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ovvero nell’oggi cammina già il domani, ma a volte può diventare più difficile che andare a caccia di farfalle. Maria Teresa Maiorino QUASI CENTO PASSI

Maria Teresa Maiorino QUASI CENTO PASSI CENTO PASSI - MTERESA... · 2018. 10. 24. · Maria Teresa Maiorino QUASI CENTO PASSI. 5 Può arrivare, anzi arriva per tante persone compresa

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ovvero nell’oggi cammina già il domani, ma a volte può diventare più difficile

che andare a caccia di farfalle.

Maria Teresa Maiorino

QUASI CENTO PASSI

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Dedicato alla mia famiglia che mi è stata e mi è sempre vicina

con un amore senza limiti, né misura.

Dedicato a Valeria T. e Maurizio C. perché senza di loro, e la loro equipe,

non avrei avuto nessun lieto fine e neppure l’occasione di raccontarlo.

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ovvero nell’oggi cammina già il domani, ma a volte può diventare più difficile

che andare a caccia di farfalle.

Maria Teresa Maiorino

QUASI CENTO PASSI

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Può arrivare, anzi arriva per tante persone compresa me, che un giorno per un motivo o per un altro ti trovi a salire fino al quarto piano del padiglione numero 5 di un grande ospedale, il Policlinico S. Orsola a Bologna.

Può succedere che sia per far visita a qualcuno che, pensi di nascosto, sia stato meno fortunato di te oppu-re che, purtroppo, quello sfortunato sei proprio tu. Per me, ultimamente, si è trattato della seconda cosa. Dopo un breve ma intenso incontro con una affascinante e si-lenziosa infermiera, un braccialetto si è chiuso attorno al mio polso, un codice a barre ha ingoiato il mio nome e il gioco era fatto. In un baleno sono diventata degen-te a pieno titolo del reparto chirurgia in emergenza. Lo ammetto, io non l’ho capito subito, ma solo dopo un pò, che la mia vita stava cambiando per forza e in ogni sua prospettiva. Mi ci è voluto tempo, dolore e polvere da sparo per cominciare a capire che dovevo iniziare ad immaginare, a sessant’anni, orizzonti nuovi per le mie navi. Capirlo poi forse era il meno, accettarlo e farlo mio, invece, era ed è tutta un’altra storia. Ancora adesso non

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so dare neppure un nome al mio futuro e il coraggio di reinventarmi fa fatica a trovarmi pronta al mio indirizzo. Tempo al tempo, come dicono sempre i dottori o i pa-renti in visita quando il cuore amorevolmente fa dire “ci vuole pazienza” per supplire all’imbarazzo, alla mancanza di altre parole strozzate dall’intelligenza o dal buon senso.

Vi è mai capitato di misurare la lunghezza del corrido-io, dritto e maestoso, di chirurgia in emergenza? A me si, visto che sono stata sua ospite per ben due volte. La pri-ma volta ero qui per riparare d’urgenza un intestino bu-cato, la seconda per “ricanalizzare”. Con parole più vicine al mio spirito direi che la prima volta degli angeli con mani di fata mi hanno salvato la vita e la seconda hanno rimesso le cose in ordine per tornare a vivere bene con l’intestino che era rimasto nella mia pancia. Ora, in que-sto corpo che ancora abito, porto i segni di una rinascita che devo a degli elfi vestiti con i colori del glicine. Questa specie non vive nei boschi, ma sono sfuggenti, anche se molto orgogliosi di sé, e scappano sempre alla vista. Non fai neppure in tempo a dir loro un grazie. Si può pensare che sia scontato, quasi banale o superfluo, ma non lo è. Seppure fossi riuscita a dirlo sarebbe arrivato quasi alle loro spalle, perché già dopo un secondo erano già oltre, fuori della stanza, verso un mucchio di altre storie che aspettavano, appena cominciate o non ancora finite.

Anche gli elfi-chirurghi ogni giorno misurano a grandi passi questo stesso corridoio e vanno, vengono, leggono, più raramente sorridono, chi tace, chi parla più spesso, chi ascolta, chi scrive, il professore chiede, discute, de-

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cide, e alla fine qualcuno ti sussurra “bene, signora, ora è il tempo giusto per tornare a casa”. Allora torni, per un’ultima volta, a misurare quanto è lungo questo im-menso corridoio, questa specie di sfera vitale che ci ha tenuti insieme il tempo necessario, dove ci siamo incro-ciati chissà quante volte senza neppure conoscerci o darci un saluto. E dunque quanto spazio si stende tra la vetrata d’ingresso e le ampie finestre in fondo al corridoio? Io che l’ho attraversato un mucchio di volte posso stupirvi col dire che la misura non è fissa e questo fa riflettere. Poi, lo sapete anche voi che su un letto di ospedale il tempo per riflettere è l’unica cosa che abbonda!

L’ho misurato al mattino presto, un po’ prima di pran-zo, sottobraccio ai parenti in visita, la sera quando è tardi e le luci si fanno basse per darti la certezza che finalmente un altro giorno se n’è appena andato, ma purtroppo bi-sogna ancora attraversare un’altra notte solitaria. Ebbene, ogni volta i passi necessari a coprire il tragitto erano di-versi. I conti non tornavano mai per una ragione molto semplice: questo corridoio in verità è anche un luogo in-teriore, oltre che il percorso, per nulla simbolico, del pro-cesso di crescita, vulnerabile e dolente, che l’esperienza della malattia ci sfida a vivere tra queste mura d’ospeda-le. Attraversarlo con il bagaglio pesante dei troppi dolori che urlano per uscire, lo strazio di muscoli e cuciture, il lago di lacrime inghiottite a forza che tutti i coltelli del mondo hanno lasciato come ricordo nel tuo corpo, allora sono quasi cento passi. Cento passi piccoli, incerti, tal-volta barcollanti, con pause e riprese, occhi a cercare un cielo che non c’è, pensieri persi tra il buio e la luce.

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Quando la sofferenza abbassa un po’ la testa i pensieri trovano un porto un poco più sicuro per qualche spe-ranza e un mezzo sorriso, solo allora i passi si allungano, il corridoio diventa ogni giorno più corto, il tempo più breve e più amico. E avanti fino all’ultimo giro, quando arriva il tempo “giusto per tornare a casa”. In quel mo-mento te la puoi cavare con una sessantina di passi quasi normali. Come i “cento passi” citati nel film di Marco Tullio Giordana non rinviano ad un significato metafo-rico – erano davvero e fisicamente i passi che separavano la casa di Pippo Impastato da quella del boss di mafia Badalamenti – e rappresentavano il percorso di crescita (e di ribellione) nella vita di Peppino; così per me cam-minare e contare i passi per attraversare questo corrido-io-luogo dell’anima ha avuto il significato che la mia vita era già cambiata senza che io lo volessi, ma anche che potevo credere che il dolore col tempo poteva diventare più lieve, il passo più lungo e più certo, la vita migliore di adesso. Alla mia storia hanno regalato un lieto fine e so bene che la strada ancora da fare, tanta, sarà difficile. D’altronde nessuno mi aveva detto che sarebbe stato fa-cile, bensì di certo possibile. Dietro la mia ferita guarita niente sarà esattamente come prima, inutile nasconderlo. Imparerò a curare anche la mia voglia di ricostruire, a nutrire intestino e immaginario perché mi aiutino a saper vedere le cose da un altro punto di vista. Non sono sola davanti a quest’opera, almeno finché questo benedetto pezzo di famiglia che mi sta affianco mi ama e dà sollievo durante il viaggio.

Sapete, c’è un teatrino nascosto in un angolo della no-

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stra testa dove la fantasia ogni giorno, faticosamente, la-vora per disobbedire al dolore, per sbirciare oltre i pensie-ri cattivi. È la scena su cui si muovono e prendono anima i giorni e le notti, le paure e le speranze, i pensieri lievi e quelli pesanti, il presente che stai vivendo e, soprattutto, il futuro che deve arrivare, a cui è così difficile dare corpo quando il dolore mangia insieme alla carne anche le tue energie. È un lavoro difficile da tessere, qualche volta è uno scenario di guerra in cui si perde una battaglia dietro l’altra. Resistere e insistere è la chiave per continuare ad avere cura di sé, per aprire la strada all’idea di un futuro che certo è imprevedibile, ma è immaginabile! Portarsi dentro un’idea di futuro che possa “aggiustare” il presente, rendere trasparenti le angosce e i dolori disperati di oggi per passarci attraverso … è un lavoro pesante che le brac-cia di una persona ferita, tagliata e ricucita, non riesce a fare da sola. Almeno non io.

Serve un poco di aiuto, servono altri colori da spargere sulla tela, servono mani e sguardi gentili, serve respirare un pezzetto della vita degli altri per mettere tra parentesi la propria dolente, anche solo per un minuto. Servono compagni di strada che ti guardino senza giudizio o ver-gogna, che ti ascoltino anche tacendo, parlando o can-tando la loro singolare canzone.

Nel mio letto d’ospedale molte volte mi sono sentita sola, sopraffatta dal dolore o alla deriva nel mezzo di una mareggiata che spargeva sale sulle ferite, diverse da quelle di un bisturi ma non meno dolorose. Molte volte, però, ho sentito frullare accanto a me presenze amorevoli, nei

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loro piccoli gesti professionali, ripetuti, quotidiani che mi hanno consolato, curato. In queste pagine vorrei rac-contare qualcosa di loro, o meglio del ritratto mentale, tutto personale, che di loro conservo. Voci, occhi, mani, sguardi di corsa che, pur senza sapere chi fossi, hanno in-crociato il mio sguardo e il mio corpo per donarmi attimi di attenzione, cura, gentilezza, ironia. Anche dal loro agi-re sommesso, dal loro slancio o semplicemente dal loro modo di essere in questo mondo stretto tra 12 camere e un corridoio mi è venuta la forza di tirare quei cento pic-coli passi e poi trovare quei due soldi di coraggio per resi-stere agli assalti di certi brutti pensieri che affollano i letti di un malato più delle pulci di un cane randagio. Anche per loro ho preso la penna per narrare solo un’ombra di quell’alchimia che certe persone, poche, sanno costruire dentro un mondo vitale e professionale difficile. Gente speciale che sa affrontare le cose con la giusta misura di umanità e competenza, che non si gira dall’altra parte ogni volta che guarda in faccia il bisogno, la mancanza, la sofferenza, lo sgomento e la voglia di rinascere urlata con domande reiterate in cerca disperata di una risposta. Deliri e richieste di aiuto che rimbombano come pre-ghiere sconsolate lungo questo corridoio durante certe notti, molte notti, più buie di altre.

È già passato più di un mese da allora e qualche nome è volato via dai ricordi, qualcun altro si è un po’ sbiadito. Cercherò comunque di dare un nome a certi visi che mi sono stati cari, anche se forse farò un po’ di confusione. Chi non c’è sarà perché sono un po’ anziana e la memoria fa cilecca, sarà perché non c’era quando c’ero io, sarà per-

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ché non mi è piaciuto e preferisco dimenticare e bona lè!

La prima lieve carezza è arrivata da Leda. Straniera d’origine, bruna, uno sguardo serio quasi altero che può farla sembrare distante, forse anche perché spesso velato da una specie di lontana tristezza. Eppure di lei colpisce una voce serena, calma e i suoi gesti lievi e precisi. Leda sa accogliere, pur tenendo ampie distanze, facendo filtrare da quelle ciglia scure attenzione e rispetto, misto a una serietà che ha radici profonde.

Di Consuelo mi rimane la luce del suo sorriso aperto e quel tono caldo e vivace del suo accento marchigiano. Lunghi capelli scuri, sottili, dritti, talvolta raccolti e tirati a incorniciare il bel viso, più raramente liberi di andare dove vogliono. I suoi gesti sanno accorciare subito le di-stanze, con garbo, venirti vicino lasciandoti un ricordo di empatia sincera e persino un autografo: quella firma su una “via” aperta sul mio braccio sinistro che qualcuno in sala operatoria ha promosso con un bel 10+. Una profes-sionista, ma anche una persona sincera, garbata, disponi-bile. Solo un bacio può darle il compenso più giusto.

Ricordo la gioia negli occhi di Cosimo, occhi di ragaz-zo, giovani, spensierati, allegri, ma soprattutto innamora-ti. Cosimo porta a spasso una zazzera di capelli scanzona-ta, corta, da scugnizzo quasi, sopra una testa impegnata a darsi da fare meglio che può. Cosimo viaggia come una trottola: va, porta, riporta, sgombera, riordina … e ogni tanto chi gli passa vicino gli ruba un pezzetto di felici-tà che gli schizza via da un cuore così innamorato che

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ogni tanto vola via sulle ali di un cellulare per rivedere quell’appartamento nuovo di zecca, vuoto ma bellissimo, ancora tutto da arredare e da vivere insieme alla sua don-na.

Il gioco si fa silenzioso con Raffaella. Una donna di poche parole, sempre nette e precise, talvolta anche un po’ affilate da farla sembrare un po’ scostante o aggres-siva. Eppure in quel parlare sempre misurato e pacato io ho sentito tutta la sua forza, la sua assertività, e mai una briciola di presunzione. Sicura di sé, semplicemente, della sua professionalità e delle sue scelte, amante della chiarezza ad ogni costo. Una persona leale, che ti guar-da dritto negli occhi, non la manda a dire e questo vale per tutti a cominciare da lei stessa. Per me Raffaella è il posto migliore dove riporre la propria fiducia. Di lei ri-cordo il modo silenzioso di rivolgermi un’esortazione e un consiglio. Tra compresse, boccette, flebo, i suoi occhi fissi al diario di bordo posto sul carrello delle terapie, im-provvisamente vedo la sua testa che si volge verso di me. Mi inquadra e poi il suo dito indice e il medio si alzano mimando l’andare fantastico dei passi di una camminata. Insomma, tra i suoi pensieri c’ero anch’io e francamente mi sorprese che accompagnava il gesto con un sorriso, come per dire “vedrai ti farà bene, fidati di me”. Ho ri-sposto con lo stesso gesto avviandomi a fatica lungo il corridoio come per dirle “ci provo, e si, mi fido di te”.

Di Sofia “quella che si è tagliata i capelli” cosa ricordo? Lo stupore di un taglio feroce ad una treccia biondo mie-le che ricordava molto un’angelica eroina delle favole. E

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tutto questo per diventare un caschetto frizzante che, vi dirò, le sta a pennello. Perché Sofia, insieme all’accento in odor di toscana, ce l’ha scritto nel corpo snello, scattante, leggero un’idea di energia, efficienza e di passione vera per il proprio lavoro che non ha niente a che vedere con le moine melense delle eroine nelle favole. Passi leggeri e silenziosi, occhi attenti che vedono tutto e tutti, sempre pronta a un gesto in più se serve per risolvere, qui ed ora, un problema, un bisogno, un lavoro che si fa adesso senza rimandare ad un altro dove-chi-cosa. Dietro al suo buongiorno del mattino, a differenza di altri, ho sempre sentito un colpo di energia positiva. Vale per lei che ogni giorno ricomincia con fiducia il lavoro di tutti i giorni, uguale ma sempre diverso, quello che dona senso e di-gnità alla vita. Vale per noi che desideriamo condividere all’inizio di un nuovo giorno in un letto d’ospedale anche solo un pezzetto di quell’energia, oltre che invidiarla.

Mi risuona ancora nelle orecchie la voce estempora-nea, ma intonata, di Edoardo che si spande con il ritor-nello di una vecchia canzone lungo il corridoio. Edoardo si dice siculo di origine, ma toscano di adozione. Vero o non vero, la verve del toscanaccio ce l’ha per davvero. La battuta spavalda, cinica e dissacrante su tutto-tutti-do-vunque, foss’anche a un funerale! Fatta con naturalezza, un pizzico di garbo, mai offensiva ma sempre arguta, sot-tile, intelligente anche quando non è nobile. Basta che sia semplice e serva ad alleggerire la vita che di suo, specie da queste parti, pesa già un bel po’! Era stata una matti-na di quelle convulse, tutti che corrono già dalle cinque del mattino, fino a giungere in consistente ritardo an-

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che con la distribuzione del pasto di mezzogiorno. A un certo punto si ode la voce serena di Edoardo che cerca di rimettere ordine nell’ansia della confusione: “ragazzi attenzione! oggi c’è davvero molto, molto da fare! Per-ciò, mi raccomando, piano, andiamo molto piano!”. La serena e bella risata che ne è seguita, assestata in pieno campo, ha rasserenato l’aria meglio di molti altri discorsi! Tra le righe dei tanti tatuaggi che si porta dietro Edoardo, di cui è orgoglioso quasi più dei suoi muscoli e dei suoi occhi chiari, mi è sempre rimasto un dubbio. Sarà un bel tenerone che si è vestito della scorza dura di un lot-tatore di sumo per farsi ricordare oppure è un vero duro senz’anima a cui scappa qualche stupida tenerezza nelle scuciture tra una battuta e l’altra? Potrebbe essere che, se interrogato, l’interessato amerebbe come risposta “ganza” la seconda, ma a guardare i suoi occhi e certi sorrisi aper-ti, sinceri e un po’ fanciulleschi io non ho trovato nessu-na cattiveria o compiacimento, magari solo un pizzico di vanità dell’eterno ragazzo. Allora direi che la risposta migliore è la prima che ho scritto: anima gentile nascosta dietro le nuvole portate lì da un ruvido vento d’inverno.

C’è un’altra Raffaella che trova posto nei miei ricordi. È piccola, rotondetta il giusto, una carnagione rosea su un viso semplice, occhi sottolineati da un sottile eyeliner, perfetto, solo per farsi notare appena un po’. Il classico tratto nero con la “virgola” all’insù che aggiunge una nota ancora più gaia alla serenità con cui affronta la sua gior-nata. Raffaella l’ho vista sempre correre, darsi da fare, ri-spondere a tutti con gentilezza e con un sorriso, colleghi, dottori, degenti che fossero. Di corsa, con il fiatone, per

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noi malati trovava posto anche qualche intercalare amo-revole, come “tesoro mio”, perché Raffaella è una don-na generosa, che non si risparmia, che quando ti guarda sembra dirti “se hai bisogno io ci sono sempre! Anche se corro, primo o poi arrivo anche da te”. Ed è vero. Raffa-ella sa farti sentire accolta, accettata, anche quando in un letto di ospedale hai bisogno di cose di cui hai vergogna a dire, o mostrare, figuriamoci a chiedere in aiuto! Con lei è semplice farsi dare una mano senza vergognarsi, senza spiegazioni difficili, senza scuse miserabili.

Vorrei parlarvi ora di Silva, che se ho capito bene biso-gna scrivere e dire senza la i. Silva è solare, ha una forza dentro che viene fuori come un vino dolce dove inzup-pare i biscotti alle mandorle e sentire il gusto di una sem-plicità quasi d’altri tempi. Sorride sempre senza falsità ai colleghi, ai medici, ai degenti e anche, io ci scommette-rei, a quella strega del piano di sotto che ognuno di noi manderebbe volentieri a quel paese. Perché Silva sorri-de alla vita cristianamente, comunque si mostri, bella e meno bella. Ha occhi azzurri, profondi e grandi, che ti guardano consapevoli che il suo mestiere, per lei, non è solo fare prelievi, sistemare un letto o cambiare una flebo quando è ora. Lei sa bene che una parte del suo lavoro, piccola o grande chissà, sta nel condividere con chi soffre questa serenità che la natura le ha regalato e lo fa con na-turalezza. Silva è una di quelle donne che sa volare anche quando il cielo sta cadendo giù, e sa portare sulle ali di una farfalla questa capacità anche dentro il suo lavoro. Di sé una mattina prestissimo, accanto ad un giovane ricove-rato per un incidente gravissimo, le ho sentito dire “si, è

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vero, lo so, io sono quella che riesce a parlare sempre, ma proprio sempre!”. Appunto, Silva anche quando il cielo viene giù a pezzi sa “narrarti” la vita comunque, con pic-cole parole, semplici, come vengono, per starti vicino e sa che questo può far bene a lei ed anche a te.

Marica l’ho vista poco, eppure la ricordo bene. Marica è abbondante, morbida, bionda di quel biondo che ri-corda le pin up degli anni sessanta. Somiglia a un sogno biondo, di riccioli ed onde, a cui il tempo ha aggiunto solo qualche chilo in più. Ti guarda con due occhi azzurri che più azzurri non potrebbe neanche il mare d’estate. Marica fa pensare a stragi di cuori rimasti infilzati nei suoi occhi blu a cui, oggi, aggiunge un tocco vagamente malizioso con un sottile tratto di eyeliner. Parla con una voce squillante e sicura di sé, parla tanto e velocemente, prende la ruzzola, ma con parole semplici come sa fare chi affronta le cose direttamente, a viso aperto. Ma soprattut-to Marica sa fare ironia, il pepe della vita o, se volete, il sale dei giorni troppo uguali nelle corsie di un ospedale, che lei sa usare con acume e avvedutezza. Ecco un modo di congedarsi da una neo degente, più che settantenne, di cui ha appena raccolto l’anamnesi: “Cara signora per ora abbiamo finito. Si ricordi che per ogni cosa di cui avesse bisogno siamo a disposizione, Mi raccomando, in parti-colare, se dovesse lamentarsi dei dottori lo racconti a noi che è molto meglio. Ora la saluto.”

Infine ci sono Silvia ed Eleonora. La prima è una don-na minuta, biondina, di lungo corso professionale che sa portare sulle spalle giornate lunghe e complicate. La

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seconda è giovane, quasi mi vien da dire giovanissima, bruna e mediterranea. Eleonora ha l’esprit dei suoi anni, una valanga di energia con cui affronta come un vento burrascoso di primavera il bello e il brutto che viaggia in un reparto difficile come questo, e qualche volta le capita di farlo imbronciata, un po’ a muso duro. Eleonora, però, non è nata ieri. Si è fatta le ossa in terapia intensiva e non deve essere stata una passeggiata al luna park. Eleono-ra sa regalarti, quando serve, un pizzico di quell’energia portentosa, bagaglio prezioso per chi ha scelto la vita sco-moda da infermiera in un reparto di chirurgia in urgen-za. Magari lo farà correndo tra un letto e l’altro, facendo questo e quello, ma sempre “only for your eyes” anche se dura solo un attimo. Eleonora è un flash di calore, so-stegno, grinta che sa farsi ricordare prima di scappare via di nuovo, come accade a certe avventure indimenticabili d’estate.

Silvia ha gli occhi chiari e stretti come gli occhiali che li nascondono alla vista degli altri. Tra tutte le voci che compongono il caleidoscopio di accenti che suonano in questo reparto Silvia è una delle poche che porta note della parlata emiliana. E forse di emiliano c’è anche mol-to altro. Silvia sarà anche una donna di piccola taglia, ma in lei si sente la fibra di una guerriera. Mani sapienti e veloci che sanno fare “presto e bene”, senza perdersi in chiacchiere, ma con quella saggezza e voglia di fare un po’ contadina e così emiliana. Se la vita è, talvolta, un bel giro di giostra, qui dentro è un posto in cui bisogna darsi da fare parecchio per non dimenticare mai che il futuro non è ancora scritto, ma ha un suo bello: si costruisce

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rimboccandosi le maniche e, soprattutto, un giorno alla volta, guardando avanti anche quando siamo colpiti. Un mix virtuoso di sapienza, umanità e competenza che par-la con una voce sottile che ti sa scuotere con gentilezza ed energia. Questo per me è stata Silvia. L’ho sentito una mattina quando le sue mani hanno stretto le mie spalle ed i suoi occhi si sono fermati nei miei per dirmi, come al solito schietta e gentile: “che ne dici se togliamo questo camicione da ospedale e infiliamo la tua bella camicia da notte nuova?”. Una domanda che non aspettava risposta. E non la ebbe. Un gesto semplice, forse difficile da fare da soli, per far capire che il peggio era passato. Il futuro ci aspetta con un mucchio di cose, parecchie delle quali per niente facili, ma non serve star lì ad attenderlo con i pugni stretti.

È giunto il tempo di chiudere questa piccola narra-zione. Semmai questa cronaca passerà dal mio quaderno ad un vestito più bello, semmai arriverà agli occhi e alle orecchie di qualcuno, prego ciascuno d’essere un lettore gentile. La storia qui trascritta possiede la sola ambizione di essere per chi scrive un esercizio di memoria, convinta come sono che quando la vita si trasforma in una storia può succedere che le parole diventate trama di una pa-gina scritta facciano volare via per sempre qualche an-goscia. Scrivere non è il mio mestiere, però ho pensato valesse la pena forzare la mia natura per tentare di lasciare un segno tangibile di cosa è successo, di chi ho incontra-to e cosa mi è capitato di pensare. Fissare su una pagina qualcosa di un’esperienza che mi ha cambiato la vita, sen-za trascurare volti e nomi, senza velleità letterarie, con la

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speranza, invece, di preservare i ricordi dalle ingiurie del tempo che, lo sappiamo, in un soffio può cancellare dalla memoria anche ciò che credevamo indelebile.

Infine non posso dimenticare ancora una volta di pro-nunciare, ed in evidente ritardo, quel grazie che non sono riuscita a dirvi quando ero lì.

Magari è stato questo il motivo più sincero che ha mosso la penna, chi può dirlo?

Maria Teresa Maiorino

Bologna, 16 febbraio 2018

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Ringraziamenti

Grazie a tutte quelle persone che mi hanno aiutato a ri-mettermi in sesto con una telefonata, un pensiero, una mail, un gesto, anche se da loro ho voluto star lontana come fanno gli orsi feriti. Ci saranno giorni migliori e sarà in compagnia, ma intanto grazie di avermi messo nei vostri pensieri.

Grazie anche a chi mi ha sopportato, qualcuno dalla mat-tina alla sera, qualcun altro per fortuna un po’ meno. Per-sone di famiglia che mi hanno capito e dato la forza per affrontare giorni lunghi e difficili. Se vorranno coprirmi di contumelie, pazienza: me le sarò meritate tutte.