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Sándor Márai Le Braci

Le braci sandor marai

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Sándor Márai

Le Braci

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1. In mattinata il generale si soffermò a lungo nella cantina del vigneto. Vi si era recato

all’alba insieme al vignaiolo perché due botti del suo vino avevano cominciato a fermentare. Quando finì di imbottigliarlo e fece ritorno a casa, erano già le undici passate. Ai piedi delle colonne, sotto il portico lastricato di pietre umide ricoperte di muffa, lo attendeva il guardacaccia, che porse una lettera al padrone appena arrivato.

“Cosa vuoi?” disse il generale, e si arrestò con aria seccata. Spinse indietro sulla fronte il cappello di paglia a tesa larga che gli ombreggiava il viso arrossato.

Da anni ormai non apriva né leggeva lettere. La corrispondenza veniva aperta e selezionata da un impiegato nell’ufficio dell’intendente.

“L’ha portata un messo” disse il guardacaccia, e rimase fermo sull’attenti. Il generale riconobbe la grafia, prese la lettera e se la ficcò in tasca. Entrò nel

vestibolo, al fresco, e porse in silenzio il bastone e il cappello al guardacaccia. Frugò nel taschino dei sigari e ne trasse gli occhiali, si accostò alla finestra e nella semioscurità, sotto la luce che filtrava attraverso le fessure delle persiane socchiuse, cominciò a leggere la lettera.

“Aspetta! “ ordinò, richiamando il guardacaccia che si allontanava per riporre il bastone e il cappello. Accartocciò la lettera e la rimise in tasca. “Di’ a Kàlmàn che prepari la carrozza per le sei. Il landò, perché verrà a piovere. Che indossi la livrea di gala. Anche tu” disse con enfasi improvvisa, come se qualcosa lo avesse fatto infuriare. “E che tutto risplenda. Che si mettano immediatamente a lustrare la carrozza e i finimenti. Tu ti metti in livrea. Hai capito? E siederai a cassetta accanto a Kàlmàn “. “Ho capito, Eccellenza” assentì il guardacaccia sostenendo lo sguardo del padrone. “Per le sei “. “Partirete alle sei e mezzo” disse il generale, e cominciò a muovere silenziosamente le labbra, come se stesse facendo dei calcoli. “ Ti presenterai all’Aquila Bianca. Dirai soltanto che ti ho mandato io e che è arrivata la carrozza per il signor capitano. Ripeti “. Il guardacaccia ripeté le sue parole. A quel punto - come se volesse aggiungere ancora qualcosa - il generale sollevò la mano e alzò lo sguardo verso il soffitto. Ma poi salì al piano di sopra senza dir niente. Il guardacaccia, irrigidito sull’attenti, lo seguì con espressione imbambolata, in attesa che la figura tarchiata dalle spalle possenti scomparisse dietro la balaustra di pietra, alla svolta del pianerottolo. Il generale andò nella sua stanza, si lavò le mani e si accostò allo scrittoio alto e stretto, ricoperto di panno verde macchiato di inchiostro, dove erano allineati il calamaio, la penna e diversi quaderni sovrapposti con cura, in ordine millimetrico, con la copertina di tela cerata a quadretti, di quelli che usano gli scolari per i compiti. Al centro dello scrittoio c’era una lampada dal paralume verde: l’accese, perché la stanza era al buio.

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Dietro le persiane chiuse, nel giardino avvizzito e bruciato dall’arsura, l’estate divampava con le sue ultime forze, come un incendiario che nella sua collera dissennata dia fuoco a tutto prima di fuggire in capo al mondo. Il generale tirò fuori la lettera, lisciò con cura il foglio di carta e sotto la luce forte con gli occhiali sul naso, lesse ancora una volta quelle brevi righe ben allineate, vergate con una grafia appuntita. Intrecciò le mani dietro la schiena e proseguì la lettura.

Sul muro c’era un calendario con cifre grandi come pugni. Quattordici agosto. Il generale rovesciò la testa all’indietro e si mise a contare. Quattordici agosto. Due luglio. Calcolava il tempo trascorso tra un giorno remoto e il giorno presente. Quarantun anni, disse infine a fior di labbra. Da qualche tempo parlava a voce alta nella sua stanza anche quando era solo. Quarant’anni, disse quindi perplesso. Arrossì come uno scolaretto che non si raccapezzi tra le difficoltà di un compito imprevisto, rovesciò la testa all’indietro e chiuse gli occhi lacrimosi da vecchio. Dal colletto della giacca color granturco sbucava il collo rosso e gonfio. Due luglio milleottocentonovantanove, ecco la data della caccia, mormorò. Quindi ammutolì. Appoggiò i gomiti sulla scrivania, meditabondo come uno studente che ripassa le lezioni, e tornò a fissare gli occhi sulla lettera, su quelle poche righe vergate a mano. Quarantuno, disse infine con voce arrochita. E quarantatré giorni. Ecco quanto tempo è trascorso. Cominciò a passeggiare su e giù, come se si fosse tranquillizzato. La stanza aveva il soffitto a volta, sorretto al centro da una colonna. Al posto di questa sala un tempo c’erano due stanze, una camera da letto e uno spogliatoio. Molti anni prima - ormai ragionava solo in termini di decenni, non amava i numeri esatti come se ogni numero gli ricordasse qualcosa che era meglio dimenticare - aveva ordinato di demolire il muro tra le due stanze. Venne lasciata in piedi solo la colonna su cui poggiavano le volte. La casa era stata edificata duecento anni prima; l’aveva fatta costruire un fornitore dell’esercito che vendeva avena alla cavalleria austriaca e più tardi aveva ottenuto il titolo di principe. La costruzione risaliva a quell’epoca. Il generale era nato lì, in quella stanza. All’epoca il locale sul retro, quello più buio, con la finestra che affacciava sul giardino e sugli edifici di servizio, era la camera di sua madre, mentre l’altro, più chiaro e arioso, era lo spogliatoio. Qualche decennio addietro, quando si era trasferito in questa ala dell’edificio e aveva fatto demolire il muro divisorio tra le due stanze, esse si erano trasformate in un vano ampio e male illuminato. C’erano diciassette passi di distanza dalla porta fino al letto. E diciotto passi dal muro adiacente al giardino fino alla terrazza. Li aveva contati spesso, lo sapeva con esattezza.

Viveva in quella stanza, che sembrava costruita su misura per lui, come un infermo ormai assuefatto alle dimensioni spaziali della propria malattia. Passavano anni senza che si recasse nell’altra ala del castello, dove c’era una fuga di saloni verdi, azzurri e rossi con lampadari dorati. Là le finestre si aprivano sul parco, sugli ippocastani che in primavera, con le loro infiorescenze rosate e il loro rigoglio verde cupo, si spingevano fino ai balconi. Gli alberi erano disposti pretenziosamente a semicerchio di fronte all’estremità dell’ala meridionale del castello, davanti alle balaustrate di pietra sorrette da putti grassocci. Quando usciva, il generale arrivava fino alla cantina del vigneto o nel

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bosco, oppure - tutte le mattine, anche d’inverno, anche quando pioveva - al ruscello delle trote. Tornato a casa, saliva nella sua stanza passando per il vestibolo e consumava i suoi pasti lassù.

“ Dunque è tornato “ disse ora ad alta voce in mezzo alla stanza. “ Quarantun anni. E quarantatré giorni “. E vacillò, come se pronunciando quelle parole avesse esaurito le forze, come se solo adesso si rendesse conto dell’enorme quantità di tempo che significano quarantun anni e quarantatré giorni. Si sedette sul vecchio sedile di cuoio con la spalliera. C’era un campanello d’argento a portata di mano sul tavolino: se ne servì per suonare.

“ Fai salire Nini “ disse al valletto. E aggiunse educatamente: “ Dille che la prego di salire “. Non si mosse, rimase seduto così, col campanello d’argento in mano, finché non arrivò Nini.

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2. Nini, nonostante i suoi novantun anni, non si fece attendere. Era in quella stanza che

aveva accudito il generale da piccolo, dopo averlo visto nascere. A quel tempo aveva sedici anni ed era molto bella. Era bassa di statura, ma muscolosa e tranquilla come se il suo corpo fosse a conoscenza di qualche segreto. Come se nascondesse qualcosa, nelle ossa, nel sangue, nella carne, il mistero del tempo e della vita, qualcosa che non si può comunicare agli altri e non si può tradurre in una lingua diversa: un segreto che le parole non sono in grado di sostenere. Era la figlia del postino del villaggio, aveva partorito un bambino all’età di sedici anni e non aveva mai detto a nessuno da chi lo avesse avuto. Aveva allattato il generale perché aveva molto latte; quando suo padre l’aveva cacciata di casa, Si era trasferita al castello. Non possedeva nulla, soltanto il vestito che indossava e, in una busta, una ciocca di capelli del bambino morto. Fu così che si presentò al castello. Arrivò al momento del parto. Il generale succhiò il primo sorso di latte dal seno di Nini. E là essa visse in silenzio per settantacinque anni. Sorrideva sempre. Il suo nome volava attraverso le stanze come se gli abitanti del castello si lanciassero un avvertimento. Dicevano: “Nini! “. Ed era come se dicessero: “ E strano, al mondo esiste anche qualche altra cosa oltre all’egoismo e alla passione, oltre alla vanità. Nini... “. E poiché era presente dovunque ci fosse bisogno di lei, non la notavano nemmeno. E poiché era sempre di buonumore, non le chiedevano mai come potesse esser felice dopo che l’uomo che amava l’aveva lasciata e il bambino per il quale era scaturito il suo latte era morto. Allattò il generale e lo allevò, poi trascorsero settantacinque anni. Talvolta sul castello e sulla famiglia splendeva il sole, e allora, nella contentezza generale, ci si accorgeva con stupore che anche Nini sorrideva. Poi morì la contessa, la madre del generale, e Nini deterse con un panno imbevuto di aceto la fronte sudaticcia, bianca e fredda della morta. E un giorno portarono a casa in barella il padre del generale che era caduto da cavallo, ma che poi rimase in vita per altri cinque anni. Fu Nini ad accudirlo. Leggeva per lui in francese e, dato che era una lingua che non conosceva, compitava lentamente, una dopo l’altra, le lettere di ogni parola, quanto bastava perché l’infermo capisse. Passarono molti anni e il generale prese moglie. Quando la coppia ritornò dal viaggio di nozze, Nini era lì ad aspettarla sul portone del castello. Baciò la mano alla nuova signora e le offrì delle rose. Anche allora sorrideva; ogni tanto il generale ricordava quegli istanti. Più tardi, dodici anni dopo, la donna morì, e fu Nini a prendersi cura della tomba e del guardaroba della defunta.

Al castello non aveva né titoli né ranghi. Tutti percepivano semplicemente la sua forza. Il generale era il solo a ricordare, distrattamente, che Nini aveva già superato i novanta. Nessun altro sembrava esserne consapevole. La forza di Nini dilagava per tutta

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la casa attraversando le persone, i muri, gli oggetti, come la corrente elettrica che sul piccolo palcoscenico dei teatrini ambulanti mette in moto di nascosto le marionette, il Prode Giovanni e la Morte. A volte si aveva la sensazione che la casa e gli oggetti sarebbero caduti a pezzi, se la forza di Nini non avesse tenuto insieme tutto quanto, così come i tessuti molto antichi si polverizzano e Si dissolvono se qualcuno li sfiora all’improvviso. Quando sua moglie morì il generale si mise in viaggio. Fece ritorno a casa a distanza di un anno e si trasferì immediatamente nella vecchia ala del castello, nella camera di sua madre. Fece chiudere l’ala nuova dove aveva vissuto insieme alla moglie, i saloni variopinti dove le tappezzerie di seta francese cominciavano ormai a sfaldarsi, l’ampio studio con il camino e i libri, la scalinata con le corna di cervo, gli urogalli impagliati e le teste di camoscio imbalsamate, la grande sala da pranzo - dove, attraverso le finestre, lo sguardo spaziava sulla valle, sulla cittadina e sui monti lontani di un azzurro argenteo -, le stanze occupate dalla moglie e, accanto a queste, la propria camera da letto. Da trentadue anni, da quando la donna era morta e il generale era tornato a casa dal suo viaggio all’estero, Nini e la servitù erano gli unici a mettere piede in quelle stanze, una volta ogni due mesi, quando facevano le pulizie. “ Siediti, Nini “ disse il generale. La balia si sedette. Nel corso dell’ultimo anno era invecchiata. Superati i novanta, si invecchia in maniera diversa rispetto a quanto avviene dopo i cinquanta o i sessanta. Si invecchia senza risentimento. Il volto di Nini era roseo e grinzoso - invecchiano così i tessuti di gran pregio, le sete vecchie di secoli, in cui un’intera famiglia ha profuso la sua abilità manuale, intessendoli di tutti i suoi sogni. Durante l’anno passato si era ammalata di cataratta a un occhio, che era diventato grigio e spento. L’altro occhio era rimasto azzurro, dell’azzurro dei laghetti d’alta montagna sotto il sole di agosto. E quest’occhio sorrideva. Nini indossava un abito scuro, sempre lo stesso: gonna di panno blu scuro e corpetto dello stesso colore. Come se non Si fosse mai fatta confezionare un altro abito nel corso dei settantacinque anni trascorsi.

“ Ha scritto Konrad “ disse il generale, e sollevò in alto la lettera con gesto meccanico. “ Ricordi?”. “ Sì “ disse Nini. Ricordava tutto. “ E’ in città” disse il generale alla balia, sottovoce, come se stesse comunicando una notizia molto importante e riservata. “ Ha preso alloggio all’Aquila Bianca Verrà qui stasera, ho mandato la carrozza a prenderlo Cenerà qui “.

“Qui, dove?” chiese tranquillamente Nini. E girò intorno lo sguardo azzurro, sorridente, del suo unico occhio vivo.

Da vent’anni non ricevevano ospiti. I visitatori che si presentavano ogni tanto verso l’ora di pranzo, i rappresentanti della provincia e le autorità cittadine, gli ospiti della grande battuta di caccia, venivano ricevuti dall’intendente della tenuta nel casino di caccia in mezzo al bosco, dove ogni cosa era pronta per accogliere gli ospiti in tutte le stagioni: le camere da letto, le stanze da bagno, la cucina, la grande sala da pranzo per i cacciatori, la veranda all’aperto. In queste occasioni l’intendente sedeva a capotavola e intratteneva, in rappresentanza del generale, i cacciatori o i personaggi ufficiali. Ormai nessuno si offendeva più, perché tutti sapevano che il padrone di casa era invisibile. Il

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parroco era l’unico a recarsi al castello una volta all’anno d’inverno, quando scriveva col gesso le iniziali dei nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre sull’architrave della porta d’ingresso. Il parroco, che aveva seppellito i diversi membri della famiglia. Nessun altro, mai. “Nell’altra ala” disse il generale. “Si può?”. “Abbiamo fatto le pulizie un mese fa” disse la balia. “ Si può “.

“Per le otto di sera. E’ possibile?... “ domandò eccitato, con curiosità un po’ infantile, e si sporse in avanti sulla poltrona. “Nella grande sala da pranzo. Adesso è mezzogiorno “.

“Mezzogiorno” disse la balia. “In questo caso provvedo subito. Farò aerare i locali fino alle sei, poi farò apparecchiare la tavola”. Le sue labbra si muovevano in silenzio, come se stesse contando. Calcolava il tempo, la quantità dei compiti da eseguire. “ Sì “ disse infine con calma e fermezza. Il generale la osservava incuriosito, col busto ancora proteso. Le due vite fluivano assieme, con lo stesso lento ritmo vitale dei corpi molto anziani. Si conoscevano a fondo, più di quanto si conoscano madre e figlio, più di due coniugi. La comunione che univa i loro corpi era più intima di qualsiasi altro vincolo. Forse a causa del latte. Forse perché Nini era stata la prima a vedere il generale nell’attimo della sua nascita, coperto del sangue impuro in cui vengono al mondo gli uomini. Forse a causa dei settantacinque anni che avevano trascorso insieme, sotto lo stesso tetto, mangiando lo stesso cibo, respirando la stessa aria stantia della casa, con la stessa vista sugli alberi davanti alle finestre - avevano condiviso ogni cosa. Nessuna parola poteva definire il loro rapporto. Non erano né fratelli né amanti. Esiste qualcosa di diverso, e se ne rendevano oscuramente conto. Esiste una fratellanza particolare che è più stretta e più profonda di quella che unisce i gemelli nell’utero materno. La vita aveva mescolato i loro giorni e le loro notti, ciascuno dei due era consapevole del corpo e dei sogni dell’altro. La balia disse:

“Vuoi che tutto sia come in passato?”. “Sì” disse il generale. “Esattamente così. Come l’ultima volta “ .

“Va bene “ essa annuì laconica. Si accostò al generale, si chinò e baciò quella vecchia mano inanellata, maculata,

dalle vene gonfie. “ Promettimi “ disse “ di non agitarti “. “Te lo prometto” rispose il generale in tono mansueto e obbediente.

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3. Fino alle cinque, dalla sua stanza non giunse alcun segno di vita. A quell’ora suonò

per chiamare il valletto e gli chiese di preparargli un bagno freddo. Aveva mandato indietro il pranzo, accontentandosi di una tazza di tè freddo. Stava sdraiato sul sofà, nella stanza immersa nella penombra. Al di là delle pareti fresche ronzava e fermentava l’estate. Nel dormiveglia percepiva il ribollire della luce, lo stormire delle fronde avvizzite nelle folate calde e i mille rumori del castello. Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente offesi e si vuole vendetta. Poi si attende. Da molto tempo, ormai, attendeva. Non sapeva più a che punto il risentimento e la sete di vendetta si fossero trasformati in attesa. Nel corso del tempo tutto si conserva, però si scolorisce come quelle fotografie di un passato ormai lontano che venivano fissate su una lastra di metallo. La luce e il tempo sfumano i tratti più nitidi e spiccati, che a poco a poco scompaiono dalla lastra. Bisogna rigirare l’immagine perché la luce cada da una certa angolazione, per poter individuare, su quella superficie confusa, la persona i cui lineamenti erano riflessi un tempo dal suo specchio. Così sbiadiscono nel corso degli anni tutti ricordi umani. Poi un bel giorno un raggio di luce piove da qualche parte, e allora ritroviamo d’improvviso un volto. Il generale conservava in un cassetto alcune di quel le vecchie fotografie. Il ritratto di suo padre. Nella foto il padre indossava l’uniforme di capitano della guardia. I suoi capelli erano mossi e ondulati come quelli di una fanciulla. Dalle spalle gli pendeva il mantello bianco degli ufficiali della guardia che lui tratteneva sul petto con la mano inanellata. E teneva la testa piegata da un lato, con aria altera e risentita. Non disse mai in quale occasione lo avessero offeso né perché. Quando fece ritorno da Vienna cominciò a dedicarsi alla caccia. Vi andava ogni giorno, in tutte le stagioni; quando non trovava selvaggina, o nel periodo in cui la caccia era vietata, sparava alle volpi e alle cornacchie.

Come se volesse uccidere qualcuno e Si allenasse per tenersi sempre pronto alla vendetta. La madre del generale, la contessa, aveva proibito ai cacciatori di mettere piede nel castello; aveva bandito e fatto allontanare tutto ciò che ricordava la caccia, le armi e le fiaschette per la polvere, le vecchie frecce, gli uccelli e le teste di cervo impagliate, le corna. Fu allora che l’ufficiale della guardia fece costruire il casino di caccia. Lì tutto si trovò finalmente riunito: le grandi pelli di orso distese davanti al camino e, appese alle pareti, le armi fissate su pannelli incorniciati di marrone e foderati di candido feltro: fucili belgi e austriaci, coltelli da caccia inglesi e armi da fuoco russe. Per ogni tipo di selvaggina. E nelle vicinanze del casino di caccia Si tenevano i cani, la grande muta, i bracchi, i cani da ferma, e anche il falconiere alloggiava lì con i suoi tre

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falconi incappucciati. Il padre del generale viveva nel casino di caccia e gli abitanti del castello lo vedevano solo all’ora dei pasti. Nel castello le pareti erano ricoperte di tappezzerie di seta francese dalle tinte delicate - azzurro, verde chiaro e rosa -, intessute di fili dorati e provenienti da filande dei dintorni di Parigi. Tutti gli anni la contessa sceglieva personalmente le tappezzerie e i mobili nelle fabbriche e nei negozi francesi, quando in autunno si recava in patria per far visita alla sua famiglia. A questo viaggio non rinunciava mai. Era un suo diritto, in base a una clausola che aveva fatto inserire nel contratto matrimoniale allorché si era sposata con l’ufficiale straniero.

“Forse è stato per colpa di quei viaggi” si disse il generale. Pensava al fatto che i suoi genitori non si comprendevano. L’ufficiale della guardia

passava il suo tempo a caccia, e dato che non poteva distruggere quel mondo in cui esistevano cose e persone diverse da lui - città straniere, Parigi, castelli, tutti quei luoghi dove si parlavano altre lingue e vigevano altre usanze - uccideva i cerbiatti, gli orsi e i cervi. Sì, forse era stata colpa dei viaggi. Si alzò e rimase in piedi davanti alla stufa panciuta di maiolica bianca che un tempo aveva riscaldato la camera da letto di sua madre. Era una grande stufa vecchia di un secolo, che irradiava un calore simile alla benevolenza emanata da una persona pingue e indolente che cerchi di attenuare il proprio egoismo con qualche buona azione poco impegnativa. Era logico che lì dentro sua madre soffrisse il freddo. Il castello in mezzo al bosco, le camere dagli alti soffitti a volta, tutto questo era troppo buio per lei: ecco perché aveva tappezzato i muri di sete dai colori E soffriva il freddo perché nel bosco soffiava eternamente il vento, anche d’estate, e nell’aria aleggiava un sentore simile a quello dei ruscelli di montagna in primavera, quando si gonfiano di neve sciolta e cominciano a straripare. Soffriva il freddo, ecco perché bisognava tenere sempre il fuoco acceso nella stufa panciuta di maiolica bianca. Sua madre pretendeva miracoli. Si era trasferita in quel paese orientale perché la passione era stata in lei più forte della ragione e del giudizio. Aveva conosciuto l’ufficiale della guardia mentre questi si trovava in servizio diplomatico: intorno alla metà del secolo era addetto all’ambasciata d’Austria-Ungheria a Parigi. Si erano conosciuti in occasione di un ballo, e non avevano potuto far nulla contro la malia di quell’evento. L’orchestra suonava e l’ufficiale della guardia aveva detto alla contessina francese. “ Il sentimento è più forte di noi, più fatale “. Ecco cos’era accaduto in una serata di ballo all’ambasciata. Le vetrate erano coperte da tendaggi di seta bianca, loro due stavano in piedi nel vano di una finestra e guardavano i ballerini. Le strade di Parigi erano bianche, cadeva la neve. In quel momento aveva fatto il suo ingresso nella sala l’imperatore. Tutti si erano inchinati fino a terra. L’imperatore indossava una marsina azzurra e un panciotto bianco; aveva sollevato con gesto lento l’occhialetto dal manico d’oro portandolo agli occhi. Raddrizzatisi dopo la profonda riverenza prescritta dall’etichetta di corte, essi si erano scambiati un lungo sguardo. A quel punto sapevano già che era vano opporsi al destino, il quale decretava che sarebbero vissuti insieme. Avevano sorriso, pallidi e turbati. La musica continuava nella stanza accanto. La giovane francese aveva detto: “ Il suo paese, dov’è?... “, con lo sguardo perduto lontano.

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L’ufficiale della guardia aveva nominato la sua patria. La prima parola intima che le aveva detto era il nome del suo paese natale.

Vi andarono in autunno, quasi un anno più tardi. La straniera sedeva in fondo alla berlina, avvolta in veli e coperte. Attraversarono i monti passando per la Svizzera e il Tirolo. A Vienna furono ricevuti dall’imperatore e dall’imperatrice. L’imperatore fu benevolo, come si legge nei libri di scuola. Disse: “ Stia attenta, Nelle foreste dove la porterà vivono gli orsi. Anche lui è un orso “. E sorrise. Sorrisero tutti. Scherzare con la moglie francese dell’ufficiale della guardia ungherese era un segno di grande favore da parte dell’imperatore. Essa rispose: “Lo ammansirò con la musica, Maestà, come fece Orfeo con le belve “. Viaggiarono attraversando boschi e prati sui quali aleggiava il profumo della frutta. Quando varcarono il confine, i monti e le città scomparvero e la donna cominciò a piangere. “Cheri,” disse “ho le vertigini. Qui tutto è senza fine “. Era la visione della puszta a darle le vertigini, la visione della grande pianura deserta che languiva sotto il peso di un’atmosfera autunnale plumbea e opprimente, dove la mietitura era già terminata. La carrozza procedeva per ore e ore inoltrandosi in zone impervie, solo le gru attraversavano il firmamento, e i campi di granturco che fiancheggiavano la strada avevano l’aria devastata come alla fine di una guerra, quando l’esercito in ritirata si lascia alle spalle un paesaggio ferito e agonizzante. L’ufficiale della guardia sedeva muto nella carrozza, a braccia conserte. Ogni tanto chiedeva per sé un cavallo e cavalcava per ore accanto alla carrozza. Contemplava la sua patria come se la vedesse per la prima volta. Guardava le case basse con le persiane verdi e i porticati bianchi dove si fermavano per la notte, le case annidate in fondo ai giardini, abitate dagli uomini della sua razza, con le camere linde dove gli sembrava di conoscere ogni mobile, e persino l’odore che si sprigionava dagli armadi. Guardava il paesaggio che adesso, nella sua solitudine e malinconia, toccava il suo cuore come non gli era mai accaduto: vedeva con gli occhi della moglie i pozzi con il mazzacavallo, le terre aride, le foreste di betulle, le nubi rosate sopra la pianura verso l’ora del tramonto. La patria gli si apriva dinanzi e l’ufficiale della guardia, col cuore in gola sentiva che in quel paesaggio che li stava accogliendo era scritto il loro destino. La donna sedeva nella berlina e taceva. Ogni tanto si portava il fazzoletto agli occhi. Allora suo marito si sporgeva dalla sella e lanciava uno sguardo interrogativo a quegli occhi colmi di lacrime. Ma lei gli faceva cenno di proseguire. Qualcosa di indissolubile li legava l’uno all’altro. Nei primi tempi il castello la consolò. Era talmente grande, racchiuso tra monti e foreste che lo separavano così nettamente dalla pianura: era una patria all’interno di quella patria a lei estranea. Fu allora che cominciarono ad arrivare i carri, al ritmo di uno al mese. Da Parigi e da Vienna, carri pieni di mobili, di tele e damaschi, di stampe, e arrivò anche una spinetta, perché la donna voleva addomesticare le belve con la musica. La prima neve era già caduta tra i monti allorché essi finirono di sistemarsi e iniziarono la loro vita al castello. La neve sigillò il castello come un’armata fosca e taciturna che circondi una fortezza assediata. Durante la notte, dal bosco uscivano cervi e cerbiatti che si fermavano in mezzo alla neve, sotto il chiaro di luna, e rimanevano lì a osservare le

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finestre illuminate con i loro straordinari occhi intenti e gravi, dai riflessi azzurrini, la testa piegata di lato e l’orecchio teso alla musica che filtrava dal castello. “ Hai visto?... “ diceva la donna seduta al pianoforte, e rideva. In febbraio il gelo stanò i lupi che scesero giù dai monti, i valletti e i guardacaccia accesero un falò di sterpi nel parco, e le fiere, attratte dal fuoco, presero a girargli intorno ululando come stregate. L’ufficiale della guardia scese ad affrontarle col coltello; la moglie rimase a guardarlo dalla finestra. C’era qualcosa su cui non riuscivano a comprendersi. Eppure si amavano.

Il generale si avvicinò al ritratto della madre. Il quadro era opera di un pittore viennese, che aveva dipinto anche il ritratto dell’imperatrice con la chioma intrecciata che ricadeva sulle spalle; l’ufficiale della guardia lo aveva visto nello studio dell’imperatore alla reggia di Vienna. Nel quadro, la contessa portava un cappello di paglia decorato di fiorellini rosa, come quelli che sfoggiano d’estate le fanciulle a Firenze. Il quadro era appeso alla parete bianca entro una cornice dorata, sopra la cassettiera in legno di ciliegio. Era uno dei mobili appartenuti un tempo a sua madre. Il generale si appoggiò con le mani al ripiano della cassettiera e rimase in quella posizione, con gli occhi sollevati verso il quadro. Nel ritratto del pittore viennese, la giovane donna teneva il capo leggermente piegato di lato e fissava il vuoto con sguardo tenero e pensoso, come se si domandasse: “Perché?”. Era questo il significato del quadro. Il volto era nobile, e il collo, le mani calzate di guanti lunghi lavorati all’uncinetto, le candide spalle e il seno nella scollatura dell’abito verde pallido emanavano sensualità. Era proprio un’estranea. L’ufficiale della guardia e sua moglie si combattevano in silenzio, avendo come armi la musica e la caccia, i viaggi e i ricevimenti. In certe serate il castello si illuminava come se nelle sale divampasse un incendio, e le stalle si riempivano di cavalli e cocchieri degli invitati. Valletti impettiti sostavano immobili, come pupazzi impagliati al museo delle cere, uno ogni quattro gradini della grande scalinata, reggendo candelabri d’argento a dodici bracci, e le luci, la musica le parole della gente e il profumo dei corpi volteggiavano nelle sale come se la vita fosse una specie di cerimonia disperata, di festa tragica e solenne, a conclusione della quale i trombettieri avrebbero fatto squillare i loro strumenti per annunciare ai partecipanti storditi un decreto infausto. Il generale conservava ancora la memoria di quelle serate. Talvolta i cavalli e i cocchieri, non trovando posto nelle stalle, si accampavano nel parco innevato, accanto a fuochi di sterpi. Una volta venne anche l’imperatore, il quale in terra ungherese portava il titolo di re. Arrivò in carrozza, scortato da cavalieri con pennacchi bianchi sugli elmi. Trascorse due giorni andando a caccia nel bosco. Venne alloggiato nell’altra ala del castello, dove dormì in un letto di ferro, e alla sera ballò con la padrona di casa. Mentre ballavano parlarono tra loro, e gli occhi della donna si colmarono di lacrime. Il re interruppe la danza. Si inchinò, le baciò la mano e la riaccompagnò nel salone attiguo, dove gli uomini della sua scorta lo attendevano in piedi, disposti a semicerchio. Condusse la donna dall’ufficiale della guardia e le baciò ancora una volta la mano.

“Di che cosa avete parlato?...” domandò un giorno, molto tempo dopo, l’ufficiale alla

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moglie. Ma la donna non glielo disse. Nessuno seppe cosa avesse detto il re alla donna che veniva da un paese straniero e che era scoppiata in lacrime durante la danza. Del fatto si continuò a parlare a lungo, da quelle parti.

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4. Il castello era un mondo a sé stante, come quei grandi e sfarzosi mausolei di pietra in

cui languono le ossa di intere generazioni e si dissolvono le vesti funebri di seta grigia o panno nero di donne e uomini vissuti in altri tempi. Esso racchiudeva in sé il silenzio, come un recluso che vegeti esanime sulla paglia marcescente di un sotterraneo, con la barba lunga, vestito di stracci e coperto di muffe. Racchiudeva anche la memoria, la memoria dei defunti, che si annidava nei recessi più occulti, così come i funghi, le mucillagini, i pipistrelli, i ratti, gli insetti si annidano nelle cantine umide dei vecchi edifici. Le maniglie delle porte conservavano il tremito di una mano, l’emozione dell’attimo in cui essa aveva esitato a completare il suo gesto. Ogni dimora in cui le passioni abbiano investito con violenza gli uomini si riempie di questa sostanza caliginosa. Il generale guardava il ritratto della madre. Conosceva ogni dettaglio di quel volto sottile. Gli occhi malinconici e pesanti di sonno fissavano il tempo con un disdegno simile a quello con cui salivano al patibolo certe donne del passato, disprezzando in egual modo coloro per i quali dovevano morire e coloro che le mandavano al sacrificio. La famiglia della madre possedeva un castello in Bretagna, in riva al mare. Una volta, quando il generale aveva circa otto anni, venne condotto lì per trascorrervi l’estate. Si viaggiava già con la ferrovia, molto lentamente. Le valigie, protette da fodere di canapa con su ricamate le iniziali della madre, vennero sistemate sulla reticella per i bagagli. A Parigi pioveva. Il fanciullo, dal fondo di una carrozza foderata di seta azzurra, guardava, attraverso i vetri appannati, la città che luccicava sotto la pioggia, simile al corpo squamoso di un grosso pesce. Vedeva tetti aguzzi e alti comignoli che emergevano grigi dalla sudicia coltre del cielo brumoso, come se gridassero ai quattro venti i segreti di destini diversi e incomprensibili. Vedeva donne che camminavano sotto la pioggia sollevando appena la gonna con una mano. Esse ridevano, e i loro denti brillavano come se la pioggia, la città estranea, i discorsi in francese fossero cose divertenti e meravigliose che un fanciullo non era in grado di capire. Aveva otto anni, sedeva compunto nella berlina accanto a sua madre, di fronte alla cameriera e all’istitutore, e sentiva di avere un compito da assolvere. L’attenzione di tutti era concentrata su di lui, sul piccolo selvaggio venuto da lontano, dalle foreste, da luoghi abitati ancora dagli orsi. Egli articolava le parole francesi con pignoleria e circospezione. Sapeva di parlare anche a nome del padre, del castello, dei cani, del bosco, del paese nativo che si era lasciato alle spalle. Un portone si aprì, la carrozza entrò in un vasto cortile, davanti all’ampia scalinata vide dei valletti in livrea che si sprofondarono in inchini. In tutto ciò vi era qualcosa di lievemente ostile. Lo condussero attraverso sale dove regnava un ordine che gli apparve inquietante e minaccioso. La

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nonna francese lo ricevette nel salone al piano superiore. Aveva gli occhi grigi e una fine peluria sul labbro; la sua chioma, che doveva essere stata rossa ed era adesso scolorita e opaca, come se il tempo si fosse dimenticato di lavarla, era raccolta in uno chignon al sommo del capo. Essa baciò il fanciullo, poi con le mani bianche e ossute gli piegò leggermente all’indietro la testa e rimase a fissarlo dall’alto. “ Tout de nuime” disse alla madre che stava in piedi lì accanto con aria preoccupata, come se il figlio stesse affrontando un esame, come se di lì a poco si dovesse scoprire qualcosa di spiacevole. Più tardi venne servito un decotto di tiglio. Tutto aveva un odore intollerabile, e il fanciullo venne colto dalla nausea. Verso mezzanotte scoppiò in pianto e cominciò a vomitare. “Fate venire Nini!” disse con voce soffocata. Giaceva sul letto, bianco come un cadavere. Il giorno dopo gli venne la febbre alta e cominciò a delirare. Arrivarono medici cerimoniosi in finanziera nera, con la catena dell’orologio d’oro infilata nell’asola centrale del panciotto bianco. Si chinarono sul fanciullo, e dalle loro barbe e dai loro abiti si sprigionò lo stesso odore che emanavano gli oggetti del palazzo, i capelli e la bocca della nonna francese. Il fanciullo aveva l’impressione che, se quell’odore non fosse scomparso, lui sarebbe morto. La febbre non diminuì neanche verso la fine della settimana, il polso affievolì i suoi battiti. Allora telegrafarono per far venire Nini. La balia impiegò quattro giorni per arrivare a Parigi. Alla stazione ferroviaria il maggiordomo con i favoriti, mandato a riceverla, non la individuò; Nini si avviò a piedi e si presentò al palazzo reggendo una sacca lavorata all’uncinetto. Arrivò nello stesso modo in cui migrano gli uccelli: non parlava francese, non conosceva le strade, non seppe mai rispondere a chi le chiedeva come fosse riuscita a raccapezzarsi in quella città sconosciuta, a rintracciare la casa che nascondeva dentro di sé il fanciullo ammalato. Entrò nella stanza, sollevò dal letto il piccolo moribondo che ormai giaceva stremato, con gli occhi lucidi e spalancati, unico segno di vita. Lo prese in grembo, lo strinse a sé con forza e rimase seduta in silenzio, cullandolo tra le braccia. Il terzo giorno, al fanciullo venne somministrata l’estrema unzione. Quella sera Nini uscì dalla stanza del malato e si rivolse alla contessa dicendole in ungherese: “ Credo che rimarrà in vita”. Non piangeva, era solo molto stanca perché non dormiva da sei giorni. Tornò nella stanza del malato, tirò fuori dalla sacca le provviste portate da casa e si mise a mangiare. Per sei giorni aveva lottato tenendo in vita il fanciullo con il calore del suo fiato. La contessa era rimasta in ginocchio davanti alla porta, piangendo e pregando. Erano restati tutti lì, la nonna francese, la servitù, un giovane prete dalle sopracciglia storte che entrava e usciva dal palazzo a tutte le ore del giorno. Le visite dei medici si diradarono. Il fanciullo partì per la Bretagna con Nini; la nonna francese, sconcertata e offesa, rimase a Parigi.. Naturalmente nessuno disse per quale motivo il fanciullo si fosse ammalato. Nessuno lo disse, però lo sapevano tutti. Aveva bisogno di affetto, e allorché quegli estranei si erano chinati su di lui, mentre quell’odore intollerabile lo investiva da tutte le parti, aveva deciso che era meglio morire. In Bretagna si udivano i rumori del vento e delle onde che irrompevano tra le vecchie pietre. Scogli rossastri affioravano dall’acqua. Nini, tranquilla, guardava sorridendo il mare e il cielo come se già li

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conoscesse. Ai quattro angoli del castello si ergevano dei tozzi torrioni di pietra grezza: in un passato ormai remoto, era di lassù che gli antenati della contessa avevano spiato l’arrivo di Surcouf, il pirata. Il fanciullo si abbronzava rapidamente e rideva spesso. Non sentiva più alcun timore, perché sapeva che loro due, lui e Nini, erano i più forti. Sedevano in riva al mare, e i lembi dell’abito blu scuro di Nini svolazzavano al vento. Tutto aveva sapore di sale, anche l’aria e i fiori. Ritirandosi al mattino, la marea lasciava dietro di sé ragni marini dalle zampe pelose, stelle di mare violacee e gelatinose e granchi dal ventre scarlatto, disseminati negli anfratti degli scogli rossastri lungo la riva. Nel cortile del castello c’era un fico pluricentenario, simile a un saggio orientale che ormai sappia raccontare solo storie estremamente semplici. Sotto il suo fitto fogliame si annidava una frescura dolce e profumata. Verso mezzogiorno, mentre il mare mormorava trasognato, il fanciullo sedeva lì in silenzio insieme alla balia.

“Diventerò poeta” disse una volta, alzando lo sguardo con la testa piegata di lato. Il vento gli scompigliava i riccioli biondi, mentre contemplava il mare tra le palpebre socchiuse. La balia lo abbracciò, gli prese il capo e se lo strinse al petto. Disse: “ No, tu diventerai un soldato “. “Come il babbo?” disse il fanciullo scuotendo il capo. “Anche il babbo è un poeta, non lo sai? Pensa sempre ad altro “.

“E’ vero“ rispose la balia sospirando. “ Non andare al sole, angelo mio. Ti verrà mal di testa”. Rimasero a lungo così, seduti sotto il fico. Ascoltavano il mare: il suo mormorio aveva qualcosa di familiare. Era simile a quello delle foreste di casa loro. Il fanciullo e la balia pensavano che a questo mondo vi era qualcosa in comune fra tutte le cose.

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5. Di fatti come questi ci si ricorda soltanto più tardi. Trascorrono interi decenni, si

passa per una camera buia in cui è morto qualcuno e a un tratto si ode il mormorio del mare, si riascoltano parole antiche. Come se quelle poche parole avessero dato espressione al significato della vita. Ma più tardi c’era sempre stata qualche altra cosa di cui parlare. In autunno, quando tornarono a casa dalla Bretagna, l’ufficiale della guardia aspettava la sua famiglia a Vienna. Il fanciullo venne iscritto al collegio militare. Gli diedero in dotazione uno spadino, dei pantaloni lunghi e un chepì. La domenica, con lo spadino allacciato intorno ai fianchi e la giubba blu scuro, gli allievi venivano condotti a passeggiare lungo il Graben. Sembravano bambini che giocassero ai soldati. Portavano guanti bianchi ed eseguivano con grazia il saluto militare. Il collegio era situato nei dintorni di Vienna, sulla cima di una collina. Era un edificio giallo, dalle finestre del secondo piano si potevano vedere la città vecchia con le sue strade rigorosamente dritte, la residenza estiva dell’imperatore, i tetti di Schonbrunn e i viali ritagliati fra le chiome potate degli alberi all’interno del grande parco. Nei candidi corridoi dai soffitti a volta, nelle aule scolastiche, nel refettorio, nelle camerate, ogni cosa era ancorata saldamente al suo posto, come se quello fosse l’unico luogo al mondo in cui tutto ciò che nella vita è caotico e superfluo fosse stato finalmente sistemato e messo in ordine. I precettori erano vecchi ufficiali. Tutto odorava di salnitro. Nelle camerate si dormiva in trenta: trenta ragazzi della stessa età per ogni stanzone, che dormivano, come l’imperatore, in angusti letti di ferro. Sopra l’ingresso era appeso un crocifisso con un rametto di palma benedetta. Di notte le lampade emanavano una luce azzurrognola. La mattina ci si destava al suono della tromba; ogni tanto, d’inverno, l’acqua per i lavaggi si ghiacciava nelle bacinelle di stagno. Allora gli attendenti portavano su dalla cucina grandi brocche piene di acqua calda.

Studiavano greco, balistica, il comportamento giusto da tenere di fronte al nemico, e storia. Il ragazzo era pallido e tossiva. Durante l’autunno, l’insegnante di religione lo accompagnò tutti i pomeriggi a fare una passeggiata nel parco di Schonbrunn. Procedevano con passo lento lungo i viali. L’acqua, sotto i raggi del sole, zampillava con riflessi dorati da una fontana di pietra corrosa da muffe e licheni verdastri. Passeggiavano tra file di alberi potati a regola d’arte; il ragazzo si metteva sull’attenti e alzava la mano guantata di bianco per salutare impettito, secondo il regolamento, i vecchi sol dati che passeggiavano nel parco in uniforme da parata, come se si celebrasse tutti i giorni il compleanno dell’imperatore. Un giorno una donna con un candido parasole di pizzo, a capo scoperto, passò veloce accanto a loro e il sacerdote si sprofondò in un inchino. “ L’imperatrice “ sussurrò all’orecchio del ragazzo. Il viso

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della donna era molto pallido, i suoi folti capelli neri erano raccolti in una triplice treccia avvolta intorno al capo. A tre passi di distanza la seguiva una signora vestita di nero che camminava un po’ curva, come se fosse stanca di procedere con tanta fretta. “L’imperatrice” disse ancora una volta il sacerdote in tono di profonda devozione. Il ragazzo seguì con lo sguardo la donna solitaria, che procedeva quasi a passo di corsa tra i filari del grande giardino, come se stesse fuggendo da qualcosa. “Somiglia alla mamma” disse, perché gli venne in mente il quadro appeso sopra il tavolo nello studio di suo padre.

“Questo non si deve dire” rispose gravemente il sacerdote. Studiavano dalla mattina alla sera l’elenco delle cose che non si dovevano dire. Nel

collegio, dove venivano educati quattrocento ragazzi, regnava un silenzio pari a quello che cova all’interno di una bomba un minuto prima dell’esplosione. Confluivano lì da ogni parte dell’Impero: arrivavano dai palazzi della Boemia, con i capelli biondi come il grano, il naso camuso e languide mani bianche, da residenze nobiliari in Moravia, da rocche tirolesi e castelli di caccia stiriani, dai grandi palazzi con le persiane serrate delle stradine intorno al Graben e dalle dimore di campagna ungheresi. Avevano lunghi nomi con numerose consonanti e molte particelle nobiliari, titoli e ranghi che lì nel collegio dovevano, per così dire, riporre nel guardaroba, come gli abiti civili di qualità pregiata confezionati a Vienna e a Londra e la biancheria intima di marca olandese. Di tutto ciò rimaneva soltanto un nome, e il ragazzo che portava quel nome doveva adesso imparare che cosa era consentito e che cosa non lo era. C’erano dei ragazzi slavi dalla fronte stretta nel cui sangue confluivano tutte le caratteristiche umane dell’Impero, c’erano degli aristocratici sui dieci anni di età, con gli occhi azzurri, l’aria esausta e lo sguardo perso nel nulla, come se i loro antenati avessero già visto ogni cosa al loro posto. Un giorno un principino tirolese si uccise all’età di dodici anni con un colpo di pistola perché si era innamorato di una cugina.

Konrad dormiva nel letto accanto al suo. Quando si conobbero, avevano dieci anni. Era massiccio e magro al tempo stesso, come i discendenti di talune razze molto antiche nel cui corpo l’ossatura predomina sulla carne. Era piuttosto lento senza essere pigro: seguiva intenzionalmente un ritmo moderato. Suo padre, un funzionario che aveva ottenuto il titolo di barone, viveva in Galizia, sua madre era polacca. Quando sorrideva, un’espressione dolce e infantile, tipica degli slavi, gli piegava gli angoli della bocca. Ma sorrideva di rado. Era silenzioso e attento. Vissero insieme sin dal primo istante, come gemelli nell’utero materno. Non ebbero bisogno di stringere patti di amicizia come fanno di solito i ragazzi della loro età, che indulgono con passionalità enfatica a rituali ridicoli e solenni, nella forma inconsapevole e grottesca in cui il desiderio si manifesta tra gli uomini quando decide per la prima volta di strappare il corpo e l’anima di un’altra persona al resto del mondo per possederla in maniera esclusiva. Il senso dell’amore e dell’amicizia è tutto qui. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i grandi sentimenti destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa. Non ci si può appropriare

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impunemente di una persona, sottraendola a tutti gli altri. Inoltre si resero conto, sin dal primo istante, che quell’incontro li avrebbe vincolati per tutta la vita. Il ragazzo ungherese era longilineo e fragile, a quei tempi il medico lo visitava una volta alla settimana: si temeva per i suoi polmoni. Su invito del generale moravo che dirigeva il collegio, l’ufficiale della guardia si recò a Vienna e si intrattenne a lungo con i medici. Di tutto Ciò che dissero afferrò soltanto una parola: “ pericolo “. In effetti, dichiararono, il ragazzo non era ammalato però aveva una predisposizione alle malattie. Esisteva, dissero vagamente, un certo pericolo. L’ufficiale della guardia prese alloggio in un vicolo buio, all’ombra del duomo di Santo Stefano, nella locanda denominata Al Re d’Ungheria dove in passato aveva alloggiato anche suo nonno. C’erano corna di cervo appese nei corridoi. L’inserviente salutava l’ufficiale della guardia dicendo: “Bacio le mani”. Questi occupava due grandi stanze buie dal soffitto a volta zeppe di mobili tappezzati di seta gialla. Durante quel soggiorno prese con se il fanciullo, abitarono insieme alla locanda, dove sopra la porta di ogni stanza si leggevano i nomi degli ospiti più assidui e stimati, come se quell’edificio fosse una specie di monastero laico destinato ad accogliere i signori della monarchia che viaggiavano soli. Una mattina presero una carrozza e si fecero portare al Prater. Cominciava già a far freddo, era l’inizio di novembre. La sera si recarono a teatro: sul palcoscenico si vedevano degli eroi che inveivano, si trafiggevano con la propria spada e crollavano a terra rotolando. Quindi andarono a mangiare al ristorante, in una saletta riservata dove furono serviti da numerosi camerieri. Il fanciullo sedeva accanto al padre in silenzio, con l’aria educata di un vecchio, come se stesse sopportando e perdonando qualcosa.

“Sostengono che sei in pericolo” disse dopo cena il padre, come parlando tra sé, e si accese un grosso sigaro nero. “Se vuoi, puoi tornare a casa. Ma preferirei che tu non avessi paura di affrontare il pericolo “. “Non ho paura, babbo” disse il ragazzo. “Quel che desidero è che Konrad rimanga sempre con noi. La sua famiglia non è ricca. Vorrei che venisse a trascorrere l’estate a casa nostra”. “E’ amico tuo?” domandò il padre. “ Sì “.

“Allora è anche amico mio “ concluse gravemente il padre. Indossava il frac e una camicia pieghettata. Negli ultimi tempi non metteva più

l’uniforme. Il ragazzo tacque con sollievo. Della parola del babbo ci si poteva fidare. Quando andavano in giro per Vienna, lo conoscevano ovunque, sia nei negozi - dal guantaio, dal camiciaio, dal sarto - sia nei ristoranti, dove solenni capocamerieri sovrintendevano ai tavoli, e anche per strada, dove uomini e donne si sporgevano dalle carrozze per salutarlo con cenni amichevoli. “Andrai dall’imperatore?” domandò un giorno il fanciullo prima che il padre partisse “ Dal re “ lo corresse severo il padre.

Quindi dichiarò: “Non andrò più da lui “. Il ragazzo comprese che tra il sovrano e suo padre era accaduto qualcosa. Il giorno in

cui questi partì gli presentò Konrad. La sera prima si era addormentato col batticuore: come se si preparasse al suo fidanzamento. “Non si deve parlare del re davanti a lui” raccomandò all’amico. Il padre fu benevolo e affettuoso si comportò da gran signore.

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Accolse Konrad in seno alla famiglia con una semplice stretta di mano. Da quel giorno la tosse del ragazzo si attenuò. Non era più solo. Una cosa che non poteva sopportare era sentirsi solo in mezzo alla gente. L’educazione che portava nel sangue, che gli veniva dalle foreste native, da Parigi, dalla morbosa sensibilità della madre, gli imponeva di non parlare di ciò che lo affliggeva, ma di sopportare in silenzio. Aveva imparato che la cosa più saggia era tacere. Ma non poteva vivere senza affetto: anche questo faceva parte della sua eredità. Forse era stata la madre francese a trasmettergli quel cocente desiderio di confidare i propri sentimenti a qualcuno. Nella famiglia del padre non si parlava di cose simili. Aveva bisogno di qualcuno su cui riversare il suo affetto: Nini oppure Konrad. Allora la febbre arretrava, gli passava la tosse, il suo volto pallido e magro si tingeva di rosa sotto la spinta dell’entusiasmo e della fiducia. I due ragazzi avevano un’età in cui il sesso non ha ancora un carattere ben definito: è come se non . avessero ancora fatto la loro scelta. Ogni due settimane, il barbiere tagliava a zero i morbidi capelli biondi di Henrik, quei capelli che lui detestava perché aveva l’impressione che gli conferissero un aspetto femminile. Konrad era più virile, più pacato. L’adolescenza si spalancava dinanzi a loro, ed essi la affrontarono senza provare alcun timore, perché non erano più soli. Al termine della prima estate, allorché i ragazzi partirono in carrozza per far ritorno a Vienna, dal portone d’ingresso del castello la mamma francese li seguì a lungo con lo sguardo. Quindi si rivolse a Nini e disse con un sorriso:

“ Finalmente un matrimonio riuscito “. Ma Nini non sorrise. I ragazzi arrivavano insieme tutte le estati, e più tardi trascorsero al castello anche le feste di Natale. Condividevano ogni cosa, dagli abiti alla biancheria intima; al castello occupavano una stanza tutta per loro, leggevano contemporaneamente gli stessi libri, scoprirono insieme Vienna e le foreste, i libri e la caccia, l’equitazione e le virtù militari, i rapporti sociali e l’amore. Nini aveva paura, forse era anche un po’ gelosa. Quell’amicizia durava ormai da quattro anni, i ragazzi cominciavano a isolarsi dal mondo e coltivavano dei segreti. Il loro rapporto diventava sempre più profondo, sempre più affannoso. Il figlio dell’ufficiale della guardia era fiero di Konrad, si gloriava della sua amicizia, gli sarebbe piaciuto presentarlo a tutti come si fa con un’opera d’arte, con un capolavoro, e allo stesso tempo avrebbe voluto tenerlo lontano da tutti per timore che qualcuno potesse sottrargli la persona che amava. “Così è troppo” disse Nini alla contessa. “Un bel giorno Konrad lo lascerà. E questo lo farà soffrire molto “.

“E’ una lezione che dobbiamo imparare tutti” disse la madre, seduta davanti allo specchio con lo sguardo fisso sulla sua bellezza che sfioriva. “Un bel giorno siamo destinati a perdere la persona che amiamo. E se qualcuno non sopporta il colpo, peggio per lui: non è un uomo di carattere “.

Nel collegio smisero presto di prendersi gioco di quell’amicizia, si abituarono ad essa come se fosse un fenomeno naturale. Ormai li nominavano solo insieme, come si fa con le coppie sposate. Ma non li prendevano in giro. Nel loro rapporto, pieno di tenerezza, serietà e dedizione, vi era qualcosa di fatale, di così luminoso da scoraggiare qualsiasi sarcasmo. Le relazioni di questo genere suscitano un senso d’invidia in tutte le comunità

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umane. Non c’è nulla che gli uomini desiderino con tanto ardore come un’amicizia disinteressata. Ma è un desiderio senza speranza. Al collegio, i ragazzi si rifugiavano nell’orgoglio delle loro origini o negli studi, in dissolutezze precoci, in prodezze fisiche o in amori prematuri, sconclusionati e tristi. In questa confusione umana, l’amicizia di Henrik e Konrad irradiava una luce mansueta simile a quella di certe cerimonie votive medioevali. Non c’è nulla di più raro, tra i giovani, di un sentimento disinteressato che non chieda soccorso né esiga sacrifici in cambio. La gioventù si aspetta sempre un sacrificio da coloro nei quali ha riposto le proprie speranze. I due ragazzi si rendevano conto di trovarsi in una condizione ineffabile, meravigliosa, una sorta di stato di grazia.

Non c’è nulla di più delicato di una relazione come questa. Tutto ciò che la vita darà più tardi - sentimenti teneri o desideri brutali, passioni impetuose e vincoli fatali - sarà più rozzo e più disumano. Konrad era serio e pudico, e fin dall’età di dieci anni si avvertiva in lui l’uomo che sarebbe diventato. Quando i ragazzi entrati nell’adolescenza, cominciarono a prendere gusto alle sconcezze, a frugare con squallida spavalderia nei segreti che circondano la vita degli adulti, Konrad fece giurare a Henrik che avrebbero condotto una vita casta. Si attennero a lungo a quel giuramento. Non fu una cosa facile. Ogni due settimane andavano a confessarsi, dopo aver preparato insieme l’elenco dei loro peccati. I desideri si facevano sentire nel sangue e nei nervi, i ragazzi erano pallidi e soffrivano di vertigini a ogni cambiamento di stagione. Ma si mantennero casti, come se il magico manto dell’amicizia steso sulle loro giovani vite li ripagasse di tutto ciò che gli altri, i curiosi e gli irrequieti, cercavano con tanta frenesia, e che li spingeva verso le regioni più oscure e i bassifondi dell’esistenza.

Vivevano secondo un ordine rigoroso dettato da secoli di esercizio e di esperienza. Tutte le mattine, a torso nudo, con i bendaggi protettivi e la maschera, tiravano di scherma per un’ora nella sala di ginnastica del collegio. Si dedicavano inoltre all’equitazione. Henrik era un buon cavallerizzo, mentre Konrad, a cavallo, lottava disperatamente per mantenere l’equilibrio e rimanere in sella; il suo corpo non conservava più la memoria della predisposizione ereditaria. Henrik imparava in fretta, Konrad con fatica, però tratteneva avidamente le nozioni acquisite, con l’attaccamento spasmodico di chi sa di non possedere altre ricchezze al mondo. Henrik si muoveva con scioltezza anche in società, distrattamente e con padronanza assoluta, come se il mondo non potesse più riservargli sorprese; Konrad era rigido e impettito, si limitava a rispettare strettamente le regole. Un’estate, quando avevano già il grado di ufficiali, si recarono in Galizia dai genitori di Konrad. Il barone - un uomo anziano e calvo, pieno di deferenza, logorato da quarant’anni di servizio in Galizia e dalle ambizioni sociali insoddisfatte della moglie, una nobildonna polacca- si fece in quattro, con aria servizievole e imbarazzata, per offrire qualche svago ai due signorini. Nella città, con le sue vecchie torri, il pozzo in mezzo alla piazza centrale quadrata e le camere buie dai soffitti a volta, regnava un’atmosfera soffocante. Gli abitanti, ucraini, tedeschi, ebrei, russi, vivevano immersi in una sorta di mormorio diffuso, attutito e tenuto a bada dalle autorità: era come se nella città, nelle abitazioni buie e senz’aria, qualcosa stesse

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fermentando di continuo, una rivoluzione, o più semplicemente qualche meschina e rumorosa forma di mal contento. Le case, le piazze, la vita, tutto in città emanava un senso di attesa e di eccitazione surriscaldata, come un caravanserraglio. Solo la cattedrale spiccava serena, con il suo robusto campanile e le sue arcate spaziose, su quel brulichio chiassoso, stridulo e cantilenante, quasi fosse il simbolo di una legge definitiva e immutabile promulgata un tempo nella città. I ragazzi erano alloggiati in albergo, perché l’abitazione del barone era composta di tre stanzette anguste. La prima sera, dopo una cena abbondante, con carni grasse e speziate e pesanti vini aromatici - il vecchio funzionario, padre di Konrad, e la donna polacca sfiorita e malinconica, sua madre, impiastricciata di belletto viola e carminio come un pappagallo, avevano fatto servire quel pasto sontuoso con una trepidazione commovente, come se la felicità di quell’unico figlio, che tornava a casa di rado, dipendesse dalla qualità del cibo -, i giovani ufficiali, prima di coricarsi, rimasero seduti a lungo nella penombra di un cantuccio, decorato con palme polverose, della locanda galiziana. Bevevano vino ungherese e fumavano in silenzio. “Adesso li hai visti” disse Konrad. “ Sì “ disse mortificato il figlio dell’ufficiale della guardia.

“Allora sai tutto” disse l’altro a voce bassa, con gentilezza. “Puoi immaginare che cosa si faccia qui, per amor mio, da ventidue anni “. “ Lo so “ disse Henrik, e sentì un groppo alla gola. “Ogni paio di guanti che devo comprare, se usciamo tutti insieme per andare al Teatro di Corte, proviene da qui. Se ho bisogno di nuovi finimenti per il cavallo, qui non mangiano carne per tre mesi. Se devo dare una mancia durante un ricevimento, mio padre non fuma il sigaro per una settimana. Questa storia va avanti così da ventidue anni. E ho sempre avuto tutto il necessario. Da qualche parte in Polonia, vicino alla frontiera russa, c’è una grande tenuta. Non l’ho mai vista. Era di proprietà di mia madre. E’ di là che mi è venuto tutto: l’uniforme, la retta del collegio, i biglietti per gli spettacoli teatrali, il mazzo di fiori inviato a tua madre quella volta che venne di passaggio a Vienna, le tasse per gli esami, persino le spese del duello, quando sono stato costretto a battermi con quel bavarese. Tutto, da ventidue anni. Prima hanno venduto i mobili, il giardino, la terra, la casa. Poi hanno sacrificato la loro salute, le loro comodità, la pace della loro vecchiaia, le ambizioni sociali di mia madre, la possibilità di avere una camera in più in questa città pidocchiosa, di arredarla con mobili decenti e di invitare qualche ospite di tanto in tanto. Ti rendi conto?”. “ Perdonami “ disse Henrik, pallido e agitato. “Non ce l’ho con te” disse l’amico con molta serietà. “Volevo solo che ti rendessi conto con i tuoi occhi di come stanno le cose. Quando quel bavarese mi è saltato addosso con la spada sguainata, tirando fendenti come un ossesso e pieno di buonumore, come se rischiare di rimanere storpi per soddisfare la propria vanità fosse un bello scherzo, mi è venuta in mente la faccia di mia madre, che va al mercato tutte le mattine per evitare che la cuoca la imbrogli intascando due centesimi, perché alla fine dell’anno i due centesimi saranno diventati cinque fiorini che potrà infilare in una busta per inviarli a me... In quel momento avrei potuto veramente ucciderlo, quel bavarese che voleva infierire su di me per pura vanagloria, senza rendersi conto che ogni graffio

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inferto a me era un peccato mortale contro quelle due persone che, quassù in Galizia, avevano sacrificato in silenzio la loro vita per me. Ogni volta che a casa vostra offro una mancia a un val letto, spendo qualcosa della loro vita. E molto difficile vivere in questo modo “ concluse arrossendo.

“Perché?” domandò l’altro sottovoce. “Non credi che loro siano contenti così?... “. “ Loro magari sì “. Il giovane rimase in silenzio. Fino ad allora non aveva mai toccato questo argomento. Ora si decise a farlo, interrompendosi di tanto in tanto e senza guardare negli occhi l’amico. “Ma per me è molto difficile vivere in questo modo. E’ come se non appartenessi a me stesso. Se sono ammalato, mi spavento come se stessi dilapidando un patrimonio altrui, qualcosa che mi appartiene solo in parte: la mia salute. Sono un soldato, sono stato allevato per saper uccidere e per farmi uccidere. Ho prestato giuramento in questo senso. Ma se io venissi ucciso, perché loro avrebbero sopportato tanti disagi? Capisci adesso?... Da ventidue anni vivono in questa città, dove aleggia un tanfo soffocante, come quello di un sudicio covo dove abbiano bivaccato le carovane di passaggio... Quell’odore di cibo, di profumi scadenti, di letti sfatti. Vivono qui, senza mai un lamento. Da ventidue anni mio padre non è più stato a Vienna, dove è nato e cresciuto. Da ventidue anni mai un viaggio, mai un capo di abbigliamento superfluo, mai un’escursione estiva, perché bisognava fare di me un capolavoro, realizzando così ciò che loro stessi, per debolezza, non hanno mai raggiunto nella loro vita. Ogni tanto, quando sto per fare qual cosa, la mia mano si ferma a mezz’aria. Il senso di responsabilità mi paralizza. Mi è già capitato di augurarmi che morissero “ concluse in un bisbiglio. “ Sì “ assentì gravemente Henrik. Rimasero nella città quattro giorni. Quando partirono, ebbero per la prima volta nella vita l’impressione che tra loro fosse accaduto qualcosa. Come se uno dei due avesse contratto un debito con l’altro. Era qualcosa che non si poteva esprimere a parole.

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6. Ma Konrad possedeva un rifugio dove l’amico non poteva seguirlo: la musica. Era

come se disponesse di un nascondiglio segreto dove la mano del mondo non poteva raggiungerlo. Henrik non aveva orecchio musicale, si accontentava della musica zigana e dei valzer viennesi.

Nel collegio non si parlava di musica, tutti - sia i precettori che gli allievi - si limitavano piuttosto a tollerarla e la consideravano con indulgenza, come una specie di capriccio giovanile. Ciascuno ha un debole per qualcosa. C’è chi alleva cani, chi ha la passione dei cavalli. Ascoltare musica è meglio che giocare a carte, pensavano. Ed è meno pericoloso che correre dietro alle donne.

Ma ogni tanto Konrad si chiedeva se la musica fosse una passione davvero innocua. Al collegio, naturalmente, quella rivolta, l’insurrezione della musica, non era ammissibile. I piani di studio prevedevano anche la conoscenza delle nozioni fondamentali della musica, ma più che altro in senso generale. Alle sfilate la musica era quella delle trombe, con il tamburo maggiore che marciava in testa e ogni tanto sollevava in alto il suo bastone d’argento, mentre un piccolo pony seguiva i musicanti trainando la grancassa. Era una musica sonora e ritmata, che disciplinava il passo della truppa, attirava la gente nelle strade ed era un elemento indispensabile di qualsiasi parata. A suon di musica si camminava con passo più marziale, e questo era tutto. La musica a volte era scherzosa, a volte pomposa e solenne. A parte questo, nessuno se ne curava.

Ma Konrad impallidiva ogni volta che l’ascoltava. Qualsiasi tipo di musica, anche la più volgare, lo toccava intimamente, come un’aggressione fisica. Impallidiva, e le sue labbra cominciavano a tremare. Gli trasmetteva emozioni alle quali gli altri restavano indifferenti Probabilmente le melodie non si rivolgevano soltanto al suo intelletto. Quando ascoltava la musica, la disciplina che gli era stata inculcata, grazie alla quale si era conquistato un rango nel mondo e che aveva volontariamente accettato come il credente accetta la punizione e la penitenza, si allentava, e la sua rigidezza innaturale e forzata si scioglieva, come quando alle parate, al termine di lunghe e sfibranti evoluzioni, risuona improvviso l’ordine: “Riposo!”. Le sue labbra cominciavano a tremare, dimenticava il luogo in cui si trovava, i suoi occhi sorridevano, il suo sguardo si perdeva nel vuoto, non vedeva più nulla di ciò che lo circondava, né i superiori, né i compagni, né le belle signore e il pubblico che affollava il teatro. Sentiva la musica con tutto il suo corpo, se ne abbeverava come un assetato, l’ascoltava come un prigioniero che tenda l’orecchio al suono di passi che si avvicinano e che gli portano forse la notizia della liberazione. Se qualcuno gli rivolgeva la parola in quei momenti, non se ne

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accorgeva. La musica dissolveva ogni cosa intorno a lui, abolendo per un attimo le leggi di quel patto artificioso: in quei momenti, Konrad non era più un soldato. Una sera d’estate, mentre Konrad e la madre di Henrik stavano suonando un pezzo per pianoforte a quattro mani, accadde qualcosa. In attesa della cena, l’ufficiale della guardia e suo figlio, seduti in un angolo del salone, ascoltavano educatamente la musica, con la condiscendenza compunta e la remissività di chi dice: “ La vita è tutta un dovere, bisogna sopportare anche la musica. Non ci si può mostrare annoiati davanti a una signora”. La contessa suonava con trasporto: eseguivano la Fantaisie polonaise di Chopin. Nella stanza tutto sembrava vibrare. Mentre aspettavano, educati e pazienti, nelle loro poltrone in un angolo del salone, padre e figlio si resero conto che in quei due corpi, della madre e di Konrad, stava avvenendo qualcosa di strano. Dalla musica sembrava sprigionarsi una forza eversiva capace di sollevare i mobili e di gonfiare i pesanti tendaggi di seta alle finestre. Era come se tutte le cose vecchie e ammuffite, sepolte da tempo nei cuori umani, ricominciassero a vivere, come se nel cuore di ogni essere si annidasse un ritmo mortale che, a un certo punto della vita, potrebbe mettersi a pulsare con implacabile violenza. Gli ascoltatori pazienti compresero che la musica rappresentava un pericolo. Ma quei due al pianoforte, la madre e Konrad, non si curavano più del pericolo. La Fantaisie polonaise era solo un pretesto allo scatenarsi di forze che sommuovono e fanno esplodere tutto ciò che di solito viene accuratamente occultato dall’ordinamento umano. Sedevano rigidi davanti al pianoforte, col busto eretto appena inclinato all’indietro, come se la musica avesse lanciato nello spazio un mitico cocchio alato tirato da focosi destrieri invisibili, e come se fossero loro a tenere con mano ferma, in quella corsa impetuosa, le redini delle forze scatenate. Quindi si interruppero all’unisono, con un unico accordo. Un raggio di sole al tramonto penetrò dal la finestra e nel fascio di luce volteggiò un pulviscolo dorato, come se al seguito dei cavalli alati che guidavano il magico cocchio ormai lontano della musica la polvere si alzasse lungo la via celeste che conduce verso la distruzione e il nulla.

“ Chopin “ disse la donna francese respirando a fatica. “ Suo padre era francese “. “ E sua madre polacca” disse Konrad, e guardò fuori dalla finestra, con la testa piegata di lato. “Era parente di mia madre” aggiunse rapidamente, come se quella parentela lo mettesse in imbarazzo. Tutti rimasero impressionati, perché nella sua voce risuonava la stessa tristezza che vibra in quella degli esuli quando parlano della patria e della casa lontana. L’ufficiale della guardia, leggermente piegato in avanti, osservò con attenzione l’amico del figlio, come se lo vedesse per la prima volta. Quella sera, quando rimase solo col figlio nel fumoir, gli disse: “ Konrad non diventerà mai un vero soldato “. “Perché?” chiese spaventato il ragazzo. Ma sapeva che suo padre aveva ragione. L’ufficiale della guardia alzò le spalle, accese il sigaro, allungò le gambe verso il camino e contemplò il fumo che saliva dal sigaro. Con la calma e il tono di superiorità dell’esperto, disse:

“ Perché è un uomo diverso “. Fu solo parecchi anni dopo, quando il padre non era più in vita, che il generale arrivò a comprendere quella frase.

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7. Sappiamo sempre qual è la verità, quella verità diversa che viene occultata dai ruoli,

dalle maschere, dalle circostanze della vita. I due ragazzi furono educati insieme, prestarono giuramento lo stesso giorno e abitarono insieme durante gli anni in cui rimasero a Vienna, perché l’ufficiale della guardia fece in modo che suo figlio e Konrad trascorressero i loro primi anni di servizio nelle vicinanze della corte. Presero in affitto un appartamento nei pressi del parco di Schonbrunn, al primo piano di uno stretto edificio dalla facciata grigia. Le finestre si aprivano su un giardino lungo e stretto, afoso e invaso dai susini. I due giovani disponevano di tre stanze presso la vedova sorda di un medico del l’esercito. Konrad noleggiò un pianoforte, però suonava raramente; era come se temesse la musica. Vivevano lì come fossero fratelli, ma a volte il figlio dell’ufficiale della guardia intuiva con disagio che l’amico gli nascondeva un segreto.

Konrad era “ un uomo diverso “, e non era possibile avvicinarsi al suo segreto ponendogli delle domande. Era sempre calmo. Non discuteva mai. Adempiva ai suoi doveri, comunicava con i commilitoni, frequentava la società, si comportava come se il servizio militare dovesse durare in eterno, come se la vita non fosse altro che un unico esercizio disciplinare, un orario di servizio prolungato, in vigore non solo di giorno ma anche di notte. Erano giovani, e ogni tanto il figlio dell’ufficiale della guardia si rendeva conto con inquietudine che Konrad conduceva una vita monacale. Era come se non vivesse realmente in questo mondo. Come se al termine dell’orario ufficiale di servizio iniziasse per lui un altro tipo di servizio, più complesso e rigoroso, così come nella vita del monaco il regolamento non stabilisce soltanto le ore da dedicare alla preghiera e alla pratica di riti devoti, ma impone anche momenti di solitudine e di riflessione, fino a comprendere addirittura il tempo dei sogni. Konrad temeva la musica, con cui coltivava una relazione segreta, che coinvolgeva non solo la sua coscienza ma anche il suo corpo: come se il senso più profondo della musica consistesse in una specie di imposizione fatale che poteva deviarlo dalla sua traiettoria e spezzare qualcosa dentro di lui. La mattina i due amici andavano a cavallo insieme, al Prater o alla scuola di equitazione, quindi Konrad sbrigava le sue incombenze e rientrava nel loro appartamento di Hietzing. A volte trascorreva settimane intere senza uscire di sera. Nella vecchia casa, per l’illuminazione si usavano ancora le candele e le lampade a petrolio. Il figlio dell’ufficiale della guardia rientrava quasi sempre dopo mezzanotte, reduce da un ballo o da qualche ricevimento, e mentre si trovava ancora per strada scorgeva dalla vettura a nolo la flebile luce vacillante dietro la finestra della stanza dell’amico. I segnali lanciati da quella finestra illuminata avevano un’aria vagamente accusatoria. Henrik allungava una moneta al vetturino, si fermava nella stradina silenziosa, si sfilava i guanti, tirava

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fuori la chiave di casa e aveva la sensazione di essersi reso colpevole, anche quella sera, di un tradimento nei confronti dell’amico. Arrivava dal mondo, dove nei ristoranti, nelle sale da ballo e nei salotti del centro si suonava una musica languida, molto diversa da quella che Konrad amava. Quella musica faceva sembrare la vita più gradevole e solenne, faceva brillare gli occhi delle donne e lusingava la vanità degli uomini. Era questo il senso della musica che si suonava nella città, nei luoghi in cui il figlio dell’ufficiale della guardia trascorreva le notti negli anni della sua gioventù. Ma la musica che piaceva a Konrad non era fatta per stordire, toccava le passioni e i rimorsi degli uomini, faceva sorgere nei cuori e nelle coscienze il senso di una vita più concreta. “E’ un genere di musica che fa paura” si disse Henrik una sera e, per ripicca, si mise a fischiettare un valzer. Quell’anno, a Vienna, si fischiettavano ovunque i valzer di un compositore alla moda, Johann Strauss figlio. Henrik tirò fuori la chiave di casa, spinse il vetusto portone che si aprì lentamente, cedendo a fatica, e si trovò nell’ampio sottoscala, illuminato da una lampada a petrolio, ai piedi di un’umida scalinata dalla copertura a volta. Si fermò un attimo a guardare il giardino, imbiancato dalla neve sotto il chiaro di luna, come se fosse disegnato col gesso tra i confini neri degli oggetti circostanti. Tutto era tranquillo, Vienna dormiva già. Era immersa in un sonno profondo. Nevicava. Anche l’imperatore dormiva già nel suo palazzo, e cinquanta milioni di uomini dormivano nei paesi dell’imperatore tutto attorno. Il figlio dell’ufficiale della guardia si rendeva conto di essere in certo qual modo partecipe di quel silenzio, di vigilare anche lui sul sonno e sulla sicurezza dell’imperatore e di cinquanta milioni di esseri umani. Il suo contributo consisteva semplicemente nell’indossare con onore l’uniforme, nel trascorrere le sue serate in società, ad ascoltare valzer, a bere vino rosso francese e a intrattenersi con le signore e i signori, esattamente come ci si aspettava da lui. Il figlio dell’ufficiale della guardia si rendeva conto di rispettare ordini scritti e non scritti estremamente perentori, sentiva che la sua obbedienza, in caserma, al poligono di tiro e nei salotti, era al tempo stesso un servizio. Il senso di sicurezza di cinquanta milioni di esseri umani si basava su questa consapevolezza: che l’imperatore si coricava prima di mezzanotte, si alzava alle cinque del mattino e sedeva nella sua poltroncina americana di vimini, a lume di candela, davanti alla scrivania, e che tutti gli altri, quelli che avevano giurato fedeltà al suo nome, obbedivano alle consuetudini e alle leggi. Naturalmente bisognava obbedire anche in un senso più profondo di quello prescritto dalle leggi. L’obbedienza si portava iscritta nel cuore, era questa la cosa più importante. Bisognava aver fede nel fatto che tutto fosse in ordine. A quel tempo il figlio dell’ufficiale della guardia e l’amico avevano ventidue anni, e vivevano a Vienna.

Il figlio dell’ufficiale della guardia salì i gradini tarlati della scala fischiettando a fior di labbra la melodia di un valzer. In quella casa tutto odorava di muffa le stanze, il vano delle scale, ma al tempo stesso tutto emanava una sorta di lieve profumo dolce e sciropposo di conserve di frutta. Quell’inverno, il carnevale esplose a Vienna come un’epidemia benigna e gioconda. Si ballava tutte le sere, sotto le luci sfarfalleggianti delle fiammelle a gas, nei saloni bianchi e dorati. Cadde molta neve, e nelle vie

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imbiancate i vetturini portavano silenziosamente in giro le coppie di innamorati. Vienna ballava sotto la nevicata. Il figlio dell’ufficiale della guardia andava ogni mattina alla vecchia scuola di equitazione per osservare i cavallerizzi spagnoli e le evoluzioni dei bianchi cavalli lipizzani. C’era qualcosa che vibrava nel corpo degli animali e dei cavallerizzi, una sorta di eleganza e di nobiltà, di grazia e di armonia quasi colpevoli, qualcosa che sempre si annida negli animi vetusti e nei corpi di antico lignaggio. Poi andava a fare una lunga camminata, perché era giovane. Si soffermava davanti ai negozi del centro, sull’”isola delle scimmie”, e ogni tanto un vecchio cameriere o un vetturino lo riconoscevano, perché rassomigliava a suo padre. Vienna, l’Impero, ungheresi, tedeschi, moravi, cechi, serbi, croati e italiani, formavano un’unica grande famiglia, e all’interno di questa ciascuno intuiva in segreto che l’unico in grado di mantenere l’ordine, in quella marea di desideri, inclinazioni e passioni tumultuose, era l’imperatore, che era contemporaneamente sergente maggiore in servizio perpetuo e maestà, funzionario statale con i coprigomiti in lustrino e grand seigneur, bifolco e sovrano. Vienna era piena di allegria. Nel centro cittadino, nelle cantine ammuffite dai soffitti a botte, si spillava la birra migliore del mondo, e quando le campane annunciavano il mezzogiorno l’aroma del sugo di gulasch si diffondeva per tutta la città. Nelle strade e negli animi regnava un’atmosfera di benevolenza e di cordialità, come se la pace tra gli uomini fosse destinata a durare in eterno. Le donne, con il nasino e gli occhi luccicanti dietro la veletta abbassata per coprirsi il volto sotto la nevicata, sfoggiavano manicotti di pelliccia e cappelli ornati di piume. Nei caffè, alle quattro del pomeriggio si accendevano le lampade a gas e si serviva il caffè con la panna. Generali e funzionari statali sedevano ai tavolini riservati ai clienti abituali. Le donne, frementi di emozione, si raggomitolavano in fondo alle vetture a nolo e si affrettavano verso garconnière nei cui camini ardevano grossi ceppi: era carnevale, e l’amore, quasi fosse l’agente di una gigantesca congiura estesa all’intera città senza distinzione di classi, si impossessava di tutti i cuori. Un’ora prima dell’apertura dei teatri, nella cantina della residenza cittadina del principe Esterhàzy si davano appuntamento in segreto gli appassionati di vini generosi. Nelle salette private del Sacher si apparecchiavano i tavoli per gli arciduchi, e nei locali surriscaldati e fumosi della cantina abbaziale aperta da poco nelle vicinanze del duomo di Santo Stefano, gentiluomini polacchi tristi e scalmanati tracannavano un bicchiere di acquavite dopo l’altro brindando alla patria infelice. Ma, a parte loro, quell’inverno a Vienna si aveva talvolta l’impressione che tutti fossero felici. Così si diceva il figlio dell’ufficiale della guardia mentre fischiettava a fior di labbra e sorrideva. Nell’anticamera, il calore della stufa di maiolica lo accolse come una stretta di mano fraterna. In quella città tutto era così ampio e spazioso, tutto e tutti erano cosi perfettamente al loro posto: gli arciduchi si comportavano a volte da bifolchi e i portinai, in segreto, sentivano di occupare un gradino in una gerarchia umanissima e infinita. L’attendente, seduto accanto alla stufa, balzò in piedi, prese in consegna il pastrano, il chepì e i guanti del padrone, quindi si affrettò ad allungare una mano verso la nicchia della stufa dove si tenevano in caldo le vivande, e prese la bottiglia di vino rosso

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francese di cui il giovane, ogni sera, sorseggiava un bicchiere prima di andare a letto, come se volesse congedarsi dalla giornata e dai ricordi leggeri della serata con i saggi suggerimenti del vino di Borgogna. L’attendente lo seguì come al solito nella stanza di Konrad, portando la bottiglia su un vassoio d’argento.

Talvolta i due amici si intrattenevano fino all’alba nella stanza immersa nella penombra, finché la stufa non si raffreddava e il figlio dell’ufficiale della guardia non aveva vuotato fino all’ultima goccia la bottiglia di vino di Borgogna. Konrad parlava delle sue letture, Henrik della vita. Konrad non aveva denaro sufficiente per dedicarsi agli svaghi. La vita militare per lui rappresentava un mestiere, un mestiere che comportava una divisa, un rango, problemi delicati e conseguenze di ogni genere. Il figlio dell’ufficiale della guardia sentiva che la loro amicizia, la loro alleanza, fragile e complessa come ogni relazione umana, doveva essere salvaguardata da tutte le complicazioni causate dal denaro, da ogni ombra di invidia o di indiscrezione. Non era una cosa semplice. Ne parlavano come tra fratelli. Con tono di dolce preghiera, il figlio dell’ufficiale della guardia offriva a Konrad di attingere al suo patrimonio, di cui non sapeva bene cosa fare. Konrad gli spiegava che non poteva accettare neanche un centesimo. E sapevano entrambi che la verità era semplicemente questa: che il figlio dell’ufficiale della guardia non poteva dare il suo denaro a Konrad ed era costretto a condurre quel tipo di vita che si addiceva al suo rango e al suo nome. Intanto, nell’appartamento di Hietzing, Konrad mangiava frittata cinque sere alla settimana e quando la lavandaia gli riportava il bucato contava personalmente i capi di biancheria. Ma questo non aveva importanza. Il fatto più importante era che bisognava salvaguardare quell’amicizia per tutta la vita, a prescindere dal denaro. Konrad invecchiava in fretta. A venticinque anni portava già gli occhiali da lettura. E di notte, quando l’amico rientrava a casa da qualche impegno mondano con addosso l’odore del tabacco e dell’acqua di colonia, un po’ ebbro e in disordine e con l’aria del ragazzino che si dà alla bella vita, parlottavano a lungo sottovoce come due complici, come se Konrad fosse un mago che trascorreva il tempo seduto in casa a spremersi il cervello sul significato degli esseri umani e dei fenomeni, mentre il suo famulo girava il mondo per raccogliere segreti sulla vita della gente. Konrad leggeva di preferenza libri inglesi sulla storia della convivenza tra gli uomini e l’evoluzione sociale. Il figlio dell’ufficiale della guardia leggeva con piacere solo libri sui cavalli e racconti di viaggio. E dato che si volevano bene, ciascuno perdonava all’altro il suo peccato originale: Konrad perdonava all’amico il suo patrimonio, e il figlio dell’ufficiale della guardia perdonava a Konrad la sua povertà. La “diversità” di cui aveva parlato il padre quando Konrad e la contessa avevano suonato la Fantaisie polonaise conferiva a Konrad un certo potere sull’animo dell’amico.

Qual era il significato di questo potere? In ogni rapporto di potere esiste sempre un lieve, quasi impercettibile disprezzo nei confronti di colui che dominiamo. Siamo in grado di dominare interamente l’altro solo se giungiamo a conoscere, a capire e a disprezzare con molto tatto chi è costretto a piegarsi a noi. Con il passare del tempo, i

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colloqui notturni nella casa di Hietzing assunsero il tono di una conversazione tra maestro e allievo. Come tutte le persone costrette da una predisposizione innata o dalle circostanze a una solitudine precoce, Konrad parlava della società in tono leggermente ironico, un po’ sprezzante e al tempo stesso, suo malgrado, incuriosito. Come se tutto ciò che accadeva in quel mondo potesse interessare solo i bambini e creature altrettanto ingenue. E tuttavia dalla sua voce traspariva una certa nostalgia, quella della gioventù che si strugge eternamente per una patria ambigua, impassibile e spaventosa che si chiama mondo. E quando Konrad, in tono amichevole e condiscendente, con noncuranza e quasi per scherzo si prendeva gioco di Henrik per tutto ciò che quest’ultimo aveva visto e sentito nel mondo, la sua voce vibrava di desideri inappagati. Vivevano così, nello splendore della giovinezza, svolgendo un ruolo che era al tempo stesso un mestiere, che conferiva alla loro vita una tensione e una dignità interiore. Spesso qualche mano femminile bussava, con trepidazione e allegria, alla porta dell’appartamento di Hietzing. Un giorno bussò Veronica, la ballerina - quando gli viene in mente quel nome, il generale si strofina gli occhi, come succede a chi si sveglia da un sonno profondo e ricorda vagamente qualcosa. Sì, Veronica. O forse Angela, la giovane vedova del maggiore medico, che andava pazza per le corse dei cavalli. Ma no, Veronica. Abitava nella mansarda di una casa molto antica, in una via chiamata Ai tre ferri di cavallo, in un atelier che non si riusciva mai a riscaldare adeguatamente. Ma poteva vivere soltanto lì, perché per i suoi esercizi aveva bisogno di quello spazio che conteneva agevolmente i suoi passi di danza e le sue piroette. Il grande locale pieno di echi era decorato da polverosi bouquet alla Makart e da quadri con figure di animali che l’inquilino precedente dell’atelier, un pittore stiriano, aveva lasciato al padrone di casa in cambio dell’affitto arretrato. I suoi soggetti preferiti erano le pecore: i visitatori venivano accolti da una folla di pecore malinconiche che li fissavano da tutti gli angoli dell’ampia sala, spalancando in uno sguardo interrogativo i loro acquosi e inespressivi occhi di animali. Era lì che viveva Veronica, la ballerina, fra tendaggi polverosi e vecchi mobili coperti da fodere sdrucite. Il suo profumo pesante, gli effluvi dell’olio di rose e delle acque di colonia francesi aleggiavano fin sulle scale. Una sera d’estate andarono a cena insieme, tutti e tre. Questo gli tornò in mente ora, in tutti i dettagli, come se stesse esaminando un quadro con la lente di ingrandimento. Cenarono in un ristorante nel Wienerwald. Lo raggiunsero in carrozza, attraversando boschi afosi e profumati. La ballerina aveva un cappello di paglia di Firenze a larghe falde, guanti bianchi lavorati all’uncinetto lunghi fino al gomito, un vestito di seta rosa aderente in vita e scarpette di seta nera. Nonostante questo sfoggio di cattivo gusto, era incantevole. S’inoltrò con andatura leggera e un po’ esitante sotto il fogliame, lungo il sentiero cosparso di ghiaia, come se ogni passo terreno che la avvicinava agli obiettivi concreti della vita, per esempio a un ristorante, fosse indegno dei suoi piedini. Come accade con le corde di uno Stradivari, che non vanno usate per strimpellare motivetti da osteria, così lei riteneva che le sue gambe, capolavori che non potevano avere altro scopo che la danza - questa vittoria sulla legge di gravità, sulla pesantezza umiliante dei corpi -, dovessero essere preservate con cura.

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Cenarono nel cortile della locanda, sotto un pergolato di uva selvatica, al lume di candele protette da globi di vetro. Sorseggiarono un vino rosso leggero e la giovane donna rise con allegria. Tornando a casa in carrozza sotto il chiaro di luna, quando dall’alto di una collina scorsero la città immersa in una luminescenza argentea, Veronica, estasiata, li abbracciò entrambi. Fu un momento di felicità, incoscienza e totale abbandono. I due amici accompagnarono a casa la ballerina in silenzio e si congedarono da lei baciandole la mano davanti al portone del vecchio edificio del centro. Sì, Veronica. E Angela, con la sua passione per i cavalli. E tutte le altre, con i fiori tra i capelli, che si allontanavano danzando in un lungo girotondo, lasciandosi dietro una scia di nastri, lettere, fiori, a volte un guanto. Quelle donne avevano portato nella loro vita lo smarrimento dei primi amori e tutto ciò che significa l’amore: desiderio, gelosia, e un disperato senso di solitudine. Ma al di là delle donne e del mondo balenava un sentimento più forte di tutto il resto. Un sentimento, noto soltanto agli uomini, che Si chiama amicizia.

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8. Il generale cominciò a prepararsi. Si vestì da solo. Tirò fuori dall’armadio l’uniforme

di gala e la fissò a lungo. Non l’aveva più indossata da una decina d’anni. Aprì un cassetto, cercò le sue decorazioni e si soffermò a guardare le medaglie al merito custodite in astucci foderati di seta rossa, verde e bianca. Mentre palpava le medaglie di bronzo, d’oro e d’argento, vedeva una testa di ponte lungo il Dnepr, una parata militare a Vienna, un ricevimento al Castello di Buda. Alzò le spalle. Cosa gli aveva dato la vita? Doveri e vanità. Distrattamente, come fa il giocatore con i gettoni colorati alla fine di un’importante partita a carte, fece scivolare le medaglie nel cassetto.

Indossò invece un abito nero, si allacciò la cravatta bianca di picchè e si ravviò con una spazzola bagnata gli ispidi capelli bianchi tagliati corti. Negli ultimi anni sceglieva sempre questo tipo di abbigliamento severo, un po’ pretesco. Si accostò alla scrivania e con mani incerte, scosse da un tremito senile, frugò nel portafoglio alla ricerca di una piccola chiave con cui aprì un cassetto lungo e profondo. Dal vano segreto del cassetto tirò fuori diversi oggetti: una pistola belga, un fascio di lettere legate con un nastro azzurro e un sottile volumetto rilegato in velluto giallo, con la scritta Souvenir stampata sul frontespizio a lettere dorate. Tenne a lungo tra le mani il libriccino legato con un nastro azzurro chiuso da un sigillo dello stesso colore. Quindi esaminò la pistola, meticolosamente e con aria da intenditore. Era una vecchia pistola a tamburo con sei pallottole, tutte al loro posto. Gettò l’arma nel cassetto con gesto distratto e alzò le spalle. Fece scivolare il libriccino rilegato in velluto giallo dentro una profonda tasca laterale della giacca.

Si accostò alla finestra e aprì le persiane. Mentre dormiva, un acquazzone si era rovesciato sul giardino. Tra gli alberi spirava un venticello fresco, le foglie di platano bagnate luccicavano agli ultimi bagliori del tramonto. Sostò immobile accanto alla finestra, a braccia conserte. Guardava il paesaggio, la valle, il bosco, la strada gialla giù in basso, il profilo della città. I suoi occhi, abituati alle grandi distanze, individuarono la carrozza che procedeva lenta sulla strada. L’ospite era già in viaggio verso il castello.

Immobile, con volto inespressivo, rimase a guardare la vettura che si avvicinava, quindi socchiuse un occhio, come fa il cacciatore quando prende la mira.

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9. Erano già passate le sette quando il generale uscì dalla sua stanza. Appoggiato al

bastone da passeggio dall’impugnatura di avorio, percorse a passo lento e regolare il lungo corridoio che collegava quell’ala del castello, le camere adibite a suo uso personale, con la zona di rappresentanza, il salone da ricevimento, la sala da musica e i salotti. Le pareti del corridoio erano tappezzate di vecchi ritratti: vi si allineavano, incastonati in cornici dorate, ritratti di antenati, bisnonni e bisnonne, conoscenti, antichi dipendenti, compagni di reggimento e celebrità ospitate un tempo al castello. Nella famiglia del generale vigeva la tradizione di tenere al servizio della casa anche un pittore: per lo più si trattava di ritrattisti girovaghi di passaggio, ma ogni tanto ne capitava anche qualcuno più rinomato, come il praghese S., che aveva trascorso otto anni al castello ai tempi del nonno del generale e aveva fissato sulla tela tutti coloro che si erano trovati davanti ai suoi pennelli, compresi il maggiordomo e i cavalli più celebri. Le bisnonne e i bisnonni erano caduti vittime del pennello di artisti occasionali: guardavano dall’alto con occhi vitrei, in tenuta di gala. Quindi venivano alcuni volti maschili pacati e composti: erano coetanei dell’ufficiale della guardia, uomini con baffi alla magiara e ciocche inanellate ricadenti sulla fronte, in abito nero da cerimonia o in alta uniforme. Quella sì che era una generazione in gamba, pensò il generale mentre guardava le effigi di parenti, amici e commilitoni di suo padre. Erano uomini splendidi, benché di natura un po’ schiva, poco portati a vivere in armonia col mondo, orgogliosi; però credevano in qualcosa: nell’onore, nelle virtù virili, nel silenzio, nella solitudine, nel la parola data, e anche nelle donne. E quando subivano una delusione, si rifugiavano nel silenzio. La maggior parte di loro aveva trascorso in silenzio la vita intera, dedita ai propri doveri e all’osservanza del silenzio come all’adempimento di un voto. Verso la fine del corridoio erano appesi i quadri francesi: ritratti di antiche dame con acconciature altissime e incipriate e di gentiluomini in parrucca, pingui e con labbra voluttuose. Erano i parenti lontani della madre, volti che spiccavano su sfondi colorati di azzurro, rosa e grigio tortora. Estranei. Quindi seguiva il ritratto del padre, in uniforme da ufficiale della guardia. E uno dei ritratti della madre, con un cappellino piumato e il frustino in mano, come una cavallerizza da circo. Veniva poi uno spazio vuoto, di un metro quadrato circa, tra un ritratto e l’altro: una leggera linea grigia incorniciava il fondo bianco e indicava che in passato vi era stato appeso un dipinto. Il generale proseguì con espressione impassibile, lasciandosi alle spalle il quadrato vuoto. A quel punto iniziavano i paesaggi. Alla fine del corridoio, vestita di nero, con la minuscola testa di uccello coperta da una cuffietta bianca inamidata, lo aspettava la balia. “Stavi guardando i quadri?” disse. “ Si “.

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“Non vuoi che rimettiamo a posto il ritratto?” domandò Nini con la tranquilla franchezza delle persone anziane, indicando lo spazio vuoto sul muro. “ Esiste ancora?” chiese il generale. La balia annuì: aveva conservato il dipinto. “ No “ disse lui dopo un breve intervallo. Quindi proseguì in tono più sommesso: “ Non sapevo che lo avessi conservato. Pensavo che lo avessi bruciato “.

“E’ assolutamente irragionevole” disse la balia con voce sottile e stridula “ bruciare dei quadri “. “Certo” disse il generale in tono confidenziale, come si parla soltanto con la propria balia. “ Giacché non cambierebbe nulla “.

Si girarono verso lo scalone e guardarono in basso, in direzione del vestibolo, dove un valletto e una cameriera stavano sistemando dei fiori nei vasi di cristallo. Nelle ultime ore il castello era tornato a vivere come un meccanismo al quale sia stata ridata la carica. Tornarono a vivere non solo i mobili, le poltrone e i sofà liberati dalle fodere di tela dell’estate, ma anche i quadri alle pareti, i grandi candelabri di ferro battuto, gli oggetti ornamentali nelle vetrine e sulla mensola del camino. Nel camino erano stati accatastati dei ceppi per accendervi il fuoco, perché dopo mezzanotte la nebbiolina pungente delle notti di fine estate penetrava nelle stanze e ricopriva ogni cosa di una patina umida. Era come se all’improvviso gli oggetti avessero acquistato un senso, come se volessero dimostrare che ogni cosa al mondo possiede un significato solo in riferimento agli uomini, solo se diventa parte integrante del loro destino e delle loro azioni. Il generale guardava il grande vestibolo, i fiori sul tavolo davanti al camino, la disposizione dei sedili. “ Questa poltrona di cuoio “ disse “ stava a destra “ . “Te lo ricordi così bene?” chiese la balia sbattendo le palpebre.

“ Sì. Konrad era seduto qui, sotto l’orologio, accanto al fuoco. Io ero seduto al centro, di fronte al camino, sulla sedia fiorentina. Krisztina era di fronte, nella poltrona che un tempo apparteneva a mia madre “. “ Ne sei certo?” domandò la balia. “ Sì “. Il generale si appoggiò alla balaustra della scala e continuò a guardare verso il basso. “ Il vaso azzurro di cristallo era pieno di dalie. Quarantun anni fa “. “ Eh sì, vedo che ti ricordi “ disse la balia, e sospirò. “Certo che mi ricordo. Hai apparecchiato la tavola col servizio di porcellana francese?”. “ Sì, col servizio a fiori “ disse Nini. “Va bene “ annuì il generale tranquillizzato. Rimasero in silenzio per un po’, contemplando la scena dinanzi a loro, l’ampia sala da ricevimento, i mobili grandi e massicci che custodivano il ricordo, il significato di un’ora, o solo di un attimo, come se in precedenza si fossero limitati a esistere, secondo le leggi dei tessuti, dei legni e dei metalli, finché era arrivato un istante, quarantun anni prima, che aveva infuso in essi un soffio di vita e dato un senso alla loro esistenza. E adesso tornavano a vivere, come un meccanismo dopo la carica, e anch’essi sembravano animarsi al ricordo. “Cosa darai da mangiare al nostro ospite?”. “Trote” disse Nini. “Minestra e trote. Poi roast beef al sangue e insalata. Per finire, gelato flambé. Il cuoco non lo prepara più da una decina di anni. Ma forse sarà buono lo stesso “ aggiunse con aria preoccupata. “Fai attenzione che riesca bene. Quella volta c’erano anche dei gamberi” disse in tono sommesso, come se parlasse fra sé.

“Sì” disse tranquillamente la balia. “A Krisztina piacevano i gamberi. Le piacevano

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cucinati in tutti i modi. A quei tempi se ne trovavano ancora nel ruscello. Ora non ce ne sono più. E’ sera, non potevo mandarli a prendere in città a quest’ora”.

“ Fai attenzione al vino “ sussurrò il generale con aria di complicità. La balia gli si accostò istintivamente e chinò il capo per distinguere meglio le sue parole, con la familiarità di un domestico che è nello stesso tempo un membro della famiglia. “Fai portare su qualche bottiglia di Pommard dell’ottantasei. E dello Chablis da servire col pesce. E una bottiglia di vecchio Mumm, una di quelle giganti. Sai dove si trova?”.

“ Sì “. La balia rifletté. “ Ma è rimasto solo il brut. Krisztina beveva quello amabile “. “Un sorso” disse il generale. “Mai più di un sorso, con l’arrosto. Non amava lo champagne “. “ Cosa vuoi da quell’uomo?” chiese la balia. “ La verità “ disse il generale, a voce molto bassa. “ La verità la conosci bene “. “Non la conosco” replicò lui alzando la voce, senza curarsi del valletto e della cameriera che, udendo la sua esclamazione, smisero di sistemare i fiori e levarono gli occhi verso l’alto. Ma li abbassarono subito e continuarono a sbrigare le loro faccende. “ E’ proprio la verità che non conosco “ egli aggiunse. “Però conosci i fatti” disse bruscamente la balia, in tono aggressivo.

“ I fatti non sono la verità “ rispose il generale. “ I fatti ne sono soltanto una parte. Neanche Krisztina conosceva la verità. Lui, Konrad, forse la conosceva. E adesso gliela strapperò “ concluse tranquillamente. “ Che cosa gli vuoi strappare?” domandò la balia. “La verità” ripeté; e tacque.

Quando il valletto e la cameriera uscirono dal salone ed essi rimasero soli, la balia si accostò a lui e appoggiò i gomiti sulla balaustra, come se stessero ammirando il panorama dall’alto di una montagna. In quella posizione, rivolta verso la sala in cui un tempo tre persone si erano trovate riunite davanti al camino, disse: “C’è qualcosa che devi sapere. Mentre stava agonizzando, Krisztina ha invocato il tuo nome “. “ Sì “ disse il generale. “ Io ero qui “. “ C’eri e tuttavia non c’eri. Eri così lontano, come se fossi partito per un viaggio. Eri nella tua stanza e lei stava morendo. Era sola con me, verso il mattino. Fu allora che invocò il tuo nome. Te lo dico perché stasera tu ne tenga conto “. Il generale rimase in silenzio.

“ Mi sembra che stia per arrivare “ disse poco dopo, e si raddrizzò. “Fai attenzione ai vini e a tutto quanto, Nini “.

Si udì in effetti lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote del landò. Il generale posò il bastone contro la balaustra e cominciò a scendere i gradini per andare incontro all’ospite. D’improvviso si arrestò: “Le candele!” disse. “Ricordi?... Le candele azzurre per la tavola. Esistono ancora? Falle accendere per la cena, e che rimangano accese “. “ Queste non me le ricordavo “ disse la balia. “ Io invece sì “ rispose il generale con ostinazione.

Nell’abito nero che gli dava un aspetto senile, ma con il busto eretto e l’aria solenne, scese le scale. La porta del salone si spalancò, e nel riquadro della grande porta a vetri, dietro il valletto, comparve un uomo anziano.

“Hai visto, sono tornato ancora una volta” disse l’ospite in tono sommesso.

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“Non ho mai dubitato che lo avresti fatto” rispose il generale a voce altrettanto bassa, e sorrise. Si strinsero educatamente la mano.

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10. Si accostarono al camino e si squadrarono attentamente, con sguardo esperto,

strizzando gli occhi da vecchi nella luce fredda e abbagliante di una lampada a muro. Konrad era più anziano di qualche mese rispetto al generale: aveva compiuto

settantacinque anni in primavera. I due vecchi si esaminarono con la lucida attenzione che le persone anziane mettono nell’osservare l’aspetto fisico dei loro coetanei, concentrandosi sul l’essenziale, cercando di rintracciare in un volto, in un atteggiamento, gli ultimi segni di vitalità, qualche traccia ancora visibile della voglia di vivere. “No, “ disse Konrad gravemente “il tempo non ci ha ringiovaniti “.

Ma ciascuno di loro si rese conto, con stupore venato di invidia e al tempo stesso con soddisfazione, che l’altro aveva superato felicemente quell’esame rigoroso: i quarantun anni trascorsi senza vedersi, sebbene ogni giorno, a ogni istante, ognuno dei due fosse ben consapevole dell’esistenza dell’altro, non li avevano logorati. Ci siamo difesi bene, pensò il generale. E l’ospite, con uno strano senso di compiacimento, in cui la soddisfazione per il risultato dell’esame fisico si tingeva di delusione e di un piacere vendicativo - di delusione per aver ritrovato l’altro fresco e arzillo, in buona salute, e di piacere vendicativo per essere riuscito a tornare vivo e vegeto -, disse a se stesso: “Mi aspettava: per questo è così forte “.

Entrambi si resero conto, in quegli istanti, che era stata l’attesa a dare loro la forza di vivere nei decenni trascorsi. Come accade a coloro che passano una vita intera a prepararsi per un unico compito e di colpo arrivano al momento di agire. Konrad sapeva che un giorno sarebbe tornato in quel luogo, e il generale sapeva che un giorno sarebbe giunto quel momento. Era stato questo a mantenerli in vita. Konrad aveva sempre il colorito pallido dei suoi anni giovanili, come se continuasse a vivere fra quattro mura disdegnando l’aria aperta. Anche lui era vestito di scuro: indossava capi semplici ma di ottima fattura. Si vede che è ricco, pensò il generale. Per qualche minuto si guardarono in silenzio. Quindi arrivò il valletto con il vermut e l’acquavite. “Da dove vieni?” domandò il generale. “ Da Londra “ . “Vivi lì?”.

“ Ho una piccola casa nei dintorni di Londra. Quando sono tornato dai Tropici, mi sono fermato lì “. “ In quale zona dei Tropici hai vissuto?... “. “A Singapore”. Alzò la mano bianca e indicò vagamente un punto per aria, come se additasse nell’immensità dello spazio il luogo in cui aveva vissuto in passato. “ Ma solo negli ultimi tempi. Prima stavo all’interno della penisola, tra i malesi “.

“Si dice” osservò il generale alzando il bicchiere di vermut e tendendolo verso la luce come per dare il benvenuto all’ospite “ che i Tropici logorano e fanno invecchiare prematuramente “. “ Sono posti terribili “ disse Konrad. “ Tolgono dieci anni di vita a

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chiunque “. “ Dal tuo aspetto non si direbbe. Benvenuto “. Vuotarono i bicchieri e si sedettero. “ Davvero?” domandò l’ospite accomodandosi davanti al camino, nella poltrona sotto l’orologio. Il generale seguiva con attenzione i suoi movimenti. Ora che l’amico di un tempo aveva occupato quella poltrona, nel punto esatto in cui si era seduto l’ultima volta quarantun anni prima - come dominato dall’influsso magnetico che quel luogo esercitava su di lui -, egli socchiuse gli occhi con sollievo. Si sentiva come il cacciatore che vede finalmente la selvaggina chiusa in trappola, nella trappola che aveva cautamente aggirato fino a quel momento. Ormai tutto e tutti si trovavano al loro posto.

“ Sì, i Tropici sono terribili “ ripeté Konrad. “ La gente come noi non li sopporta. Fiaccano le forze, consumano l’organismo. Uccidono qualcosa nell’uomo”. “ Sei andato lì “ chiese il generale con voce inespressiva e aria noncurante “per uccidere qualcosa dentro di te?”.

Lo chiese garbatamente, con un tono da normale conversazione. E si sedette a sua volta di fronte al camino, nella vecchia poltrona chiamata in famiglia “ sedia fiorentina”. Era il posto che quarantun anni prima occupava ogni sera, prima e dopo cena, quando sedevano in tre nel salone, con Krisztina e Konrad, a conversare. Ora guardarono tutti e due la poltrona vuota foderata di seta francese. “ Sì “ disse tranquillamente Konrad. “Ci sei riuscito?”.

“ Ormai sono vecchio “ disse l’ospite, e fissò il fuoco. Non rispose alla domanda. Rimasero seduti così, senza parlare, guardando i ceppi che ardevano, finché non si presentò il valletto ad annunciare che la cena era servita.

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11. “ La faccenda è questa” disse Konrad quando finirono di mangiare le trote.

“All’inizio pensi che col tempo ti ci abituerai”. Parlava dei Tropici. “Quando arrivai laggiù, ero ancora giovane, come ricorderai. Avevo trentaquattro anni. Andai subito a lavorare in una zona paludosa. Da quelle parti la gente vive in capanne con il tetto di lamiera. Non avevo quattrini. Era la società coloniale che pagava tutto. Di notte ti stendi e ti sembra di stare immerso in una nebbia calda. Al mattino la nebbia è più fitta e diventa rovente. Dopo un po’ ti lasci andare. Tutti bevono, la gente ha gli occhi iniettati di sangue. Il primo anno pensi che morirai. Il terzo anno ti rendi conto di non essere più quello di prima, come se la tua vita avesse cambiato ritmo. Vivi più in fretta, qualcosa ti brucia dentro, il tuo cuore pulsa in modo diverso, e nello stesso tempo ti senti indifferente. Poi arriva il momento in cui non sai più cosa ti succede, né cosa stia succedendo intorno a te. Certe volte questo momento arriva solo dopo cinque anni, a volte invece già nei primi mesi. E’ il periodo delle crisi di rabbia. In quei momenti molta gente ammazza qualcuno, oppure Si ammazza”. “Anche gli inglesi?” domandò il generale.

“Più raramente. Ma anche loro subiscono il contagio di questo delirio, di questa febbre che non è causata da nessun bacillo. Sono assolutamente convinto che si tratta di una malattia di cui non si è ancora riusciti a trovare la causa. Forse è l’acqua. Forse sono le piante. O forse gli amori malesi. Non è possibile abituarsi a quelle donne. Ce ne sono di stupende. Sorridono in continuazione e hanno una morbidezza particolare nella pelle, nei gesti, nel sorriso, nelle usanze, nel modo di servirti a tavola e a letto... Eppure non è possibile farci l’abitudine. Gli inglesi, sì, sanno difendersi. In valigia si portano dietro l’Inghilterra. L’arroganza cortese, il distacco, la buona educazione, i campi da golf e i campi da tennis, il whisky e lo smoking che indossano la sera nelle capanne col tetto di lamiera, in mezzo alle paludi. Certo, non tutti. Queste sono soltanto leggende. Dopo quattro o cinque anni la maggior parte di loro si abbrutisce come tutti gli altri, belgi, francesi, olandesi. I Tropici corrodono le buone maniere acquisite al college, così come la lebbra corrode la carne. I Tropici li privano della patina acquisita a Cambridge e Oxford. Devi sapere che a casa, in Inghilterra, si diffida di tutti gli inglesi che abbiano trascorso un certo periodo ai Tropici. La gente li rispetta, riconosce i loro meriti, però diffida di loro. Sono certo che sulle schede personali riservate c’è un’annotazione che dice: “Tropici”. Come se si dicesse “Sifilide” o “Servizio di spionaggio” Chi è stato a lungo ai Tropici è un tipo sospetto; anche se non ha fatto altro che giocare a golf e a tennis, bere whisky nei circoli di Singapore, partecipare ogni tanto ai ricevimenti del governatore indossando lo smoking o l’uniforme carica di onorificenze, è pur sempre

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una persona sospetta. Perché ha vissuto l’esperienza dei Tropici, esposta al contagio di quel morbo spaventoso che non conosce assuefazione ed esercita, come ogni pericolo mortale, una sorta di fascino misterioso. Si può guarire dalle malattie tropicali, dai Tropici non si guarisce mai “ .

“ Capisco “ disse il generale. “ Sei stato contagiato anche tu?”. “Tutti vengono contagiati”. L’ospite assaporava lo Chablis con la testa rovesciata

all’indietro, a piccoli sorsi, da conoscitore. “Chi si dà al bere se la cava più a buon mercato. Da quelle parti le passioni covano sul fondo, come il tornado dietro alle paludi, tra i boschi e le montagne. Passioni di ogni genere. Ecco perché gli inglesi insulari sospettano di chiunque arrivi dai Tropici. Non si sa cosa si annidi nel suo sangue, nel suo cuore, nei suoi nervi. Non è più un europeo qualsiasi, questo è certo. Per lo meno, non del tutto. Non serve che sia stato abbonato alle riviste europee, che si sia tenuto al corrente, in mezzo alle paludi, di tutto ciò che è stato scritto e pensato dalle nostre parti, negli anni più recenti o nei secoli passati. Non serve a nulla: quando si trova fra compatrioti, l’uomo dei Tropici sorveglierà il proprio comportamento con lo stesso scrupolo dell’ubriaco quando si trova tra persone sobrie. Avrà modi esageratamente rigidi pur di non far trasparire il proprio malessere, sarà assolutamente impenetrabile, corretto e beneducato... Ma nel suo intimo le cose saranno ben diverse “.

“ Davvero?” disse il generale, e sollevò verso la luce il bicchiere colmo di vino bianco. “ E cosa c’è, nel suo intimo?”.

E poiché l’altro taceva: “ Suppongo che stasera tu sia venuto qui per raccontarmelo “. Siedono ai due capi del lungo tavolo, nella grande sala da pranzo dove nessun ospite

è più entrato dopo la morte di Krisztina. La sala, in cui non si consumano più pasti da decenni, è come un museo in cui si conservino pezzi di mobilia e oggetti d’uso caratteristici di un’epoca ormai tramontata. Le pareti sono rivestite di pannelli di legno secondo la vecchia moda francese, i mobili provengono da Versailles. Al centro del tavolo, ricoperto da una candida tovaglia damascata, c’è un vaso di cristallo pieno di orchidee. La decorazione floreale è circondata da quattro statuette di porcellana, quattro capolavori della fabbrica di Sèvres, che raffigurano con grazia ed eleganza il Settentrione, il Meridione, l’Oriente e l’Occidente. Davanti al generale c’è il simbolo dell’Occidente, davanti a Konrad quello dell’Oriente: un piccolo saraceno che ridacchia sotto una palma accanto a un cammello.

Sul tavolo sono allineati dei candelabri di porcellana che reggono grossi ceri azzurri da chiesa. Solo i quattro angoli della stanza sono illuminati da altre fonti di luce nascoste. Le fiamme delle candele ardono alte, la stanza è quasi in penombra. Nel camino di marmo grigio, il fuoco dei ceppi divampa con fiamme nere e rossastre. Ma le portefinestre a doppio battente non sono state chiuse del tutto, e le tende di seta grigia non sono completamente tirate. I refoli della sera estiva penetrano ogni tanto nella sala e, attraverso le tende sottili, si distinguono il paesaggio inondato dal chiaro di luna e le luci della piccola città che ammiccano in lontananza.

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A metà del lungo tavolo decorato di fiori e illuminato dai ceri, di spalle rispetto al camino, si trova un’altra poltrona rivestita di gobelin. Quello, in passato, era il posto di Krisztina, la moglie del generale. Davanti al coperto mancante è stata messa la statuina di porcellana che rappresenta il Meridione: in quel palmo di spazio un leone, un elefante e un uomo dalla faccia nera avvolto in un burnus sembrano far la guardia a qualcosa, tutti insieme, pacificamente. Il maggiordomo, in redingote nera, vigila immobile in fondo alla stanza, accanto al tavolo di servizio; coordina con occhiate imperiose i movimenti dei valletti, che stasera indossano livree di foggia francese: calzoni sotto il ginocchio e frac nero, un uso introdotto a suo tempo dalla madre del generale, la quale, ogni volta che si consumavano i pasti in quella sala - dove ogni singolo pezzo di arredamento, compresi i piatti, le posate d’oro, le bottiglie, i bicchieri di cristallo e persino i rivestimenti delle pareti, proveniva dalla patria della straniera-, pretendeva che i valletti servissero in tavola vestendo uniformi d’epoca. Nella sala regna un tale silenzio che si percepisce finanche il lieve scoppiettio dei ceppi ardenti. Il generale e il suo ospite parlano a voce molto bassa, tuttavia si comprendono, perché le pareti rivestite di caldo legno stagionato fanno risuonare anche le parole pronunciate sottovoce, come la materia lignea di uno strumento musicale amplifica i suoni emessi dalle corde. “No “ dice Konrad, che nel frattempo ha continuato a mangiare e a riflettere. “Sono venuto perché mi trovavo a Vienna “.

Mangia in fretta, con mosse eleganti, ma con l’ingordigia dei vecchi. Ora posa la forchetta sull’orlo del piatto, si sporge un po’ in avanti e rivolgendosi al padrone di casa, seduto all’altro capo del tavolo, esclama quasi gridando:

“ Sono venuto perché volevo vederti ancora una volta. Non è naturale?”. “ Nulla di più naturale “ risponde cortesemente il generale. “Dunque sei passato da

Vienna. Deve essere stata una bella esperienza, dopo aver conosciuto i Tropici e la passione. Era da parecchio che non ti fermavi più a Vienna?”.

“Da parecchio” risponde Konrad. “Da quarantun anni. Allora...” dice con voce incerta, e ammutolisce suo malgrado, imbarazzato “... allora sono passato da Vienna durante il viaggio verso Singapore “. “ Capisco “ dice il generale. “ E adesso cosa hai trovato a Vienna?” .

“Il cambiamento” risponde Konrad. “Alla mia età e nella mia situazione si trovano sempre e ovunque cambiamenti. E’ vero che non venivo più sul continente da quarantun anni. Ho solo trascorso qualche ora nei porti francesi, durante il viaggio da Singapore verso Londra. Ma volevo vedere ancora una volta Vienna. E questa casa “ .

“Ti sei messo in viaggio per questo?” domanda il generale. “Per rivedere Vienna e questa casa? O dovevi occuparti di qualche affare sul continente?”. “Non ho più niente di cui occuparmi. Ho settantacinque anni come te. Tra poco morirò. E’ per questo che mi sono messo in viaggio, ed è per questo che mi trovo qui “.

“Si dice” replica il generale con gentilezza, in tono incoraggiante, “che una volta arrivati a quest’età si va avanti fino a quando non ci si è stancati di vivere. Non credi che sia così?”. “ Io mi sono già stancato “ dice l’ospite. Lo dice senza enfasi, con aria

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indifferente. “Vienna” dice. “Sai, mentre ero lontano, quella città rappresentava per me il diapason del mondo. Pronunciare il nome “Vienna” era come far vibrare quel diapason. Osservavo la persona con cui stavo parlando per vedere come reagiva. Era il mio modo di mettere le persone alla prova. Chi non aveva alcuna reazione non faceva al caso mio. Perché Vienna non è soltanto una città, il suo nome ha un suono che alcuni sentono vibrare in fondo all’anima per sempre e altri no. E’ stata la cosa più bella della mia vita. Ero povero ma non ero solo, perché avevo un amico. E anche Vienna era come un amico. Ai Tropici, quando pioveva, udivo sempre la sua voce. E in mille altre occasioni. L’odore di muffa che aleggiava nell’androne della casa di Hietzing mi tornava in mente persino nella giungla. A Vienna la musica e tutto ciò che amavo vibrava nelle pietre, nello sguardo e nella cortesia degli uomini come vivono nei cuori le passioni ormai purificate. Sai, quando le passioni non ti fanno più soffrire. Vienna d’inverno e in primavera. I viali di Schonbrunn. La luce azzurra nel dormitorio del collegio, la grande scalinata bianca con le statue barocche. Le cavalcate al mattino, nel Prater. I cavalli bianchi della scuola di equitazione. Ricordavo intensamente tutto questo e volevo rivederlo ancora una volta” dice a bassa voce, quasi con vergogna.

“E cosa hai trovato, quarantun anni dopo?” torna a domandare il generale. “Una città” risponde Konrad, e alza le spalle. “Il cambiamento “. “Qui” dice il generale “almeno non corri il rischio di rimanere deluso. Da noi quasi

niente è cambiato “. “Non hai viaggiato negli ultimi anni?”. “Poco”. Il generale fissa la fiamma delle candele. “Solo per motivi di servizio. Per qualche tempo sono stato tentato di abbandonare l’esercito, così come hai fatto anche tu. C’è stato un momento in cui ho pensato di farlo. Di partire anch’io, di girare il mondo per guardarmi intorno, per cercare, per rintracciare qual cosa o qualcuno “.

Adesso evitano di guardarsi: l’ospite fissa il bicchiere di cristallo colmo di un liquido ambrato, il generale la fiamma guizzante delle candele. “ Ma alla fine sono rimasto qui. Il servizio, sai come succede. Si diventa rigidi, ostinati. Avevo promesso a mio padre di restare fino in fondo nell’esercito. Così sono rimasto. Però sono andato in pensione presto. Avevo poco più di cinquant’anni quando mi hanno offerto il comando di un corpo d’armata. Mi sentivo troppo giovane per quel compito. Allora ho dato le dimissioni. Sono stati comprensivi e le hanno accettate. Del resto,” dice, e intanto fa cenno al valletto di versargli un po’ di vino rosso “ subito dopo è cominciato un periodo in cui il servizio non offriva più nessuna soddisfazione. Era il tempo della rivoluzione. Del cambiamento “ . “Sì” risponde l’ospite. “Ne ho sentito parlare”. “Ne hai semplicemente sentito parlare? Noi lo abbiamo vissuto “ dice il generale in tono severo. “ Forse non ne ho semplicemente sentito parlare” risponde l’ospite a questo punto. “Nel diciassette, sì. Fu allora che tornai per la seconda volta ai Tropici. Lavoravo nelle paludi con dei coolies cinesi e malesi. I cinesi sono i migliori. Si giocano tutto alle carte, però sono i migliori. Vivevamo sprofondati nelle paludi, in mezzo alla giungla. Non esisteva il telefono. E neanche la radio. Nel mondo imperversava la guerra. A quei tempi ero già cittadino britannico, ma le autorità inglesi si resero conto che non potevo combattere

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contro il paese in cui sono nato. Gli inglesi mostrano comprensione per queste cose. Fu così che potei tornare ai Tropici. Laggiù non eravamo informati di nulla, e i coolies erano gli ultimi che avrebbero potuto sapere qualcosa, in mezzo alle paludi, senza giornali, senza radio. Dopo che erano trascorse settimane intere senza che giungessero notizie dal mondo, un bel giorno, allo scoccare del mezzodì, interruppero il lavoro. Senza una ragione. Nulla era cambiato intorno a loro, le condizioni di lavoro, il sistema disciplinare, il vitto, tutto era come sempre, non particolarmente buono né cattivo, come poteva e doveva essere in luoghi del genere. Dunque un bel giorno, nel diciassette, allo scoccare del mezzodì, dichiararono che non avrebbero più continuato a lavorare. Dal folto della foresta spuntarono quattromila coolies a torso nudo, imbrattati di fango fino alla cintola, deposero gli utensili, le asce, le zappe, e dissero basta. Avanzarono rivendicazioni di tutti i generi. Pretesero che ai possidenti fosse tolto il diritto di stabilire le sanzioni disciplinari. Reclamarono un aumento di salario. Intervalli più lunghi durante l’orario di lavoro. Non si riusciva a capire cosa li avesse presi. Quattromila coolies si trasformarono davanti ai miei occhi in quattromila diavoli gialli e bruni. Nel pomeriggio montai a cavallo e mi recai a Singapore. Fu lì che appresi la notizia. Sulla penisola fui uno dei primi a venirne a conoscenza “.

“Di che cosa si trattava?” domanda il generale, e si sporge in avanti. “Seppi che in Russia era scoppiata la rivoluzione. Un uomo, di cui all’epoca si

sapeva soltanto che si chiamava Lenin, aveva fatto ritorno in patria in un vagone piombato, portandosi dietro nel bagaglio il bolscevismo. A Londra la notizia si seppe lo stesso giorno in cui l’avevano appresa i miei coolies nel mezzo della giungla, tra le paludi, senza radio né telefono. Era un fatto incomprensibile. Più tardi però compresi. Le cose importanti si sanno comunque, anche senza apparecchiature o telefoni”. “Credi davvero?” domanda il generale. “ Ne sono convinto “ risponde Konrad. Poi subito chiede: “Quando è morta Krisztina?”. “ Come fai a sapere che Krisztina è morta?” chiede il generale con voce inespressiva. “ Hai vissuto ai Tropici, non metti piede sul continente da quarantun anni. L’hai intuito nello stesso modo in cui i coolies hanno intuito che era scoppiata la rivoluzione?”. “Se l’ho intuito?” replica l’ospite. “Può darsi. Ma non è seduta qui tra noi. Dove potrebbe essere, se non nella tomba?”.

“ Sì “ dice il generale. “ E sepolta qui in giardino, vicino alle serre. Come desiderava lei “. “ E’ morta da molto tempo?”. “ Otto anni dopo che sei andato via “. “ Otto anni dopo “ dice l’ospite, e la sua bocca esangue, con le candide protesi dentarie, si muove silenziosamente, come se masticasse o calcolasse qualcosa. “All’età di trent’anni”. Ricomincia a contare a mezza voce. “ Se fosse viva, oggi avrebbe sessantatré anni “. “ Sì. Sarebbe una donna vecchia, come noi siamo uomini vecchi”.

“ Che cosa le è successo?”. “Hanno detto che è morta di anemia perniciosa. Una malattia abbastanza rara “. “Meno rara di quel che credi” risponde Konrad in tono da esperto. “Ai Tropici è frequente. Quando cambiano le condizioni di vita della gente anche la composizione del sangue si modifica”. “Può darsi” dice il generale. “Può darsi che sia abbastanza frequente anche in Europa, quando cambiano le condizioni di vita di

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qualcuno. Non me ne intendo “. “Nemmeno io me ne intendo molto. Ma ai Tropici il fisico presenta sempre dei

problemi. Poco alla volta ci si trasforma in stregoni. Anche i malesi fanno stregonerie, una dopo l’altra. Dunque è morta nel millenovecentosette” dice infine con voce piatta, come se nel frattempo avesse continuato a riflettere fino a stabilire il risultato finale. “A quel tempo tu eri ancora in servizio?”.

“ Sì. Sono rimasto in servizio per tutta la durata della guerra “. “Come è stata?”. “La guerra?”. Il generale fissa l’ospite con occhi appannati. “E’ stata terribile, come i

Tropici. Specialmente l’ultimo inverno, su al Nord. La vita è avventurosa anche qui in Europa” dice il generale, e sorride. “Avventurosa?... Sì, può darsi”. L’ospite annuisce comprensivo. “ Credimi, il pensiero di non trovarmi in patria mentre voi vi stavate battendo mi ha fatto soffrire più di una volta. Ho anche pensato di tornare a casa e di presentarmi al reggimento “. “Questo “ dice il generale in tono cortese ma fermo “ l’hanno pensato in tanti, al reggimento. Ma in definitiva non sei tornato. Probabilmente avevi altro da fare” aggiunge incoraggiante.

“Ero cittadino inglese” ripete Konrad con imbarazzo. “ Uno non può cambiare patria ogni dieci anni “. “ Certo che no “ assente il generale. “ Credo anzi che uno non possa in nessun caso cambiare patria. Si possono cambiare solo i documenti. Tu non la pensavi così?”.

“La mia patria” dice l’ospite “non esiste più, si è disintegrata. La mia patria erano la Polonia e Vienna, questa casa e la caserma giù in città, la Galizia e Chopin. Cosa è rimasto di tutto ciò? Il misterioso elemento che unificava ogni cosa ha esaurito il suo effetto. Tutto è caduto in pezzi, sono rimasti solo i frammenti. La patria per me era un sentimento. Questo sentimento è stato offeso. In casi come questi, uno se ne va. Ai Tropici o ancora più lontano “. “Più lontano, dove?” chiede freddamente il generale.

“ Nel tempo “. “ Questo vino, “ dice il generale sollevando il bicchiere di vino rosso, quasi nero

“forse ne ricordi l’annata. E’ stato vendemmiato nell’ottantasei, l’anno in cui prestammo giuramento. Mio padre fece riempire di questo vino un’ala della cantina, in memoria di quel giorno. Sono passati molti anni da allora, quasi una vita intera. E’ un vino vecchio, ormai “. “Tutto ciò a cui giurammo fedeltà non esiste più” dice l’ospite gravemente, e solleva a sua volta il bicchiere. “ Sono tutti morti, oppure se ne sono andati, hanno rinunciato a tutto quello che giurammo di difendere. Esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire. Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per me. E’ tutto ciò che posso dire”. “ Per me quel mondo è sempre vivo, anche se non esiste più nella realtà. E’ vivo perché gli ho giurato fedeltà. E’ tutto ciò che posso dire “. “Sì, tu sei rimasto un vero soldato” risponde Konrad.

Sollevano i bicchieri in un tacito brindisi, quindi li vuotano senza aggiungere altro.

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12. “Quando sei andato via” riprende il generale cordialmente, come se ormai, dopo aver

esaurito le questioni più importanti e delicate, potessero dedicarsi con calma alla conversazione “abbiamo creduto per parecchio tempo che saresti tornato indietro, prima o poi. Qui tutti aspettavano il tuo ritorno. Tutti ti erano amici. Perdonami la franchezza, ma eri un tipo un po’ stravagante. Noi ti scusavamo, consapevoli che per te la musica era più importante di tutto. Non riuscivamo a spiegarci perché fossi andato via, ma ci rassegnammo, perché ci rendevamo conto che dovevi averlo fatto per un motivo assai grave. Sapevamo che tutto per te era più difficile da sopportare di quanto fosse per noi, che eravamo dei veri soldati. Quello che per te era un mestiere, per noi era una vocazione. Quella che per te era una maschera, per noi era il destino. Quindi non ci meravigliammo quando decidesti di gettar via la maschera. Ma credevamo che un giorno saresti tornato indietro. O che avresti scritto. Molti di noi lo credevano, anch’io, lo confesso, e anche Krisztina. E alcuni commilitoni del reggimento, non so se te ne ricordi “. “I miei ricordi sono diventati molto vaghi” dice l’ospite con indifferenza.

“Sì, devi aver fatto una quantità di esperienze. Hai vissuto in giro per il mondo. In queste condizioni i ricordi svaniscono in fretta”. “No” dice Konrad. “Il mondo non significa niente. I fatti importanti non si dimenticano mai. Di questo mi sono reso conto solo più tardi, a mano a mano che mi avvicinavo alla vecchiaia. Ma i fatti marginali non esistono, li rimuoviamo come i sogni. Ad esempio, non ricordo più il reggimento” dice con ostinazione. “Da qualche tempo ricordo solo i fatti essenziali “. “ Per esempio Vienna e questa casa? E ad esse che alludi?... “.

“Vienna e questa casa” ripete automaticamente l’ospite. Strizza gli occhi e guarda fisso davanti a sé, sbattendo le ciglia. “ La memoria filtra ogni cosa in maniera incredibile. Ci sono grandi eventi di cui dieci, vent’anni dopo scopri che non hanno cambiato nulla dentro di te. E poi un bel giorno ti viene in mente una battuta di caccia, un particolare di un libro, o questa stanza. L’ultima volta che abbiamo cenato qui eravamo in tre. Krisztina era ancora viva. Era seduta qui, al centro. E la tavola era apparecchiata con lo stesso servizio “.

“Sì” dice il generale. “Davanti a te c’era l’Oriente, davanti a Krisztina il Meridione. E davanti a me l’Occidente “.

“Ricordi anche i dettagli?” domanda l’ospite con stupore. “ Ricordo tutto “. “Sì, a volte i dettagli hanno grande importanza. In un certo senso fungono da adesivo,

fissano la materia essenziale dei ricordi. Qualche volta l’ho pensato anch’io, ai Tropici, quando pioveva. Quella pioggia! “ dice, come se volesse cambiare argomento. “Va

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avanti per mesi interi. Tamburella sul tetto di lamiera della capanna come una mitragliatrice. La palude fuma, la pioggia è calda. Tutto è imbevuto di umidità, le lenzuola, la biancheria, i libri, il tabacco nella tabacchiera di latta, il pane. Tutto è viscido, appiccicoso. Te ne stai seduto in casa, i malesi cantano. La donna che ti sei preso in casa siede immobile in un cantuccio e ti guarda. Sono capaci di starsene sedute così per ore, immobili, a guardarti. All’inizio non ci fai caso. Poi diventi nervoso e le ordini di uscire dalla stanza. Ma è tutto inutile: sai che allora andrà a sedersi in un posto diverso, in qualche altra stanza della casa, e continuerà a guardarti anche attraverso le pareti. Hanno grandi occhi marroni simili agli occhi dei cani tibetani, di quelle carogne silenziose che sono le bestiacce più subdole del mondo. Ti guardano con quegli occhi luccicanti e tranquilli, e dovunque tu vada continui a sentire quello sguardo che ti insegue come un raggio malefico. Se ti metti a urlare, lei sorride. Se la prendi a schiaffi, ti guarda e sorride. Se la mandi via, si siede sulla soglia di casa e ti guarda. Allora sei costretto a richiamarla indietro. Partoriscono un figlio dopo l’altro, ma di questo non parla nessuno, loro meno che mai. E’ come se ti tenessi in casa una bestia, un’assassina, una sacerdotessa, una maga e un’invasata tutte insieme. Poi ti stanchi, perché quello sguardo ha una tale forza che finisce per logorare anche l’uomo più resistente. Ha la violenza di un contatto fisico e l’insistenza di una carezza. C’è da impazzire. Poi anche questo finisce per lasciarti indifferente. Cade la pioggia. Stai seduto nella tua stanza, bevi acquavite, moltissima acquavite, e fumi tabacco dolce. Ogni tanto arriva qualcuno, non ha molto da dire, beve acquavite e fuma tabacco dolce come te. Decidi di leggere, ma è come se la pioggia cadesse sulle pagine, confondesse le parole: non riesci ad afferrarne il senso, ascolti il rumore della pioggia. Decidi di suonare il pianoforte, ma la pioggia siede al tuo fianco, ti fa da accompagnatrice. Poi arriva la siccità, uno scintillio vaporoso. Si fa presto a diventare vecchi “. “La Fantaisie polonaise” domanda gentilmente il generale “l’hai mai suonata, ai Tropici?”. Adesso mangiano il roast beef al sangue, con grande appetito, masticando con precisione, con la voracità e la concentrazione dei vecchi, per i quali mangiare non significa semplicemente nutrirsi, ma compiere un atto ancestrale e solenne. Masticano e deglutiscono molto accuratamente, perché serve a procurarsi delle forze.

Per agire bisogna essere forti, e la forza si estrae anche dal cibo, dal roast beef al sangue e dal vino rosso. Mangiano biascicando un po’, con la devozione e il lugubre abbandono di chi non ha più tempo per farlo con eleganza, perché è più importante masticare meticolosamente tutte le fibre della carne, suggere dalla sua sostanza le forze vitali di cui si ha bisogno. Sembrano dei capi tribù a un banchetto rituale: solenni e metodici, con aria grave e guardinga. Da un angolo della stanza, il maggiordomo segue con sguardo apprensivo i movimenti del valletto, che arriva tenendo in equilibrio un grande vassoio sulla mano guantata di bianco. Al centro del vassoio, circondato da lingue di fuoco azzurrine e giallognole, fiammeggia un gelato al cioccolato.

I valletti versano lo champagne nei bicchieri dell’ospite e del padrone di casa. I due vecchi annusano con aria da intenditori il nettare color paglierino che scende da una

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bottiglia grande come il corpo di un bambino. Il generale assaggia un sorso di champagne, poi mette da parte il bicchiere. Fa cenno

di versargli dell’altro vino rosso. L’ospite osserva l’operazione socchiudendo gli occhi. Hanno mangiato e bevuto parecchio, e adesso hanno i volti arrossati.

“Ai tempi di mio nonno” dice il generale “si metteva una pinta di vino davanti a ogni invitato. Era la dose che toccava a ciascuno. Una pinta, un litro e mezzo. “Vino da tavola” veniva chiamato. Mio padre raccontava che si metteva del vino da tavola in caraffe di cristallo anche davanti agli invitati del re. Una per ciascuno degli ospiti. Ecco perché si chiamava vino da tavola: perché stava lì e si poteva berne a volontà. I vini di qualità venivano serviti a parte. Questa era la regola che vigeva per le bevande alla mensa del re “ . “ Sì “ dice Konrad, rosso in faccia, intento a digerire. “A quei tempi tutto avveniva secondo le regole” dice con noncuranza.

“Il re era seduto lì “ dice distrattamente il generale, indicando con un cenno il posto del re al centro della tavola. “ Mia madre sedeva alla sua destra, il parroco al la sua sinistra. Lui era al posto d’onore. Dormiva al piano di sopra, nella camera gialla. Dopo cena danzò con mia madre “ dice sommessamente e con aria quasi infantile, come fanno i vecchi quando si abbandonano ai ricordi. “Vedi, oltre a te non c’è più nessuno con cui possa parlare di queste cose. Anche per questo sono contento che tu sia tornato ancora una volta” dice con molta serietà. “ Un giorno hai suonato la Fantaisie polonaise insieme a mia madre. In seguito non l’hai più suonata, ai Tropici?” domanda di nuovo, come se si fosse finalmente ricordato la cosa più importante. L’ospite riflette.

“No. Ai Tropici non ho mai suonato Chopin. Sai, è una musica che mi tocca molto da vicino. Ai Tropici si diventa più impressionabili “. Ora che hanno mangiato e bevuto, il riserbo e la cerimoniosità della prima mezz’ora si sono allentati. Il sangue fluisce più caldo nelle loro arterie sclerotiche, hanno le vene gonfie sulla fronte e alle tempie. I valletti portano frutti di serra. Mangiano uva e nespole. La sala si è riscaldata, la brezza della sera estiva solleva le tende di seta grigia davanti alle portefinestre socchiuse.

“ Il caffè, “ dice il generale “ potremmo andare a prenderlo di là “ . In quell’istante, una folata di vento fa spalancare le finestre. Le tende cominciano a

svolazzare, oscilla anche il massiccio lampadario di cristallo, come sui grandi bastimenti quando scoppia un uragano. Per un attimo il cielo si illumina, un lampo sulfureo squarcia la notte, come una scure d’oro che si abbatte sulla vittima sacrificale. La tempesta invade fragorosa la stanza, spegne le fiammelle tremolanti di alcune candele; poi, tutt’a un tratto, sopraggiunge il buio. Il maggiordomo, con l’aiuto di due valletti, si precipita a chiudere i battenti delle finestre brancolando nel buio. Solo adesso si accorgono che anche la città è piombata nell’oscurità.

Il fulmine ha danneggiato la centrale elettrica. I due vecchi siedono in silenzio, al buio; l’ambiente è illuminato solo dal fuoco del camino e da due candele rimaste accese, che ardono solitarie. Poi arrivano i domestici con altri candelabri.

“Andiamo di là” ripete il generale, con l’aria di chi non si cura né del fulmine né dell’oscurità. Un domestico li precede sollevando in alto un candeliere per illuminare i

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loro passi. Si incamminano in silenzio in quella luce spettrale, un po’ esitanti, ondeggiando insieme alle loro ombre proiettate sui muri. Dalla sala da pranzo, attraverso salotti gelidi, arrivano in una stanza dove l’unico mobilio è costituito da un pianoforte a coda con il coperchio sollevato e da tre poltrone intorno a una stufa panciuta di maiolica in cui arde il fuoco. Lì si siedono e guardano il paesaggio immerso nelle tenebre attraverso la finestra velata da una tenda bianca che ricade fino a terra. Il domestico posa il caffè, i sigari e l’acquavite su un tavolino a portata di mano, e sulla mensola del camino un candelabro d’argento carico di candele da chiesa grosse come il braccio di un bambino. Ora tutti e due si accendono un sigaro. Siedono in silenzio, si riscaldano. Dalla stufa si sprigiona il calore uniforme della buona legna da ardere, la luce delle candele ondeggia sopra le loro teste. La porta è stata chiusa. Sono soli.

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13. “Ormai non ci resta più molto da vivere” dice di punto in bianco il generale, come se

tirasse le somme di una discussione svoltasi in silenzio. “ Un anno o due, forse anche meno. Non ci resta più molto da vivere, perché sei tornato. Lo sai bene anche tu. Hai avuto tempo per riflettere su queste cose, ai Tropici, e poi nella tua casa nei dintorni di Londra. Quarantun anni sono un tempo molto lungo. Ci hai riflettuto bene, non è vero?... Ma poi sei tornato, perché non potevi fare diversamente E io ti ho aspettato, perché nemmeno io potevo fare diversamente. E sapevamo entrambi che ci saremmo incontrati ancora una volta, e che poi sarebbe stata la fine. Della vita, e naturalmente di tutto ciò che ha dato un senso alle nostre vite e le ha mantenute in tensione fino a questo momento. Perché un segreto come quello che esiste fra te e me possiede una forza singolare. Una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione. Ti costringe a vivere... L’uomo vive finché ha qualcosa da fare su questa terra. Ti dirò quali sono state le mie esperienze nei quarantun anni che ho trascorso qui da solo in mezzo alla foresta, mentre tu vivevi ai Tropici e andavi in giro per il mondo. Anche la solitudine è un fatto abbastanza singolare... a volte è simile a una giungla, piena di pericoli e di sorprese. La conosco in tutte le sue forme. La noia che cerchi invano di scacciare mediante un sistema di vita costruito ad arte. E poi le crisi improvvise. Sì, anche la solitudine è misteriosa come la giungla” ripete con ostinazione. “ Un uomo vive secondo un ordine rigoroso, finché un giorno perde la testa e spacca tutto, come i tuoi malesi. Ha una casa comoda, ha titoli e ranghi, ha un modo di vita regolato con precisione maniacale. E un bel giorno si precipita fuori lasciandosi alle spalle tutto, con un’arma in pugno o disarmato... il che è quasi più pericoloso. Si precipita fuori nel mondo, con gli occhi sbarrati e lo sguardo fisso; i compagni, i vecchi amici si fanno da parte al suo passaggio. Va in giro per le metropoli, compra delle donne, cerca lo scontro e lo trova dovunque, intorno a lui tutto salta per aria. E come ti dicevo, questo non è ancora il peggio. Può darsi che venga atterrato durante la corsa, come un cane rabbioso. O che incontri mille ostacoli fino a rompersi la testa contro un muro. Ma la cosa peggiore è soffocare in sé le passioni che la solitudine gli ha accumulato dentro. Chi fa così non fugge da nessuna parte, non ammazza nessuno. Allora cosa fa? Vive, aspetta, mantiene l’ordine nella sua esistenza. Vive come un monaco, però segue una strana regola laica, anzi pagana... Ma per un monaco è tutto più semplice, perché crede in qualcosa. L’uomo in questione, che ha consegnato la sua anima e il suo destino alla solitudine, non crede in niente. Aspetta e basta. Aspetta il giorno o l’ora in cui potrà discutere ancora una volta di tutto ciò che lo ha costretto alla solitudine con colui o con coloro che lo hanno ridotto in quella

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condizione. Si prepara a tale momento per dieci o per quarantanni, diciamo pure, per l’esattezza, per quarantun anni, così come ci si prepara a un duello. Sistema tutte le sue faccende per non restare in debito con nessuno casomai dovesse perire nello scontro. E si allena tutti i giorni, come fanno gli spadaccini di professione. In che modo si allena? Mediante i ricordi, facendo sì che la solitudine e il tempo che scorre non leniscano quel lo che si porta nel cuore. Giacché nella sua vita si prospetta un duello, un duello senza spade, in vista del quale vale la pena di prepararsi fino in fondo. Ed ecco che un bel giorno quel momento arriva. Lo credi anche tu?”.

“Assolutamente” dice l’ospite. E guarda la cenere del suo sigaro. “ Sono lieto che lo creda anche tu” dice il generale. “E’ stata questa attesa a

mantenermi in vita. Naturalmente, come per tutto ciò che fa parte della vita, anche in questo caso esiste una scadenza. Se non avessi avuto la certezza che un giorno saresti tornato, probabilmente sarei venuto io alla tua ricerca, ieri o vent’anni fa. E ti avrei certamente trovato, ovunque tu fossi... nella tua casa vicino a Londra, oppure ai Tropici in mezzo ai malesi, persino in fondo all’inferno. Perché ti avrei cercato, lo sai bene. I fatti veri, quelli decisivi, si vengono a sapere, a quanto pare. Hai ragione tu: si vengono a sapere senza che ci sia bisogno né della radio né del telefono. A casa mia non c’è il telefono, a parte un apparecchio giù nell’ufficio dell’intendente, e non c’è la radio, perché nelle stanze in cui vivo ho vietato l’ingresso al frastuono demenziale del mondo. Il mondo esterno non può nulla contro di me. Nuovi ordinamenti mondiali possono annientare la forma di vita in cui sono nato e vissuto, forze aggressive e torbide possono distruggermi, togliermi la libertà e la vita. Tutto ciò mi lascia indifferente. L’importante è non scendere a patti con un mondo che ho conosciuto ed estromesso dalla mia vita. Eppure, anche senza i mezzi di comunicazione moderni, sapevo che eri vivo e che un giorno saresti tornato da me. Non ho sollecitato l’arrivo di questo momento. Volevo aspettarlo come si aspetta il turno e il tempo di ogni cosa. E adesso eccolo qui “. “ Cosa vuoi dire con questo?” domanda Konrad. “ Sono andato via e ne avevo il diritto. E’ vero, sono andato via all’improvviso, senza congedarmi da nessuno. Ma tu sapevi, ti sarai reso conto senz’altro che non potevo fare diversamente, che dovevo agire in quel modo “.

“Non potevi fare diversamente?” domanda il generale alzando il capo. Fissa l’ospite con sguardo penetrante, come se fosse un oggetto. “E’ proprio questo il punto. Me lo chiedo da tanto tempo. Facendo i calcoli, da quarantun anni “. E dato che l’altro rimane in silenzio: “Ora che sono vecchio, penso spesso alla mia fanciullezza. Dicono che sia un processo naturale. Quando la fine si approssima, il ricordo degli inizi si fa più netto e intenso. Vedo dei volti e sento delle voci. Vedo l’istante in cui ti ho presentato a mio padre nel giardino del collegio. Lui ti accettò come amico, perché eri il mio amico. Non concedeva la sua amicizia a chiunque. Parlava poco, ma su ciò che diceva si poteva fare affidamento fino alla morte. Ricordi quell’istante?... Stavamo in piedi sotto i castagni, davanti allo scalone d’ingresso, e mio padre ti strinse la mano. “Tu sei l’amico di mio figlio” disse. “Onorate entrambi questa amicizia” aggiunse solenne. Credo che per lui non ci fosse nulla di più importante dell’onore. Mi ascolti?... Grazie. Allora vado avanti.

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Cercherò di andare per ordine. Non preoccuparti, la carrozza ti aspetta per ricondurti in città in qualsiasi momento, se preferisci andar via. Non sarai costretto a passare la notte qui, se non lo desideri. Voglio dire che forse per te sarebbe poco piacevole dormire qui. Ma se preferisci, puoi anche fermarti per la notte “ dice con indifferenza, come di sfuggita. E quando l’altro fa un cenno di diniego: “Come vuoi. La carrozza ti aspetta. Ti ricondurrà in città, e domattina potrai partire per tornare a casa tua, nei dintorni di Londra oppure ai Tropici, dove ti pare. Prima però ascoltami “. “Ti ascolto” dice l’ospite. “Grazie” prosegue il generale in tono più vivace. “Potremmo anche parlare di argomenti diversi. Due vecchi amici hanno molti ricordi in comune, quando il sole è tramontato su di loro. Ma visto che ormai sei qui, parleremo solo della verità. Avevo iniziato a dire che mio padre ti ha accettato come amico. Sai bene che cosa significasse per lui; sai che, in caso di disgrazie o disavventure di ogni genere, la persona a cui aveva stretto la mano poteva contare su di lui fino alla morte. Certo, non capitava spesso che stringesse la mano a qualcuno. Ma una volta che si decideva a farlo era per sempre. Fu così che ti strinse la mano nel cortile del collegio, sotto i castagni. All’epoca avevamo dodici anni. Quel fatto segnava la fine della nostra fanciullezza.

A volte, di notte, rivedo quell’istante con la massima chiarezza, come tutte le cose che sono state importanti per me nella vita. Per mio padre la parola “amicizia” aveva esattamente lo stesso significato di “onore”. Lo sapevi bene, visto che lo conoscevi. E per me, lascia che te lo dica, forse significava ancora di più. Perdonami, ciò che dirò adesso forse ti metterà a disagio” dice pacatamente, quasi con affetto. “ Non mi metterà a disagio “ risponde Konrad con lo stesso tono. “ Continua “ .

“Vorrei proprio sapere” prosegue il generale come se stesse parlando tra sé “se l’amicizia esiste veramente. Non mi riferisco al piacere occasionale di due persone che si rallegrano di essersi incontrate perché a un certo punto della vita si trovano a ragionare nella stessa maniera su determinate questioni, si scoprono gli stessi gusti e preferiscono gli stessi svaghi. Tutto questo non ha niente a che fare con l’amicizia. A volte mi sembra quasi che essa rappresenti la relazione più intima che esiste nella vita... Forse per questo è talmente rara. E su cosa si fonda, allora? Sulla simpatia? E’ un termine improprio, troppo blando: non si può dire che la simpatia sia sufficiente a indurre due persone a farsi carico l’una dell’altra nelle situazioni più critiche della loro esistenza. Su che cos’altro, dunque? Non c’è forse un pizzico di eros al fondo di tutte le relazioni umane? Qui, nella mia solitudine, in mezzo alla foresta, mentre mi sforzavo, non avendo altro da fare, di comprendere i fatti della vita, qualche volta me lo sono chiesto. Naturalmente l’amicizia non ha nulla in comune con le inclinazioni di coloro che cercano di soddisfare il loro desiderio distorto con persone dello stesso sesso. L’eros dell’amicizia non ha bisogno dei corpi... essi, anzi, lo disturbano più di quanto non lo attraggano. Ma si tratta pur sempre di eros. C’è eros al fondo di tutti gli affetti e di tutte le relazioni umane. Sai, ho letto parecchio” dice quasi scusandosi. “Oggi si scrive molto più liberamente su queste cose. Ma ho letto e riletto anche Platone, perché a scuola non lo capivo ancora. Mi sono detto - e certamente tu, che hai girato il mondo più di me, ne

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sai molto più di quanto ne sappia io nel la mia solitudine campestre - che l’amicizia è il rapporto più nobile che esista fra gli esseri umani. E’ strano, ma anche gli animali lo conoscono. L’amicizia, l’abnegazione, la solidarietà esistono anche tra gli animali. Un principe russo ha scritto qualcosa in proposito... non ricordo più il suo nome. Leoni, urogalli, ogni genere di creature, fanno del loro meglio per soccorrere i loro simili in difficoltà, anzi, ho constatato con i miei occhi che a volte prestano aiuto anche ad animali di specie diversa. Ti è mai capitata qualche esperienza del genere, mentre stavi all’estero? Da quelle parti l’amicizia sarà senz’altro diversa, più progredita e moderna di quanto non lo sia qui da noi, nel nostro mondo arretrato. Le creature viventi si organizzano per prestarsi aiuto a vicenda... a volte hanno difficoltà a superare gli ostacoli che si frappongono al loro intervento, però esistono sempre, in tutte le comunità vitali, delle creature forti pronte a offrire il loro aiuto. Come ti ho detto, ho incontrato centinaia di esempi nel mondo animale. Tra gli uomini, gli esempi che ho rintracciato sono più rari. Per l’esattezza, non ne ho trovato neanche uno. Le simpatie che ho visto nascere tra gli uomini sono sempre naufragate, alla fine, nelle paludi dell’egoismo e della vanità. Il cameratismo o l’affiatamento assumono talvolta le parvenze dell’amicizia. Gli interessi comuni producono talvolta situazioni che somigliano all’amicizia. E per sfuggire alla solitudine gli uomini indulgono volentieri a rapporti confidenziali di cui in seguito si pentono, ma che per qualche tempo permettono loro di illudersi che la confidenza sia già una forma di amicizia. Naturalmente in questi casi non si tratta mai di vera amicizia. Ci si immagina - e mio padre ne era ancora convinto - che l’amicizia costituisca un servizio. L’amico, così come l’innamorato, non si aspetta di veder ricompensati i suoi sentimenti. Non esige contropartite per i suoi servizi, non considera la persona eletta come una creatura fantastica, conosce i suoi difetti e l’accetta così com’è, con tutto ciò che ne consegue. Questo sarebbe l’ideale. E in effetti: vale forse la pena di vivere, di essere uomini, senza un ideale come questo? E se un amico ci delude perché non è un vero amico, possiamo forse metterlo sotto accusa, rinfacciargli il suo carattere, la sua debolezza? Quanto vale un’amicizia in cui apprezziamo l’altro per le sue virtù, per la sua fedeltà, la sua perseveranza? Quanto vale un’amicizia che ambisca a essere premiata? Non abbiamo forse il dovere di accettare l’amico infedele esattamente come quello fedele e pieno di abnegazione? Non è forse questo il contenuto più autentico di ogni relazione umana, un altruismo che dall’altro non esige nulla e non si aspetta nulla, assolutamente nulla? E che quanto più dà tanto meno si aspetta di essere contraccambiato? Chi dedica all’altro tutta la confidenza della giovinezza e tutta l’abnegazione dell’età virile, oltre al dono più prezioso che un essere umano possa offrire a un suo simile - la fiducia più appassionata, cieca e assoluta-, e si vede ripagato con l’infedeltà e l’abbandono, ha forse il diritto di offendersi, di volersi vendicare? E se colui che è stato tradito e abbandonato si offende, se grida vendetta, era davvero un amico? Vedi, sono queste le domande alle quali mi sono sforzato di rispondere quando sono rimasto solo. Naturalmente la solitudine non mi ha fornito alcuna risposta. Neanche i libri mi hanno risposto in modo esauriente. Né i libri antichi, gli scritti dei saggi cinesi,

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ebrei e latini, né quelli moderni, che usano termini espliciti ma contengono solo parole e non la verità. E poi, in fondo, qualcuno ha mai detto o scritto la verità?... Me lo sono chiesto spesso, quando ho iniziato a indagare nel mio animo e nei libri. Il tempo passava, la vita intorno a me cambiava, calava una sorta di crepuscolo. I libri e i ricordi si accumulavano, si infittivano sempre di più. E ogni libro conteneva un pizzico di verità, e ogni ricordo mi insegnava che è vano cercare di scoprire la vera natura dei rapporti umani, perché la conoscenza non ci aiuterà a diventare più saggi. Ecco perché non abbiamo il diritto di esigere franchezza e piena fedeltà da chi abbiamo scelto come amico, tanto più se gli eventi hanno dimostrato che questo amico ci è stato infedele “.

“Hai la certezza assoluta” domanda l’ospite “che questo amico sia stato infedele?”. Di colpo ammutoliscono entrambi. Nell’oscurità, al la luce vacillante delle candele, sono due sagome minute: due fragili vecchi incartapecoriti che si guardano e quasi si perdono in quella penombra. “ Non ne ho la certezza assoluta “ dice il generale. “ E’ per questo che sei qui. E’ proprio di questo che stiamo parlando “.

Si appoggia allo schienale della poltrona, incrocia le braccia con gesto calmo e controllato. Dice: “ Perché esiste una verità basata sui fatti. E’ accaduto questo e quest’altro, in questo o quel momento. Sono cose facili da stabilire. I fatti parlano da soli, come si suol dire, e verso la fine della vita tutti i fatti messi insieme lanciano accuse urlando a squarciagola, più forte di un imputato sottoposto a tortura. Su quanto è accaduto non possono esserci equivoci. Ma talvolta i fatti non sono altro che deplorevoli conseguenze. Non si pecca solo mediante le azioni, bensì mediante l’intenzione che ci spinge a compiere determinate azioni. L’intenzione è tutto. I grandi ordinamenti giuridici d’ispirazione religiosa del passato, che ho consultato, lo dichiarano esplicitamente. Un uomo può macchiarsi di infedeltà, di atti infami, sì, può anche toccare il fondo, commettere omicidio, e conservare tuttavia la sua purezza interiore. L’azione non corrisponde ancora al la verità. E’ una semplice conseguenza. Se un giorno qualcuno indossa la veste del giudice e vuole emettere un giudizio, non può accontentarsi dei fatti elencati in un rapporto di polizia, deve scoprire ciò che i giuristi chiamano il movente. Il fatto della tua fuga è facile da stabilire, il suo motivo no. Puoi credermi se ti dico che in questi quarantun anni ho preso in esame tutte le ipotesi che potessero aiutarmi a capire il perché di quel tuo passo incomprensibile. Ma nessuna di esse mi ha fornito una risposta. Questa può darmela soltanto la verità “.

“Tu parli di fuga” dice Konrad. “E’ una parola pesante. In fin dei conti non dovevo niente a nessuno. Avevo rinunciato al mio incarico presentando delle dimissioni in piena regola. Non mi sono lasciato dietro debiti infamanti, non ho fatto promesse che sapessi di non poter mantenere. Fuga è una parola molto dura” dice gravemente, e si raddrizza un po’. Ma un tremito nella voce risentita rivela che la sua indignazione non è completamente sincera.

“ Può darsi che sia una parola molto dura “ dice il generale con un cenno di assenso. “ Ma se guardi da lontano ciò che è accaduto devi ammettere che è difficile trovare un’espressione più blanda. Dici che non dovevi niente a nessuno. In parte è vero e in

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parte no. Naturalmente non dovevi niente al tuo sarto o agli usurai della città. Anche a me, peraltro, non dovevi né denaro né l’adempimento di qualche promessa. E tuttavia, quel giorno di luglio - vedi, ricordo anche il giorno: era un mercoledì -, quando hai abbandonato la città, sapevi che ti lasciavi un debito alle spalle. La mattina seguente andai a casa tua dove mi dissero che eri partito. Lo seppi in circostanze singolari. Se vorrai, riparleremo anche di questo. Dunque andai a casa tua, dove a ricevermi era rimasto soltanto il tuo attendente. Lo pregai di lasciarmi solo nella stanza in cui eri vissuto in quegli anni, da quando prestavi servizio in città, vicino a noi “. Si interrompe. Si abbandona contro lo schienale della poltrona e si copre gli occhi col palmo della mano, come se cercasse di guardare nel passato. Poi riprende con calma: “E’ ovvio che l’attendente obbedì al mio ordine, anche perché non poteva fare altro. Rimasi solo nella stanza in cui eri vissuto. Mi guardai intorno con molta attenzione... perdonami questa curiosità indiscreta. Ma in un certo senso non riuscivo a credere alla realtà dei fatti, non riuscivo a capacitarmi che l’uomo insieme al quale avevo trascorso buona parte della mia vita - esattamente ventiquattro anni, quelli più bel li, quelli della fanciullezza, della gioventù e dell’età virile - fosse fuggito in quel modo. Mi sforzai di trovare delle attenuanti, la scoperta di essere affetto da una grave malattia, una crisi di follia improvvisa, che avessi contratto debiti di gioco e qualcuno ti stesse braccando; perfino che ti fossi macchiato di qualche atto infamante nei confronti del reggimento, della bandiera, della tua parola e del tuo onore. Erano queste le mie speranze. Sì, non stupirti, allora ai miei occhi queste erano tutte colpe meno gravi rispetto a quella che avevi commesso nei miei confronti. Avrei accettato qualsiasi cosa come scusante e spiegazione, persino l’infedeltà agli ideali del nostro mondo. C’era soltanto una cosa che non riuscivo a spiegarmi: l’offesa fatta a me. Per questa non c’erano scusanti. Ti eri dileguato come un truffatore, di nascosto come un ladro. Poche ore prima ti trovavi ancora con noi, con Krisztina e con me, al castello, dove per anni e anni avevamo trascorso insieme innumerevoli ore - del giorno e a volte anche della notte - in un’intimità fraterna e una confidenza pari soltanto a quella in cui vivono i gemelli, strani esseri che per un capriccio della natura sono legati l’uno all’altro per la vita e per la morte. I gemelli, sai, anche da lontano, anche in età adulta, sanno tutto l’uno del l’altro, e una bizzarra legge biologica li costringe ad ammalarsi contemporaneamente e a soffrire delle stesse malattie, anche se uno di loro vive a Londra e l’altro chissà dove, in qualche paese straniero. Non si scrivono, non si parlano, abitano, vivono, si nutrono in condizioni diverse, sono separati da migliaia e migliaia di chilometri. E tuttavia all’età di trenta o quarant’anni vengono aggrediti, nello stesso momento, con le stesse probabilità di guarigione o di esito infausto, dallo stesso male, ad esempio un travaso di bile o un’appendicite. I due corpi fanno parte di un’unità organica, come un tempo nell’utero materno... E amano e odiano la stessa persona. Esistono casi del genere, in natura. Non sono frequenti, ma neppure così rari come si crede di solito. E a volte mi sono chiesto se l’amicizia non costituisca un legame simile a quello fatale che unisce i gemelli. Una singolare identità di inclinazioni, simpatie, gusti, cultura e passioni accomuna due

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uomini, vincolandoli - anche se uno di loro tenta di opporsi all’altro - a un medesimo destino. E inutile che uno dei due fugga lontano, continueranno comunque a sapere l’essenziale l’uno dell’altro. Inutile che uno dei due si scelga un nuovo amico o una nuova amante: senza il tacito consenso dell’altro non potrà liberarsi da quel legame. Il destino di uomini come questi si compie in parallelo, anche se uno di loro se ne va, si allontana dall’altro il più possibile e finisce per esempio ai Tropici. Era a questo che pensavo mentre mi trovavo nella tua stanza il giorno della tua fuga. Rivedo chiaramente quei momenti, l’illuminazione della stanza, sento l’odore pesante del tabacco inglese, vedo i mobili, l’ottomana ricoperta da un grande tappeto orientale, i dipinti di cavalli alle pareti. Ricordo anche una poltrona di pelle color vinaccia, più adatta a un fumoir. L’ottomana era molto ampia, era evidente che l’avevi fatta costruire appositamente, dalle nostre parti non si trovavano mobili del genere. E poi non era un’ottomana vera e propria, ma piuttosto un grande letto alla francese, adatto a ospitare due persone”. Guarda il fumo del sigaro.

“La finestra si apriva sul giardino, se ben ricordo... Fu la prima e l’ultima volta che mi recai in quella casa. Non avevi mai voluto che ti facessi visita. Mi avevi detto casualmente di aver preso in affitto una casa alla periferia della città, in una zona sperduta, una casa con giardino. L’avevi presa tre anni prima della fuga - scusami, vedo che non ti fa piacere sentire questa parola”. “Continua” dice l’ospite. “Le parole non hanno importanza. Continua, visto che hai cominciato “. “Credi?” domanda il generale, un po’ disorientato. “ Secondo te le parole non hanno importanza? Io non oserei affermarlo con tanta sicurezza. Certe volte mi sembra che le parole, quelle che uno pronuncia, quel le che evita di dire o quelle che scrive al momento giusto, abbiano un’importanza grandissima, forse addirittura decisiva... Sì, sono convinto che sia così” dice a questo punto con determinazione. “Tu non mi hai mai invitato a casa tua e io non potevo farti visita senza essere stato invitato. A dire la verità, credevo che ti vergognassi di quell’abitazione, che avevi arredato di tasca tua, di fronte a me che ero un uomo ricco... Forse i mobili ti sembravano troppo modesti... Tu eri una persona estremamente orgogliosa. L’unica cosa che ci separasse, nella nostra giovinezza, era il denaro. Tu eri pieno di orgoglio e non riuscivi a perdonarmi di essere ricco. Più tardi, col passare del tempo, mi sono detto che forse, in effetti, non è possibile perdonare la ricchezza altrui. Il mio patrimonio, di cui tu, in qualità di ospite, potevi godere a tuo piacimento, era talmente esagerato... Per me rappresentava un fatto scontato sin dalla nascita, eppure talvolta avevo l’impressione che tanta opulenza fosse ingiustificabile. E tu sei sempre stato molto attento a farmi sentire la differenza che esisteva tra noi in fatto di denaro. I poveri, e specialmente i poveri di nobili origini, non perdonano “ dice, stranamente soddisfatto. “Ecco perché pensai che forse cercavi di nascondermi la tua casa, che ti vergognavi del l’arredamento troppo modesto. E’ una supposizione stupida, ormai lo riconosco, ma giustificata dal tuo smisurato orgoglio. E così un bel giorno mi trovai nella casa che avevi preso in affitto e arredato senza avermela mai mostrata; ero lì, nella tua stanza, talmente sbalordito da non credere ai miei occhi. Quella casa, lo sai bene, era

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un capolavoro. Non era grande: una camera spaziosa al pianterreno e due più piccole al piano di sopra, ma il giardino, le stanze, i mobili, tutto rivelava la mano di un artista. Allora mi resi conto che tu eri veramente un artista. E capii come dovevi esserti sentito estraneo tra noi, persone appartenenti a una razza diversa. E quanto fossero colpevoli nei tuoi confronti quei due genitori che, spinti dall’affetto e dall’ambizione, ti avevano destinato alla carriera militare. No, tu non eri un soldato, e mi resi conto della profonda solitudine in cui eri vissuto tra noi. Ma quella casa era il tuo rifugio segreto, qualcosa di simile a ciò che dovevano essere le fortezze o i conventi per le anime solitarie del Medioevo. E, come fa un pirata col suo bottino, tu avevi accumulato là dentro oggetti raffinati e belli di tutti i generi: tendaggi e tappeti, bronzi e argenti antichi, cristalli e mobili, tessuti rari... So che in quegli anni era morta tua madre, e avevi ereditato qualcosa anche dai parenti polacchi della tua famiglia. Una volta avevi accennato al fatto che da qualche parte, lungo il confine russo, esistevano una residenza nobiliare e un podere che un giorno sarebbero stati tuoi. Ecco come erano finiti: trasformati in una casa di tre vani, in mobili e dipinti e nel grande pianoforte a coda, coperto da un drappo di broccato antico, sistemato al centro della sala al pianterreno, con sopra un vaso di cristallo contenente tre orchidee. Da queste parti la mia serra era l’unico luogo in cui si coltivassero orchidee. Mi aggirai per la stanza e osservai attentamente ogni cosa. Mi resi conto che eri vissuto tra noi, eppure non eri mai stato uno di noi. Ecco perché avevi costruito quel capolavoro di casa che con strana ostinazione tenevi celata agli occhi del mondo e dove vivevi solo per te e per la tua arte. Perché tu sei un artista, e forse avresti potuto creare qualcosa” dice con il tono di chi non ammette repliche. “ Lì, tra i mobili rari della tua dimora abbandonata, me ne resi pienamente conto. E proprio in quell’istante entrò Krisztina”. Incrocia le braccia sul petto, quindi prosegue con aria impassibile e flemmatica, come se stesse esponendo le circostanze di un incidente in un commissariato di polizia:

“Stavo in piedi davanti al pianoforte e guardavo le orchidee. Quella casa era come il travestimento di qualcuno. O forse per te il travestimento era l’uniforme? Sei l’unico a potermi dare una risposta, e in effetti, ora che tutto è finito, la risposta l’hai data con la tua vita. Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza. Non ha importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali argomenti ci si difende. Alla fine, alla fine di tutto, è con i fatti della propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con tanta insistenza. Essi sono: Chi sei?... Cosa volevi veramente?... Cosa sapevi veramente?... A chi e a che cosa sei stato fedele o infedele?... Nei confronti di chi o di che cosa ti sei mostrato coraggioso o vile?... Sono queste le domande capitali. E ciascuno risponde come può, in modo sincero o mentendo; ma questo non ha molta importanza. Ciò che importa è che alla fine ciascuno risponde con tutta la propria vita. Tu ti sei tolto l’uniforme perché ti sembrava che fosse un travestimento, e questa era già una risposta. Io invece ho continuato a indossarla fino al l’ultimo, fino a quando l’esercito e il mondo me lo hanno richiesto; ed ecco la mia risposta. Questa era la prima domanda. L’altra è: di quale natura era la tua

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relazione con me? Eri veramente mio amico? In fin dei conti ti sei dato alla fuga. Sei andato via senza una parola di commiato, anche se forse non lo si può affermare con tanta sicurezza, giacché il giorno prima, durante la caccia, era accaduto qualcosa, qualcosa di cui soltanto più tardi compresi il significato: forse era stato quello il tuo modo di prendere commiato. Accade di rado che si sappia quale delle nostre parole o delle nostre azioni preannunci fatalmente, in maniera irrevocabile, un cambiamento nelle relazioni umane. Perché mai, del resto, mi sarei recato da te proprio quel giorno? Non mi avevi chiamato, non avevi annunciato la tua partenza né lasciato alcun messaggio. Cosa cercavo in quella casa, in cui non mi avevi mai invitato, lo stesso giorno in cui sei andato via per sempre? Quale presentimento mi ha spinto a salire in carrozza, con la massima urgenza, e a precipitarmi in città per cercarti nella tua dimora ormai deserta?... Cosa avevo appreso il giorno prima, durante la caccia? Qualcosa mi aveva forse insospettito?... Avevo forse ricevuto un messaggio riservato, un avvertimento, una comunicazione relativa al fatto che ti stavi preparando alla fuga?... No, tutti avevano taciuto, persino Nini - ricordi la vecchia balia? Lei sapeva tutto di noi. Se è ancora viva? Sì, a modo suo è viva. E viva come questo albero davanti alla finestra, piantato a suo tempo dal mio bisnonno. Anche a lei, come a tutti gli esseri viventi, è stata assegnata una misura di tempo, una misura da colmare fino in fondo. Lei sapeva. Ma neppure lei mi disse niente. Ero completamente solo, in quei giorni. Eppure sapevo che era giunto il momento in cui tutto era maturato al punto giusto, tutto sarebbe venuto alla luce, tutto e tutti avrebbero dovuto occupare il posto che spettava loro, tu, io, tutti quanti. Di questo mi resi conto durante la caccia” dice con aria meditabonda, come se chiarisse a se stesso una questione dibattuta a lungo. E tace. “ Di che cosa esattamente ti sei reso conto?” domanda Konrad.

“Fu una bella caccia” dice il generale quasi con calore, come se rivivesse col pensiero ogni particolare di un ricordo che gli è caro. “Fu l’ultima grande caccia che si tenne in questi boschi. A quei tempi esistevano ancora dei cacciatori, dei veri cacciatori... può darsi che ce ne siano ancora oggi, non lo so. Quella fu l’ultima volta che andai a caccia nei miei boschi. Da allora qui si presentano solo uomini armati di fucile, ospiti che vengono accolti dall’amministrazione della tenuta e fanno esplodere colpi di arma da fuoco nel bosco. La caccia, quella vera, era qualcosa di diverso. Tu non puoi capirlo perché non sei mai stato un cacciatore. Per te anche questo rappresentava solo un obbligo, uno degli obblighi da gentiluomo che facevano parte del tuo mestiere, come l’equitazione o la vita di società. Andavi a caccia, sì, ma con l’aria di chi si sottomette a una convenzione sociale. Andavi a caccia col disprezzo scritto in volto. E anche l’arma la reggevi con noncuranza, come un bastone da passeggio. Non essendo cacciatore, non conoscevi quella strana passione, la più segreta dell’animo maschile, al di là di ogni ruolo e cultura, radicata e profonda come il fuoco nel le viscere della terra. Questa passione è il desiderio di uccidere. Siamo uomini, uccidere è un imperativo del la nostra vita. Non possiamo fare diversamente... L’uomo uccide per difendere qualcosa, uccide per procurarsi qualcosa, uccide per vendicarsi di qualcosa. Sorridi con disprezzo? Tu eri

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un artista: forse questi istinti bassi e brutali si sono attenuati nella tua anima delicata?... Credi di non aver mai ucciso qualcosa di vivo? Non esserne così sicuro” dice severamente. “In questa serata che ci vede riuniti non ha senso parlare di nient’altro all’infuori della verità, dell’essenziale, perché il nostro incontro non si ripeterà, e forse non saranno più molti i giorni e le sere che seguiranno, tantomeno poi le serate speciali come questa. Forse ricorderai che una volta, tanto tempo fa, andai anch’io in Oriente; fu durante il mio viaggio di nozze con Krisztina. Attraversammo terre abitate dagli arabi, e a Baghdad fummo ospitati da una famiglia araba. E’ gente di grande nobiltà d’animo, come saprai anche tu che hai girato il mondo. La loro fierezza, il loro contegno dignitoso, la loro passionalità e la loro calma, la disciplina del loro corpo e la sicurezza dei loro gesti, i loro giochi, il fuoco del loro sguardo, tutto rispecchia una nobiltà di antica data, quella particolare nobiltà dei tempi in cui l’uomo, nel caos dei primordi, prese coscienza per la prima volta della propria dignità umana. Esiste una teoria secondo la quale la nostra specie ha avuto origine dal mondo arabo, all’inizio dei tempi, prima di frazionarsi in tribù, popoli e civiltà diverse. Forse è per questo che sono talmente orgogliosi. Non lo so, non sono addentro in questioni del genere... Invece so qualcosa della fierezza degli uomini. Così come gli individui, anche in assenza di particolari segni distintivi, riconoscono di appartenere alla stessa razza e allo stesso rango, durante quelle settimane in Oriente intuii che laggiù tutti, anche il più sudicio dei cammellieri, erano dei signori. Come ti dicevo, abitavamo presso una famiglia indigena, in una casa che era una specie di palazzo; ci ospitavano dietro raccomandazione del nostro ambasciatore. Quelle case candide e fresche... Le conosci, non è vero? Il grande cortile, in cui ferve incessantemente la vita della famiglia e della tribù, e che serve al tempo stesso da mercato, da parlamento e da luogo di preghiera... Quella scioltezza e quella passione dei giochi che traspare da ogni loro gesto. Quell’inerzia dignitosa, dietro la quale il piacere di vivere e le passioni si annidano come il serpente tra le pietre immobili battute dal sole. Una sera, in nostro onore, venne offerta una cena. Fino a quel momento ci avevano ospitati secondo uno stile quasi europeo; il padrone di casa, uno degli uomini più facoltosi della città, era giudice e al tempo stesso contrabbandiere. Le camere degli ospiti erano arredate con mobili inglesi, la vasca da bagno era di argento massiccio. Ma quella sera vedemmo qualcosa di eccezionale. Gli invitati arrivarono dopo il tramonto; erano tutti uomini, signori con i loro servi. In mezzo al cortile divampava un fuoco che emanava un fumo soffocante, il fumo dello sterco di cammello che fa bruciare gli occhi. Tutti si sedettero in silenzio attorno al fuoco. Krisztina era l’unica donna tra noi. Quindi portarono un agnello, un agnello bianco, e il padrone di casa tirò fuori il coltello e lo sgozzò, con un gesto che non potrò mai dimenticare... E’ impossibile impararlo, perché è un gesto orientale che risale a un’epoca in cui l’atto di uccidere possedeva ancora un significato simbolico, religioso, collegato a qualcosa di essenziale: la vittima. Fu così che Abramo alzò il coltello su Isacco, quando decise di compiere il sacrificio; con quel gesto, nei templi dell’antichità si immolavano gli animali dinanzi all’altare, all’idolo, al simulacro della divinità; con il medesimo gesto venne decapitato san Giovanni Battista.

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In Oriente esso sopravvive in maniera occulta nelle mani di ogni uomo. Forse fu questo gesto a segnare l’avvento dell’uomo, a stabilire la distinzione tra l’animale e l’essere umano...

Secondo gli antropologi, l’uomo nacque quando acquistò la facoltà di opporre il pollice alle altre dita ossia nell’istante in cui riuscì a impugnare un’arma, uno strumento di lavoro. Ma può anche darsi che i suoi inizi siano legati alla sua anima piuttosto che ai suoi pollici; su questo non sono in grado di pronunciarmi. Il gentiluomo arabo sgozzò l’agnello e per un attimo quell’uomo anziano avvolto in un burnus bianco, sul quale non era schizzata neanche una goccia di sangue, apparve simile a un gran sacerdote orientale nell’atto di immolare la vittima sacrificale. Gli brillavano gli occhi e sembrava ringiovanito. Tutt’intorno regnava un silenzio di tomba. Gli invitati sedevano attorno al fuoco, seguivano con lo sguardo l’atto di infliggere il colpo mortale, il balenio della lama, il corpo dell’agnello che si dibatteva, il sangue che sgorgava a fiotti. Gli occhi di tutti i presenti luccicavano. Allora compresi che quella gente era ancora così vicina all’atto di uccidere che la vista del sangue le era familiare, e il balenio di un coltello era per loro un fenomeno naturale come il sorriso di una donna o la pioggia che cade. Immagino che lo avvertisse anche Krisztina, perché la vedevo come affascinata; arrossiva, impallidiva, respirava a fatica, poi tutt’a un tratto voltò la testa, per l’imbarazzo di assistere a una scena di sfrenata sensualità. Comprendemmo che in Oriente la gente conosce ancora il significato sacro e simbolico dell’uccisione, e anche il suo occulto significato erotico. Giacché sorridevano tutti, e su quei nobili volti bruni si vedevano espressioni di giubilo e sguardi estasiati, come se l’uccisione fosse qualcosa di salutare e di esaltante, simile a un amplesso. E’ strano: nella lingua ungherese queste due parole, uccisione e amplesso, rimano tra loro e derivano l’una dall’altra... Ovviamente noi siamo degli occidentali “ dice con voce diversa, in tono un po’ didascalico. “Apparteniamo all’Occidente, o per lo meno siamo degli immigrati divenuti ormai sedentari. L’uccisione, per noi, rappresenta una questione giuridica e morale o un problema di pertinenza medica, comunque una cosa ammessa o proibita, un fatto definito con la massima precisione da un ampio codice morale e giuridico. Anche noi uccidiamo, ma in maniera più complicata, secondo i modi prescritti o autorizzati dalla legge. Uccidiamo in difesa di ideali sublimi e di beni umani preziosi, uccidiamo per tutelare le regole della convivenza umana. Né possiamo fare diversamente. Siamo cristiani, adepti della civiltà occidentale, siamo portati a sentirci colpevoli. La nostra storia è disseminata fino ai nostri giorni di una lunga serie di stermini, eppure parliamo dell’uccisione tenendo gli occhi bassi, in tono di pia recriminazione; non possiamo fare diversamente, è questo il ruolo che ci è stato assegnato. Solo la caccia fa eccezione” dice rasserenandosi. “Anche in questo caso dobbiamo osservare certe regole cavalleresche e di ordine pratico, risparmiamo la selvaggina nella misura in cui lo esigono le condizioni di una determinata zona, tuttavia la caccia rappresenta ancora un sacrificio, un riflesso imperfetto di un antichissimo rito religioso che ha la stessa età dell’uomo. Perché non è vero che il cacciatore uccide per procurarsi la preda. Non ha mai ucciso unicamente per

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questo, neanche in epoca primordiale, ai tempi in cui la caccia era l’unica possibilità di procacciarsi il cibo. La caccia è sempre stata accompagnata da riti di ordine tribale e religioso. Il buon cacciatore è sempre stato il primo della sua tribù, che gli attribuiva poteri e dignità di sacerdote. Naturalmente tutto ciò si è perso con il passare del tempo. Ma sebbene i riferimenti siano ormai sbiaditi, la caccia ha conservato la sua natura di rito. Forse non ho mai amato nulla in vita mia come quelle partenze per la caccia alle prime luci dell’alba. Ci si sveglia che è ancora buio, ci si veste in modo totalmente diverso dagli altri giorni, con indumenti adatti alla circostanza, si fa colazione in maniera diversa, ci si rincuora con un bicchiere di acquavite e sbocconcellando un po’ di arrosto freddo nella stanza illuminata da una lanterna. Amavo l’odore degli abiti da caccia; il panno era impregnato degli effluvi del bosco, delle fronde, dell’aria pura e degli schizzi di sangue, perché gli uccelli abbattuti si attaccano alla cintura e il loro sangue insudicia gli abiti. Ma il sangue è sudiciume?... Non credo. E’ la materia più nobile che esista al mondo: ogni volta che l’uomo ha sentito il bisogno di comunicare al suo Dio qualcosa di grandioso, di ineffabile, lo ha sempre fatto offrendogli un sacrificio di sangue. E poi amavo l’odore di metallo oliato del fucile. E l’odore acre e ammuffito delle parti in cuoio grezzo dell’equipaggiamento da caccia. Amavo tutto questo” dice il generale quasi con vergogna, come fanno i vecchi quando confessano qualche piccola debolezza. “ E poi esci di casa e scendi nel cortile, i tuoi compagni ti stanno già aspettando, il sole non è ancora spuntato, il guardacaccia tiene i cani al guinzaglio e ti riferisce sottovoce gli avvenimenti della notte. Poi sali in carrozza e parti. Il paesaggio comincia a destarsi, il bosco si stiracchia, sembra che si strofini gli occhi uscendo dal sonno. Tutto esala un profumo così puro che ti sembra di tornare in una patria diversa, quella in cui ebbero inizio la vita e le cose. Poi la carrozza si ferma ai margini del bosco, tu scendi, il cane e il guardacaccia ti accompagnano in silenzio. Il fruscio del fogliame umido si percepisce appena sotto le suole dei tuoi scarponi. La pista è disseminata di tracce di animali. E adesso tutto comincia a vivere intorno a te: la luce, come se mettesse in moto un meccanismo nascosto che aziona il sipario del mondo, squarcia il velo che ricopre la foresta. Inizia il concerto degli uccelli, e in lontananza, a trecento passi di distanza, un cervo sta avanzando sul sentiero. Tu ti ritrai nel folto della boscaglia per osservarlo. Sei venuto col cane, oggi non fai la posta ai cervi... La bestia si ferma, non vede niente, non fiuta la tua presenza perché il vento soffia nella tua direzione, e tuttavia avverte il pericolo fatale, solleva la testa, torce il collo delicato, le sue membra si tendono, per alcuni istanti rimane immobile davanti a te in posizione di attesa allarmata, come un individuo messo di fronte al suo destino si arresta impotente perché sa che il fato non è un evento fortuito né un incidente, ma la conseguenza naturale di circostanze imprevedibili e difficilmente comprensibili. A questo punto sei pentito di non aver portato con te delle cartucce a pallettoni. Anche tu, immobile nel folto del bosco, sei a tua volta in balìa dell’attimo, tu, il cacciatore. E nella mano avverti un fremito antico come l’uomo l’impulso di uccidere, questa attrazione proibita, questa passione più forte di tutto il resto, uno degli stimoli segreti, né buoni né cattivi, che animano la vita in tutte

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le sue forme: essere più forti dell’altro, dimostrarsi più abili, non commettere errori, restare padroni della situazione. E’ la stessa sensazione che prova il leopardo mentre si prepara a balzare, il serpente mentre si rizza tra le rocce, l’avvoltoio mentre piomba sulla preda da mille metri di altezza. La stessa che prova l’uomo mentre scruta la sua vittima. Ed è quella che provasti anche tu, forse per la prima volta in vita tua, quando, appostato nel bosco, alzasti l’arma e la puntasti su di me con l’intenzione di uccidermi”.

Il generale si china sul tavolino che si trova in mezzo a loro davanti al camino; si riempie il bicchiere e assaggia con la punta della lingua il liquore purpureo e sciropposo. Quindi rimette il bicchiere sul tavolo, con aria soddisfatta.

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14. “Non c’era ancora molta luce” prosegue, visto che l’altro non risponde, non protesta,

non batte ciglio, non dà segno di aver udito l’accusa. “Era l’istante in cui la notte si separa dal giorno, e il mondo di sotto da quello di sopra. E forse ci sono altre cose che si separano. L’istante in cui la profondità e l’altezza, la luce e l’oscurità si toccano ancora nel mondo e nell’animo umano, in cui i dormienti si svegliano di soprassalto dai loro sogni pesanti e tormentosi, e gli ammalati sospirano profondamente perché avvertono che l’inferno della notte è terminato e sta per cedere il posto a una sofferenza più articolata. Il giorno, con la sua luce e le sue regole, districa e ricompone tutto ciò che nel l’oscuro caos della notte era apparso come desiderio convulso, assillo segreto, passione delirante. I cacciatori e la selvaggina amano quell’istante. Non è più notte e non è ancora giorno. Il profumo della foresta si fa aspro e selvaggio come se tutti gli organismi viventi cominciassero a destarsi nel grande dormitorio del mondo, come se tutti, le piante, le bestie e anche gli esseri umani, esalassero i loro segreti e i loro sospiri. Si alza il vento, lieve come il sospiro di chi, risvegliandosi, si ricorda del mondo in cui è nato. Il profumo delle foglie bagnate, delle felci, delle cortecce ricoperte di muschio, del sentiero boschivo costellato di rugiada, dove pigne marcescenti, foglie e aghi di pino si sono impastati fino a formare un tappeto scivoloso, sale dalla terra, come il profumo di sudore dai corpi degli amanti nell’empito della passione. E’ un istante colmo di mistero; gli antichi, i pagani lo celebravano nel profondo delle foreste, con devozione, a braccia spalancate e con il viso rivolto a oriente, con lo stesso magico senso di attesa con cui l’uomo legato alla materia aspetta eternamente l’avvento della luce, ossia della ragione e del buon senso. A quest’ora le bestie si avviano verso la sorgente. La notte non è ancora dissolta del tutto, nel bosco accade ancora qualcosa, gli animali notturni sono ancora vigili e in agguato, il gatto selvatico sta ancora all’erta, l’orso mastica gli ultimi bocconi strappati alla carogna, il cervo in amore ricorda i suoi istanti di passione al chiaro di luna, si arresta in mezzo alla radura, nel luogo in cui si è svolto il duello amoroso; fiero e malconcio, solleva il capo ferito durante la lotta e si guarda intorno con occhi seri e tristi, arrossati dall’eccitazione, come se non riuscisse a staccarsi dai luoghi della sua frenesia d’amore. La notte indugia ancora nel profondo della foresta: la notte e tutto ciò che questa parola significa, con la consapevolezza della preda dell’amore, del vagabondaggio, della gioia di vivere fine a se stessa e della lotta per la sopravvivenza. Questo è l’istante in cui non solo nel folto del bosco, ma anche nell’oscurità dei cuori umani accade qualcosa. Perché anche il cuore umano ha la sua notte, piena di emozioni non meno selvagge dell’istinto di caccia che attanaglia il cuore del cervo maschio o del lupo. Le passioni legate al sogno, al desiderio, alla vanità, all’egoismo, alla furia erotica

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del maschio, alla gelosia, alla vendetta, si annidano nella notte dell’uomo come il puma, l’avvoltoio e lo sciacallo nel deserto della notte orientale. E nel cuore dell’uomo esistono istanti in cui non è più notte e non è ancora mattino, quando le bel ve escono strisciando dai nascondigli tenebrosi dell’anima, quando il nostro cuore è agitato da una passione che si trasforma in un movimento della mano, una passione che abbiamo educato e addomesticato invano per anni, talvolta per un tempo infinito... E non è servito a nulla, invano abbiamo cercato di negare disperatamente, di fronte a noi stessi, il vero significato di quella passione; essa si è dimostrata più forte dei nostri propositi, si è mantenuta integra e compatta. A nulla sono valsi argomentazioni e stratagemmi, la realtà è rimasta quella che era. Semplicemente questa: per ventiquattro anni tu mi avevi odiato così appassionatamente che quel sentimento aveva in te la forza e l’ardore del le relazioni amorose. Tu mi odiavi, e quando l’odio si impadronisce completamente dell’anima di un uomo, sotto questo rogo cova e si sviluppa anche il desiderio di vendetta... Perché la passione non si piega alle leggi della ragione, non si cura minimamente di quello che riceverà in cambio, vuole esprimersi fino in fondo, imporre la sua volontà, anche se in cambio non ottiene altro che sentimenti mansueti, amicizia e indulgenza. Ogni vera passione è senza speranza, altrimenti non sarebbe una passione ma un semplice patto, un accordo ragionevole, uno scambio di banali interessi. Tu mi odiavi, e questo odio era per noi un vincolo altrettanto forte che quello dell’amore. Perché mi odiavi?... Ho avuto tempo a sufficienza, mi sono sforzato di comprendere. Non hai mai accettato il denaro che ti offrivo, né un qualsiasi regalo, non hai mai permesso che la nostra amicizia si trasformasse in vera fratellanza, e se in quegli anni non fossi stato ancora troppo giovane avrei dovuto capire che si trattava di un segno allarmante e pericoloso. Chi non accetta niente di parziale probabilmente vuole tutto, tutto quanto. Tu mi odiavi già durante la nostra fanciullezza, fin dal momento in cui ci siamo conosciuti, in quella scuola dove venivano addestrati gli esemplari eletti di un mondo che ci era familiare. Mi odiavi perché io avevo qualcosa che a te mancava. Di che si trattava? Di quale facoltà o caratteristica?... Tra noi due, tu sei sempre stato il più colto, il più diligente, il più virtuoso, il più dotato in ogni campo, poiché possedevi anche un talento che tenevi segreto, quello della musica. Tu eri della razza di Chopin, eri cioè un essere pieno di riserbo e di orgoglio. Ma in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il desiderio di essere diverso da quello che eri. E’ il tormento più crudele che il destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo, da tutto ciò che siamo, è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano. Giacché l’unico modo per sopportare la vita è quello di rassegnarci a essere ciò che siamo ai nostri occhi e a quelli del mondo. Dobbiamo accontentarci di essere fatti in un certo modo e sapere che, una volta accettata questa realtà, la vita non ci loderà per la nostra saggezza, nessuno ci conferirà una medaglia al merito solo perché ci siamo rassegnati a essere vanitosi ed egoisti, o calvi e panciuti - no, in cambio di questa presa di coscienza non otterremo né premi né lodi. Dobbiamo sopportarci quali siamo, il segreto è tutto qui. Sopportare il nostro carattere, la nostra natura di fondo, con tutti i

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suoi difetti, il suo egoismo e la sua cupidigia, che non saranno corretti né dall’esperienza né dalla buona volontà. Dobbiamo accettare che i nostri sentimenti non siano contraccambiati, che le persone che amiamo non rispondano al nostro amore, o almeno non nel modo che vorremmo. Dobbiamo sopportare il tradimento e l’infedeltà, e soprattutto la cosa che ci riesce più intollerabile: la superiorità intellettuale o morale di un’altra persona. Ecco cosa ho imparato nel corso di settantacinque anni, qui, in mezzo ai boschi. Tu invece non sei riuscito a sopportare queste cose” conclude il generale con voce bassa ma ferma. Quindi ammutolisce, e il suo sguardo si perde nell’oscurità.

“Naturalmente, all’epoca della fanciullezza non ti rendevi ancora conto di queste cose” riprende dopo un po’, come per cercare un’attenuante. “Fu un bel periodo, una stagione magica. La memoria della vecchiaia ingrandisce i particolari e li mette a fuoco. Eravamo fanciulli ed eravamo amici: un grande dono, dobbiamo ringraziare il destino per avercelo concesso. Ma poi, una volta formatosi il tuo carattere, non riuscisti a sopportare che a te mancasse qualcosa che a me era toccato in sorte per una specie di dono divino, grazie alle mie origini e alla mia educazione. In che cosa consisteva la differenza? Semplicemente nel fatto che, mentre il mondo guardava te con indifferenza, talvolta persino con ostilità, a me la gente offriva il suo sorriso e la sua fiducia. Tu disprezzavi la confidenza e l’amicizia che mi venivano elargite dal mondo, e al tempo stesso morivi di invidia. Probabilmente pensavi - certo in maniera non esplicita, ma vaga e saltuaria - che un beniamino del mondo, uno che godeva delle simpatie di tutti, avesse in sé qualcosa della prostituta. Esistono persone amate da tutti, alle quali tutti riservano un sorriso caloroso e un trattamento benevolo. Esse tendono effettivamente a esibirsi, ed è un tratto che le accomuna alle prostitute. Come vedi, non temo più le parole “ dice sorridendo, come se volesse incoraggiare anche l’altro a non sentirsi intimorito. “Nella solitudine si impara a comprendere ogni cosa, e non si ha più paura di niente. Certi esseri umani, che portano in fronte il segno del favore degli dèi, si ritengono degli eletti, e nel loro modo di affrontare il mondo c’è una sorta di sicurezza compiaciuta. Ma se tu mi vedevi in questo modo, sbagliavi. Solo lo specchio deformante dell’invidia poteva darti di me una simile immagine. Non lo dico per difendermi, perché quello che cerco è la verità, e chi vuole la verità deve iniziare la ricerca da se stesso. Ciò che a te appariva, in me e intorno a me, come una grazia e un dono divino non era altro che ingenuità. Io sono stato un ingenuo fino al giorno in cui... ebbene sì, fino al giorno in cui sono entrato nella stanza che tu avevi lasciato come un fuggiasco. Forse era questa ingenuità a indurre la gente a dimostrarmi amicizia e fiducia, a regalarmi sorrisi e benevolenza. Sì, c’era qualcosa in me - parlo al passato, e tutto ciò di cui parlo è tal mente lontano, come se riguardasse un morto o uno sconosciuto -, c’era in me una specie di leggerezza e di candore che disarmava la gente. C’è stato un tempo nella mia vita, un decennio della mia giovinezza, in cui il mondo si piegava docilmente alle mie pretese e alle mie ambizioni. E’ stato il mio periodo di grazia. In periodi come questi tutti ti corrono incontro come se fossi un conquistatore che deve essere festeggiato con coppe di vino, con fanciulle e ghirlande di fiori. In quel decennio, infatti, nel corso del quale, terminati

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gli anni di collegio, vivemmo a Vienna e poi seguimmo l’esercito, non smarrii per un solo istante quel senso di sicurezza, quella sensazione che gli dèi, in segreto, mi avessero infilato al dito un invisibile anello magico, per cui non poteva accadermi nulla di male ed ero circondato da un clima di amore e di fiducia. E’ il massimo che un uomo possa ottenere dalla vita” dice con serietà. “E’ la grazia più grande che ci possa toccare. Chi in simili circostanze si inorgoglisce e diventa arrogante o distratto, chi non riesce ad accettare con umiltà la sua posizione di prediletto del destino e non capisce che quello stato di grazia dura soltanto finché non verranno dilapidati i doni celesti, costui è destinato alla rovina. Il mondo perdona, entro certi limiti, solo coloro che sono modesti e umili di cuore... Per quanto riguarda noi, tu mi odiavi” dice con determinazione. “Quando la giovinezza cominciò a svanire e si dileguò la magia dell’infanzia, i nostri rapporti cominciarono a raffreddarsi. Non c’è cosa più triste e desolata di un’amicizia maschile che comincia a raffreddarsi. Mentre fra l’uomo e la donna tutto è definito in termini precisi come in una sorta di contratto, fra due uomini il significato profondo dell’amicizia consiste nell’abnegazione, nel non esigere dall’altro né sacrifici né tenerezza, soltanto il rispetto di un’alleanza tacitamente conclusa. Può darsi che sia stato proprio io a commettere uno sbaglio, perché non ti conoscevo abbastanza a fondo. Mi ero rassegnato al fatto che non mi rivelassi tutto di te, ammiravo la tua intelligenza, quella strana, disincantata superiorità che emanava dal tuo essere. Mi illudevo che anche tu mi avessi perdonato, come facevano gli altri, la mia capacità di accostarmi agli uomini con leggerezza e serenità e di farmi benvolere là dove tu eri soltanto tollerato - che mi avessi perdonato quel mio saper vivere a tu per tu con il mondo. Pensavo che facesse piacere anche a te. La nostra amicizia era simile agli antichi sodalizi maschili di cui narrano le leggende. Ma mentre io percorrevo le strade soleggiate della vita, tu rimanevi volontariamente nell’ombra. Non so se sei d’accordo... “.

“Non stavi parlando della caccia?” dice l’ospite, evasivo.

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“Della caccia, sì” dice il generale. “Ma quello che ho appena detto ha attinenza con la caccia. Quando un essere umano decide di uccidere un altro essere umano, prima sono successe molte cose, non si tratta semplicemente di caricare l’arma e di prendere la mira. Nel nostro caso era successo anche quello di cui stavo parlando: il fatto che tu non eri riuscito a perdonarmi; e che il nostro rapporto, formatosi nelle acque profonde della fanciullezza, cresciuto come fossimo adagiati tra quei fiori e quelle foglie gigantesche a forma di culla di cui parlano le fiabe, la victoria regia- ricordi, ho fatto coltivare a lungo, qui nella serra, questa pianta misteriosa dal fusto lungo e sottile, che fioriva solo una volta all’anno -, che il nostro rapporto un giorno si guastò. La stagione magica della fanciullezza era finita, e rimanevano due uomini legati dai ceppi di un rapporto complicato e ambiguo che nel linguaggio ordinario si chiama amicizia. Dobbiamo mettere in chiaro anche questo, prima di riparlare della caccia. Perché l’attimo in cui l’uomo è più colpevole non è necessariamente quello in cui solleva l’arma per uccidere qualcuno. La colpa viene prima, la colpa è nell’intenzione. E quando dico che un giorno il nostro rapporto si guastò, devo sapere se si sia guastato veramente e, in caso affermativo, chi e che cosa lo abbiano guastato. Noi due eravamo diversi eppure uniti, io ero diverso da te, eppure ci completavamo a vicenda, eravamo legati da un’alleanza, da un’intesa, e questo è un fatto molto raro tra gli esseri umani. E nella nostra alleanza giovanile tutto quello che in te mancava era compensato dalla benevolenza che il mondo manifestava nei miei confronti. Eravamo amici” dice a questo punto alzando la voce. “Cerca di capirlo, se ancora non lo hai capito. Ma lo capivi senz’altro, allora e dopo, ai Tropici o da qualsiasi altra parte. Eravamo amici, e questa parola ha un significato profondo, noto sol tanto agli uomini. E adesso devi renderti conto delle responsabilità che questa parola comporta. Eravamo amici, non semplici compagni di giochi o di avventura o commilitoni. Eravamo amici, e nella vita nulla può ripagarci della perdita di un’amicizia. Neanche la passione, che in sé si consuma, può procurare la stessa gioia che un’amicizia silenziosa e discreta dona a coloro che ne sono partecipi. Se non fossimo stati amici, quella mattina nel bosco, durante la caccia, tu non avresti puntato la tua arma su di me. Se non fossimo stati amici, io non mi sarei recato a casa tua il giorno dopo, in quella casa dove non mi avevi mai invitato e dove custodivi il segreto incomprensibile e malefico che ha condannato la nostra amicizia. E se tu non mi fossi stato amico non saresti fuggito dalla città, dalla mia vicinanza, dal luogo della tua colpa, come fanno i malfattori, ma saresti rimasto qui, mi avresti ingannato e tradito, e questo mi avrebbe fatto male, avrebbe ferito la mia vanità e il mio amor proprio, ma sarebbe stato molto meno grave di ciò che hai fatto proprio perché eri mio amico. E se non fossimo stati amici, tu non saresti tornato qui quarantun anni dopo, comportandoti anche in questo caso come un assassino che torna furtivo sul luogo del delitto. Perché tu lo sapevi che dovevi per forza tornare. E adesso devo dirti qualcosa di cui mi sono reso conto a poco a poco, qualcosa che ho stentato a credere e che ho persino cercato di negare a me stesso: ancora oggi, e nonostante tutto, noi due siamo amici. A quanto pare, non esiste nessuna forza esteriore che possa mutare alcunché nei rapporti umani. Tu hai

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ucciso qualcosa dentro di me, hai rovinato la mia vita, eppure sono ancora tuo amico. E stasera io ucciderò qualcosa dentro di te, e poi ti lascerò andar via, a Londra o ai Tropici o all’inferno, eppure tu rimarrai sempre mio amico. Dobbiamo sapere anche questo, prima di iniziare a parlare della caccia e di tutto ciò che avvenne in seguito. Non dimentichiamo che l’amicizia non è soltanto uno stato d’animo ideale, ma una legge umana inflessibile. Nel mondo del passato fu la più potente delle leggi, quella su cui si fondarono i sistemi giuridici di grandi civiltà. Questa legge, la legge dell’amicizia, vive nel cuore degli uomini al di sopra dell’egoismo e delle passioni. Ed è più forte della passione amorosa che spinge irresistibilmente l’uomo e la donna a congiungersi; l’amicizia non è soggetta a delusioni, perché non pretende nulla dall’altro; l’amico può essere ucciso, ma neanche la morte può cancellare l’amicizia nata durante l’infanzia: il suo ricordo continua a vivere nella coscienza degli uomini come quello di un muto atto eroico. E proprio di questo si tratta, di un atto eroico, nel senso tacito e fatale del termine, ossia senza strepito di armi, ma pur sempre di un atto eroico come lo è ogni comportamento umano privo di egoismo. Questa era l’amicizia che esisteva tra noi, e tu lo sapevi bene. E forse, nell’istante in cui sollevasti l’arma per uccidermi, questa amicizia era più viva di quanto non lo fosse mai stata nei ventiquattro anni precedenti. Ricordi certamente quell’istante, giacché in seguito esso ha dato significato e contenuto al resto della tua vita. Lo ricordo anch’io. Ci trovavamo nel fitto del bosco, tra gli abeti, nel punto in cui inizia la pista che, partendo dal sentiero, si inoltra in profondità nella foresta indisturbata, vergine e buia. Io procedevo davanti a te, e all’improvviso mi arrestai, perché circa trecento passi più avanti un cervo era sbucato tra gli abeti. La luce stava già aumentando, con cautela, come se con tentacoli luminosi il sole stesse palpando la sua preda, il mondo. L’animale si arrestò ai margini della pista, sollevò il capo e fissò la boscaglia, come se avvertisse il pericolo. L’istinto, questo fenomeno misterioso, questo sesto senso che è più delicato e preciso dell’olfatto e della vista, l’aveva messo in allarme. Ma non poteva vederci, non poteva avvertire il pericolo, perché il vento antelucano spirava nella nostra direzione. Noi rimanemmo per diversi minuti immobili, un po’ trafelati per il cammino compiuto; io ero davanti, all’inizio del sentiero, e tu mi seguivi. Il guardacaccia era rimasto indietro col cane. Eravamo noi due soli in mezzo alla foresta, in quella solitudine che è la solitudine della notte, dell’alba, dei boschi, delle bestie selvatiche, e dove l’uomo, per un istante, ha sempre l’impressione di essersi smarrito nella sua vita e nel mondo e di dover tornare indietro, un giorno o l’altro, a questa dimora selvaggia e temibile che tuttavia rappresenta la sua unica vera dimora - la foresta, il fondo dell’abisso, il palcoscenico ancestrale della vita. Io ho sempre avuto questa sensazione, ai tempi in cui andavo ancora a caccia, nel fitto della boscaglia. Come ti ho detto, vidi l’animale e mi fermai, e lo vedesti anche tu che stavi fermo a dieci passi da me. Per i cacciatori e per la selvaggina questi sono gli istanti in cui si coglie la realtà con i sensi più delicati, in cui ci si rende conto della situazione e del pericolo che ci minaccia, anche al buio, anche senza guardarsi alle spalle. Chissà quali onde, forze o radiazioni trasmettono le informazioni in questi casi... Non lo so.

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L’aria era limpida e senza odori. Non un solo ramo di abete si muoveva al vento leggero. Il cervo stava in guardia, era immobile, come ipnotizzato, perché il pericolo esercita sempre un certo potere ipnotico. Quando il destino, sotto qualsiasi forma, si rivolge direttamente alla nostra individualità, quasi chiamandoci per nome, in fondo all’angoscia e alla paura esiste sempre una specie di attrazione, perché l’uomo non vuole soltanto vivere, vuole anche conoscere fino in fondo e accettare il proprio destino, a costo di esporsi al pericolo e alla distruzione. Immagino che anche il cervo abbia provato qualcosa di simile. E tu, qualche passo più indietro, dovevi sentire queste stesse cose, allorché, ipnotizzato al pari di me e dell’animale, tirasti il cane del fucile, con quello scatto lieve e secco, quel suono particolare che caratterizza i metalli più nobili quando vengono adibiti a un impiego fatale il cui obiettivo è l’uomo: per esempio il pugnale quando incontra un altro pugnale, o un’arma inglese di gran classe quando si tira il cane per uccidere qualcuno. Ricordi quell’istante, spero... “. “ Sì “ dice l’ospite.

“ Fu un istante assai particolare “ dice il generale con l’aria compiaciuta dell’esperto. “Naturalmente fui l’unico a udire quel lieve scatto: era talmente impercettibile che il cervo, a trecento passi di distanza, non lo aveva certo sentito, nonostante il silenzio dell’alba nel la foresta. E a quel punto accadde qualcosa che non potrei mai sostenere davanti a un tribunale; ma a te posso dirlo, perché tu conosci la verità. Che cosa accadde?... Semplicemente questo: da quell’attimo in poi mi resi conto dei tuoi movimenti, li percepii più nettamente che se avessi visto con i miei occhi ciò che stavi facendo. Eri in piedi alle mie spalle, messo un po’ di sbieco. Sentii che sollevavi l’arma, l’appoggiavi alla spalla e prendevi la mira. Sentii che chiudevi un occhio, mentre la canna del fucile cambiava lentamente angolazione. La mia testa e quella del cervo erano allineate davanti a te, esattamente alla stessa altezza e lungo la stessa traiettoria, poteva esserci al massimo uno scarto di dieci centimetri fra i due bersagli. Sentii che le tue mani stavano tremando. Ma la capacità di valutazione del vero cacciatore mi fece capire immediatamente che da quella posizione non potevi mirare al cervo: cerca di capire, in quell’istante l’aspetto venatorio della situazione mi appassionava quasi più del suo aspetto umano. Mi vanto di essere stato un esperto in materia di caccia. Dunque sapevo perfettamente qual è l’angolazione giusta per sparare a un cervo che aspetta ignaro, a trecento passi di distanza, il colpo che lo abbatterà. La situazione mi si presentava con la massima chiarezza, la disposizione geometrica del cacciatore e dei bersagli allineati in fila mi diceva esattamente ciò che stava accadendo nel cuore dell’uomo a pochi passi dietro le mie spalle. Tu prendesti la mira e rimanesti così per mezzo minuto, un tempo che ho calcolato senza bisogno di orologio, al secondo, con precisione. In momenti come questi uno sa tutto. Sapevo che non eri un buon tiratore, sarebbe bastato che io inclinassi lievemente il capo perché la pallottola mi sfrecciasse accanto all’orecchio, arrivando magari a colpire il cervo. Sapevo che mi sarebbe bastato fare un movimento per evitare che la pallottola uscisse dalla canna. Ma sapevo anche che non mi sarei mosso, perché in quell’istante il mio destino non dipendeva più dalle mie decisioni: qualcosa era giunto a maturazione, qualcosa si stava per compiere, puntualmente e

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inesorabilmente. Dunque rimasi lì aspettando lo sparo, aspettando che tu premessi il grilletto e io venissi ucciso da una pallottola partita dall’arma del mio amico. La situazione era perfetta, non c’erano testimoni, il guardacaccia era lontano, in mezzo ai boschi, con i cani. Una situazione tipica, da manuale, esattamente la “tragica fatalità” di cui parlano i giornali a ogni stagione di caccia. Poi quel mezzo minuto passò, senza che il colpo fosse partito. Nello stesso istante il cervo si accorse del pericolo, spiccò un salto che fu come un’esplosione e scomparve nella boscaglia. Noi continuammo a rimanere immobili. Poi tu, con lentezza infinita, abbassasti il fucile. Era un movimento che io non potevo né udire né vedere. Eppure lo udii e lo vidi come se ci trovassimo faccia a faccia. Abbassasti l’arma, con grande cautela, come se temessi che lo spostamento d’aria rivelasse le tue intenzioni. Il cervo era scomparso nella foresta, il momento propizio era passato... D’altronde - anche questo va notato - tu avresti ancora potuto uccidermi, poiché non c’erano testimoni oculari ad assistere alla scena, nessun giudice avrebbe potuto condannarti. Il mondo si sarebbe stretto intorno a te con simpatia, se lo avessi fatto, perché noi due eravamo Castore e Polluce, gli amici leggendari, uniti nel bene e nel male da ventiquattro anni, noi due eravamo l’incarnazione ideale dell’amicizia, e se tu mi avessi ucciso tutti ti avrebbero teso la mano e avrebbero partecipato al tuo cordoglio, perché agli occhi del mondo non esiste creatura più tragica dell’uomo che ha ucciso accidentalmente, per volontà inesorabile del fato, il proprio amico... Quale uomo o autorità giudiziaria avrebbe osato incriminarti, rivelare al mondo intero quel fatto inaudito: che tu mi avevi ucciso volontariamente?... Non c’era nessuna prova che tu covassi un odio mortale nei miei confronti. La sera prima avevamo cenato insieme tra amici, con mia moglie, qualche parente e i nostri compagni di caccia, nel castello dove eri ospite regolare da decenni; ci avevano visti insieme, così come eravamo sempre stati in precedenza, in tutte le situazioni possibili della vita, in servizio, in compagnia, sempre amichevoli e affettuosi. Non mi dovevi del denaro, a casa mia eri considerato un membro della famiglia, chi avrebbe mai potuto immaginare che mi avessi ucciso?... Nessuno. E perché mai avresti dovuto uccidermi? Non sarebbe stato disumano e assurdo supporre che tu, l’amico per eccellenza, avessi ucciso me, l’amico per eccellenza, dal quale potevi ottenere tutto ciò di cui avevi bisogno nella vita, sostegno morale e aiuto materiale, tu che potevi considerare la mia casa come tua, il mio patrimonio come i fratelli considerano il loro patrimonio comune, la mia famiglia come un figlio adottivo considera la famiglia dei suoi genitori adottivi? No, l’accusa sarebbe ricaduta sul capo di chi l’avesse pronunciata, non esisteva persona che potesse muovere un’accusa del genere. L’indignazione del mondo avrebbe sommerso il briccone che si fosse azzardato a formulare anche una semplice insinuazione, e tutti si sarebbero precipitati a stringerti la mano con solidarietà, perché saresti stato tu la vittima di un destino atroce, che ti aveva portato a uccidere accidentalmente con le tue mani il tuo migliore amico... Ecco quale sarebbe stata la situazione. Ma il fatto è che, in definitiva, tu non premesti il grilletto dell’arma. Perché?... Cosa accadde di preciso in quel momento? Forse semplicemente che il cervo avvertì il pericolo e fuggì mettendosi in salvo, e l’uomo è

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fatto in modo che, per compiere un atto eccezionale, ha sempre bisogno di un pretesto concreto. Tu avevi elaborato un buon piano, che funzionava in maniera perfetta, ma per poterlo attuare era necessaria anche la presenza del cervo; allontanatosi questo, la messinscena non era più perfetta, e tu abbassasti l’arma. Tutto avvenne nel giro di pochi istanti: chi sarebbe capace di calcolare ogni cosa, valutare le possibilità e decidere in un batter d’occhio? Del resto, non ha più importanza. Quello che conta è il fatto. E il fatto è che tu volevi uccidermi e poi, quando qualcosa di inaspettato intervenne a turbare quell’istante, la tua mano incominciò a tremare e non mi uccidesti più. Il cervo era già scomparso tra gli alberi, noi eravamo lì immobili. Non mi voltai a guardarti. Rimanemmo così ancora per un po’. Se ti avessi guardato in faccia in quel momento, forse avrei capito tutto. Ma non osai farlo. C’è un senso di vergogna più doloroso di qualsiasi altro, quello che deve provare la vittima quando è costretta a guardare in faccia il suo assassino. In questi casi è la vergogna della creatura di fronte al Creatore. Ecco perché, quando ci liberammo dallo stato di paralisi, quasi un sortilegio, in cui eravamo caduti, non volli guardarti in faccia e mi avviai lungo il sentiero verso la cima della collina. Ti avviasti anche tu, come un automa. A metà del cammino dissi, senza voltarmi indietro: “Hai perso un’occasione”. Non replicasti nulla. Il tuo silenzio era un’ammissione. In una situazione del genere, qualunque cacciatore - chi con imbarazzo, chi con entusiasmo - si sarebbe messo a commentare, a fornire spiegazioni, in tono scherzoso o risentito; in questi casi tutti i cacciatori cercano di difendere il loro comportamento, sia denigrando la selvaggina mancata sia esagerandone la distanza, oppure adducendo a pretesto la posizione inadatta a colpire il bersaglio... Tu invece non dicesti nulla. Era come se con quel silenzio tu dicessi: “Sì, ho perso l’occasione di ucciderti”. Raggiungemmo senza parlare la cima della collina. Il guardacaccia e i cani ci stavano già aspettando lassù, dalla valle si udivano degli spari, la caccia era iniziata. Le nostre vie si divisero. Al momento del pranzo - uno spuntino all’aperto, una tavola era stata apparecchiata in mezzo al bosco - il tuo battitore mi riferì che eri tornato in città”.

L’ospite si prepara un altro sigaro. Le sue mani non tremano, taglia la punta con gesti tranquilli; il generale si china verso Konrad e gli avvicina una candela perché accenda il sigaro alla fiamma. “ Grazie “ dice l’ospite.

“Quella sera però venisti ancora a cena da noi” riprende il generale. “Come avevi sempre fatto, tutte le sere. Arrivasti alla solita ora, in calesse, alle sette e mezzo. Cenammo in tre, come avevamo fatto tante altre volte in precedenza, con Krisztina. La tavola era stata apparecchiata nella grande sala da pranzo, come stasera, con le stesse decorazioni, ma allora in mezzo a noi c’era Krisztina. Al centro del tavolo ardevano delle candele azzurre. Lei amava la luce delle candele, amava tutto ciò che le ricordava il passato, le forme di vita più nobili di epoche ormai tramontate. Tornando dalla caccia io ero andato direttamente nella mia stanza e mi ero cambiato. Quel pomeriggio non avevo visto Krisztina. Il domestico mi aveva detto che aveva preso la carrozza e si era recata in città subito dopo pranzo. La rividi al momento di andare a tavola; mi aspettava seduta davanti al camino, con un leggero scialle indiano sulle spalle, perché il tempo era

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umido e nebbioso. Nel camino ardeva il fuoco. Stava leggendo e non mi sentì quando entrai nella stanza. Forse furono i tappeti ad attutire il rumore dei miei passi, forse era troppo assorta nella lettura - leggeva un libro inglese, il racconto di un viaggio ai Tropici -, l’unica cosa certa è che si accorse del mio arrivo solo all’ultimo momento, quando mi trovavo già di fronte a lei. Allora alzò lo sguardo - ricordi i suoi occhi? certe volte alzava lo sguardo, ed era come se diventasse giorno e tutto si illuminasse all’improvviso - e il suo volto, forse a causa della luce delle candele, era talmente pallido che mi spaventai. “Ti senti male?” le domandai. Non mi rispose. Mi fissò a lungo in silenzio, con gli occhi sbarrati, per un tempo che mi sembrò altrettanto eloquente e interminabile quanto quegli istanti nel bosco, la mattina, mentre aspettavo immobile che accadesse qualcosa, che tu pronunciassi una parola o premessi il grilletto del fucile. Krisztina mi guardava in faccia scrutandomi con tale attenzione che sembrava fosse una questione di vita o di morte, per lei, sapere a cosa stessi pensando in quel momento - ammesso che stessi pensando a qual cosa - e che cosa sapessi... Probabilmente, in quel momento, per lei questo era più importante della sua stessa vita. E’ sempre questa la cosa più importante, persino più importante del risultato: sapere cosa pensi di noi la vittima, la persona che ci siamo scelti come vittima... Mi guardò negli occhi come se volesse impormi di parlare. Credo di aver sopportato bene il suo sguardo. In quell’istante, e anche più tardi, ho mantenuto la calma; non credo che il mio volto possa aver rivelato qualcosa a Krisztina. In realtà, nel corso di quella giornata, dopo la strana caccia in cui la selvaggina, in un certo senso, ero stato io, avevo deciso, qualsiasi cosa dovesse accadermi nella vita, di tacere per sempre su quei momenti; non avrei mai parlato con le mie confidenti, né con Krisztina né con la balia, di ciò che era accaduto all’alba nella foresta. E poiché non riuscivo a liberarmi dall’idea che il demone della follia si fosse impossessato del tuo animo, avevo deciso di farti tener d’occhio con discrezione da un medico. Non trovavo nessun’altra spiegazione per la tua condotta. La persona che mi è più vicina è impazzita: ecco cosa continuai a ripetermi ostinatamente, quasi con disperazione, durante tutta la mattinata e tutto il pomeriggio, e fu in tale stato d’animo che ti accolsi quella sera, quando arrivasti a casa nostra. Con questa supposizione cercavo in qualche modo di salvare la dignità delle creature umane in genere e la tua in particolare, perché, se tu fossi stato sano di mente e avessi avuto un motivo - non importa quale - per sollevare l’arma su di me, allora tutti noi, sì, anche Krisztina e io, avremmo perduto la nostra dignità. Interpretai in tal senso anche lo sguardo spaventato e perplesso di Krisztina. Era come se avesse intuito qualcosa del segreto che legava te e me dall’alba di quel giorno. Le donne sentono queste cose, mi dissi. Poi arrivasti anche tu, in smoking, e ci sedemmo a tavola. Conversammo come al solito, parlammo anche della caccia, dei rapporti dei battitori, della scorrettezza commessa da uno dei nostri ospiti, il quale aveva abbattuto un maschio pur non avendone il diritto... Ma della tua avventura personale, del magnifico cervo che ti sei lasciato sfuggire, non dici neanche una parola. Sono cose di cui normalmente si parla, anche se non si è cacciatori di razza. Tu invece non parli della preda mancata, né del fatto di esserti allontanato prima che terminasse la caccia,

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tornando in città senza avvertire nessuno e ripresentandoti solo la sera. Un comportamento insolito, che contravviene al le regole del nostro ambiente. Potresti almeno trovare qualche parola di giustificazione per quanto è avvenuto al mattino, invece passi tutto sotto silenzio, come se non fossimo andati a caccia insieme. Tratti argomenti diversi. Chiedi a Krisztina cosa sta leggendo, qual è il titolo del volume, quali le impressioni ricavate dalla lettura. Le fai delle domande sulla vita ai Tropici, ti comporti insomma come se fossi straordinariamente interessato a un argomento che ti è del tutto estraneo. Solo più tardi, in città, apprenderò dal libraio che quel volume, insieme ad altri sullo stesso argomento, l’hai ordinato proprio tu, e lo hai dato in prestito a Krisztina qualche giorno prima. Ma quella sera non ne so ancora niente. Mi escludete dalla conversazione, perché mi mostro all’oscuro di tutto quanto riguarda i Tropici.

Più tardi, quando vengo a sapere che mi avete ingannato, rievoco quella scena, riascolto le vostre voci e le parole pronunciate allora e scopro, con sincera ammirazione, che avete entrambi recitato la vostra parte da attori consumati. Non essendo al corrente dei vostri progetti, i vostri discorsi non destano in me alcun sospetto: parlate dei Tropici a proposito di un libro che chiunque si potrebbe procurare. Tu sei impaziente di conoscere l’opinione di Krisztina: se a suo parere una persona nata e cresciuta in un clima diverso sia in grado di sopportare le condizioni di vita ai Tropici... Desideri sapere che cosa ne pensa lei. A me invece non chiedi niente, è evidente che la mia opinione non ti interessa. Insisti con Krisztina per sapere se lei si sentirebbe in grado di sopportare le piogge, l’aria umida e calda, le nebbie roventi che tolgono il respiro, la solitudine in mezzo alle paludi, nel cuore della giungla... Vedi, le parole ritornano. L’ultima volta che sei stato qui, seduto in questa stanza, su questa poltrona, parlavi di queste cose: dei Tropici, delle paludi, della nebbia calda e della pioggia. E poco fa, quando hai rimesso piede in questa casa, le prime parole che hai pronunciato riguardavano le paludi, i Tropici, la pioggia e la nebbia rovente. Sì, le parole ritornano. Tutto ritorna, le cose e le parole girano in cerchio, talvolta fanno il giro del mondo, poi un bel giorno si incontrano, si riuniscono e il cerchio si chiude “ dice con noncuranza. “Ecco di che cosa hai parlato con Krisztina l’ultima volta. Verso mezzanotte fai venire la carrozza e torni in città. Ecco cosa è accaduto il giorno della caccia” soggiunge, e dalla sua voce traspare il compiacimento del vecchio che ha saputo organizzare il discorso in modo così chiaro, sistematico e ordinato.

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15. “Non appena te ne sei andato si ritira anche Krisztina” riprende dopo un po’.

“Rimango solo in questa stanza. Lei ha dimenticato il libro sulla poltrona, il libro sui Tropici scritto in inglese. Non avendo voglia di andare a dormire, prendo in mano il volume e lo sfoglio. Do un’occhiata alle illustrazioni, scorro le tabelle che riportano dati economici e sanitari di quei paesi.

Mi sorprende che Krisztina legga un libro del genere. Possibile che si interessi seriamente a cose simili, mi chiedo, a questioni come, ad esempio, lo sviluppo del la produzione di caucciù o le condizioni di salute degli indigeni nei paesi tropicali? Tutto ciò non ha nulla a che vedere con Krisztina, mi dico. E tuttavia il libro parla, e non solo in inglese, e non solo delle condizioni di vita nel subcontinente. Passata la mezzanotte, solo in questa stanza, una volta uscite le due persone che mi sono più care dopo la morte di mio padre, capisco improvvisamente che anche il libro rappresenta un segnale. E sento confusamente che quel giorno le cose hanno cominciato finalmente a parlarmi. In questi casi bisogna ascoltare con molta attenzione, mi dico. Perché in giorni come questi il particolare linguaggio simbolico della vita si rivolge a noi in mille modi, tutto diventa avvertimento, tutto, purché si riesca a comprenderlo, diventa segno e immagine. Un bel giorno le cose giungono a maturazione e danno una risposta alle nostre domande. E a un tratto comprendo che anche quel libro è un segno e una risposta. Ecco che cosa dice il libro: Krisztina vuole andarsene altrove, sogna paesi lontani, insomma desidera una vita diversa. Forse vuole fuggire da qui, mettersi in salvo da qualcosa o da qualcuno - da qualcuno che potrei essere io, ma potresti anche essere tu. E chiaro come il sole, mi dico, che Krisztina presagisce qualcosa, per questo vuole andar via da qui, per questo legge libri specialistici sui Tropici. In quel momento mille pensieri mi si affollano nella mente e comincio a vedere la concatenazione dei fatti. Mi appare chiara tutta l’importanza di quella giornata: essa ha diviso in due la mia vita, come un paesaggio spaccato in due da un terremoto - da una parte l’infanzia, tu e tutto ciò che significava la vita passata, dall’altra l’oscura, incommensurabile distesa che mi toccherà percorrere, il tempo che mi resta da vivere. Un abisso separa le due parti. Cosa è accaduto? Non trovo una risposta. Per tutto quel giorno mi sono sforzato di rimanere calmo, di mantenere un controllo almeno apparente, e vi sono riuscito: quando Krisztina mi ha fissato, pallida in volto, con quello strano sguardo inquisitore, non è riuscita a capire niente. Non ha potuto leggermi sul viso quello che era accaduto durante la caccia... Ma cosa è accaduto veramente? Non sto fantasticando? Tutta questa storia non sarà stata un incubo? Se la raccontassi a qualcuno probabilmente mi riderebbe in faccia. Non dispongo di nessun dato, di nessuna prova... Allora cos’è questa voce dentro di me, più forte di qualsiasi

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testimonianza, che in maniera così inequivocabile, con una veemenza che non consente dubbi o contraddizioni, grida che non mi sono ingannato e che sono in possesso della verità? E la verità è che all’alba di quel giorno il mio amico ha cercato di uccidermi. Un’accusa ridicola, campata per aria, non è vero? Potrei mai confidare a qualcuno questa certezza, ancora più spaventosa di un fatto realmente accaduto? Certamente no. Ma ora che la verità mi appare con tutta l’evidenza dei fatti più semplici della vita, in che modo riusciremo a convivere nel futuro? Potrò ancora guardarti negli occhi, o invece saremo costretti, Krisztina, tu e io, a recitare la commedia, trasformando un’amicizia in un perpetuo gioco di simulazione? E’ possibile vivere così? Ecco perché spero che tu sia veramente uscito di senno. Forse è per via della musica, mi dico. Sei sempre stato un tipo strano, di una razza diversa da noialtri. Non si può essere impunemente musicisti, parenti di Chopin. Ma nello stesso tempo so che questa mia speranza è una sciocchezza, una vigliaccheria: devo guardare in faccia la realtà, riconoscere che non sei pazzo; inutile cercare scappatoie. Esiste un motivo che ti spinge a odiarmi, a desiderare di uccidermi. Ma questo motivo non riesco a vederlo. La spiegazione più semplice e naturale che mi viene subito in mente è che tu sia stato travolto da un’improvvisa passione per Krisztina, da una forma di esaltazione e di follia - ma questa supposizione è talmente inverosimile, talmente priva di segni premonitori e di indizi nei rapporti esistenti fra noi tre, che devo risolvermi a respingerla. Conosco Krisztina e te come me stesso - o almeno così credo in quel momento. La nostra vita passata, il nostro incontro con Krisztina, il mio matrimonio con lei, la nostra amicizia, tutto ciò è talmente aperto, limpido e trasparente, i caratteri e le situazioni sono talmente inequivocabili che il pazzo sarei io, se mi abbandonassi a questa idea. Certe passioni non si possono occultare, una passione così violenta da costringere un uomo a puntare un’arma contro il suo migliore amico non si può nascondere per mesi interi, qualche indizio avrei pur dovuto coglierlo anch’io, il terzo incomodo, che è sempre cieco e sordo per definizione. Tu e io siamo per così dire vissuti insieme, non c’è stata settimana in cui tu non sia venuto almeno tre o quattro volte a cena da noi, le ore del giorno, durante il servizio, le trascorro insieme a te in città, nella caserma, tra noi non ci sono segreti. Di Krisztina conosco il corpo e l’anima come conosco me stesso. Quale assurdità che tu e Krisztina...

Dopo una rapida riflessione, respingo l’idea con sollievo. Mi dico che deve essere accaduto qualcos’altro di più profondo e incomprensibile. Urge una spiegazione con te. Non posso certo farti pedinare, come farebbe un marito geloso in una banale commedia. D’altronde non sono un marito geloso. Il sospetto non riesce a metter radici in me; quanto a Krisztina, ho fiducia in lei; l’ho scelta come un collezionista sceglie il pezzo più raro e perfetto della sua collezione, il capolavoro la cui scoperta ha rappresentato il principale obiettivo e la ragione essenziale della sua vita. Krisztina non mente, non è infedele, conosco tutti i suoi pensieri, anche i più segreti. Il suo diario, quel quadernetto rilegato in velluto giallo che le ho donato nei primi giorni del nostro matrimonio, mi rivela tutto, perché ci siamo messi d’accordo che in esso avrebbe annotato, per me e per

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se stessa, tutti i suoi sentimenti e pensieri più segreti, anche quelli che non si possono esprimere a voce perché imbarazzanti o così trascurabili che non vale la pena di parlarne. Questo suo diario particolare mi informa, in poche parole, delle idee e delle impressioni che suscitano in lei i rapporti con le persone e i fatti salienti della sua vita. E sempre riposto nel cassetto della sua scrivania, di cui soltanto lei e io possediamo la chiave, ed è la prova palese dell’intimità che regna tra noi, la più perfetta che si possa raggiungere tra un uomo e una donna. Se nella vita di Krisztina esistesse un segreto, il diario me lo avrebbe rivelato. Tuttavia devo ammettere che da qualche tempo abbiamo cominciato a trascurare il nostro piccolo gioco privato... Allora mi alzo in piedi, attraverso la casa immersa nell’oscurità, vado nello studiolo di Krisztina e apro il cassetto della scrivania per prendere il diario rilegato in velluto giallo. Ma il cassetto è vuoto “. Chiude gli occhi, per un attimo rimane seduto così, come un cieco, con il volto inespressivo. Sembra cercare le parole.

“E’ già mezzanotte passata, la casa è immersa nel sonno. Anche Krisztina era stanca, non voglio disturbarla. Penso che probabilmente si è portata il diario in camera. L’indomani mattina potrò chiederle se per caso ha affidato al diario qualche messaggio nel nostro linguaggio cifrato. Perché devi sapere che questo quaderno confidenziale di cui non parlavamo mai - eravamo un po’ imbarazzati per le cose intime che conteneva - era come una dichiarazione d’amore perpetua. Anche oggi non ne parlo volentieri. Era stata un’idea di Krisztina, me lo aveva chiesto lei, a Parigi, durante il nostro viaggio di nozze, era lei che voleva confessare i suoi pensieri - e dopo tutti questi anni, adesso che Krisztina è morta da tanto tempo, ho capito che, se qualcuno si prepara così scrupolosamente a confessarsi con assoluta franchezza, è perché sa che nella sua vita arriverà il giorno in cui avrà effettivamente qualcosa da confessare. Per molto tempo quel diario mi mise in grande disagio: mi sembrava che i messaggi segreti che esso mi trasmetteva sulla vita intima di Krisztina fossero una trovata femminile un po’ stravagante e incomprensibile. Mi aveva detto di non voler mai nascondere nulla a me e nemmeno a se stessa: per questo avrebbe annotato tutto ciò di cui facesse fatica a parlarmi a voce. Come ho detto prima, solo più tardi ho compreso che se qualcuno si rifugia con tanta veemenza nella sincerità significa che ha paura: paura di ritrovarsi un giorno con la vita carica di segreti inconfessabili. Krisztina vuole appartenermi con tutta se stessa, corpo e anima, con i sentimenti e i pensieri più segreti. Siamo in viaggio di nozze e Krisztina è innamorata. Tu conosci l’ambiente dal quale proviene, sai cosa rappresenti per lei tutto ciò che le ho offerto, il mio nome, questo castello, il palazzo a Parigi, il gran mondo, tutte cose che solo pochi mesi prima non avrebbe neanche osato immaginare, nell’ambiente provinciale e modesto che la circondava, sola con il vecchio padre malato e taciturno che ormai viveva soltanto per il suo strumento, i suoi spartiti e i suoi ricordi... E ora, d’improvviso, la vita le regala tutto a piene mani, il matrimonio, quel viaggio di nozze che si protrae per un anno intero, Parigi, Londra, Roma e poi l’Oriente, mesi e mesi nelle oasi, sul mare. E naturale che Krisztina creda di essere innamorata. Più tardi mi renderò conto che neanche in quei primi mesi era innamorata,

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ma semplicemente riconoscente “. Giungendo le mani, appoggia i gomiti sulle ginocchia, si sporge in avanti e dice: “E’

riconoscente, estremamente riconoscente, a modo suo, come può esserlo una giovane donna in viaggio di nozze col marito, un ricco giovanotto di nobile lignaggio”. Intreccia le dita, fissa i motivi del tappeto con aria assorta. “Vuole mostrarsi riconoscente a tutti i costi, ecco perché si inventa anche il diario, questo strano dono. Sin dal primo momento questo diario è pieno di confessioni sorprendenti. In esso non mi fa dichiarazioni d’amore, ma confessioni talmente sincere da risultare inquietanti. Mi descrive così come lei mi vede, con poche parole ma in maniera assai precisa.

Annota quello che non le piace del mio carattere e del mio comportamento, il mio modo troppo disinvolto di trattare con la gente, la mia mancanza di umiltà e di modestia, che per il suo animo religioso sono le virtù fondamentali. In effetti a quell’epoca sono tutt’altro che modesto. Il mondo mi appartiene, ho trovato la donna che ho sempre sognato, di cui recepisco e contraccambio ogni messaggio inviatomi dalla sua anima e dal suo corpo, sono ricco e stimato, ho trent’anni, la vita mi promette tutto quanto posso desiderare. Amo la mia carriera e gli impegni che ne derivano. Adesso, se mi volto a guardare indietro, sono il primo a sentirmi disgustato da quella sicurezza e da quel senso di felicità, così pieni di autocompiacimento e di vanagloria. E come tutti gli uomini che godono senza alcuna ragione del favore eccezionale degli dèi, in fondo a quel la felicità avverto anche una specie di angoscia. Tutto è troppo bello, senza un’incrinatura, perfetto. Una felicità così conforme a ogni regola fa sempre paura. Vorrei offrire anch’io qualche sacrificio al fato, non mi dispiacerebbe trovare, nei porti dove sbarchiamo, una lettera che mi annunci qualche contrarietà di carattere economico o sociale, ad esempio che in patria il nostro castello è stato devastato da un incendio o che il mio patrimonio ha subìto qualche perdita. Sai, si sacrifica volentieri agli dèi una parte di felicità, perché essi sono invidiosi, e se regalano a un comune mortale un anno di felicità, si può essere certi che prenderanno immediatamente nota di quel debito per poi esigerne la restituzione alla fine della vita, praticando tassi da usurai. Ma per me, all’inizio, tutto va in maniera perfetta. Krisztina scrive rapidi appunti nel suo diario, a volte una riga, altre volte un’unica parola. Ad esempio, frasi come questa: “Sei irrecuperabile, perché sei vanitoso”. Poi non scrive niente per settimane intere. Oppure scrive che ad Algeri un uomo l’ha seguita in un vicoletto, le ha rivolto la parola e lei ha avuto la sensazione che sarebbe stata capace di andarsene con lui. Krisztina ha un’indole bizzarra, è un’anima irrequieta. Ma non voglio che quegli strani guizzi di sincerità, lievemente inquietanti, turbino la mia felicità. Non mi rendo conto che se qualcuno si ostina a mettere a nudo la propria anima, con una franchezza persino eccessiva, è forse per non dover parlare di qualcosa che ha un’importanza essenziale. Non ci penso, né durante il nostro viaggio di nozze né più tardi, mentre leggo il diario. Poi arriva quel momento indimenticabile, quello in cui sento il tuo fucile puntato contro di me, e anche dopo, nel corso della giornata, mi sembra di percepire il sibilo del proiettile che mi sfiora l’orecchio... Poi viene la notte e tu ci lasci, dopo esserti soffermato a parlare con Krisztina di tutto quanto

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riguarda i Tropici. E io rimango solo con i ricordi di quel giorno e di quella serata. E non trovo il diario al solito posto, nel cassetto della scrivania di Krisztina. Allora decido di venire da te, l’indomani, per domandarti... “. Si interrompe. Scuote il capo, con l’aria di un vecchio che si meraviglia dell’azione compiuta da un fanciullo.

“Per domandarti che cosa?...” dice piano, con aria di scherno, come deridendo se stesso. “ Cosa si può domandare con le parole? E quanto vale la risposta che una persona affida alle parole, invece di esprimerla con la realtà della sua vita?... Vale ben poco “ dice con fermezza. “Sono estremamente rare le persone le cui parole coincidono alla perfezione con la realtà della loro vita. Forse è il fenomeno più raro che esista al mondo. A quei tempi non lo sapevo ancora. Non intendo dire che il mondo sia fatto di bugiardi. Penso però che è inutile accumulare esperienze, conoscere la verità, perché non siamo in grado di cambiare la nostra natura di fondo. Forse il massimo che possiamo fare nella vita è adattare alla realtà del mondo, con intelligenza e cautela, la realtà immutabile della nostra natura. Di più non possiamo fare. E neanche questo ci renderà più saggi o più resistenti... Dunque dicevo che ho deciso di venire a parlarti, senza rendermi conto che qualsiasi cosa io ti chieda e qualsiasi cosa tu mi risponda non servirà a cambiare i fatti. Ma potremmo se non altro conoscerli. Le domande e le risposte potrebbero almeno avvicinarci alla realtà. E’ l’unica cosa che mi aspetto dal mio colloquio con te. Mi addormento profondamente, esausto come se quel giorno avessi affrontato uno sforzo fisico pesante, una cavalcata o una marcia di diverse ore. Una volta ero sceso da una montagna trasportando sulla schiena un orso che pesava parecchio, sui duecentocinquanta chili: in quegli anni possedevo una forza fisica straordinaria, eppure, pensandoci adesso, mi chiedo come sia riuscito, valicando burroni e scendendo per ripidi sentieri, a sopportare quel carico. A quanto pare, si sopporta tutto quando la vita ha un senso e uno scopo. Quella volta, arrivato a valle, ero stramazzato sulla neve e mi ero addormentato: così mi trovarono i miei cacciatori, mezzo assiderato, accanto al cadavere dell’orso. Altrettanto profondamente dormo quella notte dopo la caccia, un sonno senza sogni; non appena mi sveglio, faccio preparare la carrozza e mi reco in città, a casa tua. Lì vengo a sapere che sei partito. Solo il giorno seguente arriverà al reggimento la tua lettera di dimissioni con l’annuncio che stai per trasferirti all’estero. In quel momento prendo coscienza unicamente della tua fuga e vedo in essa la prova lampante che hai voluto uccidermi. Sento inoltre che deve essere accaduto qualcosa di cui non afferro ancora il significato, qualcosa che non riguarda te solo ma anche me, in maniera diretta e nefasta. E mentre sto lì, in quella stanza misteriosa, surriscaldata, affollata di oggetti magnifici, la porta si apre ed entra Krisztina “.

Parla in tono discorsivo, gioviale, come se indugiasse sui particolari di una vecchia storia per intrattenere piacevolmente l’amico ritornato finalmente da un viaggio, dalla lontananza, dall’abisso del tempo. Konrad lo ascolta immobile. Ha posato il sigaro ormai spento sull’orlo del vassoio di vetro, ha incrociato le braccia; siede così, senza muoversi, in posizione rigida e corretta, come un ufficiale a colloquio amichevole con un superiore.

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“Entra e si ferma sulla soglia” dice il generale. “Viene da casa, è senza cappello, ha guidato da sola il calessino. “E andato via?” domanda. La sua voce è stranamente roca. Faccio cenno di sì. Krisztina è lì, vicino al la porta, alta e sottile, non l’ho mai vista così bella come in quel momento. Il suo viso è bianco, sembra quello di un ferito che abbia perso molto sangue. Gli occhi le brillano febbrilmente come la sera prima, quando l’ho sorpresa intenta a leggere il libro sui Tropici. “E’ fuggito” dice dopo un po’ senza attendersi una risposta; lo dice a se stessa, come a prenderne atto. “Era un vigliacco” aggiunge a voce bassa, con molta calma “ .

“Ha detto così?” domanda l’ospite. Abbandona la posa statuaria e si schiarisce la gola. “Sì, esattamente così. Non dice altro. E io non le pongo nessuna domanda. Rimaniamo in piedi nella stanza senza dire una parola. Poi Krisztina si guarda intorno, fissa i mobili, i quadri, gli oggetti, li passa in rassegna uno alla volta. Io seguo il suo sguardo che sembra dare l’addio a un luogo e a oggetti familiari. Si guarda intorno con l’aria di chi conosce già tutto e sa che adesso è venuto il momento di accomiatarsi. Sai, ci sono due modi di guardare le cose: come se uno le stesse scoprendo per la prima volta, o come se desse loro l’addio. Nello sguardo di Krisztina non c’è nulla della curiosità di chi scopre qualcosa. Il suo sguardo vaga per la stanza con la calma e la naturalezza con cui ci si guarda intorno a casa propria, dove si conosce il posto di ogni cosa. Nei suoi occhi, stranamente velati ogni tanto si accendono dei lampi. Sembra sforzarsi di mantenere il controllo di sé, ma sento che è sul punto di perderlo, così come sta per perdere te e me. Basterebbe uno sguardo, un gesto improvviso, una parola avventata, qualcosa che potrebbe avere conseguenze irrimediabili... Indugia un attimo a guardare i quadri senza un interesse particolare, poi getta uno sguardo altero all’ampia ottomana e, per un attimo, la vedo chiudere gli occhi. Quindi si volta ed esce dalla stanza com’era arrivata, senza dire una parola. Non la seguo, ma dalla finestra aperta la vedo attraversare il giardino. Si allontana lungo una spalliera di rose - sono sbocciate proprio in quei giorni - e sale sul calessino che l’aspetta al cancello, prende in mano le redini e parte. La vedo scomparire dietro la curva della strada “. Si interrompe e alza lo sguardo sull’ospite. “Non ti sto affaticando?” domanda con cortesia. “ No “ risponde Konrad con voce rauca. “ Per niente. Continua “.

“Temo di essere piuttosto prolisso” dice quasi scusandosi. “Ma non posso fare diversamente: possiamo comprendere l’essenziale solo partendo dai particolari, questa è l’esperienza che ho tratto sia dai libri che dal la vita. Bisogna conoscere tutti i particolari, perché non possiamo sapere quale sarà importante in seguito, quali parole metteranno in luce qualcosa. Bisogna raccontare con ordine. Ma ormai non mi resta più molto da dire. Tu sei fuggito, Krisztina è salita sul calesse ed è andata a casa. E io, cos’altro posso fare, in quel momento e nel tempo a venire? Continuo a fissare il punto dal quale Krisztina è scomparsa. Poi mi ricordo che nell’ingresso, dietro alla porta, c’è il tuo attendente. Lo chiamo, il giovane entra, si mette sull’attenti. “Agli ordini!” dice. “Quando è andato via il signor capitano?”. “Ha preso il rapido dell’alba, che va alla capitale”. “Ha portato con sé molti bagagli?”. “No, solo qual che abito civile”. “Ha

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lasciato disposizioni o messaggi?”. “Ha detto che lasciava libera la casa, che i mobili dovranno essere venduti. Sarà il signor avvocato a occuparsi di tutto. Io tornerò al reggimento” dice. Restiamo lì a guardarci. E a questo punto accade qualcosa che non potrò mai dimenticare: quel ragazzo di vent’anni, figlio di contadini - ricordi certamente la sua faccia bonaria e intelligente -, abbandona la posizione sull’attenti e lo sguardo fisso prescritti dal regolamento, smette di essere il soldato semplice al cospetto di un superiore, assume l’espressione di chi sa certe cose e prova pietà per chi gli sta di fronte. Nel suo sguardo c’è una compassione profonda, che dapprima mi fa impallidire e subito dopo avvampare. A questo punto - per la prima e l’ultima volta - perdo il controllo. Mi accosto a lui, lo afferro per la giubba, lo sollevo da terra; ci respiriamo in faccia, guardandoci profondamente negli occhi. In quelli del ragazzo leggo il terrore e insieme una persistente compassione. Tu sai che a quei tempi era meglio non venire alle prese con me: qualsiasi provocazione scatenava la forza dei miei pugni. Sapendolo anch’io, sento che siamo entrambi in pericolo, io e il tuo attendente. Allora allento la presa, lo lascio ricadere a terra come un soldatino di piombo; le sue grosse scarpe cozzano contro il pavimento ed egli si mette di nuovo sull’attenti, come alla parata. Tiro fuori il fazzoletto e mi asciugo la fronte. Basta un’unica domanda, alla quale il ragazzo sarà costretto a rispondere. La domanda è questa: “La signora che è venuta poco fa è già stata qui in passato?...”. Se non mi risponde immediatamente, penso, lo uccido. Ma anche se mi rispondesse, forse lo ucciderei ugualmente, e non solo lui... In momenti simili non si ragiona più. Ma so che, tutto sommato, qualsiasi domanda è superflua. So già che Krisztina è stata lì in precedenza, e non una sola volta, ma tante “.

Si abbandona contro lo schienale della poltrona e, con gesto stanco, appoggia i gomiti sui braccioli. “Ormai non ha più senso continuare a interrogarlo” dice. “Quello che resta da sapere non potrà certo rivelarmelo quell’estraneo. Devo conoscere la ragione di quanto è accaduto, scoprire cos’è che scava un abisso tra due uomini e dove ha inizio il tradimento. Ecco che cosa mi resta da sapere. E anche quale colpa abbia io in tutto ciò... “.

Dice queste cose a voce molto bassa, in tono esitante e di profondo sconforto. Si capisce che quella domanda, che lo ha tormentato per quarantun anni e alla quale non ha mai ottenuto risposta, l’ha pronunciata ad alta voce per la prima volta.

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16. “Perché le cose non ci accadono così, per caso” dice il generale con più decisione,

sollevando il capo. Sopra di loro, le candele ardono con fiamme sottili e il fumo si leva dagli stoppini anneriti. Il paesaggio e la città in lontananza sono avvolti nell’oscurità, nessun lume punteggia la notte. “Gli uomini contribuiscono al loro destino, a determinare certi eventi. Invocano il loro destino, lo stringono a sé e non se ne separano più. Agiscono così pur sapendo fin dall’inizio che il loro modo di agire porterà a risultati nefasti. L’uomo e il suo destino si realizzano reciprocamente modellandosi l’uno sull’altro. Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato, facendoci da parte per invitarlo a entrare. Non c’è infatti essere umano abbastanza forte e intelligente da saper allontanare, con le parole o con i fatti, il destino infausto che deriva, secondo una ferrea legge, dalla sua indole e dal suo carattere. E adesso ti chiedo: è possibile che non avessi mai saputo nulla di te e Krisztina?... A mano a mano che il tempo passava, o all’inizio di tutto, voglio dire quando ha avuto inizio questa storia che ci riguardava tutti e tre? Eri stato tu a presentarmi Krisztina, che conoscevi dall’adolescenza. Avevi fatto copiare degli spartiti da suo padre, le cui mani, menomate da un colpo apoplettico, potevano ancora servirgli per quel lavoro ma non erano più in grado di reggere l’archetto e di trarre dal violino suoni limpidi e suggestivi come un tempo. Era stato costretto a rinunciare alla carriera e ad abbandonare le sale da concerto, accontentandosi di insegnare la musica a ragazzi poco dotati in una cittadina di provincia, e di realizzare modesti guadagni supplementari correggendo o ricopiando le composizioni musicali di dilettanti di talento. A quel tempo risale la tua conoscenza con Krisztina, che aveva allora diciassette anni. La madre era già morta, nella località del Sud-tirolo in cui era nata e dove era andata a curarsi il cuore malato in una clinica. Più tardi, alla fine del nostro viaggio di nozze, ci rechiamo in quella località termale per visitare la clinica, perché Krisztina vuole vedere la camera in cui è morta sua madre. Pernottiamo a Riva, poi, in automobile, raggiungiamo Arco nel pomeriggio, dopo aver percorso le rive del lago di Garda, profumate di fiori e di aranci. Il paesaggio è disseminato di ulivi dal fogliame color grigio argenteo, e attraverso l’aria tiepida e umida si scorge, poco più in là tra le rocce, il fabbricato della clinica. Le palme di ogni specie, la luminosità diffusa, l’atmosfera pesante, danno un’impressione di serra, ovunque regna un silenzio profondo. L’edificio color paglierino in cui la madre di Krisztina ha vissuto i suoi ultimi anni ha un aspetto misterioso, come se racchiudesse in sé tutte le malinconie umane, come se ad Arco il mal di cuore fosse una specie di attività silenziosa, la conseguenza di tutte le delusioni e degli incomprensibili incidenti della vita. Krisztina gira intorno all’edificio. Il silenzio,

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l’aroma delle piante mediterranee irte di spine, i vapori tiepidi e profumati che là avvolgono ogni cosa come le bende di lino il cuore dei malati, mi turbano profondamente. Ad Arco per la prima volta sento che Krisztina non mi appartiene del tutto. Mi pare di riudire, proveniente da molto lontano, dall’abisso del tempo, la voce saggia e malinconica di mio padre, che parla di te, Konrad”. E’ la prima volta in quella serata che il generale pronuncia il nome dell’ospite, senza enfasi né ostilità, in tono cortese e indifferente. “Mio padre dice che tu non sei un vero soldato, che appartieni a una razza diversa. Non lo capisco, non so ancora che cosa significhi essere diversi. Solo più tardi, dopo molte ore trascorse in solitudine, mi renderò conto che tutto ruota sempre intorno a questo. I rapporti tra l’uomo e la donna, l’amicizia, le relazioni mondane dipendono da questo, dalla diversità che divide il genere umano in due parti. A volte sono portato a credere che le differenze tra le classi sociali, le divergenze ideologiche, i conflitti di potere, insomma tutti i contrasti che dividono l’umanità dipendano da questa diversità. E come le persone appartenenti allo stesso gruppo sanguigno sono le uniche che possano donare il loro sangue a chi è vittima di un incidente, così anche un’anima può soccorrerne un’altra solo se non è diversa da questa, se la sua concezione del mondo è la stessa, se tra loro esiste una parentela spirituale. Dunque, proprio là ad Arco intuii per la prima volta con angoscia che anche Krisztina era diversa. E mi tornarono in mente le parole di mio padre, che non leggeva libri ma che aveva imparato anche lui, con l’esperienza e la riflessione solitaria, a conoscere certe verità; aveva sperimentato anche lui il disaccordo che può esistere fra gli esseri umani di razza diversa, perché si era unito a una donna accanto alla quale, pur amandola, si era sentito sempre solo. I miei genitori avevano temperamenti e ritmi di vita diversi, fatti per scontrarsi, perché anche mia madre era diversa, come lo eravate tu e Krisztina... E ad Arco scoprii anche un’altra cosa. I sentimenti che provavo per mia madre, per te e per Krisztina erano identici: la stessa nostalgia, le stesse trepidanti attese, gli stessi desideri impotenti. Il fatto è che noi amiamo sempre i diversi da noi, e continuiamo a cercarli in tutte le circostanze. Ed è questo uno dei misteri della nostra vita. Quando due esseri uguali si incontrano, la si considera una fortuna, un dono della sorte. Ma gli incontri di questo genere sono disgraziatamente rari, come se la natura facesse di tutto, usando la forza e l’astuzia, per impedire che si formi una tale armonia - forse perché ha bisogno, per ricreare il mondo e rinnovare la vita, del la tensione che si sviluppa tra individui che, pur vivendo secondo ritmi e tendenze discrepanti, si rincorrono eternamente. Una sorta di corrente elettrica alternata... dovunque si volga lo sguardo, si vede questo scambio continuo tra il polo negativo e quello positivo. Quanta disperazione, quante speranze inutili si celano dietro questa alternanza! Tornando a quel giorno ad Arco, riudii la voce di mio padre e compresi che il destino paterno si stava riproducendo in me: il mio carattere e i miei gusti erano simili ai suoi, mentre mia madre, tu e Krisztina eravate sulla sponda opposta, ciascuno con un ruolo distinto nella mia vita - quello di madre, quello di amico, quello di moglie amata e amante -, ma tutti con una medesima funzione nei miei confronti. Eravate, ho detto, sulla sponda opposta, quella dove nessuno di noi riuscirà mai a metter

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piede... E anche se ottenessimo tutto dalla vita, se trionfassimo di tutte le difficoltà, l’unica cosa che non potremmo mai fare è cambiare i gusti, le inclinazioni, i ritmi di vita di una persona, annullare la diversità che caratterizza la persona che conta, quella a cui ci si sente legati. E l’ho intuito per la prima volta ad Arco, mentre Krisztina girava intorno all’edificio nel quale era morta sua madre “.

Il generale si appoggia allo schienale della poltrona e nasconde la faccia tra le mani con un gesto che esprime impotenza e rassegnazione, come se avesse finalmente preso coscienza del fatto che non potrà mai contrastare in alcun modo le leggi della natura umana. “Poi abbiamo lasciato Arco e siamo venuti qui a iniziare la nostra vita al castello “ dice. “ Il resto lo sai. Eri stato tu a presentarmi Krisztina, ma non hai mai accennato all’inclinazione che provavi per lei. L’aver incontrato Krisztina era indiscutibilmente l’evento più importante di qualsiasi altro nella mia vita. Krisztina non era di razza pura: aveva nelle vene un po’ di sangue tedesco, un po’ di sangue italiano, e per il resto era ungherese. Forse aveva anche qualche goccia di sangue polacco, da parte di padre. C’era in lei qualcosa di indefinibile: non si poteva attribuirle né razza né classe, come se la natura si fosse divertita a creare un essere libero e indipendente, che avesse poco o niente in comune con un qualsivoglia gruppo umano. Era come un giovane animale selvatico: l’accurata educazione in un istituto religioso, l’erudizione di suo padre e il tenero affetto con cui la trattava avevano addomesticato sol tanto le sue maniere. Nell’intimo era rimasta selvaggia e indomabile: tutto ciò che le avevo dato io, un patrimonio, una posizione sociale, per lei contava ben poco, le importava unicamente salvaguardare quell’indipendenza interiore che formava la sua personalità più autentica e di cui non voleva cedere la benché minima parte al mondo in cui l’avevo introdotta. Anche il suo orgoglio era diverso da quello di chi va fiero del proprio rango, delle proprie origini, del proprio patrimonio o di qualche dote particolare. Era l’orgoglio della sua superba autonomia di spirito, che agiva in lei come una sorta di veleno ereditario. Lo sai anche tu che era uno spirito sovrano, cosa estremamente rara al giorno d’oggi, sia negli uomini che nelle donne. A quanto pare, ciò non dipende né da privilegi di nascita né dalla situazione sociale. Niente poteva offenderla o provocarle imbarazzo o timore, ma non sopportava che le venissero imposti dei limiti, di nessun genere. E aveva qualcosa che si trova di rado nelle donne: un forte senso della sua responsabilità di essere umano. Ricordi che, quando ci incontrammo per la prima volta a casa loro, nella stanza dove sul grande tavolo e sulle sedie erano sparpagliati gli spartiti di suo padre, la comparsa di Krisztina inondò a un tratto di luce quella stanzetta buia? Non fu solo la giovinezza a entrare insieme a lei, ma anche la passione, l’orgoglio, la coscienza sovrana dei suoi sentimenti indomiti. Non ho mai visto nessun altro che sapesse rispondere così pienamente a tutto ciò che ci offrono il mondo e la vita: la musica, una passeggiata nel bosco verso l’alba, il colore e il profumo di un fiore, le parole intelligenti e sagge di qualcuno. Nessuno sapeva accarezzare un tessuto di gran pregio o un animale con il tocco appassionato di Krisztina. Nessuno sapeva rallegrarsi come lei delle piccole cose quotidiane. Provava interesse per tutto, uomini e bestie, astri e libri, senza per questo

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darsi arie di superiorità, senza atteggiarsi a intellettuale, ma al contrario accostandosi a tutto quello che la vita ci offre con la serena esultanza di chi si sente a casa sua nel mondo. Come se tutte le manifestazioni del mondo la riguardassero personalmente, capisci?... Sì, tu mi puoi capire. E saprai come al suo spirito così aperto e scevro di pregiudizi si unisse una grande umiltà, come se lei si rendesse sempre conto che la vita è un grande dono, una grazia suprema. Ogni tanto vedo ancora il suo volto” dice con emozione. “ In questa casa non vedrai più il suo ritratto, il grande quadro dipinto dal pittore austriaco che è rimasto a lungo appeso fra i ritratti dei miei antenati maschili e femminili e che è stato rimosso dalla parete. Non ho più nemmeno una fotografia, nessuna immagine di Krisztina è rimasta qui al castello “, dichiara quasi con soddisfazione, come se si vantasse di una prodezza. “Tuttavia ogni tanto, nel dormiveglia o quando entro in una stanza, vedo ancora il suo volto. E ora che, dopo quarantun anni, noi due che l’abbiamo conosciuta a fondo stiamo parlando di lei, vedo il suo volto con la stessa nitidezza con cui lo vidi quell’ultima sera, mentre sedeva qui tra noi. Devi sapere che quella fu l’ultima volta che cenammo insieme, io e Krisztina. Non solo tu, anch’io cenai con lei per l’ultima volta in quella occasione. Perché quel giorno tutto accadde, fra noi tre, come era destino che accadesse. E poiché Krisztina era la persona che sappiamo, era inevitabile che venissero prese certe decisioni: tu partisti per i Tropici, io e Krisztina non ci rivolgemmo più la parola” dice tranquillamente. E fissa il fuoco.

“Eravamo fatti così “ dice con semplicità. “Pian piano arrivai a rendermi conto di ciò che era accaduto. Per prima cosa c’era stata la musica. Nella vita di alcune persone esistono certi fattori ricorrenti e fatali. Fra te, Krisztina e mia madre la musica è stata una sorta di tessuto connettivo. Essa vi comunicava qualcosa che non è possibile esprimere con le parole o con gli atti. Probabilmente vi permetteva anche di comprendervi, mentre mio padre e io, che eravamo diversi da voi, e quindi esclusi da quei discorsi, restammo isolati fra di voi. Grazie alla musica, fra te e Krisztina si era creata un’intesa che fra lei e me era invece venuta a mancare. Per questo la musica mi fa orrore “ dice alzando la voce per la prima volta nel corso della serata, e quasi con violenza. “Odio quel linguaggio melodioso e incomprensibile che permette a certe persone di comunicarsi con disinvoltura cose vaghe, insolite; a volte ho perfino l’impressione che con la musica ci si comunichi qualcosa di sconveniente, di immorale. Osserva il volto di chi ascolta la musica, vedi come si trasforma la sua espressione... Eppure non ricordo che tu e Krisztina cercaste occasioni di far musica insieme - non ricordo di avervi mai visti suonare a quattro mani. E tu non ti sei mai seduto al pianoforte davanti a Krisztina, comunque mai in mia presenza. Evidentemente, la discrezione di Krisztina e una sorta di pudore la trattenevano, con me presente, dall’abbandonarsi insieme a te al piacere della musica. Questa, non avendo nessun significato definibile a parole, deve possederne uno più pericoloso, visto che riesce a commuovere così intensamente le persone accomunate non soltanto dall’orecchio musicale, ma anche dal sangue e dal destino. Non credi che sia così?... “. “Nel modo più

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assoluto” risponde l’ospite. “Questo mi conforta” dice educatamente il generale. “Anche il padre di Krisztina, grande intenditore di musica, era della stessa opinione. Devi sapere che fu l’unico al quale una volta parlai di tutto ciò, della musica, di te e di Krisztina. Era già molto vecchio; morì poco dopo la nostra conversazione. Io ero appena tornato dalla guerra. Krisztina era già morta da dieci anni. Ormai erano morte o lontane tutte le persone che un tempo erano state importanti per me, mio padre e mia madre, tu e Krisztina. Erano vivi solo i due vecchi, Nini, la balia, e il padre di Krisztina; li tenevano in vita, proprio come accade a noi adesso, la strana indifferenza e la tenace volontà dei vecchi, tesa verso qualche imperscrutabile obiettivo. Tutti gli altri erano morti. Non ero più giovane nemmeno io, avevo superato i cinquant’anni, e mi sentivo solo come quell’albero della foresta intorno al quale tutti gli altri erano stati distrutti da un uragano alla vigilia della dichiarazione di guerra. Solo quell’albero era rimasto in piedi in mezzo alla radura, nei pressi del casino di caccia. Ormai, un quarto di secolo dopo, un nuovo bosco è cresciuto intorno a lui, ma il vecchio albero, solitario tra le giovani piante, è ancora lì, pieno di vigore, continua a vivere con forza assurda e gigantesca. Quale può essere lo scopo della sua esistenza? Nessuno, credo. A mio parere, la vita non ha altro scopo che quello di durare e di rinnovarsi il più a lungo possibile. Dunque ero appena tornato dalla guerra, e parlai con il padre di Krisztina. Cosa sapeva di noi tre? Tutto. E io gli dissi - non lo avevo mai detto a nessun altro - tutto ciò che valeva la pena di dire. Eravamo seduti nella stanza buia, tra mobili antichi e vecchi strumenti; c’erano fasci di spartiti disseminati ovunque, sugli scaffali, negli armadi, una musica senza voce imprigionata nei segni, il ronzio e il frastuono delle note racchiusi in tutta quella carta stampata, fra quelle mura dove tutto emanava un profumo antico, come se ogni soffio di vita, ogni presenza umana se ne fossero ormai allontanati... Il vecchio mi ascoltò e poi disse soltanto: “Che cosa pretendi? Tu sei sopravvissuto a tutto”. Lo disse come se pronunciasse una sentenza, o come se lanciasse un’accusa. Guardava fisso davanti a sé nella penombra, con occhi appannati. Era già molto vecchio, aveva superato gli ottanta. Allora compresi che chi sopravvive non ha il diritto di accusare nessuno. Chi sopravvive ha vinto la sua causa, non ha alcun motivo di formulare accuse. Si è dimostrato il più forte, il più furbo, il più prepotente. Come noi due “ conclude seccamente. I loro sguardi si incontrano, si scrutano. “Poi è morto anche lui, il padre di Krisztina” dice. “ Siete rimasti solo la balia e tu, che eri chissà dove in giro per il mondo, e questo castello e la foresta. Io ero sopravvissuto anche alla guerra “ dice compiaciuto. “Non avevo tentato di evitare la morte, ma non l’avevo neanche cercata: sarebbe falso sostenere il contrario. Probabilmente avevo ancora un compito da assolvere in questo mondo “ aggiunge con aria assorta. “ Intorno a me la gente moriva, ho visto la morte nelle forme più diverse, mi stupiva la grande varietà di modi in cui si può morire; giacché la morte ha una forza d’immaginazione pari a quella della vita. E’ stato calcolato che nella guerra sono morti dieci milioni di esseri umani. Nel gigantesco rogo della guerra, si poteva pensare che tutti i dubbi, le questioni e le passioni personali sarebbero stati annullati. E invece sono sopravvissuti all’incendio. Quanto a me sapevo, pur in mezzo a tanto sfacelo, che mi

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restava ancora una faccenda personale da sistemare, ed è per questo che non sono stato né un eroe né un vigliacco, e ho mantenuto la calma anche nei momenti più drammatici, durante gli scontri più micidiali, perché sapevo che non mi poteva accadere niente di grave. E un giorno sono tornato a casa dalla guerra e ho ricominciato ad aspettare. Il tempo è passato, e il mondo ha preso fuoco ancora una volta. Ma io so bene che è sempre il medesimo incendio, che adesso divampa con una violenza mai vista prima... E dentro di me esisteva sempre lo stesso problema irrisolto che due guerre, le rovine e le ceneri accumulatesi negli anni non sono riuscite a seppellire. Il mondo è di nuovo in fiamme, gli esseri umani periscono a milioni, ma in questo mondo impazzito tu, che vieni dalla sponda opposta, sei riuscito a trovare la strada che ti ha riportato in patria per sistemare con me tutto quello che non siamo stati capaci di risolvere quarantun anni fa. Tale è la forza della natura umana: essa deve assolutamente ottenere una risposta alla domanda che ha individuato come la più importante. Per questo sei tornato, e per questo ti ho aspettato. Può darsi che questo mondo sia giunto alla fine “ dice in tono sommesso, indicando con un gesto circolare lo spazio intorno a sé. “Può darsi che la luce si spenga nel mondo e che, in seguito a qualche rivolgimento ancora più terribile del la guerra, noi piombiamo in un’oscurità pari a quella che ci avviluppa stanotte; può darsi che anche nell’animo umano le cose evolvano in modo tale che tutto quello che è rimasto in sospeso venga discusso e risolto solo col ferro e col fuoco. Capisco da molti segni che questo momento è vicino. Chissà... “ dice con distacco. “ Può darsi che le forme di vita che ci hanno trasmesso i nostri genitori, e questa casa, questa cena, persino le parole con cui discutiamo stasera delle questioni più importanti appartengano tutte al passato. C’è troppa tensione nel cuore degli uomini, troppa animosità, troppa sete di vendetta. Guardiamo in fondo ai nostri cuori: che cosa vi troviamo? Una passione che il tempo ha soltanto attutito senza riuscire a estinguerne le braci. Perché dovremmo aspettarci qualcosa di diverso dagli altri uomini? E noi due, che siamo vecchi e saggi e abbiamo raggiunto la fine della nostra vita, anche noi siamo assetati di vendetta... vendetta contro chi? Ciascuno contro l’altro, o contro la memoria di qualcuno che non esiste più. Sono passioni dissennate. Eppure animano i nostri cuori. E allora perché dovremmo aspettarci qualcosa di diverso da un mondo che è pieno di incoscienza e di invidia, di astio e di prepotenza? Ci sono giovani che si precipitano, con la baionetta in canna, contro giovani di nazionalità diversa, uomini che si scannano a vicenda, regole e accordi un tempo sacri che vengono calpestati. Soltanto le passioni vivono e bruciano e chiedono vendetta al cielo... Sì, soltanto la sete di vendetta. Sono tornato dalla guerra, dove avrei avuto occasione di morire ma non sono morto, perché aspettavo di potermi vendicare. Ma come? mi chiederai adesso. Quale vendetta?... Vedo dal tuo sguardo che non capisci cosa sia questa sete di vendetta. Quale vendetta è ancora possibile tra due vecchi che ormai aspettano solo di morire?... Tutti sono scomparsi; che senso può avere, a questo punto, la vendetta?... Ecco la domanda che leggo nei tuoi occhi. E io ti rispondo con questa sola parola: vendetta! E stata lei a tenermi in vita, in tempo di pace e in tempo di guerra, nei quarantun anni trascorsi, è grazie a lei che non mi sono ucciso, non sono

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stato ucciso e non ho ucciso - così, almeno, ha voluto il destino. Adesso la vendetta è arrivata, come ho sempre desiderato. La vendetta consiste semplicemente nel fatto che sei venuto da me, attraversando il mondo in guerra e i mari infestati di mine, sei venuto fin qui, sul luogo del tuo misfatto, per rispondermi, per chiarire a entrambi la verità. Ecco qual è la mia vendetta. E adesso mi risponderai “. Le ultime parole le pronuncia a voce così bassa che l’ospite si sporge in avanti per sentirle meglio. “Va bene” dice quest’ultimo. “Può darsi che tu abbia ragione. Interrogami e, se sarò in grado, ti risponderò “.

La luce delle candele si sta smorzando, tra i grandi alberi del giardino spira un vento che preannuncia l’alba. La stanza intorno ai due vecchi è quasi al buio.

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17. “Devi rispondere a due domande” dice il generale sporgendosi a sua volta in avanti e

parlando sottovoce in tono confidenziale. “Me le sono preparate da tempo, nel corso degli ultimi decenni, mentre ti aspettavo. Tu sei l’unico che possa darmi una risposta. So cosa stai pensando: che io vorrei sapere se non mi sono sbagliato, se è proprio vero che quella mattina, durante la caccia, tu avevi intenzione di uccidermi. Non potrebbe essere stata un’allucinazione? In fin dei conti non è successo nulla. Anche il miglior cacciatore può essere ingannato dall’istinto. E probabilmente, secondo te l’altra domanda dovrebbe essere questa: sei stato l’amante di Krisztina, o, come si dice abitualmente, Krisztina mi ha tradito con te, nel senso concreto, volgare e squallido della parola? No, amico mio, sono questioni che non mi interessano più. A queste due domande avete già risposto sia tu che il tempo, e ha risposto, a modo suo, anche Krisztina. Tu hai risposto l’indomani della caccia, quando sei fuggito da noi abbandonando la città e la bandiera, come si diceva un tempo, quando gli uomini credevano ancora nel significato di questa parola. Non te lo domando perché so con certezza che quella mattina avevi intenzione di uccidermi. Non ti sto accusando: semmai ti compatisco. Deve essere spaventoso l’istante in cui la tentazione afferra il cuore di un uomo e lo induce ad alzare l’arma per uccidere l’amico. Perché così sono andate le cose. Potresti negarlo?... Taci?... Non vedo il tuo viso nella penombra... ma non è più necessario far portare altri lumi, ci riconosciamo e ci comprendiamo anche al buio, ora che è giunto il momento, il momento della vendetta. Vediamo di concludere. Nei decenni trascorsi non ho mai dubitato per un solo istante che quella mattina tu mi volessi uccidere, e ti ho sempre compatito per quell’attimo. So cosa provavi, lo so esattamente come se mi fossi trovato al tuo posto, nell’attimo di quella tentazione terribile. Hai agito in stato di incoscienza, nell’attimo in cui sta per spuntare l’alba, quando le forze degli inferi esercitano ancora il loro potere sulla terra e sui cuori umani, quando la notte esala il suo ultimo respiro infido. E’ un attimo pericoloso. Lo conosco. Ma vedi, questi sono fatti da indagine poliziesca. E cosa me ne farei di una verità acquisita per via giudiziaria, di una verità che mi svelasse, prove alla mano, quello che ho scoperto da solo con la ragione e con il cuore? Che cosa potrebbe mai importarmi dei segreti della casa di uno scapolo, dei dettagli stantii di un caso di infedeltà coniugale, dei segreti ammuffiti di un’alcova, che mi importerebbe di svelare la vita intima di una donna ormai defunta e quella di due vegliardi che si avviano con passo incerto verso la fossa? Non sarebbe un comportamento abietto, il mio, se alla fine della vita ti chiedessi conto di tutto ciò che conferma l’ipotesi dell’adulterio e del tentato omicidio, se ti estorcessi una confessione, quando ormai tutto ciò che è successo, o che poteva succedere, secondo la legge è caduto in prescrizione?... Sarebbe un fatto

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vergognoso, indegno di te e di me e dei ricordi della nostra gioventù e della nostra amicizia. Forse per te sarebbe addirittura un sollievo se mi raccontassi i fatti concreti. Ma io non voglio che tu provi sollievo” dice tranquillamente. “Voglio la verità, e per me la verità non può consistere in pochi dati polverosi, nel velo che ricopre la passione e gli smarrimenti di un corpo femminile ormai ridotto in polvere... Quale vantaggio ne avremmo noi due, il marito e l’amante, ora che quel corpo non esiste più e noi siamo due vecchi decrepiti che parlano di come sono andate le cose, sforzandosi di conoscere la verità per poi andare incontro alla morte, io qui al castello, dove le mie ossa si uniranno a quelle dei miei avi, e tu in qual che luogo remoto, ai Tropici o nei dintorni di Londra? Che importanza hanno, alla fine della vita, la verità e la menzogna, gli inganni e i tradimenti, i tentativi di omicidio o anche l’omicidio in sé, che importanza ha che io sappia dove, quando e quante volte Krisztina, mia moglie, l’unico grande amore della mia vita, mi ha tradito con te, il mio unico amico? E ammesso che tu mi dicessi la verità, la triste e scellerata verità, che mi confessassi ogni cosa e mi raccontassi esattamente come è iniziata la vostra storia, quali abissi di gelosia, desiderio, paura e infelicità vi hanno spinti l’uno nelle braccia dell’altro, cosa provavi mentre la tenevi stretta a te, quali sentimenti di colpa e di rancore tormentavano l’animo di Krisztina, a cosa servirebbe tutto questo? Alla fine tutto diventa così semplice - ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto essere. Quelli che un tempo erano dei fatti finiscono per diventare più inconsistenti della polvere e della cenere. E quello che costituiva una tortura intollerabile, tale da farci pensare alla morte o all’omicidio - perché questi sentimenti li ho provati anch’io, ho conosciuto anch’io la più atroce delle tentazioni quando sono rimasto solo con Krisztina, dopo la tua partenza -, tutto ciò diventa più inconsistente della polvere sollevata dal vento che spira sui cimiteri. Ma allora non sarebbe assurdo e umiliante soffermarci su queste cose? Del resto, io so tutto esattamente come se avessi letto un minuzioso rapporto di polizia e potrei elencarti tutti i capi d’accusa come il pubblico ministero in tribunale. Ma dopo, che fare? Che me ne farei di questa verità da quattro soldi, del segreto di un corpo che non esiste più? Cos’è la fedeltà, e possiamo imporla alla persona che amiamo, pur desiderando solo di vederla felice? Ho riflettuto molto anche su questo. La fedeltà non è forse una sorta di terribile egoismo e vanità, come lo sono la maggior parte delle esigenze umane? Quando esigiamo fedeltà, come possiamo volere che l’altra persona sia felice? E se non riesce a sentirsi felice nella prigionia della fedeltà, e continuiamo a tenervela rinchiusa, possiamo forse dire di amarla? Adesso, alla fine della vita, non oserei più rispondere a queste domande con la stessa sicurezza che avevo quarantun anni fa, quando Krisztina mi lasciò solo nella tua casa, dove era già stata molte volte, dove tu avevi accumulato tesori per poterla ricevere degnamente e dove le due persone alle quali sono stato più legato nella vita mi hanno tradito in modo così vergognoso e volgare, addirittura banale. Adesso so che le cose andarono in questo modo” dice senza passione, quasi con indifferenza. “ Quello che abitualmente viene chiamato tradimento, la triste e banale ribellione dei corpi contro una situazione e contro una terza persona, diventa un fatto insignificante, se ci guardiamo

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indietro alla fine della vita - insignificante o deplorevole, come un qualsiasi incidente o un malinteso. A quei tempi non la pensavo così. Stavo lì in piedi, in quella dimora segreta, e fissavo con occhi sbarrati i mobili, l’ottomana, come se rintracciassi gli indizi di un crimine... sì, quando sei giovane e tua moglie ti tradisce con il tuo unico amico, che ti è caro più di un fratello, hai l’impressione che il mondo ti crolli intorno. La gelosia, il disinganno, la vanità ferita fanno terribilmente soffrire. Ma poi a poco a poco il dolore si attenua, e anche la collera con gli anni svanisce. Alla fine tutto passa, come passa la vita. Quel giorno, uscito da casa tua, feci ritorno al castello e andai nella mia stanza ad aspettare Krisztina. Forse l’aspettavo per ucciderla, o semplicemente per sentire da lei la verità e perdonarla... ad ogni modo l’aspettai fino a sera; non vedendola arrivare, scesi e andai a rinchiudermi nel casino di caccia. Forse mi comportai in maniera infantile; adesso che ci ripenso e tento di esprimere un giudizio su me stesso e sugli altri, vedo quanto fossero infantili quell’attesa e quella reclusione. Ma l’uomo è fatto così, la ragione e l’esperienza non riescono ad averla vinta sulle componenti fondamentali della sua natura. Dovresti saperlo anche tu. Andai a chiudermi nel casino di caccia che tu ben conosci, e per otto anni non rividi più Krisztina. La rividi soltanto da morta, una mattina che Nini mi mandò a dire che potevo tornare, perché Krisztina aveva cessato di vivere. Sapevo che era malata e che la curavano i medici migliori - abitarono per mesi al castello e fecero di tutto per salvarla, come poi dichiararono: “Abbiamo fatto tutto il possibile, secondo le cognizioni attuali della scienza”. Ma erano parole vuote. Probabilmente, con le loro scarse conoscenze, avevano fatto quel poco che potevano fare, senza mettere in pericolo la loro presunzione e la loro vanità. Nel corso di quegli otto anni venni informato ogni sera di ciò che avveniva al castello, sia al tempo in cui Krisztina non era ancora malata, sia più tardi, quando decise di ammalarsi e di morire. Perché sono profondamente convinto che queste cose si possono anche decidere - ormai lo so con certezza. Ma non potevo aiutare Krisztina, perché tra noi esisteva un segreto, il solo che non sia possibile perdonare, ma che non è consigliabile svelare prima del tempo, perché non si sa mai cosa si nasconda in esso. Esiste una cosa peggiore della morte e di qualsiasi sofferenza, la perdita della stima di sé. Ecco perché temevo quel segreto, il segreto che ci accomunava, Krisztina, te e me. Quando si viene colpiti da una o più persone nella stima di sé, che costituisce la nostra dignità di uomini, la ferita è talmente profonda che neanche la morte può porre fine a questo tormento. E’ una questione di vanità, mi dirai. Di vanità, sì... e tuttavia la stima di sé è il contenuto più profondo della vita umana. Ecco perché quelli che temono di perderla accettano qualsiasi soluzione, anche la più vigliacca - guardati intorno e vedrai che la vita degli uomini è piena di mezze soluzioni come queste: l’uno si staccherà dall’essere che ama, l’altro rimarrà sul posto e si chiuderà nel silenzio, nella perenne attesa di una risposta... E’ quanto ho fatto io. Non per viltà, ma per difesa, per istinto di conservazione. Tornai a casa, aspettai fino a sera, poi me ne andai nel casino di caccia e aspettai per otto anni una parola, un messaggio. Ma Krisztina non venne. Dal casino di caccia al castello il percorso in carrozza è di due ore. Per me, allora, quelle due ore, quei venti chilometri,

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rappresentavano una distanza maggiore che per te quella che ci separa dai Tropici. Mi sembrò l’unica soluzione, che si accordava con la mia natura e la mia educazione.

Se Krisztina mi avesse inviato un messaggio qualsiasi, avrei acconsentito a ogni sua richiesta. Se mi avesse chiesto di farti tornare, sarei venuto a cercarti e ti avrei riportato indietro. Se mi avesse chiesto di ucciderti, ti avrei rintracciato anche in capo al mondo e ti avrei ucciso. Se avesse preteso il divorzio, glielo avrei concesso. Ma lei non voleva niente. Perché anche lei era qualcuno, a suo modo, anche lei era stata offesa da quelli che amava; l’uno l’aveva ferita sfuggendo al suo amore, rifiutando di lasciarsi distruggere da un legame che sapeva fatale, l’altro, dopo aver appreso la verità, l’aveva ferita chiudendosi nel silenzio e nell’attesa. Anche Krisztina aveva carattere, sia pure in modo diverso da noi uomini. In quegli anni si era maturato quel destino che ci coinvolgeva tutti e tre e del quale avremmo subìto il volere. Dunque non la vidi per otto anni. Non mi giunse mai un suo appello. Solo oggi, mentre ti aspettavo per chiarire con te tante cose prima che sia troppo tardi, ho saputo dalla balia che durante l’agonia Krisztina invocò il mio nome. Era me che chiamava, non te... Te lo dico non per cantare vittoria, ma nemmeno senza una certa soddisfazione. Invocò il mio nome, e questo significa pur sempre qualcosa... Ma la rividi solo quando era già morta. Era bella come sempre. Era rimasta giovane, la solitudine non aveva indurito i suoi tratti, la malattia non aveva alterato la sua bellezza, non aveva turbato l’armonia grave e composta del suo volto. Ma tutto ciò non ti riguarda “ dice con arroganza. “Tu hai vissuto in giro per il mondo, e Krisztina è morta. Io ho vissuto in solitudine, chiuso nel mio risentimento, e Krisztina è morta. Ha risposto a ciascuno di noi come meglio poteva; perché i morti, vedi, rispondono sempre nel modo giusto, anzi suppongo che siano i soli a darci delle risposte chiare e complete. Cos’altro avrebbe potuto dire, dopo otto anni, se non ciò che ha detto con la sua morte?... In questo modo ha risposto a tutte le domande che avremmo potuto rivolgerle tu o io, se avesse ancora voluto parlare con uno di noi. Sì, i morti rispondono bene. Ma vedi, lei non voleva parlare con noi. A volte ho l’impressione che, di noi tre, Krisztina sia l’unica a essere stata veramente ingannata e tradita; non io, che lei ha tradito con te, e non tu, che mi hai tradito con lei. Tradimento, che parola stupida! Esistono parole come questa, pronte per l’uso, di cui ci serviamo automaticamente, con indifferenza, per indicare determinate situazioni. Ma una volta che tutto è finito, come ora per noi, non sappiamo più cosa farcene, di queste parole. Tradimento, infedeltà, inganno sono parole prive di senso quando la persona a cui si riferiscono ha risposto una volta per tutte con la sua morte. Più delle parole conta la muta realtà, e la realtà è che Krisztina è morta e noi due siamo vivi. Quando arrivai a comprenderlo era troppo tardi. Non mi rimase altro da fare che attendere e preparare la vendetta - e adesso che il momento della vendetta è giunto e l’attesa è finita mi accorgo con stupore di quanto sia squallido e inconsistente tutto ciò che possiamo ancora apprendere l’uno dall’altro, confessando o mentendo. L’unica cosa che possiamo capire è la realtà. Io ormai l’ho capita. Il fuoco purificatore del tempo ha eliminato dalla memoria ogni traccia di collera. In sogno o da sveglio, rivedo Krisztina che attraversa il giardino con il cappello di paglia

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di Firenze a larghe falde, snella ed eretta, nel suo abito bianco, e va verso la serra o parla con il cavallo. L’ho vista anche oggi, nel pomeriggio, quando mi sono appisolato in attesa del tuo arrivo. L’ho vista nel dormiveglia” dice un po’ vergognoso, come fanno i vecchi. “ Ho sempre davanti agli occhi le immagini di un passato ormai lontano. E oggi ho compreso con la ragione ciò che avevo già compreso molto tempo fa con il cuore: l’infedeltà, l’inganno, il vostro tradimento. Ho compreso tutto. Cosa vuoi che ti dica?... Si invecchia un poco alla volta: in un primo momento si attenua la voglia di vivere e di vedere i nostri simili. A poco a poco prevale il senso della realtà, ti si chiarisce il significato delle cose, ti sembra che gli eventi si ripetano in maniera fastidiosa e monotona. Anche questo è un segno di vecchiaia. Quando ormai ti rendi conto che un bicchiere non è altro che un bicchiere e che gli uomini, qualunque cosa facciano, sono solo creature mortali. Poi invecchia il tuo corpo; non tutto in una volta, certo, invecchiano per primi gli occhi oppure le gambe, lo stomaco, il cuore. Si invecchia così, un pezzo dopo l’altro. Poi a un tratto invecchia la tua anima: anche se il corpo è effimero e mortale, l’anima è ancora mossa da desideri e ricordi, cerca ancora la gioia. E quando scompare anche questo anelito alla gioia, restano solo i ricordi e la vanità di tutte le cose; a questo stadio si è irrimediabilmente vecchi. Un giorno ti svegli e ti strofini gli occhi e non sai più perché ti sei svegliato. Conosci già esattamente quello che il giorno presenterà alla tua vista: la primavera o l’inverno, gli scenari abituali, le condizioni atmosferiche, l’ordine dei fatti. Nulla di sorprendente può ormai accadere: non ti sorprendono più neanche gli eventi inattesi, insoliti o raccapriccianti, perché conosci tutte le probabilità, hai previsto già tutto e non ti aspetti più nulla, né in bene né in male... e questa è la vera vecchiaia. Eppure qual cosa è ancora vivo nel tuo cuore, un ricordo, una qual che speranza vaga e nebulosa, c’è qualcuno che vorresti vedere, c’è qualcosa che vorresti ancora dire o apprendere. Un giorno, lo sai bene, quel momento arriverà, e allora, tutt’a un tratto, apprendere e affrontare la verità non ti sembrerà più tremendamente importante come avevi supposto durante i decenni di attesa. L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore. Scopre le cause nascoste dei fenomeni e delle azioni umane. Il linguaggio simbolico dell’inconscio... perché gli uomini ricorrono a un linguaggio simbolico per comunicare i loro pensieri, te ne sei mai accorto? Quando parlano delle cose essenziali sembra che usino una lingua straniera, che parlino come i cinesi, e bisogna tradurre questa lingua per ricondurla sul piano della realtà. Gli uomini non sanno nulla di se stessi. Parlano sempre dei loro desideri e camuffano ostinatamente i loro pensieri più segreti. Se impari a riconoscere le menzogne degli uomini, noterai che essi dicono sempre cose diverse da ciò che pensano e vogliono davvero. Allora la vita si fa quasi divertente. Poi un giorno arrivi a comprendere la verità: vuol dire che sono arrivate la vecchiaia e la morte. Ma a quel punto non si prova più dolore. Krisztina mi ha tradito: che importa? E mi ha tradito proprio con te: quanto è meschina la sua ribellione! Sì, non guardarmi con aria stupita: parlo così perché ormai questa storia suscita in me soltanto pietà. Quando col tempo ho raccolto tanti segni rivelatori, e tutti i detriti provenienti da quel naufragio si sono accumulati sull’isola della

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mia solitudine, ho guardato al passato con occhi pieni di pietà e vi ho visti lì, mia moglie e il mio amico, due ribelli che, trascinati dalla passione, spauriti, tormentati dai rimorsi, avevano concluso contro di me un patto di vita o di morte. Poveretti! mi sono detto più di una volta. Ho immaginato, fin nei minimi particolari, quegli incontri in una casa di periferia, in una piccola città di provincia dove è quasi impossibile evitare gli sguardi indiscreti della gente e Si vive sempre con il timore di essere sorpresi, e il fatto di dovervi muovere, a casa mia, sotto gli sguardi sospettosi della servitù, l’angoscia che vi causava la mia presenza, i pochi momenti di libertà a tu per tu, con il pretesto di una cavalcata, di un po’ di musica, di una partita a tennis, di una passeggiata nel bosco, dove i miei guardacaccia vigilavano sui cacciatori di frodo... Immagino l’odio che vi animava contro di me, mentre a ogni passo, in ogni istante, dovevate confrontarvi con il mio potere - potere di marito, di proprietario terriero, di gran signore - e con una realtà che era la più pesante di tutte: il sapere che, al di là dell’amore e dell’odio, senza di me non potevate vivere. Eravate capaci di tradirmi, non di fare a meno di me; benché io fossi diverso da voi, eravamo legati in modo inscindibile, come sono uniti, secondo una legge geometrica, i diversi elementi di un cristallo. Il mattino in cui avevi deciso di uccidermi lasciasti ricadere l’arma perché non tolleravi più quella corsa affannosa, quei sotterfugi continui, quell’angoscia perenne... Cos’altro potevi fare? Fuggire con Krisztina? Avresti dovuto dimetterti dall’esercito. E poi eri povero, e anche Krisztina lo era, e non avrebbe potuto accettare niente da me. Dunque la fuga con lei era impensabile, come lo sarebbe stata una relazione segreta che poteva rappresentare un pericolo mortale: quello di venire smascherato e denunciato in qualsiasi momento, di essere costretto a risponderne a me, tuo amico e fratello. Non avresti sopportato a lungo questa situazione. Così un bel giorno puntasti il fucile su di me. E in seguito io ti ho sinceramente compianto per quel gesto. Deve essere straordinariamente doloroso e difficile uccidere qualcuno al quale ci sentiamo legati. Tu non ne sei stato capace. Non sei stato abbastanza forte da cogliere l’attimo favorevole. Passato quello, si rimane paralizzati. Perché conta anche l’istante - il tempo determina le cose a suo capriccio, e ad esso noi dobbiamo adeguare le nostre azioni. A volte il tempo ci offre una possibilità, legata appunto a un istante preciso, ma se ce lo lasciamo sfuggire non possiamo fare più nulla. Tu hai riabbassato l’arma e l’indomani sei partito per i Tropici”. Il generale si esamina con attenzione la punta delle dita.

“ Invece noi, Krisztina e io, restammo qui” prosegue. “E a poco a poco tutto è diventato chiaro, nel modo ineluttabile e misterioso in cui tutto viene in luce, propagandosi come le onde. Tu sei andato via e noi siamo rimasti qui. Siamo rimasti vivi: io grazie al fatto che tu hai perso l’istante giusto o l’istante ha perso te - fa lo stesso -, e Krisztina perché non può far altro, deve aspettare qualcosa, forse vuole semplicemente accertarsi che il nostro silenzio, tuo e mio, sia quello giusto, quello dei due uomini ai quali si sente legata e che si sono fatti da parte per cederle il passo: aspetta fino a quando non ha compreso il vero significato di quel silenzio. Allora muore. Ma io rimango qui e so tutto, eppure c’è qualcosa che ancora non so. Ecco perché devo

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continuare a vivere e ad aspettare la risposta. Ora è giunto il momento in cui avrò la risposta alla mia domanda. Ti prego, dimmi: Krisztina sapeva che quella mattina, durante la caccia, avevi voluto uccidermi?”. Formula questa domanda con calma, ma la sua voce vibra di curiosità, come quella di un bimbo che chieda agli adulti di spiegargli i segreti che governano le stelle e l’universo insondabile.

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18. L’ospite non si muove dopo aver udito la domanda. Rimane seduto a capo chino, con

la testa fra le mani, i gomiti appoggiati ai braccioli della poltrona. Quindi respira profondamente, si china in avanti, si passa una mano sulla fronte. Sta per rispondere, ma il generale gli toglie la parola:

“Perdonami” dice. “Vedi, l’ho detto” continua rapidamente, quasi scusandosi. “ Dovevo dirlo, e adesso che l’ho detto mi rendo conto di non aver formulato la domanda nel modo giusto, di averti messo in una situazione imbarazzante; tu vuoi rispondermi, vuoi dirmi la verità, ma io non ho formulato la domanda nel modo giusto. La mia domanda suonava come un’accusa. E dentro di me, non lo nego, nei decenni trascorsi ho nutrito il sospetto che quell’istante nel bosco, verso l’alba, non fosse dipeso unicamente dal caso, da un’idea improvvisa, dall’occasione, da un’ispirazione infernale - no, mi tormenta il dubbio che quell’istante sia stato preceduto da altri istanti di lucida riflessione. Perché Krisztina, quando sa della tua fuga, dice: “Era un vigliacco”- solo questo dice, sono le ultime parole che le sento pronunciare, ed è anche l’ultimo giudizio che esprime su di te. E io rimango solo con queste parole. Un vigliacco perché?... mi chiedo più tardi. Un vigliacco in che senso? Troppo vigliacco per affrontare la vita con lei e me, oppure con lei senza di me? O troppo vigliacco per affrontare la morte? Perché non osavi e non volevi ne vivere ne morire con Krisztina?... Ecco cosa mi chiedo. Ma forse ti considerava vigliacco per tutt’altra ragione, per il tuo rifiuto di commettere un’azione delittuosa che la legge punisce, azione che voi due, mia moglie e il mio migliore amico, avevate ideato e concertato insieme? Quel progetto era fallito perché tu eri un vigliacco?... Ecco la risposta che vorrei ancora ricevere prima di morire. Mi devi perdonare se non ho formulato la domanda nel modo giusto, per questo ti ho tolto la parola quando stavi per rispondermi. Questa risposta, che in sé non ha nessuna importanza, è importante per me, che alla fine di tutto, quando ormai la donna che un tempo ti accusò di essere un vigliacco è diventata cenere, vorrei finalmente sapere che cosa intendesse con questa accusa. Perché dalla tua risposta potrò finalmente conoscere tutta la verità. Non c’è nessuno che possa aiutarmi, salvo te. E non vorrei morire così. A questo punto sarebbe stato addirittura meglio se tu, quarantun anni fa, non ti fossi comportato da vigliacco, come ha affermato Krisztina sì, sarebbe stato più decente, più umano, che una pallottola risolvesse ciò che il tempo non ha saputo risolvere. Così rimane il dubbio che vi foste messi d’accordo su un omicidio che tu, alla fine, non hai avuto il coraggio di commettere. Questa è l’unica cosa che vorrei ancora sapere. Il resto sono soltanto parole, idee ingannevoli: tradimento, amore, intrigo, amicizia, tutto

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impallidisce di fronte alla forza illuminante di questa domanda, sbiadisce come i volti dei defunti, come certe immagini che la patina del tempo confonde. Non pretendo che tu mi illumini sulla vera natura dei vostri rapporti, non voglio più conoscere i particolari, non mi interessano né il “come” né il “perché”. Le circostanze sono sempre così squallide e banali. Tutto accade sempre per il motivo e nel modo esatto in cui è stato possibile che accadesse. Non vale la pena, alla fine, preoccuparsi dei particolari. Invece vale la pena, anzi è necessario preoccuparsi dell’essenziale, di quella verità che sola giustifica ai miei occhi l’essere vissuto fino a oggi. Perché ho sopportato questi quarantun anni? Perché ti ho aspettato - non come un fratello che aspetta il fratello infedele, non come un amico che aspetta l’amico fuggitivo, ma come uno che è al tempo stesso giudice e vittima e aspetta l’accusato? E adesso l’accusato siede qui di fronte a me, io lo interrogo e lui sta per rispondermi. Ma gli ho posto la domanda nel modo giusto, gli ho detto tutto quello che anche lui, il colpevole e accusato, deve sapere per potermi rispondere la verità? Quanto a Krisztina, lei ha risposto - e non solo con la sua morte. Un giorno, diversi anni dopo la sua morte, ho ritrovato il diario rilegato in velluto giallo che una notte - notte memorabile per me, la notte successiva alla caccia- avevo cercato invano nel cassetto della sua scrivania. Allora il libro era scomparso, il giorno dopo tu sei partito e io non ho più parlato con Krisztina. Poi Krisztina è morta e noi abbiamo continuato a vivere, tu lontano, chissà dove, e io in questa casa, dove sono tornato dopo la morte di Krisztina perché volevo vivere e morire nelle stanze in cui sono nato e in cui sono nati, vissuti e morti i miei antenati. E infatti è andata così, perché le cose seguono il loro corso, e questo corso non dipende dalla nostra volontà. Ma in me e intorno a me ha continuato a vivere a modo suo, in maniera occulta, anche quel diario al quale Krisztina aveva affidato senza riserve il suo amore e i suoi dubbi, le sue paure e la sua essenza più segreta. E io l’ho ritrovato, molto più tardi, tra gli oggetti di Krisztina, in una scatola dove conservava anche un ritratto in miniatura di sua madre dipinto su avorio, l’anello con sigillo di suo padre, un’orchidea appassita che un giorno le avevo offerto. Il libretto giallo era legato con un nastro azzurro, sigillato con l’anello di suo padre. Eccolo” dice tirandolo fuori dalla tasca, e lo porge all’amico con queste parole:

“E’ tutto ciò che mi è rimasto dopo la morte di Krisztina. Non ho strappato il nastro, perché lei non ha lasciato nessuna autorizzazione scritta, non ha dato disposizioni relative a questo suo lascito; non potevo neanche sapere se le sue confessioni dall’oltretomba fossero destinate a me oppure a te. Forse in questo diario si nasconde la verità, cioè la risposta esatta alla mia domanda, perché Krisztina non ha mai mentito” dice severo.

Ma l’amico non tende il braccio per prendere il quaderno. Con il capo appoggiato sul palmo della mano, Konrad siede immobile e fissa il sottile

volumetto foderato di velluto giallo, legato con un nastro azzurro. Non si muove, non batte ciglio.

“Vuoi che leggiamo insieme il messaggio di Krisztina?” domanda il generale. “ No “ dice Konrad.

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“Non lo desideri” domanda freddamente il generale, con sussiego, come un superiore che interroghi un subalterno “o non ne hai il coraggio?”. Si fissano per alcuni lunghi minuti mentre il generale tende il quaderno a Konrad con mano ferma. “A questa domanda” dice infine l’ospite “non rispondo “.

“Lo immaginavo” dice il generale. La sua voce suona stranamente soddisfatta. Con gesto lento butta il sottile volumetto nella brace. La brace si arroventa con bagliori foschi, accoglie la sua vittima e risucchia pian piano, fumando, la materia del libro, mentre dalla cenere si levano minuscole fiammelle. I due vecchi le osservano immobili, il fuoco si anima, sembra quasi che si rallegri per quella preda imprevista, ansima, scintilla, la fiamma balza verso l’alto fondendo la ceralacca del sigillo, e il velluto giallo brucia emanando un fumo denso e acre. Una mano invisibile sembra sfogliare le pagine color avorio; d’improvviso tra le fiamme appare la scrittura di Krisztina - le lettere aguzze e sottili vergate un tempo sulla carta da una mano ormai diventata polvere -, poi subito tutto si scompone e si dissolve in cenere come la mano che un tempo riempì quei fogli. Presto non rimane che un mucchietto di braci lucide e nere, come un pezzo di raso del colore del lutto. I due amici, con lo sguardo fisso su quel mucchio di cenere, rimangono a lungo in silenzio. Poi il generale riprende:

“A questo punto puoi rispondere alla mia domanda. Non c’è più nessun testimone che ti possa contraddire.

Krisztina sapeva che quella mattina nel bosco tu avevi intenzione di uccidermi?”. “Adesso non rispondo più neanche a questa domanda” dice Konrad. “Va bene” dice sottovoce il generale, quasi con indifferenza.

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19. La temperatura della sala si è abbassata. Non si intravede ancora nessun chiarore, ma

dai battenti socchiusi della finestra entra una brezza fresca, odorosa di timo, che annuncia l’alba. Il generale, infreddolito, si strofina le mani.

Adesso, nella semioscurità dei minuti che precedono l’alba, i due uomini appaiono entrambi molto vecchi. Sono gialli e ossuti come le sagome dinoccolate che ballonzolano negli ossari. L’ospite alza il braccio per leggere l’ora sull’orologio che porta al polso.

“Credo” dice in tono sommesso “che ormai abbiamo parlato di tutto. E ora di andar via “ . “Se vuoi andartene,” dice cortesemente il generale “ la carrozza ti aspetta “.

Si alzano tutti e due, si accostano istintivamente al camino, si abbassano e tendono le mani verso le braci del fuoco ormai spento. Si sentono improvvisamente intirizziti e tremano dal freddo; durante la notte è rinfrescato; la tempesta, che ha provocato un corto circuito nella centrale elettrica oscurando la città, è passata nelle vicinanze del castello. “Tornerai a Londra” constata il generale come se parlasse da solo. “ Sì “ risponde l’ospite. “ Intendi vivere laggiù?”. “ Ci vivrò fino alla morte “ risponde Konrad. “ Capisco “ dice il generale. “ E naturale. Non vorresti rimanere qui anche domani? Non vorresti vedere qualcosa o incontrarti con qualcuno? Non hai visto la tomba. Non hai visto nemmeno Nini “. Parla con aria smarrita, come se adesso, giunto il momento dell’addio, cercasse le parole adatte e non riuscisse a trovarle. Ma l’ospite resta tranquillo e risponde con prontezza.

“ No. Non voglio vedere niente e nessuno. Saluta Nini da parte mia” dice cortesemente. “ Grazie “ risponde il generale. E si avviano verso l’ingresso.

Il generale posa la mano sulla maniglia della porta. Rimangono in piedi, l’uno di fronte all’altro, col busto leggermente inclinato, come due persone compite pronte ad accomiatarsi. Entrambi si guardano intorno ancora una volta, in quella stanza dove - ne sono certi - nessuno dei due entrerà mai più. Il generale si guarda intorno sbattendo le palpebre come se cercasse qualcosa.

“Le candele” dice distrattamente, mentre i suoi occhi si fermano sui mozziconi di cera che fumano nei candelabri sopra la mensola del camino. “Guarda, le candele si sono completamente consumate “. “Due domande “ dice bruscamente Konrad, con voce sorda. “Hai detto che le domande erano due. Quale è la seconda?”.

“La seconda?...” replica il generale. Si chinano l’uno verso l’altro sussurrando, come due vecchi complici impauriti dalle ombre della notte che temano di essere uditi da orecchie indiscrete. “La seconda domanda?...” ripete in un sussurro. “Ma se non hai risposto neanche alla prima... Ascolta” dice sottovoce. “Il padre di Krisztina mi

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rimproverò di essere sopravvissuto a tutto quanto era successo. Ma non si risponde solo con la propria morte. Questa è una buona risposta. Eppure si risponde anche sopravvivendo a qualcosa. Noi due siamo sopravvissuti a Krisztina” prosegue in tono confidenziale. “ Tu andando lontano, io rimanendo qui. Non fa differenza che l’abbiamo scelto per viltà, per cecità, per saggezza o per desiderio di vendetta. Siamo sopravvissuti, ed è un dato di fatto. Non credi che avessimo un motivo valido per questo?... Non credi che di fronte alla sua morte noi due dobbiamo sentirci responsabili di quanto è accaduto? In definitiva lei si è dimostrata superiore, più umana, rispetto a noi due - superiore perché la sua risposta l’ha data con la morte, mentre noi siamo rimasti vivi, e non abbiamo nessuna attenuante. Questi sono i fatti. Chiunque sopravviva a qualcuno commette un tradimento. A noi sembrava di dover rimanere in vita, e non abbiamo nessuna attenuante, perché lei, per gli stessi motivi, è morta. Krisztina è morta perché tu sei andato via, è morta perché io sono rimasto qui e non le sono andato incontro, è morta perché noi due, gli uomini ai quali apparteneva, eravamo degli esseri spregevoli, orgogliosi e al tempo stesso vili, petulanti e al tempo stesso muti, più di quanto lei potesse tollerare. Siamo fuggiti da lei, l’abbiamo tradita sopravvivendole. Questa è la verità. Ed è necessario che tu lo ricordi, a Londra, nel la tua ultima ora. E anch’io non lo dimenticherò, qui, in questa casa. Sopravvivere a una persona che abbiamo talmente amato da sentirci disposti a uccidere per lei, alla quale eravamo tanto legati che per poco non ne siamo morti, rappresenta uno dei crimini più misteriosi e inqualificabili della vita. Il codice penale non ne fa menzione. Ma noi due sappiamo che cosa pensarne” dice sottovoce, seccamente. “E sappiamo anche un’altra cosa: che nonostante la nostra saggezza vile e orgogliosa non abbiamo messo in salvo nulla per noi stessi, perché lei è morta e noi siamo rimasti vivi; ed eravamo legati tutti e tre, in un modo o nell’altro, per la vita e per la morte. Si fa molta fatica a comprendere questo, e una volta che ci si è riusciti si diventa particolarmente irrequieti. Cosa volevamo ottenere sopravvivendo a lei, cosa ci abbiamo guadagnato?... Tu ti sei sbarazzato di una situazione scomoda? Ma che importanza poteva avere la situazione, quando si trattava del la verità della tua vita, del fatto che su questa terra esisteva una donna alla quale ti sentivi legato, anche se questa donna era la moglie del tuo migliore amico? E che importanza poteva avere l’opinione del mondo? Alla fine ha importanza solo quello che rimane nel nostro cuore “.

“ Che cosa rimane?” chiede Konrad. “La seconda domanda” risponde il generale, senza staccare la mano dalla maniglia della porta. “Eccola: cosa abbiamo guadagnato con il nostro orgoglio e la nostra presunzione? Il vero significato della nostra vita non è stato forse questo: l’attrazione irresistibile per una donna che è morta? E una domanda difficile, lo so. Da parte mia non so cosa rispondere. Nella mia vita ho sperimentato di tutto, ho visto di tutto, ho visto la pace e la guerra, ho visto cose miserabili e cose grandiose; ho visto un vigliacco come te e un presuntuoso come me; ho visto scatenarsi la lotta e ristabilirsi l’intesa. Ma chissà che, in fondo, il significato della nostra vita e di tutte le nostre azioni non sia stato il legame che ci univa a qualcuno - il legame o la

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passione, chiamali come vuoi. E’ questa la domanda? Sì, è questa. Vorrei che tu mi dicessi” prosegue sommessamente, come se temesse di avere qualcuno alle spalle che ascolti le sue parole “ cosa pensi di questo. Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che un giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, fino alla morte? E non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione? E a questo punto mi chiedo: la passione è veramente così profonda, così malvagia, così grandiosa, così inumana? Non può essere che non si rivolga affatto a una persona precisa, ma soltanto al desiderio in sé? Questa è la domanda. Oppure, nonostante tutto, si rivolge a una persona ben definita, alla stessa, misteriosa persona che può essere indifferentemente buona o cattiva, senza che l’intensità del nostro sentimento dipenda in alcun modo dalle sue azioni e dalle sue qualità? Rispondi, se ne sei capace “ dice alzando la voce. “Perché me lo domandi?” replica tranquillamente l’ospite. “ Sai bene che è così “. E si esaminano a lungo, con attenzione. Il generale ha il respiro pesante. Abbassa la maniglia. L’ampio vestibolo è attraversato da ombre e luci ondeggianti. Scendono le scale in silenzio, i domestici accorrono verso di loro portando dei lumi, insieme al cappotto e al cappello di Konrad. Davanti al portone, le ruote della carrozza scricchiolano sulla ghiaia. Konrad e il generale si salutano in silenzio, con una stretta di mano e un inchino profondo.

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20. Il generale sale verso la sua stanza. All’inizio del corridoio lo attende la balia.

“Adesso ti senti più tranquillo?” domanda. “ Sì “ dice il generale. Si avviano insieme verso la stanza. La balia si muove a piccoli passi veloci, come se

si fosse appena alzata e si accingesse a sbrigare il suo lavoro mattutino. Il generale si muove con lentezza, appoggiandosi al bastone. Percorrono il corridoio affollato di quadri appesi alle pareti. Davanti alla macchia vuota che indica il posto in cui si trovava il ritratto di Krisztina, il generale si arresta di colpo.

“Il quadro,” dice “ormai puoi anche appenderlo di nuovo al suo posto “. “ Sì “ dice la balia. “ Non ha nessuna importanza” dice il generale. “Lo so”. “ Buonanotte, Nini “. “ Buonanotte “. La balia si solleva sulla punta dei piedi e alza la mano minuta, con la pelle giallastra e

rugosa, per tracciare un segno di croce sulla fronte del vecchio. Si danno un bacio, uno strano bacio rapido e un po’ goffo: se qualcuno li vedesse non potrebbe fare a meno di sorridere. Ma come tutti i baci umani anche questo, alla sua maniera tenera e grottesca, è la risposta a una domanda che non è possibile affidare alle parole.

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LE PEREGRINAZIONI DI UN BORGHESE DI MARINELLA D’ALESSANDRO

Sándor Márai (1900-1989) nacque all’inizio del secolo da una famiglia del patriziato

sassone di Kassa (oggi Kosice, in Slovacchia). Se fosse venuto al mondo, negli stessi anni, qualche centinaio di chilometri più a ovest, in Moravia o in Boemia, o anche più a nord-est, dalle parti della Galizia o della Bucovina, probabilmente sarebbe diventato uno scrittore di lingua tedesca, entrando a far parte a pieno titolo di quella koinè nata all’ombra della civiltà asburgica che accomunò - nel crepuscolo e dopo il crollo dell’Impero più che durante la sua fioritura, nel segno della memoria e dello smarrimento esistenziale più che nella realtà - generazioni di artisti, letterati e uomini di pensiero lontani e spesso assai dissimili tra loro. Invece divenne uno scrittore ungherese, perché si formò in una delle antiche città del Regno d’Ungheria che si estendevano a semicerchio da Pozsony (oggi Bratislava, capoluogo della Slovacchia) fino a Temesvàr (oggi Timisoara, in Romania) coprendo tutto l’arco dei Carpazi. In questi borghi, fondati da immigrati tedeschi, fiorirono sin dal tardo Medioevo e si preservarono nei secoli i primi - e per parecchio tempo gli unici - nuclei di civiltà urbana in Ungheria. Alle soglie del ventesimo secolo, in un paese rimasto ancorato a strutture semifeudali, l’appartenenza alla borghesia sassone - di spirito liberale, saldamente legata alle sue tradizioni autoctone e al tempo stesso pienamente inserita nella comunità nazionale - era fonte, per tutti i suoi membri, di una robusta autocoscienza che si fondava al tempo stesso sulla fedeltà alle proprie origini e su una fervida lealtà verso la patria di elezione. All’interno della compagine statale creatasi nel 1867, la Transleithania presentava un carattere multinazionale e pluriculturale simile a quello della Cisleithania. Ma la vocazione unificatrice dell’Ungheria nei confronti dei popoli insediati nel bacino dei Carpazi - analoga, sotto diversi aspetti, a quella attribuitasi dall’Austria nell’ambito dei suoi domini slavi - si rivelò un tragico abbaglio. Anche perché si fondava su un’ideologia nazionale che non aveva nulla in comune con le tendenze sovranazionali dell’Impero. Gli unici ad assimilarsi, fin dai tempi in cui lottarono fianco a fianco con i patrioti magiari nella guerra di indipendenza del 1848-49, furono i cittadini di ascendenza tedesca ed ebraica: costoro, tuttavia, vennero attratti in maniera irresistibile dal retaggio culturale della nazione che li ospitava.

In questo senso il caso di Márai è esemplare. Durante l’infanzia, la sua appartenenza plurima gli permise di considerarsi ugualmente a casa sia nella città natale, Kassa, la cui immagine attraversa la sua opera come un filo rosso (e affiora, quantunque appena accennata, anche nelle Braci, sia nel suo paese di appartenenza, l’Ungheria, sia in quella intrigante patria ideale che si identificava, per lui, con diverse regioni dell’Europa

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centrale: dalla Germania, a cui era legato da vincoli ereditari, a Vienna, dove abitava una parte della sua famiglia e dove Márai (così come i protagonisti del suo romanzo) aveva trascorso le stagioni più felici dell’adolescenza.

Altrettanto ramificate sono le radici della sua scrittura. Accanto alla duplice eredità cadutagli in grembo per motivi di famiglia - nella libreria della casa paterna, i volumi di Goethe e Schiller si affiancavano a quelli di Petofi e Arany - e alla pleiade internazionale che formava in quegli anni, dai simbolisti francesi ai grandi romanzieri russi, il patrimonio comune di ogni giovane di buona cultura, Márai assorbì senza sforzo il meglio della letteratura mitteleuropea contemporanea. Ma l’elemento che unificò esperienze e suggestioni così molteplici fu l’ungherese, madrelingua di elezione e quindi doppiamente cara. Il suo talento si rivelò sin dal liceo: all’età di quattordici anni pubblicò a Kassa il suo primo articolo, a diciotto una raccolta di versi. Fu allora- alla fine del primo conflitto mondiale - che questo fragile idillio si spezzò per sempre, cancellando ogni illusione di una crescita armoniosa e costringendo il giovane letterato a maturare in fretta: “Vedevo solo tenebre intorno a me. Alle nostre spalle la guerra e la rivoluzione, dinanzi a noi il caos politico ed economico, il tempo sospetto della rivalutazione dei valori, la moda degli slogan” (Le confessioni di un borghese, 1935). La monarchia era distrutta, l’Ungheria aveva perso due terzi del suo territorio e Kassa era stata inglobata nel nuovo Stato cecoslovacco. Márai, trasferitosi a Budapest per studiare legge in ossequio alla volontà paterna, vide instaurarsi la Repubblica dei Consigli e, subito dopo, un regime autoritario di segno opposto. Assistette allibito al “tempo del cambiamento”, che influenzò in modo determinante la sua vita e la sua opera. Si rese conto che il suo paese, chiuso tra quei nuovi confini materialmente angusti e intellettualmente sempre più limitati, ormai gli andava stretto. “Osservavo tutto - oggetti, paesaggi, esseri umani - come se fossi un testimone oculare che vede ogni cosa per la prima e forse per l’ultima volta e sa che un giorno dovrà renderne conto ai posteri ... Una cultura, o tutto ciò che in genere si definisce tale - ponti, lampioni, dipinti, sistemi monetari, versi - stava cadendo a pezzi sotto il mio sguardo. Quella cultura non scomparve, no, ma iniziò a cambiare con ritmo vertiginoso, come se fosse mutata la pressione atmosferica in cui eravamo abituati a vivere ... Sentivo di avere un compito urgente, volevo ancora vedere qualcosa “allo stato originario”, prima che si compisse quel cambiamento indefinibile e spaventoso. Mi misi in viaggio” (ibid.). Nel 1919, quando lasciò l’Ungheria di Horthy per iniziare il primo periodo di esilio volontario, Márai non aveva ancora vent’anni. Partì per Lipsia, dove si iscrisse ai corsi dell’Institut fur Zeitungskunde. Quindi passò a Francoforte e poi a Berlino. Nel 1923 sposò una ragazza di Kassa, Lola Matzner, e si trasferì a Parigi con la moglie. Come disse una volta, voleva fermarsi per tre settimane e rimase lì per sei anni. Non terminò mai gli studi di giornalismo, avendo iniziato quello che più tardi chiamerà il suo apprendistato di scrittore. Grazie all’educazione bilingue si fece un nome redigendo in tedesco note di costume e cronache di viaggio per la “Frankfurter Zeitung”, uno dei fogli più prestigiosi della Germania di Weimar. Il frutto migliore di quegli anni fu Sulle tracce degli dèi

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(1927), resoconto lucido e appassionato - oggi più attuale che mai - di un viaggio in Egitto, Palestina e Siria. Contemporaneamente pubblicò alcuni libriccini in ungherese che in seguito ripudiò. Intanto passava con disinvoltura da un paese all’altro, familiarizzava con i capoluoghi della cultura occidentale, era conosciuto nei caffè letterari e nei salotti intellettuali di mezza Europa, leggeva Nietzsche e Freud, Spengler e Ortega y Gasset, commentava Gide e Proust, traduceva in ungherese le novelle di Kafka e le poesie di Trakl, Benn, Else Lasker-Schuler. Ormai poteva considerarsi a casa dovunque. Fu da allora che non si sentì più a casa in nessun posto. Eppure alla fine degli anni Venti si convinse a rientrare in patria. Non era spinto né dal bisogno né dalla nostalgia. Tornò seguendo il richiamo imperioso della lingua in cui, dopo essere rimasto per alcuni anni in bilico fra il tedesco e l’ungherese, aveva deciso, una volta per sempre, di descrivere un senso di spaesamento ormai definitivo. “In questa patria ufficiale, storica, blasonata, codificata, poliziesca, marziale, imbandierata, fanatizzata, occorre cercare sempre più ostinatamente, con devozione, costanza, tenerezza e compassione, la vera patria che forse è la lingua o forse l’infanzia, una via ombreggiata dai platani...” (Cielo e terra, 1942).

Si stabilì a Budapest, città che aveva sempre trovato poco attraente, e vi resistette per vent’anni lavorando come un ossesso. Nel giro di pochi lustri diede alle stampe circa tre dozzine di volumi, quasi tutti di ispirazione apertamente autobiografica - nuovi racconti di viaggio, saggi, poemetti in prosa, raccolte di elzeviri, romanzi, liriche, drammi, una monumentale autobiografia, Le confessioni di un borghese, considerata da molti il suo capolavoro -, e diverse migliaia di articoli disseminati tra quotidiani e riviste. Possedeva una prodigiosa facilità e un’eleganza innata di scrittura. In breve, senza sforzo apparente e senza far parte di nessuna consorteria letteraria, diventò uno degli esponenti di spicco della narrativa ungherese: la critica lo definiva un maestro di stile, il pubblico lo adorava, i suoi libri - tutti con la stessa copertina in tela grezza color panna - andavano a ruba.

Eppure risalgono proprio a quell’epoca - l’unica in cui la sua attività venne premiata dal successo - i primi sintomi di un profondo disagio esistenziale che non lo abbandonerà più. E lo stesso sconforto che ispira il lungo monologo della sua controfigura immaginaria più disperata e sincera, il vecchio generale solitario e risentito delle Braci. (Forse fu appunto per questo che Márai, in vecchiaia, dichiarò di non amare il romanzo, ritenendolo “eccessivamente romantico”).

Mentre l’ombra del nazismo si stendeva sull’Europa e iniziava una nuova ondata migratoria verso occidente, lo scrittore ungherese seguì un percorso inverso rispetto all’itinerario scelto da altri suoi compatrioti illustri. Considerò chiusa l’epoca dei vagabondaggi giovanili e si predispose ad affrontare, tra le quattro mura della sua casa di Buda, “un esilio silenzioso nell’extraterritorialità della pagina bianca”. Non si lasciò impressionare né da un nuovo conflitto mondiale ancora più micidiale di quello precedente, né dall’occupazione tedesca dell’Ungheria e successivamente da quella sovietica. Come il protagonista delle Braci, anche lui sapeva di avere un compito da

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assolvere: “Non ho potere né armi da contrapporre alla nostra epoca e al mondo se non quelli della scrittura. Si tagliano a pezzi i paesi per poi ricucirli in maniera diversa, si violano gli accordi, si riducono in schiavitù intere generazioni per edificare le piramidi delle nuove chimere, si fanno saltare i ponti che congiungevano gli animi... Perché resisto nonostante tutto? Cosa mi infonde coraggio, in che confido? L’unica cosa che mi dà forza è la fede nell’esistenza invulnerabile ed eterna di uno Spirito freddo, limpido, autentico, inflessibile, che non si può negare impunemente, non si lascia contraffare e sopravvivrà dimostrandosi più forte di tutto il resto”.

D’altra parte, come dice Henrik nel romanzo, l’uomo e il suo destino si modellano l’uno sull’altro, e arriva sempre il momento in cui si è costretti a cedere a un qualche impulso elementare che si dimostra più forte della ragione. Nel caso di Márai, quell’impulso era l’avversione innata a ogni forma di dittatura, che lo aveva già spinto a trascorrere un decennio all’estero e altri due in una sorta di reclusione volontaria in patria. E il momento cruciale arrivò nel 1948, quando in Ungheria fu abolita la democrazia parlamentare e lo scrittore - poco dopo aver riaffermato ancora una volta la necessità di vivere e operare nell’ambito della lingua materna - abbandonò di nuovo il suo paese, questa volta per sempre.

Da quel momento visse in un isolamento ancora più arcigno. Non si unì a nessuno dei tanti gruppi disseminati tra il vecchio e il nuovo continente che formavano la diaspora litigiosa e fluttuante degli ungheresi all’estero. Né d’altra parte venne meno all’impegno che si era assunto nei confronti della lingua ungherese, in cui continuò a scrivere - non più di getto ma adagio, con apprensione - libri pubblicati in poche centinaia di copie e letti dovunque fuorché in Ungheria. Tra questi, alcuni romanzi allegorici incentrati su figure di tiranni come Nerone o su istituzioni terroristiche come l’Inquisizione, e un torrenziale Diario tenuto dal 1943 al 1983.

Inizialmente si ritirò con la moglie sulla collina di Posillipo, a Napoli, città che Márai considerava “una delle ultime in cui la parola civilitas possieda ancora un significato tangibile e quotidiano”. Nel 1952 si stabilì a New York, di cui scrisse: “Città interessante. Peccato che non sia fatta per essere abitata da esseri umani”. Nel 1968, pur avendo acquisito nel frattempo la cittadinanza americana, si trasferì di nuovo in Italia stabilendosi a Salerno. Nel 1979 tornò definitivamente negli Stati Uniti, a San Diego, dove nel 1989, alla vigilia della svolta democratica nei paesi dell’Est, pose fine alla sua vita sparandosi un colpo di pistola. Negli anni più bui dell’emigrazione interna Márai aveva definito con molta esattezza una condotta che allora si prefigurava innanzitutto come imperativo morale: “Può darsi che la solitudine distrugga l’uomo, così come ha fatto con Pascal, Holderlin e Nietzsche. Ma questo fallimento, questa frattura, sono comunque più degni di un uomo di pensiero di quanto non lo sia la sua connivenza con un mondo che prima lo contagia con le sue seduzioni dolci e perverse e poi lo scaraventa nella fossa. Tu precipita più in basso, nella voragine della solitudine. Perirai ugualmente, ma con la tua caduta avrai sostenuto il destino che governa la tua anima e la tua opera. Rimani solo e ricorda. Rimani solo e osserva. Rimani solo e rispondi. Non illuderti: non

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esistono soluzioni diverse. Rimani solo, anche a costo della vita” ( Cielo e terra) . Nella seconda metà della sua esistenza quel programma si concretizzò tragicamente,

al di là di ogni previsione. Il nome di Márai fu messo all’indice e i suoi libri vennero banditi per quarant’anni dall’Ungheria, mentre lui stesso precipitava, come aveva pronosticato, nella voragine della solitudine e del silenzio. La sua opera, è vero, ha cominciato a essere riscoperta poco dopo la sua morte. Recentemente la sua fama è tornata a diffondersi in patria e all’estero. Ma lo scrittore ungherese attende ancora di occupare il posto che gli spetta di diritto fra i grandi maestri della narrativa mitteleuropea del Novecento. Il tormentato soliloquio che si protrae per più di metà delle Braci termina quando Henrik si rende conto di aver atteso invano, per quarantun anni, una rivincita che doveva risarcirlo dei torti subiti in passato e si rivela invece un’illusione nel breve arco di tempo in cui si compie. Mentre scriveva il romanzo l’autore non poteva prevedere che attraverso il destino del suo personaggio stava illustrando con esattezza visionaria quello che sarebbe stato, in futuro, il suo stesso destino. Anche lui, infatti, avrebbe resistito per quarantun anni, nell’ultimo dei suoi esili volontari, prima di dichiararsi sconfitto e di rinunciare a un tacito ma esacerbato duello col mondo che si era protratto per buona parte della sua vita. “L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore” aveva detto Henrik. Chissà se Márai, alla fine, cedette semplicemente alla stanchezza, o se invece preferì non attendere gli esiti incerti dell’ennesimo “cambiamento”, nel declinare di un secolo così colmo di devastazioni di cui aveva reso testimonianza sin dall’inizio.