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LA NUOVA INFORMAZIONE CARDIOLOGICA Editor: prof. Paolo Rossi Direttore Responsabile: dott. Eraldo Occhetta ([email protected]) Direttore Scientifico: dott. Gabriele Dell’Era ([email protected]) Progetto grafico e realizzazione: Studio27 Progetto Editoriale, Novara – www.studio27snc.it Periodico di informazione cardiologica – Anno 36° – Dicembre 2016 Foglio elettronico 3 a generazione – n°66 [email protected] www.nuovainformazionecardiologica.it SOMMARIO Imaging in cardiologia 2 Tachiaritmia Atriale ed esiti di miocardite: ablazione si o ablazione no? (dott.ssa Federica De Vecchi) Editoriale 11 Cardiopatia ischemica stabile: quale ruolo per la rivascolarizzazione? (dott. Vincenzo A. Galiffa) Leading article 17 Stent medicati e stent metallici, il meglio è nemico del bene? (dott.ssa Lucia Barbieri) Focus on… 22 Terapia cardiaca con onde d’urto in pazienti con angina pectoris cronica refrattaria (dott. Gabriele Dell'Era e dott. Enrico Boggio) Medicina e morale 25 Il dibattito sull’anima nella scienza moderna: l’anima umana fra teologia e scienza (prof. Paolo Rossi)

LA NUOVA INFORMAZIONE CARDIOLOGICA · per ipertensione arteriosa e fibrillazione atriale. ... Sulla base del referto radiologico, degli indici di flogosi negativi e della completa

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LA NUOVA INFORMAZIONECARDIOLOGICA

Editor: prof. Paolo RossiDirettore Responsabile: dott. Eraldo Occhetta ([email protected])Direttore Scientifico: dott. Gabriele Dell’Era ([email protected])Progetto grafico e realizzazione: Studio27 Progetto Editoriale, Novara – www.studio27snc.it

Periodico di informazione cardiologica – Anno 36° – Dicembre 2016

Foglio elettronico 3a generazione – n°66

contatti@nuovainformazionecardiologica.itwww.nuovainformazionecardiologica.it

SOMMARIOImaging in cardiologia 2

Tachiaritmia Atriale ed esiti di miocardite: ablazione si o ablazione no? (dott.ssa Federica De Vecchi)

Editoriale 11

Cardiopatia ischemica stabile: quale ruolo per la rivascolarizzazione? (dott. Vincenzo A. Galiffa)

Leading article 17

Stent medicati e stent metallici, il meglio è nemico del bene?(dott.ssa Lucia Barbieri)

Focus on… 22

Terapia cardiaca con onde d’urto in pazienti con angina pectoris cronica refrattaria(dott. Gabriele Dell'Era e dott. Enrico Boggio)

Medicina e morale 25

Il dibattito sull’anima nella scienza moderna: l’anima umana fra teologia e scienza(prof. Paolo Rossi)

2

Tachiaritmia Atriale ed esiti di miocardite: ablazione si o ablazione no?

Dott.ssa Federica De Vecchi

Scuola di specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università degli Studi del Piemonte Orientale

[email protected]

IMAGING in cardiologia

Donna di 48 anni senza precedenti cardiologici, sempre in buono stato di salute. Come unico fat-tore di rischio presentava famigliarità materna per ipertensione arteriosa e fibrillazione atriale. Durante una visita presso il Medico Curante, dal-la quale si era recata per episodi di cefalea, ve-nivano riscontrati elevati valori pressori, motivo per cui iniziava una terapia antiipertensiva con

farmaco di associazione (Perindopril - Amlodipi-na). Al controllo successivo la pressione appariva ben controllata ma all’obiettività il medico rile-vava polso aritmico e si decideva di inviare la pa-ziente in DEA.

All’ECG d’ingresso: tachicardia atriale con pene-tranza ventricolare variabile (Figura 1).

Figura 1

3

Vista l’insorgenza non databile dell’aritmia si av-viava scoagulazione con warfarin e si program-mavano controlli ambulatoriali. L’ecocardiogramma era nei limiti di norma mo-strando un ventricolo sinistro di normali dimen-sioni e spessori parietali con funzione sistolica globale conservata. Non valvulopatie di rilievo. Nulla da segnalare a carico delle sezioni destre e dell’atrio sinistro. All’ ECG Holter delle 24 h alternanza di fasi di ta-chicardia atriale e fasi di ritmo sinusale con BAV 1° e 2° tipo Luciani-Wenckebach soprattutto nel-le ore notturne. Alla successiva visita di controllo, l’aritmia persisteva e si evidenziava che il valore di INR non era mai stato in range terapeutico; per tale motivo si sostituiva il warfarin con inibitore diretto del fattore X e si iniziava terapia antiarit-mica con Flecainide a basso dosaggio. Venivano consigliata una RMN cardiaca ed esami emato-chimici comprensivi degli indici di flogosi che risulteranno nei limiti.

Il referto della risonanza magnetica riportava: evidenza di fibrosi intramiocardica sul setto po-steriore basale (Figura 2 e 3), associata ad atrio-megalia bilaterale, prevalente a sinistra. FE bi-ventricolare conservata. Reperti compatibili sia con esiti di miocardite che con danno cardiomio-patico in fase iniziale (Figura 4 e 5).

Sulla base del referto radiologico, degli indici di flogosi negativi e della completa asintomaticità della paziente si decideva si portare a dosag-gio pieno la Flecainide, riducendo il betabloc-cante per tendenza all’ipotensione e rivalutare il caso a distanza (eventuale programmazione di ablazione dell’aritmia atriale? RMN cardia-ca di controllo?). A distanza di un mese ripri-stino del ritmo sinusale con persistenza di BAV 1° (PQ 440msec) ma a un Holter a distanza di qualche mese si dimostrava la persistenza di lunghe fasi di tachicardia atriale con bassa pe-netranza ventricolare alternata a fasi di ritmo

Figura 3 Figura 5

Figura 2 Figura 4

4

sinusale con BAV 1° e 2° con pause patologi-che sia diurne che notturne (fino a 5 secondi). Alla luce della recidiva si sospendeva la terapia antiaritmica, chiaramente inefficace, e si pro-grammava ablazione dell’aritmia ed eventuale successivo impianto di pacemaker DDD.La paziente veniva quindi ricoverata presso la Ns Divisione e, previo ecocardiogramma transeso-fageo che non evidenziava trombi in auricola né ecocontrasto spontaneo in atrio che risultava lie-

vemente dilatato, veniva sottoposta ad ablazio-ne del substrato aritmico.

All’entrata in sala si confermava la presenza di tachicardia atriale organizzata e regolare (Figura 6, in verde i potenziali elettrici atriali e ventricola-ri registrati da un catetere decapolare posizionato all’interno del seno coronarico, in azzurro l’attiva-zione ventricolare registrata da un catetere posto nell’apice ventricolare destro).

Figura 6

5

Con l’utilizzo di cateteri multipolari, posizionati tramite accessi venosi (v. femorale dx e v. suc-clavia sn) si ricostruivano mappa anatomica e di attivazione dell’atrio destro (Figura 7 e 8), evi-denziando una possibile origine nella regione

dell’ostio del seno coronarico con attivazione compatibile con aritmia focale (non macrorien-tro); l’erogazione di radiofrequenza in tale sede, però, eliminava i potenziali elettrici locali senza modificare l’aritmia.

Figura 7

Figura 8

6

Si procedeva pertanto a puntura transettale e a ricostruzione della mappa anatomica e di attivazione dell’atrio sinistro (Figura 9 e 10).

Figura 9

Figura 10

7

Da questa si individuava la potenziale origine dell’aritmia a livello dell’anello mitralico poste-rolaterale. Si erogava dapprima radiofrequenza su istmo mitralico posteriore (linea anello – vena polmonare inferiore sinistra) , quindi si allargava in regione posteriore dell’anello ottenendo pro-gressivo allungamento del ciclo della tachicardia e successivo ripristino del ritmo sinusale con-dotto costantemente con BAV 2° tipo Luciani- Wenckeback (Figura 11). Si consolidava, infine, in regione posteriore dell’anello mitralico (area di estesa frammentazione). I potenziali più precoci, ovvero l’area di origine dell’aritmia, corrispondo-no al colore bianco nelle mappe di attivazione rappresentate in figura 9 e 10.

Al termine della procedura si eseguiva mappa di potenziale (Figura 12 a/b) con dimostrazio-ne di estesissime aree di basso voltaggio come da fibrosi post infiammatoria diffusa (potenziali normali: colore viola; i restanti colori evidenzia-no bassi potenziali/potenziale cicatrice; il colore grigio, presente nella sede ove è stata erogata

radiofrequenza, rappresenta assenza di poten-ziale), motivo per cui si soprassedeva a ulteriori erogazioni: il quadro veniva reputato compati-bile con il sospetto clinico di esito miocarditico, con coinvolgimento atriale. La procedura è stata ben tollerata dalla paziente ed esente da complicanze; si rimandava l’even-tuale impianto di PM DDD se persistenza di bloc-co atrio-ventricolare dopo adeguato periodo di wash out da terapia betabloccante.

Nei giorni successivi all’intervento, al monitorag-gio continuo, si evidenziava solo una breve fase di tachicardia atriale con ripristino spontaneo del ritmo sinusale, non pause patologiche e re-gressione del blocco di 2° con persistenza alla di-missione di ritmo sinusale con BAV 1° (Figura 13). A distanza di un mese, la paziente eseguiva ECG Holter delle 24 h che mostrava ritmo sinusale con BAV di 1 grado e fasi di BAV di 2 grado tipo L.W. sia diurne che notturne; presenza di episodi di tachicardia atriale

Figura 11

8

Figura 12 a/b

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COMMENTO

Con il termine di tachicardie atriali focali si defi-nisce un gruppo eterogeneo di tachicardie atriali (TA) caratterizzate da un’attivazione elettrica ri-petitiva centrifuga che origina da un’area focale circoscritta situata in uno dei due atri, intenden-do pertanto distinguerle dalle tachicardie atriali da macrorientro (ad es., flutter atriale, TA incisio-nali). Rappresentano una causa relativamente rara di tachicardia sopraventricolare e possono essere trattate efficacemente mediante ablazio-ne transcatetere, mentre la risposta al trattamen-to farmacologico è generalmente insoddisfacen-te [1]. I foci di innesco tendono a localizzarsi in deter-minate aree anatomiche [2]. Generalmente origi-nano dalla cresta terminale in atrio destro (sede più frequente) e dalle vene polmonari in atrio sinistro. Loci meno frequenti di origine sono rappresentati dal seno coronarico, legamento di Marshall, regione para-hissiana, auricola, anulus tricuspidalico o mitralico, setto interatriale, seno aortico non coronarico.Le TA focali possono essere dovute a esaltato au-tomatismo, attività triggerata e microrientro. In aggiunta la degenerazione e la fibrosi del tessu-

to atriale potrebbero creare un substrato per le aritmie. L’ECG è un importante strumento per identifica-re, localizzare e differenziare le tachicardie atria-li. Tipicamente la tachicardia atriale può essere differenziata dalle altre aritmie da macrorientro basandosi sulla presenza o meno della linea isoe-lettrica tra due onde P. La morfologia dell’onda P nelle derivazione aVL e V1 risulta molto utile per la localizzazione del focus aritmico. Ad esempio, un’onda P positiva in V1 predice un focus atriale sinistro con una sensibilità del 93%. Indifferen-temente dal meccanismo che sottende la tachi-cardia, le tecniche di ablazione transcatetere mediante radiofrequenza sono utilizzate con ele-vata efficacia e sono indicate nei pazienti sinto-matici, in caso di insuccesso della terapia medica (inefficace o mal tollerata) [3].Nel nostro caso ci siamo trovati davanti a un ri-scontro occasione di tachicardia atriale in una donna giovane completamente asintomatica. A un primo ecocardiogramma transtoracico basale non vi erano evidenze di patologie strutturali e, vista l’assenza di fattori di rischio cardiovascolari, abbiamo escluso con un certo grado di sicurezza un’origine ischemica del disturbo aritmico. É sta-ta la documentazione di un secondo problema

Figura 13

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elettrofisiologico, ossia la presenza di un distur-bo di conduzione a livello del nodo AV in ritmo sinusale, a indirizzarci a chiedere una RMN car-diaca ed accertamenti laboratoristici per esclu-dere un’eventuale causa infettivo/infiammatoria. Ed è stato con quest’ultimo esame radiologico che siamo riusciti ad evidenziare la presenza di esiti di miocardite a livello del setto postero-ba-sale (regione di passaggio del tessuto di condu-zione atrio-ventricolare). Guidati anche dalla let-teratura, abbiamo quindi concluso che la causa più probabile del duplice disturbo elettrico della nostra paziente fosse da imputare ad esiti fibroti-ci post miocarditici. Un’ulteriore conferma diagnostica ci è stata for-nita al momento dell’ablazione; infatti abbiamo evidenziato che la regione aritmogena fosse a livello dell’anello mitralico postero-basale (zona di late enhancement alla RMN) e che la regio-ne di fibrosi fosse molto più estesa coinvolgen-do buona parte del tessuto dell’atrio sinistro. È stata la presenza di un’ampia area di fibrosi che ci ha spinto ad essere conservativi al momento dell’ablazione e di erogare radiofrequenze solo nella regione aritmogenica e non eseguire ulte-riori linee ablative di consolidamento dopo inter-ruzione dell’aritmia.Ma una domanda sorge spontanea: vista la natu-ra fibrotica post miocarditica dell’aritmia abbia-mo fatto bene ad eseguire l’ablazione o avrem-mo dovuto limitarci al controllo al frequenza?.La letteratura non fornisce chiari riferimenti ri-guardo tachicardia atriale – esiti di miocardite e indicazione ad ablazione transcatatere. La mag-gior parte degli studi si basano sulle recidive pre-coci di FA dopo ablazione nei pazienti con estese aree di fibrosi individuate tramite risonanza ma-gnetica. Lo studio DECAAF (Delayed-Enhancement MRI Determinant of Successful Radio-frequency Ca-theter Ablation pf Atrial Fibrillation) è un grosso studio multicentrico, prospettico, osservazionale in cui sono stati valutati pazienti con FA parossi-stica e permanente sottoposti ad ablazione. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a RMN cardiaca prima dell’intervento per valutare la percentuale di fibrosi a livello dell’atrio sinistro e le conclusio-ni sono state che la % di fibrosi atriale è associata in maniera indipendente alle recidive di FA dopo ablazione [4].McGann et al affermano che un’estesa aria di fi-brosi atriale identificata tramite RMN è associa-ta a una recidiva precoce di FA dopo ablazione

e in tali casi bisogna considerare un approccio più aggressivo con linee di consolidamento lun-go l’atrio e a livello dell’istmo mitralico [5-6]. Va inoltre considerato che la caratterizzazione del miocardio atriale, di spessore ai limiti della riso-luzione spaziale della RMN e caratterizzato da movimento rapido e potenzialmente non trac-ciabile durante aritmia, è fuori dalla portata della maggior parte dei Centri.Come possiamo notare i pareri non sono univoci e, come spesso succede, ogni caso deve essere valutato da sé. Inoltre sappiamo come l’aritmia stessa possa es-sere causa di rimodellamento in senso negativo del tessuto atriale innescando una sorta di circo-lo vizioso anche se il meccanismo con cui ciò av-venga non è ancora del tutto chiaro7.Nel nostro caso la RMN poneva anche il dubbio che potesse esserci un iniziale danno miocardio-patico e un’iniziale dilatazione biatriale maggio-re a sinistra. Il nostro obiettivo è stato quello di interrompere il circuito aritmico con una proce-dura poco aggressiva riducendo le aree di fibro-si post ablative con un soddisfacente risultato a distanza come dimostrato dall’Holter eseguito a distanza di 3 mesi dalla procedura. Utile sarebbe ripetere una risonanza magnetica per valutare l’eventuale estensione dell’area di fi-brosi indotta dalla procedura e per avere un dato in più che ci possa aiutare nella scelta terapeu-tica, in un futuro, in caso di recidiva dell’aritmia.

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Cardiopatia ischemica stabile: quale ruolo per la rivascolarizzazione?

EDITORIALE

Dott. Vincenzo A. Galiffa

SCDO Cardiologia 2AOU Maggiore della Carità – Novara

[email protected]

La cardiopatia ischemica stabile, in tutte le sue forme, che variano dall’angina pectoris da sfor-zo all’ischemia silente, rappresenta la manifesta-zione d’esordio per circa il 40% dei pazienti con malattia coronarica, invece nel restante 60% la malattia si manifesta sotto forma di sindrome co-ronarica acuta. Per quanto gli studi clinici abbia-no largamente dimostrato che il trattamento in-vasivo associato alla terapia medica riduce i tassi di morte e infarto miocardico a breve e lungo termine rispetto al solo approccio conservativo nelle sindromi coronariche acute (SCA), al con-trario nella coronaropatia stabile il ruolo della rivascolarizzazione nel ridurre morte e infarto o nel miglioramento della qualità di vita rappre-senta argomento di discussione [1]. Le linee guida europee e americane raccoman-dano la terapia medica ottimizzata per tutti i pa-zienti con cardiopatia ischemica stabile, riservan-do la rivascolarizzazione ai soggetti con ischemia

significativa o sintomi che persistono nonostan-te la terapia medica (vedi figura 1 e 2) [2-5].I primi trial nei pazienti con cardiopatia ischemi-ca stabile ed estesa malattia coronarica trattati con rivascolarizzazione chirurgica o con terapia conservativa hanno mostrato un beneficio nella sopravvivenza per coloro che venivano sottopo-sti a bypass aortocoronarico (BPAC) [6]. Questi primi trial hanno preceduto il largo utilizzo di farmaci quali le statine, i beta bloccanti, gli inibi-tori dell’asse renina-angiotensina-aldosterone e gli antipiastrinici che da soli hanno dimostrato ri-durre morte e infarto in trial randomizzati e con-trollati. Recentemente inoltre sono stati svilup-pati altri farmaci quali ivabradina e ranolazina, che si sono dimostrati utili nel ridurre i sintomi anginosi, e farmaci ipolipemizzanti diversi dalla statine quali l’ezetimibe e gli inibitori del PCSK9 con cui sono state dimostrate importanti riduzio-ne dei livelli di colesterolo, con effetto benefico

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sulla riduzione di eventi cardiovascolari avversi. L’uso di questi farmaci, insieme agli interventi sullo stile di vita come cessazione del fumo, dieta ed esercizio fisico, rappresentano quella che vie-ne definita terapia medica ottimizzata [7].Parallelamente i risultati dei trials COURAGE (Clinical Outcomes Utilizing Revascularization and Aggressive Drug Evaluation) [8] e BARI-2D (Bypass Angioplasty Revascularization Investiga-tion 2 Diabetes) [9] hanno messo in discussione i benefici della rivascolarizzazione routinaria nella coronaropatia stabile. Nel COURAGE, 2287 pazienti sono stati rando-mizzati a rivascolarizzazione coronarica percuta-nea (PCI) e terapia medica ottimizzata (OMT) ver-sus OMT da sola; dopo un follow-up di 4.6 anni non vi erano differenze statisticamente significa-tive nell’endpoint primario di morte e infarto nei due gruppi (19.0% vs. 18.5%, rispettivamente; HR: 1.05; 95% CI: 0.87 to 1.27; p= 0.62). Sebbene fossero identificati sottogruppi ad alto rischio, nessuno aveva una prognosi migliore con la PCI. Tuttavia la popolazione del trial non è rappresen-tativa del mondo reale. Tra i 35539 pazienti valu-tati, ne sono stati arruolati soltanto 2287 (6.4%) e il 10% dei pazienti nei due gruppi è stato perso al follow-up. La randomizzazione dei pazienti av-veniva soltanto dopo coronarografia, pertanto, con una selezione sulla base del dato anatomi-co escludendo pazienti ad elevato rischio (bias di selezione). Nonostante questo, la necessità di successiva rivascolarizzazione per SCA o per peg-gioramento della sintomatologia era necessaria nel 21,1% dei pazienti trattati con PCI rispetto al 32.6% dei pazienti trattati con la sola terapia me-dica (HR 0.60; 95% CI, 0.51 to 0.71; p<0.001). In-fine i pazienti randomizzati a PCI avevano meno episodi di angina, erano più facilmente asinto-matici nonostante un minor uso di nitrati e cal-cio antagonisti, e avevano una migliore qualità di vita fino a 3 anni dalla rivascolarizzazione [8, 10]. Da notare inoltre l’ottimale aderenza alla preven-zione e alla correzione di fattori di rischio cardio-vascolare esplicitata dai valori plasmatici di LDL perfettamente nei range di normalità: questo dato sottolinea come la popolazione in terapia medica ottimizzata non rispecchi la popolazione reale.Nel trial BARI-2D 2368 pazienti con diabete di tipo 2, di cui il 90% con cardiopatia ischemica stabile sono stati randomizzati a rivascolarizza-zione con PCI o CABG con OMT vs OMT da sola. L’endpoint primario di morte per tutte le cause e

l’endpoint composito di morte, infarto miocardi-co e stroke a 5 anni non erano diversi in maniera significativa per le varie strategie. Tuttavia i pa-zienti trattati con BPAC erano affetti da malattia coronarica più estesa, incluse malattia del tronco comune e malattia trivasale rispetto ai pazienti trattati con PCI e OMT, e il braccio trattato con BPAC aveva un endpoint composito a 5 anni più basso rispetto al braccio trattato con la sola OMT (22.4% vs. 30.5%; p= 0.01), principalmente dovu-to a meno infarti del miocardio (7.4% vs. 14.6%). In pazienti con malattia coronarica meno este-sa, non c’era nessuna differenza nell’endpoint composito con la PCI rispetto alla sola OMT. La rivascolarizzazione precoce tuttavia comportava una sopravvivenza libera da angina fino a 4 anni significativamente maggiore rispetto al gruppo trattato con la sola OMT [11]. La qualità di vita inoltre era migliore con la rivascolarizzazione precoce confrontata con la sola terapia medica durante il follow-up di 4 anni e il 42% dei pazienti trattati con la sola terapia medica ha richiesto la rivascolarizzazione durante il follow-up.Va sottolineato, inoltre come sia nel COURAGE, sia nel BARI-2D, la quasi totalità delle rivascola-rizzazioni con angioplastica siano state eseguite con stent metallici (BMS). Rispetto a questi, gli stent medicati (DES) di prima generazione han-no ridotto marcatamente la restenosi, con il risul-tato di ridurre le ospedalizzazioni per rivascola-rizzazione [12]. Confrontati con i BMS e i DES di prima generazione, i DES di seconda generazio-ne, riducono mortalità ed eventi cardiovascolari avversi e aumentano la sopravvivenza libera da eventi [13, 14].Differentemente da questi trial, nel FAME-2, la strategia conservativa viene confrontata con una strategia di rivascolarizzazione invasiva con angioplastica guidata dalla riserva frazionaria di flusso (FFR)[15]; i pazienti con coronaropatia stabile venivano sottoposti a studio invasivo: su ogni stenosi coronarica angiograficamente >50% veniva eseguita l’FFR, una valutazione fun-zionale per rilevare il potere ischemizzante della stenosi; se essa risultava inferiore a 0.8, i pazienti venivano randomizzati a PCI con DES di secon-da generazione e OMT oppure alla sola OMT. Il disegno prevedeva l’arruolamento di 1632 pa-zienti con un follow-up di circa 2 anni con un en-dpoint primario di morte, infarto e necessità di rivascolarizzazione non programmata; purtrop-po lo studio è stato interrotto prematuramente per un eccesso di eventi nel braccio trattato con

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la sola terapia medica. L’incidenza dell’endpoint primario a 2 anni era dell’8,1% nei pazienti trat-tati con PCI rispetto al 19,5% dei pazienti trattati con OMT (HR: 0.39; 95% CI: 0.26 to 0.57; p<0.001) principalmente dovuto alla minore necessità di rivascolarizzazioni urgenti (4.0% vs. 16.3%; p<0.001), incluse quelle da infarto miocardico o angina instabile (3.4% vs. 7.0%; p = 0.01). Inoltre l’angina sintomatica era significativamente più frequente nel braccio trattato con la sola tera-pia medica durante il follow-up e la PCI era ne-cessaria nel 40,6% dei pazienti in trattamento conservativo per sintomi refrattari alla terapia o sindrome coronarica acuta. Sebbene non vi fos-sero differenze significative nel tasso composito di morte o infarto, l’analisi Landmark ha rilevato che gli infarti periprocedurali erano aumentati con la PCI, mentre l’infarto miocardico sponta-neo era meno frequente nel gruppo trattato con angioplastica [15, 16]. Tuttavia non bisogna tra-scurare che l’infarto spontaneo è fortemente as-sociato ad un aumento della mortalità, mentre la maggior parte degli infarti periprocedurali non sono clinicamente rilevanti. L’inclusione di infarti periprocedurali nell’endpoint primario di morte e infarto miocardico, potrebbe quindi addirittura mascherare un reale beneficio della rivascolariz-zazione sulla mortalità nei pazienti con cardiopa-tia ischemica stabile e ischemia documentata.Per dare una risposta definitiva al quesito di qua-le sia la migliore strategia nei pazienti con coro-naropatia stabile e ischemia moderato-severa è stato disegnato ed è tuttora in corso il trial ISCHE-MIA (NCT01471522): l’obiettivo è il confronto di una iniziale strategia invasiva con cateterismo cardiaco e rivascolarizzazione (con PCI o BPAC in base alle valutazioni dell’Heart Team) e OMT o una iniziale strategia conservativa avendo come endpoint primario la morte cardiovascolare e

l’infarto miocardico non fatale (vedi figura 3). Gli endpoint secondari sono costituiti dalla qualità di vita correlata all’angina, dall’utilizzo delle ri-sorse sanitarie, dai costi e dal rapporto costo-be-neficio [1].Oltre a queste considerazioni sulla riduzione di mortalità e infarto nei pazienti con cardiopa-tia ischemica stabile, è importante sottolineare come la maggior parte dei pazienti preferisca una più immediata riduzione della sintomatolo-gia con la rivascolarizzazione piuttosto che con i farmaci antianginosi e come l’aderenza terapeu-tica si riduca con l’aumento del numero di pillole giornaliere: riducendo la necessità dei farmaci antianginosi con la rivascolarizzazione si può au-mentare la compliance a farmaci modificanti la prognosi come le statine [17]. In conclusione, la terapia medica deve esse-re intrapresa in tutti i pazienti con cardiopatia ischemica stabile e deve essere titolata fino alla massima dose tollerabile e al raggiungimento di determinati target di LDL. Al trattamento farma-cologico vanno necessariamente associati anche i sopra citati interventi sullo stile di vita che ridu-cono il rischio di morte e di reinfarto. La rivasco-larizzazione miocardica non deve essere intesa come alternativa alla terapia medica ottimale ma, quando indicata, essa è parte integrante del trattamento globale del paziente affetto da car-diopatia ischemica stabile con l’obiettivo di mi-gliorarne ulteriormente la prognosi e la sintoma-tologia. La decisione sul singolo paziente potrà essere presa soltanto dopo aver considerato una serie di elementi importanti come la gravità dei sintomi, la funzione ventricolare sinistra, l’esten-sione dell’ischemia inducibile, la diffusione e il si-gnificato funzionale della coronaropatia e le reali possibilità tecniche di rivascolarizzazione.

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Figura 1. Linee guida ESC per la rivascolarizzazione nella cardiopatia ischemia stabile [2]

Figura 2. Linee guida ACC/AHA per la rivascolarizzazione nella cardiopatia ischemia stabile [5]

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Figura 3. Disegno del trial ISCHEMIA [1]

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Stent medicati e stent metallici, il meglio è nemico del bene?

Commento ed approfondimento allo studio norvegese: “Drug-Eluting or Bare-Metal Stents for Coronary Artery Disease”

N Engl J Med 2016;375:1242-52.

LEADING ARTICLE

Dott.ssa Lucia BarbieriOspedale Generale Provinciale S. Andrea, ASL VCUniversità degli studi del Piemonte Orientale, UPO

[email protected]

INTRODUZIONELa procedura di angioplastica coronarica percu-tanea (PCI) è diventata, con il passare degli anni, una delle procedure maggiormente eseguite in medicina. In particolare l’avvento dell’angiopla-stica primaria ha determinato un netto miglio-ramento della prognosi nei pazienti con infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) [1]. Gli ultimi sviluppi in termini di terapia antitrombotica e di tecnologia dei de-vice, con l’avvento degli stent medicati (DES) di nuova generazione, ha permesso un significati-vo ampiamento dell’indicazione alla PCI sia nei pazienti con sindrome coronarica acuta che in quelli con coronaropatia stabile [2,3]. L’uso degli stent medicati, infatti, ha mostrato di ridurre in maniera significativa la percentuale di restenosi intrastent ed in particolare i DES di nuova gene-razione hanno anche dimostrato una minore per-centuale di trombosi di stent rispetto agli stent metallici (BMS) convenzionali ed ai loro colleghi di prima generazione [4,5]. I risultati raggiunti hanno quindi portato a pensare che i benefici as-sociati all’utilizzo dei DES di nuova generazione potessero tradursi in una riduzione della mor-

talità e dell’infarto miocardico ricorrente, moti-vo per cui, attualmente, nei nostri laboratori di emodinamica, è nettamente prevalente l’utilizzo dei DES rispetto ai BMS che sono ormai riservati a casi estremamente selezionati.

TRIAL IN OGGETTOIl NORSTENT trial [6] (gov number NCT00811772) è uno studio clinico randomizzato condotto in tutti gli otto centri norvegesi in cui si effettua-no angioplastiche coronariche percutanee. Dal 2008 al 2011 lo studio ha arruolato un numero totale di 9013 pazienti sottoposti a PCI per an-gina stabile o sindrome coronarica acuta che soddisfacessero i criteri di inclusione (sono stati esclusi dallo studio pazienti con pregresso im-pianto di stent, lesioni di biforcazione che ne-cessitassero utilizzo di due stent, comorbidità tali da ridurre aspettativa di vita ad un tempo inferiore a 5 anni, pazienti già arruolati in altri studi, allergia a farmaci utilizzati durante la PCI, controindicazione alla duplice antiaggregazione o indicazione al concomitante utilizzo di war-farin). Dopo l’angiografia coronarica i pazienti

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sono stati randomizzati a ricevere BMS vs DES. I DES utilizzati sono stati nell’82.9% medicati con everolimus, mentre nel 13.1% con zotarolimus e nei pazienti con lesioni multiple o procedure staged è stato utilizzato sempre lo stesso tipo di stent. I pazienti di entrambi i gruppi sono stati trattati farmacologicamente con aspirina 75mg e clopidogrel 75mg per i nove mesi successivi alla procedura. Il follow up è stato eseguito in accordo con le visite cardiologiche di routine de-finite dal centro in questione ed un questionario sulla qualità della vita è stato sottoposto ad un campione di pazienti pari al 10% del totale. L’end point primario è stato definito come composito di morte per tutte le cause ed infarto miocardi-co non fatale ad un follow up mediano di 5 anni. End point secondari sono stati identificati in sot-tocategorie di morte, infarto miocardico fatale, non fatale, spontaneo e peri-procedurale, stroke, ospedalizzazione per angina instabile, rivascola-rizzazione della lesione target, angioplastica di vaso target, non target o intervento di by-pass aorto coronarico, trombosi di stent, episodi di sanguinamenti maggiori e qualità della vita. Dai risultati è emerso che la popolazione in esame risultava estremamente omogenea per caratte-ristiche cliniche ed angiografiche ad eccezione che per la lunghezza totale degli stent impianta-ti (maggiore nei pazienti trattati con DES, il tipo di lesione (più complesse nei pazienti trattati con DES e la quantità di lesioni a livello di graft (maggiori nei pazienti trattati con BMS). Il follow up a 6 anni non ha evidenziato differenze signi-ficative tra i due gruppi in termini di morte per tutte le cause ed infarto miocardico spontaneo non fatale (end point composito, 16.6% nei DES vs 17.1% nei BMS, p = 0.66), così come per l’inci-denza di morte cardiaca, vascolare, non cardiaca e per l’incidenza di stroke o ricovero per angina instabile. Nulla cambiava inoltre in termini di in-farto miocardico spontaneo (11.4% DES vs 12.5% BMS, p = 0.14), o peri-procedurale (3.4% DES vs 3.8% BMS, p = 0.10), ma la mortalità era franca-mente aumentata (16%) nei pazienti con infarto miocardico spontaneo rispetto a quelli con in-farto periprocedurale (1%). Non vi era nemmeno differenza per quanto riguarda la percentuale di sanguinamenti maggiori definiti secondo i criteri BARC [7] (5.5% DES vs 5.6% BMS) o per quanto riguarda lo score di qualità della vita compilato dai pazienti. Quello che cambiava dall’altra par-te, era la percentuale di qualsiasi rivascolarizza-zione che risultava significativamente inferiore

nei pazienti trattati con DES (16.5% vs 19.8%, p < 0.001) e la percentuale di trombosi di stent che, pur essendo molto bassa in entrambi i gruppi, era significativamente inferiore nel gruppo trat-tato con DES (0.8% vs 1.2%, p = 0.04) (Figure 1,2).

COMMENTI, DOMANDE, DUBBI, PERPLESSITÀ

Alla luce di quanto detto finora, possiamo davve-ro pensare che tutte le nostre convinzioni attuali riguardanti l’utilizzo degli stent medicati, attori incontrastati nei nostri laboratori di emodinami-ca non siano veritiere? E’ davvero possibile che non vi sia un significativo beneficio in termini di mortalità, reinfarto e conseguente out come del paziente nel loro utilizzo? E allora è forse tut-ta una questione di marketing o sul serio i DES danno dei benefici rispetto ai BMS? Diversi altri studi, pubblicati recentemente, hanno eviden-ziato le caratteristiche positive dei DES rispetto ai BMS. L’EXAMINATION [8] trial ad esempio, con-dotto su 1504 pazienti, ha evidenziato che pur non essendoci differenza ad un anno in termini di mortalità per tutte le cause, infarto miocardico ricorrente o rivascolarizzazione (end point com-posito), in pazienti trattati con DES (nello specifi-co con stent medicati all’everolimus) vi fosse una netta riduzione di trombosi di stent e necessità di rivascolarizzazione del vaso target ed i bene-fici, anche in termini di end point primario com-posito, erano visibili invece ad un follow up di 5 anni. Il BASKET-PROVE [9],inoltre ha evidenziato come tra 2314 pazienti sottoposti ad angiopla-stica, non vi fosse una differenza significativa tra DES e BMS in termini di morte o infarto miocardi-co a due anni di follow up, ma come l’utilizzo dei DES riducesse la necessità di rivascolarizzazione della lesione target a distanza. Lo studio NOR-STENT, da noi analizzato, che coinvolge senz’al-tro un’enorme quantità di pazienti, ha inoltre alcune importanti limitazioni, prima di tutto lo studio ha reclutato pazienti dal 2008 al 2011 e, pur essendo ancora in commercio gli stent medi-cati con il farmaco utilizzato, sicuramente ci sono state evoluzioni significative, sulla piattaforma, sul polimero e su altre caratteristiche dello stent che possono influire sull’out come a lungo ter-mine dei pazienti. Inoltre, non avendo un piano di rivalutazioni standardizzato “ad hoc” lo stu-dio rischia la dispersione dei dati, con possibili eventi non registrati o sfuggiti in qualche modo

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Figura 1

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al follow up. Infine, interessante sarebbe stata la comparazione tra i due tipi di stent con i diversi periodi di antiaggregazione che li caratterizza-no e non standardizzando a nove mesi la dura-ta della duplice terapia a prescindere dallo stent impiantato. Questo, a mio parere, avrebbe sicu-ramente influito di più sull’evidenziare la supe-riorità o comunque i benefici di uno degli stent rispetto all’altro. Concludendo, alla luce di tutte queste considerazioni, io credo che lo studio in

questione, pubblicato peraltro su una delle mag-giori riviste scientifiche in medicina, serva senza dubbio a porci delle domande riguardo a quello che è il nostro “modus operandi” di tutti i giorni e, come dire, dai dubbi e dal domandarsi se quello che stiamo facendo sia davvero sempre la cosa giusta, non si può che imparare qualcosa e trar-re quelle che sono idee e spunti per migliorare sempre di più.

Figura 2

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Terapia cardiaca con onde d’urto in pazienti con angina pectoris cronica refrattaria

FOCUS ON...

CONTESTOLa terapia cardiaca con onde d’urto (CSWT) po-trebbe migliorare i sintomi e ridurre il carico ischemico complessivo stimolando la crescita di circoli collaterali nel miocardio con ischemia cro-nica. Abbiamo condotto questo studio prospetti-co per valutare la praticabilità e la sicurezza della CSWT.

METODIAbbiamo incluso 33 pazienti (età media 70 ± 7 anni, frazione di eiezione del ventricolo sinistro media 55 ± 12%) con malattia coronarica avan-zata, angina pectoris cronica e ischemia induci-bile alla scintigrafia miocardica. E’ stata applicata la CSWT nelle regioni cardiache ischemiche (3-7 punti/sessione, 100 impulsi/punto, 0.09 mJ/mm2)

con una metodica eco-guidata e sincronizzata con l’ECG. Il protocollo includeva un totale di 9 sessioni di trattamento (3 sessioni di trattamento in 1 settimana al basale, e rispettivamente dopo 1 e 2 mesi). E’ stata eseguita infine una valutazione clinica globale dopo 1 mese e dopo 4 mesi dall’ul-tima sessione di trattamento, mediante l’esecu-zione di prova da sforzo, scintigrafia miocardica, risonanza magnetica cardiaca (CMR), valutazione dell’angina score (classe CCS) e quantità totale di nitrati utilizzati.

RISULTATIUno e 4 mesi dopo la CSWT, l’utilizzo di nitrati sublinguali si era ridotto da 10 volte/settimana a 2 volte/settimana (p < 0.01), e i sintomi angino-si erano diminuiti dalla classe CCS III alla classe

a cura di dott. Gabriele Dell'Era e dott. Enrico Boggio

SCDU Cardiologia 1, AOU Maggiore della Carità, Novara

[email protected]

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CCS II (p < 0.01). Questo miglioramento clinico era associato anche a un incremento dell’assor-bimento miocardico di radiotracciante alla sci-nitgrafia miocardica da stress (da 54.2 ± 7.7 % a 56.4 ± 9.4 %, p = 0.016) e a un incremento della tolleranza allo sforzo al follow-up dei 4 mesi (da 7.4 ± 2.8 a 8.8 ± 3.6 min p = 0.015). Non è stato os-servato nessun effetto collaterale clinicamente rilevante.

CONCLUSIONILa CSWT ha migliorato i sintomi e ha ridotto il carico complessivo di ischemia senza effetti col-laterali rilevanti in pazienti con malattia corona-rica avanzata. Questo studio fornisce una solida base di partenza per un futuro trial multicentrico e randomizzato per stabilire se la CSWT possa es-sere una nuova opzione terapeutica in pazienti con malattia coronarica avanzata.

J. Vainer, J. H. M. Habets, S. Schalla, et al. Cardiac shockwave therapy in patients with chronic refractory angina pectoris. Neth Heart J. 2016 May; 24(5): 343–349. Published online 2016 Mar 2. doi: 10.1007/s12471-016-0821-y

Rimodellare un cuore infartuato: un nuovo trat-tamento ibrido con la rivascolarizzazione tran-smiocardica e la terapia con cellule staminali.

ABSTRACTLa rivascolarizzazione transmiocardica (TMR) è emersa come una nuova opzione terapeutica addizionale per pazienti con malattia coronari-ca (CAD) diffusa, offrendo un immediato sollievo dai sintomi anginosi. Alcuni recenti studi mo-strano che il numero di casi chirurgici in cui sia stata eseguita la TMR è stabilmente in crescita, utilizzando la TMR come una terapia aggiuntiva. Quindi, l’obiettivo di questa revisione è fornire una stima aggiornata dello stato dell’arte della TMR, e le possibili direzioni di sviluppo futuro nel trattamento della CAD. L’attuale potenziale di questa terapia si focalizza sull’implementa-zione delle cellule staminali, nell’ottica di creare un effetto angiogenico sinergico incrementando al contempo le possibilità di riparazione e rige-nerazione miocardica. Sebbene le procedure di TMR determinino un incremento della vascola-

rizzazione all’interno del miocardio, i pazienti con cardiomiopatia ischemica potrebbero non trarre beneficio dalla neoangiogenesi da sola. Per questo motivo lo scopo di introdurre le cel-lule staminali è di ristabilire lo stato funzionale di un cuore scompensato, somministrando que-ste cellule in un microambiente favorevole che possa potenziare l’attecchimento delle cellule staminali.

Jessika Iwanski, Raymond K. Wong, Douglas F. Larson, et al. Remodeling an infarcted heart: novel hybrid treatment with transmyocardial revascularization and stem cell therapy. Springerplus. 2016; 5(1): 738. Published online 2016 Jun 16. doi: 10.1186/s40064-016-2355-6. PMCID: PMC4909685

Terapie innovative per il trattamento dell’angi-na refrattaria: il Reducer, un dispositivo percu-taneo per restringere il seno coronarico.

ABSTRACTL’angina refrattaria è una condizione cronica ca-ratterizzata dalla presenza di sintomi debilitanti, causati da una grave malattia coronarica ostrut-tiva, che non vengono migliorati dalla combina-zione della terapia medica e dalla rivascolarizza-zione percutanea o chirurgica. I tassi di mortalità associati a questa condizione sono abbastanza bassi nei pazienti clinicamente stabili con tera-pia medica ottimizzata, mentre al contrario i tassi di riospedalizzazione rimangono elevati. Questo fatto impone quindi la necessità di nuove tera-pie indirizzate al miglioramento dei sintomi in questa popolazione, considerando anche il po-tenziale impatto in termini di assistenza sanitaria e costi. L’aumento della pressione all’interno del seno coronarico sembrerebbe ridurre l’ischemia miocardica attraverso la redistribuzione del flus-so ematico verso i territori ischemici. Il Reducer è un dispositivo impiantabile percutaneo, realizza-to con uno stent di acciaio inossidabile a forma di clessidra, e disegnato per ottenere un restrin-gimento controllato del seno coronarico, incre-mentandone così la pressione a monte. In diversi studi, il Reducer è stato impiantato con sicurezza per via percutanea attraverso la vena giugulare destra in pazienti con angina refrattaria che non traevano beneficio dalla rivascolarizzazione, ed è stato associato con un miglioramento dei sin-

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tomi anginosi e dell’ischemia. Questi risultati in-coraggiano ulteriori valutazioni per l’utilizzo del Reducer come un’alternativa di trattamento per i pazienti con angina cronica refrattaria non can-didabili a rivascolarizzazione coronarica.

Benedetto D, Abawi M, Stella PR, et al. Innovative therapies for the treatment of refractory angina: the Reducer, a percutaneous device to narrow the coronary sinus. G Ital Cardiol (Rome). 2015 Nov;16(11):625-9. doi: 10.1714/2066.22432.

La somministrazione combinata di cellule sta-minali mesenchimali iperesprimenti IGF-1 e HGF potenzia la neovascolarizzazione ma mi-gliora solo moderatamente la rigenerazione cardiaca in un modello porcino.

CONTESTOIl fattore di crescita simile all’insulina 1 (IGF-1) e il fattore di crescita epatocitario (HGF) sono tra i più promettenti fattori di crescita per favori-re la riparazione cardiaca. Abbiamo valutato la combinazione di una terapia cellulare e di una terapia genica utilizzando cellule staminali me-senchimali (MSC) geneticamente modificate per sovraesprimere IGF-1 o HGF per trattare l’infarto miocardico acuto (AMI) in un modello porcino.

METODISono state modificate geneticamente MSC pre-levate da tessuto adiposo porcino (paMSC), per valutare diverse strategie terapeutiche per mi-gliorare il trattamento dell’AMI. Sono stati con-frontati tre gruppi di maiali Large White infartua-ti (I, controlli, non-trapiantati; II, trapiantati con paMSC-GFP (proteina fluorescente verde); III, tra-

piantati con paMSC- IGF-1/HGF). La funzione car-diaca è stata valutata non invasivamente utiliz-zando la risonanza magnetica (MRI) per 1 mese. Dopo l’eutanasia e il sezionamento dell’animale, le aree infartuate sono state studiate attraverso l’istologia tradizionale e l’immunoistochimica.

RISULTATIIl trapianto intramiocardico in un modello di infarto porcino ha dimostrato la sicurezza delle paMSC in trattamenti a breve durata. Il tratta-mento con paMSC-IGF-1/HGF (1:1) paragonato agli altri gruppi ha mostrato una chiara riduzione dell’infiammazione in alcune delle sezioni ana-lizzate e ha promosso processi neoangiogenici nel tessuto ischemico. Sebbene i parametri di funzionalità cardiaca non siano stati significati-vamente migliorati, sono stati confermati all’in-terno del miocardio la persistenza delle cellule e l’iperespressione di IGF-1.

CONCLUSIONILa somministrazione simultanea di paMSC ipere-sprimenti IGF-1 e HGF non sembra promuovere un effetto sinergico né una riparazione efficace. Il potenziamento combinato della neovascola-rizzazione e della fibrosi negli animali trattati con paMSC-IGF-1/HGF suggerisce perciò come l’esposizione prolungata ad alti livelli di IGF-1 + HGF favorisca effetti sia benefici, ma anche de-leteri, non migliorando quindi la rigenerazione cardiaca globale.

Gómez-Mauricio G, Moscoso I, Martín-Cancho MF, et al. Combined administration of mesenchymal stem cells overexpressing IGF-1 and HGF enhances neovascularization but moderately improves cardiac regeneration in a porcine model. Stem Cell Res Ther. 2016 Jul 16;7(1):94. doi: 10.1186/s13287-016-0350-z.

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Il dibattito sull’anima nella scienza moderna: l’anima umana fra teologia e scienza

MEDICINA e MORALE

VIII. L’ANIMA UMANA FRA TEOLOGIA E SCIENZA

Riguardo l’esistenza e la sostanzialità dell’anima umana, la panoramica fin qui vista sembra por-re di fronte ad un’alternativa: dualismo o moni-smo. L’anima umana esiste come una sostanza separata (o almeno separabile) che controlla il corpo dal di fuori (Platone, Descartes, Popper), e dunque in linea di principio una sostanza spiri-tuale prodotta dalla divinità e perciò capace di sopravvivere dopo la morte; oppure essa desi-gna una forma configurante, totalmente legata alla struttura psicosomatica dell’essere umano, e che semplicemente si dissolve con la morte di questo. È comprensibile che la dottrina cristiana della creazione e del compimento escatologico non possa accettare nessuna delle due alterna-tive quale unica soluzione. Vari teologi hanno fatto diversi tentativi durante il XX secolo per esprimere in modo innovativo, specie stimolati dalla sfide poste dalle scienze, ciò che tradizio-nalmente si intende col parlare di «anima». Fra essi vanno menzionati Karl Rahner (1904-1984) e Wolfhart Pannenberg (n. 1928), la cui compren-sione dell’anima umana potrebbe essere definita «attualista» (cfr. Greshake-Lohfink, 1975).Rahner (1961, 1984) spiega che l’origine della vita può essere attribuita interamente a Dio nell’am-bito della «causalità primaria» (creazione), ed interamente alla generazione nell’ambito della «causalità secondaria» (evoluzione). Dio è la base reale e trascendentale del processo evolutivo del

mondo. Egli opera nel cuore della creazione in e attraverso le cause seconde, senza rimpiazzarle od interromperne i processi. La causalità divina agisce dunque dall’interno di una causalità fini-ta e limitata, elevandola e potenziandola perché possa operare al di là delle proprie potenzialità. La causalità divina è ciò che dà origine all’au-to-trascendenza della creatura, ciò che gli scien-ziati potrebbero chiamare «emergentismo». Applicando questo principio all’uomo, Rahner sostiene che sia Dio, sia i pre-ominidi sono pie-namente causa dell’intero essere umano. Il pote-re di Dio fa emergere la piena potenzialità dello stato pre-ominide, costituendo gli umani come persone, andando così al di là della catena biolo-gica della riproduzione. L’unicità, l’irripetibilità e la spiritualità della persona umana sono radicate, quindi, nell’azione creatrice e potenziante di Dio. Così inteso, l’emergentismo può condurre sia alla personalità dell’uomo che alla vita della grazia divina.Autori protestanti come Thielicke, Althaus, Cul-lmann, Barth e Pannenberg negano general-mente l’immortalità “naturale” dell’anima umana e, come conseguenza, anche la sua sostanzialità come co-principio metafisico nella costituzione dell’essere umano. Molti di essi ritengono che la dottrina dell’immortalità dell’anima umana separata dal corpo finisca col rendere superflua la dottrina biblica della resurrezione e del giu-dizio finali, giungendo erroneamente a rimpiaz-zarla. Alcuni teologi cattolici sono stati inclini a muoversi nella stessa direzione (Ruiz de la Peña,

Prof. Paolo Rossi

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Greshake, Lohfink). La tradizione teologica pro-testante, tuttavia, non aveva negato né la sostan-zialità né l’immortalità dell’anima umana, quan-to piuttosto il contrario, anche se si riconosceva trattarsi sempre di un insegnamento della fede, non raggiungibile dalla sola ragione. Il cambio di tendenza è principalmente dovuto alla maggiore preoccupazione che i riformatori contemporanei hanno avuto di non distaccarsi dal dato biblico (la Scrittura parla esplicitamente di resurrezione ma non altrettanto esplicitamente di immortali-tà dell’anima), ritenendo che parte della dottri-na sulla natura e le proprietà dell’anima umana fosse di origine greco-platonica e necessitasse pertanto una de-ellenizzazione. Ma vi è un’altra e forse più importante ragione di questo disagio che i protestanti avvertono nei confronti dell’im-mortalità dell’anima separata. Nella filosofia mo-derna l’anima era compresa come centro del sé e dell’aspirazione umana all’Assoluto; un’anima immortale fu percepita quindi come una minac-cia alla dottrina della sola fede e della sola gra-zia, ovvero come se l’uomo potesse offrire a Dio qualcosa di proprio che Dio non gli avesse do-nato (cfr. A. Ahlbrecht, Tod und Unsterblichkeit in der evangelischen Theologie der Gegenwart, Paderborn 1955, pp. 112-120). Secondo Barth, in-fatti, se solo Dio è immortale (1Tm 6,16), l’anima non può essere a sua volta tale.Sempre in ambito protestante, è in atto un certo recupero della nozione di anima (cfr. Hermann, 1997), mentre altri ne favoriscono un’interpre-tazione «attualista» o «dinamica». Secondo quest’ultima interpretazione, dopo la morte l’a-nima separata non potrebbe essere considerata un essere sussistente come tale; l’essere umano individuale sarebbe piuttosto “trattenuto” nella mente di Dio durante il periodo compreso fra la morte e la resurrezione finale. Alla fine dei tempi, con la resurrezione finale, la persona riceverebbe la sua definitiva pienezza ed immortalità, come una sorta di «nuova creazione».Il teologo luterano Pannenberg (1994, 1996) ri-tiene che la scienza moderna abbia dimostrato che l’anima non è un oggetto ma piuttosto un aspetto del dinamismo della vita e del comporta-mento umano. Non avrebbe perciò senso, secon-do questo autore, parlare di immortalità dell’ani-ma. Inoltre, egli nota che la speranza cristiana è fondata sulla nozione di novità, di rinnovamento piuttosto che su quella di stabilità o di continui-tà. Pannenberg ammette che la teologia cristiana fu condotta storicamente ad accettare le nozioni

di sussistenza e sopravvivenza dell’anima come principio vitale dell’uomo, non per un’acritica as-sunzione di categorie platoniche, ma per poter assicurare l’”identità” dell’essere umano fra il suo stato terreno e quello futuro della resurrezione finale. La cosiddetta immortalità dell’anima è in fondo ciò che rende la resurrezione possibile, e l’anima come forma corporis era vista quale mo-dalità per conservare l’individualità, il patrimo-nio genetico, in qualche modo l’éidos dell’essere umano. Pannenberg sostiene però che, intesa in questo modo, l’anima umana separata sarebbe un soggetto di “nuove esperienze umane”, come ad esempio quelle relative alla purificazione nel-lo stato del Purgatorio o all’attività di interces-sione attribuita ai santi: ciò condurrebbe da un lato a vanificare la sua funzione di conservazio-ne dell’identità, in quanto quest’ultima sarebbe soggetto di nuove esperienze, dall’altro ad am-mettere una certa pienezza e completezza della presenza della persona umana in un simile stato. Per questo motivo, il teologo tedesco suggerisce che durante lo spazio intermedio fra la morte e la resurrezione (che la teologia chiama «escatologia intermedia») l’identità umana sarebbe meglio garantita se questa fosse presente, quasi codifi-cata, solo “in Dio”, poiché solo in Lui le nostre vite e le nostre storie possono divenire immortali.

IX. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE: L’ANIMA UMANA, «AZIONE» O «SOSTANZA»?

Riteniamo che un’adeguata applicazione dell’i-lemorfismo suggerito da Tommaso d’Aquino sia in grado di superare le conseguenze tanto del-la comprensione monista come di quella duali-sta del rapporto fra anima e corpo (cfr. Borghi, 1992). Tommaso si oppose con energia alla teoria di Averroè secondo cui esisteva un unico «intel-letto possibile» (come pure un unico «intelletto agente») comune a tutti gli esseri umani, sepa-rato dai corpi, coincidente con l’intelligenza mo-trice del mondo, l’unica ad essere eterna ed im-mortale. Similmente egli si oppose al pensiero di Avicenna, che affermava l’unicità dell’«intelletto agente» (pur ammettendo la molteplicità degli intelletti possibili). Se così fosse, sostiene s. Tom-maso, non sarebbe lo stesso individuo a compie-re le operazioni intellettive, bensì un semplice strumento dell’azione di un altro: hic homo intel-ligit, dice Tommaso (Summa theologiae, I, q. 76,

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a. 1). In ambedue i casi l’anima umana resta un frammento di divinità che si attualizza nel singo-lo e i sensi e l’immaginazione dell’individuo, so-stiene ancora Tommaso, potrebbero svolgere un ruolo meramente accidentale nella conoscenza umana (cfr. Contra Gentiles, II, c. 76; Summa the-ologiae, I, q. 79, aa. 4-5). Le posizioni di Rahner e di Pannenberg non paiono lontane dalle prece-denti, perché anch’essi vedono l’anima in termini «attualistici»: Dio sarebbe l’unico a vivificare ogni singolo essere umano a livello di causalità forma-le o quasi-formale. Ne derivano però conseguen-ze di rilievo.Di fronte allo stato dei fatti, la teoria dell’ominiz-zazione di Rahner offre una soluzione coerente e ragionevole al dilemma posto dall’evoluzione biologica. Ma ciò ha un prezzo. In primo luogo non vi sarebbe un buon motivo per ritenere che l’azione divina che conduce esseri finiti a tra-scendere se stessi debba essere riservata ad indi-vidui che siano già “geneticamente identificabili” come umani. Detto in altre parole, la differenza fra esseri non umani ed umani può, in questa vi-sione, essere solo quantitativa e non qualitativa. In secondo luogo, se è la causalità divina efficien-te a produrre l’auto-trascendenza di esseri finiti, allora le azioni attribuite agli esseri (umani) in questione resterebbero collegate solo acciden-talmente alla loro natura, rimanendo in qualche modo ad essa estrinseche. Ciò implica attribuire all’essere umano, nei confronti di Dio, il ruolo di una «causa strumentale» piuttosto che quella di una «causa seconda». Nell’ordine della creazio-ne, e specificamente in quello della spiritualità dell’anima umana, Tommaso d’Aquino aveva in-segnato che: «nessuna operazione compete ad un soggetto se non per mezzo di un principio ad esso formalmente inerente» (Summa theolo-giae, I, q. 79, a. 4) e, inoltre, «una cosa opera in conformità al suo modo di esistere; per cui non diciamo che ciò che riscalda è il calore, ma il cor-po caldo» (ibidem, q. 75, a. 2). Ciò equivale a dire che le azioni immateriali, di qualunque tipo esse siano (conoscenza, amore, libertà, ecc.), possono essere attribuite in modo significativo agli esseri umani solo se esse derivano da una sostanza im-materiale che appartenga all’uomo, cioè dall’ani-ma umana. Diversamente, tali azioni potrebbe-ro essere riferite ad una realtà esterna spirituale comune, forse ad una sorta di intelletto agente comune, o in ultima analisi a Dio stesso. Sareb-be dunque più corretto sostenere che l’azione di Dio nella creazione dell’essere umano a livello di

«causalità prima» coinvolga «la creazione dell’a-nima umana», l’unica forma che fa sì che gli esse-ri umani possano conoscere, amare, essere aperti a Dio, ecc.La posizione di Pannenberg sulla sostanzialità e l’immortalità dell’anima umana non garanti-sce una sufficiente “consistenza” alla creatura in quanto tale. In un contesto cristiano è certamen-te corretto considerare Dio come l’unico capace di garantire l’immortalità dell’essere umano o la sua permanenza nella sua concreta individualità vivente. Tuttavia, non diversamente da Rahner, sembra scorretto individuare l’identità dell’esse-re umano (e dunque la sua immortalità) solo nel-la concretezza della sua storia e non, piuttosto, nel “soggetto umano” di quella storia. Gli esseri umani, ancor prima di avere una storia personale e di sviluppare la loro concreta identità-person-alità, sono già “umani”, con una dignità spirituale inscritta nel profondo del loro essere. Ovvero, la dottrina dell’immortalità dell’anima non è tesa a garantire l’identità della storia singolare di ogni essere umano, ma ad assicurare l’identità meta-fisica del loro essere “umano”: la prima dipende dalla seconda. L’opposizione registrata da Pan-nenberg fra la novità (escatologia biblica) e la stabilità (visione platonica) va risolta con ana-loghe considerazioni. In assenza di un soggetto metafisicamente stabile, non sarebbe possibile alcuna novità significativa, perché ogni novità presuppone una discontinuità rispetto a quanto prima posseduto o sperimentato da un sogget-to. La novità deve essere novità “di qualcuno”. Nella prospettiva di Pannenberg, il soggetto di tale novità, nel periodo intermedio fra la morte e la resurrezione finale, potrebbe essere solo Dio stesso, o lo Spirito oggettivo, di cui l’essere uma-no individuale (come spirito soggettivo) sarebbe una semplice derivazione o manifestazione.In un documento ecclesiale di pochi anni or sono leggiamo questo riassunto della dottrina cristia-na riguardante l’anima umana in un contesto escatologico: «La Chiesa afferma la sopravviven-za e la sussistenza, dopo la morte, di un elemen-to spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale che l’io umano sussista, pur mancando nel frattempo del complemento del proprio corpo. Per designare un tale elemento, la Chiesa adopera la parola “anima”, consacrata dall’uso della Sacra Scrittura e della Tradizione. Senza ignorare che questo termine assume nel-la Bibbia diversi significati, essa ritiene tuttavia che non esista alcuna ragione per respingerlo,

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e considera, inoltre, che è assolutamente indi-spensabile uno strumento verbale per sostene-re la fede dei cristiani» (CDF, Alcune questioni di escatologia, 17.5.1979, EV 6, 1539). Sia lo studio delle scienze, sia la riflessione della religione e della filosofia, hanno condotto lungo i secoli a tematizzare, sebbene con linguaggi e prospetti-ve diverse, proprio la necessità di una simile no-zione, quella di un principio unificante ed infor-mante dell’essere umano, di un centro spirituale della sua vita (cfr. Schönborn, 1984). Se le prime hanno storicamente insistito di più sulla unità psico-somatica della persona umana, e dunque sulla inseparabilità fra corpo e anima, le seconde

hanno favorito invece la distinzione dell’anima dal corpo, con una deriva verso il dualismo. La dottrina cristiana, sulla base dell’unicità dell’at-to creativo di Dio, insegna che l’anima umana è l’unica forma del corpo umano; eppure, alla luce della dottrina circa la resurrezione finale, si so-stiene anche la possibilità di una sopravvivenza temporanea dell’anima separata dal corpo. Ol-tre a situare la dignità della persona umana nel fatto che la sua anima è creata direttamente da Dio senza alcuna mediazione, il cristianesimo afferma infine, su tale base, anche una priorità metafisica di questo co-principio specificamente spirituale dell’essere umano.

DOCUMENTI CATTOLICI CORRELATI:

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