.

È una forma di viltà non prendere coscienza del propriopotenziale creativo, mantenere rapporti di dipendenza psi-cologica e culturale da posizioni consolidate, parlare di cosegià dette affidandone la responsabilità ad altri solo perchéquesti altri sono arrivati prima alle stesse conclusioni.

Non mi piace la gente che non ha il coraggio di rischiare,di inventare soluzioni nuove, che accetta le vecchie – anche sericche di svantaggi – solo perché sufficientemente comode.

Il cervello a costoro non serve, non serve quando c’è dafar quadrare un precario bilancio familiare, quando la ves-sazione si fa esagerata, quando gli scherni di vita obbliganoa sacrifici per premi inesistenti, quando vivere di formadiventa l’unico contenuto della loro vita, quando l’amoreper il prossimo o per la libertà non è più un sentimentospontaneo ma la regola imposta e quando ci si fregia di osse-quienza alle regole.

E l’uomo dov’è finito? Quel motore straordinario chemaneggia la storia a suo piacimento, che lascia un’improntaincancellabile, che dona alla scienza e all’arte capolavoriinestimabili? Quest’uomo pare sia destinato a svanire, i suoi

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geni si sono dispersi, la massa ha preso il suo posto con pre-potenza, con avidità, con impazienza. Criticare il processodi questa rapida evoluzione è ormai peccato storico, rifiuta-re una tale società perché impreparata è atto da reazionari.Solo perché parliamo di noi, perché l’argomento e la gentesono di casa nostra. Tutti però parlando del Congo – adistanza di buoni vent’anni dalla rivoluzione – lo giudicanouna nazione nuova, ancora bisognosa di lezioni, di umiltà,di apprendimento.

C’è bisogno di tempo, si dice. Devono crearsi il loromondo, salendo ogni giorno un gradino verso la civiltà.Loro, perché sono africani, perché sotto quella pelle scura equei linguaggi sibilanti non si sa che cosa si nasconde. Noino. Noi, la nazione eletta, decorata da duemila anni di sto-ria, possiamo fare a meno di tutte le fatiche necessarie percrescere, per evolverci, per diventare maturi. Vogliamo esse-re diversi dagli altri, vogliamo dimenticare come eravamocinquanta anni fa, altrimenti non potremmo assolutamenteessere quello che crediamo di essere diventati, perfetti.

Da una parte i padroni, in gruppo anche loro, privi delcoraggio di dimostrarsi individui nelle loro scelte e nelleloro decisioni, protetti solo dal loro denaro, finché ne avran-no o finché glielo lasceranno. Dall’altra parte la massa,pronta a farsi manipolare individualmente, continuamenteinfiacchita dalle continue vessazioni, usurata nella suapotenzialità da schemi anch’essi logori, ma contemporanea-mente collettivamente superprotetta, piena di diritti dicasta, utilizzata in politica come Italia Nostra utilizza i rude-ri o il WWF gli animali in via di estinzione.

L’individuo non agisce più, non reagisce nemmeno, sembraormai la vettura di testa della metropolitana che non puòscegliere il percorso. Una tristezza immensa.

Eppure c’è tanto da fare per l’individuo che ha capito lasituazione, che vuole ancora scegliere il percorso che più gli

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aggrada. Quest’individuo va stimolato, va incoraggiato perpoter lottare nel suo microcosmo, perché diventi un esem-pio per gli altri che lo possono seguire.

Quest’uomo non deve perdere la coscienza del propriostato, della propria unicità, deve portarla avanti, pur adeguan-dosi al mondo che lo circonda, se vuole continuare ad averesperanze per sé e per i propri figli. Lottare per un mondomigliore va fatto prima singolarmente e poi, con la collabora-zione e la solidarietà degli altri, anche collettivamente.

Questo desiderio di recupero del privato, questo tentati-vo di rientrare in possesso di un diritto pieno, è tendenza dimolti, la molla si sta caricando in attesa dell’ora giusta. Mase quest’ora coinciderà col momento del collasso delle isti-tuzioni, allora non sarà più una libera scelta…

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Il colore della libertà

È difficilissimo parlare di libertà. Succede sempre cheprima o poi si prevaricano gli altri, che le discussioni diven-tano aggressioni e, se l’interlocutore se ne sta, si passa subi-to alla rissa. Quando si analizza un concetto astratto, è ine-vitabile che le prese di posizione siano del tutto soggettiveanche perché manca qualsiasi punto di riferimento conve-nuto che possa avviare un discorso meno parziale. Le frasisi trasformano con facilità in dogmi e di fronte ad un dogmanon c’è difesa, si è spinti nell’angolo si è costretti a reagire.

E proprio di dogmi si tratta e il discorso è un atto di fedee come al solito, per affermare la propria, si è disposti amandare al rogo chiunque sia contrario, o a rompergli ilmuso nel caso sia necessario.

C’è sempre chi aggredisce per primo e c’è di conseguen-za chi viene aggredito: costui di solito è paziente, tranquil-lo, educato, pronto a concedere spazio e opinioni all’inter-locutore, l’altro di solito parla di libertà, ma è il primo chene porta avanti il vessillo.

Ma c’è un limite a tutto e prima o poi, dopo la centesimaprovocazione di colore culturale, di colore ideologico e dicolore politico, l’aggredito reagisce e proclama il bianco comere dei colori, il più bello. E come previsto scoppia la rissa.

È inevitabile perché essere pazienti, tranquilli, educati econcilianti non vuol dire essere deboli e sopportare soprusie prevaricazioni. Ci sono ideologie che per tradizione non sidichiarano, non ne hanno bisogno, non c’è rivendicazionein esse, ci sono certezze verificate, che non hanno necessità

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di essere proclamate, esistono e basta. La controparte èrivoluzionaria, non si accontenta di una situazione, spessocostruita sul compromesso, che permetta soluzioni costanti,che cerchi di mantenere un certo equilibrio, che faccia sìche ci possiamo muovere come se non stesse succedendoniente, niente di nuovo, niente di grave. Tinte pastello nondevono esserci, la nuova tavolozza vuole solo tinte fosche.

C’è gente, e tanta, che non per interesse ma per istintoama e vuole continuare ad amare gli altri come li ha amatiin passato, secondo gli schemi della tradizione, in un mondoche, checché se ne dica, continua a funzionare. Parliamo digente che agisce, che parla, che comunica; gente che cono-sce il mondo e ne ha fatto una scelta di partecipazione e nondi alterazione, di mutazione, gente che conosce il sacrificio,che lotta contro il dolore vicino e non per cause lontane.Gente che dai propri modelli ha assorbito il bene e rifiuta-to il male per portare avanti un discorso dove tradizione einnovazione coesistono con facilità.

Dall’altra parte c’è gente, e tanta, che lavora, lotta, agisce,si muove, per frantumare tutti i legami col passato, per crea-re una società diversa, nuova, senza ricordi positivi. Genteche ha subito pressioni, angherie, vessazioni, che è passataattraverso ogni tristezza, ogni frustrazione. E allora questagente che non può appigliarsi al passato per decidere la stra-da giusta da seguire, compone teorie, cerca di creare unacultura nuova della rivincita, della reazione di gruppodimenticandosi che il proprio gruppo è troppo ampio per-ché generalizzare sia semplice, sia corretto e soprattutto siagiusto. Generalizzare vuol dire di nuovo teoria perché inpratica, le persone, se vogliono comunicare, devono assem-blarsi in piccoli gruppi omogenei, dove un gesto o una paro-la abbiano lo stesso significato per tutti. Occhio per occhio,come riscatto della propria condizione, diventa violenza,presupposto errato se la meta da raggiungere è la pace.

Appare di conseguenza impossibile una composizione di

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una vertenza vecchia quanto il mondo, e l’unica possibile viad’uscita per cercare la libertà è la sopraffazione dell’altro.

È la tipica situazione di stallo, un vicolo cieco che impo-ne delle pause di riflessione, che ci permetterà di capire, conl’andare del tempo, se vale la pena di lottare per chi ha biso-gno di noi, a due passi da noi, o per chi ha bisogno di noi –o di altri – a migliaia di chilometri da noi.

Aprire gli occhi – e possibilmente anche il cervello – percapire che cosa è giusto, o per lo meno, per decidere l’ordi-ne di priorità con cui affrontare i problemi che ci circonda-no, potrebbe essere la soluzione.

C’è bisogno di tempo per riuscirci e non è una giustifica-zione sufficiente la convinzione di non averne a sufficienza.

Senza il tempo si continuerà da una parte a cercare didemolire fedi preconcette e dall’altra a continuare a creder-ci ciecamente con l’unico risultato di affermare la libertàcon la sopraffazione degli altri.

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Il costo della sicurezza

La sicurezza. Un tema che non abbiamo ancora affrontato.Una meta ambita da troppi, da tanti che cercano di sfuggi-re alla costante situazione di incertezza in cui tutti ci muo-viamo. La precarietà è l’unica costante dei nostri tempi,emana un profumo che dà stimoli ad alcuni mentre atterri-sce gli altri, crea un senso quotidiano di avventura che per-mette ai primi di agire e che rende immobili gli altri.

L’elevato coefficiente di rischio che ci riserva il futuro,trasforma la vita in un gioco, dove l’azzardo è compensatodal premio, dove la sconfitta permette di inventare nuovischemi di difesa. È una prova continua riservata a pochi, aquei pochi che non investono il loro tempo e i loro sforzinella ricerca della sicurezza.

Costoro sono immortali, sanno per certo che il premio vaconquistato tutti i giorni, un giorno dopo l’altro; sanno cheè il premio che conta, non i mezzi necessari per raggiunger-lo. Sanno che dopo ogni premio ci sarà un altro giorno perun nuovo premio, e poi un altro giorno e così via. Sanno cheogni diritto va pagato con un dovere, e allora scoprono tuttii doveri del mondo ed assolvono ad essi con estrema costan-za. E prendono coscienza di nuovi diritti, ma non ne abusa-no, perché non si divertirebbero affatto in una vita doveeccessi di vantaggi annullerebbero tutte le componenti ludi-che. Il gioco, per continuare, deve avere tutti i contendentisullo stesso piano, altrimenti un risultato costantementeprevisto ne annullerebbe il piacere.

C’è un altro modo per affrontare la vita, temerla, aggirar-

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ne le difficoltà, trovarsi sempre in una posizione di neutra-lità, con la protezione di regole ferree di non partecipazio-ne che ci tengano distaccati ma protetti. La protezione forseè ciò che si va cercando. Una posizione dove il vantaggiodella sicurezza viene quotidianamente pagato con la perditadi ogni diritto, con atti quotidiani di sottomissione.

Ma l’animo umano non conosce correttezza alcuna inquesto campo: si accetta un contratto perché è comodo, poilo si rinnega quando c’è da rispettarne le clausole. Si è pron-ti a rimangiarci ogni parola, si critica e si maledice tutto etutti se il vantaggio che abbiamo accettato non è massimo eci si dimentica di rispettare i patti.

La sicurezza costa, ma ci se ne accorge soltanto al momen-to di saldare i conti quando torna a galla il contratto di schia-vitù che si è accettato.

Ed ecco dunque che si opta per il rischio e il rischio gene-ra precarietà, imprevisti, incertezza, tutti fattori che ciobbligano ad inventare una vita nuova, un giorno dopo l’al-tro, una vita dove la ricerca della sicurezza viene sostituitadalla ricerca della felicità.

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Le vittime della cultura

Ci sono molte malattie ad affliggere l’uomo e non tutte neminano il corpo. Negli ultimi anni l’essere colti a tutti i costiha fatto vittime in maniera esagerata, c’è stata un’accelera-zione all’apprendimento che ha danneggiato in manierairrecuperabile la possibilità di comunicare e di tessere nuovirapporti. Un falso obiettivo, la conoscenza, ha mimetizzatoquello vero, la qualificazione attraverso la dimostrazionepubblica di accumulo di conoscenze. Una esposizione con-tinua di dati e di concetti, l’uso prolungato di parole dotte,costanti riferimenti a grossi nomi dell’avanguardia cultura-le, imprevisti paralleli e confronti tra filosofie di diversa ori-gine, il tutto inevitabilmente e platealmente finalizzato. Inqueste occasioni il rischio di contagio è inesistente e se c’èun rischio è quello del rigetto.

Per alcuni la scalata al sapere è cominciata una decina d’an-ni fa, all’epoca dei primi spinelli quando c’era chi si drogavae sapeva di drogarsi e c’era chi si drogava e per giustificarsi siatteggiava a studioso di filosofie orientali. Uno sforzo com-prensibile anche se come risultato immediato c’è stata allorasolo una grossa confusione. Per altri l’inizio risale addiritturaa una ventina d’anni fa, quando bastava girare con l’Espres -sino sotto il braccio per sentirsi dei rivoluzionari. Per altriancora l’iniziazione è avvenuta con Marcuse e per gli ultimi èbastata La Repubblica, molto spesso utilizzata a mo’ di coc-carda, di simbolo della propria condizione culturale.

Leggere tutto è la parola d’ordine di questo genere dimalati: leggere tutto vuol dire tutto, nel senso che se acqui-

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sti un settimanale di opinione puoi tuttalpiù tralasciare lerubriche fisse. Devi sbrigarti, perché il rischio è che dopopochi giorni esca in edicola il numero successivo e tu nonabbia ancora finito di leggere il precedente. Tra i generi let-terari è il saggio a fare la parte del leone perché il romanzoè una cosa da donnicciole e la fantascienza un fenomeno dimoda per borghesi in cerca di evasione. Questi mostri dicultura sono terribili: non appena cominciano a parlare nonli fermi più perché vogliono dirti tutto quello che hannoimparato e te lo vogliono dire, senza fornirti i codici di tra-duzione, con il linguaggio degli autori, molto spesso diffici-le e troppo specialistico. Per seguire questi monologhi civogliono grosse dosi di cortesia e di disponibilità. Talvolta citroveremmo in grossa difficoltà se ci venisse chiesto unparere sull’argomento trattato ma per fortuna questo nonsuccede mai, tanta è la foga di dimostrare i traguardi rag-giunti. La comunicazione di massa, per avere credibilità,deve avere l’etichetta di impegno culturale e solo allora puòvenire consumata.

Per tutti questi Nuovi Dottori il consumo è il padre deivizi, è un peccato mortale da evitare a qualsiasi costo a menoche il fine non giustifichi i mezzi: il desiderio di conoscenza,si sa, merita lodi ed approvazione.

Le testate specializzate si moltiplicano – le edicole nesono piene – c’è gente che ne acquista tre, quattro, cinqueal mese per riferire poi, in pubblico, dati ed opinioni adogni spron battuto. Mai una volta che ci sia un momento dipausa, che il discorso scivoli sulle sciocchezze, sulle ame-nità, sul disimpegno. Mai. Sarebbe poco serio. E così, pianopiano, i Nuovi Dottori hanno perso il sorriso.

E pensare che ci sarebbe un altro modo di fare cultura,portando avanti gli insegnamenti e l’educazione che abbia-mo ricevuto da piccoli, con schemi forse sorpassati ma pienidi saggezza. Per il Nuovo Dottore però questa sarebbe la viadell’involuzione, un ritorno alla condizione non dottorale

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dalla quale si è liberato con grossa fatica e con lungo studio.La casa del Nuovo Dottore ha un locale in più, la bibliote-ca, un concreto simbolo del livello di conoscenze raggiunto,un attestato di laurea, del suo tipo di laurea. Questa monta-gna di sapere, se ben utilizzata, gli permette molto spesso dimimetizzarsi tra i dottori autentici, quelli che le cose lesanno davvero e se le tengono care, non le sbandierano adogni pie’ sospinto. Invece l’ambizione e il desiderio di vede-re riconosciuto il nuovo stato mascherano spesso il NuovoDotto: una desinenza sbagliata, un accento fuori posto, unaparola inesatta lo tradiscono malamente, senza che egli se neaccorga. Da parte dei suoi interlocutori inizia la fase dirigetto, lentamente ma inesorabilmente inizia un processodi emarginazione.

È una condanna dura e irrevocabile, che rimette le cose alloro posto. Possiamo così tornare a parlare con i nostriamici di cose serie e di cose frivole senza che il fantasmadella cultura sia costantemente in mezzo a noi, che ci limitinella nostra spontaneità. Questa nuova situazione ci ridonail sorriso, una medicina sicura per il nostro spirito.

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L’arte e i suoi escrementi

Vent’anni fa si discuteva parecchio d’Arte. Ci si mettevad’accordo, prima o poi, che due erano le fasi da analizzare:quella del durante e quella del dopo.

L’Arte (e non si parlava di artigianato sublime) esistevanella fase di elaborazione, negli stimoli e nelle varianti diesecuzione. Dopo, alla fine, c’era solo il prodotto dell’Arte,il quadro, la scultura, la poesia. Esattamente come succedeal grande cuoco che affida al forno la sua creazione: alla finene esce una pietanza che conserva solo le tracce dell’abilitàche l’ha prodotta, ma che non è essa stessa l’abilità.

Il quadro non è il cibo che si gusta ma solo l’escrementodi un lungo processo digestivo e, se il paragone può conti-nuare senza offese per alcuno, chi si aggira per le mostre conocchio attento altro non è se non un coprofilo. Se di escre-menti non si trattasse, non si capirebbe la facilità con cui unautore si libera, anche se dietro compensi, talvolta elevati,dei suoi prodotti. L’autore ne riconosce la vera essenza, sa diavere contribuito alla loro esecuzione, ma sa anche che tuttele sensazioni e le emozioni del momento della creazionesono sue e a lui rimangono. Sono fette di esperienza che loaiutano nella realizzazione dei suoi prodotti successivi.Sono elementi personali che a lui rimangono, che non ven-gono ceduti all’atto della vendita.

Che senso ha discutere il valore di un artista se si esami-nano solo i suoi prodotti? Che senso può avere trasformareprocessi di natura quasi esclusivamente commerciale indiscorsi impegnati, intrisi di politica, luoghi comuni senza

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probabilità di affermazione duratura?Si parla spesso che l’arte sia destinata ai ricchi. I quadri

forse sì, le sculture anche, la letteratura un po’ meno.Esattamente come i mobili belli, le auto di grossa cilindrata, lecase nei quartieri eleganti, tutte cose che con il denaro si pos-sono acquistare. L’Arte è nella testa degli artisti, nel lorocuore, nella loro anima. Non è cedibile, non è acquistabile.Solo delle sensazioni di seconda mano, delle emozioni media-te dalla tecnica vengono trasmesse. E chi le riceve le fa pro-prie, le confronta con altre già codificate, le analizza sulla basedi esperienze passate e con estrema presunzione crede di avercapito tutto, di poter possedere lo spirito dell’autore.

Una vita è lunga ed è difficile anche per l’artista viverecontinuamente momenti magici. L’Arte che è in lui, che lofa muovere, lottare, lavorare, ogni tanto se ne va in vacanza.L’artista, ridivenuto comune mortale, dovrebbe perdere lasua qualifica per riconquistarla successivamente al primomomento di grazia. E invece no, difficilmente rinuncia aplagiare se stesso, a riprodurre schemi ed opere dei suoiperiodi felici. Il pubblico, che lo conosce solo attraverso lasua produzione, continua ad accettarlo e ad acclamarlo.

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L’arte dello spettacolo

Una ventina d’anni fa andava di moda andar per mostre.C’era nell’aria la certezza che qualcosa di grosso stava succe-dendo anche se non si capiva bene cosa fosse. I canoni tra-dizionali venivano calpestati, tecniche collaudate per secolivenivano abbandonate a favore di altre il più delle volte det-tate dalla necessità di far presto, di accelerare il risultato.Uno tagliava le tele, un altro impacchettava i monumenti, unaltro ancora si limitava a guardare il poliuretano espandersiin forme imprevedibili, estranee alla cultura precedente. InAmerica altri proseguivano per strade diverse, anche se percerti versi altrettanto dissacranti: i fumetti giganti, le scatoledi zuppa, le bandiere, i manichini, tutti i prodotti della PopArt nascevano con l’intenzione di rompere con il passato. Edappertutto libri e mostre spiegavano i perché, dicevano chiera più bravo, mostravano i prodotti più richiesti ad un pub-blico del tutto impreparato ad opporsi o ad applaudire,disposto solo a cercare di capire. Certo che il tumulto e laconfusione non si erano generati da soli, la situazione eramatura perché qualcosa accadesse. L’unico guaio fu che queipochi che avevano le idee chiare su cosa stava succedendoall’arte e quale strada essa stava per imboccare, anziché scri-vere dei libri o fare delle conferenze illuminanti sull’argo-mento si misero, tutti, a fare quadri o sculture. Il disastro fuinevitabile. Fu infatti facilissimo per migliaia di scoppiatimettersi a fare gli artisti, tutti alla ricerca di qualcosa che sba-lordisse ma che contemporaneamente fosse di facile realiz-zazione. Se ne videro di tutti i colori, il caos più indicibile. Il

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pubblico, ancora impreparato, rimase a guardare, nella spe-ranza, prima o poi, di capirci qualcosa.

È passato molto tempo da allora e col tempo molte modesi sono trasformate, il culto della musica, la passione per lefilosofie orientali, la curiosità per nuove religioni.

Adesso c’è Epoca dello Spettacolo. Si è innescato un mec-canismo che ci ricorda quello che vent’anni fa sconvolse ilmondo delle arti visive. Gli schemi sono gli stessi. Qualcunoha inventato qualcosa di nuovo ed in migliaia l’hanno segui-to. Far spettacolo è una qualificazione, permette di salireverso l’Arte Totale, significa coinvolgere il pubblico, otte-nerne l’applauso, il segno palese dell’approvazione che lau-rea il teatrante. Il guitto, per proporsi come attore e pernascondere la propria condizione reale, deve seguire canoninuovi, deve inventare, deve sbalordire affinché il pubbliconon capisca, si trovi a disagio. L’unica strada che il NuovoAttore può percorrere senza mettere piede in fallo è quelladella novità, anche se nemmeno lui, il più delle volte, ha leidee chiare. E il pubblico? Il pubblico subisce naturalmen-te. D’altra parte è inevitabile che ciò succeda: tra attori eplatea c’è un abisso, i ruoli sono distinti, uno recita e l’altropaga e se pagando non capisce, nello stesso momento fa attodi sottomissione, senza divertirsi e senza protestare troppo,anche se qualche piccolo sospetto lentamente prende formae nascono i primi dubbi sulla qualità dello spettacolo d’artenuova. Spesso si tratta di artigianato, talvolta di buon arti-gianato, preso a prestito da forme di spettacolo popolari. Inquesti casi andrebbe riconosciuto come tale, dovrebbe esse-re valutato su basi corrette, riconoscendo le matrici di ciòche si osserva. Gli applausi potrebbero anche esserci, alpunto giusto, per le cose giuste, purché ci sia anche la criti-ca, non solo come diritto ma anche come dovere.

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Il diritto alla critica

Te ne vai una sera a teatro, hai il tuo posto, il tuo numero èsegnato sul biglietto: una specie di lotteria. Già, perché chihai davanti può essere alto o basso, immobile o preso dalballo di san Vito, attento o rumoroso. Ebbene, ci sono gior-ni in cui sei sfortunato e ti trovi a dover contrastare, antici-pare, seguire tutta una serie di movimenti che sembranofatti apposta per provocarti. Ti rassegni e fai tutto il possi-bile per seguire il balletto che eri andato a vedere, anche sele condizioni in cui sei non sono le migliori. Ci provi, ognitanto ci riesci, ogni tanto ti distrai, dai la colpa al signoredavanti, ai responsabili della disposizione dei posti che nonhanno provveduto, di fila in fila, ad alternarli. Poi, improv-visamente, ti dimentichi di tutte le seccature, del treno chepassa dietro il palco assorbendo interamente la musica,degli aerei che con le loro lucine verdi e rosse, ammiccanodal cielo ormai scuro, e ti concentri sullo spettacolo.

È solo allora che ti accorgi che, pur con musica diProkovief, col corpo di ballo del Bolchoï, con un grandedirettore d’orchestra, ti stai annoiando mortalmente. C’èsicuramente qualcosa che non va. Qualche balletto l’haivisto, musica ne senti sin da ragazzino, una discreta prepa-razione estetica la possiedi, malgrado tutto questo la noia tipervade. Il racconto, Romeo e Giulietta, è ovviamente com-prensibile, ma il tempo tarda a trascorrere. L’anima manca.La bravura del singolo è limitata dai fili che lo muovono, ilburattinaio ha impostato male la sua coreografia. E, alla finedel primo atto, lo dici anche a quello che ti sta davanti. Ti

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guarda stupito ed è convinto che tu esprima il tuo malumo-re perché lui è alto e si è mosso troppo. Gli si dà ragioneperché ha ragione, anche se non ce l’ha del tutto perchépoteva starsene tranquillo, ma poi si ribadisce lo stessoparere. In ogni caso non ti crede perché lì di fronte c’è ilBolchoï che ha maggiore credibilità delle tue parole. Maquand’è che uno diventa credibile? Quando sa tutto e cono-sce tutto e disquisisce di sfumature tecniche e del sesso degliangeli o quando uno con un discreto bagaglio di esperienzaesprime le proprie perplessità.

Per chi nasce lo spettacolo?Per una ristretta minoranza di specialisti che cercano il

pelo nell’uovo analizzando tutto lo spettacolo al microsco-pio cercando il sublime nell’attimo intermedio di unapiroetta o di un salto? Siamo d’accordo che la perfezione inuno spettacolo estremamente dinamico, non può duraredelle ore e che solo i passaggi più difficili possono darci lamisura delle capacità degli interpreti, ma ricordiamoci delpubblico. Il suo scopo è divertirsi, passare il tempo piace-volmente; la scelta che ha fatto non può coinvolgerlo ineccessive fatiche di critica o di confronto.

A meno che non lo si annoi. Ecco che in tal caso il giudi-zio è automatico, la critica dura, decisa, come sentito e gene-roso sarebbe stato l’applauso, se esso fosse stato meritato.

Il critico non ama troppo l’emozione istantanea, tra glistrumenti del suo lavoro c’è il tempo, non tanto, ma quantobasta, per meditare, per soppesare, per valutare con mag-giore obiettività tutto lo spettacolo. Uno scivolone può esse-re citato, ma lo scivolone può diventare un dettaglio trascu-rabile in una serata magnifica.

Ma allora chi può criticare? Il critico, giudice distaccato ecompetente, o il pubblico, emotivo ed istintivo? Il Bolchoïin ogni caso ha maggiore credibilità delle parole di unospettatore comune.

Per poter parlare, criticare, occorre quindi rendersi credi-

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bili. È una strada lunga che passa attraverso le vie più strane.Ugo Tognazzi per esempio è credibile. Gli chiedono pare-

ri sulle partite di calcio, sulla cucina, sulle donne, su unnuovo governo e lui, che ha l’occasione, per altri impossibi-le, di esprimere pareri e giudizi ad un largo pubblico, parlae viene ascoltato. Ha raggiunto il successo, non importa sein un campo totalmente diverso da quello sul quale è inter-rogato, e di conseguenza può parlare, una specie di licenzache viene concessa all’unanimità dall’opinione pubblica.

Utilizzando la logica, un’opinione di Tognazzi mi interes-sa: uomo intelligente, artista di notevole livello, pieno diinteressi, ha vissuto una vita intensa, ha maturato esperien-ze notevoli. Direi che Tognazzi può parlare e dovendo sce-gliere ascolterei più volentieri lui di un mucchio di altre per-sone più dotte o più preparate.

Il problema a questo punto si modifica: ciascuno è credi-bile. Sta a lui costruirsi questa credibilità. È ovvio che la suafascia d’ascolto sarà più o meno ampia a seconda della suanotorietà, dell’importanza e della serietà – precisione – dellecose che starà dicendo, dell’omogeneità culturale tra lui e ilsuo pubblico. Il problema sopraggiunge quando numerica-mente e qualitativamente la fascia d’ascolto è limitata, quan-do l’argomento trattato meriterebbe più spazio e più atten-zione. Ma un pubblico maggiore o migliore come lo sitrova? E dove lo si trova se non si è Tognazzi?

Il diritto alla critica

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I valori di un saggio

In un piccolo paese della Sardegna un uomo un giorno ebbein prestito un cavallo per andare ad una festa. Al ritornomancava un ferro e lo zoccolo era rovinato e il padrone delcavallo volle del denaro per ripagarsi del danno. L’altro nonvolle soddisfare tale richiesta, dicendo di non avere colpaalcuna e di avere trattato la bestia con cura, come se fossestata sua. Per superare questa situazione di stallo fu neces-sario ricorrere al saggio del paese che, dopo avere analizza-to la situazione, stabilì che il proprietario, conosciuto datutti per la sua trascuratezza, non aveva alcun diritto di pre-tendere un risarcimento poiché lui stesso da molto temponon si era preoccupato di verificare lo stato dei ferri. Stabilìinsomma chi dei due aveva torto e la sua parola venne accet-tata al pari della sentenza di un giudice.

Solo in una piccola comunità può avvenire una delega diresponsabilità e di fiducia così totale, talmente ampia da evi-tare di stabilire delle regole. I valori di un singolo le sosti-tuiscono, divengono il metro con cui le cose del villaggiovengono misurate. Una situazione arcaica, dove il saggio èsaggio perché è saggio e dove i pareri di un saggio sonolegge, una legge che viene rispettata perché emessa costan-temente per il bene della collettività.

Nella situazione attuale mancano figure che ricopranoquesti ruoli, la gente è troppa e le condizioni di vita troppocomplicate perché si riesca a capire cosa è bene per la col-lettività e cosa non lo è.

Il sistema non prevede sensibilità per i singoli e per le loro

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questioni e allora bisogna uscire dal vicolo cieco in cuisiamo andati a cacciarci.

La cultura attuale ci dà uno specchio della situazione,fotografa impietosamente la nostra condizione ma non ci dàsoluzioni, preoccupata com’è di vedere come andrà a finire.Abituati come siamo ad analizzare le tendenze e a giudicar-le irreversibili non andiamo neppure per un attimo a verifi-care se ciò sia vero anche nella nostra situazione e se non siaper caso possibile modificarle.

Il volano gira veloce e ci vuole davvero una gran forza acontrastarlo, diventa già difficile pensare di riuscirci.

Una enorme dose di impotenza ci blocca qualsiasi inizia-tiva, i valori, che in parecchi esistono, non vengono espres-si e di conseguenza chi li possiede non ha credito, non puòtrasformarli in regole.

Eppure ci sarebbe un gran bisogno di saggi del paese,uomini giusti, forti, responsabili, che si muovano con corag-gio, consapevoli del rischio di sbagliare ma anche certi dinon potersi tirare indietro perché di loro hanno bisognotutti gli altri.

Per merito loro il mondo continua a funzionare. Essiconoscono il dovere, si accollano responsabilità, con le lorofatiche tengono in piedi il sistema, con la coscienza precisadi non avere alternative.

E mentre questa gente porta avanti questo discorso, c’èaltra gente che fa altri discorsi, senza nessuna indulgenzaper il prossimo, reclamando per sè tutti i diritti, rifiutandoqualsiasi dovere. Le colpe sono degli altri, gli ospedali nonfunzionano, la scuola è inefficiente, il sistema è logoro.

Ovviamente tra le due parti non c’è dialogo (gli ultiminon sono disponibili, i primi non ne hanno nemmeno iltempo) e se anche dialogo ci fosse, la mancanza di linguag-gio comune impedirebbe loro di comunicare.

Ed ecco una situazione nuova anch’essa originata dall’es-sere in troppi: i saggi ci sono ma nessuno li conosce e allora

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si dubita della loro saggezza e non si crede nei loro valori.A questo punto ci vogliono le regole, però non ci si può

più lamentare del fatto che ci siano, che attraverso di loro ilsistema dimostri solamente insensibilità.

Per sostituirle ci vorrebbero i valori di un saggio, di chipossa essere nello stesso tempo sensibile ed imparziale, chegiudichi continuando ad essere uomo, per meglio potervalutare le azioni degli altri uomini.

I valori di un saggio

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La conquista della libertà

Il passato. Non c’era la sicurezza sociale che ti portava via unafetta di stipendio. Ma è poi tanto importante questa sicurez-za sociale, questo intervento esterno di una volontà feroceche decide che sei incapace di provvedere a te stesso, che tisequestra una parte del tuo per rendertelo a tempo debito,che non ti lascia mezzi per rifiutare queste imposizioni. Unavera e propria amputazione della libertà individuale compen-sata con premi che alcuni non vanno cercando. Chiunqueviva, o meglio sopravviva, non si pone problemi perché c’èchi pensa al suo futuro, ai problemi che incontrerà.

Questa certezza è costante.Non per l’individuo naturalmente. Il singolo continuerà ad

accettare tutto, si sente in credito, non è mai soddisfatto, indi-pendentemente da quanto ha dato – per prendere dovrebbeessere necessario fare, e subire, un esame di coscienza –, pro-testa sempre perché vorrebbe, e gli verrebbe, di più.

Bisognerebbe dargli uno scossone, fare vacillare i pilastrisu cui ha basato la sua vita, dirgli di non contare più sullegaranzie, sugli aiuti, sulle certezze, dirgli che non ci sarà piùpensione, assistenza, inoculargli il dubbio che questa societàsi estingua prima di lui. Superata l’incredulità, verrà assali-to dal panico. Se ce la farà a venirne fuori sarà quello il suomomento migliore. Si ricorderà di avere delle capacità,ritornerà attivo, lotterà con tutte le sue forze per riacquista-re sicurezza.

La libertà va conquistata e qualsiasi fatica in questo sensoè pienamente giustificata. Un uomo non deve vendere la

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propria vita in cambio di un mucchietto di vantaggi, chi siadagia non è più un uomo oppure, se lo è, è anche giustoche paghi con altra moneta la sua scelta. Un uomo così nonpuò più protestare, si è preso dei compensi in anticipo, hafirmato un contratto e lo deve rispettare, se la sua condizio-ne non gli piace può sempre rifiutarla, non è vero che nonabbia scelta. Il rifiuto della propria condizione, dei proprivantaggi è duro, lui lo sa, le prospettive sono altrettantodure, basate come sono sulle rinunce e sul sacrificio. Ladecisione deve essere rapida, ma poi c’è il premio. Niente diimportante, solo la libertà.

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Nessuno fumi al cinema

Chi lavora deve pagare le tasse, cioè chi lavora guadagna edi conseguenza deve pagare le tasse. Poi c’è altra gente chenon lavora ma guadagna e di conseguenza paga le tasse.Spero che ciò avvenga e torno ad occuparmi dei primi, quel-li che producono.

Da un po’ di tempo, per una parte di loro, quelli che svol-gono un’attività individuale, artigiani o professionisti chesiano, si sta verificando una situazione nuova.

Il Fisco ha imposto delle leggi ben precise, ha studiato stra-tegie di controllo basate su verifiche molteplici, tutte incro-ciate tra di loro, ha introdotto pene severe per chi infrange leregole. Le varianti sono infinite e ogni giorno viene aggiuntoqualcosa di nuovo, con la conseguenza che persino un fisca-lista si trova spesso in imbarazzo. Ma poi si riprende veloce-mente, in fin dei conti si tratta del suo lavoro ed è inevitabileche ci sia l’obbligo di un aggiornamento costante, così comeavviene in altri lavori, quando entrano in ballo nuove tecno-logie, per esempio. Anche una azienda ha lo stesso problema:l’ufficio contabile deve adottare con immediatezza le nuoveregole, nuove abitudini devono formarsi per sostituire le pre-cedenti, con attenzione estrema perché le pene per quelli chesbagliano diventano sempre più severe.

Un’azienda che produce ha sempre chi si occupa di que-sti problemi, essere aggiornato fa parte dei suoi compiti.

Ma un artigiano e un professionista come se la cavano?Diventa difficile per loro svolgere un’attività mista o addi-

rittura due attività. Ma lo Stato provvede e introduce, per

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moderati giri d’affari, delle regole che semplificano contabi-lità e tassazione. Questo è solo un piccolo esempio di comea monte ci sia la volontà di separarci in piccoli gruppi omo-genei per imporre leggi adatte alle singole situazioni. A vallerimane sempre la sensazione di essere abbandonati, di esse-re usati, di essere bastonati senza colpa. In momenti di crisiquesta sensazione si acuisce, abbiamo la certezza che lanostra onestà e la nostra disponibilità possano contribuire albene comune ma, come al solito, rifiutiamo il sacrificio.Abbiamo infatti la consapevolezza che pochi avrebberoquesto coraggio. E allora per comodo, per vigliaccheria, perdisonestà, cercando tutte le giustificazioni possibili, ci com-portiamo come coloro che un attimo prima abbiamo criti-cato, ci ritiriamo dal nostro impegno civile. Impegno civile,una parola grossa. E anche qui ci areniamo, senza cercare discoprire cosa c’è sotto una parola grossa, quale è il suo con-tenuto in termini pratici. Ignoriamo cioè così il significato dipartecipazione, di comunione con i problemi degli altri, chepoi sono anche i nostri, che vengono affrontati in piccolaparte anche dagli altri. Questo agire collettivo avrebbe biso-gno di spontaneità, dovrebbe divenire tendenza di molti,passare come fenomeno di moda per potersi affermare edivenire regola comune di comportamento.

Un po’ come quando si va al cinema, dove nessuno fuma,perché non si può fumare, e tutti si adattano con facilitàperché nessuno si sottrae alla regola e perché nessuno haprivilegi. Al cinema è facile assicurarsi che la legge sia ugua-le per tutti e dato che la verifica ci convince partecipiamopositivamente. In altre situazioni, dove la verifica è impossi-bile, preferiamo far sorgere il dubbio che le cose non sianopoi tanto uguali per tutti, e cerchiamo di trasformare il dub-bio in certezza per approfittarne. Non è sicuramente veroche le cose vadano benissimo ma non possiamo essere iprimi a trarre vantaggio da una situazione negativa, sfrut-tandola ai nostri fini.

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Se c’è una crisi, abbiamo detto, le cose peggiorano, abbia-mo sempre di più la convinzione che qualcuno ci sguazzi congrosso tornaconto, che non ci siano solo degli inetti a gover-narci ma che pochi cospirino ai danni di poveracci come noicompletamente inermi. Non c’è nessuno che sgombri ilcampo da questi luoghi comuni. Non bastano nemmeno opi-nioni di grossi personaggi, di uomini che contano.

Fernand Braudel, storico di fama, dice che

i governi, imprudentemente, senza accorgersene, si rendono respon-sabili degli anni ingloriosi che viviamo ogni volta che si dicono capa-ci di controllare la disoccupazione, l’inflazione, il deficit di bilancio,mentre in realtà questi mostri si fanno beffe di noi ed anche di loro.

Siamo impotenti, abbiamo a che fare con situazioni incon-trollabili al punto che, continua Braudel,

se io fossi al posto di certi politici italiani che conosco e che stimo,direi chiaro e tondo che nessun governo è responsabile della crisi piùdi quanto ciascuno di noi lo sia per le depressioni cicloniche che sisusseguono nel Mediterraneo d’inverno. Esortarci alla pazienza, dirciche non ci sono rimedi miracolosi, che bisogna aspettare, marcare laschiena, fare buon viso al cattivo tempo. Quando la marea monta,ogni paese ha la sua parte di guai. Con il riflusso ecco il pigia pigia, iforti si riparano dietro i deboli, se ne servono, li spingono con garboverso acque pericolose.

Se questo pensare è corretto non basta condividerne i con-tenuti. Bisogna “partecipare”, e partecipare significa ancheaspettare, marcare la schiena, far buon viso a cattiva sorte,fare dei sacrifici.

Il singolo non accetterà mai di fare propria questa linead’azione, è troppo faticosa, la rifiuterà e il mezzo più sem-plice per negarla è rifiutarne i presupposti e trovare deicapri espiatori per quanto ci piove addosso.

Chi paga le tasse ne pagherà meno del dovuto, chi lavoracercherà di fare il meno possibile, tutte le regole ci sembre-

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ranno delle dure vessazioni e cercheremo di aggirarle ediventeremo sempre più esperti e non ci porremo più il pro-blema se quello che facciano sia corretto o meno perché,tanto, lo fanno tutti.

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La fine

Può darsi che la società in cui viviamo si finita. Può darsiche le forze economiche e politiche che abbiamo messo inmoto siano divenute indipendenti, incontrollabili. Lo svi-luppo naturale delle cose è stato inquinato da troppa teoria,ai consuntivi si sono sostituite le previsioni sulle quali abbia-mo cercato di costruire un futuro migliore. È bastato chequalcosa non funzionasse – e chi poteva prevedere tutto? –che tutto andasse a rotoli. Nel peggiore dei modi, lenta-mente, così lentamente da far sì che il fenomeno passasseinosservato.

Il male si vede ora, nella sua gravità, e tutti noi ne siamoresponsabili. Chi più chi meno abbiamo tutti collaborato arendere impossibile il recupero. Senza premeditazione alcu-na, ovviamente. Si cresce, si cerca di scoprire come è giustoche un uomo viva, si imparano delle regole e, quando si èpronti finalmente ad entrare in contatto con la realtà, ci siaccorge che non è questo il mondo che ci aspettavamo.

Gli schemi sono cambiati e occorre di nuovo ricomincia-re da capo e da capo un’altra volta quando la situazione siripete. Poi, un giorno, ci si prende l’abitudine e si rinunciaa continuare, anche se farlo è l’unica possibilità che ci rima-ne di capire, di avvicinarci al ritmo con cui le cose si muo-vono intorno a noi. Avvicinarsi per capire, rifiutare le veritàdel passato – vere solo nel passato –, dimenticare le regoledella nostra formazione per accettare quello che siamo dive-nuti, nel mondo al quale siamo giunti. C’è chi ce la fa,dimenticando i fantasmi del passato, e che è pronto a sop-

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portare il pensiero che la nostra società stia per finire. Senzatraumi, perché il discorso è il solito: una vita è lunga unavita, e alternative ad una vita in un determinato momentonon ce ne sono. Non ci sono nemmeno rimedi, tantomenogratuiti e garantiti, possono esserci solo rinunce e sacrificiper chi desiderava e per chi possedeva. Per gli altri, una vitane vale un’altra e questo risolve l’intero problema.

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Stampato per conto dell’autore presso

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