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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
MILANO
Interfacoltà Economia – Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in
Economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo
Economie collaborative e beni comuni.
Forme di riappropriazione collettiva del patrimonio culturale
RELATORE:
Chiar.ma Prof.ssa Ivana PAIS
CORRELATORE:
Dott. Davide Luca ARCIDIACONO
TESI DI LAUREA DI
Nadia Zanelli
Matr. N. 4503368
Anno accademico 2016 - 2017
Sommario
Introduzione ...................................................................................................................... 1
Capitolo I
Ripensare I beni comuni:
ambiti di ricerca, contributi e riflessioni nel contesto italiano ....................................... 4
1. Lo sguardo filosofico: empatia, responsabilità, cura
1.1 Persona e intersoggettività .......................................................................... 5
1.2 Empatia e azione ........................................................................................... 8
1.3 Responsabilità e cura .................................................................................. 12
2. Lo sguardo antropologico: dal dono alla condivisione
2.1 Dono e comunità ......................................................................................... 20
2.2 Comunità oltre la relazione: dono e knowledge commons ...................... 22
3. Lo sguardo socioeconomico: relazione, reciprocità, condivisione
3.1 Verso la cooperazione: dall’homo oeconomicus all’animal civile ............. 27
3.2 Reciprocità e sharing economy .................................................................. 35
3.3 Economia della condivisione per l’urban commons:
il crowdfunding civico ................................................................................. 39
4. Lo sguardo giuridico: verso una gestione collaborativa partecipata
4.1 Esiti della Commissione Rodotà: oltre la proprietà ................................... 44
4.2 Collaborazione tra cittadini e amministrazione per I beni comuni .......... 51
Capitolo II
Ripensare il patrimonio culturale nell’orizzonte dei beni comuni:
fondamenti e opportunità.............................................................................................. 58
1. Per un approccio integrato al patrimonio culturale:
comunità, diritti culturali e partecipazione
1.1 Tra cose e testimonianze: un dialogo irrisolto ........................................... 59
1.2 L’elemento immateriale: verso un patrimonio culturale vitale ................ 62
1.3 Il diritto culturale come diritto umano:
verso un patrimonio culturale partecipato ............................................... 69
2. Processi e prospettive nel contesto italiano
2.1 Il tessuto urbano come trama culturale .................................................... 75
2.2 La cittadinanza come heritage community ................................................ 78
2.3 Cultura, territorio, sviluppo: l’apporto delle nuove museologie .............. 80
2.4 Dai cultural commons all’heritage commons ............................................ 83
Capitolo III
Forme di condivisione e collaborazione
per la rigenerazione del patrimonio culturale urbano ................................................. 88
1. Premessa metodologica
1.1 Domanda di ricerca e ambito di analisi...................................................... 91
1.2 Metodologia di ricerca e valutazione......................................................... 93
2. Analisi dei dati e principali risultati
2.1 Il crowdfunding civico a Bologna: Un passo per San Luca ..................... 102
2.2 Il crowdfunding civico a Milano: Eppela e l’innovazione sociale ........... 105
2.3 I patti di collaborazione tra cittadini e amministrazione
per la cura e la rigenerazione degli urban commons a Bologna............ 111
3. Conclusioni e prospettive di ricerca.................................................................. 116
Conclusioni ................................................................................................................... 123
Bibliografia ................................................................................................................... 125
Sitografia ...................................................................................................................... 135
Appendice I .................................................................................................................. 138
Appendice II ................................................................................................................. 142
Ringraziamenti ............................................................................................................. 159
Indice delle figure
Capitolo I
Figura 1.1 – Caratteri della reciprocità per rapporto allo scambio di equivalenti ...... 30
Figura 1.2 – Elementi per l’individuazione delle pratiche di sharing economy.......... 36
Figura 1.3 – Forme di integrazione tra economia e società ........................................ 38
Figura 1.4 – Tipologie di intervento perseguibili sugli urban commons mediante i patti
di collaborazione ............................................................................................................ 53
Capitolo II
Figura 2.1 – Il patrimonio culturale immateriale come campo semantico ................. 68
Figura 2.2 – Il patrimonio culturale integrato come campo semantico ...................... 74
Capitolo III
Figura 3.1 – Condizioni per una co-produzione efficace .............................................. 98
Figura 3.2 – Modello di valutazione per gli interventi sull’urban commons ............... 99
Figura 3.3 - Finalità prevalente delle campagne di crowdfunding civico a Milano .. 109
Figura 3.4 - Posizione delle campagne di crowdfunding civico a Milano nel modello di
valutazione per gli interventi sull'urban commons .................................................... 110
Figura 3.5 - Finalità prevalente dei patti di collaborazione a Bologna ..................... 115
Figura 3.6 - Posizione dei patti di collaborazione a Bologna nel modello di valutazione
per gli interventi sull'urban commons ........................................................................ 115
Figura 3.7 – Valutazione complessiva delle strategie di gestione e rigenerazione
condivisa degli urban commons con riferimento alle esternalità sul patrimonio
culturale ....................................................................................................................... 119
Indice delle tabelle
Capitolo I
Tabella 1.1 – Criticità delle soluzioni privatistica e pubblicista per la gestione dei beni
comuni............................................................................................................................. 33
Tabella 1.2 – I beni pubblici e i beni comuni nella tassonomia della Commissione
Rodotà ............................................................................................................................ 46
Capitolo II
Tabella 2.1 – Patrimonio culturale immateriale e salvaguardia nella Convenzione
UNESCO 2003 ................................................................................................................ 63
Capitolo III
Tabella 3.1 – Diverse architetture istituzionali per la gestione partecipata degli urban
commons ........................................................................................................................ 92
Tabella 3.2 – Modelli di ruolo per l’iniziatore amministrativo nelle strategie di
crowdfunding civico ....................................................................................................... 96
Tabella 3.3 – Modelli di ruolo per l’amministrazione: Un passo per San Luca ........ 103
Tabella 3.4 – Modelli di ruolo per l’amministrazione: Milano-Eppela ...................... 108
1
Introduzione
Il presente elaborato nasce dall’interesse per le dinamiche di gestione del patrimonio
culturale, nonché per le specifiche problematiche inerenti il contesto
socioeconomico, territoriale e amministrativo italiano. In particolare, si vuole
affrontare il tema della sperimentazione civica per la gestione condivisa dei beni
comuni urbani nel suo legame con le diffuse istanze di partecipazione attiva dei
cittadini al policy-making culturale.
Il dibattito sui beni comuni in Italia, emerso con forza a partire dalla costituzione
della Commissione Rodotà per la riforma della disciplina civilistica dei beni pubblici,
risulta intimamente legato a contingenze socioeconomiche dominate da una
generale scarsità di risorse pubbliche e, dunque, da una diffusa insoddisfazione nei
confronti di politiche giudicate inadatte a tutelare la libera fruibilità di beni –
materiali e immateriali – percepiti come collettivi in quanto funzionali all’esercizio di
diritti fondamentali. L’indifferenza rispetto all’assetto proprietario di tali beni in virtù
della loro funzione sociale è alla base dell’affermazione, accanto al pubblico e al
privato, del comune.
Tale categoria di beni, così come l’istanza partecipativa che essa reca con sé, non può
non intersecare la ricerca nell’ambito del management culturale. Le sollecitazioni in
questo senso sono numerose: dall’inclusione dei beni culturali e paesaggistici entro
il perimetro giuridico dei beni comuni da parte della stessa Commissione Rodotà, ai
più recenti orientamenti europei sulla gestione partecipata del cultural heritage
concepito come commons, fino alla stessa generale scarsità di risorse economiche
con cui il settore culturale italiano deve confrontarsi. È a questo proposito, in
particolare, che modalità di gestione innovativa dei beni comuni urbani, fondate
sulla collaborazione – finanziaria e non solo – tra attori amministrativi e cittadinanza,
assumono rilevanza per il patrimonio culturale italiano.
Questo contributo si fonda sull’ipotesi che le diverse forme di gestione
amministrativa ed economica condivisa dell’urban commons possano costituire un
2
fondamento a lungo termine per una riappropriazione vitale del patrimonio
culturale, qualificato nel suo complesso come “bene comune”, da parte della
comunità di riferimento.
La dissertazione ha inizio con una ricognizione del dibattito italiano in materia di beni
comuni, finalizzata non all’elaborazione di un apparato definitorio assoluto e
conclusivo in relazione a una nozione di per sé dinamica e socialmente determinata,
bensì all’acquisizione di strumenti teorici atti a costruire un approccio il più possibile
ricco e multidisciplinare al social dilemma posto dai beni comuni. Questo set di
strumenti teorici è progressivamente elaborato attraverso i diversi apporti della
filosofia dell’empatia e della filosofia sociale, dell’antropologia, dell’economia civile,
dell’economia della condivisione e della collaborazione, per giungere infine ai
contributi della riflessione giuridica su diritti fondamentali, funzione sociale della
proprietà e sussidiarietà.
Tale campo semantico costituisce il riferimento attraverso il quale, nel capitolo
successivo, sono indagate le opportunità di una qualificazione del patrimonio
culturale come bene comune. A partire da fonti internazionali quali la Convenzione
UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e la Convenzione
quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società,
passando per il riferimento alle caratteristiche specifiche del patrimonio culturale
italiano, si costituisce un nuovo campo semantico per il cultural heritage che, oltre
ad ampliare le prospettive della disciplina nazionale in materia di tutela e
valorizzazione attraverso una più complessa nozione di salvaguardia, rappresenta un
primo fondamentale passo per riconoscere nel patrimonio culturale un heritage
commons.
Infine, alcune esperienze locali di cura, gestione e rigenerazione condivisa di beni
comuni urbani, situate all’intersezione tra economia della condivisione e
collaborazione civica, sono indagate sia nelle loro architetture istituzionali interne,
sia nelle loro potenzialità per quanto concerne l’identificazione, l’appropriazione e la
rigenerazione del patrimonio culturale da parte della collettività. L’auspicio è che tale
analisi, supportata dalla riflessione teorica raccolta nei capitoli precedenti, possa
3
contribuire a meglio delineare le varie opportunità – per l’attore amministrativo e la
cittadinanza – di collaborare attivamente al fine di generare nuove forme di
conservazione vitale del patrimonio culturale italiano.
4
Capitolo I
Ripensare i beni comuni:
ambiti di ricerca, contributi e riflessioni
nel contesto italiano
Non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta.
La pluralità è la legge della terra.
¬Hannah Arendt 1
Nell’accostarsi a un tema tanto vasto quanto quello dei beni comuni, occorre
innanzitutto premunirsi nei confronti di alcuni rischi piuttosto frequenti. In primo
luogo, la tentazione di perseguire un’analisi – per così dire – assoluta della categoria,
che ne ricostruisca in maniera definitiva la genealogia o il significato, che ne delinei
in modo perfetto l’essenza, al di là di ogni dimensione contingenziale2. In secondo
luogo, il rischio di pensare ai beni comuni privilegiando una prospettiva disciplinare
su tutte, presumendo che vi sia un approccio unico in grado di abbracciarne la vastità
semantica. Queste due insidie, che procedono in opposte direzioni (l’una verso lo
sradicamento della categoria, l’altra verso la sua settorializzazione), conducono
1 «Not Man, but men inhabit this planet. Plurality is the law of the earth» (H. Arendt, The Life of the Mind, New York, Ed. Mary McCarthy, 1978; trad. it. La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987).
2 Contro l’ipostatizzazione dei beni comuni, si veda S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Bari, Laterza, 2012. Scrive l’autore: «Sono dunque le caratteristiche di ciascun bene, non una loro “natura”, a dover essere prese in considerazione, perché fanno emergere la loro attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali» (op. cit., p. 115). Più oltre: «La specialità della relazione istituita dai beni comuni (…) risiede nell’attitudine di questi beni (…) a soddisfare bisogni della persona costituzionalizzata, dunque non di un soggetto astratto, costruito nell’indifferenza per la materialità del vivere» (ibidem, p. 121). Ancora: «La ricerca di radici profonde, lontane, e di una continuità con il passato, determina poi un altro equivoco. La rilevanza e la tutela dei beni comuni deriverebbero da una loro natura, da un’essenza che li caratterizzerebbe al di là delle contingenze. Ma il loro affiorare impetuoso e pervasivo non può fare astrazione dalla storia e dai suoi movimenti. L’attenzione per l’ecosistema è figlia delle violazioni determinate dello sviluppo industriale, così come l’invenzione culturale del paesaggio è all’origine della richiesta di una sua tutela che lo sottragga alla logica proprietaria» (ibidem, p. 124).
5
entrambe a un sostanziale svuotamento della nozione di “beni comuni” e a un grave
depauperamento delle possibilità conoscitive in merito.
Riprendendo i principi di ciò che Edgar Morin definisce una “conoscenza
pertinente”3, questo contributo si basa sul duplice intento di radicare il tema dei beni
comuni nel contesto italiano e di affrontarlo con un approccio il più possibile
multidisciplinare.
Senza la pretesa di giungere a una definizione conclusiva, bensì aspirando ad
evidenziare alcuni tratti funzionali della categoria così come enucleati nella
letteratura, in questa sede si analizzano i beni comuni secondo sguardi via via
differenti (filosofico, antropologico, socioeconomico, giuridico) mettendo in luce in
modo specifico alcuni significativi contributi italiani utili all’elaborazione del tema.
1. Lo sguardo filosofico: empatia, responsabilità, cura
1.1 Persona e intersoggettività
Un valido tentativo di radicare il discorso economico-giuridico sui beni comuni
secondo in una prospettiva filosofica è stato condotto da Laura Pennacchi in un
volume esplicitamente dedicato alla Filosofia dei beni comuni4. A costituire un fertile
campo di elaborazione per la riflessione su questo tema è, secondo l’autrice, il
pensiero illuministico e in particolare il filone dell’empatia («vale a dire il sentirsi
partecipi delle gioie e delle sofferenze degli altri»5) e dei sentimenti morali.
3 E. Morin, Les sept savoirs nécessaires à l’éducation du futur, Paris, UNESCO, 1999 ; tr. it. I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2001. Per citarne un punto introduttivo che riassume la necessità di costruire un sapere non settorializzato: «La suprématie d’une connaissance fragmentée selon les disciplines rend souvent incapable d’opérer le lien entre les parties et les totalités et doit faire place à un mode de connaissance capable de saisir ses objets dans leurs contextes, leurs complexes, leurs ensembles» (op. cit., p. 2).
4 L. Pennacchi, Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Roma, Donzelli Editore, 2012.
5 Ibidem, p. 17. Tra gli autori di riferimento, Pennacchi cita in primis Hutcheson, Hume, Smith, Condorcet, Wollstonecraft. L’inclusione di tali autori – in particolare Hutcheson, Hume e Smith – in un “filone dell’empatia” non è però unanime. A proposito di un uso troppo generoso del termine “empatia”, Boella scrive: «Il primo e, probabilmente, fondamentale ostacolo al far chiarezza sull'empatia deriva dal fatto che essa viene perlopiù confusa con una famiglia di termini (simpatia, compassione, pietà, amore) che in realtà le si sovrappongono e spesso mascherano il suo vero
6
La considerazione di questo “filone illuministico dell’empatia” consente di evitare,
secondo Pennacchi, la costituzione di una vuota “mistica” dei beni comuni. In primo
luogo, perché radicando la riflessione nella modernità («campo di tensioni che
configurano uno spazio ricchissimo, che investe anche quel territorio di confine e di
interazione tra diritto, politica ed etica rivendicato dal costituzionalismo moderno»6)
si è portati a strutturare il pensiero in modo aperto, dinamico, plurale. In secondo
luogo, perché la rivalutazione della complessità della vita umana – che passa
attraverso la considerazione dell’empatia e dell’apertura all’intersoggettività come
moventi dell’azione morale – è un primo passo in direzione della scoperta della
persona, ovvero dell’essere umano come entità radicata nell’intersoggettività, nelle
relazioni con il mondo e, quindi, nella storia. Una scoperta non puntuale, ma che, al
contrario, si è sviluppata nel corso di tutta la riflessione moderna, procedendo di pari
passo con la costruzione della democrazia:
La democrazia contiene un profondo carattere altruistico – espresso dalla dedizione per il “vivere insieme”, la “cosa pubblica”, il “bene comune” – intrinsecamente connesso alle “virtù repubblicane” che Montesquieu considerava il suo tratto distintivo. Fondamenti di ciò sono il rispetto – categoria altamente morale – di sé e degli altri, la dignità della persona umana.7
La democrazia – la cui costruzione procede di pari passo con l’espansione della “sfera
pubblica” – esiste e si rigenera nell’intersoggettività; basandosi sulla politica intesa
come facoltà di agire, la democrazia reclama un “essere con gli altri” privo di
piattezza, omologazione, conformismo. L’intersoggettività di cui la democrazia si
nutre presuppone una visione ricca della persona, la cui complessità
multidimensionale è «presupposto di quell’“umanesimo radicale” inventato
dall’Illuminismo centrato su diritti, doveri e cittadinanza» (Pennacchi, 2012, p.24).
significato. L'empatia è stata infatti come schiacciata dall'eredità delle etiche della simpatia o della compassione, nate in tutt'altro contesto, quello dell'empirismo inglese» (L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006, p. XVIII).
6 Pennacchi, 2012, p. 14
7 Ibidem, p. 22.
7
La «considerazione dell’essere umano come entità costitutivamente incline
all’intersoggettività e all’intercomunicatività» (ibidem, p. 27) sarebbe in grado di
produrre, inoltre, un sostanziale superamento della tensione tra individualismo e
comunitarismo; superamento che si concreta in un “individualismo democratico”8,
opposto a quell’”individualismo economico” che costituisce il contrappunto etico al
modello economico neoliberista.
L’antropologia che deriva dalla riflessione illuministica sull’empatia e i sentimenti
morali porta, dunque, alla scoperta della persona così come definita dalla sua
concretezza storica e dalla sua presenza nel mondo, ossia dall’intersoggettività. Tale
scoperta conduce all’individuazione di una terza possibilità oltre alle opzioni etiche
e sociali dicotomiche di individualismo e comunitarismo: un individualismo
democratico che procede non dalla considerazione di soggetti isolati unitisi, in un
secondo momento, in un sistema sociale, bensì dalla considerazione di persone,
individui intrinsecamente interrelati, come base per ogni sistema morale e sociale.
La scoperta della persona come soggetto non originariamente individuale, bensì
costitutivamente sociale comporta altresì uno sguardo nuovo sulla dimensione
emotiva e “sentimentale” dell’umano. Si rende necessaria, infatti, un’ipotesi di
razionalità complessa, non meramente strumentale9, che incorpori simpatia,
generosità, senso civico.
8 Pennacchi intende l’individualismo democratico come «una sorta di fertilizzazione reciproca tra comunitarismo e liberalismo» (Pennacchi, 2012, p. 34). Per una trattazione compiuta di questa nozione, si rinvia a N. Urbinati, Liberi e uguali, Roma-Bari, Laterza, 2011. Urbinati analizza altresì due opposte forme patologiche di individualismo, una atomistica e antipolitica, l’altra apatica e gregaria. Questo schema dualistico sembra in qualche misura richiamare il contributo di Pulcini (E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Torino, Bollati Boringhieri, 2009) di cui si tratterà più avanti nel testo.
9 Pennacchi richiama l’ipotesi di razionalità strumentale come propria dell’individualismo economico. Essa assume come requisito della scelta razionale il criterio di massimizzazione dell’interesse personale. Ne consegue che l’altruismo può essere considerato razionale solo nella misura in cui sia espressione di un tornaconto personale. «La teoria della scelta razionale in base a razionalità strumentale, nell’attribuire la patente di razionalità al solo perseguimento del proprio interesse, esclude che sia razionale perseguire fini e moventi di altra natura» (Pennacchi, 2012, p. 84). Ciò che l’autrice evidenzia, a proposito di questa concezione “povera” della razionalità, è l’errore o il misconoscimento della realtà umana da cui essa discende: il soggetto non si dà mai come individuo isolato, bensì è – storicamente e nel mondo – persona, dunque soggetto relazionale.
8
1.2 Empatia e azione
Il tema dell’empatia, come moto alla base dell’agire dell’uomo nel mondo, è al centro
della ricerca condotta – nell’ambito della filosofia morale – da Laura Boella, i cui
contributi si radicano nell’approfondimento del pensiero, in primis, di Edith Stein10 e
di Hannah Arendt11. La riflessione di Boella muove a partire dalla considerazione di
una generale confusione in merito alla natura del moto empatico, troppo spesso
sovrapposto ad emozioni quali la simpatia e la compassione, di cui l’empatia
costituisce – al contrario – il presupposto:
Essa [l’empatia] è piuttosto la via (…) per accedere all’intera persona dell'altro e rappresenta quindi la condizione di possibilità dei sentimenti di simpatia, amore, odio, pietà, compassione, nonché delle molteplici forme di comprensione degli altri.12
L’autrice arriva a definire l’essenza del movimento empatico come un sentire l’altro,
ossia come «l’esperienza di un altro in quanto soggetto vivente di esperienza»
(Boella, 2006, p. 27); tale moto fiorisce non attraverso un processo di conoscenza
intellettuale, bensì con «tutta l’intensità del sentire» (ibidem, p. 25). Sul modello
della ricerca condotta da Edith Stein, l’empatia viene problematizzata e analizzata a
partire dall’esperienza quotidiana della relazione, che è considerata l’orizzonte entro
cui la totalità della persona si compie:
L'empatia è il fenomeno del nostro entrare quotidianamente in rapporto con altri cogliendo la loro individualità di persone, dotate di corpo e di anima, di emozioni, di motivazioni, di valori, di una vita sociale, spirituale e religiosa. (…) Nella prospettiva dell'empatia, l'esperienza soggettiva comprende la
10 Si fa qui riferimento a L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006. L’opera Il problema dell’empatia (1927) di Edith Stein viene considerata dall’autrice un importante punto di partenza per ri-problematizzare l’empatia da un punto di vista filosofico. La coscienza dell’intersoggettività, ovvero della presenza di altri corpi vivi, assume una specifica rilevanza nell’ambito della ricerca fenomenologica condotta da Stein in quanto forma di “garanzia” rispetto alla presa del soggetto sul mondo: «L'empatia, con le sue regole specifiche che interessano la vita del sentire, diventa così un tramite essenziale per l’accesso alla realtà. Essa rafforza il senso di realtà acquisito attraverso la conoscenza della natura e delle cose che popolano il nostro ambiente di vita, completandolo con i dati relativi agli individui concreti e ai significati che essi si scambiano all'interno del mondo storico, culturale e spirituale» (Boella, op. cit., p. 9).
11 L. Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1995.
12 Boella, 2006, p. 12.
9
dimensione fìsiopsichica, la presenza di altri soggetti e, con essi, la società, la storia, la cultura, l'arte, la tradizione, la religione. E ciò significa che l’essenza della persona non si risolve né nella riflessione sui propri atti, né nella percezione e conoscenza della realtà oggettiva esterna. Essa è piuttosto momento sorgivo di apertura, di partecipazione all’essere.13
L’empatia assume in questo senso la natura di un vero e proprio “moto”, che
attraversa i momenti dell’incontro con l’altro e della rivelazione della relazione tra
sé e l’altro; della conseguente esigenza di comprenderne l’esperienza in quanto
soggetto vivo, corpo vivo; infine, della trasformazione di sé e del proprio sentire
attraverso l’esperienza indiretta del vissuto dell’altro.
Di particolare interesse ai fini del presente elaborato è la riflessione condotta da
Boella sulla pratica dell’empatia, ovvero sull’agire che trae origine dalla dimensione
etica dell’esperienza dell’altro. L’autrice sottolinea che il passaggio dal sentire l’altro
all’azione morale, intesa come presa di responsabilità nei confronti del mondo, non
consiste in un automatismo. L’empatia assume rilevanza etica solo nella misura in
cui il moto sia vissuto fino in fondo (dall’emozione dell’incontro, attraverso la
comprensione che è l’immaginazione dell’esperienza dell’altro, fino alla
trasformazione di sé) come frutto di un atto volitivo14. Praticare l’empatia significa
gestire attivamente la relazione intersoggettiva che l’empatia sottende e, allo stesso
tempo, genera. Se infatti l’incontro con l’altro è costituito dalla rivelazione della
relazione che già sussiste tra persona e persona, proprio questa relazione non può
darsi compiutamente qualora sia solo presupposta e in assenza della volontà, del
desiderio di parteciparvi:
Una qualità dell'empatia è infatti quella di svelarci l'intreccio profondo tra noi e gli altri. D'altra parte, nell'esercitare l'empatia, questo intreccio, che rimane presupposto, si sgrana, non si propone come dato di fatto scontato o assunto retoricamente, bensì come il lavoro che attraversa il margine più o meno grande di separazione, di differenza, di disparità di destino, di mancanza di scambio che sussiste tra gli esseri umani. Più precisamente, il fatto che sia
13 Boella, 2006, p. 14-15.
14 «L’empatia può rispondere a un desiderio o scontrarsi con una resistenza interiore. Come si è visto, conoscere l'empatia vuol dire sapere e sentire che il vissuto dell'altro, accolto e ospitato da me, mi tocca, si radica nel mio centro e mi trasforma. È l'intero compimento dell'esperienza empatica (…) a segnare il fondamentale passaggio alla pratica di relazione, che si può sviluppare e affinare e che richiede un'elaborazione, un rilancio dei sentimenti empatizzati» (ibidem, p. 90).
10
necessario viversi come persone per riconoscere negli altri la qualità di persone, implica che l'empatia sia nutrita da un interesse vitale.15
L’empatia non è dunque mera sussistenza di relazione, né mera coscienza della
relazione stessa. L’empatia come atto morale compiuto – quindi dotato di
dimensione etica – si delinea solo nella sua pratica. Come evidenziato da Boella sia
nel contributo fin qui citato16 sia altrove, la considerazione di un mondo sempre più
interconnesso diventa, in modo quasi ossimorico, un pericolo per le relazioni umane
e la capacità empatica stessa, poiché la relazione si svuota di quell’intenzionalità che
genera responsabilità e cura nei confronti dell’altro e del mondo:
Oltre a essere indice di grande confusione terminologica, l'equiparazione dell'empatia a una partecipazione originaria al destino altrui, che si salda con gli effetti socializzanti della rete, fa del legame con gli altri qualcosa di automatico, innato o acquisito, e lascia insoluto il problema del modo in cui la relazione diventa veicolo e creazione di significati, di pratiche condivise. Se restassimo a una concezione dell'originario coinvolgimento in vite che non sono le nostre, dei vincoli e delle dipendenze che ci legano agli altri, senza che lo vogliamo o lo sappiamo, come potremmo porci il problema della libertà, del giudizio di sé e degli altri, dell'agire bene o male? La centralità dell'empatia nell'esperienza umana non è affatto una garanzia di comportamenti altruistici e solidali, e proprio per questo richiede un forte impegno per diventare una risorsa etica.17
Se l’empatia come possibilità etica è dunque un atto, una forma dell’agire nella
relazione, assumono qui grande rilevanza le riflessioni condotte da Boella sull’opera
di Hannah Arendt18. Boella sottolinea come l’agire arendtiano sia esso stesso un atto
15 Boella, 2006, p. 92.
16 «L'incapacità di sentire l'altro è sempre più alla ribalta dell'epoca contemporanea. Questa constatazione può destare perplessità in riferimento all’epoca che ha acquisito la consapevolezza definitiva della struttura intersoggettiva della realtà. (…) L'acquisizione fondamentale che un soggetto non sia mai isolato, ma che, nascendo, entri a far parte di un mondo che esisteva prima di lui e in cui incontra altri esseri umani, ha prodotto infatti un effetto gravido di conseguenze. Se ogni essere, originariamente, è individuo e membro di una comunità, il legame con gli altri diventa un dato di fatto esistenziale e ontologico, completamente indipendente dalla relazione vissuta con un altro essere: gli altri diventano una componente dell'esistenza umana che sussiste anche quando non si traduce in esperienza reale di relazione» (Boella, 2006, p. XXI-XXII).
17 L. Boella, Il coraggio dell’etica. Per una nuova immaginazione morale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012, p. 12.
18 L. Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1995.
11
implicitamente relazionale: il soggetto che agisce è propriamente colui che innesca,
che mette in moto un processo in virtù del «potere di dare inizio, secondo la
definizione kantiana della libertà», mentre il processo in quanto tale è invece
sottratto al controllo dell’io poiché «libera una serie illimitata e inarrestabile di
effetti che vanno a intersecarsi con gli altrettanto illimitati processi innescati da altri
soggetti» (Boella, 1995, p. 120). L’enfasi non è posta tanto sull’incontrollabilità del
processo e dei suoi esiti, sulla complessità del rapporto tra volontà e azione. Al
contrario, l’intento di Hannah Arendt è quello di «restituire all’azione il suo primato
nell’ambito della gerarchia della vita activa»: «agire è un supremo sforzo di liberarsi
da se stessi e dall’ingombro dell’io» (ibidem, p. 123). Proprio sottraendo l’agire al
controllo totale dell’io, Hannah Arendt fa dell’azione un «principio di libertà e non di
necessità, un principio politico e non un affare privato» (ibidem, p. 123).
Alla base di questa concezione dell’agire vi è una forte dimensione di
intersoggettività, intesa come quella trama di relazioni che costituiscono – nel
pensiero arendtiano – la sfera pubblica. Tale intersoggettività è anche e in primo
luogo intercorporeità, «circuito di corpi, di presenze che interagiscono in totale
reciprocità» (ibidem, p. 125). Proprio per questo «il corpo non riporta l’individuo solo
verso se stesso e la propria autoconservazione, ma anche al circuito di altri corpi. (…)
L’individuo mostra così di essere costituito da un momento di alterità, che ne
definisce la presenza» (ibidem, p. 126). Esiste dunque un «momento di alterità
interno alla singolarità» (ibidem, p. 126). L’agire è l’atto o modalità d’esperienza che
meglio esprime la struttura intersoggettiva dell’umano, poiché assume questa trama
di relazioni e si dispiega soltanto in essa19.
19 Sulla base di questa complessa nozione dell’agire, che interseca la libertà dell’atto volitivo – in se stesso “privato” – e le infinte relazioni di cui è intessuta la sfera pubblica, Boella ricostruisce il concetto arendtiano di politica: «Politica è agire secondo principi (non fini o scopi) in uno spazio pubblico sostenuto dall’energia delle relazioni (ciò che Hannah Arendt chiama potere nel senso etimologico della potenzialità e vitalità dell’essere insieme, e che non si può possedere, ma solo esercitare) e reso durevole e stabile da forme di organizzazione della convivenza che siano istituzioni nel senso proprio e più ampio del termine, ossia fondino, inaugurino, costituiscano, rendano unico e vincolante un determinato modo di vivere insieme degli uomini e nello stesso tempo lo custodiscano, lo preservino» (Boella, 1995, p. 151).
12
Giungiamo così a una comprensione più profonda del fenomeno dell’empatia così
come teorizzato da Boella. Esso risponde alla natura relazionale o sociale della
persona, ma, allo stesso tempo, affinché si compia in modo perfetto e dunque
acquisisca una rilevanza etica, non può prescindere dalla volontà e dalla gestione
attiva della relazione. L’azione morale che può costituire il frutto dell’empatia, la
quale si compie nella trasformazione di sé attraverso l’esperienza del vissuto
dell’altro, esige una presa di responsabilità per l’altro come atto volitivo intenzionale.
1.3 Responsabilità e cura
Il tema della responsabilità emerge anche nel già citato contributo di Pennacchi, nel
quale si lega all’ipotesi di razionalità complessa: la persona, che è soggetto
originariamente relazionale, esercita una razionalità che abbraccia non solo
l’interesse personale, ma anche motivazioni etiche ed emozioni (intese come
pàthos); essa «vive costitutivamente la dimensione dell’”essere-in-comune” e
intrinsecamente esprime responsabilità e cura.»20 Pennacchi sembrerebbe dunque
considerare la capacità empatica e la conseguente responsabilità nei confronti del
mondo come qualità innate e irriflesse dell’umano; un automatismo che, secondo
Boella, priverebbe l’empatia proprio della sua dimensione etica.
Una terza prospettiva sul tema della responsabilità ci viene offerta dalle ricerche in
ambito di filosofia sociale condotte da Elena Pulcini21, ricerche che muovono dalla
20 L. Pennacchi, 2012, p. 95. Il richiamo è tanto all’etica o paradigma della cura, orientamento filosofico sostanzialmente femminista (in primis: C. Gilligan, In a Different Voice. Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, 1982, tr. it. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1987; J. Tronto, Moral Boundaries. A Political Argument for an Ethic of Care, Routledge, 1995, tr. it. Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Reggio Emilia, Diabasis, 2006) basato sull’allargamento della nozione di cura dalla sfera intimo-materna a quella pubblico-politica, quanto all’in-between costitutivamente umano così come teorizzato in The Human Condition (1958) da Hannah Arendt: «La coesistenza di tutti in un’unica umanità fa del “comune” un carattere precipuo dell’umano, al tempo stesso questo comune è “plurale”: l’in-between caro ad Hannah Arendt, mentre lega gli esseri umani gli uni agli altri, li distingue e li singolarizza dando vita a una “sfera pubblica” che è insieme comunanza e distinzione, totalità e pluralità» (L. Pennacchi, 2012, p. 100). È interessante notare come sia Boella sia Pennacchi riprendano l’intersoggettività arendtiana, benché attribuiscano una rilevanza molto differente all’intreccio tra relazione, empatia e azione individuale.
21 Si fa particolare riferimento a E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Torino, Bollati Boringhieri, 2009.
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considerazione di due patologie opposte dell’età globale: individualismo illimitato e
comunitarismo endogamico.22 L’individualismo illimitato si origina nell’era attuale
come degenerazione di due modelli antropologici della modernità, il Prometeo
hobbesiano e il Narciso smithiano, il primo mosso dall’autoconservazione e dalla
ricerca del potere, il secondo teso al possesso e all’accumulazione della ricchezza
anche quale segno di distinzione sociale23. Entrambi i modelli sono accomunati,
secondo Pulcini, dalla tensione all’illimitato e – al contempo – dalla necessità del
limite:
Ispirate da una ragione strumentale che spinge l’individuo a una equilibrata mediazione tra l’interesse soggettivo e l’interesse collettivo, la politica e l’etica funzionano come approdi normativi di una soggettività disposta, in nome della realizzazione del proprio utile e del controllo sul proprio futuro, a contenere la pulsione all’illimitato.24
A modificare in senso degenerativo questi modelli antropologici è intervenuta,
nell’età globale, una “nuova” illimitatezza che si è imposta nel duplice senso di
perdita dei confini e di perdita del limite:
In altri termini, l’idea di illimitatezza coniuga in sé la coesistenza paradossale di insicurezza, disorientamento, perdita delle certezze e dei punti di riferimento dell’Io e, allo stesso tempo, di anelito all’espressione senza limiti delle proprie possibilità, pretese, desideri.25
22 Queste si generano, secondo Pulcini, in seno all’intima ambivalenza della globalizzazione, fenomeno che vede la vincolante coappartenenza di «processi “globali” di unificazione, omogeneizzazione, omologazione da un lato e di processi “locali” di frammentazione, divisione, differenziazione dall’altro» (Pulcini, 2009, p.7).
23 «In prima istanza, il Prometeo hobbesiano, raffigurazione mitica di un individuo ansiosamente preoccupato di un futuro ignoto e perennemente incerto, e animato da una pulsione acquisitiva che si traduce nella ricerca infinita e mai soddisfatta di un potere che gli assicuri la conservazione della vita. In seconda istanza, l’individuo acquisitivo descritto da Adam Smith (…) animato da quell’impulso basilare della natura umana che è il desiderio di distinzione e ammirazione, è spinto da una sorta di coazione a “migliorare la propria condizione” attraverso una inarrestabile “corsa alla ricchezza” (race for wealth); in quanto la ricchezza è diventata, appunto, segno di distinzione sociale, simbolo del proprio status di eccellenza» (Pulcini, 2009, p. 33-34).
24 Pulcini, 2009, p. 34.
25 Ibidem, p. 43. Tra le “logiche dell’illimitato” più evidenti dell’età globale, Pulcini cita i processi di deterritorializzazione di lavoro, merci, capitali; la crisi della politica nella sua forma statuale moderna; le nuove possibilità offerte dalle tecnologie informatiche. Fenomeni che si accompagnano a una sempre maggiore coscienza del costituirsi di una società-mondo globale, con la conseguenza che «quanto più (…) cresce la percezione di una interdipendenza degli eventi e la consapevolezza del fatto
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Conseguenza più evidente delle patologie dell’individualismo globale26, accomunate
da un’idea di illimitatezza, è l’erosione del tessuto sociale, frutto tanto dell’illimitata
autoaffermazione dell’io che opacizza la figura dell’altro, quanto dell’atomismo
autodifensivo dettato dal senso di passività e impotenza. È proprio a tale erosione
che corrisponde un crescente bisogno di comunità27, il quale può alimentarsi di
motivazioni legittime così come di motivazioni patologiche. Tra le prime, Pulcini
annovera sia la ricerca, da parte del singolo individuo, di identità, senso e legame
sociale come risposta allo sradicamento dell’individualismo illimitato, sia l’esigenza
di ricostituire un’identità di gruppo per quei segmenti di popolazione che sono
oggetto di dinamiche di esclusione28. È forse in questo secondo caso che emerge più
chiaramente il rischio costante di uno slittamento verso configurazioni di
comunitarismo endogamico, qualora il bisogno di comunità arrivi ad esprimersi in
modalità essenzialmente reattive e autodifensive, «dando origine a forme di
che qualunque cosa accada in qualunque parte del mondo può riguardare e coinvolgere l’intero globo, tanto più il senso di impotenza e di insicurezza crescono, acutizzando la ritrazione narcisistica dell’Io; il quale mette in atto strategie autoconservative, chiudendosi in una “mentalità della sopravvivenza” che lo rende estraneo e indifferente, in particolare, agli eventi del mondo, alla sfera dell’agire comune» (ibidem, p. 46-47).
26 Secondo la partizione antropologica proposta da Pulcini, l’Io globale si configura come individuo-spettatore, individuo-consumatore e individuo-creatore, rispettivamente caratterizzati da una radicale indifferenza nei confronti del mondo, prodotta dalla perdita dei confini e dal conseguente senso d’impotenza; da parassitismo e contestuale voracità, prodotti sia dalla perdita dei confini sia dalla perdita del limite e, in particolare, dalla conversione dei bisogni (limitati) in desideri (illimitati); dall’onnipotenza solipsistica di un homo creator che non si limita a trasformare la natura, bensì «acquisisce la capacità, appunto, di creare la natura, di introdurre sulla scena prodotti e processi del tutto “nuovi”» (Pulcini, 2009, p. 51).
27 Il legame tra la degenerazione “illimitata” dell’individualismo globale e l’opposta patologia del comunitarismo endogamico ripropone la coappartenenza – come reciproca implicazione di due realtà opposte e complementari – di tensione al globale e tensione al locale propria della globalizzazione (tesi della glocalizzazione): «È questo bisogno [di comunità] che possiamo riconoscere alla radice dell’emergere di realtà “locali”, che proliferano all’interno della società-mondo, reintroducendo differenze e frammentazioni, confini e divisioni» (ibidem, p. 60).
28 Pulcini intende il fenomeno dell’esclusione sociale come frutto del passaggio dalla società industriale fondata sul lavoro alla società-mercato «flessibile e selvaggia» (Pulcini, 2009, p. 83); tale passaggio produce la marginalizzazione di tutte quelle figure – «il povero, l’immigrato, il disoccupato, ma anche le minoranze culturali, etniche, religiose, sessuali» (ibidem, p. 84) - che non sono più definibili in senso socio-professionale. Si tratta di “soggetti non-soggetti” che perdono il proprio ruolo di attori sociali per diventare vittime di una incertezza identitaria che si acuisce con la radicalizzazione dei processi di globalizzazione.
15
chiusura autoreferenziale e immunitaria, (…) di esclusione dell’altro da sé che
generano violenza e radicalizzano il conflitto» (Pulcini, 2009, p. 97).
A partire da questa “diagnosi”, Pulcini sviluppa la tesi secondo la quale queste due
patologie – individualismo illimitato e comunitarismo negativo – possono ricondursi
alla sfera del sentire e della vita emotiva, rispettivamente nei termini di un’assenza
di pathos e un eccesso di pathos. Scongiurare le due derive patologiche significa,
secondo Pulcini, riattivare un rapporto fecondo con l’emozione della paura. Nel
confronto con l’età moderna e in particolare l’analisi hobbesiana – in cui «la paura
svolge, sia pure con esiti sacrificali, una funzione che è stata giustamente definita
“produttiva”» (Pulcini, 2009, p. 15) – l’età globale si distingue per aver mutato in
modo sostanziale le caratteristiche del pericolo: procedendo anch’esso nel senso
della “nuova” illimitatezza, è divenuto incerto e indeterminato29, tanto che risulta
legittimo parlare di uno slittamento dal pericolo al rischio.
Riattivare la funzione produttiva della paura significa sottrarla «alla dinamica
anestetizzante e/o persecutoria dell’angoscia, per far sì che essa produca da un lato
forme di attiva mobilitazione contro i rischi e di corretta imputazione delle
responsabilità, dall’altro forme non perverse di comunità e di solidarietà». 30 Questo
riavvicinamento produttivo passa attraverso la coscienza della natura originaria della
paura, che consiste nell’ancoramento dell’io alla consapevolezza della sua
vulnerabilità di fronte ai rischi del mondo:
In questa consapevolezza, offuscata da un lato dalla hybris prometeica dell’homo creator, dalla ottusa voracità dell’individuo consumatore e dall’illusione immunitaria dell’Io spettatore, e dall’altro lato dall’abbaglio
29 L’autrice riconduce tale indeterminatezza alla natura stessa delle principali “minacce” che l’Io globale si trova ad affrontare: la tecnica e l’altro. «Produttrice di rischi globali (in particolare i rischi ambientali), la tecnica sembra riconsegnare gli uomini (…) a quello stato indefinito di paura e impotenza di fronte a eventi incontrollabili prodotti dalla natura e dal mondo esterno che connotava la condizione premoderna; sebbene con la differenza di fondo (…) che i rischi sono il prodotto dell’agire umano e di una natura resa ormai prevalentemente artificiale. Ma anche nel secondo caso siamo di fronte a un pericolo indeterminato. La figura dell’altro infatti, pur conservano la prossimità spaziale perde la certezza che riveste nel paradigma hobbesiano, per assumere i connotati inquietanti e indecifrabili dello straniero, del diverso: o meglio, per dirla con Simmel, dello “straniero interno”, ché non si può più né espellere né assimilare, e che costituisce di conseguenza una fonte permanente di ansia e di disagio» (Pulcini, 2009, p. 16).
30 Ibidem, p. 187.
16
mitico e ideologico della fusione comunitaria, risiede oggi la chance per interrompere la spirale distruttiva e autodistruttiva che scaturisce dalla divaricazione tra l’individualismo illimitato e il comunitarismo negativo.31
La possibilità di costituire un’etica del futuro «che sappia porre rimedio agli effetti
del nostro illimitato potere» (Pulcini, 2009, p. 196) si fonda sulla capacità di tradurre
la “paura di” in “paura per” attraverso la riconquista emotiva della propria
vulnerabilità, che è precondizione del sentire la vulnerabilità dell’altro e dell’avere
paura per l’altro32. In questo modo, la responsabilità – che è responsabilità per l’altro
e il mondo33 - si radica, attraverso un «processo di dilatazione del sentire» (ibidem,
p. 222), nella dimensione emotiva del singolo, nel momento in cui questi riconosce
l’intima struttura relazionale che lo lega, in quanto persona, al mondo. È proprio la
relazione, il vincolo costitutivo intersoggettivo, a costituire il presupposto della
responsabilità per: essa è dettata non dall’altruismo del soggetto morale, ma dalla
sua natura relazionale, dalla «vulnerabilità del soggetto all’altro» (ibidem, p. 236).
Emerge con forza, nella riflessione di Pulcini, la dimensione concreta, contingenziale
e operativa in cui l’etica della responsabilità può svilupparsi. Da un lato, infatti,
affinché insorga nel soggetto la consapevolezza della vulnerabilità – riconoscimento
senza il quale non può prodursi responsabilità34 – si rende necessario l’evento e, in
31 Pulcini, 2009, p. 189.
32 Alla riscoperta della vulnerabilità si affianca, in particolare per le situazioni di comunitarismo endogamico, la necessità di ripensare positivamente la differenza convertendo lo “spettro della contaminazione” – generato dalla perdita di confini dell’età globale – in possibilità: «Si tratterebbe cioè di interrompere la strategia allopatica dell’immunizzazione opponendole la cura omeopatica dell’apertura al contagio con l’alterità, alla mescolanza, all’ospitalità verso la differenza; convertendo, per così dire, il “fatto” della contaminazione in “valore”» (ibidem, p. 209).
33 Poggiando sul pensiero di Günther Anders e Hans Jonas, Pulcini intende la responsabilità essenzialmente come “responsabilità per”: «per qualcuno che chiede la nostra attenzione pena la sua stessa sopravvivenza. (…) Si tratta di un passaggio decisivo che implica uno slittamento semantico dall’idea di “imputazione”, di matrice kantiana, che di fatto prevale fino al Novecento, a quella di “cura”, attraverso la quale il soggetto non si limita a rispondere di qualcosa, ma è di fatto chiamato a rispondere a qualcuno» (ibidem, p. 223). Si tratta, in altri termini, non di una responsabilità di natura causale, bensì di una responsabilità in merito al “da farsi” e, dunque, propriamente morale.
34 Per Pulcini (come per Boella) il nesso tra vulnerabilità (o empatia) e responsabilità non è frutto di un automatismo, ovvero della natura intersoggettiva dell’umano data solo come presupposto. Interviene un elemento “scatenante”, che nella prospettiva di Boella è costituito dalla pratica, dalla gestione attiva del moto empatico, mentre nel contributo di Pulcini sembra prodursi con l’”impatto” di un evento: «l’esperienza della perdita (che si tratti della perdita di vite dovuta a un attacco terroristico o della perdita dei propri beni a causa di una catastrofe ambientale) può diventare una preziosa opportunità
17
particolare, il moltiplicarsi degli eventi, la cui interdipendenza in età globale
costituisce un’opportunità per la riattivazione produttiva della paura. Dall’altro lato,
la responsabilità stessa, in quanto responsabilità per, implica un “farsi carico
dell’altro”: «non solo pre-occuparsi delle sue sorti, ma anche, e soprattutto,
occuparsene, porvi attenzione, prenderlo in cura» (Pulcini, 2009, p. 251). Mediante il
riferimento all’etica della cura, si evidenzia che l’altro per il quale il soggetto ha
responsabilità non è più l’”altro” generalizzato di una morale astratta, bensì l’”altro”
nella sua singolarità o, meglio, l’altro come persona35. In questa attenzione concreta
e contingenziale risiede il presupposto per un’effettiva cura del mondo, che implica
l’agire – in senso arendtiano – in esso per farsi carico del suo futuro:
Se, come abbiamo visto, la responsabilità per riguarda non il rendere conto del passato ma il farsi carico del futuro, ciò vuol dire anche che non possiamo fare a meno di un’immagine del futuro. Non possiamo cioè non chiederci quali potrebbero e dovrebbero essere gli esiti di una presa in carico delle sorti del mondo; o, in altri termini, quale mondo vogliamo costruire.36
Altrove37 Pulcini ha spinto la propria riflessione sulla cura del mondo fino a
tematizzare esplicitamente la presa in carico dei beni comuni. L’urgenza posta dalla
crisi ecologica e bioclimatica pone con una forza senza precedenti il problema della
sopravvivenza del mondo e dell’umanità. Alcuni dei “rischi globali” cui l’età
contemporanea deve far fronte sono infatti profondamente legati all’esaurimento
di quelle risorse naturali che, per la loro difficile escludibilità e alta sottraibilità38,
per riattivare nelle sue forme adeguate quella stessa paura, nella quale abbiamo individuato il presupposto primario per la percezione della propria vulnerabilità (…) in quanto il pericolo, il danno, il male tornano, sia pure episodicamente, a imporsi nella loro immediatezza, a essere, appunto, direttamente vissuti, sperimentati» (Pulcini, 2009, p. 250).
35 «L’etica della cura si delinea si delinea così come un’etica concreta, contingenziale e contestuale: essa privilegia l’attenzione all’unicità dell’altro, alla specificità della situazione, alle relazioni nelle quali il soggetto si trova di volta in volta a essere inserito» (ibidem, p. 257).
36 Pulcini, 2009, p. 263.
37 E. Pulcini, “Beni comuni: un concetto in progress”, in Politica & Società, Il Mulino, 3/2013, pp. 349-356.
38 Sono questi i requisiti “minimi” più diffusi nella letteratura per differenziare i beni comuni dai beni pubblici. Se infatti la distanza tra beni comuni e beni privati è in qualche misura autoevidente (i beni comuni sono tali perché rispondono a una finalità pubblica e dunque devono essere accessibili a tutti), quella tra beni comuni e beni pubblici è più sottile: mentre gli ultimi sono caratterizzati da difficile escludibilità e non rivalità (l’uso di un bene pubblico da parte di un soggetto non ne riduce le possibilità
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rientrano a pieno titolo nella definizione più accettata di commons. Poggiando sulla
fondamentale riflessione di Elinor Ostrom39, Pulcini evidenzia la possibilità di attivare
la spirito cooperativo propriamente umano che si origina nella dimensione empatica
dell’io per dar vita a quella gestione dei beni comuni che costituisce attuazione
concreta di un’etica della responsabilità per il mondo. L’occasione per riattivare tale
moto empatico sarebbe costituita proprio dallo scenario della globalizzazione, che
pone l’io dinnanzi a una «inedita interdipendenza degli eventi e delle vite»40 e
favorisce l’emergere del nuovo modello antropologico dell’homo empaticus41: «un
individuo che si percepisce come costitutivamente in relazione con l’altro e che
riscopre il bene della cooperazione [ed è dunque] capace di scongiurare, a partire
dalla consapevolezza del legame e della relazione con gli altri e con il mondo, la
catastrofe stessa del vivente e di ripristinare un equilibrio sostenibile con la
biosfera»42.
Ciò che emerge, in ultima analisi, dalla riflessione di Pulcini è la necessità di un
impegno innanzitutto soggettivo, “individuale”: dall’altro e dal mondo proviene «un
di utilizzo da parte di altri), i beni comuni sembrerebbero caratterizzati da difficile escludibilità e alta sottraibilità (il loro uso da parte di un soggetto riduce la possibilità di utilizzo e consumo da parte di altri). Tale definizione, che sarà approfondita con riferimento alla teoria di Garrett Hardin (The Tragedy of Commons, 1968), descrive esaurientemente i beni comuni tradizionalmente intesi, ovvero quelli materiali (acqua, aria, energia, clima, biodiversità); tuttavia essa necessita di una rimodulazione affinché possa abbracciare anche tutti quei beni immateriali (conoscenza, cultura, salute, informazione) la cui rilevanza sociale emerge con forza solo a partire dalla fine del Novecento e che la letteratura più recente – a partire dal fondamentale contributo di Elinor Ostrom – non esita a includere tra i beni comuni.
39 In particolare: E. Ostrom, Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, 1990, tr. it. Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio, 2006.
40 Pulcini, 2013, p. 353.
41 In opposizione tanto alla brama acquisitiva dell’homo oeconomicus (nelle due figure del Prometeo hobbesiano e del Narciso smithiano) quanto alla hybris predatoria dell’homo creator.
42 Ibidem, p. 354. È interessante notare come Pulcini evidenzi la natura intersoggettiva dell’io anche a partire da una specifica categoria di beni: i beni relazionali (amicizia, fiducia, solidarietà). L’essenza o contenuto di tali beni altro non è che la relazione stessa; essi si delineano, quindi, in una particolare situazione di reciprocità «in quanto è la relazione in sé che costituisce il bene e che contiene in sé, intrinsecamente la propria ricompensa» (ibidem, p. 355). Un aspetto, questo, che invoca la teoria del dono di ispirazione maussiana, la quale – in alternativa all’antropologia dell’homo oeconomicus e alla logica utilitarista e strumentale dell’individualismo possessivo – scommette «sulla capacità degli individui di alimentare una terza dimensione, tra mercato e Stato, fondata sulla gratuità e la reciprocità delle relazioni» (ibidem, p. 356). I contributi offerti dal paradigma antropologico del dono alla riflessione sui beni comuni sono oggetto del prossimo paragrafo del presente contributo.
19
muto ma urgente appello alla nostra responsabilità» (Pulcini, 2013, p. 354) che
chiama in causa l’io nella sua concretezza storica – l’io come persona, ogni e ciascuna
persona.
Una prospettiva diversa ma – nell’opinione di chi scrive – non inconciliabile rispetto
a quella di Pennacchi, la quale evidenzia come ogni progetto di gestione efficace dei
beni comuni non possa non confrontarsi con l’imprescindibilità di una mediazione
istituzionale, della dimensione pubblica e della statualità. Lo Stato di diritto, frutto
di un lento processo che – nell’età moderna – ha visto intrecciarsi la
democratizzazione dello spazio pubblico e la progressiva crescita dell’attenzione per
l’essere-in-comune e il “bene comune”, si basa su quel principio di terzietà che si
estrinseca nella mediazione istituzionale. Le istituzioni sono «il medium delle
relazioni sociali attraverso cui avvengono, in forme mediate intersoggettivamente,
l’elaborazione, il riconoscimento e la generalizzazione di significati sociali»43;
costituiscono pertanto il luogo di espressione pienamente politica di quella struttura
relazionale che resta implicita nella dimensione emotiva del singolo44.
In questo senso, la statualità – intesa come stateness e quindi come quella «ricca
architettura istituzionale presupposta dalla sfera pubblica à la Hannah Arendt»
(Pennacchi, 2013a, p. 375) – implica una partecipazione democratica attiva della
cittadinanza, la quale può aver luogo solo quando la dimensione etica dell’empatia,
la responsabilità dell’io per il mondo sia stata portata alla luce, educata, coltivata.
43 L. Pennacchi, “Crisi, nuovo modello di sviluppo, beni comuni”, in Politica & Società, Il Mulino, 3/2013, pp. 357-380.
44 Con questo passaggio dalla dimensione empatica privata alla dimensione cooperativa pubblica (mediata dalle istituzioni), la riflessione di Pennacchi sembra infine rimodulare presunto automatismo tra empatia ed essere-in-comune in senso proprio. Il ruolo di elaborazione dell’intersoggettività e dei significati sociali qui assegnato alla mediazione istituzionale si ricollega, in qualche misura, all’importanza della gestione attiva della relazione secondo Boella e alla concreta cura del mondo – in termini cooperativi – secondo Pulcini.
20
2. Lo sguardo antropologico: dal dono alla condivisione
2.1 Dono e comunità
Collocandosi in un continuum tra riflessione filosofica e paradigma antropologico del
dono – quale elemento istitutivo di legami sociali improntati alla reciprocità e alla
condivisione – la riflessione di Roberto Esposito sulla nozione di communitas45 è, in
questa sede, di particolare interesse. In contrapposizione ai comunitarismi identitari
novecenteschi, Esposito evidenzia la necessità di ripensare la comunità come
“entità” non sostanziale, costrutto relazionale prodotto dall’incontro del soggetto
con un’alterità costitutiva della sua stessa identità. Più che una sostanza, una res, un
“essere” comune, la comunità si configura come «l’essere “in comune” di
un’esistenza coincidente con l’esposizione all’alterità»46. Questa prima parte
decostruttiva della nozione, caratterizzata da implicazioni politicamente
intraducibili47, si deve unire a un’analisi del contenuto della relazione con l’alterità.
A tale contenuto si può pervenire attraverso un procedimento di scavo etimologico:
se i decostruzionisti francesi hanno rilevato – nella nozione di communitas –
soprattutto la dimensione del cum, secondo Esposito si rende necessario porre
nuova attenzione alla modalità in cui questo cum si manifesta, ossia al munus. Tale
termine incorpora le nostre nozioni di onere, dovere, tributo e dono, tanto da poter
essere definito come «legge del dono unilaterale nei confronti degli altri» (Esposito,
45 Si veda R. Esposito, Origine e destino della comunità, Torino, Einaudi, 1998. Il contributo di Esposito va contestualizzato in quel discorso – portato avanti parallelamente in Francia e in Italia da autori quali Jean-Luc Nancy (La communauté désoeuvrée, 1983), Maurice Blanchot (La communauté inavouable, 1983), Giorgio Agamben (La comunità che viene, 1990) – decostruttivo delle modalità sostanzialistiche secondo cui la nozione di comunità era stata intesa nell’intera filosofia novecentesca.
46 R. Esposito, “Comunità, immunità, biopolitica”, in A. Lucarelli e U. M. Olivieri (a cura di) “A piene mani”. Dono, dis/interesse e beni comuni, Diogene Edizioni, 2013, pp. 105-114 (cit. p. 106). Il volume è frutto delle ricerche portate avanti dall’associazione A piene mani (http://www.benicomuni.unina.it/), centrate sulla necessità teorica e pratica di approfondire il legame tra “dono” e “beni comuni” attraverso la categoria antieconomicista del “dis-interesse”.
47 È questa la critica fondamentale che Esposito muove ai decostruzionisti francesi, in primo luogo Nancy: l’essersi fermati alla pars destruens di una nuova concezione della comunità. L’idea di comunità come rinuncia alla propria identità individuale, come apertura progressiva all’altro da sé, risulta – per quanto necessaria – politicamente infruttuosa: «Sottraendo la comunità all’orizzonte della soggettività, Nancy ne rendeva estremamente problematica l’articolazione con la politica – non fosse altro per l’evidente difficoltà di immaginare una politica del tutto esterna alla dimensione soggettiva» (Esposito, 2013, p. 106).
21
2013, p. 106); ne consegue un’idea di communitas come «ciò che lega i suoi membri
in un impegno donativo dell’uno all’altro» (ibidem, p. 107). Esposito lega la nozione
di comunità a quella opposta di immunitas:
Se la comunità determina la rottura delle barriere di protezione dell’identità individuale, l’immunità costituisce il modo di ricostruirle in maniera difensiva ed offensiva contro qualsiasi elemento esterno in grado di minacciarla. Ciò può valere per i singoli individui, ma anche per le stesse comunità, assunte in questo caso nella loro dimensione particolare, immunizzate rispetto ad ogni elemento estraneo che appare minacciarle dall’esterno.48
Tale nozione richiama l’analisi di Pulcini sul comunitarismo endogamico49 ed è
proprio contro i rischi di un’immunizzazione esagerata, un’“autoimmunizzazione”
del corpo politico, che Esposito richiama la necessità di attivare nuovi spazi del
comune; spazi sempre più erosi dal quel meccanismo di appropriazione che si
estrinseca nei fenomeni opposti di privatizzazione50 e pubblicizzazione51. Il
rafforzamento della comunità – come legame sociale donativo – passa dunque
attraverso la riscoperta e l’ampliamento del comune, ciò che è «di tutti e di nessuno,
di nessuno perché di tutti» (ibidem, p. 113), sempre più costretto nella morsa tra
privato e pubblico52.
La nozione di comunità – come cum e munus – elaborata da Esposito si inserisce
nella riscoperta contemporanea del Saggio sul dono di Marcel Mauss53, la cui
48 Esposito, 2013, p. 107.
49 Cfr. § 1 del presente capitolo.
50 «Ad essere privatizzati sono state prima le risorse ambientali – l’acqua, la terra, l’aria, le montagne, i fiumi – poi gli spazi cittadini, gli edifici pubblici, le strade, i beni culturali; e infine le risorse dell’intelligenza, gli spazi della comunicazione, gli strumenti dell’informazione» (Esposito, 2013, p. 113).
51 «Il concetto di demanio, come proprietà pubblica dello Stato, ha costituito per un lungo periodo, ancora non esaurito, non l’opposto, ma il risvolto complementare della proprietà privata» (ibidem, p. 113).
52 Si prefigura qui il tema giuridico della triangolazione tra pubblico, privato e comune, che verrà approfondito nel § 4 del presente capitolo, con particolare riferimento alle riflessioni esposte in: U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Bologna, Il Mulino, 2007 (frutto dei lavori della Commissione Rodotà); M. R. Marella (a cura di) Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, Ombre Corte, 2012; S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi, 2012.
53 M. Mauss, "Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés archaïques", in L’Année sociologique, 1923-1924 (1), pp. 30-186 ; tr. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle
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attualità deriva dalla «necessità sempre più avvertita di ricostituire condizioni in
grado di “radicare” dentro la società e i suoi principi morali comportamenti non
dettati unicamente da logiche strumentali e utilitaristiche, ma improntati alla fiducia
e alla cooperazione reciproca»54. Il costrutto del dono – originariamente
antropologico, ma di portata più ampia perché volto a fornire una prospettiva
generale, un fondamento non utilitarista per la comprensione della socialità umana
– è entrato a far parte dei domini di diverse discipline.
Nell’ambito di questo contributo, si approfondiranno alcuni ambiti di ricerca
antropologica, sociologica ed economica che, a partire dal paradigma del dono e dal
suo legame con i temi della condivisione e della reciprocità, costituiscono un utile
strumento per la comprensione delle dinamiche contemporanee dell’”essere-in-
comune” e, quindi, per la costruzione di una prospettiva più ricca sulle modalità di
gestione dei beni comuni.
2.2 Comunità oltre la relazione: dono e knowledge commons
Sono di particolare interesse ai fini del presente elaborato alcuni studi dedicati alla
lettura, attraverso la “lente” del dono, delle dinamiche attuali di produzione e
condivisione della conoscenza e, in particolare, della digital knowledge, per la quale
è ormai acquisito lo status di bene comune55.
società arcaiche, Torino, Einaudi, 2002. Tale “riscoperta” comincia in Francia e in Italia attorno agli anni Ottanta, come testimoniato dalla fondazione del M.A.U.S.S. (Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales) e della connessa Revue (http://www.revuedumauss.com.fr), diretta da Alain Caillé. Alcuni contributi fondamentali alla rielaborazione contemporanea del paradigma del dono – in primis, A. Caillé, Le tiers paradigme. Anthropologie du don, Paris, La Découverte, 1994 (tr. it. Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998); J. T. Godbout, L’esprit du don, Paris, La Découverte, 1992 (tr. it. Lo spirito del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1993) – sono nati proprio nel contesto del M.A.U.S.S. per sfidare l’ideologia utilitaristica e la teoria dello scambio allora dominante nelle scienze sociali.
54 G. Provasi, “Dono, reciprocità, legame sociale. La lezione sempre attuale del «Saggio sul dono» di M. Mauss”, in Iride, 2/2014, pp. 273-296, cit. p. 273.
55 Intendiamo qui per “conoscenza digitale” ogni forma di produzione e condivisione di dati, informazioni e conoscenze attraverso le nuove tecnologie digitali. Sono proprio le opportunità e le sfide poste dalla digitalizzazione a consentirci di identificare fruttuosamente la conoscenza come commons. In primo luogo, i fenomeni di peer production diffusi in Rete non possono spiegarsi con il solo ricorso agli assunti di base dell’economia di mercato e richiedono un approccio che valorizzi la possibilità di azioni condivise non motivate da un interesse strettamente egoistico. In secondo luogo, perché la
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Marco Aime e Anna Cossetta56 hanno affrontato il tema dello scambio in rete su due
livelli: quello dell’oggetto dello scambio, nella fattispecie l’informazione, e quello
della relazione in sé che lo scambio in rete sembra produrre. A partire da questi due
ordini d’indagine, gli autori si propongono di verificare «se l’ipotesi maussiana, che
vede il dono quale motore che promuove legami, trova riscontro nel web» (Aime e
Cossetta, 2010, p. 7). In altri termini, molti fenomeni di scambio d’informazione e
conoscenza in rete sembrano originarsi da fondamenti diversi rispetto a quelli dello
scambio commerciale e su tali fenomeni si instaurano comunità non territoriali che
sembrano richiamare e – allo stesso tempo – non esaurirsi nei modelli di comunità
tradizionale. L’«etnografia della Rete» (ibidem, p. 8) che i due autori portano avanti
è un tentativo di leggere questi nuovi fenomeni relazionali attraverso alcune delle
principali elaborazioni del paradigma del dono.
A partire dalla tesi fondamentale di Mauss (1923-24) – secondo cui il dono è alla base
di legami sociali duraturi in quanto pratica costituita dai tre liberi gesti del donare,
del ricevere e del ricambiare – Caillé (1994) ha elaborato la nozione di valore di
legame57: il dono sarebbe motivato dalla capacità dei beni o servizi donati di creare
e riprodurre relazioni sociali. Il dono si colloca pertanto al di fuori dell’orizzonte tanto
condivisione digitale dell’informazione pone alcune social issues che accomunano la conoscenza ad altri tipi più tradizionali di commons (in primis le risorse naturali). Benché la conoscenza non si caratterizzata da sottraibilità (o rivalità), essa è – nell’era digitale – sempre più soggetta a fenomeni di mercificazione, inquinamento o degradazione, sovrasfruttamento. Sono questi i presupposti a partire dai quali Charlotte Hess ed Elinor Ostrom introducono l’identificazione della conoscenza come bene comune: «knowledge as a shared resource, a complex ecosystem that is a commons—a resource shared by a group of people that is subject to social dilemmas» (C. Hess e E. Ostrom (a cura di), Understanding Knowledge as a Commons. From Theory to Practice, Cambridge, The MIT Press, 2007, p. 3; tr. it. La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Bruno Mondadori, 2009). L’apporto di questo testo, fondamentale per individuare e analizzare nuove categorie di beni comuni immateriali, sarà approfondito nel prossimo capitolo.
56 M. Aime e A. Cossetta, Il dono al tempo di Internet, Torino, Einaudi, 2010. La ricerca di Cossetta costituisce un punto di raccordo particolarmente importante tra l’ambito dell’economia del dono e l’etica della cura di matrice femminista (si veda il § 1.3 del presente capitolo, in particolare n. 20, p. 10). Per l’approfondimento di tale legame si rinvia a: A. Cossetta, “Il dono, le donne e Internet”, in G. Vaughan (a cura di), Le radici materne dell’economia del dono, Milano, VandA, 2017; E. Pulcini, “La cura è un dono?”, ibidem, 2017; G. Vaughan, Homo Donans. Per un’economia del materno, Milano, VandA, 2015.
57 Alternativo al valore d’uso e al valore di scambio, definibili come la capacità dei beni (o servizi) scambiati di – rispettivamente – soddisfare determinati bisogni piuttosto che acquistare denaro o altri beni (o servizi).
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della pura gratuità58 quanto dello scambio commerciale59. Come sottolineato
nell’elaborazione di Godbout (1992) il dono è una prestazione effettuata sì con
l’intenzione di costruire un legame sociale (ovvero con la speranza che colui al quale
si dona effettui la scelta di accettare e ricambiare il dono), ma senza garanzia di
restituzione. Proprio su questa irriducibile compresenza di obbligo morale e libertà
si basa la capacità del dono di costituire legami sociali.
Il problema principale posto dalle relazioni di scambio online, qualora si voglia
analizzarle attraverso la lente del dono, è costituito dal fatto che esse si sviluppano
per lo più tra estranei, quindi danno vita più a legami deboli che non a legami forti e
duraturi nel tempo. Un chiaro esempio è fornito da Wikipedia, piattaforma nata con
lo scopo di creare e distribuire nel maggior numero di lingue possibili
un’enciclopedia libera, ricca di contenuti e, soprattutto, costruita con gli apporti
volontari di chiunque decida di partecipare allo scopo (senza obbligo di
registrazione)60. Chiunque decida di contribuire, dona il proprio sapere e il proprio
tempo in modo generalizzato e indifferenziato, senza l’attesa di un ritorno se non il
proseguimento del progetto stesso:
58 Come ben riassunto dagli autori: «Non abbiamo donato e basta. Lo abbiamo fatto perché speriamo che questo gesto inneschi una dinamica di reciprocità che duri nel tempo. Il dono prelude la possibile creazione di una relazione» (Aime e Cossetta, 2012, p.16). Per approfondire lo scarto tra dono e “regalo” o gratuità, si veda ad esempio M. Douglas, “Foreword: No free gifts”, prefazione a M. Mauss, The gift. The form and reason for exchange in archaic societies, London and New York, Routledge, 1990 (tr. it. "Nessun dono è gratuito", in Equilibri, 3/2007, pp. 405-420). Il riferimento al dono come dinamica di reciprocità costituisce il fondamentale legame di tale paradigma con la teoria delle forme di scambio di Karl Polanyi e, quindi, con l’economia civile e l’economia della condivisione.
59 «Gli elementi di differenza [tra dono e scambio mercantile] sono più di uno, ma si possono riassumere in una sola parola: libertà» (Aime e Cossetta, 2010, p. 13). Colui a cui si dona è infatti libero di decidere se, quando e come ricambiare; il fatto che la contro-prestazione sia incerta e indeterminata sia nel tempo che nel modo rende evidente la differenza tra la natura del donare e un qualsiasi scambio commerciale, contrattualmente definito.
60 Come si legge sul sito di Wikimedia Foundation, l’organizzazione no-profit alle spalle del progetto, Wikipedia «è un progetto collaborativo sviluppato e costantemente migliorato da milioni di persone (…): chiunque può aiutare a redigerla, in ogni momento. È divenuta la più grande raccolta di conoscenza condivisa nella storia dell'uomo. Le persone che la supportano sono unite dal loro amore per l'apprendimento, dalla loro curiosità intellettuale, e sono consapevoli del fatto che si possa sapere molto di più insieme, di quanto uno di noi lo possa da solo. La Wikimedia Foundation è un'organizzazione no-profit che gestisce Wikipedia e altri progetti di conoscenza gratuiti. (…) La nostra missione è di sviluppare una comunità globale di volontari che raccolgano e sviluppino la conoscenza mondiale e di mettere a disposizione tale conoscenza di tutti, gratuitamente, per ogni scopo» (Fonte: https://wikimediafoundation.org/wiki/FAQ/it).
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La ricompensa per il lavoro svolto può venire dal fatto di essere parte di un sistema che in qualche modo porterà benefici anche al donatore, che di Wikipedia non è solo collaboratore, ma sarà certamente anche fruitore. Oppure da un appagamento emotivo, la realizzazione di un ideale di democrazia condivisa e di un sapere costruito dal basso.61
Appare evidente che, da un punto di vista emico, in questa pratica di produzione e
gestione condivisa della conoscenza è in atto una forma di dono. Benché essa non
sia esente da “contatti” con pratiche più facilmente collocabili entro un orizzonte
commerciale, assumere la prospettiva di un attore interno al sistema62 consente di
rilevare come in rete si diano forme di attività collaborative animate dal desiderio di
costituire comunità. Tuttavia tali comunità sono essenzialmente comunità di
estranei, deterritorializzate e spersonalizzate, poiché – pur basandosi su spazi
mentali comuni e territori culturali condivisi che la rete può aiutare a costituire a
dispetto delle costrizioni geografiche – in esse mancano o mutano aspetti
fondamentali della relazione face-to-face. Gli autori arrivano dunque a concludere
che le comunità generate dalle pratiche della condivisione e del dono online,
presenti in modalità interstiziali rispetto alle dinamiche di mercato, producono per
lo più “comunità senza relazioni”, ovvero comunità immaginate63.
61 Aime e Cossetta, 2010, p. 54.
62 È utile ricordare che Wikimedia Foundation, rifiutando introiti di tipo pubblicitario, si regge quasi esclusivamente sulle donazioni volontarie, destinate soprattutto al mantenimento dello staff (294 persone tra comparto tecnologico, rapporti con la comunità, servizi globali e gestione finanziaria e amministrativa) e delle infrastrutture tecnologiche (server, costi di banda, alloggiamento dei siti che consentono il funzionamento dei diversi progetti della fondazione). (Fonte: https://wikimedia foundation.org) Benché sia una fondazione senza scopo di lucro, non può certo dirsi estranea al sistema di mercato; è dunque possibile affermare, in una certa misura, che «il dono online non è quindi complementare ai rapporti mercantili: ne è parte integrante e indissolubile» (A. Delfanti, M. Aime, P. Magaudda, F. Dei, “Internet fra dono e mercato. Discussione su: Marco Aime e Anna Cossetta, Il dono al tempo di Internet, 2010”, in Studi Culturali, Il Mulino, 1/2011, pp. 107-123; cit. p. 109). Tuttavia la contiguità con i fenomeni di mercato «non indebolisce lo spirito di chi agisce in rete secondo principi antiutilitaristi» (ibidem, p. 112).
63 Locuzione introdotta inizialmente Benedict Anderson (B. Anderson, Imagined Communities. Reflection on the Origin and Spread of Nationalism, London and New York, Verso, 1983, tr. it. Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 2000) per dar conto dell’accezione in cui una nazione possa dirsi “comunità”: «In an anthropological spirit, then, I propose the following definition of the nation: it is an imagined political community (…). It is imagined because the members of even the smallest nation will never know most of their fellow-members, meet them, or even hear of them, yet in the minds of each lives the image of their communion» (op. cit., p. 6).
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In relazione tanto al contributo di Aime e Cossetta quanto alle sue stesse ricerche
sul tema del file-sharing musicale64, Fabio Dei evidenzia65 come proprio gli strumenti
di mediazione dell’attività online possano costituire valide strutture di
coordinamento utili a risolvere il dilemma del free-rider teorizzato da Garrett
Hardin66. Il rapporto tra gli utenti in rete è infatti mediato da software che
incorporano una determinata «agency sociale» (Delfanti et al., 2011, p. 121) e
riescono a «coordinare le pratiche di un gran numero di sconosciuti verso il bene
comune» (ibidem, p. 121). Nel fenomeno Wikipedia, è lo stesso MediaWiki –
software collaborativo alla base del progetto – a fondarsi sull’opportunità data agli
utenti di aggiungere, modificare o cancellare le voci dell’enciclopedia. Nel caso del
file-sharing, spesso il software è progettato in modo da elidere alla radice la
possibilità di comportamenti individualisti free-rider: gli utenti sono incentivati e
talvolta costretti a condividere, poiché il numero complessivo di utenti aumenta –
anziché ridurre – la disponibilità del bene.
Il caso del file-sharing è emblematico anche per quanto concerne i rapporti tra dono
e scambi commerciali, poiché la condivisione online di file musicali è evidentemente
parassitaria rispetto al mercato dell’industria musicale. Tuttavia, è proprio in «quei
punti incerti e diffusi nei quali il rapporto morale tra soggetti fa attrito rispetto al
64 F. Dei, “Tra le maglie della rete: il dono come pratica di cultura popolare” in M. Aria, F. Dei (a cura di) Culture del dono, Roma, Meltemi, 2008. Anche la pratica del file-sharing musicale può considerarsi una forma di condivisione online della conoscenza – e dunque di gestione cooperativa di un knowledge commons – facendo riferimento agli assunti di Hess e Ostrom: «Knowledge as employed in this book refers to all types of understanding gained through experience or study, whether indigenous, scientific, scholarly, or otherwise nonacademic. It also includes creative works, such as music and the visual and theatrical arts» (Hess e Ostrom, 2007, p. 8).
65 Delfanti et al., 2011.
66 G. Hardin, “The Tragedy of the Commons”, Science, 162/1968, pp. 1243-1248. Il dilemma del free-rider, immaginato da Hardin nel contesto di un pascolo aperto a tutti, può riassumersi come segue: ogni mandriano ha razionalmente interesse ad accrescere la mandria portata al pascolo nel terreno comune, perché il vantaggio che ne ricava (la possibilità di vendere più capi di bestiame) è maggiore dello svantaggio prodotto dall’overgrazing, dato che quest’ultimo rischio viene condiviso con tutti gli altri mandriani che sfruttano la risorsa. Il vantaggio offerto dalla risorsa comune è, dunque, anche la sua “tragedia”: ogni mandriano è bloccato in un sistema razionale che lo spinge ad aumentare la propria mandria senza limiti per sfruttare il più possibile una risorsa limitata. La libertà nella gestione di una risorsa comune, in assenza di privatizzazione o coercizione pubblica, è la rovina della risorsa stessa.
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mercato» (ibidem, p. 119) che il dono va ricercato. Lo hau67 – lo spirito della cosa
donata che vuole “tornare” al punto di partenza – non è infatti un principio
strutturale, tale da creare un circuito di scambio totalmente altro rispetto a quello
di mercato; esso è piuttosto «una forza di attrito morale che si insinua nel
meccanismo dello scambio» (ibidem, p. 119). Tali “attriti” sono particolarmente
evidenti nelle forme attuali di condivisione della conoscenza: il bene oggetto di
scambio è immateriale e comporta costi bassi o nulli di trasferimento, in modo tale
che lo scambio stesso non impoverisce colui che dona, mentre la fluidità e la
mutevolezza dei sistemi di condivisione ne rendono pressoché impossibile il
controllo attraverso meccanismi classici di mercato68. Infine, tali pratiche di
condivisione cooperativa, originariamente locali o interstiziali, vengono proiettate –
proprio grazie alla natura reticolare di Internet – su comunità molto ampie,
incoraggiando la riproduzione e proliferazione di pratiche analoghe. È in tali «aree
di economia morale» (Delfanti et al., 2011, p. 121), non completamente riconducibili
né a logiche utilitaristiche né a logiche redistributive69, che il dono emerge.
3. Lo sguardo socioeconomico: relazione, reciprocità, condivisione
3.1 Verso la cooperazione: dall’homo oeconomicus all’animal civile
La riscoperta del valore del dono come pratica contigua – e non semplicemente
alternativa – sia allo scambio di mercato sia alla redistribuzione è al centro del
67 Per un approfondimento sulla nozione di hau in Mauss e nelle interpretazioni del dono successive, si veda M. Aria, “Dono, hau e reciprocità. Alcune riletture antropologiche di Marcel Mauss” in M. Aria, F. Dei (a cura di) Culture del dono, Roma, Meltemi, 2008.
68 «Basti pensare al problema del copyright, che l’industria culturale, nella sua età dell’oro, proteggeva per mezzo dei supporti materiali attraverso i quali venivano distribuiti la musica, il cinema, la letteratura. Oggi questo non è impossibile, ma certo è molto più difficile, e i mezzi tecnici che dovrebbero impedire l’illecita riproduzione del software sono costantemente aggirati dagli hacker. Si assiste dunque al paradosso che proprio le grandi aziende sono costrette a scendere sul terreno morale per convincere i consumatori a rispettare il copyright» (Delfanti et al., 2011, p. 120).
69 Si fa qui riferimento alla teoria del dono come “terzo paradigma”, elaborata in particolare da Caillé (Caillé, 1994). La pratica sul dono può essere interpretata come espressione di un paradigma antropologico diverso tanto da quello utilitarista dell’homo oeconomicus, che presuppone l’originarietà dell’egoismo individualista, quanto da quello collettivista di matrice durkheimiana, che antepone cultura e società al singolo individuo.
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pensiero dell’economia civile70: scambio di equivalenti, redistribuzione e reciprocità
sono da essa considerati principi coessenziali a fondamento di ogni ordine sociale.
Alla base di questo orientamento di pensiero vi è l’intento di rileggere tutta
l’economia a partire da un paradigma ermeneutico relazionale71, in grado di
superare le aporie dei paradigmi individualistico e olistico. Se infatti il primo riduce
il problema economico allo studio del comportamento del singolo agente,
analizzando solo in un secondo momento gli esiti collettivi ottenuti per aggregazione
dei risultati individuali, il secondo si limita a studiare il funzionamento del sistema
nel suo complesso, rimanendo indifferente rispetto alle credenze e alle motivazioni
del singolo. Entrambe le prospettive operano assumendo la relazione in modo
preanalitico e con ciò dimenticano l’oggetto essenziale dell’economia, ovvero «le
relazioni tra uomini che vivono in società» (Zamagni, 2005, p. 82)72. L’esigenza
attuale di ripensare la reciprocità deriva dal crescente e diffuso disagio verso
l’individualismo “inospitale” della tradizione economica dominante, imperniato sul
paradigma antropologico dell’homo oeconomicus:
Ossessivamente ripiegato sulla propria soggettività – analiticamente rappresentata mediante una mappa di preferenze – l’uomo contemplato dalla teoria dominante è proiettato verso un’autonomia e una separatezza del tutto inospitali, dimentico di ogni relazione con l’altro che non sia funzionale al perseguimento della sua funzione-obiettivo.73
70 Per una densa e recente introduzione a questa tradizione di pensiero tipicamente italiana, oggi portata avanti in primis da Luigino Bruni e Stefano Zamagni, si veda L. Bruni e S. Zamagni, L’economia civile. Un’altra idea di mercato, Bologna, Il Mulino, 2015.
71 S. Zamagni, “La svolta antropologica in economia. Il ritorno della relazionalità”, in La società degli individui, 24/2005, pp. 81-90.
72 «Tra le tante questioni aperte che la nostra modernità ci ha lasciato in eredità v’è quella che riguarda il dissidio irrisolto tra quelle linee di pensiero che, per portare alla luce importanti dinamiche della nostra società, hanno finito col dissolvere la soggettività nel collettivo (si pensi al marxismo o al neo strutturalismo) e quelle linee di pensiero che hanno bensì esaltato la soggettività, ma al prezzo di ridurre il sociale a mera aggregazione di preferenze individuali. (È questo l’esito cui giunge l’individualismo nelle sue versioni estreme perché confonde la socialità, che è anche degli animali, con la socievolezza, che è tipica degli uomini).» (S. Zamagni, “Dono gratuito e vita economica”, in F. Brezzi e M. T. Russo (a cura di), Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono, Torino Bollati Boringhieri, 2011; cit. p. 117).
73 Zamagni, 2005, p. 82. Per un approfondimento sulle origini e le implicazioni filosofiche del paradigma dell’homo oeconomicus, si veda E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
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Tra le debolezze più profonde del modello dell’homo oeconomicus e della connessa
rational choice theory, Stefano Zamagni evidenzia l’insussistenza, nella realtà,
dell’ipotesi di additività74 e, nei conseguenti tentativi di ampliamento del modello,
l’incapacità di quest’ultimo di spiegare l’azione umana in presenza di vincoli non
oggettivamente determinabili, come identità e relazioni interpersonali. Infatti, ogni
tentativo da parte della teoria dominante di modellizzare le motivazioni intrinseche,
non strumentali, dell’attore economico si scontra con il limite del paradigma
individualista sotteso alla teoria stessa. Essa «stenta a realizzare che quanto
concerne la persona non va cercato solo nelle persone stesse, ma tra di loro»75
poiché assume come proprio fondamento un individuo formato già prima e
indipendentemente da ogni relazione, alla quale non può che attribuire un valore
meramente strumentale. La stessa reciprocità viene allora interpretata come un
caso specifico dello scambio di equivalenti, ovvero come il perseguimento da parte
degli agenti di un auto-interesse (self-interest) illuminato. Al contrario, Zamagni
illustra le principali qualificazioni della reciprocità, dal punto di vista dell’economia
civile, proprio per contrasto con lo scambio di equivalenti. Si offre di seguito (Figura
1.1) una panoramica di tale opposizione.
74 L’assunto alla base del modello di rational choice è che le motivazioni estrinseche (strumentali) si sommino, rafforzandole, alle motivazioni intrinseche (non strumentali e relative all’identità personale). In questo modo la scienza economica dominante ha potuto limitare il campo d’indagine all’ambito cognitivo dell’attore economico, fondando solo su questo i propri modelli predittivi. Questa ipotesi è negata dai fenomeni di crowding out (spiazzamento) e di crowding in tra i due tipi di motivazioni, oggi ampiamente studiati dalla letteratura delle scienze sociali. Un esempio classico del fenomeno di spiazzamento fa riferimento alla promessa di un pagamento per la donazione di sangue, che sembra ridurre sia il numero delle donazioni sia la qualità del sangue donato (si veda R. Titmuss, The Gift Relationship, Allen & Unwin, London 1970). Questi fenomeni mostrano che «l’impiego di incentivi economici non solamente riduce l’autodeterminazione e l’insieme delle possibilità di espressione – ricevendo l’incentivo, la persona intrinsecamente motivata si vede ridotte le possibilità di manifestare comportamenti coerenti con il suo sistema di valori – ma mina alla base il sentimento di autostima (la self-esteem, di cui parlava Adam Smith): ricevere un pagamento per un’azione che il soggetto avrebbe comunque compiuto diminuisce la considerazione sociale, cioè il social reward» (Zamagni, 2005, p. 87-88).
75 S. Zamagni, L’economia come se la persona contasse. Verso una teoria economica relazionale, AICCON Working Paper, 2006; cit. p. 11.
30
Figura 1.1 – Caratteri della reciprocità per rapporto allo scambio di equivalenti76
È importante evidenziare che la gratuità propria del dono, nella prospettiva
dell’economia civile, non coincide con l’assenza di interesse, bensì con l’interesse
per l’altro, ovvero per la costruzione di un legame: è «lo specifico interesse a dar vita
alla relazione tra donatore e donatario a costituire l’essenza dell’azione donativa»77.
Questo interesse si dà nella forma dell’aspettativa che colui a cui si dona farà
altrettanto, in un tempo successivo. La gratuità del dono non si identifica, dunque,
per la semplice assenza di remuneratività, per la spontaneità dell’azione, per il
beneficio arrecato ad altri: sua caratteristica essenziale è la capacità di costruire
legami.
È proprio questa caratteristica che differenzia l’azione autenticamente gratuita, dalla beneficenza privata, tipica della filantropia. Infatti, la forza del dono gratuito non sta nella cosa donata o nel quantum donato – così è invece nella filantropia, tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito filantropico – ma nella speciale cifra che il dono rappresenta per il fatto di costituire una relazione tra persone. In altri termini, mentre la filantropia genera quasi sempre dipendenza nel destinatario dell’azione filantropica, l’azione gratuita genera invece reciprocità.78
76 Elaborazione tabulare riassuntiva delle differenze tra reciprocità e scambio di equivalenti proposte in S. Zamagni, “Dono gratuito e vita economica”, in F. Brezzi e M. T. Russo (a cura di), Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.
77 L. Bruni, S. Zamagni (a cura di), Dizionario di economia civile, Roma, Città Nuova, 2009, p. 9.
78 S. Zamagni, L’economia come se la persona contasse. Verso una teoria economica relazionale, AICCON Working Paper, 2006; cit. pp. 12-13.
- Non vi è accordo previo sul prezzo: A si muove liberamente verso B sulla base dell’aspettativa che B farà altrettanto, in un tempo successivo, nei suoi confronti o nei confronti di C.
- Il valore di quanto B darà ad A (oppure a C) sarà proporzionale alle capacità di B.
- Il primum movens è la gratuità del dono.
- La determinazione del prezzo precede, in senso logico, i trasferimenti tra A e B.
- Il trasferimento da B ad A non è libero, ma dipende da quello da A e B.
- Il valore di quanto B darà ad A deve essere equivalente a quanto A ha dato a B.
- Il primum movens è il perseguimento di un interesse individuale.
Reciprocità
Scambio di equivalenti
31
Inoltre, il riferimento a un “terzo” – oltre a colui che dona e a colui cui si dona –
consente di non chiudere la relazione di reciprocità entro i confini della sola
prossimità, ovvero del phìlos, «il mio eguale, il mio vicino per cultura ed etnia»: «il
senso della gratuità oggi è quello di aprire la fraternità, di andare oltre la prossimità
che si fonda sul rigetto immunologico dell’estraneo e del diverso» (Zamagni, 2006,
p. 20). È questa la principale differenza tra dono intimamente gratuito e dono non
gratuito (ovvero dono come regalo): «nel dono come regalo, ti do per ricevere – è
questa la logica dello scambio di doni, del gift exchange - ; nel dono gratuito ovvero
nel dono come reciprocità, ti do perché tu possa a tua volta dare (non
necessariamente a me)» (Zamagni, 2006, p. 16). In ciò risiede la capacità del dono
gratuito, della reciprocità, di fondare il legame sociale umano.
Tematizzare la reciprocità in economia significa rivalutare la valenza esplicativa
dell’intersoggettività non come mera interazione sociale (anonima, impersonale,
strumentale), bensì come relazione interpersonale, in cui rilevano sia l’identità dei
soggetti coinvolti, in quanto persone, sia la “potenza del tra”, in quanto «categoria
primordiale della realtà umana» (Zamagni, 2006, p. 3). La prospettiva di studio
dell’economia civile79, aprendosi a un paradigma antropologico originariamente
relazionale, intende dimostrare che «non c’è opposizione tra identità (l’essere per
sé) e relazione (l’essere per l’altro), e quindi che l’interesse non può essere il solo
fondamento dell’associazione tra gli uomini. La buona società in cui vivere non può
fare a meno della reciprocità» (Zamagni, 2005, p. 90). Per spingere la scienza
economica oltre i confini della propria crescente autoreferenzialità e renderla
capace di fronteggiare problemi quali «l’aumento endemico delle disuguaglianze, lo
scandalo della fame, la ricorrenza di crisi finanziarie di vaste proporzioni, l’irrompere
dei conflitti identitari che si aggiungono ai ben noti conflitti di interesse, il benessere
e malessere lavorativo, i paradossi della felicità, la sostenibilità dello sviluppo, le
79 «L’economia come se la persona contasse: questa potrebbe essere la perifrasi chiamata a sintetizzare il nucleo del programma di ricerca dell’economia civile» (L. Bruni, S. Zamagni (a cura di), Dizionario di economia civile, Roma, Città Nuova, 2009; cit. p. 12).
32
organizzazioni» (Bruni e Zamagni, 2009, p. 7), il confronto con l’etica, con la
dimensione del “noi” costituita dalla relazione di reciprocità, non può essere eluso.
C’è dunque bisogno di passare dall’homo oeconomicus all’animal civile e dunque di far posto al principio del dono dentro (non a latere) la teoria economica.80
L’accoglimento del principio di reciprocità accanto a scambio di equivalenti e
redistribuzione è anche la via, nella prospettiva dell’economia civile, per sciogliere il
problema della gestione dei beni comuni. In un contributo specificamente dedicato
all’apporto dell’economia civile in materia di beni comuni81, Zamagni identifica
questa categoria di beni in funzione dei tradizionali criteri di escludibilità e rivalità (o
sottraibilità)82. Di quest’ultimo, tuttavia, non considera la “classica” accezione
negativa – secondo la quale il consumo o utilizzo del bene da parte di un soggetto
diminuisce le possibilità di consumo o utilizzo del medesimo bene per altri soggetti
– bensì un’accezione che si potrebbe definire positiva, poiché guarda al consumo
congiunto o rivale in termini di vantaggio congiunto:
80 Bruni e Zamagni, 2009, p. 9.
81 S. Zamagni, “Beni comuni ed Economia Civile”, in L. Sacconi e S. Ottone (a cura di) Beni comuni e cooperazione, Bologna, Il Mulino, 2015.
82 Il criterio della subtractability (o rivalry) viene introdotto in letteratura proprio al fine di individuare la natura delle common-pool resources, idenfiticabili con beni comuni per lo più materiali (E. Ostrom e V. Ostrom, Public Economy Organization and Service Delivery, Workshop Working Paper, “Financing the Regional City Project” meeting of the Metropolitan Fund, University of Michigan, Dearborn, MI, October 20, 1977). Un bene comune materiale si dice sottraibile o rivale (nel consumo) perché l’uso del bene da parte di un soggetto sottrae qualcosa alla disponibilità dello stesso bene per altri. Si riporta di seguito la tradizionale individuazione delle common.pool resources (accanto a beni pubblici, beni privati e beni di club) in funzione dei criteri di escludibilità e sottraibilità:
SUBTRACTABILITY
Low High
EXC
LUSI
ON
Dif
ficu
lt
Public goods Useful knowledge Sunsets
Common-pool resources Libraries Irrigation system
Easy
Toll or club goods Journal subscriptions Day-care centers
Private goods Personal computers Doughnuts
Fonte: Hess e Ostrom, 2007.
33
Comune (…) è il bene che è rivale nel consumo ma non è escludibile; ed è tale che il vantaggio che ciascuno trae dal suo uso non può essere separato dal vantaggio che altri pure traggono da esso. Come a dire che il beneficio che il singolo trae dal bene comune si materializza assieme a quello di altri, non già contro (come accade col bene privato) e neppure a prescindere (come accade col bene pubblico).83
Ecco che allora la considerazione del comportamento reciprocante84 – ossia di chi
accoglie la reciprocità come un «dare senza perdere e un ricevere senza togliere»
(Zamagni, 2015, p. 59) – amplia lo sguardo oltre le dicotomiche soluzioni di gestione
privatistica e pubblicistica, fino a far emergere la possibilità di una gestione
essenzialmente comunitaria dei beni comuni. Alla base della tragedia teorizzata da
Hardin vi è infatti l’assunto secondo cui l’individuo non può che scegliere la
massimizzazione del proprio interesse, non considerando affatto l’interesse
collettivo alla conservazione e all’utilizzo del bene comune: è il modello di razionalità
strumentale ovvero di homo oeconomicus – individualista e autointeressato – a
produrre l’inevitabilità della scelta tra soluzione privatistica e pubblicistica nella
gestione dei beni comuni. Si riportano di seguito (Tabella 1.1) le principali obiezioni
sollevate da Zamagni contro entrambe le opzioni di gestione.
Tabella 1.1 – Criticità delle soluzioni privatistica e pubblicista
per la gestione dei beni comuni85
Soluzione privatistica Soluzione pubblicistica
Asimmetria tra libertà di vendere e libertà di acquistare nel caso di beni essenziali
(esempio: acqua), i quali non hanno sostituti.
Problema del finanziamento, soprattutto in contesti di crisi della finanza pubblica.
83 Zamagni, 2015, p. 58.
84 «…quello cioè di chi accoglie il principio di reciprocità: “ti do o faccio qualcosa affinché tu possa a tua volta dare o fare qualcosa, in proporzione alle tue capacità, ad un terzo o, se del caso, a me”. (…) La reciprocità, dunque, è un dare senza perdere e un ricevere senza togliere» (Zamagni, 2015, p. 59).
85 Elaborazione tabulare riassuntiva principali ragioni di inapplicabilità e/o inefficienza delle soluzioni privatistica e pubblicistica per la gestione dei beni comuni esposte in S. Zamagni, “Beni comuni ed Economia Civile”, in L. Sacconi, S. Ottone (a cura di) Beni comuni e cooperazione, Bologna, Il Mulino, 2015.
34
Incapacità del mercato di rispondere al bisogno di beni essenziali in mancanza di
potere d'acquisto (il mercato non soddisfa bisogni, bensì preferenze solvibili).
Morbi specifici dell'ente pubblico, nelle sue configurazioni centrali e periferiche:
burocratizzazione e rent-seeking (ricerca della rendita).
Incapacità del mercato di distinguere tra preferenze eticamente fondate e meri
desideri.
Impossibilità di gestione dei global commons (clima, biodiversità) per via dell'assenza di un'autorità pubblica
globalmente riconosciuta.
Soluzione cap and trade (proprietà pubblica, gestione privata)
Soggetta a fenomeni di “cattura” del regolatore
da parte di chi sarebbe tenuto a rispettarne le regole.
A produrre l’inapplicabilità o l’inefficienza di entrambe le soluzioni è – secondo
Zamagni – la mancanza dell’idea di comunità, ovvero del legame di reciprocità che
sussiste tra le persone che fruiscono congiuntamente del bene comune. In assenza
di tale consapevolezza, «né il contratto sociale hobbesiano che affida al Leviatano il
compito di scongiurare il rischio dell’escludenza, né l’individualismo libertario che
affida alla coscienza dei singoli il compito della autolimitazione, potranno mai
costituire soluzioni soddisfacenti al problema dei beni comuni» (Zamagni, 2015, p.
66)86.
86 Zamagni, 2015, p. 66. La proposta di Zamagni per la gestione, nelle condizioni storiche attuali, dei beni comuni – in particolare dei servizi pubblici locali – è l’istituzione di imprese cooperative multi-stakeholder, in cui la partecipazione alla governance delle risorse e dell’impresa non sia limitata a una sola categoria di portatori d’interesse (in primis gli utenti e il management), ma si allarghi a includere anche lavoratori e investitori di capitale di rischio. Affinché tale forma di gestione sia coerente con la natura dei beni comuni che mira a governare e soprattutto efficace – ovvero affinché garantisca sia eguale e libero accesso alle risorse comuni sia un equilibrio organizzativo in grado di coinvolgere tutti gli stakeholder – si rende necessario architettare un contratto sociale che faccia fronte, in primo luogo, al rischio di collusione tra management e stakeholder interni (lavoratori e investitori) ai danni degli stakeholder esterni (utenti, fornitori, territorio). In conclusione, un’impresa cooperativa multi-stakeholder finalizzata a una gestione efficace dei beni comuni locali è chiamata ad assolvere tre funzioni principali: tutela del libero accesso dei fruitori alla risorsa comune, conservazione dell’identità di gruppo della comunità di fruitori, condivisione delle informazioni e delle regole comuni di gestione. Per un approfondimento sui principi cooperativi (in primis adesione libera e volontaria, controllo democratico, autonomia e indipendenza, cooperazione tra cooperative, interesse verso la comunità) si rimanda a S. Zamagni e V. Zamagni, La cooperazione. Tra mercato e democrazia economica, Bologna, Il Mulino, 2008.
35
3.2 Reciprocità e sharing economy
Il paradigma della reciprocità quale forma di scambio contigua a mercato e
redistribuzione può essere proficuamente utilizzato per comprendere, in termini
socioeconomici, i diversi fenomeni che fanno capo al concetto di sharing economy.
La teoria delle tre forme di integrazione (embeddedness) di economia e società,
introdotta da Karl Polanyi dapprima ne La grande trasformazione (1944) e
ulteriormente sviluppata nelle opere successive87, può essere letta – in linea con la
tesi centrale del Saggio sul dono di Mauss – come un rifiuto «della riduzione della
vita sociale alla polarità individuo-Stato»88. Polanyi attraverso il riferimento alla
ricerca antropologica classica (Malinowski89 in primis) perviene a una sostanziale
storicizzazione dell’economia di mercato capitalistica: nelle società precapitalistiche,
il funzionamento dell’economia – costitutivamente inserita (embedded) nelle
rispettive strutture sociali90 – non può essere efficacemente compreso sulla base di
quei postulati che la definizione “formale” dell’economia assume come generali e
universali, ovvero il metodo individualistico, l’auto-regolazione del mercato, il
principio di scarsità e quello dell’agire razionale in vista della massimizzazione
87 K. Polanyi, The Great Transformation, New York, Holt, Rinehart & Winston Inc., 1944 (tr. it. La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974); K. Polanyi et al. (a cura di), Trade and Market in the Early Empires, New York, The Free Press, 1957 (tr. it. Traffici e mercati negli antichi imperi, Torino, Einaudi, 1978); K. Polanyi, “On the Comparative Treatment of Economic Institutions in Antiquity, with Illustrations from Athens, Mycenae, and Alalakh”, in C. H. Kraeling e R. M. Adams (a cura di), City Invincible. A Symposium on Urbanization and Cultural Development in the Ancient Near East, Chicago, University of Chicago Press, 1960, poi in K. Polanyi, Primitive, Archaic and Modern Economies, a cura di G. Dalton, New York, Doubleday & Co., 1968 (tr. it. Economie primitive, arcaiche e moderne, Torino, Einaudi, 1980).
88 A. Salsano, “Dono e pseudodono nel mondo dell’utile”, in Iride, 24/1998, pp. 323-340; cit. p. 324.
89 Si vedano in particolare gli studi condotti sul cerchio del kula, la cerimonia del dono caratteristica delle isole Trobriand, al centro di R. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific. An Account of Native Enterprise and Adventure in the Archipelagoes of Melanesian New Guinea, London, Routledge & Kegan Paul, 1922 (tr. it. Argonauti del Pacifico occidentale, Roma, Newton Compton, 1973). Polanyi assume il kula come esempio di “commercio” completamente estraneo alle logiche di mercato: «Dare e ricevere organizzato e sistematico di oggetti di valore trasportati per lunghe distanze è giustamente descritto come commercio, tuttavia questo complesso insieme di rapporti è condotto esclusivamente sulle linee della reciprocità. (…) Né ciò che domina è la propensione al baratto, bensì la reciprocità nel comportamento sociale. Nondimeno il risultato è uno stupendo fatto organizzativo nel campo economico» (Polanyi, 1944, tr. it. 1974, p. 66).
90 «L’eccezionale scoperta delle recenti ricerche storiche ed antropologiche è che l’economia dell’uomo, di regola, è immersa nei suoi rapporti sociali» (Polanyi, 1944, tr. it. 1974, p. 61).
36
dell’utile. La relativizzazione dell’economia di mercato, così come della sua
formalizzazione teorica, è il presupposto sulla base del quale Polanyi introduce la
propria «teoria della compresenza, in misure e proporzioni variabili, in tutte le
società delle tre forme di scambio»91: mercato, redistribuzione e reciprocità. È
questa la cornice interpretativa entro cui si può pervenire a una migliore
comprensione dei multiformi fenomeni contemporanei che ricadono entro il
perimetro della sharing economy. Con questo termine92 si fa qui riferimento a un
ampio spettro di fenomeni che possono trovare diversa collocazione in rapporto a
tre assi fondamentali (Figura 1.2): ottimizzazione delle risorse, ruolo della
piattaforma tecnologica, relazioni peer-to-peer93.
Figura 1.2 – Elementi per l’individuazione delle pratiche di sharing economy94
91 Salsano, 1998, p. 326 (corsivo mio).
92 Nella letteratura, spesso associato agli analoghi “sharing economy”, “peer-to-peer economy”, “commons-based peer production”, “economia collaborativa”, “economia della condivisione”. Rachel Botsman ha elaborato un apparato definitorio al fine di discernere i concetti di collaborative economy, collaborative consumption, sharing economy e peer economy (R. Botsman, The Sharing Economy Lacks a Shared Definition, http://www.fastcompany.com/, 2013). Nel medesimo contributo, Botsman evidenzia come questi fenomeni – distinti, ma interrelati – presentino alcuni fondamentali elementi comuni: forme di potere non più centralizzato, bensì distribuito lungo reti di individui e comunità; fattori nuovi e “perturbatori” inerenti le possibilità tecnologiche, i valori sociali, il rapporto con l’ambiente e la crescita economica; un utilizzo innovativo ed efficiente di risorse materiali e immateriali.
93 Per l’approfondimento si rimanda a: I. Pais e M. Mainieri, “Il fenomeno della sharing economy in Italia e nel mondo”, in Equilibri, 1/2015, pp. 11-20; 93 I. Pais, “Nuove comunità tra economia e società”, in G. Arena e C. Iaione (a cura di), L’età della condivisione. La collaborazione tra cittadini e amministrazione per i beni comuni, Roma, Carocci, 2015.
94 Rielaborazione personale a partire da Pais, 2015 e Pais e Mainieri, 2015.
37
In linea con la teoria del “doppio-movimento” di Polanyi – secondo cui un
ampliamento eccessivo dello scambio di mercato, arrivando a minacciare l’uomo, la
natura e la stessa organizzazione produttiva, provoca un contro-movimento
improntato alla protezione sociale95 – l’emergere contemporaneo di fenomeni
economici incentrati su collaborazione e condivisione può essere interpretato come
una risposta sociale volta a riempire un vuoto oggettivo prodotto dalle due forme di
allocazione che hanno caratterizzato l’economia moderna a partire dal secondo
dopoguerra: da un lato il modello gerarchico d’intervento pubblico per la limitazione
delle iniquità del mercato, ispirato alla teoria keynesiana; dall’altro il modello
neoliberista, basato sull’affermazione del mercato come strumento autosufficiente
tanto per l’allocazione delle risorse economiche quanto per la regolamentazione
sociale e politica96. Mercato e gerarchia, pur procedendo da radici opposte, hanno
entrambi contribuito alla de-socializzazione dell’economia, ovvero alla “dis-
integrazione” (disembeddedness) dei rapporti economici rispetto a quei legami
sociali che ne consentono la riproduzione:
The market through the anonymous exchange of equivalents mediated by money; hierarchies through an authority rationally or democratically recognized but abstract and weak in establishing substantial and not merely procedural principles of legitimacy. It is this now deserted space that the sharing economy seems able to occupy by experimenting with collaborative social forms able (at least potentially and ideally) to embed economic
relations once again in social ones.97
95 «Esso [il doppio-movimento] può essere rappresentato come l’azione di due principî organizzativi nella società, ciascuno di essi ponendosi fini istituzionali specifici, avendo l’appoggio di precise forze sociali ed usando i propri metodi particolari. L’uno era il principio del liberalismo economico che mirava all’istituzione di un sistema autoregolato, basato sull’appoggio delle classi commerciali ed impiegando largamente il laissez-faire ed il libero scambio come suoi metodi, l’altro era il principio della protezione sociale che mirava alla conservazione dell’uomo e della natura oltre che della organizzazione produttiva, basandosi sull’appoggio variante di coloro che erano più immediatamente toccati dall’azione deleteria del mercato – primariamente, ma non esclusivamente le classi lavoratrici e quelle agricole – ed impiegando una legislazione protettiva, delle associazioni restrittive ed altri strumenti di intervento come suoi metodi» (Polanyi, 1944, trad. it. 1974, p. 170).
96 Si fa qui riferimento all’analisi condotta da Ivana Pais e Giancarlo Provasi in merito alla sharing economy come forma di ri-socializzazione dell’economia (Pais e Provasi, “Sharing Economy: A Step towards the Re-Embeddedness of the Economy?”, in Stato e mercato, 105/2015, pp. 347-377).
97 Pais e Provasi, 2015, p. 353.
38
Nel contributo di Pais e Provasi cui si fa qui riferimento, i diversi fenomeni
generalmente ricondotti al concetto “ombrello” di sharing economy sono collocati
entro un framework teorico basato sull’incrocio tra la teoria delle forme di scambio
di Polanyi e le differenti strategie di reciprocità (cautious reciproity, brave
reciprocity, unconditional reciprocity) individuate dall’economia del dono98. Ne
consegue uno spettro delle forme d’integrazione tra economia e società così
articolato (Figura 1.3):
Figura 1.3 – Forme di integrazione tra economia e società99
Relazione simmetrica
impersonale.
Coinvolgimento basso.
Beni privati.
Relazione simmetrica di conoscenza
generica.
Coinvolgimento medio.
Shareable goods.
Relazione simmetrica/ asimmetrica
elettiva.
Coinvolgimento medio-alto.
Beni relazionali.
Relazione asimmetrica basata sulla
appartenenza.
Coinvolgimento alto.
Beni comuni.
Relazione asimmetrica basata sulla
cittadinanza.
Coinvolgimento alto.
Beni pubblici.
Sharing economy
Collaborazione e condivisione si collocano accanto alla reciprocità stricto sensu come
suoi ampliamenti nella direzione, rispettivamente, del mercato e della
redistribuzione; è in questo spazio che si definiscono le pratiche di sharing economy
98 Con particolare riferimento all’analisi della nozione di reciprocità (distinta in reciprocità cauta, reciprocità-philìa e reciprocità incondizionale) condotta da Luigino Bruni in L. Bruni, Reciprocità. Dinamiche di cooperazione economia e società civile, Milano, Bruno Mondadori, 2006. Il soggetto che agisce secondo la strategia di reciprocità cauta tende a cooperare solo con chi abbia già dimostrato di agire cooperando; dunque, non coopera mai “per primo”. La reciprocità-philìa è una forma di reciprocità “coraggiosa”: il soggetto che applica questa strategia tende a cooperare per primo e, nei rapporti o round successivi, agisce a seconda del comportamento – cooperante o meno – dimostrato dagli altri attori. Infine, è reciprocità incondizionale o gratuita la strategia del soggetto che attua un atteggiamento cooperante indipendentemente dalla condotta degli altri attori.
99 Elaborazione personale a partire da Pais e Provasi (2015) e da I. Pais e M. Mainieri, “Il fenomeno della sharing economy in Italia e nel mondo”, in Equilibri, 1/2015, pp. 11-20.
Scambio di mercato
Collaborazione Reciprocità Condivsione Redistribuzione
39
in senso proprio100, le quali – ampliando gli ambiti sociali definiti dal principio di
reciprocità oltre i confini di prossimità e costituendo, allo stesso tempo, senso di
comunità e appartenenza – costituiscono potenziali opportunità di ri-socializzazione
dell’economia101. In particolare, mentre la collaborazione «estende le logiche di
reciprocità ai legami deboli o con persone sconosciute», la condivisione «si basa su
nuove comunità di interesse che creano senso di appartenenza (nuovi “noi”) e
favoriscono la creazione e la gestione di beni comuni»102.
3.3 Economia della condivisione per l’urban commons: il crowdfunding civico
La relazione di comunità, dunque, si costituisce e si coltiva in particolar modo
nell’ambito di quelle pratiche che muovono dalla reciprocità in direzione della
redistribuzione. Sono queste stesse pratiche, incentrate sulla condivisione, a
profilare modalità nuove di gestione dei beni comuni:
In questo caso, a differenza delle forme di sharing economy più vicine alla dimensione di mercato103, lo scambio di beni e servizi è mediato da
100 Collaborazione e condivisione costituiscono in effetti i termini più propri per tradurre, nel contesto italiano, i caratteri propri della sharing economy nel suo complesso: «In italiano sharing economy si traduce con due termini che ne individuano le manifestazioni principali:
- la “collaborazione”, forma intermedia tra reciprocità e scambio: più persone si mettono in rete per la realizzazione di un progetto da cui ognuno di loro trarrà un beneficio anche individuale;
- la “condivisione”, forma intermedia tra reciprocità e redistribuzione: un gruppo di persone mette in comune le risorse per la produzione di un bene o servizio utile alla loro comunità» (Pais e Mainieri, 2015, p. 11).
101 «La sharing economy, nelle sue forme più innovative, va a espandere le pratiche tradizionali di reciprocità, dove lo scambio di beni e servizi avviene tra persone legate affettivamente tra loro (parenti e amici), in direzione sia del mercato che della redistribuzione» (Pais, 2015, p. 85).
102 I. Pais, P. Peretti e C. Spinelli., Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, Milano, EGEA, 2014; § 1.1. In altri termini, i fenomeni di sharing economy – grazie alle opportunità offerte dalle tecnologie digitali – mediano logiche bonding, proprie dei progetti in cui «i sostenitori si conoscono tra loro, hanno interessi comuni, hanno un senso di appartenenza alla comunità [sicché] il progetto nutre e rafforza i legami» preesistenti, e logiche bridging, nelle quali «il progetto crea nuovi legami, è il catalizzatore attorno a cui si aggregano nuove comunità» (Pais, 2015, p. 93).
103 Tra le forme di collaborazione che muovono in direzione del mercato, si possono citare a titolo esemplificativo le pratiche di car o bike sharing, nonché i fenomeni Uber e AirBnb: in essi la relazione personale tra gli attori non è essenziale né coltivata; lo scambio è immediato nel tempo e prevede una controprestazione in denaro basata sul principio di equivalenza; i metodi di valutazione eventualmente predisposti dalla piattaforma rispondono più a una logica di service quality evaluation che a un principio di reputazione. Ricadono entro il quadro della collaborazione vera e propria i fenomeni in cui la relazione tra gli attori è necessaria (BlaBlaCar, EatWith, Gnammo) e la valutazione inerisce la reputazione personale di chi ha fornito il bene o il servizio. Si può parlare di reciprocità in senso stretto
40
un’identificazione collettiva rispetto a un “noi”, che presenta tratti peculiari rispetto alle comunità tradizionali: è provvisorio e parziale, basato su ruoli delimitati e con facilità di exit. Queste nuove comunità nascono dalla tradizione dell’open source, dal mondo dell’informazione (per esempio, Wikipedia) e si stanno diffondendo nella produzione e gestione di beni comuni, spesso a livello territoriale.104
L’attenzione al contesto italiano consente di individuare negli urban commons una
categoria di beni comuni particolarmente interessata dallo sviluppo di pratiche di
condivisione e gestione collaborativa. In quanto risorse condivise che pongono
dilemmi sociali105, tutti gli spazi e i servizi urbani funzionali allo svolgimento della vita
sociale della comunità in cui sono inseriti possono essere legittimamente intesi come
beni comuni. Lo statuto di commons viene loro attribuito in senso eminentemente
relazionale, per via del legame che li intreccia tanto tra loro, quanto con la comunità
dei fruitori106.
All’intersezione tra economia della condivisione, senso di appartenenza e urban
commons si profila il fenomeno del crowdfunding107 civico. La qualificazione “civica”
dei progetti inclusi in questa categoria ne evidenzia tanto la finalità, quanto il profilo
degli attori coinvolti108. Con riguardo alla finalità, rientrano in questa recente
in riferimento alla “banche del tempo” – anche digitali (Timerepublik) – costituite da reti di persone che si scambiano servizi sulla base di un sistema an-hour-for-an-hour.
104 Pais, 2015, p. 86.
105 Hess e Ostrom, 2007.
106 «I beni comuni sono resi tali non da presunte caratteristiche ontologiche, oggettive o meccaniche che li caratterizzerebbero, ma da contesti in cui essi divengono rilevanti in quanto tali. Questo vuol dire, ad esempio, che una piazza non è un bene comune in sé, semplicemente per essere un mero spazio urbanistico, ma lo diventa per la sua natura di "luogo di accesso sociale e di scambio esistenziale". Non è possibile separare i tratti fisici da quelli sociali di uno spazio urbano inteso come bene comune» (C. Iaione, “La città come bene comune”, in Aedon, 1/2013).
107 «Crowdfunding is a collective effort of many individuals who network and pool their resources to support efforts initiated by other people or organizations. This is usually done via or with the help of the Internet. Individual projects and businesses are financed with small contributions from a large number of individuals, allowing innovators, entrepreneurs and business owners to utilise their social networks to raise capital» (European Crowdfunding Network, http://eurocrowd.org/2012/10/26 /about-crowdfunding-2/ ).
108 Si fa qui riferimento ai fondamentali contributi di Rodrigo Davies, in particolare: R. Davies, Civic Crowdfunding: Participatory Communities, Entrepreneurs and the Political Economy of Place, Cambridge (MA), MIT, tesi di dottorato, 2014; R. Davies, “Three provcations for civic crowdfunding”, Information, Communication & Society, Vol. 18, N. 3, 2015, pp. 342-355.
41
configurazione di crowdfunding quei progetti che, con il capitale raccolto da un
ampio e diversificato insieme di donatori attraverso piattaforme digitali, mirano a
produrre beni semi-pubblici o comuni, o a fornire servizi alla comunità. I beni
risultanti dalla realizzazione del progetto possono dirsi semi-pubblici (quasi-public
assets) o comuni (common-pool resources) perché egualmente fruibili per tutti i
membri della comunità, indipendentemente dal contributo offerto alla realizzazione
del progetto stesso109. In questo senso, il crowdfunding civico si mostra strettamente
connesso ai concetti di cultura e capacità civica, intesi rispettivamente come sistema
di valori condivisi che incoraggiano la partecipazione ad attività collettive e come
l’attitudine del gruppo o comunità a perseguire collettivamente un fine comune.
In relazione agli attori coinvolti, la dimensione “civica” fa riferimento tanto allo
sviluppo territoriale dei progetti, quanto al coinvolgimento dell’amministrazione
pubblica. I progetti di crowdfunding civico sono infatti spesso di piccole dimensioni
e fortemente localizzati; in questo senso, si amplifica la nozione di crowd come
community, ovvero come rete sociale – non soltanto virtuale – i cui membri sono
connessi da un comune senso di appartenenza110. I legami di comunità e di
appartenenza, legati alla dimensione urbana e preesistenti al progetto, vengono
riattivati nella costituzione di una nuova «comunità di interesse» (Pais, 2015,
passim).
In secondo luogo, i progetti di crowdfunding a vocazione civica implicano,
direttamente o indirettamente, l’utilizzo di fondi, beni o sponsor pubblici per
l’offerta di servizi alla comunità (Davies, 2014). Come dimostrano i progetti di
collaborazione tra il Comune di Bologna e GINGER e tra il Comune di Milano ed
Eppela – di cui si tratterà più approfonditamente nel Capitolo III del presente
109 Prevale in questa definizione – in linea con la riflessione sugli urban commons e, più in generale, con il ripensamento giuridico dei beni comuni che sarà oggetto del paragrafo successivo – una qualificazione dei beni che prescinde dall’assetto proprietario, guardando invece alla loro dimensione relazionale, ovvero alla funzione che essi svolgono in rapporto ai legittimi fruitori. In questo senso si può affermare che i beni generati dai progetti di crowdfunding civico sono semi-pubblici o comuni perché, indipendentemente dal soggetto proprietario, rivestono un interesse collettivo che implica non solo la libertà ma anche il diritto di accesso e fruizione.
110 «Il termine crowdfunding trae in inganno: le persone che finanziano un progetto non sono una folla, un ammasso di persone sconnesse tra loro, ma nodi di una rete e, ancora più spesso, membri di una community, connessi tra loro e con il progettista» (Pais, 2015, pp. 90-91).
42
elaborato – nel contesto italiano alcune pratiche di crowdfunding civico
testimoniano la possibilità per le amministrazioni locali di partecipare anche
attivamente alla rigenerazione di urban commons attraverso il finanziamento
diffuso.
Nel caso di Un passo per San Luca111, la campagna per la raccolta dei fondi necessari
all’apertura di due cantieri nelle arcate più urgentemente bisognose di restauro del
Portico di San Luca è stata lanciata su iniziativa del Comune stesso, che vi ha
contribuito con un apporto iniziale pari a un terzo dell’obiettivo finale. L’intervento-
spot di Un passo per San Luca va inquadrato nel più ampio Progetto Portici volto alla
conservazione e alla cura dello storico sistema dei portici di Bologna al fine di
sostenerne la candidatura a Patrimonio dell’Umanità UNESCO112. Alla base del
progetto vi è l’idea di «valorizzare il portico non solo come manufatto di qualità
architettonica, divenuto nei secoli cifra della città, ma anche nei suoi significati
sociali, comunitari, antropologici; luogo di incrocio fra pubblico e privato, strada,
commercio, artigianato, professione e abitazione; luogo di incontro, spazio protetto:
“bene comune”»113.
Nel caso di Milano114, l’amministrazione locale ha selezionato, nell’ambito di un
bando di concorso, alcuni progetti innovativi ad alto impatto sociale nel campo della
cura e dell’assistenza a categorie fragili di popolazione, dell’accessibilità e della
connettività e, in generale, della qualità della vita urbana. I progetti selezionati
hanno avuto la possibilità di utilizzare la piattaforma Eppela per quaranta giorni per
111 Si rinvia al sito del progetto, gestito dalla piattaforma Ginger e creato appositamente per la campagna: http://www.unpassopersanluca.it/ (consultato il 29/07/2017).
112 I Portici di Bologna sono iscritti dal 2006 nella Lista Propositiva italiana. La Lista Propositiva (Tentative List) è costituita dall’elenco dei siti nazionali di culturale o naturale che tutti gli Stati firmatari della Convenzione sul patrimonio dell’umanità (1972) sono invitati a presentare al Centro del Patrimonio Mondiale UNESCO per segnalare i beni che intendono iscrivere negli anni successivi. L’iscrizione nella Lista Propositiva nazionale costituisce il primo passo del processo di candidatura, il quale culmina con la decisione di nomina (o meno) da parte del Comitato per il Patrimonio dell’Umanità. Modalità e linee guida per il processo di nomina sono consultabili sul sito dell’UNESCO: http://whc.unesco.org.
113 Fonte: http://www.comune.bologna.it/news/progetto-portici#, comunicato online del Comune di Bologna sul Progetto Portici (consultato il 29/07/17).
114 Si rinvia alla sezione della piattaforma Eppela dedicata alla partnership con il comune di Milano: https://www.eppela.com/it/mentors/comunemilano (consultato il 29/07/2017).
43
proporsi al pubblico, con la garanzia che il Comune avrebbe finanziato per la quota
rimanente ogni progetto che avesse raggiunto almeno il 50% del proprio obiettivo di
finanziamento. I sedici progetti che hanno avuto successo, tra loro eterogenei,
intervengono sull’urban commons a diverso titolo: dalla rigenerazione creativa di
spazi dismessi per la risocializzazione dei quartieri115 all’ampliamento del verde e
degli orti urbani116, dalla creazione di spazi dedicati alla sperimentazione artistica117
e alla diffusione della cultura118 fino all’allestimento di puri spazi sociali119 utili a
coltivare un rinnovato senso di comunità.
Queste sperimentazioni mostrano come il crowdfunding civico, nello spettro delle
pratiche di sharing economy, rivesta un ruolo particolare per la sua specifica capacità
di attivare reti di cittadini, realtà associative e imprenditoriali e amministrazioni
pubbliche al fine di rigenerare beni comuni specifici e promuoverne una gestione
partecipata in grado di andare ben oltre il mero finanziamento:
Il crowdfunding [civico] crea una comunità di interesse tra persone che poi probabilmente potranno mettere a disposizione altre risorse (tempo, competenze, ecc.) per portarlo a realizzazione. Il bene (o servizio) da pubblico diventa comune.120
115 Progetto Gallab ideato dal network “Non Riservato” per il quartiere gallaratese: https:// www.eppela.com/it/projects/9112-realizziamo-il-gallab-non-riservato (consultato il 29/07/2017).
116 Progetto Facciamo la Festa alla Mafia per l’allestimento di un Giardino Accogliente sull’area di un bene confiscato, promosso dal Consorzio SIS (Sistema Imprese sociali): https://www.eppela. com/it/projects/8074-facciamo-la-festa-alla-mafia (consultato il 29/07/2017). Progetto PomodOrti Urbani per l’orto-giardino di Quarto Oggiaro, coordinato dalle associazioni ACLI: https://www.eppela.com/it/projects/8659-pomodorti-urbani (consultato il 29/07/2017).
117 Progetto Il Cantiere dell’Ortica: https://www.eppela.com/it/projects/10568-il-cantiere-dell-ortica (consultato il 29/07/17).
118 Progetto CineWall ideato da Wanted Cinema come spazio culturale dedicato alla diffusione della cultura cinematografica: https://www.eppela.com/it/projects/10182-iwant-cinewall (consultato il 29/07/17).
119 Progetto #costruirelimprovviso per l’allestimento di un cortile comune in Cascina Torrette di Trenno, a cura di Mare Culturale Urbano: https://www.eppela.com/it/projects/8124costruirelimprovviso (consultato il 29/07/2017); progetto Le isole di Wendy, spazi di socializzazione concepiti con attenzione a donne e famiglie: https://www.eppela.com/it/projects/8115-le-isole-di-wendy (consultato il 29/07/17).
120 Pais, 2015, p. 95.
44
Benché ancora in forma episodica, esso prefigura politiche integrate di shareable
city121 basate sulla concezione della città, nel suo complesso, come bene comune122
e che nel contesto italiano si sono espresse nell’adozione, da parte di decine di
amministrazioni locali, di regolamenti volti ad introdurre e disciplinare l’ideazione di
patti di collaborazione per la gestione partecipata dei beni comuni123.
4 Lo sguardo giuridico: verso una gestione collaborativa partecipata
4.1 Esiti della Commissione Rodotà: oltre la proprietà
Un riferimento imprescindibile per la riflessione giuridica sui beni comuni nel
contesto italiano è costituito dalla Commissione Rodotà, istituita il 21 giugno 2007
dal Ministero della Giustizia e incaricata di redigere uno schema di legge delega volto
a riformare la disciplina civilistica dei beni pubblici124. Come si legge nella Relazione
121 Pais e Mainieri, 2015, pp. 17-19.
122 “The City as a Commons” è il titolo della prima conferenza internazionale della IASC (International Association for the Study of the Commons; http://www.iasc-commons.org/ ) incentrata sul tema dei beni comuni urbani, svoltasi nel novembre 2015 a Bologna e organizzata in primis da LabGov (Laboratory for the Governance of the Commons; http://www.labgov.it ). LabGov, oltre ad essere un laboratorio formativo per futuri designer, ingegneri e innovatori sociali e istituzionali, attua protocolli di governance sperimentale, orientata alla collaborazione tra amministrazioni e cittadini, in diversi comuni italiani (Roma, Mantova, Reggio Emilia, Bologna). Il progetto delle Co-Cities (http://www.collaborative.city/ ) è orientato a definire modelli di città basati sulla governance dei beni comuni urbani, sull’innovazione sociale, sull’economia collaborativa e della condivisione.
123 La prima sperimentazione italiana in merito, ovvero il Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani, adottato dal Comune di Bologna nel 2014 e ideato in collaborazione con LabGov (Laboratory for the Governance of the Commons; http://www.labgov.it ) e Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà; http://www.labsus.org/ ), è oggetto del §4.3 del presente capitolo, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti
124 L’istituzione della Commissione sui Beni Pubblici da parte del Ministero della Giustizia è stata incoraggiata dalle riflessioni raccolte sul tema Gestione del patrimonio pubblico, proprietà privata e proprietà pubblica in una giornata di studio svoltasi presso l’Accademia nazionale dei Lincei il 6 giugno 2006. In quella sede, si è evidenziata l’utilità del progetto sperimentale per la costruzione di un Conto Patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche, avviato all’inizio del 2002 dal Ministro dell’Economia e delle Finanze. L’opera è stata inizializzata per il tramite della Patrimonio dello Stato S.p.A, società per azioni pubblica finalizzata sia alla valorizzazione economica sia all’alienazione di tutti i beni appartenenti al demanio e al patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato e pertanto oggetto di pesanti critiche da parte di diversi rappresentanti del mondo della cultura (si veda ad esempio S. Settis, Italia S.p.A., Torino, Einaudi, 2002). Nell’ambito della giornata di studio lincea, l’utilità del progetto di catalogazione a fini conoscitivi del patrimonio pubblico nel suo complesso è stata contestualizzata nella fondamentale necessità di provvedere al riordino delle disposizioni civilistiche sui beni pubblici mediante un’apposita commissione ministeriale. Gli esiti della giornata di studio sono raccolti nel
45
di accompagnamento al Disegno di legge delega125, i presupposti di lavoro della
Commissione fanno capo alla necessità di adeguare le disposizioni sui beni pubblici
contenute nel Codice Civile del 1942 alla realtà contemporanea, in primo luogo
inserendovi la categoria dei beni immateriali – oggi ampiamente riconosciuta – e
rafforzando le misure di tutela nel lungo periodo alle risorse naturali, attualmente
soggette a fenomeni crescenti di depauperamento. Alle esigenze di una tutela più
efficiente di tutti i beni di pertinenza pubblica fa capo – come evidenziato nella
medesima Relazione – anche «la garanzia che il governo pro tempore non ceda alla
tentazione di vendere beni del patrimonio pubblico, per ragioni diverse da quelle
strutturali o strategiche, legate alla necessaria riqualificazione della dotazione
patrimoniale dei beni pubblici del Paese, ma per finanziare spese correnti».
Su questi presupposti, la Commissione126 si è posta alla ricerca di una nuova
tassonomia dei beni pubblici che ne superasse il mero statuto giuridico per rifletterne
la realtà economica e sociale. A questo fine, essa ha operato un rovesciamento di
prospettiva rispetto alla tradizione giuridica (non più “dai regimi ai beni”, bensì “dai
beni ai regimi”) e ha individuato i beni in primo luogo come dotati di una specifica
rilevanza socioeconomica, ovvero come «oggetti, materiali o immateriali, che
esprimono diversi “fasci di utilità”» (ibidem). Tale rovesciamento si è tradotto:
volume Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà (Bologna, Il Mulino, 2007).
125 Pubblicamente disponibile sul sito del Ministero della Giustizia, insieme al Disegno di legge delega (https://www.giustizia.it/ ).
126 Composta da Stefano Rodotà (Presidente), Ugo Mattei (Vice Presidente), Alfonso Amatucci, Felice Casucci, Marco d’Alberti, Daniela Di Sabato, Antonio Gambaro, Alberto Lucarelli, Luca Nivarra, Paolo Piccoli, Mauro Renna, Luigi Salvato e Giacomo Vaciago; e supportata da una Segreteria Scientifica costituita da Edoardo Reviglio (Coordinatore), Daniela Bacchetta, Roberto Calvo, Maria de Benedetto, Nicoletta Rangone, Giorgio Resta e Stefano Toro. Gli esiti della Commissione, espressi nel Disegno di legge delega e nella Relazione di accompagnamento, sono stati depositati presso il Ministero della Giustizia il 15 febbraio 2008 e presentati due mesi dopo presso l’Accademia dei Lincei nell’ambito di una giornata di studio dedicata (Dal governo democratico dell’economia alla riforma dei beni pubblici. Presentazione dei lavori della Commissione Rodotà). Gli atti del convegno così come i materiali di lavoro della Commissione sono confluiti nel volume I beni pubblici. Dal governo democratico dell'economia alla riforma del codice civile, a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà (Roma, Scienze e Lettere, 2010).
46
• nella proposta di innovare la formulazione dell’articolo 810 del Codice Civile,
al fine di qualificare come beni le cose, materiali o immateriali, le cui utilità
possono essere oggetto di diritti;
• nella proposta di classificare i beni, in particolare i beni pubblici, in base alle
utilità prodotte e collegando le utilità dei beni alla tutela dei diritti della
persona e di interessi pubblici essenziali. Su queste basi, la Commissione ha
proposto di distinguere i beni nelle tre categorie di beni comuni, beni pubblici,
beni privati e i beni pubblici in particolare nelle tre sottocategorie di beni ad
appartenenza pubblica necessaria, beni pubblici sociali, beni fruttiferi.
Si riporta di seguito (Tabella 1.2) una schematica ricostruzione di tale tassonomia al
fine di fornire particolare evidenza degli attributi distinti di beni pubblici e beni
comuni.
Tabella 1.2 – I beni pubblici e i beni comuni nella tassonomia della Commissione Rodotà127
Caratteri Esempi
Ben
i co
mu
ni
• Proprietà pubblica o privata. • Esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona; ne è pertanto garantita la fruizione collettiva, nei limiti delle esigenze di tutela e salvaguardia (anche in vista delle generazioni future). • Possibilità di concessione a privati da parte del proprietario pubblico: limitata. • Tutela risarcitoria e restitutoria: Stato. • Tutela inibitoria: chiunque.
• Risorse naturali: fiumi, torrenti, laghi e altre acque; aria; parchi, foreste e zone boschive; zone montane di alta quota, ghiacciai e nevi perenni; tratti di costa dichiarati riserva ambientale; fauna selvatica e flora tutelata. • Beni archeologici, culturali, ambientali e altre zone paesaggistiche tutelate.
Ben
i pu
bb
lici
• Proprietà pubblica. • Si dividono in:
1. beni ad appartenenza pubblica necessaria, che soddisfano interessi generali fondamentali e la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Non sono alienabili: possono circolare solo tra Stato ed enti pubblici territoriali.
Opere destinate alla difesa; spiagge; reti stradali e ferroviarie; acquedotti; porti e aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale; lo spettro delle frequenze.
127 Elaborazione tabulare riassuntiva a partire dal Disegno di legge delega, dalla Relazione di accompagnamento, nonché da E. Reviglio, “Per una riforma del regime giuridico dei beni pubblici. Le proposte della Commissione Rodotà”, Politica del diritto, 3/2008, pp. 531-536.
47
Ben
i pu
bb
lici (
seg
ue)
2. beni pubblici sociali, le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona. La circolazione è ammessa con mantenimento del vincolo reale di destinazione pubblica.
Case dell’edilizia residenziale pubblica, edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; reti locali di pubblico servizio.
3. beni pubblici fruttiferi, corrispondenti a tutti i beni pubblici che non rientrano nelle prime due categorie. Gestibili dalle persone pubbliche con strumenti di diritto privato. Alienabili quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell’utilizzo pubblico e l’impossibilità di continuarne il godimento in proprietà secondo criteri economici.
La nozione giuridica di beni comuni che emerge dagli esiti della Commissione Rodotà
coniuga una prospettiva più tradizionale, di orizzonte ontologico-naturalistica, a
un’inedita prospettiva economico-sociale. Da un lato, infatti, i beni qualificati come
comuni corrispondono a risorse – naturali, paesaggistiche, ambientali e culturali –
che oggi «soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di
depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche»; essi sono pertanto
sottoposti a una «disciplina particolarmente garantistica […] idonea a nobilitarli, a
rafforzarne la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti
i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a
vantaggio delle generazioni future» (ibidem). Dall’altro lato, di essi è tutelata la
fruizione collettiva – indipendentemente dall’assetto proprietario – in ragione
dell’utilità che essi generano per l’esercizio di diritti fondamentali e il libero sviluppo
della persona128. Il rapporto tra beni comuni e collettività si trova rafforzato dalla
disposizione in merito alla tutela inibitoria, secondo la quale «alla tutela
giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni
ha accesso chiunque» (Disegno di legge delega, art. 1, co. 3, lettera c).
128 Collegando le utilità dei beni alla soddisfazione dei diritti della persona e al perseguimento di interessi pubblici essenziali, le disposizioni proposte dalla Commissione Rodotà riconducono la disciplina del Codice Civile – sia in merito ai beni pubblici sia in merito ai “nuovi” beni comuni – ai principi fondamentali della Carta Costituzionale. L’ancoramento costituzionale è confermato nel testo stesso del Disegno di legge, mediante il richiamo esplicito agli articoli 1, 2, 3, 5, 9, 41, 42, 43, 97, 117 della Costituzione.
48
Emergono qui molti degli elementi che si trovano reiterati e approfonditi nelle
riflessioni successive di diversi membri della Commissione. I contributi di Stefano
Rodotà129, in particolare, si concentrano sulla “terzietà” del comune rispetto alla
logica proprietaria che accomuna beni privati e beni pubblici, teorizzata a partire
dalle nozioni di accesso e di funzione sociale. Lo schema binario del dettato
costituzionale, secondo il quale «la proprietà è pubblica o privata» (art. 42), deve
infatti aprirsi a un tertium quid in ragione di un rapporto nuovo che si istituisce «tra
le persone, i loro i bisogni, i beni che possono soddisfarli» (Rodotà, 2012, p. 107). La
terza dimensione, essenzialmente non proprietaria, emerge da una lettura – talora
risignificante – di alcune disposizioni contenute nella Costituzione stessa.
In primo luogo, l’art. 43 prevede che possano essere affidate «a comunità di
lavoratori o utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a
servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano
carattere di preminente interesse generale». Ciò che rileva è lo svincolamento
dell’interesse non individualistico rispetto al riferimento obbligato alla proprietà
pubblica: esso può essere perseguito, nella gestione di imprese di interesse generale,
non solo dal soggetto pubblico – e proprietario – bensì anche da comunità di
cittadini.
In secondo luogo, lo stesso art. 42 – affermando che la proprietà privata deve essere
«accessibile a tutti» e nel subordinarne la tutela da parte della legge alla sua
«funzione sociale» – fornisce elementi essenziali per pensare una “terza via”.
L’accesso, pur concepito originariamente come la possibilità di ognuno di acquisire
un titolo di proprietà, può legittimamente essere raccordato alla contemporaneità e
dunque reinterpretato come «strumento che consente di soddisfare l’interesse
all’uso del bene indipendentemente alla sua appropriazione esclusiva» (Rodotà,
2012, p. 108). Esso rappresenta il contrario della logica esclusiva che caratterizza la
proprietà tradizionale: mentre quest’ultima si esprime nella facoltà di escludere gli
129 Si fa qui particolare riferimento a S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012 e a S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, Il Mulino, 2013 (terza edizione).
49
altri dall’uso o dal godimento del proprio bene, l’accesso ha carattere inclusivo e si
esprime nel diritto a non essere escluso ad opera di altri dall’uso o dal godimento di
taluni beni.
Similmente la funzione sociale, nata come vincolo all’esercizio del potere
proprietario, può configurarsi come il «potere di una molteplicità di soggetti di
partecipare alle decisioni riguardanti determinate categorie di beni» in quanto al
centro di una “costellazione di interessi” (Rodotà, 2012, p. 109). Accesso e funzione
sociale costituiscono così presupposti costituzionali per elaborare una fruizione
collettiva e una gestione partecipativa per i beni comuni, a dispetto del loro assetto
proprietario:
Non è tanto il ritorno a “un altro modo di possedere”, ma la necessaria costruzione dell’“opposto della proprietà”.130
È l’intreccio tra beni comuni e diritti fondamentali, ovvero l’attitudine dei beni
comuni a soddisfare bisogni della “persona costituzionalizzata” (Rodotà, 2012,
passim), a giustificare tale «condizione istituzionale di indifferenza rispetto al
soggetto che risulta esserne il titolare formale» (Rodotà, 2012, p. 125):
L’astrazione proprietaria si scioglie nella concretezza dei bisogni, ai quali viene data concretezza empirica collegando i diritti fondamentali ai beni indispensabili per la loro soddisfazione.131
L’irrilevanza della qualificazione formale del soggetto al quale viene attribuita la
totalità del bene, su cui si basa la fondazione non proprietaria dei beni comuni, si
traduce in una nuova centralità del loro aspetto relazionale, ovvero dei soggetti in
relazione ai quali si esplicano le loro finalità. Nella riflessione di Rodotà, la rilevanza
dei beni comuni è intimamente connessa alla «”scoperta” della persona concreta e
della realtà dei suoi bisogni» (Rodotà, 2012, p. 138): la collettività dei beni comuni
non è pertanto costituita da soggetti astratti, ma da persone, calate nella materialità
del vivere e strutturalmente interrelate. A emergere è dunque il legame sociale tra
130 Rodotà, 2012, p. 113.
131 Ibidem, p. 109.
50
coloro che partecipano alla fruizione collettiva del bene comune; legame che
consente tanto di sciogliere le ultime riserve di individualismo insite nel riferimento
ai diritti fondamentali132 quanto di collocare il rapporto tra persone, bisogni e beni
nella dimensione della cittadinanza:
L’intreccio tra beni comuni e diritti fondamentali produce un concreto arricchimento della sfera dei poteri personali, che a loro volta realizzano precondizioni necessarie per l’effettiva partecipazione al processo democratico. Si potrebbe dire che, per tale via, si costituisce una rinnovata opportunità di ricongiungimento tra l’uomo e il cittadino.133
Il legame sociale, costitutivo della persona, e l’inerente funzione sociale dei beni
comuni – qualificati come tali in quanto atti «a soddisfare bisogni collettivi e a
rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali»134 – ne prefigurano sia le
condizioni di fruizione, sia le possibilità di gestione:
[I beni comuni] appartengono a tutti e a nessuno: tutti possono accedervi, nessuno può vantare diritti esclusivi. Divengono condivisi per se stessi, e dunque devono essere gestiti in base ai principi di eguaglianza e solidarietà, rendendo effettive forme di partecipazione e controllo degli interessati e incorporando la dimensione del futuro, nella quale si riflette una solidarietà intergenerazionale, un obbligo verso le generazioni future. In questo senso tendono a costituire un vero “patrimonio dell’umanità”, la cui tutela è anch’essa affidata a una legittimazione diffusa, al diritto di tutti di agire perché siano effettivamente conservati, protetti, garantiti. Attraverso questa molteplice attribuzione di poteri i beni comuni promuovono una cittadinanza attiva ed eguale.135
La riflessione di Rodotà approda dunque a una prospettiva di partecipazione attiva
dei cittadini-fruitori alla salvaguardia e alla gestione dei beni comuni. Nel solco tanto
delle conclusioni di ricerca di Ostrom in merito alla possibilità di costituire istituzioni
132 Come sottolineato da Marella: «Insomma l’idea è che i diritti fondamentali possano acquistare una dimensione diversa – ed essere componente costitutiva della gestione del bene – se visti nella prospettiva della solidarietà sociale, cioè all’interno della rete dei legami sociali in cui sono esercitati» (M. R. Marella, “Per un diritto dei beni comuni”, in M. R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, Ombre Corte, 2012; cit. p. 26).
133 Rodotà, 2012, p. 121.
134 Ibidem, p. 115.
135 Ibidem, pp. 125-126.
51
cooperative a base collettiva136 quanto dell’orientamento della Commissione
Rodotà, si profila la possibilità di forme di autogoverno dal basso137, di assetti
istituzionali prodotti con la partecipazione della collettività stessa in modo da creare,
per quanto concerne i beni comuni, un continuum fruizione-gestione. Tali modalità
di gestione “dal basso” non devono escludere la partecipazione dell’attore pubblico,
che può costituire – nel corpo delle istituzioni – un luogo di mediazione
intersoggettiva e di elaborazione, riconoscimento e generalizzazione di significati
sociali138.
4.2 Collaborazione tra cittadini e amministrazione per i beni comuni
L’interlocutore dello Stato-apparato territorialmente e politicamente più vicino ai
cittadini (Stato-comunità) è rappresentato, nel contesto italiano, dal Comune. Tale
livello amministrativo sembra essere il più idoneo a raccogliere le esigenze e a
concretizzare le aspettative della collettività in relazione ai beni comuni139, come
conferma la recente diffusione del fenomeno dei patti di collaborazione.
Esso ha come origine l’elaborazione140 e l’adozione nel 2014 da parte del Comune di
Bologna del primo Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione
per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, ora diffuso – con i giusti
136 E. Ostrom, Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, 1990, tr. it. Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio, 2006.
137 Si veda ad esempio la riflessione di Luca Nivarra, anch’egli membro della Commissione, contenuta in L. Nivarra, “Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e comune”, in M. R. Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, Ombre Corte, 2012.
138 Sul ruolo costruttivo del soggetto pubblico nel contesto dei beni comuni, si vedano le riflessioni condotte da Pennacchi nei contributi già citati nel §1.3 (in particolare, nota 43) e in L. Pennacchi, “Beni comuni e politica progressista: l’erosione della democrazia e il futuro della sfera pubblica”, in L. Sacconi e S. Ottone, Beni comuni e cooperazione, Bologna, Il Mulino, 2015.
139 Sul ruolo dell’amministrazione comunale nel dialogo con i cittadini per i beni comuni e specificamente per il recupero di beni urbani abbandonati e/o dismessi, si veda il contributo di Alberto Lucarelli (anch’egli membro della Commissione Rodotà): A. Lucarelli, “Beni comuni e funzione sociale della proprietà. Il ruolo del Comune”, in L. Sacconi e S. Ottone, Beni comuni e cooperazione, Bologna, Il Mulino, 2015.
140 In collaborazione con Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà): www.labsus.org.
52
adattamenti locali – in oltre 120 Comuni italiani e in via di approvazione in altri 70141.
Scopo del Regolamento è dare attuazione concreta al principio di sussidiarietà
orizzontale contenuto nell’art. 118 della Costituzione142, introdotto con la riforma
del Titolo V (l. Cost. 3/2001). Lo strumento istituzionale individuato dal Regolamento
per la realizzazione di un’amministrazione condivisa è costituito dal patto di
collaborazione, attraverso il quale «Comune e cittadini attivi143 concordano tutto ciò
che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura e rigenerazione dei
beni comuni» (art. 5, co. 1, DCC 19 maggio 2014, n. 172).
Gli specifici patti di collaborazione di volta in volta stipulati hanno carattere di atti
amministrativi di natura non autoritativa144 e si originano da una proposta di
collaborazione (art. 11) che può provenire tanto dall’amministrazione quanto dai
cittadini stessi. I patti hanno ad oggetto l’intervento condiviso su spazi pubblici ed
edifici (art. 6) secondo diversi livelli di intensità: dalla cura occasionale, alla cura
costante e continuativa e alla gestione condivisa, fino alla rigenerazione.
Sono interventi di cura gli interventi «volti alla protezione, conservazione ed alla
manutenzione dei beni comuni urbani per garantire e migliorare la loro fruibilità e
141 La lista completa e i testi dei Regolamenti di Bologna, Roma, Torino, Brescia e Monza sono consultabili sul sito di Labsus, all’indirizzo http://www.labsus.org/i-regolamenti-per-lamministrazione-condivisa-dei-beni-comuni/ (consultato il 02/08/17).
142 «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà» (art. 118, co. 4, Cost.). Per un approfondimento sulla nozione di sussidiarietà orizzontale o circolare alla base del Regolamento, si veda G. Arena, “Di quale sussidiarietà stiamo parlando?”, Labsus, 7 luglio 2008, http:///www.labsus.org/2008/07/di-quale-sussidiarieta-stiamo-parlando/ (consultato il 02/08/17).
143 Sono qualificati come cittadini attivi «tutti i soggetti, singoli, associati o comunque riuniti in formazioni sociali, anche di natura imprenditoriale o a vocazione sociale, che si attivano per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani» (art. 2, co. 1, c), a loro volta definiti come «i beni materiali, immateriali e digitali che i cittadini e l’Amministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo» (art. 2, co. 1, a). Si fa qui riferimento al testo del Regolamento così come approvato con Delibera del Consiglio comunale (DCC) n. 172 il 19 maggio 2014; il testo del Regolamento è disponibile sul sito di Labsus all’indirizzo http://www.labsus.org/2014/11/bologna-delibera-consiglio-comunale-19-maggio-2014-n-172-regolamento-sulla-collaborazione-tra-cittadini-e-amministrazione-per-la-cura-e-la-rigenerazione-dei-beni-comuni-urbani/ (consultato il 02/08/17).
144 Sono dunque disciplinati dalle norme di diritto privato, in accordo con quanto stabilito dalla l. n. 241/1990, art. 1, co. 1-bis, la quale dispone che «la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente».
53
qualità» (art. 2, co. 1, f). La gestione condivisa individua gli interventi «di cura dei
beni comuni urbani svolti congiuntamente dai cittadini e dall’amministrazione con
carattere di continuità e di inclusività» (art. 2, co. 1, g). Si qualificano infine come
interventi di rigenerazione quegli interventi «di recupero, trasformazione ed
innovazione dei beni comuni, partecipi, tramite metodi di co-progettazione, di
processi sociali, economici, tecnologici ed ambientali, ampi e integrati, che
complessivamente incidono sul miglioramento della qualità della vita nella città»
(art. 2, co. 1, h).
Le diverse tipologie di collaborazione si collocano, dunque, in modo differenziato
lungo gli assi dell’orizzonte temporale e della strutturalità dell’intervento,
individuando un grado crescente di coinvolgimento o impegno per l’amministrazione
e i cittadini partecipanti (Figura 1.4).
Figura 1.4 – Tipologie di intervento perseguibili sugli urban commons
mediante i patti di collaborazione145
Ad ogni livello, l’intervento sugli spazi pubblici e gli edifici deve integrare o migliorare
gli standard manutentivi del bene, migliorarne la vivibilità e la qualità, assicurarne la
fruibilità collettiva (art. 6, co. 2). Le finalità perseguite dall’amministrazione
145 Elaborazione personale.
Cura occasionale
Gestione condivisa
Rigenerazione
Ori
zzo
nte
tem
po
rale
Strutturalità
Coinvolgimento
54
attraverso la gestione collaborativa dei beni comuni urbani sono individuate nella
promozione dell’innovazione sociale e dei servizi collaborativi (art. 7), nella
promozione della creatività urbana (art. 8) e nell’innovazione sociale. (art. 9). Al fine
di disciplinare pragmaticamente i termini della collaborazione tra Comune e cittadini
attivi nella cura, gestione condivisa o rigenerazione dei beni, ogni patto deve
includere alcune informazioni minime (art. 5, co. 1, a-m):
• obiettivi perseguiti e natura delle azioni di cura condivisa;
• durata, cause di sospensione o di conclusione anticipata della collaborazione;
• modalità di azione, ruoli ed impegni reciproci dei soggetti coinvolti, nonché
requisiti e limiti di intervento;
• modalità di fruizione collettiva dei beni comuni urbani oggetto del patto;
• forme di sostegno messe a disposizione dal Comune, «modulate in relazione al
valore aggiunto che la collaborazione è potenzialmente in grado di generare» (art.
5, co. 1, g), e modalità di affiancamento del personale comunale ai cittadini;
• misure di pubblicità del patto;
• modalità di documentazione, monitoraggio periodico, adeguamento,
rendicontazione e misurazione dei risultati dell’intervento, nonché modalità di
vigilanza sull’andamento, gestione delle controversie e sanzioni per
l’inosservanza del Regolamento o di clausole del patto;
• misure (coperture assicurative, assunzione di responsabilità, garanzie a copertura
dei danni) per il fronteggiamento di situazioni avverse nello svolgimento del
patto;
• assetti conseguenti alla conclusione alla conclusione della collaborazione
(titolarità delle opere realizzate, diritti riservati agli autori di opere dell’ingegno,
riconsegna dei beni).
Il quadro giuridico teorico entro il quale il Regolamento si contestualizza fa
riferimento alla nozione di amministrazione condivisa così come elaborata da
Gregorio Arena146. Essa si caratterizza quale modello di collaborazione tra
146 G. Arena, “Introduzione all’amministrazione condivisa”, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 117-117/1997, pp. 29-65.
55
amministrazioni e cittadini per la soluzione di problemi di interesse generale.
L’attuazione di tale modello prevede che i cittadini «escano dal ruolo passivo di
amministrati per diventare co-amministratori, soggetti attivi che, integrando le
risorse di cui sono portatori con quelle di cui è dotata l’amministrazione, si assumono
una parte di responsabilità nel risolvere problemi di interesse generale» (Arena,
1997, p. 29).
L’amministrazione condivisa nasce con il preciso intento di sostituirsi a una teoria
amministrativa ormai desueta, non più idonea ad affrontare la crescente
complessità sociale, in quanto basata su modelli di comportamento autoritativo, su
schemi organizzativi accentrati, nonché su una sostanziale separatezza rispetto alla
società amministrata. Essa presuppone un ripensamento del ruolo riservato ai
cittadini – singoli e associati – normalmente considerati come meri «soggetti passivi
dell’azione amministrativa, assistiti cui erogare prestazioni e benefici» (Arena, 1997,
p. 33) e non come persone portatrici di risorse proprie nella forma di capacità,
esperienze, competenze, idee, tempo. L’integrazione tra le risorse specifiche di cui
ogni soggetto è portatore e le risorse organizzative, finanziarie, umane
dell’amministrazione può produrre «sia il soddisfacimento delle esigenze della
persona in questione147, sia la soluzione di problemi di interesse generale» (ibidem,
p. 35).
La teoria dell’amministrazione condivisa ha trovato legittimazione sul piano
normativo proprio con la revisione del Titolo V e l’introduzione del principio di
sussidiarietà orizzontale, il quale – nell’interpretazione di Arena e della Carta della
sussidiarietà148 - prefigura la possibilità di esercitare la sovranità popolare in un
147 Nel riferimento al soddisfacimento di esigenze attraverso l’azione, piuttosto che attraverso l’appagamento di bisogni, echeggia il richiamo tanto al «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, co. 2, Cost.), quanto al capability approach elaborato da Amartya Sen e sviluppato da Marta Nussbaum. L’approccio si basa sulla necessità di ancorare i concetti di benessere, giustizia e sviluppo alla qualità di degli individui, misurata attraverso il riferimento alle possibilità effettive che essi hanno di realizzare le proprie libertà. Per una ricognizione teoria del capability approach, si rimanda a I. Robeyns, “The Capability Approach: a theoretical survey”, Journal of Human Development, Vol. 6, No. 1, 2005, pp. 93-114.
148 Documento che raccoglie gli esiti della Prima Convenzione Nazionale della Sussidiarietà (Roma, 12 marzo 2004) organizzata, tra gli altri, da Forum P.A. (ora FPA: www.forumpa.it) e intitolata “L’Italia dei
56
modo altro rispetto alle forme tradizionali della partecipazione, definito dalla
nozione di cittadinanza attiva. Essa «si realizza quando le cittadine ed i cittadini,
singoli e associati, promuovono autonomamente iniziative di interesse generale che
le istituzioni sono tenute a riconoscere, sostenere ed integrare nelle loro politiche»
(Carta, art. 2); tali iniziative di interesse generale si qualificano come «le attività delle
cittadine, dei cittadini e delle imprese volte alla produzione, cura e valorizzazione dei
beni comuni» (ibidem, art. 5).
Il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale si realizza dunque quando i
cittadini, andando ben oltre il ruolo del semplice “utente” o “amministrato”, si
attivano come «soggetti responsabili e solidali che in piena autonomia collaborano
con l’amministrazione nel perseguimento dell’interesse generale o, detto in altro
modo, nella cura dei beni comuni»149, laddove si considerino come beni comuni tutte
quelle risorse necessariamente condivise che «permettono il dispiegarsi della vita
sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto
con gli ecosistemi di cui è parte»150. Essi sono necessariamente condivisi non solo
perché «a tutti accessibili almeno in via di principio», ma anche in quanto «solo la
loro condivisione ne garantisce la riproduzione allargata nel tempo» (Donolo, 2010).
Il legame con la pratica della condivisione consente a Christian Iaione151 di affiancare
la collaborazione civica per i beni comuni ai fenomeni di sharing economy in senso
proprio. Il concetto di pooling economy da lui introdotto interseca tanto il
superamento dell’homo oeconomicus nella direzione di un’economia sulla
condivisione, quanto la generazione e rigenerazione di beni comuni attraverso la
collaborazione. Emerge un orientamento individuale alla cooperazione, a
beni comuni”. Il testo della Carta è disponbile sul sito di Labsus – quale suo manifesto politico – all’indirizzo: http://www.labsus.org/la-carta-della-sussidiarieta/ (consultato il 02/02/2017).
149 G. Arena, “I beni comuni nell’età della condivisione”, in G. Arena e C. Iaione (a cura di), L’età della condivisione. La collaborazione fra cittadini e amministrazione per i beni comuni, Roma, Carocci, 2015; cit. p. 23.
150 C. Donolo, “I beni comuni presi sul serio”, Labsus, 31 maggio 2010, http://www.labsus.org/.
151 C. Iaione, “La collaborazione civica per l’amministrazione, la governance e l’economia dei beni comuni”, in G. Arena e C. Iaione (a cura di), L’età della condivisione. La collaborazione fra cittadini e amministrazione per i beni comuni, Roma, Carocci, 2015; cit. p. 23.
57
«”reciprocare” per la cura dei beni comuni» (Iaione, 2015, p. 34), che può essere
espresso mediante la figura della mulier activa. Quest’ultima è essenzialmente zôon
politikòn in senso arendtiano e non esita «ad agire nello spazio pubblico e a porsi in
relazione con gli altri per prendersi cura dell’interesse generale» (ibidem, 2015, p.
35).
È inoltre possibile affermare che tra collaborazione civica e sharing economy può
instaurarsi un rapporto di mutuo arricchimento, basato sul mutuo riconoscimento e
consolidamento di alcuni elementi fondanti. In primo luogo, la cura condivisa dei
beni comuni presuppone tanto un paradigma antropologico improntato alla
reciprocità, quanto il primato dell’uso o fruizione sul possesso – emersi entrambi con
forza nell’”età della condivisione”. In secondo luogo, «il paradosso per cui
condividendo si moltiplicano energie, risorse, capacità e opportunità» (Arena, 2015,
p. 16) è alla base tanto della collaborazione civica quanto della sharing economy.
Infine, se la costruzione di reti d’interesse attraverso piattaforme digitali può talvolta
incorrere nel rischio paradossale di polverizzare il legame sociale in rapporti istituiti
singolarmente, “uno-a-uno”, la collaborazione civica è in grado di ancorare la
condivisione, generazione e rigenerazione di commons a formazioni sociali, anche
informali, che traducono l’azione in azione comune.
In conclusione, si vuole qui sottolineare che assicurare alle comunità sia l’accesso –
in termini di fruizione – ai commons materiali e immateriali, sia la partecipazione
attiva alla loro gestione, significa avverarne l’aspirazione alla riappropriazione del
comune:
Sullo sfondo un’idea forte, non sempre resa esplicita: l’idea che i beni comuni appartengano originariamente alla collettività – perché conservati e custoditi dalle comunità di generazione in generazione, perché prodotto di una creazione inevitabilmente collettiva, ecc. – e siano costantemente riprodotti nel quadro di una cooperazione sociale che dal potere pubblico non vuole concessioni, ma pretende riconoscimento.152
152 Marella, 2012, p. 11.
58
Capitolo II
Ripensare il patrimonio culturale
nell’orizzonte dei beni comuni: fondamenti e opportunità
Noi, nella misura in cui possiamo dire “io”,
siamo la nostra memoria.
¬ Umberto Eco153
Gli strumenti teorici fondamentali cui i contributi italiani approfonditi nel capitolo
precedente fanno riferimento per l’analisi del campo dei beni comuni sono qui
riconsiderati nella loro applicabilità al patrimonio culturale, con specifico riferimento
alle peculiarità che esso presenta nel contesto territoriale italiano. Il fine di tale
operazione è evidenziare su quali fondamenti la qualificazione del patrimonio
culturale come bene comune – centrale nel dibattito professionale e istituzionale
odierno154 – possa essere sostenuta, secondo quali prospettive di ricerca possa
svilupparsi e con quali limiti essa debba confrontarsi.
153 Sulla memoria. Una conversazione in tre parti, 2015, videoinstallazione a cura di Davide Ferrario per il Padiglione Italia della Biennale di Venezia.
154 A titolo di esempio, nell’ambito del Semestre della Presidenza Italiana del Consiglio dell’Unione Europea (1 luglio – 31 dicembre 2014) si è tenuta la conferenza internazionale sul tema “Patrimonio culturale come bene comune. Verso una governance partecipativa del patrimonio culturale nel terzo millennio” (Torino, Venaria Reale, 23 – 24). Il 25 novembre 2014 il Consiglio ha adottato le Conclusioni sulla governance partecipativa del patrimonio culturale (GU C 463 del 23.12.2014, pp. 1-3) con le quali ha accolto la Comunicazione della Commissione “Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per l’Europa” (Doc. 12150/14). Essa afferma che «il patrimonio culturale è una risorsa condivisa e un bene comune». Per quanto concerne il dibattito professionale, si segnala il Convegno “Patrimonio Culturale: profili giuridici e tecniche di tutela” tenutosi in data 20 maggio 2016 presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di ‘Roma Tre’ e al quale hanno partecipato, tra gli altri, Ugo Mattei e Luca Nivarra, con interventi volti a problematizzare contestualmente le nozioni giuridiche di bene culturale e bene comune. Di particolare rilievo per l’orientamento di ricerca del presente elaborato è la pubblicazione di Economia della cultura, Vol. 27, N. 1, 2017, interamente dedicato al tema Beni comuni e cultura.
59
A questo scopo, si esamineranno alcune fonti internazionali essenziali a ripensare il
patrimonio culturale nelle sue componenti immateriali e nel suo valore sociale. Si
confronteranno orientamenti di sviluppo urbano e museologici innovativi, capaci di
descrivere un approccio integrato al patrimonio, inteso nelle sue poliedriche
dimensioni storico-archeologiche, paesaggistiche, territoriali e nel suo legame con la
collettività. Infine, si considererà la nozione di cultural commons, nonché i sottesi
processi di sviluppo culturale e creativo, al fine di valutarne l’estendibilità nella
direzione di un heritage commons. Tale operazione di raccordo tra campo dei beni
comuni e campo del patrimonio culturale è volta a costituire una prospettiva teorica
che, nella sua complessità, risulta particolarmente utile a valutare i vantaggi che
forme collaborative di gestione e rigenerazione dei beni comuni urbani possono
apportare allo sviluppo, alla risignificazione e alla riappopriazione vitale del
patrimonio culturale da parte della collettività.
1 Per un approccio integrato al patrimonio culturale:
comunità, diritti culturali e partecipazione
1.1 Tra cose e testimonianze: un dialogo irrisolto
L’ordinamento giuridico italiano assume, nei confronti del patrimonio culturale, un
orientamento essenzialmente materialistico, fondato sul suo riconoscimento –
attraverso il Codice dei beni culturali e del paesaggio155 – in quanto «costituito dai
beni culturali e dai beni paesaggistici» (art. 2, co. 1). I primi si qualificano come le
cose mobili e immobili, appartenenti allo Stato, ad altri enti pubblici, a persone
giuridiche senza scopo di lucro o a enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che
presentano un interesse culturale – artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico – generale. Essi includono altresì le cose mobili e immobili
appartenenti a privati per le quali sia stata dichiarata la sussistenza di un interesse
culturale particolarmente importante (art. 10, co. 1 e 3). Il paesaggio, d’altro canto,
è tutelato dal Codice «relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono
155 D. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, modificato – da ultimo – con D. lgs. 7 gennaio 2016, n. 2 e D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 90.
60
rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione
di valori culturali» (art. 131, co. 2). In particolare, sono beni paesaggistici – secondo
il disposto dell’art. 134 – in primo luogo gli immobili e le aree che presentano
«cospicui caratteri di bellezza» (art. 136, co. 1, lettera a) naturale, panoramica,
estetica o tradizionale individuati con decreto regionale (art. 138) o ministeriale
(141); in secondo luogo le aree riconducibili a territori costieri, fiumi, montagne,
riserve, parchi nonché ai diversi territori indicati all’art. 142; da ultimo, i beni
esplicitamente individuati come tali nei piani paesaggistici (art. 143). Ancorando la
tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, entrambe finalizzate a
«preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere
lo sviluppo della cultura» (art. 2), al suo sostrato materiale, il Codice cancella o
immunizza i tentativi – nazionali o internazionali – di estendere la salvaguardia alle
sue componenti immateriali156.
Il decreto per il Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle
regioni ed agli enti locali (d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112) introduceva, all’art. 148, un
ambito di tutela del patrimonio culturale più ampio di quello attuale. Vi si
qualificavano, infatti, i beni culturali come quei beni «che compongono il patrimonio
storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico
e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così
individuati in base alla legge» e i beni paesaggistici come «quelli individuati in base
alla legge quale testimonianza significativa dell'ambiente nei suoi valori naturali o
culturali». Tale definizione, definitivamente abrogata con l’entrata in vigore del
Codice, riprendeva il fondamentale esito della Commissione Franceschini157 –
secondo il quale costituisce un bene culturale ogni «testimonianza materiale avente
156 È questa una delle tesi esposte in A. Bartolini, “L’immaterialità dei beni culturali”, Aedon, 1/2014.
157 Ovvero la Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio istituita con legge 26 aprile 1964, n. 310 su proposta del Ministero della Pubblica Istruzione. Alla conclusione dei lavori nel 1966, le proposte della Commissione sono state espresse in 84 Dichiarazioni inerenti i beni archeologici, i beni artistici e storici, i beni ambientali (ivi compresi i centri storici), i beni archivistici, i beni librari e alcune indicazioni di carattere amministrativo e finanziario. Gli Atti, i documenti e gli altri materiali prodotti dalla Commissione sono stati raccolti in tre volumi e pubblicati nel 1967 con il titolo Per la salvezza dei beni culturali in Italia (Roma, Ed. Colombo).
61
valore di civiltà» – amplificandone la portata innovativa158 attraverso l’abolizione del
riferimento alla materialità.
Del processo di formale accoglimento e contestuale immunizzazione delle “tracce”
di immaterialità predisposte dalla disciplina internazionale è senz’altro espressione
l’art. 7-bis, introdotto nel Codice con il d. lgs. 26 marzo 2008, n. 62 all’indomani della
ratifica della Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale159 . In base a tale articolo, «le espressioni di identità culturale collettiva
contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a
Parigi, rispettivamente il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili
alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze
materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10».
L’articolo realizza il paradosso di sottoporre alla giurisdizione del Codice «il bene
culturale immateriale solo se ancorato al supporto reale» (Bartolini, 2014)160.
158 Merito fondamentale della Commissione – come ricorda Giannini (M. S. Giannini, “I beni culturali”; Rivista trimestrale di diritto pubblico, 26/1976, pp. 3-38) – è stato quello di considerare obsoleto il metodo definitorio fondato sull’enumerazione delle cose oggetto di tutela. Il bene culturale come “testimonianza materiale avente valore di civiltà” risponde a una concezione aperta, in cui la disciplina giuridica non individua (e non deve individuare) il contenuto e demanda questa operazione alle specifiche discipline non giuridiche. Per una dettagliata ricostruzione dell’evoluzione del “bene culturale” dal d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112 al Testo Unico sui beni culturali (d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490), abolito con l’entrata in vigore del Codice nel 2004, si rimanda a V. De Santis, “L'evoluzione del concetto di bene culturale”, Aedon, URL: http://www.aedon.mulino.it/risorse/dib_tu/desantis.htm.
159 Approvata il 17 ottobre 2003 nell’ambito della Conferenza Generale UNESCO di Parigi, entrata in vigore (alla quarantesima ratifica) il 30 aprile 2006 e ratificata dall’ordinamento italiano con la legge 27 settembre 2007, n. 167. Essa va letta contestualmente alla Convenzione sulla protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali, volta proteggere e promuovere l'interculturalità, adottata a Parigi il 20 ottobre 2005 nel corso della 33^ sessione della Conferenza Generale dell'Unesco e ratificata in Italia con legge 19 febbraio 2007, n. 19.
160 Oltre a negare e desostanziare l’apporto dell’UNESCO, come si evidenzierà nel successivo paragrafo §1.2 dedicato all’analisi e all’interpretazione del nucleo concettuale della Convenzione. Come sottolineato da Tarasco, si tratta «di una sostanziale "elusione" della normativa internazionale, dal momento che al Codice dei beni culturali non si affianca - come già detto — una normativa organica delle evidenze immateriali, con la conseguenza che alla negazione della tutela contenuta nel recente art. 7-bis si associa la lacuna di altre fonti normative» (A. L. Tarasco, “Diversità e immaterialità del patrimonio culturale: una lacuna (sempre più solo) italiana”, La Ricerca Folklorica, 64/2011, pp. 55-61; cit. p. 56).
62
Si estrinseca qui quel principio di limitazione della tutela giuridica sul bene culturale
alla res qui tangi potest161 che è strutturalmente radicato nell’ordinamento giuridico
italiano: «il valore culturale dei beni […] è dato dal collegamento del loro uso e della
loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia, della civiltà o del costume
anche locale. […] La detta utilizzazione non assume un rilievo autonomo, separato e
distinto dai beni di interesse storico, artistico, archeologico ed etnografico, ma si
compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e,
conseguentemente, non può essere protetta separatamente dal bene» (Corte cost.,
9 marzo 1990, n. 118). L’impossibilità di individuare nel diritto positivo italiano un
fondamento per l’identificazione di quella «categoria autonoma» ormai
«pacificamente ammessa» (Bartolini, 2014) che fa capo ai beni culturali immateriali
e, più in generale, al patrimonio immateriale, induce ad allargare lo sguardo a fonti
internazionali.
1.2 L’elemento immateriale: verso un patrimonio culturale vitale
La Convenzione sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale162 (UNESCO,
Parigi, 2003) si radica in un processo163 di progressivo riconoscimento del patrimonio
intangibile che si è sviluppato in contesto internazionale a partire dalla fine degli anni
161 Vale ancora oggi l’affermazione di Sabino Cassese secondo cui «la ricostruzione dei beni culturali è tutta svolta con l'occhio alle cose che siano beni culturali: al fondo della concezione c'è sempre una cosa oggetto di un diritto patrimonile» (S. Cassese, “I beni culturali da Bottai a Spadolini”, Rassegna degli Archivi di Stato, 1975, n. 1-3, pp. 116-142, ora in S. Cassese, L'Amministrazione dello Stato, Milano, Giuffrè, 1976; cit. p. 177).
162 La traduzione italiana cui si fa riferimento è pubblicata dall’Ufficio Patrimonio Mondiale UNESCO del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (http://www.unesco.beniculturali.it/ ). Il testo originale in inglese, francese, spagnolo, russo cinese e arabo, nonché in altre 32 lingue (traduzioni non ufficiali) è consultabile sul sito UNESCO dedicato all’Intangible Cultural Heritage all’indirizzo: https://ich.unesco.org/en/convention (consultato il 02/08/2017). La considerazione comparata dei testi è utile, come si evidenzierà più avanti in questo stesso paragrafo, a mettere in luce lo scarto semantico tra le nozioni di patrimonio e heritage in relazione alla nozione di trasmissione.
163 Per una ricognizione dei momenti principali di tale processo, si rimanda a: Y. Ahmad, “The Scope and Definitions of Heritage: From Tangible to Intangible”, International Journal of Heritage Studies, Vol. 12, No. 3, 2006, pp. 292–300; T. Schmitt, “The UNESCO Concept of Safeguarding Intangible Cultural Heritage: Its Background and Marrakchi Roots”, International Journal of Heritage Studies, Vol. 14, No. 2, 2008, pp. 95–111; M. Vecco, (2010), “A definition of cultural heritage: from the tangible to the intangible”, Journal of Cultural Heritage, Vol. 11, Iss. 3, pp. 321-324; M. Vecco, L’evoluzione del concetto di patrimonio culturale, Milano, Franco Angeli, 2011 (prima edizione: 2007).
63
Ottanta164 e si è espresso in primis nel programma volto ad individuare i Capolavori
del patrimonio orale e immateriale dell'umanità, rimasto in vigore dal 1997 al
2005165. La Convenzione approda non solo a una definizione, volutamente aperta, di
patrimonio culturale immateriale, ma anche all’individuazione dei caratteri specifici
dell’attività di salvaguardia. Si riportano di seguito (Tabella 2.1) gli elementi
principali di tali definizioni, accompagnati da alcune categorie essenziali – ma non
esaustive – di beni culturali immateriali e pratiche di salvaguardia previste dal testo.
Tabella 2.1 – Patrimonio culturale immateriale e salvaguardia nella Convenzione UNESCO 2003166
Patrimonio culturale immateriale
• Costituito da prassi, rappresentazioni, espressioni, conoscenze – così come gli strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali ad essi associati – riconosciuti da comunità, gruppi o (in alcuni casi) individui come parte del proprio patrimonio culturale.
Tra cui: • Tradizioni ed espressioni orali, tra cui il
linguaggio. • Arti performative.
164 Risale al 1989 la Recommendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore, elaborata anche in conseguenza dell’iniziativa del governo boliviano che, dopo aver introdotto misure nazionali volte alla tutela dei diritti di proprietà intellettuale sulla cultura popolare (1973), ha proposto all’UNESCO di instaurare una disciplina simile a livello internazionale (Schmitt, 2008). Nella Raccomandazione del 1989 la cultura popolare – assunta come sinonimo di cultura tradizionale e folklore – viene identificata con la totalità delle creazioni tradizionali di una comunità culturale, espresse da un gruppo o da individui e riconosciute nella loro capacità di riflettere l’identità culturale e sociale della comunità. Essa è tipicamente oggetto di trasmissione orale o imitativa. Tra le forme di folklore la Raccomandazione annovera come tipiche il linguaggio, la letteratura, la musica, la danza, i giochi, la mitologia, i rituali, i costumi, l’artigianato, l’architettura. Il testo originale è disponibile sul sito internazionale UNESCO (URL: http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=13141&URL_ DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html). A questo proposito, risulta di particolare interesse un antecedente estraneo alle logiche della conservazione tipicamente occidentali, costituito dalla legislazione giapponese sul patrimonio vivente del 1950. Per approfondimenti su questo tema si rinvia a B. E. Thornbury (1994), “The Cultural Properties Protection Law and Japan's Folk Performing Arts”, Asian Folklore Studies, Vol. 53, No. 2, pp. 211-225; H. Hashimoto e D. Ambaras (1998), “Re-Creating and Re-Imagining Folk Performing Arts in Contemporary Japan”, Journal of Folklore Research, Vol. 35, No. 1, pp. 35-46.
165 Nel corso del programma, le proclamazioni hanno avuto luogo nel 2001, nel 2003 e nel 2005. I 90 capolavori proclamati in tutto il mondo sono poi confluiti nelle UNESCO Intangible Cultural Heritage Lists, che includono sia la “Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità” sia la “Lista del patrimonio culturale immateriale che necessita di essere urgentemente salvaguardato”. Queste sono affiancate dal “Registro delle buone pratiche di salvaguardia”. 166 Elaborazione tabulare riassuntiva personale a parte dagli artt. 1-3 della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, UNESCO, Parigi, 2003.
64
• È trasmesso di generazione in generazione. • È costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, al loro rapporto con la natura e alla loro storia. • Fornisce alle comunità e ai gruppi un senso di identità e continuità. • Promuove il rispetto per la diversità e la creatività umana. • È compatibile con i diritti umani, con il rispetto tra comunità e gruppi e con le esigenze di sviluppo sostenibile.
• Consuetudini sociali, eventi rituali e festivi.
• Cognizioni e prassi relative alla natura e all’universo.
• Artigianato tradizionale.
Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale
• Costituita da tutte le misure volte a garantirne la vitalità.
Tra cui: • Identificazione. • Documentazione e ricerca. • Preservazione e protezione. • Promozione e valorizzazione. • Trasmissione, soprattutto mediante
educazione formale e informale. • Ravvivamento dei suoi diversi aspetti.
Le due definizioni offrono, ai fini del presente elaborato, diversi elementi di
interesse. Innanzitutto, l’inclusione nella nozione del patrimonio culturale
immateriale di «strumenti, oggetti, manufatti» da un lato e di «spazi culturali»
dall’altro procede nella direzione di un approccio integrato al patrimonio culturale167
che considera il bene culturale non in sé, bensì nel suo contesto. Il patrimonio
culturale immateriale si costituisce, come nozione, sulla base di una nuova
attenzione rivolta alla «profonda interdipendenza fra il patrimonio culturale
immateriale e il patrimonio culturale materiale e i beni naturali»168. Si afferma qui
quella che potremmo definire come una proprietà di relazionalità semantica: i beni
167 Direzione confermata dalla Dichiarazione di Yamato, adottata nel 2004 a conclusione della conferenza internazionale dedicata alla Salvaguardia del patrimonio culturale tangibile e intangibile, nella quale si afferma la necessità di adottare approcci il più possibili integrati per la salvaguardia del patrimonio culturale materiale e immateriale. Vi si afferma infatti: «Taking into account the interdependence, as well as the differences between tangible and intangible cultural heritage, and between the approaches for their safeguarding, we deem it appropriate that, wherever possible, integrated approaches be elaborated to the effect that the safeguarding of the tangible and intangible heritage of communities and groups is consistent and mutually beneficial and reinforcing» (Yamato Declaration on Integrated Approaches for Safeguarding Tangible and Intangible Cultural Heritage, punto 11).
168 Convenzione, 2003, 2° Considerando.
65
che fanno parte del patrimonio, tangibili e intangibili, artificiali e naturali, sono
propriamente culturali in quanto immersi in una rete di significati che ne costituisce
l’identità.
Questo primo tipo di relazionalità, di natura oggettiva in quanto attinente alla sfera
di ciò che è definito culturale, è affiancato da una relazionalità soggettiva, attinente
alla sfera dei soggetti in rapporto ai quali il patrimonio culturale si definisce come
tale169. Tradizioni, arti, ritualità, conoscenze rientrano nel patrimonio immateriale di
una comunità quando questa li riconosce come parte di esso: «il patrimonio
[immateriale] non esiste come un dato a priori» (Vecco, 2011, p. 34). Esso è frutto di
un processo riconducibile a un movimento di appropriazione, che può essere così
descritto:
La nascita di un patrimonio è generalmente caratterizzata da tre tappe. La prima, spontanea, è quella in cui la società produce ciò di cui ha bisogno; la seconda è quella della presa di coscienza, che consiste in un mutamento che pone l’oggetto precedentemente prodotto al di fuori del campo utilitaristico; infine la terza tappa è quella in cui l’oggetto ha acquisito un’identità patrimoniale che giustifica il suo statuto di gestione collettiva.170
Il legame tra comunità e patrimonio si caratterizza, inoltre, come mutualmente
istitutivo. Da un lato il patrimonio si costituisce come tale per il tramite di un atto di
attribuzione da parte della comunità, che ne riconosce come proprio il portato
semantico culturale. Dall’altro, è il patrimonio stesso, attraverso la sua permanenza
e trasmissione, a fornire alla comunità di riferimento il suo senso di identità e di
continuità.
169 La Convenzione riecheggia, in questo senso, la definizione antropologica di cultura, definita come segue: «Culture or civilization, taken in its wide ethnographic sense, is that complex whole which includes knowledge, belief, art, morals, law, custom, and any other capabilities and habits acquired by man as a member of society» (E. B. Tylor, Primitive Culture. Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, London, John Murray, 1871; cit. p. 1).
170 M. Vecco, 2011, p. 34. Un processo simile, descrivibile come public appropriation, è alla base della nozione stessa di patrimonio come common heritage nell’Europa occidentale all’indomani della Rivoluzione Francese. È infatti in questo periodo, con la nazionalizzazione dei beni e delle collezioni prima appartenenti al sovrano regnante (e quindi allo Stato inteso come autorità), che il termine francese patrimoine arriva a designare non più la semplice trasmissione familiare e personale di beni – per la quale héritage rimane il termine più proprio – bensì l’insieme dei public goods conservati e trasmessi in quanto memoria della Nazione (M. Vecco, “A definition of cultural heritage: from the tangible to the intangible”, Journal of Cultural Heritage, 11/2010, pp. 321-324).
66
La trasmissione può legittimamente essere intesa come il cuore della nozione di
salvaguardia elaborata nel patto internazionale, ma è importante rilevare il ruolo che
essa svolge anche nella definizione del patrimonio stesso. La Convenzione afferma
infatti che il «patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in
generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro
ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia» (art. 2, co. 1). La
trasmissione, che si configura come carattere essenziale del patrimonio – il quale è,
in primo luogo, heritage, eredità da trasmettere alle generazioni future – procede di
pari passo con la continua rigenerazione del patrimonio stesso da parte della
comunità di riferimento.
Per comprendere il carattere fondamentale di questa trasmissione creatrice o
rigenerativa è utile qui rilevare lo scarto lessicale tra i due testi originali inglese e
francese del patto. Nel primo caso la nozione di patrimonio è veicolata dal termine
heritage, tradotto in francese non come héritage, bensì come patrimoine171. Come
rileva Vecco (2010), la scelta istituzionale di collocare il “patrimonio” nel campo
semantico del patrimoine e non dell’héritage implica assumere il moto di
trasmissione da una generazione all’altra non come meramente verticale, bensì
come dotato di una fondamentale componente orizzontale. Ad essere trasmessi non
sono solo i beni ricevuti dal passato (come nel processo di mera inheritance), ma
anche i beni che la comunità, al presente, “aggiunge” al proprio patrimonio172.
171 Il problema della traduzione delle locuzioni atte a indicare il “patrimonio culturale” e il “bene culturale” nei diversi contesti nazionali si è posto fin dalla Convenzione dell’Aja (Convenzione per la protezione dei beni culturali in pericolo in caso di conflitti armati, UNESCO, 1954), in cui per la prima volta si utilizza il termine “bene culturale”. Come sottolineato da Villa, «relativamente alla traduzione di tale espressione, si può dire esistano due insiemi. Il primo contempla le lingue italiana, francese, spagnola e tedesca, in cui si parla di “beni culturali” (in francese l’espressione è resa come bien culturels, in spagnolo come bienes culturales, in tedesco come kulturgut). Il secondo insieme fa riferimento alla lingua inglese, in cui l’espressione privilegiata è invece quella di “proprietà culturale” (cultural property)» (D. Villa, Che cosa sono i beni culturali?, Milano, EDUCatt, 2011, p. 20). Questa originaria differenziazione si è inseguito estesa all’ambito del “patrimonio”, per il quale i due insiemi sono costituiti rispettivamente dai termini patrimoine/legado/erbe e heritage.
172 «While the French language uses the term patrimoine, in texts translated into English, one can find other terms such as “property” (stressing possession and property) and “heritage” (stressing the inheritance process). The latter became the most commonly used term internationally. It must be pointed out that the French language also has the term héritage, but its meaning differs considerably: it encompasses the same dynamic concept of transmission, but it must be pointed out that in this case,
67
Attraverso il processo di continua rigenerazione e risignificazione, di
riappropriazione “al presente” insito nel patrimonio culturale immateriale, la
trasmissione alle generazioni future si rende trasmissione viva. Ciò che è trasmesso
è memoria viva.
Tratto fondamentale del patrimonio intangibile è il suo essere contemporaneamente tradizionale e vivente, radicato nel passato ma in costante trasformazione. II concetto di tradizione, infatti, implica la trasmissione del passato non nella sua integrità, ma attraverso un'azione filtrante e selettiva della realtà fattuale, la quale costituisce la tradizione stessa.173
Si comprende, dunque, la posizione centrale assegnata alla vitalità del patrimonio
nella definizione della sua salvaguardia, che si estrinseca innanzitutto (ma non
solamente) in nell’identificazione del patrimonio culturale, nel suo studio, nella sua
conservazione, nella sua promozione e mise en valeur (“enhancement”,
“valorizzazione”174), nonché – appunto – nella sua trasmissione e revitalisation
(“revitalization”, “ravvivamento”).
Considerando globalmente gli elementi fin qui approfonditi, è possibile affermare
che – entro i limiti imposti dalla tutela dei diritti umani, dal mutuo rispetto tra le
comunità, nonché dalle esigenze di uno sviluppo sostenibile – la Convenzione ci
restituisce una nozione di patrimonio culturale immateriale strutturalmente aperta,
che integra le nozioni di patrimonio culturale materiale e patrimonio naturale e i cui
elementi fondanti ruotano attorno ai concetti di relazionalità e vitalità. Nella Figura
only part of the goods inherited are indicated, and not the additional ones of the person who inherited» (Vecco, 2010, p. 322).
173 L. Mariotti, “Patrimonio culturale immateriale: un prodotto metaculturale”, La Ricerca Folklorica, 64/2011, pp. 19-25; cit. p. 22.
174 L’attività di valorizzazione assume particolare rilievo in riferimento al contesto giuridico italiano, che – per quanto attiene il patrimonio culturale – divide le competenze di tutela e valorizzazione e le assegna rispettivamente alla legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, co. 2, s) e alla legislazione concorrente di Stato e Regioni (art. 117, co. 3). Proprio nell’ambito della potestà legislativa regionale in materia di valorizzazione troviamo esempi di accoglimento della nozione di patrimonio culturale immateriale. Vale la pena citare la l. r. 27/2008 della Lombardia, con cui la Regione «riconosce e valorizza, nelle sue diverse forme ed espressioni, il patrimonio culturale immateriale presente sul territorio lombardo o presso comunità di cittadini lombardi residenti all'estero o comunque riferibile alle tradizioni lombarde» (art. 1). Per un approfondimento sulle prospettive regionali in materia di patrimonio culturale immateriale si rinvia a R. Meazza, “Politiche regionali per il patrimonio immateriale”, La Ricerca Folklorica, 64/2011, pp. 45-53.
68
2.1 si ricostruisce una mappatura utile a evidenziare il campo di connessioni, non
rigide, tra le diverse parti che costituiscono la “costellazione” semantica in cui si
inserisce il patrimonio culturale immateriale.
Figura 2.1 – Il patrimonio culturale immateriale come campo semantico175
Si vuole concludere questa breve analisi del dettato pattizio sul patrimonio
immateriale con il riferimento a una disposizione che sembra prefigurare alcuni più
recenti sviluppi nelle fonti internazionali – oggetto del paragrafo successivo del
presente elaborato – e che, contestualmente, consente un primo avvicinamento alla
qualificazione del patrimonio culturale, complessivamente inteso, come bene
comune. L’articolo 15 della Convenzione, nell’ambito della salvaguardia del
patrimonio culturale immateriale a livello nazionale, dispone che ciascuno Stato
compia «ogni sforzo per garantire la più ampia partecipazione delle comunità, dei
gruppi e, ove appropriato, degli individui che creano, mantengono e trasmettono
tale patrimonio, al fine di coinvolgerli attivamente nella sua gestione». Si ritrova qui
175 Elaborazione personale.
69
conferma di ciò che Marella, relativamente ai beni comuni, ha definito come
aspirazione alla riappropriazione. Dall’idea (spesso tacita, in questo caso
apertamente espressa) che «i beni comuni appartengano originariamente alla
collettività – perché conservati e custoditi dalle comunità di generazione in
generazione, perché prodotto di una creazione inevitabilmente collettiva» (Marella,
2012, p. 11) deriva l’esigenza di assicurarne a quella stessa collettività tanto l’accesso
e la fruizione, quanto la partecipazione attiva alla gestione.
1.3 Il diritto culturale come diritto umano: verso un patrimonio culturale partecipato
La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per
la società (CETS n. 199)176, elaborata nel 2005, in vigore dal 2011 e firmata dall’Italia
nel 2013177, testimonia un ulteriore sviluppo della nozione di patrimonio culturale
nella direzione di un approccio integrato e relazionale. In quanto Convenzione
quadro, essa non costituisce un documento vincolante per gli Stati firmatari, ma ne
afferma principi e aree d’azione condivisi178.
Se ne fornisce di seguito un’analisi incentrata sugli elementi di maggiore novità e
interesse inerenti la definizione di patrimonio culturale e di heritage community, il
176 Il testo originale inglese e francese e i documenti di accompagnamento sono disponibili sul sito del Consiglio d’Europa (http://www.coe.int). Una traduzione non ufficiale in italiano è pubblicata dall’Ufficio Studi del Ministero per i beni e le attività culturali (http://www.ufficiostudi.beniculturali.it). In quest’ultima, la locuzione utilizzata per tradurre “cultural heritage” e “patrimoine culturel” è quella di “eredità culturale”, al fine di «evitare confusioni o sovrapposizioni con la definizione di patrimonio culturale di cui all’art.2 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 - Codice dei beni culturali e del paesaggio». In questa sede si è tuttavia ritenuto opportuno adottare la più diretta traduzione “patrimonio culturale”, coerentemente con la scelta precedentemente operata dall’Ufficio Patrimonio Mondiale UNESCO del medesimo Ministero in relazione alla Convenzione sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.
177 Il trattato è aperto a sottoscrizione e ratifica da parte degli Stati membri dal 27 ottobre 2005 ed è entrato in vigore in corrispondenza della decima ratifica, l’1 giugno 2011. Attualmente (luglio 2017) il numero degli Stati firmatari è pari a 23; 17 di tali sottoscrizioni sono state seguite da ratifica. La Convenzione è al momento sottoscritta, ma non ancora ratificata, dall’Italia. L’elenco aggiornato degli Stati firmatari è disponibile sul sito del Consiglio d’Europa (http://www.coe.int).
178 Explanatory Report to the Council of Europe Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society, punto II.
70
rapporto tra patrimonio culturale, sviluppo sostenibile e qualità della vita, nonché la
definizione del diritto culturale di accesso al patrimonio.
La Convenzione quadro definisce il patrimonio culturale come segue:
Cultural heritage is a group of resources inherited from the past which people identify, independently of ownership, as a reflection and expression of their constantly evolving values, beliefs, knowledge and traditions. It includes all aspects of the environment resulting from the interaction between people and places through time.179
Primo punto di fondamentale rilevanza è l’estensione di ciò che abbiamo definito
come principio di relazionalità soggettiva – ovvero il rapporto istitutivo che
intercorre tra comunità e patrimonio – oltre i confini del mero patrimonio culturale
immateriale. Alla base di questa nuova elaborazione del concetto di patrimonio
culturale vi è infatti un approccio che si può definire olistico180 o d’interazione181:
esso abbraccia ambienti storici, culturali e naturali, nei loro aspetti tangibili e
intangibili, in quanto strutturalmente interrelati e in quanto identificati dalla
comunità come riflesso ed espressione dei propri valori e delle proprie tradizioni.
La funzione istitutiva della comunità risponde dunque a un principio inclusivo, che si
estrinseca tanto in una dimensione spaziale quanto in una dimensione temporale.
Alla prima accezione fa capo l’inclusione potenziale, nel perimetro del patrimonio
culturale di una comunità, di tutti gli aspetti dell’ambiente che risultano
dall’interazione storica tra la collettività e i luoghi. Alla seconda accezione fa capo il
179 CETS n. 199, art. 2, a).
180 «The text pursues a comprehensive approach to the built environment embracing urban and rural developments and the intermediate components of the heritage fabric, with all their diversities and vernacular aspects. Nor does it duplicate the 2003 UNESCO convention on safeguarding the intangible heritage, since it is not a matter of safeguarding a supposedly intangible class of heritage but rather of considering the meaning which every heritage whether tangible or intangible has in a given context» (D. Thérond, Benefits and innovations of the Council of Europe Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society, in AA. VV., Heritage and Beyond, Strasbourg, Council of Europe Publishing, 2009; cit. p. 10).
181 «“Cultural heritage”, in its widest sense (embracing cultural and historic environments and tangible and intangible aspects), was to be the subject of the convention. This was consistent with the primary objective of the convention, which was to ensure that the values and needs of cultural heritage in its infinite variety were considered in all fields of policy making and deliberation» (N. Fojut, The philosophical, political and pragmatic roots of the convention, in AA. VV., Heritage and Beyond, Strasbourg, Council of Europe Publishing, 2009; cit. p. 19).
71
riferimento al sistema di valori, credenze, conoscenze e tradizioni proprio della
comunità – sulla base del quale essa identifica il patrimonio culturale come tale –
nella sua costante evoluzione: «what is defined as heritage changes constantly and
is subject to augmentation and review» (Fojut, 2009, p. 19)182.
L’ultima, fondamentale, qualificazione del rapporto istitutivo comunità-patrimonio
è rappresentata dall’affermazione dell’indifferenza rispetto all’assetto proprietario:
la comunità identifica le risorse atte ad esprimere la propria identità culturale come
facenti parte del patrimonio culturale indipendentemente dalla loro proprietà. Si
afferma qui un principio di non-esclusione183 che ha il proprio corrispettivo
nell’affermazione radicale del diritto al patrimonio culturale come inerente al diritto
a partecipare liberamente alla vita culturale sancito dalla Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo (1948)184:
The Parties to this Convention agree to: a. recognise that rights relating to cultural heritage185 are inherent in the
right to participate in cultural life, as defined in the Universal Declaration of Human Rights;
b. recognise individual and collective responsibility towards cultural heritage;
c. emphasise that the conservation of cultural heritage and its sustainable use have human development and quality of life as their goal;
d. take the necessary steps to apply the provisions of this Convention concerning:
182 La componente dinamica insita nel processo di costruzione del patrimonio implica un orientamento che, dalla mera attenzione all’eredità del passato, si volge al futuro, alla trasmissione del patrimonio come sua continua ri-creazione e ri-appropriazione: «l’eredità culturale non comporta un atteggiamento rivolto esclusivamente al passato, alla conservazione e museificazione, ma piuttosto richiede una continua creazione e trasformazione. Non sono pertanto le caratteristiche intrinseche degli oggetti, dei luoghi o delle pratiche ad avere valore di per sé, ma piuttosto il processo di attribuzione di valore che ne fa oggetti, luoghi e pratiche significative per una comunità» (A. D’Alessandro, “La Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore dell'eredità culturale per la società (Faro, 27 ottobre 2005)”, in M. L. Picchio Forlati (a cura di), Il patrimonio culturale immateriale. Venezia e il Veneto come patrimonio europeo, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2014, cit. p. 221).
183 Così come definito da Fujot (non-exclusive concept): «individuals or groups might legitimately recognise heritage value in resources which were not in their possession or under their control» (Fujot, 2009, p. 19).
184 Art. 27, co. 1: «Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici».
185 La locuzione trova il proprio corrispettivo francese nel “droit au patrimoine culturel” da cui è tratta la traduzione italiana.
72
– the role of cultural heritage in the construction of a peaceful and democratic society, and in the processes of sustainable development and the promotion of cultural diversity; – greater synergy of competencies among all the public, institutional and private actors concerned.186
Il diritto al patrimonio culturale si concreta nel diritto di chiunque – individuo o
collettività – di beneficiare del patrimonio culturale e di contribuire al suo
arricchimento (CETS n. 199, art. 4, lett. a) e ha come contraltare la responsabilità –
individuale e collettiva – di rispettare il patrimonio culturale, proprio e altrui (ibidem,
lett. b). L’esercizio di tale diritto può essere soggetto solo alle restrizioni necessarie
alla protezione dell’interesse pubblico e dei diritti e delle libertà altrui (ibidem, lett.
c).
La rilevanza del diritto al patrimonio culturale nel dettato pattizio è espressione di
un più generale rovesciamento di prospettiva, basato sull’assunto della necessità di
porre al centro di un’idea ampia e interdisciplinare di patrimonio culturale la persona
e i valori umani187, più che la conservazione dei beni ereditati dal passato. Come
attestato dall’importanza attribuita al processo di riconoscimento, arricchimento e
continua rigenerazione del patrimonio da parte delle comunità, la Convenzione
quadro muove nella direzione di un generale «riconoscimento della preminenza dei
soggetti e dei processi188 per la significatività del patrimonio e la sua vitalità»
(D’Alessandro, 2014, p. 218). A ciò si lega l’inedita – nei contesti istituzionali –
attenzione riservata dalla Convenzione quadro al tema dello sviluppo sostenibile e
186 CETS n. 199, art. 1.
187 Assunto evidenziato fin nel Preambolo: «Recognising the need to put people and human values at the centre of an enlarged and crossdisciplinary concept of cultural heritage» (CETS, n. 199, 1° Riconoscendo). Come è stato scritto, «ponendo l’uomo e la sua interazione col mondo esterno al centro del processo culturale (a dispetto dell’opera in quanto tale) la Convenzione prospetta di fatto una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’» (A. D’Alessandro, “La Convenzione di Faro e il nuovo Action Plan del Consiglio d’Europa per la promozione di processi partecipativi”, in L. Zagato e M. Vecco (a cura di), Citizens of Europe.Culture e diritti, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2015; cit. p. 78).
188 «Thus, heritage is object and action, product and process. It means not only the things (“goods”, properties, immobilier – “stuff” (and the perceptions or ideas)) that we inherit, irrespective of whether we want to keep them; it can also be taken to mean the processes by which we understand, contextualise (physically and intellectually), perceive, manage, modify, destroy and transform the inherited world» (G. Fairclough, “New Heritage Frontiers”, in AA. VV., Heritage and Beyond, Strasbourg, Council of Europe Publishing, 2009; cit. p. 29).
73
della qualità della vita189, al cui vantaggio il patrimonio, nella sua natura processuale
ed evolutiva, deve essere orientato.
La contestuale attenzione alla comunità, quale luogo istitutivo di significati, e
all’orientamento al futuro del patrimonio, quale processo evolutivo e quale fonte di
sviluppo, si rispecchia nel concetto di comunità patrimoniale, così definito:
A heritage community consists of people who value specific aspects of cultural heritage which they wish, within the framework of public action, to sustain and transmit to future generations.190
Le comunità patrimoniali, nella loro strutturale flessibilità191, si configurano
essenzialmente come comunità d’interesse accomunate da una compartecipe
attribuzione di valore a particolari aspetti del patrimonio culturale. Di tali aspetti
esse possono farsi direttamente carico, attraverso l’azione pubblica, per assicurarne
la trasmissione alle generazioni future192. Il ruolo centrale attribuito alle comunità –
in primo luogo alle comunità patrimoniali – nella produzione del patrimonio
culturale come sistema di valori si traduce dunque nell’esigenza di un loro
coinvolgimento nella gestione integrata del patrimonio stesso, in concomitanza con
tutti gli altri attori sociali193.
189 «Emphasising the value and potential of cultural heritage wisely used as a resource for sustainable development and quality of life in a constantly evolving society» (CETS, n. 199, Preambolo).
190 CETS, n. 199, art. 2, lett. b.
191 «The concept of heritage community is treated as self-defining: by valuing and wishing to pass on specific aspects of the cultural heritage, in interaction with others, an individual becomes part of a community. A heritage community is thus defined as a variable geometry without reference to ethnicity or other rigid communities» (Explanatory Report, Articolo 2).
192 Come rilevato da Carmosino, «Si tratta di gruppi flessibili, trasversali e aperti, più o meno spontanei, non necessariamente accomunati dai classici parametri quali la cittadinanza, l'etnia, la professione, la classe sociale, la religione, ma piuttosto uniti dagli stessi interessi e obiettivi. Possono avere un'estensione territoriale più o meno ampia (locale, regionale, nazionale, sovranazionale); essere temporanei o permanenti; essere formati da individui che appartengono allo stesso tempo a più gruppi; e così via, senza alcuno schema predefinito» (C. Carmosino, “La Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società”, Aedon, 1/2013).
193 «In the management of the cultural heritage, the Parties undertake to: a. promote an integrated and well-informed approach by public authorities in all sectors and at
all levels; b. develop the legal, financial and professional frameworks which make possible joint action by
public authorities, experts, owners, investors, businesses, non-governmental organisations and civil society;
74
Analogamente a quanto fatto in relazione alla Convenzione per la salvaguardia del
patrimonio culturale immateriale nel paragrafo precedente, nella Figura 2.2 si
rappresenta il campo semantico del patrimonio culturale così come concepito nella
Convenzione quadro qui analizzata.
Figura 2.2 – Il patrimonio culturale integrato come campo semantico194
In particolare, si evidenzia la posizione centrale occupata dalla comunità nella
definizione e significazione del patrimonio culturale, che è rete di significati – storici,
naturali, tangibili e intangibili – strutturalmente aperta. Si rappresentano altresì le
principali aree di azione della comunità nell’ambito del patrimonio culturale
integrato, definite dai concetti di diritto culturale, responsabilità, partecipazione
gestionale e sviluppo. Infine, si sottolinea l’orientamento al futuro della Convenzione
quadro mediante il rapporto del sistema-patrimonio complessivamente inteso con
le generazioni future.
c. develop innovative ways for public authorities to co-operate with other actors; d. respect and encourage voluntary initiatives which complement the roles of public authorities; e. encourage non-governmental organisations concerned with heritage conservation to act in
the public interest» (CETS, n. 199, art. 11).
194 Elaborazione personale.
Elementi
intangibili
Diritto
Sviluppo
75
2 Processi e prospettive nel contesto italiano
2.1 Il tessuto urbano come trama culturale
Nel trasferire i costrutti di patrimonio, comunità, territorio, trasmissione,
rigenerazione fin qui approfonditi nello specifico tessuto culturale italiano, lo
sguardo integrato elaborato dai testi internazionali si rivela imprescindibile. La
distribuzione capillare di monumenti, complessi architettonici, paesaggi storici e
naturali costitutivi di un’identità collettiva nel contesto nazionale è stata descritta da
Salvatore Settis nei termini di contiguità e continuità195. Carattere precipuo del
“modello Italia” non è la mera numerosità di elementi culturali, singolarmente
considerati, conservati e musealizzati, bensì «la presenza diffusa, capillare, viva di un
patrimonio solo in piccola parte conservato nei musei, e che incontriamo invece,
anche senza volerlo e anche senza pensarci, nelle strade delle nostre città, nei palazzi
in cui hanno sede abitazioni, scuole e uffici, nelle chiese aperte al culto; [un
patrimonio] che fa tutt’uno con la nostra lingua, la nostra musica e letteratura, la
nostra cultura»196. Continuità, dunque, poiché ogni elemento che costituisce la
trama culturale del territorio italiano è strutturalmente relato al proprio contesto; e
contiguità, poiché la capillarità della diffusione culturale nel territorio si concentra
nei nodi urbani in cui ogni giorno viviamo.
Contiguità e continuità sono qui le parole-chiave: quello che costituisce la nostra identità, la rete che ci avvolge e che ci identifica, è che il nostro patrimonio culturale sono le città nelle quale viviamo, le chiese in cui entriamo, le case e i palazzi in cui abitiamo o che visitiamo, le nostre coste e le nostre montagne. Il nostro patrimonio culturale non è un’entità estranea, calata da fuori, ma qualcosa che abbiamo creato nel tempo […] Il nostro bene culturale più prezioso è il contesto, il continuum fra i monumenti, le città, i cittadini; e del contesto fanno parte integrante non solo musei e monumenti, ma anche la cultura della conservazione che li ha fatti arrivare fino a noi.197
195 Si fa qui particolare riferimento al “modello Italia” elaborato e descritto in S. Setts, Italia S.p.A. All’assalto del patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2007 (prima edizione: 2002), cap. II.
196 Settis, 2007, p. 10.
197 Ibidem, p. 11. È
76
È dunque nel tessuto urbano che la fitta e continua trama culturale del territorio
italiano si fa più evidente: «ogni città è viva narrazione della propria storia, ma anche
volto e traduzione in pietra del popolo che la abita, la conserva e la trasforma. La
città e il suo popolo sono una cosa sola, un solo nodo lega l’esperienza dei viventi e
la memoria delle cose»198. Il dispiegarsi della forma urbana nel tempo, secondo
Settis, è espressione – per quelle realtà che non siano cadute nell’«oblio di sé»199 –
della “città invisibile” che ne anima e innerva le componenti materiali. Essa è
propriamente memoria viva della città, in quanto costituita non solo dai «suoi
abitanti, donne e uomini, ma anche [da] una viva tessitura di racconti e di storie, di
memorie e di principî, di linguaggi e desideri, di istituzioni e progetti che ne hanno
determinato la forma attuale e che guideranno il suo sviluppo futuro» (Settis, 2014).
La trama urbana – in particolare quella delle città storiche – è insomma nodo in cui
si concentra e si evidenzia nella sua contiguità-continuità il patrimonio culturale
italiano, che può dunque definirsi come localmente diffuso. In quanto tessuto
eminentemente culturale, essa si costituisce congiuntamente di elementi materiali
e immateriali. La dimensione immateriale della trama urbana, ciò che si è definito la
“città invisibile”, guida il mutare storico delle forme urbane assicurandone una
dimensione di continuità; è essa stessa il nucleo di un mutare inevitabile:
Il paradosso della conservazione è che nulla si conserva mai né mai si tramanda se resta immobile e stagnante. Anche la tradizione è un continuo rinnovarsi, e se questo necessario, incessante movimento dovesse arrestarsi del tutto, il prezzo sarebbe altissimo: la morte. […] Non c’è, per la città, metafora piú appropriata di quella scolpita da Plutarco: la città è come un organismo vivente, cresce mutando e restando se stessa, secondo – noi oggi diremmo – un codice genetico iscritto nella sua stessa storia, nell’unicità della sua forma urbis. L’anima della città, la “città invisibile” che si manifesta
198 S. Settis, Se Venezia muore, Torino, Einaudi, 2014.
199 « In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dèi (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi» (Settis, 2014, p. 1).
77
attraverso la sua forma visibile, è in questo equilibrio fra permanenza e mutazione, nel rapporto fra città e cittadini, fra «le pietre e il popolo».200
In conclusione, si vuole qui sottolineare che nella città quale è narrata da Settis si
trova un fertile spazio d’incontro tra il campo semantico del patrimonio culturale –
nella sua accezione più complessa e integrata – e il campo semantico dei beni
comuni. Essa infatti sostanzia il diritto essenziale alla città201 che, complementare al
diritto essenziale alla natura202, si caratterizza come diritto collettivo, «in quanto
radicato nella lunga creazione collettiva della città» e «in quanto proiettato verso la
nostra collective afterlife (verso le generazioni che verranno)203» (Settis, 2014).
Inoltre, è proprio nella trama urbana che possono costituirsi le risorse adatte a
gestire collettivamente i beni comuni: nella città si forma ciò che viene definito
capitale civico, ovvero quel particolare tipo di capitale sociale204 che si configura
come l’insieme di credenze e valori condivisi che aiutano un gruppo a superare il
problema del free-riding nel perseguimento di attività socialmente valide205.
200 Settis, 2014.
201 H. Lefebvre, Le droit à la ville, Parigi, Anthropos, 1968 ; trad. It. Il diritto alla città, Verona, Ombre Corte, 2014.
202 «Creazione collettiva non solo di dogi e Consigli dei Dieci, non solo di nobili e mercanti, ma di artigiani e marinai, operai del vetro e dell’arsenale, donne e uomini, veneziani e schiavoni, greci ed ebrei, preti e pittori e musici, falegnami e notai, Venezia ha conquistato per chi ci vive un forte diritto alla città, che qui come non mai è anche diritto alla natura, all’integrità della Laguna che in millenaria simbiosi ne accompagna la storia e la vita» (Settis, 2014).
203 Altrove, Settis approfondisce il legame con le generazioni future quale dimensione fondante dei beni comuni, per salvaguardare i quali «non basta più l’etica (antropocentrica) della prossimità che abbiamo praticato finché le nostre azioni erano limitate nel tempo e nello spazio. Dobbiamo costruire un’etica della lontananza fondata su una consapevole empatia» (S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi, 2012; cit. p. 48). Tale nuova etica implica la considerazione dei “cittadini del futuro” come «cittadini necessari, presenti da subito nell’orizzonte della moralità e del diritto» (ibidem, p. 50), così come l’attenzione a tre diverse specie di lontananza: «chi è lontano da noi nel tempo (i posteri) e chi lo è nello spazio (gli abitanti di un altro continente); chi, infine, pur vicino nel tempo e nello spazio, è da noi lontano per condizioni di vita, di salute, di diritti e di lavoro» (ibidem, p. 43).
204 Definito da Bourdieu come «l’ensemble des ressources actuelles ou potentielles qui sont liées à la possession d’un réseau durable de relations plus ou moins institutionnalisées d’interconnaissance et d’interreconnaissance» (P. Bourdieu, ”Le capital social”, Actes de la recherche en sciences sociales, Vol. 31, No. 1, 19080, pp. 2-3).
205 «Those persistent and shared beliefs and values that help a group overcome the free rider problem in the pursuit of socially valuable activities» (L. Guiso, P. Sapienza, L. Zingales, Civic Capital as the Missing Link, Cambridge (MA), National Bureau of Economic Research, Working Paper No. 15845, 2012; cit. p. 3). Diritto alla città e capitale civico sono, secondo Settis, essenzialmente interrelati:
78
2.2 La cittadinanza come heritage community
La Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società
(Convenzione di Faro, 2005) – oggetto di analisi del paragrafo §1.3 del presente
capitolo – si è tradotta in alcune iniziative locali, eminentemente urbane, volte ad
applicare i principi di partecipazione attiva alla gestione del patrimonio culturale ivi
contenute.
Sul modello delle pratiche di urban rehabilitation di Marsiglia206, nella città di
Venezia si è costituito un movimento associativo volto a tradurre in azione il dettato
pattizio e, in particolare, ad implementare alcune delle good practices segnalate dal
Consiglio d’Europa nell’ambito del Faro Convention Action Plan207.
Finalità dell’associazione Faro Venezia208 è «la valorizzazione del patrimonio storico,
artistico e culturale in tutti suoi aspetti e, in particolare, secondo la definizione che
ne viene data nella Convenzione […] sul valore del Patrimonio Culturale per la
Società, che sostiene l’idea che la conoscenza e l’uso del patrimonio rientrino nel
diritto di partecipazione dei cittadini alla vita culturale, così come definito nella
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo» (Statuto, art. 2). Tale obiettivo
generale si concreta nella realizzazione di un vario insieme di attività209 che, con
«Proviamo dunque a pensare a un “capitale civico” inteso secondo la storia, l’esperienza e le attività partecipative delle associazioni di cittadini, e che tendenzialmente coincida con il “capitale simbolico” della loro città. Lo vedremo imperniato sulla cultura urbana, sulla forma della città, sull’arte, la lingua, la cultura, la musica, la religione, gli orizzonti etici, il rapporto diritti-doveri, la responsabilità sociale, il desiderio di “vivere bene”. Tutti ingredienti, non misurabili, del diritto alla città» (Settis, 2014).
206 Per l’approfondimento del caso si rinvia a A. D’Alessandro, “La Convenzione di Faro e il nuovo Action Plan del Consiglio d’Europa per la promozione di processi partecipativi”, in L. Zagato e M. Vecco (a cura di), Citizens of Europe. Culture e diritti, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2015.
207 I cui principi sono consultabili sul sito del Consiglio d’Europa all’indirizzo http://www.coe.int/ en/web/culture-and-heritage/faro-in-action (consultato il 06/08/2017).
208 Attiva dal 2008, ma costituitasi giuridicamente nel 2012. Lo statuto dell’associazione è consultabile all’indirizzo: https://farovenezia.org/.
209 L’art. 2 dello Statuto associativo cita in particolare la produzione di documentazione, studi, ricerche e pubblicazioni diverse rilevanti per il patrimonio culturale; l’organizzazione di incontri, convegni, workshop; attività di formazione e di informazione, orientamento, educazione, anche in collaborazione con scuole e università; promozione di mostre, spettacoli e attività artistiche; gestione di spazi e attività culturali di tipo culturale in senso ampio; promozione di reti nazionali e internazionali tra associazioni e altre organizzazioni che perseguono obiettivi analoghi o compatibili.
79
modalità differenti, contribuiscono a promuovere una conoscenza partecipata del
patrimonio culturale.
Tra queste spiccano le Passeggiate patrimoniali210, vere e proprie promenades
tematiche attraverso particolari luoghi e percorsi del patrimonio culturale urbano,
concepite e guidate da persone che vivono quotidianamente quegli stessi luoghi o
che hanno con essi una particolare affinità storica, culturale, memoriale o
individuale. Come evidenziato dall’associazione stessa, «la Passeggiata Patrimoniale
ha come obiettivo principale la promozione della consapevolezza tra i cittadini, intesi
come soggetti culturali, della loro interazione con il patrimonio culturale […] ed in
particolare, del beneficio che deriva dal vivere immersi in questo “patrimonio”, tanto
per la sua portata storica, quanto per le attività attuali»211. A distinguere il modello
delle Passeggiata dalla mera visita guidata è proprio il ruolo riservato ai cittadini che
la elaborano e vi partecipano, i quali «indipendentemente dalle loro professioni
agiscono come comunità patrimoniale» (ibidem). Esse costituiscono dunque un
modo per esercitare consapevolmente il ruolo di heritage community, in virtù del
quale la comunità si assume la responsabilità condivisa del proprio patrimonio
(tangibile, intangibile, storico, naturale) e partecipa attivamente alla sua
rigenerazione semantica, nonché alla sua valorizzazione212. Il ruolo di risignificazione
attiva del patrimonio è confermato dalla scelta, per ogni Passeggiata, di un fil rouge
in grado di raccontare le intersezioni tra luoghi, storia, eredità culturale materiale,
società213. Nelle parole dell’associazione:
210 Per un elenco esemplificativo delle Passeggiate realizzate, si può fare riferimento alla sezione dedicata del sito di Faro Venezia: https://farovenezia.org/azioni/le-passeggiate-patrimoniali/ (06/08/2017).
211 Fonte: https://farovenezia.org/azioni/le-passeggiate-patrimoniali/.
212 «La Passeggiata Patrimoniale è uno strumento che interpreta in senso pieno il concetto di diritto al patrimonio culturale: la comunità patrimoniale la usa per testimoniare la propria appartenenza al territorio in cui abita e i visitatori, attraverso di essa, possono arricchire la propria conoscenza e capacità di interpretazione le dimensioni storiche, sociali e culturali del territorio, delle città e dei quartieri» (fonte: : https://farovenezia.org/azioni/le-passeggiate-patrimoniali/).
213 A titolo di esempio, si possono citare le Passeggiate incentrate su: “Il Fondaco dei tedeschi e le comunità di lingua tedesca a Venezia”, “Dopo le fabbriche. Passeggiata nei luoghi della riconversione industriale alla Giudecca”, “Il lavoro femminile all’ex-Manifattura Tabacchi e all’ex-Cotonificio e le trasformazioni urbanistiche in Cittadella della Giustizia e IUAV”.
80
Scegliere un tema significativo, progettare un percorso, trovare i testimoni “attivano” entusiasmo e competenze complesse. Gli studenti (o i cittadini) non dovrebbero esser portati a fare una passeggiata, dovrebbero esserne gli ideatori e organizzatori. È così che i risultati in termini di consapevolezza civica e sviluppo di abilità complesse sono stati sorprendenti. La Passeggiata Patrimoniale diviene l’ambiente di formazione della cittadinanza attiva.214
Nel 2014, sulla scorta di due diversi Convegni di studio promossi a Venezia dal
Consiglio d’Europa sul tema della Convenzione di Faro, Faro Venezia ha contribuito
alla stesura della Carta di Venezia sul valore del patrimonio culturale per la comunità
veneziana215, promossa dal Consiglio d’Europa stesso e dall’Università Ca’ Foscari.
Con essa, la Comunità veneziana dichiara «il patrimonio culturale una risorsa utile
alla società e alle generazioni future che va oltre il mero fine delle azioni di
conservazione, promozione e valorizzazione»; individua nell’accesso e nella
partecipazione attiva alla vita culturale «dimensioni essenziali dei diritti umani
fondamentali»; afferma l’indispensabilità «di un processo partecipato alla gestione
del patrimonio, che preveda una condivisione di responsabilità e una diversificazione
degli attori coinvolti anche in seno alla società civile»; infine, «ritiene necessario
l’orientamento dell’economia legata al patrimonio verso uno sviluppo sostenibile dei
territori locali»216.
2.3 Cultura, territorio, sviluppo: l’apporto delle nuove museologie
Ai fini del presente contributo sono di particolare interesse alcune tendenze di teoria
e prassi museologica che fanno capo alla cosiddetta Nouvelle Muséologie217. Sulla
scorta delle riflessioni condotte in Francia da George-Henri Rivière218 e Hugues de
214 Fonte: https://farovenezia.org/azioni/le-passeggiate-patrimoniali/.
215 Il testo completo è disponibile sul sito dell’associazione, nonché in D’Alessandro, 2015.
216 Carta di Venezia sul valore del patrimonio culturale per la comunità veneziana, 07/05/2014, punto (A).
217 MINOM – International Movement for a New Museology è il nome dell’organizzazione affiliata all’ICOM (International Council of Museums) creata nel 1985 per la ricerca sui temi della museologia sociale, con particolare attenzione a «tutti gli approcci che rendono il museo uno strumento per la costruzione d’identità e lo sviluppo delle comunità» (fonte: http://www.minom-icom.net).
218 G. H. Rivière, “The ecomuseum—an evolutive definition”, Museum International, Vol. 37, Iss. 4, 1985, pp. 182–183.
81
Varine219, ha conosciuto grande diffusione anche nel contesto italiano il modello
dell’ecomuseo. Esso costituisce un modo nuovo di guardare all’istituzione museale
nel contesto sociale e territoriale: non più mero luogo di raccolta, studio,
catalogazione ed esposizione220, bensì strumento di sviluppo locale a partire da una
visione integrata del dato culturale, ambientale, umano:
L’ecomuseo, nella sua variante comunitaria, è in primo luogo una comunità e un obiettivo: lo sviluppo della comunità stessa. Ha inoltre, una funzione educativa generale che si fonda su un patrimonio culturale e su un certo numero di attori, entrambi appartenenti a quella stessa comunità. È, infine un modello di organizzazione cooperativa orientata allo sviluppo e un processo critico di valutazione e di correzione continue.221
Questo nuovo sguardo sul ruolo sociale e territoriale del museo – non più istituzione,
bensì processo di sviluppo locale – ha come suo centro il rapporto tra patrimonio
culturale e comunità. Poiché «il patrimonio culturale rappresenta le radici visibili
della comunità nel territorio» (de Varine, 2005, p. 24), «ciò che conta è che il
patrimonio culturale sia riconosciuto dalla comunità come proprio» (ibidem, p. 25).
Da questo assunto deriva una concezione essenzialmente dinamica e vitale del
patrimonio stesso: esso non è concepito come un «capitale definito una volta per
tutte» (ibidem), mero sedimento del passato da trasmettere intatto alle generazioni
future. Se nutrito della «creatività naturale della comunità» (ibidem, p. 26) esso può
mutare, rinnovarsi e generare nuovo patrimonio culturale.
Tale prospettiva museologica, che vede nel territorio e nella comunità due fonti di
cultura interrelate e integrate da tutelare e ravvivare in loco, è riconosciuta nel
contesto italiano soprattutto dalle amministrazioni regionali. La costituzione di reti
219 H. De Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, Bologna, CLUEB, 2005; op. orig. Les racines du futur, Parigi, ASDIC, 2002.
220 Si fa qui riferimento alla definizione di “museo” stabilita dall’ICOM stesso: « A museum is a non-profit, permanent institution in the service of society and its development, open to the public, which acquires, conserves, researches, communicates and exhibits the tangible and intangible heritage of humanity and its environment for the purposes of education, study and enjoyment» (ICOM Statues, Art. 3). Il riferimento al patrimonio culturale immateriale è stato inserito nella definizione all’indomani della XXI Assemblea generale di ICOM5, svoltasi a Seul dall’1 all’8 ottobre 2004.
221 De Varine, 2005, p. 249-250.
82
ecomuseali a base regionale e la loro tutela istituzionale222 ha infatti costituito lo
strumento con cui le Regioni hanno integrato le mancanze del Codice dei beni
culturali e del paesaggio, intervenendo – per quanto di competenza (ex art. 117
Cost.) – nella valorizzazione del patrimonio culturale immateriale rappresentato
dagli ambienti e dalle tradizioni locali223. La specificità del dispositivo normativo
individuato dalle Regioni per lo sviluppo ecomuseale è rappresentata da un principio
di sussidiarietà224: esse non intervengono nella costituzione né nella gestione diretta
degli ecomusei, bensì ne riconoscono e promuovono l’attività. Se dunque da un lato
viene tutelata l’auto-organizzazione delle comunità225, dall’altro si costruisce un
dialogo proficuo tra collettività locali e amministrazioni.
Un caso particolare, nel panorama italiano, è costituito dall’Ecomuseo Urbano di
Torino226, istituito nel 2004 con deliberazione della Giunta Comunale e basato sul
dialogo tra cittadinanza, Circoscrizioni e Comune. Le dieci Circoscrizioni cittadine
operano come gruppi di lavoro strettamente locali, benché coordinati entro una
cornice unitaria227. Ognuna realizza un proprio programma di attività annuale, sia
all’interno di uno dei Centri cittadini di Documentazione e Interpretazione storia
222 Ad agosto 2017, le regioni e provincie autonome che hanno disciplinato la creazione di strutture ecomuseali sul proprio territorio sono: Piemonte (1995), Trento (2000), Friuli Venezia Giulia (2006), Sardegna (2006), Lombardia (2007), Umbria (2007), Molise (2008), Toscana (2009), Puglia (2011), veneto (2012), Calabria (2012), Sicilia (2014), Lazio (2017).
223 Si veda n. 173, §1.1 del presente capitolo.
224 Come evidenziato da A. Garlandini, “Ecomusei e musei per la valorizzazione del patrimonio culturale immateriale. Nuovi istituti culturali per nuove missioni”, in C. Grasseni (a cura di), Ecomuseologie. Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Rimini, Guaraldi, 2010.
225 Nel caso della normativa piemontese, ad esempio, la costituzione dell’ecomuseo può essere proposta da enti locali, associazioni culturali e ambientaliste e da istituti universitari, mentre la Regione riveste un ruolo di coordinamento generale e di sostegno finanziario. Per un approfondimento sul sistema ecomuseale della Regione Piemonte, si rinvia a E. De Biaggi e I. Testa, “Gli Ecomusei della Regione Piemonte: persone, patrimoni, luoghi”, in C. Grasseni (a cura di), Ecomuseologie. Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Rimini, Guaraldi, 2010.
226 Per approfondire: V. Porcellana, “Interpretare il territorio. Il caso dell’Ecomuseo Urbano di Torino”, in L. Zola (a cura di) Memorie del territorio, territori della memoria, Milano, Franco Angeli, 2009; V. Simone, “Memorie delle città plurali. Principi e pratiche dell’Ecomuseo Urbano di Torino”, in C. Grasseni (a cura di), Ecomuseologie. Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Rimini, Guaraldi, 2010.
227 Costituita dalla Carta per il patrimonio culturale urbano.
83
locale (esposizioni temporanee, incontri, ricerche di archivio), sia promuovendo
percorsi sul territorio.
Nel suo complesso, questo orientamento museologico integrato e partecipativo è
stato accolto, su scala internazionale, dalla XXXI Assemblea Generale dell’ICOM
(Milano 2016), che nella Risoluzione N. 1 – significativamente intitolata The
Responsibility of Museums Towards Landscape – afferma:
Museums contribute not only to the knowledge of the values of cultural landscapes, but also to the development of symbolic frameworks that determine them, so that the notion of cultural landscape becomes an instrument for the assessment of what needs to be protected, enhanced and handed on to future generations, and what will go instead questioned, criticized and modified.228
Ciò che emerge dall’insieme di è, in conclusione, la presenza di un tessuto locale
vivo, incentrato sul valore di comunità, sull’interpretazione del patrimonio culturale
come dato integrato e soprattutto sulla partecipazione attiva e vitale della
cittadinanza alla sua gestione, anche in virtù di un diritto culturale ormai
riconosciuto come diritto umano.
2.4 Dai cultural commons all’heritage commons
Nel solco della nozione di knowledge commons elaborata da Hess e Ostrom, la
letteratura di ambito economico-culturale ha recentemente analizzato la
prospettiva dei cultural commons.229 Questi possono essere definiti come «culture
situate nel tempo e nello spazio – fisico o virtuale – e condivise ed espresse da una
comunità» (Santagata, 2011, p. 356). Tale prospettiva di studio, considerando le
culture come prodotto di una specifica comunità collocata nel tempo e nello spazio,
costituisce uno sviluppo dell’interesse per i distretti culturali, ovvero per quelle
228 ICOM, XXXI General Assembly, Resolution No. 1, “The Responsibility of Museums Towards Landscape”, penultimo capoverso. Il testo delle tre risoluzioni adottate nel corso dell’Assemblea Generale 2016 (Milano) è disponibile sul sito dell’ICOM (http://icom.museum/).
229 Si fa qui particolare riferimento a W. Santagata, “Dai knowledge commons ai cultural commons”, in F. Barbera e W. Santagata, “Discussione su La conoscenza come bene come. Dalla teoria alla pratica di C. Hess e E. Ostrom”, Stato e mercato, 92/2011, pp. 343-361. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a E. Bertacchini et al., Cultural Commons. A New Perspective on the Production and Evolution of Cultures, Cheltenham, Edward Elgar, 2012.
84
agglomerazioni di risorse e attività culturali simbolicamente ed intellettualmente
connesse a uno specifico territorio o comunità230. Ne sono esempi «l’immagine di
una città, una lingua locale, un movimento artistico, le conoscenze tradizionali di
comunità indigene, la creatività espressa dai designer e dalle comunità di artisti»:
tutti elementi alimentati da idee, creatività, credenze conoscenze, costumi, nonché
tecniche produttive proprie di una specifica comunità.
Come i beni comuni della conoscenza, i cultural commons non soffrono di limitata
capacità di carico (carrying capacity): essendo prodotti intellettuali e immateriali, il
loro consumo da parte di un soggetto non ne diminuisce la disponibilità per altri.
Sono essenzialmente soggetti a consumo non-rivale. Differiscono, invece, dai
knowledge commons in virtù di un diverso orientamento temporale: mentre la
nozione di beni comuni della conoscenza riflette la questione di come non
disperdere un capitale di conoscenze accumulato (logica backward-looking), i
cultural commons sono orientati al futuro, ovvero alla produzione di nuove
conoscenze attraverso l’alimentazione di nuove culture al passaggio di ogni
generazione. Come conseguenza, benché sia knowledge sia cultural commons
possano essere definiti come “risorsa condivisa che pone dilemmi sociali”, la natura
del dilemma sociali che queste due classi di beni comuni pongono è essenzialmente
diversa: i cultural commons non possono essere consumati, ma possono essere erosi
a causa della mancanza di nuovi input culturali. La sopravvivenza del cultural
commons dipende «dalla produzione di una quantità ottimale di cultura che alimenti
il contributo a favore della generazione successiva» (ibidem, p. 358).
La prospettiva del cultural commons, pur limitata all’ambito di risorse immateriali,
ha il pregio di porre in evidenza il dilemma sociale cui deve far fronte tutto il
patrimonio culturale nel suo complesso, ovvero il problema della sua rigenerazione
e trasmissione.
230 W. Santagata, "Cultural districts and their role in developed and developing countries", in V. A. Ginsburgh e D. Throsby (a cura di), Handbook of the Economics of Art and Culture, Amsterdam-Oxford, North-Holland (Elsevier), 2006.
85
Al cuore della Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio immateriale
vi è infatti la nozione di salvaguardia, incentrata sulle misure di rivitalizzazione del
patrimonio. Egualmente, la centralità della persona-comunità nella Convenzione
quadro sul valore del patrimonio culturale per la società si estrinseca innanzitutto
nel ruolo istitutivo delle heritage community, definite per la loro “comunità
d’interesse” nei confronti di un particolare aspetto del patrimonio e per la loro
volontà (e azione) di trasmetterlo alle generazioni future. Nella prospettiva di questa
trasmissione rigenerativa si collocano anche i diversi processi e degli orientamenti,
da Venezia a Torino, fin qui citati.
L’individuazione di questo fondamentale dilemma sociale costituisce, nell’opinione
di chi scrive, l’ultimo tassello di una possibile qualificazione del patrimonio culturale
come bene comune. Esso è infatti fondato essenzialmente su una dimensione
collettiva e condivisa, poiché è patrimonio culturale in quanto identificato come tale
da una comunità che vi riconosce i tratti di un’identità comune; e proprio in quanto
“scrigno” dell’identità comune di una collettività, è esso stesso generatore di legame
sociale. L’appropriazione o riconoscimento del patrimonio da parte di una comunità
comporta, inoltre, tanto un diritto quanto una responsabilità: se da un lato il diritto
di partecipare alla vita culturale della comunità è essenzialmente diritto all’accesso
e alla fruizione del patrimonio culturale (inteso nelle sue componenti materiali e
immateriali), dall’altro la responsabilità condivisa di comunità e istituzioni nei suoi
confronti ne impone la cura e la salvaguardia. Infine, il patrimonio culturale è una
risorsa condivisa, per la quale si aprono prospettive di gestione collaborativa; e il
dilemma sociale che tali forme di gestione dovranno affrontare è quello del suo
esaurimento, ovvero della sua mancata rigenerazione o riappropriazione significante
da parte della collettività.
La qualificazione del patrimonio culturale come heritage commons è al centro della
recente Comunicazione della Commissione Europea231 significativamente intitolata
231 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per l'Europa, COM(2014) 477, consultabile mediante il sito internet della Commissione
86
Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per l’Europa. In essa si afferma
che «il patrimonio culturale è una risorsa condivisa e un bene comune» (COM(2014)
477, p. 2), «un mosaico di storie locali che insieme rappresentano la storia
dell’Europa» (ibidem, p. 3). Di esso si evidenzia la natura integrata, il valore sociale,
il rapporto con le comunità e il fondamentale apporto ai fini di uno sviluppo
sostenibile:
La conservazione è sempre più orientata verso la salvaguardia e la valorizzazione di un paesaggio culturale nel suo complesso piuttosto che di un singolo sito e sta anche diventando sempre più incentrata sugli individui. Secondo i vecchi approcci si cercava di proteggere il patrimonio culturale isolandolo dalla vita quotidiana. Nei nuovi approcci prevale invece l'intenzione di renderlo parte integrante della comunità locale. Ai siti viene data una seconda vita, attribuendo loro un significato alla luce delle esigenze e degli interessi attuali. (…) Dato che i siti del patrimonio culturale diventano spazi pubblici che producono capitale sociale e ambientale, le città e le regioni che li ospitano si trasformano in motori dell'attività economica, in centri di conoscenza, in punti focali della creatività e della cultura, in luoghi di interazione della comunità e di integrazione sociale; in breve, essi generano innovazione e contribuiscono a una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.232
Questo orientamento ha trovato ulteriore sviluppo nelle successive Conclusioni del
Consiglio sulla governance partecipativa del patrimonio culturale233. Tale governance
partecipativa si esprime nella «partecipazione attiva dei soggetti interessati – cioè
autorità ed enti pubblici, attori privati, organizzazioni della società civile, ONG,
settore del volontariato e persone interessate – alla definizione, pianificazione,
attuazione, monitoraggio e valutazione delle politiche e dei programmi in materia di
patrimonio culturale al fine di aumentare la responsabilità e la trasparenza degli
investimenti di risorse pubbliche e di accrescere la fiducia del pubblico nelle decisioni
politiche» (punto 9). Essa implica anche il riconoscimento delle potenzialità
generative e rigenerative delle comunità, attraverso il sostegno alle «opere culturali,
artistiche e creative contemporanee che sono strettamente collegate a identità e
(http://ec.europa.eu) nonché tramite EUR-Lex (STABLE URL: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52014DC0477&from=it).
232 COM(2014) 477, pp. 5-6.
233 GU C 463 del 23/12/2014, pp. 1-3, consultabile tramite EUR-Lex (STABLE URL: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52014XG1223(01)&from=IT).
87
valori e spesso basate sul know-how tradizionale e sul patrimonio immateriale delle
persone, e che potrebbero pertanto rappresentare il patrimonio culturale delle
future generazioni» (punto 11).
Con l’adozione di tali conclusioni, il Consiglio invita gli Stati membri a sviluppare
quadri di governance multilivello che integrino strutture locali, regionali, nazionali
ed europee (punto 13); a promuovere il coinvolgimento dei soggetti interessati in
modo che ne sia garantita la possibilità di effettiva partecipazione attiva in tutte le
fasi del processo decisionale (punto 14); a riconoscere «l’importanza della relazione
tra patrimonio materiale, immateriale e digitale» e a considerarne congiuntamente
i valori di tipo sociale, culturale, simbolico, economico e ambientale (punto 15).
Il Consiglio dà inoltre particolare rilievo al ruolo delle comunità patrimoniali virtuali
e urbane, invitando tanto gli Stati membri quanto la Commissione europea –
nell’ambito delle rispettive competenze – ad «esaminare il ruolo delle comunità
virtuali nello sviluppo e nell’attuazione delle politiche in materia di patrimonio
culturale, nel sostegno alla gestione del patrimonio culturale, nello sviluppo di
conoscenze e nel finanziamento (ad esempio tramite il crowdsourcing e il
crowdfunding)» (punto 22) nonché a «favorire la partecipazione civica nel quadro di
un modello di sviluppo intelligente per le città europee che integri attivamente il
patrimonio culturale al fine di contribuire all’innovazione e al rilancio delle città
europee collegandole con i siti e i territori interessati» (punto 24). Crowdsourcing,
crowdfunding e partecipazione civica emergono qui come modalità innovative di
implementazione di modelli di governance condivisa del patrimonio culturale inteso
quale heritage commons. Nel capitolo seguente si approfondiranno alcune
esperienze italiane di gestione locale collaborativa dei beni comuni nel loro impatto,
diretto o indiretto, materiale o immateriale, sul patrimonio culturale urbano.
88
Capitolo III
Forme di condivisione e collaborazione
per la rigenerazione del patrimonio culturale urbano
Nel presente capitolo, si vuole valutare l’apporto potenziale di alcune strategie
innovative di governance condivisa dei beni comuni urbani alla salvaguardia del
patrimonio culturale. In particolare, l’analisi verte su tre esperienze che, secondo
modalità differenti, possono costituire modelli utili a definire strategie di
conservazione vitale del patrimonio culturale nella sua accezione più complessa,
fondata sul riconoscimento integrato delle sue diverse componenti – culturali e
territoriali, materiali e immateriali – nonché sul suo specifico rapporto mutualmente
istitutivo con le comunità di riferimento.
Costituiscono premesse fondamentali allo sviluppo dell’analisi qui condotta le
riflessioni esposte nei precedenti capitoli dell’elaborato. Di questi, il primo si è
concentrato sulla ricognizione di strumenti teorici multidisciplinari, desunti da ambiti
di ricerca filosofici, antropologici, socioeconomici e giuridici, utili ad affrontare con
efficacia il vasto campo dei beni comuni nel contesto italiano. Attraverso i diversi
apporti della filosofia dell’empatia e dell’etica della responsabilità, del paradigma del
dono e delle sue re-interpretazioni più attuali, così come attraverso la lente
dell’economia civile e dell’economia della condivisione, dei lavori della Commissione
Rodotà e della teoria della sussidiarietà, si è potuto costruire un campo semantico
complesso in cui si intrecciano nozioni quali intersoggettività, legame sociale,
responsabilità, reciprocità, collaborazione, condivisione, comunità e partecipazione.
Proprio in quanto chiavi interpretative di un fenomeno fortemente storicizzato
(Rodotà, 2012; 2013) e coerentemente con i fondamenti del dibattito internazionale
(Hardin, 1968; Ostrom, 1990) che hanno qualificato la questione dei beni comuni
come un problema eminentemente gestionale, tali strumenti teorici non mancano
89
di radicarsi in problematiche reali o potenziali dilemmi sociali (Hess & Ostrom, 2007):
dai rischi globali (Pulcini, 2009; 2013) al progressivo ritrarsi della sfera pubblica
(Pennacchi, 2012; 2013a; 2013b; 2015), dalla privatizzazione e dallo spossessamento
degli spazi urbani (Marella, 2012a) al rarificarsi dei tratti funzionali delle comunità
tradizionali (Aime e Cossetta, 2010; Delfanti et al., 2011). Assumono pertanto
particolare rilievo alcune soluzioni pragmatiche o strategie di gestione degli urban
commons individuate e, talvolta, elaborate proprio nel contesto di tali percorsi
teorici. Si fa qui riferimento alle esperienze di crowdfunding civico e di collaborazione
civica che, nei rispettivi ambiti della sharing economy (Pais, Peretti e Spinelli, 2014;
Pais, 2015) e della teoria della sussidiarietà (Arena, 2008; 2015; Iaione, 2015a;
2015b), rappresentano risposte locali a crescenti esigenze di partecipazione della
cittadinanza ai processi di policy-making dell’attore pubblico per quanto concerne
beni collettivi e condivisi.
Il tema dei beni comuni urbani e della città in sé stessa come bene comune (Iaione,
2013) costituisce uno dei traits d’union che consente di guardare al patrimonio
culturale italiano come commons. Muovendo dall’inclusione dei beni culturali e dei
beni paesaggistici entro il perimetro del Disegno di legge delega elaborato dalla
Commissione Rodotà, nel Capitolo II del presente elaborato si è sviluppata un’analisi
delle possibilità di qualificazione del patrimonio culturale, complessivamente inteso,
come bene comune.
Il raccordo tra fonti pattizie internazionali in materia di cultural heritage – in
particolare la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale
(UNESCO, 2003) e la Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la
società (Consiglio d’Europa, 2005) – e la specifica configurazione territorialmente
capillare del patrimonio culturale italiano (Settis, 2007) consente di individuare un
nuovo “campo semantico” che, abbracciando elementi materiali, immateriali e
naturali e ruotando attorno al legame istitutivo tra comunità e patrimonio culturale,
nonché all’assolvimento da parte di quest’ultimo di diritti umani fondamentali,
delinea una nuova nozione di patrimonio culturale integrato.
90
La riflessione qui riassunta muove nella direzione di un arricchimento di quanto
disposto dalla disciplina nazionale in materia, rappresentata essenzialmente dal
Codice dei beni culturali e del paesaggio. Tale direzione coincide con quella indicata
da alcuni documenti europei più recenti, segnatamente la Comunicazione della
Commissione europea Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per
l’Europa (2014) e le Conclusioni del Consiglio europeo sulla Governance partecipativa
del patrimonio culturale (2014); in essi la qualificazione del patrimonio culturale –
composto da risorse materiali, immateriali e naturali – come bene comune è
esplicitamente assunta quale presupposto per la necessità di una partecipazione
attiva delle comunità alla sua gestione.
Le innovative strategie di gestione degli urban commons precedentemente citate –
in quanto pratiche di governance partecipata di tutti i beni, gli spazi e i servizi urbani
funzionali allo svolgimento della vita sociale della comunità in cui sono inseriti234,
nonché in ragione delle loro specificità locali – costituiscono dunque inedite
opportunità per il policy-making in materia di patrimonio culturale. Esse infatti
consentono di rileggere i beni culturali e i beni paesaggistici già tutelati dalla
normativa vigente nelle loro relazioni semantiche e costitutive con il territorio,
rappresentato in primo luogo dal contesto urbano, e con le comunità in relazione
alle quali il patrimonio culturale si definisce come tale, ovvero si costituisce
effettivamente come testimonianza avente valore di civiltà.
234 Si fa qui riferimento alla definizione di urban commons elaborata nei vari contributi di Iaione e riassumibile come segue: «To introduce the concept, the idea of urban commons concerns all those urban spaces and services we consider “local commons” or “common spaces and services.” It is not necessary that the formal ownership of common goods be public, in the sense of being in the care or supervision of some public administration. The ownership of a commons can also be in private hands, but it must be characterized by the necessity of guaranteeing universal access and use and by the need to involve community members in their production and management. Thus, the community includes anybody who can contribute to the survival, care, and conservation of urban commons» (C. Iaione (2016), “The CO-City: Sharing, Collaborating, Cooperating, and Commoning in the City”, American Journal of Economics and Sociology, Vol. 75, No. 2, pp. 415-455; cit. p. 417).
91
1 Premessa metodologica
1.1 Domanda di ricerca e ambito di analisi
La domanda di ricerca cui si intende rispondere con questa breve analisi si interroga
circa le modalità attraverso le quali differenti strategie di gestione e rigenerazione
degli urban commons, di recente applicazione in Italia, intervengono sul patrimonio
culturale integrato delle città e, in particolare, in che misura esse possano costituire
una valida opportunità per l’effettiva salvaguardia, ovvero per la trasmissione vitale,
del patrimonio culturale italiano inteso nella sua accezione più complessa.
Discussi i presupposti teorici di tali strategie nel Capitolo I (§3.3 e §4.2) del presente
elaborato, in questa sede si vogliono approfondire gli esempi offerti da tre specifiche
sperimentazioni tra loro fortemente differenziate in quanto ad architettura
istituzionale, ma accomunate dal proficuo dialogo tra attori privati (singoli e
organizzati) e attori istituzionali e amministrativi235. Le tre esperienze cui si fa
riferimento sono rappresentate da Un passo per San Luca, primo intervento di
crowdfunding civico in Italia promosso direttamente da un’amministrazione locale,
dalla collaborazione tra il Comune di Milano e la piattaforma di crowdfunding Eppela
per progetti di innovazione sociale e, infine, dai patti di collaborazione civica tra
amministrazione e cittadini per la cura e la rigenerazione degli urban commons
istituzionalizzati dal Comune di Bologna con il Regolamento del 2014 ad essi
dedicato.
Si riassumono di seguito (Tabella 3.1) i tratti essenziali di differenziazione tra tali
esperienze. La considerazione di un set di strategie di governance diversificato è
volta a offrire una panoramica quanto più ricca possibile delle varie “sfumature” cui
si può fare riferimento nella definizione di un’architettura istituzionale di gestione
235 La compartecipazione di iniziativa collettiva e iniziativa amministrativa è qui espressione di quella triangolazione pubblico-privato-comune che sola può garantire una corretta elaborazione di significati e valori sociali condivisi senza comportare un depauperamento della sfera e dell’azione pubblica (Pennacchi, 2012; 2013a; 2013b; 2015).
92
dei beni comuni in grado di adattarsi e rispondere adeguatamente alle specifiche
esigenze di ogni contesto locale.
Tabella 3.1 – Diverse architetture istituzionali per la gestione partecipata degli urban commons236
Un passo per San Luca Comune di Milano - Eppela Patti di collaborazione
Crowdfunding civico. Crowdfunding civico. Collaborazione civica.
Intervento singolo. Intervento articolato
time-bound. Intervento articolato
long-lasting.
Progettualità amministrativa. Progettualità civica. Progettualità amministrativa
e civica.
Focus culturale. Focus sociale. Focus diversificato.
Un passo per San Luca rappresenta un’iniziativa di crowdfunding civico ad intervento
singolo, ovvero basato su un unico progetto proposto alla cittadinanza per la raccolta
fondi. Ad ideare il progetto è stata l’amministrazione stessa, in particolare il Comune
di Bologna in collaborazione con il Comitato per il restauro del Portico di San Luca.
Avendo come finalità il restauro di parte di un bene architettonico di interesse
culturale dichiarato237, si può affermare che il progetto ha un focus specificamente
culturale.
Diversamente, la collaborazione tra il Comune di Milano e la piattaforma di
crowdfunding Eppela nasce con l’intento di sostenere progetti innovativi a forte
236 Elaborazione personale.
237 Come conformato dalla scheda anagrafica del bene, corrispondente all’ID 184134, presente nell’archivio digitale del MiBACT Vincoli in Rete (http://vincoliinrete.beniculturali.it). Vincoli in Rete è un database che raccoglie le schede anagrafiche di tutto il patrimonio culturale immobile italiano tutelato, composto sia dai beni culturali di interesse generale non verificato, sia dai beni culturali di interesse particolare dichiarato, sia dai beni sottoposti a vincolo paesaggistico. L’archivio integra i diversi sistemi informativi di Carta del Rischio, Beni Tutelati, SITAP e SIGEC. La banca dati può essere consultata sia mediante una ricerca alfanumerica sia mediante una ricerca cartografica. La scheda anagrafica di ciascun bene riporta informazioni circa la tipologia del bene, la sua denominazione, la natura del suo interesse culturale, la gerarchia (ovvero se si tratti di un bene individuale o di un complesso di beni), gli Enti competenti sia per la tutela sia per la schedatura, la localizzazione, nonché – ove possibile – immagini e fotografie del bene stesso.
93
impatto sociale238. In questo caso, i progetti presentati sulla piattaforma e aperti alla
raccolta fondi sono stati diversi e tutti elaborati da soggetti altri rispetto al Comune
di Milano, ovvero da attori sociali – singoli e associati – qui raggruppati entro la
categoria generale di attori civici. Tale progetto di crowdfunding civico, benché volto
a promuovere più di una campagna soltanto, è comunque racchiuso entro termini
temporali definiti.
Infine, il progetto dei patti di collaborazione implementato dal Comune di Bologna
costituisce, diversamente dai casi precedenti, una strategia basata sulla co-
progettazione di interventi da parte tanto dell’amministrazione quanto della
cittadinanza, nel corpo di cittadini singoli, associazioni, società o istituzioni. Si tratta
dunque di una strategia al suo interno articolata in diversi progetti, ciascuno inerente
uno o più specifici urban commons, e soprattutto distribuita su un orizzonte
temporale non predefinito: basandosi sull’applicazione della disciplina del
Regolamento dedicato, lo strumento del patto di collaborazione – al di là della data
di inizio e fine del singolo intervento – non ha una scadenza predeterminata. La
varietà degli interlocutori potenziali dell’amministrazione comunale si riflette,
inoltre, nella più ampia varietà progettuale.
1.2 Metodologia di ricerca e valutazione
L’analisi elaborata nel presente capitolo si basa su tre insiemi di dati, ciascuno
relativo ad una delle iniziative precedentemente illustrate.
Per quanto riguarda la campagna di crowdfunding civico Un passo per San Luca, sono
state utilizzate le informazioni reperibili sul sito dedicato239, gestito dalla piattaforma
238 Come riportato nel Regolamento dell’iniziativa, disponibile sul sito di Eppela nella sezione dedicata alla collaborazione civica con il Comune di Milano (https://www.eppela.com/it/mentors/ comunemilano; consultato il 01/09/17).
239 Un passo per San Luca: http://www.unpassopersanluca.it.
94
territoriale GINGER240, nonché i comunicati resi disponibili sul sito del Comune di
Bologna241.
Della collaborazione tra il Comune di Milano ed Eppela sono stati presi in
considerazione i dati relativi ai 18 progetti presentati alla cittadinanza per raccolta
fondi e pubblicati nella sezione dedicata del sito di Eppela242. Ulteriori informazioni
relative alle singole campagne nonché al progetto generale sono state reperite in
alcuni comunicati del Comune di Milano243 e attraverso il portale dedicato a Milano
Smart City244.
Infine, relativamente allo strumento dei patti di collaborazione, pur essendo il
Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la
rigenerazione dei beni comuni urbani adottato, ad oggi, in più di centoventi comuni
italiani245, in questa sede si è scelto di considerare unicamente l’esperienza di
Bologna, in quanto modello del successivo diffondersi del fenomeno nonché
240 GINGER (http://www.ideaginger.it/) è una piattaforma di crowdfunding territoriale per l’Emilia-Romagna, nata nel 2013, che risponde al modello modello all or nothing. La piattaforma fornisce anche alcuni servizi aggiuntivi volti ad assistere gli ideatori nella progettazione e nello svolgimento della campagna. Questi servizi di affiancamento e formazione si strutturano in pacchetti diversificati a seconda del livello di assistenza erogato. Per un approfondimento sul modello strategico alla base della piattaforma, si rinvia a Pais, Peretti e Spinelli, 2014.
241 Comune di Bologna: http://comune.bologna.it. In particolare, si è fatto riferimento al comunicato inerente il Progetto Portici (28 maggio 2013, http://www.comune.bologna.it/news/progetto-portici; consultato il 01/09/17).
242 Eppela – Comune di Milano: https://www.eppela.com/it/mentors/comunemilano.
243 Comune di Milano: http://comune.milano.it. Si riportano di seguito i principali comunicati consultati: Parte il crowdfunding civico promosso dal Comune di Milano, 8 aprile 2016 (http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/news/primopiano/archivio_dal_2012/lavoro_sviluppo_ricerca/parte_crowdfunding_civico_comune; consultato il 01/09/2017); Il Comune di Milano lancia la prima piattaforma di finanziamento collettivo per progetti d'impresa, 9 aprile 2016 (http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/news/primopiano/archivio_dal_2012/lavoro_sviluppo_ricerca/finanziamento_collettivo_progetti_impresa; consultato il 01/09/17); Il web e i milanesi scelgono gli ultimi 5 progetti da sostenere con crowdfunding civico, 3 novembre 2016 (http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/news/primopiano/Tutte_notizie/lavoro_sviluppo_ricerca/smart_city_crowdfunding; consultato il 01/09/17); Con il crowdfunding civico del Comune 16 progetti diventano realtà, 16 febbraio 2017 (http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/ news/primopiano/Tutte_notizie/lavoro_sviluppo_ricerca/16_progetti_crowdfunding_civico; consultato il 01/09/17).
244 Milano Smart City: http://www.milanosmart.city.org. Le informazioni utilizzate in questa sede sono reperibili nella sezione del sito dedicata al crowdfunding civico: http://www.milanosmartcity. org/joomla/crowdfunding (consultato il 01/09/17).
245 Si veda il Capitolo I, § 4.2 (e in particolare la nota 140) del presente elaborato.
95
esperienza più matura in merito246. Nell’ambito di tale progetto – iniziato nel 2014 e
tuttora in corso – è stato selezionato un campione costituito dagli 87 patti di
collaborazione sottoscritti dal Comune di Bologna tra il 14/07/2016 e il 21/07/2017
e pubblicati nella sezione Comunità > Beni Comuni della Rete Civica Iperbole247. Le
informazioni sui singoli interventi sono state tratte dal testo pattizio oppure, ove
quest’ultimo non fosse disponibile nell’archivio Iperbole, dalla sintesi pubblicata nel
medesimo archivio.
Delle tre iniziative, si vogliono valutare due categorie di elementi:
• elementi intrinseci: si valuteranno alcuni dati e risultati relativi
all’architettura interna di ciascuna singola strategia, al fine di valutarne
comparativamente i caratteri. In particolare, si evidenzieranno i ruoli e gli
ambiti di azione dei soggetti amministrativi e civici coinvolti. L’analisi di
questi fattori consentirà di definire le modalità di costruzione di sistemi di
policy-making urbano in grado di intervenire sul patrimonio culturale
integrato, rispondendo dunque alla prima parte della domanda di ricerca
precedentemente esplicitata;
• esternalità: di ognuna delle tre iniziative sarà fornita una valutazione, sia
complessiva sia – per quanto concerne i progetti articolati – specifica per
ogni intervento, dell’impatto sul patrimonio culturale integrato così come
progressivamente delineato nel Capitolo II del presente elaborato. L’analisi
degli effetti prodotti sul cultural heritage urbano – in questa sede
denominati “esternalità” in quanto generati anche da interventi non a ciò
originariamente volti – consentirà di rispondere alla seconda parte della
domanda di ricerca sottesa all’analisi, ovvero permetterà di individuare
l’apporto di ogni strategia alla salvaguardia (o conservazione vitale) del
patrimonio culturale integrato.
246 Come ben evidenziato nel Rapporto Labsus 2016 sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, disponibile sul sito di Labsus (http://www.labsus.org/).
247 Archivio disponibile all’indirizzo: http://comunita.comune.bologna.it/patti-dicollaborazione/elenco (consultato il 01/09/17).
96
Per quanto concerne gli elementi intrinseci, le due strategie di crowdfunding civico
– la campagna Un passo per San Luca del Comune di Bologna e la collaborazione tra
il Comune di Milano e la piattaforma Eppela per i progetti innovativi ad impatto
sociale – saranno innanzitutto valutate secondo un framework (Tabella 3.2) atto a
mettere in luce lo specifico ruolo svolto dall’iniziatore amministrativo248.
Tabella 3.2 – Modelli di ruolo per l’iniziatore amministrativo nelle strategie di crowdfunding civico249
Caratteri Esempi
Mo
del
lo s
po
nso
r L’attore amministrativo
svolge la propria campagna per un progetto specifico su una piattaforma
esistente.
• L’amministrazione di Philadelphia (Pennsylvania, US) nel 2013 ha lanciato una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Citizinvestor per un programma educativo all’aperto. • L’amministrazione di Central Falls (Rhode Island, US), mossa dalla scarsità di risorse pubbliche, ha finanziato attraverso una campagna su Citizinvestor il rinnovamento della raccolta dei rifiuti nel principale parco pubblico cittadino.
Pia
ttaf
orm
a am
min
istr
ativ
a
L’attore amministrativo crea la propria piattaforma di
crowdfunding per favorire lo sviluppo
del proprio territorio.
• Il Consiglio del dipartimento della Manica in Francia ha recentemente lanciato una campagna di crowdfunding (OZÉ) per supportare ogni progetto locale volto a creare nuovo valore per la comunità, con lo scopo di promuovere l’innovazione e rafforzare l’identità del dipartimento. • La città di Lisbona, insieme ad altri quattro enti, ha fondato nel 2016 la piattaforma Boa Boa volta a supportare ogni prodotto, servizio o idea che produca valore per Lisbona e rientri in una delle seguenti categorie: imprenditorialità; impresa sociale e innovazione; scienza, ricerca e sviluppo; cultura, cittadinanza e partecipazione.
Mo
del
lo c
ura
tor
L’attore amministrativo
seleziona una lista di progetti che
riflettono la propria agenda su una piattaforma
esistente.
• La città di New York ha creato una propria sezione nella piattaforma di crowdfunding Kickstarter con l’obiettivo di incrementare la partecipazione civica e porre in evidenza i progetti relativi ai quartieri meno avvantaggiati economicamente.
248 Il framework, basato sui contributi di Davies (2014), è stato applicato da Charbit e Desmoulins (C. Charbit, G. Desmoulins (2017), “Civic Crowdfunding: A collective option for local public goods?”, OECD Regional Development Working Papers, 02/2017, Paris, OECD Publishing) per la valutazione di iniziative di crowdfunding civico sviluppatesi sia in contesto europeo sia in contesto statunitense.
249 Rielaborazione e adattamento da Charbit e Desmoulins, 2017.
97
Mo
del
lo f
aci
lita
tor
L’attore amministrativo
crea delle partnership con piattaforme di
crowdfunding per il co-finanziamento
di progetti, insieme al resto dei
backers.
• Nel 2014-15 la Michigan Economic Development Corporation (MEDC) ha sottoscritto una partnership con la piattaforma di crowdfunding civico Patronicity per la rivitalizzazione degli spazi pubblici. La partnership era basata sul co-finanziamento amministrativo (Matching grant scheme) erogato secondo una procedura così articolata: 1. i cittadini identificavano e creavano progetti che avrebbero voluto veder finanziati; 2. i progetti venivano pubblicati sulla piattaforma di crowdfunding civico e sottoposti all’approvazione della MEDC; 3. ai progetti selezionati venivano forniti supporto e consigli personalizzati dalla piattaforma; 4. i progetti che raggiungevano il proprio obiettivo grazie al finanziamento diffuso ricevevano un eguale finanziamento da parte della MEDC.
Sempre per quanto riguarda gli elementi intrinseci delle due strategie di
crowdfunding civico, il numero degli aggiornamenti forniti sulla pagina Web della
campagna nonché l’eventuale pubblicizzazione di eventi paralleli alla raccolta fondi
online saranno qui utilizzati come indicatori comparativi del diverso grado di
coinvolgimento della comunità online e offline e, dunque, del diverso ruolo assunto
dagli attori civici nell’ambito dei due interventi.
L’architettura interna dell’esperienza dei patti di collaborazione a Bologna sarà
invece valutata sulla base del framework sulla co-produzione teorizzato da
Ostrom250. Tale nozione assume particolare rilevanza in relazione a una strategia di
gestione e rigenerazione degli urban commons quale quella implementata dal
Comune di Bologna; il nucleo della co-produzione è infatti costituito, nel modello
elaborato da Ostrom, dalla compartecipazione di individui che non provengono dalla
stessa organizzazione alla produzione di un bene o servizio. In particolare, la o-
produzione di un bene o di un servizio si verifica quando «parte degli input che danno
luogo alla produzione dello stesso provengono non da coloro che hanno il compito
250 E. Ostrom, “Crossing the Great Divide: Coproduction, Synergy, and Development”, World Development, Vol. 24, N. 6, 1996, pp. 1 073-1 087. Nell’elaborazione di Ostrom, la co-produzione implica che i cittadini possano svolgere un ruolo attivo nella produzione di beni o servizi pubblici. Tuttavia, come rilevato da Charbit e Desmoulins (2017), «this way of producing goods is particularly relevant regarding urban commons where both local authorities and residents ensure the sustainability of these types of rival but non-excludable goods» (op. cit., p. 23).
98
di erogarlo, ossia dalla PA, ma da coloro che ne sono potenzialmente destinatari»251.
Mentre nel modello tradizionale di partecipazione al government urbano i cittadini
si esprimono attraverso una mera funzione di feedback, nel modello partecipativo di
governance promosso dalla co-produzione le due sfere dei “produttori regolari” e
dei “consumatori” di beni e servizi urbani si sovrappongono parzialmente (Cataldi,
2015). Le quattro condizioni il cui verificarsi congiunto consente, secondo tale
modello, la costruzione di un’architettura di co-produzione efficace, ovvero tale da
migliorare il governo locale tradizionale, sono di seguito sintetizzate (Figura 3.1).
Scopo dell’analisi su questo punto sarà dunque valutare in che misura, sulla base di
queste quattro variabili, i patti di collaborazione e il Regolamento ad essi sottesi
siano in grado di generare un situazioni di co-produzione, effettiva ed efficace, di
urban commons.
Figura 3.1 – Condizioni per una co-produzione efficace252
251 L. Cataldi, “Coproduzione: uno strumento di riforma in tempi di austerity?”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 1/2015, pp. 59-85; cit. p. 67.
252 Rielaborazione e adattamento da Ostrom, 1996.
Co-produzione
99
Infine, le esternalità generate dai tre progetti qui analizzati saranno valutate secondo
un modello (Figura 3.2) atto ad evidenziare l’area del campo semantico del
patrimonio culturale integrato implicata nei diversi interventi.
Figura 3.2 – Modello di valutazione per gli interventi sull’urban commons253
Tale modello è stato concepito come sintesi delle riflessioni progressivamente
sviluppate nel Capitolo II del presente elaborato. In esso si evidenziano tre aree, non
compiutamente distinte, in cui si verifica la produzione di valore per il patrimonio
culturale alla luce delle interpretazioni fornite, principalmente, dalla Convenzione
UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e dalla
Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società e
dall’integrazione di tali fonti internazionali con la disciplina del Codice dei beni
culturali e del paesaggio. Alla base di tale schema, vi sono dunque tre portati teorici
fondamentali:
• la considerazione congiunta degli elementi materiali e immateriali, culturali
e naturali che compongono il patrimonio culturale integrato, ovvero non solo
l’heritage trasmesso dalle generazioni passate, bensì anche elementi di
253 Elaborazione personale.
Comunità
Patrimonio culturale integrato
Patrimonio culturale tutelato
1. Il progetto interviene sul
legame sociale alla base del
senso di comunità e
appartenenza.
2. Il progetto interviene sugli
aspetti non giuridicamente
tutelati del patrimonio
integrato: cultura
intangibile, creatività,
territorio.
3. Il progetto interviene
direttamente su beni
culturali e paesaggistici.
tutelati dall’ordinamento.
100
cultura viva delle generazioni attuali e le intersezioni di tale portato
complessivamente inteso con il territorio su cui insiste;
• l’ampliamento semantico della conservazione del mero dato materiale in
direzione del più articolato concetto di salvaguardia, il quale implica non solo
la trasmissione dell’eredità culturale ricevuta dal passato, bensì anche una
sua costante rigenerazione volta ad arricchirne il significato per le generazioni
future;
• il legame costitutivo tra patrimonio culturale e comunità, con particolare
attenzione alla funzione generativa che proprio il senso di appartenenza e di
identità collettiva riveste per l’appropriazione e, dunque, la qualificazione del
patrimonio culturale come tale da parte della collettività.
Al cuore di tale modello si colloca l’area definita dall’insieme dei beni culturali e
paesaggistici tutelati dall’ordinamento italiano. Si possono qualificare dunque come
interventi rigenerativi del patrimonio culturale in senso stretto quei progetti di
condivisione o collaborazione nell’ambito degli urban commons che implichino
un’azione diretta su un bene tutelato al fine di migliorarne la conservazione o la
valorizzazione. Quest’area è identificabile con il “nucleo duro” del patrimonio
culturale, ovvero con quei beni che – essendo tutelati dall’ordinamento giuridico in
quanto tali – si possono ricondurre con maggiore immediatezza alla sfera culturale
nel contesto italiano. L’azione della cittadinanza su questa sotto-categoria del
cultural heritage ha come effetto diretto il ristabilirsi di un rapporto immediato tra
comunità e patrimonio stesso.
In secondo luogo, lo schema individua una più ampia area d’intervento che interessa
il patrimonio culturale integrato, costituito da elementi culturali immateriali e
creativi – non tutelati ma tali da contribuire al potenziale rigenerativo delle comunità
patrimoniali – così come dall’elemento contestuale del patrimonio culturale, ovvero
dal suo legame con il territorio. Intervengono sul patrimonio culturale integrato tutti
quei progetti che hanno ad oggetto spazi e porzioni del patrimonio, globalmente
inteso, non tutelato. Si è in questo caso nell’ambito di ciò che può essere definito
101
prodotto metaculturale254 (ambiente, territorio, cultura immateriale, creatività) in
quanto intrecciato a doppio filo con il prodotto culturale in senso stretto. Caso
emblematico è la produzione artistica e creativa contemporanea, in via generale
esclusa dal perimetro del patrimonio255, ma inequivocabilmente legata ad esso sia in
quanto fonte del processo culturale sottostante alla generale creazione di
patrimonio, sia in quanto frutto dell’eredità culturale.
Infine, il modello individua un’ultima area d’intervento in grado di influire in modo
sostanziale sulla salvaguardia del patrimonio culturale. Tale area, meno
direttamente collegata ai beni effettivamente tutelati dall’ordinamento, è costituita
dai legami di comunità, prerequisito fondamentale per ogni movimento di
identificazione, appropriazione, rigenerazione e trasmissione vitale del patrimonio
culturale. Intervengono dunque sul patrimonio culturale, benché solo per via
indiretta, quei progetti che partecipano alla costruzione o ricostruzione del senso di
comunità e del legame sociale, ovvero i progetti volti all’urban commons in senso
ampio e sociale. Ricostituire il senso di coappartenenza significa riavviare, alla sua
origine, il processo di significazione del patrimonio.
Da ultimo, è bene sottolineare che le aree qui individuate con costituiscono realtà
totalmente distinte, tali da consentire una valutazione univoca di ogni intervento,
bensì si compenetrano e si alimentano a vicenda. Ad esempio, un progetto che abbia
ad oggetto un edificio storico riabilitato a luogo di sperimentazione artistica agirebbe
contestualmente sui livelli (3) e (2), rigenerando il significato di quel particolare bene
architettonico attraverso un processo creativo metaculturale. Egualmente, un
intervento creativo volto a riqualificare uno spazio urbano che coinvolga determinati
target sociali al fine di incoraggiarne le dinamiche di integrazione e solidarietà
agirebbe contemporaneamente sui livelli (2) e (1) dello schema di valutazione,
contribuendo tanto alla rigenerazione dei legami di comunità quanto alla produzione
254 B. Kirshenblatt-Gimblett, “Intangible heritage as a metacultural production”, Museum International, vol. 56, no. 1–2, 2004, pp. 52-65.
255 «Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente Titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni.» (Codice dei beni culturali e del paesaggio, art. 15, co. 5).
102
di creatività. In conclusione, se è possibile in molti casi individuare un’area
d’intervento prevalente per ogni progettualità, il modello proposto non nega – e,
anzi, vuole evidenziare – lo stretto legame tra le diverse modalità secondo cui un
intervento civico di rigenerazione condivisa di urban commons può contribuire alla
salvaguardia del patrimonio culturale.
2 Analisi dei dati e principali risultati
2.1 Il crowdfunding civico a Bologna: Un passo per San Luca
Il progetto e la campagna
La campagna di finanziamento diffuso di Un passo per San Luca è nata dall’esigenza
di restaurare due specifiche arcate del portico storico che, a Bologna, collega l’Arco
del Meloncello al Santuario di San Luca. Il progetto, promosso dal Comune di Bologna
e dal Comitato per il restauro del portico di San Luca, è stato realizzato attraverso il
supporto della piattaforma di crowdfunding GINGER (Gestione Idee Nuove e Geniali
per l’Emilia Romagna)256 che ha ideato un sito Internet dedicato257 e gestito la
campagna. La raccolta fondi online è cominciata il 28 ottobre 2013 ed è terminata
ufficialmente il 1 dicembre 2014, avendo raccolto 339.743 euro – sui 300.000
dell’obiettivo iniziale – da parte di 7.111 sostenitori. Tale campagna di crowdfunding
va inquadrata nel più ampio Progetto Portici del Comune di Bologna258, dedicato alla
cura e alla valorizzazione dell’intero sistema-portici della città, anche in vista della
preparazione di un dossier per la candidatura a Patrimonio dell’Umanità UNESCO.
Prima della campagna stessa, l’amministrazione comunale ha reso disponibile online
un questionario259 per indagare più approfonditamente il posizionamento del
complesso architettonico rispetto gli interessi e al “sentire” dei cittadini. Le risposte
256 Si veda il § 1.2, nota 139 del presente Capitolo.
257 Un passo per San Luca: http://www.unpassopersanluca.it.
258 Fonte: Comune di Bologna (http://www.comune.bologna.it/news/progetto-portici; consultato il 01/09/17).
259 Fonte: GINGER (http://www.unpassopersanluca.it/news-6-cosa-rappresenta-san-luca-per-bologna-.html; consultato il 01/09/17).
103
fornite dai circa 800 soggetti che hanno completato il questionario hanno dato
conferma di un altro grado di coinvolgimento emotivo rispetto al bene
architettonico, percepito come “cuore” e “storia” di Bologna. Il questionario ha
mostrato anche la consapevolezza diffusa della prossima candidatura UNESCO e
della necessità di restauri urgenti. Sempre prima del lancio della campagna, sono
state realizzate altre due iniziative volte a sensibilizzare e a sollecitare il
coinvolgimento della comunità: il concerto dell’Orchestra di Fiati della Città di Noci
presso il Teatro delle Celebrazioni, i cui incassi sono stati interamente devoluti alla
campagna; la rievocazione storica del Passamano per San Luca, ricorrenza annuale
che, nell’ambito della Festa internazionale della Storia, rievoca la "catena umana"
che nel 1677 aiutò a trasportare i materiali di costruzione del portico sulla cima del
Colle della Guardia.
Il ruolo dell’amministrazione
Con riferimento alla classificazione proposta da Charbit e Desmoulins (2017) in
merito gli iniziatori amministrativi (Tabella 3.3), il Comune di Bologna nel caso di Un
passo per San Luca si colloca per lo più tra sponsor e piattaforma amministrativa.
Tabella 3.3 – Modelli di ruolo per l’amministrazione: Un passo per San Luca260
Modello sponsor Piattaforma
amministrativa Modello curator Modello facilitator
Svolge la propria campagna per un
progetto specifico su una piattaforma
esistente.
Crea la propria piattaforma di
crowdfunding per favorire lo sviluppo
del proprio territorio.
Selezione una lista di progetti che
riflettono la propria agenda su una
piattaforma esistente.
Partnership con piattaforme di
crowdfunding per il co-finanziamento di progetti, insieme al resto dei backers.
La campagna di Un passo per San Luca è stata lanciata mediante la collaborazione
con una piattaforma già esistente, ma attraverso la creazione di un sito dedicato.
260 Elaborazione personale a partire da Charbit e Desmoulins, 2017.
104
Inoltre, il forte connotato locale261 della piattaforma che ha gestito la campagna
contribuisce a evidenziare il ruolo centrale assegnato allo sviluppo territoriale dal
progetto. Da ultimo, nel caso di Un passo per San Luca, il ruolo svolto dal Comune è
di primo piano: non solo è principale promotore del progetto, ma – contribuendo al
successo con un contributo iniziale pari a un terzo dell’obiettivo finale – ne è anche
primo finanziatore e quindi, in parte, facilitator.
Il coinvolgimento della comunità
Sia prima che nel corso della campagna, sono state implementate diverse iniziative
ed attività collaterali al fine di incrementare il coinvolgimento della comunità offline.
Tra queste:
• #iopassopersanluca: contest fotografico promosso sui social network; gli
scatti migliori sono confluiti in una mostra temporanea nello spazio
Esposizioni di Urban Center Bologna;
• Visite guidate al Portico di San Luca: utilizzate come sistema di reward
opzionale;
• I portici di Bologna nel contesto europeo, convegno svoltosi nell’ambito della
Settimana UNESCO di Educazione allo Sviluppo Sostenibile 2013;
• San Locca Day: festa dedicata interamente al progetto, svoltasi a circa un
anno di distanza (12 ottobre 2014) dall’inizio della campagna. La festa è stata
organizzata nella stessa via di San Luca, coinvolgendo artigiani, artisti,
musicisti; vi hanno trovato spazio anche una mostra di fotografia e nuove
visite guidate al Portico.
L’uso del sito dedicato al progetto come bacheca per le numerose iniziative
collaterali, oltre che per gli aggiornamenti sull’andamento della campagna, può
essere interpretato come un indicatore di active offline community (Stiver et al.,
261 «GINGER è un sito crowd che ha la sua forza nella territorialità. Ogni progetto per noi è importante, come è importante il legame che ha con il territorio. Per questo abbiamo deciso di focalizzarci sull'Emilia Romagna, seguire le idee da vicino e farle crescere grazie all'attivazione di reti territoriali. Inoltre, siamo convinte che legare i progetti al territorio, alle persone, alle attività offline di promozione e diffusione siano il modo per trasformare il crowdfunding in leva per lo sviluppo economico e sociale» (Fonte: GINGER; http://www.ideaginger.it/).
105
2015b)262. Tale incoraggiamento della partecipazione offline della cittadinanza si
accompagna a un forte engagement della online community, come evidenziato dal
numero e dalla frequenza degli aggiornamenti pubblicati sul sito della campagna
(oltre 100 tra il 26/10/2013 e il 1/12/2014).
Aree d’intervento
Poiché il progetto interviene direttamente sulla rigenerazione di un bene
architettonico di interesse culturale dichiarato263, secondo il modello di valutazione
per gli interventi sugli urban commons precedentemente illustrato264 esso si colloca
tra le forme di intervento core rispetto alla risignificazione vitale del patrimonio
culturale della comunità di riferimento. Nel caso in esame, in particolare, tutte le
dimensioni del patrimonio risultano interessate dall’intervento. Accanto alla raccolta
fondi per il bene culturale in senso stretto, sono state realizzate numerose attività
atte ad agire sia sul livello metaculturale della produzione di nuovi significati, sia sul
livello sociale di rinvigorimento del senso comunitario. Al primo tipo fa capo
l’intervento di Cracking Art, collettivo di artisti che a sostegno del progetto ha
“invaso” alcuni spazi pubblici con le proprie opere, poi donandole alla campagna
affinché fossero utilizzate come reward opzionali. Ascrivibile contemporaneamente
all’area metaculturale e all’area comunitaria è, ad esempio, il San Locca Day, che ha
revitalizzato il Portico stesso mediante un evento sociale (la Festa) e diversi processi
creativi (gli artisti, musicisti, danzatori, artigiani che l’hanno animata).
2.2 Il crowdfunding civico a Milano: Eppela e l’innovazione sociale
Il progetto e la campagna
Il progetto Crowdfunding Civico del Comune di Milano nasce nel 2015 come
collaborazione tra il Comune di Milano ed Eppela, tra le prime piattaforme italiane
262 A. Stiver et al. (2015b). “Civic crowdfunding: how do offline communities engage online?”, Proceedings of the 2015 British HCI Conference, ACM, pp. 37-45.
263 Fonte: Vincoli in rete (http://vincoliinrete.beniculturali.it/).
264 Nel paragrafo §1.2 del presente capitolo.
106
di reward-based crowdfunding265. La collaborazione ha lo scopo di sostenere progetti
innovativi ad alto impatto sociale nel campo della cura e dell’assistenza a categorie
fragili di popolazione, dell’accessibilità e della connettività urbana, della qualità di
vita dei cittadini. Il progetto si inserisce, dunque, nel più ampio orizzonte della
costituzione di una Smart City.266 Dei 22 progetti più meritevoli, selezionati tramite
bando del Comune, 18 sono stati pubblicati – in gruppi – all’interno di una sezione
dedicata della piattaforma Eppela, ciascuno per un periodo limitato di tempo
(quaranta giorni) con la garanzia di un co-finanziamento del Comune volto a coprire
la quota mancante per tutti i progetti che avessero raggiunto almeno il 50% del
proprio obiettivo (fino a un importo massimo di 50.000 euro per ciascun progetto).
La collaborazione – complessivamente sviluppatasi tra aprile e dicembre 2015 – ha
finito col premiare 16 dei 18 progetti inizialmente proposti al pubblico. Di questi
ultimi si sintetizzano nell’Appendice I del presente elaborato le informazioni
principali. In particolare, di ogni progetto si riportano:
• round di pertinenza;
• titolo;
• sintesi delle attività che si vogliono finanziare con la campagna;
• obiettivo di finanziamento;
• quota di finanziamento effettivo sull’obiettivo iniziale;
• numero di backers, incluso il Comune di Milano;
• numero di updates;
• finalità prevalente, individuata sulla base della natura del progetto e dalle
attività che si intendono realizzare con la raccolta fondi;
265 Si veda I. Pais e M. Mainieri, Il crowdfunding in Italia. Report 2016, disponibile sul sito Internet di Sharitaly (http://sharitaly.com/).
266 «Il Comune di Milano ha scelto di promuovere l’innovazione sociale come uno degli aspetti della Smart City. Non si vuole ridurre il dibattito sulla Smart City alla sola dimensione tecnologica ma si intende ragionare, invece, su come l’innovazione nelle città possa contribuire allo sviluppo di nuovi metodi di risoluzione di problemi socialmente rilevanti. Le Smart Cities sono infatti le città che creano le condizioni di governo, infrastrutturali e tecnologiche per produrre anche innovazione sociale» (Fonte: http://www.milanosmartcity.org/joomla/innovazione-sociale).
107
• posizione nella modello di valutazione per gli interventi sull’urban commons
illustrato nel presente elaborato.
Per quanto concerne la finalità prevalente, sono state individuate tre categorie di
progettualità:
1. progettualità con finalità sociale: categoria che raggruppa i progetti in cui la
costruzione di spazi, luoghi e occasioni di relazione e incontro è
preponderante;
2. progettualità con finalità di cura del territorio: categoria in cui prevale
l’obiettivo di tutela e ampliamento del verde urbano, nonché di riuso e
rifunzionalizzazione di spazi pubblici dismessi, abbandonati o inutilizzati;
3. progettualità con finalità creativa: categoria che include progetti dominati
dall’intento di promuovere la produzione artistica e la creatività urbana;
Sulla base della classificazione nelle diverse categorie sopraindicate, ogni progetto è
stato collocato nello schema di valutazione per gli interventi sull’urban commons
secondo i seguenti criteri:
• i progetti a prevalente finalità sociale intervengono principalmente sul
legame sociale contribuendo ad alimentare il senso di co-appartenenza e
identità della cittadinanza e, dunque, a costituire la precondizione per ogni
appropriazione o ri-appropriazione significante del patrimonio culturale. A
questi progetti corrisponde dunque la posizione denominata Comunità;
• i progetti con finalità di cura del territorio o creativa intervengono su aspetti
del patrimonio culturale integrato (contesto, urbano e naturale; beni
intangibili; produzione artistica e creativa contemporanea) non legalmente
tutelati come parte del patrimonio culturale, in quanto non identificabili con
beni culturali o beni paesaggistici in senso codicistico. A questi progetti
corrisponde la posizione denominata Patrimonio culturale integrato.
La posizione denominata Patrimonio culturale tutelato non trova corrispondenza nei
progetti presentati per il crowdfunding civico di Milano. Sulla base di un confronto
con l’archivio Vincoli in rete del MiBACT, è infatti possibile affermare che nessuno di
108
essi interviene direttamente su un bene culturale o un bene paesaggistico
riconosciuto.
Come evidenziato dai dati di sintesi sulla distribuzione – riportati in calce alla tabella
riassuntiva dei progetti (Appendice I) – 16 progetti su 18 (89%) hanno ottenuto il
finanziamento, con una media di backers pari a 100,63 e di updates pari a 2,5. I
progetti che non hanno ottenuto il finanziamento presentano – prevedibilmente –
una media inferiore di backers (20) così come di updates (0,5). L’obiettivo medio dei
progetti che hanno avuto successo è pari a circa 41.064€, mentre l’obiettivo medio
degli insuccessi è pari a 3.650€.
Il ruolo dell’amministrazione
In relazione ai ruoli di promozione possibili per l’attore amministrativo (Charbit e
Desmoulins, 2017), il Comune di Milano nell’ambito della collaborazione con Eppela
per il sostegno a progetti d’innovazione sociale si colloca tra modello facilitator e
modello curator (Tabella 3.4). Ha infatti utilizzato una piattaforma esistente, benché
in una sua sezione ad hoc, e ha preselezionato sulla base della propria agenda di
Smart City e innovazione sociale i progetti da proporre al finanziamento diffuso. Allo
stesso tempo, ha adottato in parte la strategia di facilitator co-finanziando i progetti
giunti al 50% del proprio obiettivo entro i quaranta giorni a disposizione.
Tabella 3.4 – Modelli di ruolo per l’amministrazione: Milano-Eppela267
Modello sponsor Piattaforma
amministrativa Modello curator Modello facilitator
Svolge la propria campagna per un
progetto specifico su una piattaforma
esistente.
Crea la propria piattaforma di
crowdfunding per favorire lo sviluppo
del proprio territorio.
Selezione una lista di progetti che
riflettono la propria agenda su una
piattaforma esistente.
Partnership con piattaforme di
crowdfunding per il co-finanziamento di progetti, insieme al resto dei backers.
267 Elaborazione personale a partire da Charbit e Desmoulins, 2017.
109
Il coinvolgimento della comunità
A differenza del sito dedicato a Un passo per San Luca, la sezione del sito di Eppela
dedicata al mentor Comune di Milano non presenta una sezione notizie per fornire
updates generali sul progetto alla comunità. La gestione delle dinamiche di
sollecitazione è dunque lasciata all’autonomia delle singole campagne. È
interessante notare come anche le campagne con più backers abbiano utilizzato
significativamente poco la piattaforma Eppela per mantenere viva l’attenzione della
community. Ad esempio, considerando il campione costituito dai progetti che hanno
ottenuto un numero di sostenitori superiore alla media del numero di sostenitori dei
progetti di successo (dunque maggiore di 100,63), il numero medio di updates per
ogni campagna risulta inferiore al numero medio di updates calcolato sul campione
dei casi di successo. Tale risultato denota una strategia di coinvolgimento basata più
sulla comunità offline che sulla online community e, contestualmente, fondata per lo
più su reti relazionali territoriali o personali dei promotori delle singole campagne e
non connesse al partenariato Milano – Eppela.
Aree d’intervento
Di seguito si rappresentano graficamente (Figure 3.3 e 3.4) i principali dati di sintesi
relativi alla finalità prevalente dei diversi interventi e alla loro conseguente
collocazione nel modello di valutazione illustrato nel §1.2 del presente capitolo.
55,56%
11,11%
33,33%
Figura 3.3 - Finalità prevalente delle campagne di crowdfunding civico a Milano
Sociale Creativa Cura del territorio
110
La collaborazione Milano – Eppela, coerentemente con l’obiettivo d’innovazione
sociale, si colloca per lo più nell’area della rigenerazione comunitaria, con alcune
significative eccezioni – CineWall268 e Il Cantiere dell’Ortica269 – che si collocano a
pieno titolo nell’ambito della sperimentazione artistica e della creatività. Rilevanti
sono inoltre i progetti ibridi, che confermano la natura intrinsecamente interrelata
delle diverse aree di intervento individuate dal modello. Le integrazioni più frequenti
si realizzano tra le aree Comunità e Patrimonio culturale integrato. Esempi di
progettualità ibride che intersecano legami di comunità e creatività urbana sono
costituiti da: Gallab, volto alla riqualificazione di una falegnameria come laboratorio
creativo, come centro di formazione e anche come semplice spazio sociale;
Medicinema, per l’utilizzo dell’arte cinematografica come terapia di sollievo nelle
strutture ospedaliere; Gli altri siamo noi, in cui lo strumento della mostra (elemento
creativo-culturale) è utilizzato a fini educativi (elemento sociale). Integrano, invece,
aspetti comunitari e territorio progetti quali PomodOrti Urbani, volto alla creazione
di un orto condiviso per il recupero di uno spazio abbandonato, e Facciamo la festa
268 Progetto di realizzazione di uno spazio non convenzionale nel quale promuovere la cultura del cinema, adattando l’offerta a domande particolari, come le comunità linguistiche diverse.
269 Progetto di realizzazione di uno spazio artistico dedicato alla sperimentazione in ambito musicale, teatrale, pittorico et similia.
55,56%
44,44%
Figura 3.4 - Posizione delle campagne di crowdfunding civico a Milano nel modello di valutazione per gli interventi sull'urban commons
Comunità Patrimonio culturale integrato
111
alla mafia!, volto a realizzare un Giardino Accogliente – ossia un’area verde sociale
– nei terreni attorno a Casa Chiaravalle, bene confiscato alla mafia.
2.3 I patti di collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la
rigenerazione degli urban commons a Bologna
Il progetto
I patti di collaborazione costituiscono lo strumento individuato dal Comune di
Bologna con il Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per
la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani (2014) al fine implementare forme
di gestione condivisa degli urban commons. Essi costituiscono atto non autoritativo
dell’amministrazione e, in quanto tali, rispondono a una natura sostanzialmente
contrattuale. Pertanto in essi sono concordate in modo dettagliato le funzioni che,
di volta in volta, cittadini – singoli e associati – e amministrazione dovranno assolvere
per la cura, la gestione o la rigenerazione del bene oggetto del patto270.
Il campione cui fanno riferimento i risultati qui riportati è costituito dagli 87 patti di
collaborazione sottoscritti dal Comune tra il 14/07/2016 e il 21/07/2017 e pubblicati
dalla Rete Civica Iperbole. Le informazioni alla base dell’analisi – raccolte
nell’Appendice II del presente elaborato – sono state tratte dal testo pattizio oppure,
ove quest’ultimo non fosse disponibile nell’archivio Iperbole, dalla sintesi pubblicata
nel medesimo archivio. Di ogni patto, in Appendice si indicano:
• titolo;
• sintesi delle principali attività;
• data di inizio e fine;
• finalità prevalente, individuata sulla base delle principali attività che ogni
progetto intende realizzare;
• eventuale impatto su un bene culturale o paesaggistico riconosciuto e
tutelato;
• classificazione secondo lo schema di valutazione proposto.
270 I contenuti minimi del testo pattizio sono elencati nel Capitolo I, § 4.2 del presente elaborato.
112
Per quanto concerne la finalità prevalente, sono state individuate quattro categorie
di progettualità:
1. progettualità con finalità sociale: categoria che raggruppa i progetti in cui la
costruzione di spazi, luoghi e occasioni di relazione e incontro è
preponderante;
2. progettualità con finalità di cura del territorio: categoria in cui prevale
l’obiettivo di tutela e ampliamento del verde urbano, nonché di riuso e
rifunzionalizzazione di spazi pubblici dismessi, abbandonati o inutilizzati;
3. progettualità con finalità creativa: categoria che include progetti dominati
dall’intento di promuovere la produzione artistica e la creatività urbana;
4. progettualità con finalità culturale: categoria di progetti che intervengono
direttamente su un bene culturale o paesaggistico tutelato.
Poggiando su questa classificazione di base, ogni patto è stato collocato nel modello
di valutazione per gli interventi sull’urban commons secondo i criteri – già adottati
per l’esperienza di crowdfunding civico a Milano – qui riassunti:
• i patti collocati nell’area Comunità hanno prevalente finalità sociale, ovvero
intervengono prevalentemente sul legame sociale favorendo la costituzione
di spazi di incontro, relazione, mutua assistenza. Contribuiscono dunque ad
alimentare il senso di co-appartenenza della cittadinanza e a costituire quel
sentire comune che è alla base di ogni appropriazione o ri-appropriazione di
patrimonio culturale;
• i patti collocati nell’area Patrimonio culturale integrato hanno finalità di cura
del territorio (contesto urbano e naturale) o creativa (produzione di cultura
e sperimentazione artistica);
• i patti collocati nell’area Patrimonio culturale tutelato intervengono
direttamente su un bene culturale o paesaggistico tutelato in quanto
portatore, nel primo caso, di un interesse culturale generale non verificato o
di un interesse culturale dichiarato oppure, nel secondo caso, di notevole
interesse pubblico o interesse paesaggistico riconosciuto ai sensi degli artt.
134, 136, 138, 141, 142, 143 e 156 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio (d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). Per ogni patto con finalità
113
culturale si indica la natura del relativo bene culturale o paesaggistico,
nonché il corrispondente codice identificativo di schedatura nell’archivio
ministeriale Vincoli in rete.
Il ruolo dell’amministrazione e il coinvolgimento della comunità
In relazione alle forme di amministrazione condivisa, un framework più appropriato
per la valutazione di ruoli e coinvolgimento è rappresentato – come anticipato nel
paragrafo 1.2 del presente capitolo – dalla co-produzione così come teorizzata da
Ostrom271. Secondo tale modello, affinché si realizzi una coproduzione efficace,
ovvero tale da migliorare il governo locale tradizionale, devono verificarsi
congiuntamente quattro condizioni:
1. affinché possano verificarsi delle sinergie, entità differenti devono possedere
risorse e competenze;
2. devono essere disponibili opzioni legali per entrambe le parti;
3. i partecipanti devono essere in grado di costruire un impegno credibile l’uno
nei confronti dell’altro;
4. degli incentivi dovrebbero aiutare tanto gli amministratori quanto i cittadini
a condividere le proprie risorse.
Queste quattro caratteristiche – tra le quali seconda e terza possono essere
assimilate nella nozione di enforcement272 – sono contestualmente presenti nello
strumento del patto di collaborazione. Il principio dell’amministrazione condivisa si
regge, come evidenziato nel Capitolo I del presente elaborato, sul ripensamento
dell’”amministrato” come persona portatrice di risorse. Con il patto di
collaborazione, amministrazione pubblica e cittadino si scambiano, rispettivamente,
risorse finanziare e asset tangibili (spesso nella forma di edifici o spazi pubblici
dismessi o abbandonati) e competenze e capacità creative, necessarie alla
rigenerazione dei luoghi. Per quanto concerne le opzioni produttive legali, rileva
l’origine del patto in una proposta di collaborazione che può provenire dal cittadino
271 Ostrom, 1996.
272 Charbit e Desmoulins, 2017.
114
stesso; al quale, nell’esercizio delle mansioni previste dal patto stesso, è poi
riconosciuta una fondamentale “autonomia civica”: «l’amministrazione riconosce
l’autonoma iniziativa dei cittadini e predispone tutte le misure necessarie a
garantirne l’esercizio effettivo da parte di tutti i cittadini» (Regolamento sulla
collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni
comuni urbani, art. 3, co. 1, lettera i). Relativamente all’impegno assunto da
amministrazione e cittadini, il Regolamento fa esplicito riferimento ai contestuali
principi di fiducia e responsabilità. In base al primo, «l’Amministrazione e i cittadini
attivi improntano i loro rapporti alla fiducia reciproca e presuppongono che la
rispettiva volontà di collaborazione sia orientata al perseguimento di finalità di
interesse generale» (ibidem, art. 3, co. 1, a). Per quanto concerne il secondo,
«l’amministrazione valorizza la responsabilità, propria e dei cittadini, quale elemento
centrale nella relazione con i cittadini, nonché quale presupposto necessario affinché
la collaborazione risulti effettivamente orientata alla produzione di risultati utili e
misurabili» (ibidem, art. 3, co. 1, c). Infine, si possono citare tra gli incentivi le diverse
esenzioni e agevolazioni in materia di tributi locali da un lato (ibidem, art. 20) e,
dall’altro, l’esortazione all’autonoma raccolta di risorse da parte dei cittadini (ibidem,
art. 25, co. 3). In conclusione, con riferimento al framework teorico della nozione di
co-produzione, i patti di collaborazione sembrano costituire uno strumento
sostenibile ed efficace per la gestione e rigenerazione condivisa dei beni comuni
urbani.
Aree d’intervento
Al fine di valutare le modalità d’intervento della strategia dei patti di collaborazione
sul patrimonio culturale, di seguito (Figure 3.5 e 3.6) si rappresentano graficamente
i principali dati forniti dalla distribuzione riassunta nell’Appendice II dell’elaborato.
Degli 87 patti di collaborazione analizzati, una quota circa pari al 31% presenta –
come finalità prevalente – uno scopo eminentemente sociale, il 16% e il 41%,
rispettivamente, uno scopo creativo e di cura del territorio, mentre il 10% interviene
direttamente su un bene culturale o paesaggistico tutelato, perseguendo dunque un
obiettivo essenzialmente culturale.
115
Tali risultati, riletti attraverso la lente del modello di valutazione per gli interventi
sull’urban commons, si traducono in valori che attestano la prevalenza di interventi
ad impatto sul patrimonio culturale integrato (57,5%), seguiti dai progetti in grado di
rivitalizzare i legami di comunità (31%) e, infine, dai progetti che intervengono
direttamente sul patrimonio culturale tutelato (10,3%). Rimane costante (circa 1,2%)
la percentuale dei patti non categorizzabili né per finalità prevalente né per posizione
nel modello di valutazione in quanto “patti quadro”, stipulati tra cittadinanza e
1,15%
31,03%
16,09%
41,38%
10,34%
Figura 3.5 - Finalità prevalente dei patti di collaborazione a Bologna
Patto quadro Sociale Creativa Cura del territorio Culturale
1,15%
31,03%
57,47%
10,34%
Figura 3.6 - Posizione dei patti di collaborazione a Bologna nel modello di valutazione per gli interventi sull'urban commons
Patto quadro Comunità
Patrimonio culturale integrato Patrimonio culturale tutelato
116
Comune come base per future specifiche collaborazioni nei vari ambiti della cura
condivisa, della gestione e della rigenerazione di spazi ed edifici urbani.
Anche nel caso dei patti di collaborazione, diversi sono i progetti con finalità – e
dunque influenza sul patrimonio culturale – ibrida. A titolo di esempio, si possono
citare: Bologna Città Aperta, volto a valorizzare il parco della Montagnola – bene
facente parte del patrimonio culturale tutelato – anche attraverso attività artistiche,
artigianali ed educative; Il Giardino Polivalente, finalizzato principalmente alla cura e
al miglioramento del verde pubblico, ma con la componente aggiunta di
rifunzionalizzare il giardino di competenza al fine di accogliervi anche uno spazio
scenico; i diversi interventi di riqualificazione di spazi urbani attraverso la
realizzazione di pitture murali e opere creative, i quali implicano per lo più anche una
componente comunitaria volta al rafforzamento del legame sociale di abitanti di un
medesimo quartiere o di categorie di cittadini svantaggiate o più difficilmente
integrabili.
3 Conclusioni e prospettive di ricerca
La breve analisi qui condotta è nata dalla volontà di inquadrare, da un punto di vista
gestionale, diverse modalità di cura e rigenerazione di beni comuni urbani e di
evidenziarne il potenziale impatto sulla salvaguardia, o conservazione vitale, del
bene comune – patrimonio culturale. Poggiando su quanto emerso dalla ricognizione
di alcuni fondamentali contributi alla letteratura socioeconomica e giuridica italiana
in merito alle possibilità di policy-making per l’urban commons (Capitolo I), sono
state vagliate tre diverse esperienze locali di implementazione di architetture
istituzionali complesse, fondate sul dialogo tra attore amministrativo e cittadinanza,
per la gestione collaborativa dei beni comuni urbani. Tali esperienze, per le loro
differenze in quanto a natura, ampiezza, iniziativa e focus dell’intervento,
costituiscono un set di opportunità utili ad elaborare, secondo varie forme di
integrazione e articolazione, nuove modalità di cura dell’urban commons in grado di
adattarsi alle esigenze e ai caratteri territoriali e comunitari locali.
117
In particolare, sono stati presi in esame il progetto di crowdfunding civico Un passo
per San Luca, implementato dal Comune di Bologna per il restauro di parte
dell’omonimo portico storico della città; il progetto di crowdfunding civico frutto
della collaborazione tra il Comune di Milano e la piattaforma Eppela, volto a
premiare interventi innovativi ad alto impatto sociale; l’esperienza ormai pluriennale
dei patti di collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la
rigenerazione degli urban commons, istituzionalizzata dal Comune di Bologna
attraverso il Regolamento dedicato.
Di ogni progetto sono stati valutati alcuni elementi di architettura interna (ruolo
dell’amministrazione e della cittadinanza, modalità di engagement della comunità
offline e online) e, soprattutto, le esternalità generate nei confronti del patrimonio
culturale, alla luce dell’arricchimento semantico sviluppato nel Capitolo II del
presente elaborato. Si è pertanto tenuto conto di tre dimensioni o livelli di impatto
sul patrimonio culturale: un livello centrale o core, corrispondente a un intervento
diretto su beni culturali o paesaggistici tutelati dall’ordinamento italiano; il livello più
ampio del patrimonio culturale integrato, che include ambiti quali cultura
immateriale, creatività e produzione artistica contemporanea, ambiente e territorio;
un livello comunitario, utile ad evidenziare la relazione tra il rafforzamento del
legame sociale e le potenzialità di generazione e rigenerazione del patrimonio
culturale proprie delle heritage community.
Per quanto concerne l’analisi dell’architettura interna delle strategie, i due casi di
crowdfunding civico presentano articolazioni estremamente diverse. In quanto a
ruolo dell’attore pubblico (Charbit e Desmoulins, 2017), Un passo per San Luca ha
visto il Comune di Bologna coinvolto in primo luogo come sponsor di una propria
campagna per un progetto specifico su una piattaforma esistente; tuttavia la
connotazione fortemente territoriale della piattaforma di riferimento – GINGER –
sembra muovere verso un modello di intervento mediante piattaforma
amministrativa. Diversamente, il Comune di Milano, nell’ambito della collaborazione
con Eppela, si colloca tra modello curator, quale selettore – su una piattaforma
esistente – di una lista di progetti che riflettono l’agenda pubblica, e modello
118
facilitator, quale erogatore di un matching grant o co-finanziamento per i progetti di
maggior successo presso i backers. In quanto a coinvolgimento della comunità,
mentre i diversi progetti di crowdfunding supportati dalla collaborazione Milano –
Eppela non hanno visto né l’attore amministrativo né i promotori delle singole
campagne particolarmente attivi nelle attività di engagement della comunità
attraverso lo strumento dell’aggiornamento online, la campagna di Un passo per San
Luca è stata gestita utilizzando abbondantemente gli updates sia per aggiornare la
community sull’avanzamento della raccolta fondi, sia per pubblicizzare numerose
attività collaterali volte a coinvolgere la comunità offline.
L’architettura interna della strategia del Comune di Bologna basata sullo strumento
del patto di collaborazione è stata valutata facendo riferimento alla nozione di co-
produzione (Ostrom, 1996). A questo proposito, il disposto normativo del
Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la
rigenerazione dei beni comuni urbani attesta la compresenza – alla base di ciascun
patto di collaborazione sottoscritto dall’amministrazione e dalla cittadinanza attiva
– delle quattro variabili che, secondo il modello citato, consentono lo sviluppo di una
strategia di co-produzione efficace. L’apporto di risorse complementari da parte
delle due categorie di attori, l’effettiva presenza di opzioni legali – previste dal
Regolamento stesso – per l’avanzamento di proposte di collaborazione, la garanzia
dell’impegno mutualmente preso e i vari incentivi previsti dalla disciplina fanno del
patto di collaborazione uno strumento funzionale al miglioramento del governo
locale tradizionale in quanto a progettazione ed erogazione di beni e servizi (pubblici
o comuni).
Infine, la valutazione dell’impatto dei diversi interventi di gestione dell’urban
commons sul campo semantico del patrimonio culturale – condotta secondo il
modello precedentemente illustrato – ha prodotto i risultati sintetizzati nella Figura
3.7. Quest’ultima evidenzia su quale livello – Comunità, Patrimonio culturale
integrato, Patrimonio culturale tutelato – del cultural heritage e con quale intensità
sia intervenuta ciascuna delle esperienze illustrate nel presente capitolo.
119
Figura 3.7 - Valutazione complessiva delle strategie di gestione e rigenerazione condivisa
degli urban commons con riferimento alle esternalità sul patrimonio culturale
La campagna di crowdfunding civico Un passo per San Luca, in quanto intervento
singolo che ha interessato un bene architettonico vincolato, si colloca interamente
nell’area core del patrimonio culturale. Il progetto articolato di crowdfunding civico
sviluppato dal Comune di Milano, in linea con l’originaria vocazione sociale, ha
coinvolto progetti per lo più relativi all’area del modello che individua i legami sociali
quale fondamento per ogni processo di riconoscimento, appropriazione e
riappropriazione del patrimonio culturale. In secondo luogo, i progetti sostenuti dalla
collaborazione Comune di Milano – Eppela interessano l’area del patrimonio
culturale integrato soprattutto grazie ad interventi di cura del territorio (circa il
33,3%, come evidenziato nella Figura 3.3 del presente capitolo). Nessuna delle
campagne di crowdfunding lanciate sulla piattaforma Eppela, invece, ha ad oggetto
elementi del patrimonio culturale stricto sensu. Infine, la strategia dei patti di
collaborazione implementata dal Comune di Bologna si presenta come la più
diversificata per quanto concerne le esternalità nei confronti del cultural heritage:
posta la maggior quota di interventi dedicati al patrimonio culturale integrato (quasi
il 60%, di cui circa il 41% volti in particolare alla cura del territorio, come evidenziato
nella Figura 3.5), essa presenta una quota pari al 30% di interventi dedicati alla
rigenerazione del legame sociale e del senso di comunità e una quota pari a circa il
120
10,3% di interventi diretti alla cura, gestione o rigenerazione di beni culturali e
paesaggistici tutelati.
In relazione alla domanda di ricerca precedentemente esposta, l’analisi qui conclusa
ha consentito di definire e delineare i parametri di diverse modalità di intervento,
per l’attore amministrativo e per la cittadinanza, sugli urban commons globalmente
intesi: dal progetto di crowdfunding civico una tantum alla sperimentazione di piani
di co-finanziamento articolati, fino all’impostazione di una vera e propria
architettura di co-progettazione urbana al cui centro si sviluppa una dinamica non
solo di finanziamento, ma di vero e proprio scambio di risorse complementari; dal
progetto time-bound, predeterminato nel suo sviluppo temporale, al progetto long-
lasting, strutturale e durevole; dalla scelta di una vocazione tematica da parte
dell’amministrazione – declinata anche secondo la capacità ideativa dei cittadini che
propongono i singoli progetti – alla più ampia apertura nei confronti delle proposte
e delle esigenze della cittadinanza attiva. In particolare, l’analisi condotta suggerisce
alle amministrazioni, in primo luogo locali, diversi ruoli e percorsi attuabili per aprire
il processo di policy-making urbano alla cittadinanza e co-progettare, co-finanziare e
co-produrre beni e servizi condivisi.
Per quanto concerne la seconda parte della domanda di ricerca, avente ad oggetto
l’influenza di tali nuove architetture istituzionali o strategie per la gestione dei beni
comuni urbani su una specifica categoria di commons, ovvero il patrimonio culturale,
l’analisi qui sviluppata produce tre osservazioni fondamentali.
In primo luogo, tutte le esperienze di gestione condivisa dei beni comuni urbani
analizzate in questa sede contribuiscono, in modo più o meno diretto, alla
salvaguardia del patrimonio culturale, ovvero alla conservazione non solo dei suoi
elementi materiali e tutelati dall’ordinamento – beni culturali e beni paesaggistici –
ma anche dei suoi aspetti più dinamici e vitali (il legame con l’ambiente naturale e il
territorio, nonché la dimensione immateriale, creativa e di produzione artistica), così
come del suo legame mutualmente istitutivo con la comunità. Infatti gli interventi
volti alla cura e alla rigenerazione di spazi pubblici, edifici, verde urbano possono
essere interpretati – alla luce dei più recenti orientamenti internazionali in fatto di
121
gestione del cultural heritage – come interventi che influiscono sul patrimonio
culturale secondo un approccio integrato. Similmente, i progetti eminentemente
sociali sono in grado – proprio in quanto volti a rinvigorire i legami sociali e di
comunità, il senso di appartenenza e identità collettivo – di generare heritage
community, ovvero di partecipare al processo di identificazione, significazione e
appropriazione del patrimonio culturale mediante il rafforzamento della comunità
che a tale processo dà inizio.
In secondo luogo, la partecipazione dell’attore amministrativo è in grado di fornire
legittimazione a tali processi di identificazione e appropriazione del patrimonio
culturale da parte delle comunità. Svolgendo il proprio ruolo di mediazione ed
elaborazione di significati collettivi nella sfera pubblica, le amministrazioni locali
possono costituire un primo interlocutore per la cittadinanza al fine di veder
riconosciuto il valore collettivo, identitario, storico, culturale attribuito a spazi,
ambienti e beni non ancora tutelati dall’ordinamento. È in questa compartecipazione
di comunità patrimoniali e istituzioni che si gioca la possibilità di non limitarsi a
trasmettere alle future generazioni l’eredità materiale ricevuta dal passato, bensì di
aggiungervi nuovi significati, di rigenerare e risignificare il patrimonio culturale.
Infine, i progetti di sharing economy e di collaborazione civica per la gestione
condivisa dei beni comuni urbani che intervengono direttamente sul patrimonio
culturale stricto sensu, ovvero su beni culturali e paesaggistici tutelati, assumono
particolare rilevanza in relazione al valore attuale del patrimonio culturale. Affinché,
infatti, l’eredità culturale ricevuta dal passato sia correttamente trasmessa alle
generazioni future occorre non solo che ne sia mantenuta intatta l’integrità fisica,
ma anche che ne sia mantenuto vivo continuamente il significato. Riavvicinare il
patrimonio culturale alla propria comunità attraverso forme di gestione condivisa ed
economie collaborative significa dunque mantenerne viva la memoria collettiva.
Le prospettive future di ricerca dell’analisi qui condotta sono, nell’opinione di chi
scrive, da individuarsi nell’ideazione di perspicui sistemi di valutazione delle
esternalità culturali prodotte dalla gestione condivisa dell’urban commons in termini
prosumer-based. Con un’operazione simile a quella condotta dal Comune di Bologna
122
prima del lancio della campagna Un passo per San Luca273 e assumendo la comunità
patrimoniale come sia fruitrice sia produttrice del patrimonio culturale, indagini ex-
post che valutino lo scarto tra la percezione del bene, dello spazio o del servizio prima
e dopo l’intervento di cura o rigenerazione costituirebbero un’interessante
opportunità conoscitiva sia per gli attori amministrativi sia per altri attori coinvolti a
vario titolo nel policy-making culturale.
Una simile prospettiva potrebbe ulteriormente arricchirsi, nel caso dell’ormai diffuso
strumento del patto di collaborazione, attraverso l’analisi congiunta dell’evoluzione
nella percezione prosumer-based del bene, spazio o servizio oggetto dell’intervento
e il grado di profondità dell’intervento stesso, sia esso finalizzato alla cura
occasionale, cura continuativa, gestione condivisa o rigenerazione del commons.
273 Si fa qui riferimento al questionario reso disponibile online dal Comune di Bologna per indagare più approfonditamente il posizionamento del complesso architettonico rispetto gli interessi e al “sentire” dei cittadini (si veda il §2.1 del presente capitolo).
123
Conclusioni
Il presente elaborato si propone come un’analisi delle opportunità offerte da
strategie innovative locali di gestione condivisa dell’urban commons alla
riappropriazione, rigenerazione e trasmissione vitale del patrimonio culturale
italiano. A tal fine, sono stati perseguiti tre obiettivi:
• costruire un set di strumenti teorici validi ad affrontare proficuamente i
dilemmi sociali sollevati dalle problematiche gestionali inerenti i beni comuni
nello specifico contesto italiano;
• elaborare un campo semantico per il cultural heritage utile ad integrare la
prospettiva internazionale con lo specifico tessuto culturale italiano e tale da
fornire un ancoraggio teorico sostanziale alla qualificazione del patrimonio
culturale come commons;
• evidenziare le potenzialità, in termini di salvaguardia e conservazione vitale
del cultural heritage, offerte da strategie di gestione dell’urban commons
improntate all’economia della condivisione e alla collaborazione civica tra
cittadini attivi e amministrazione locale.
L’analisi di tre esperienze italiane locali di cura, gestione e rigenerazione dei beni
comuni urbani – la campagna di crowdfunding civico Un passo per San Luca, la
collaborazione tra il Comune di Milano e la piattaforma Eppela per il supporto di
progetti innovativi ad alto impatto sociale e l’implementazione dei patti di
collaborazione tra cittadini e amministrazione nel Comune di Bologna – ha
evidenziato le opportunità che tali strategie innovative, elaborate nel contesto
dell’economia della condivisione e della collaborazione civica per i beni comuni,
offrono per una riappropriazione vitale del patrimonio culturale, qualificato nel suo
complesso come “bene comune”, da parte della comunità di riferimento. In
particolare, gli interventi analizzati hanno mostrato di poter contribuire alla
salvaguardia o trasmissione vitale del cultural heritage su tre livelli:
124
• il rafforzamento dei legami di comunità sottesi ad ogni processo di
appropriazione, significazione e rigenerazione del patrimonio culturale da
parte della heritage community;
• la legittimazione di tali processi di appropriazione culturale da parte della
comunità, attraverso la partecipazione attiva dell’attore amministrativo e
delle istituzioni, luogo privilegiato di mediazione ed elaborazione di significati
collettivi nella sfera pubblica;
• la rigenerazione del legame tra patrimonio culturale e comunità attraverso
interventi che prevedono la partecipazione diretta e attiva dei cittadini alla
gestione dell’heritage commons.
Si vuole concludere questo contributo con una citazione tratta dalle riflessioni di
Stefano Rodotà sul legame tra solidarietà e azione per i beni comuni, utile a
evidenziare come attraverso le nozioni di responsabilità, azione, legame sociale si
possano configurare modi nuovi, fondati sull’essere-in-comune, di guardare al
patrimonio culturale:
La parola riscoperta questa volta è «azione popolare». Insidiata dall’interesse privato, e trascurata dai soggetti pubblici, la tutela di beni rilevanti per la collettività viene affidata anche all’iniziativa di cittadini attivi, che agiscono proprio in spirito di solidarietà per assicurare a ogni altro, nel presente e nel futuro, la possibilità concreta di godere di un determinato bene. Ambiente e paesaggio trovano così un difensore collettivo, che può essere incarnato anche da chi non abbia con il bene considerato nessun rapporto di immediatezza, ne viva lontano, non sia spinto da alcun interesse a goderne personalmente. Il fatto che un bene possa essere qualificato «comune» porta con sé la possibilità che comune e solidale sia la sua tutela attraverso una molteplicità di strumenti che vengono sempre più largamente messi a punto. Se alcuni beni vengono classificati come «patrimonio dell’umanità», la loro tutela deve essere assicurata dall’umanità stessa, concretamente espressa dall’agire delle persone che la compongono.274
274 S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Bari, Laterza, 2016.
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Ringraziamenti
I miei primi ringraziamenti vanno alla Professoressa Ivana Pais, relatrice di questa
tesi, e al Dott. Davide Arcidiacono, correlatore, per avermi dato la possibilità di
svolgere questo elaborato. Sono profondamente riconoscente in particolare alla
Professoressa Pais per i suoi preziosi insegnamenti nel corso di Accounting and
Fundraising e, soprattutto, per la grande disponibilità, pazienza e attenzione
dimostrata nel guidarmi e consigliarmi attraverso lo sviluppo di questo lavoro.
Ringrazio inoltre tutti i professori e i docenti del corso di laurea magistrale in
Economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo, ai cui insegnamenti devo
le diverse competenze su cui ho potuto contare nella stesura del mio elaborato
finale.
Desidero ringraziare i miei genitori, il cui amore e costante esempio di umiltà e
impegno mi educa ogni giorno ad essere una persona e una cittadina migliore.
Ringrazio mia sorella Sara per esser stata sempre mio modello; per avermi sostenuta
e avermi insegnato a crescere e a superarmi continuamente – come ragazza, come
studentessa e come donna.
Ringrazio Lidia e Giulia per aver affrontato, pur nella distanza, questi anni insieme; e
ringrazio Erika, Marina e Martina per aver riempito questo percorso di gioia,
entusiasmo e calore.
Un grazie ben più grande di ogni parola va a Giulio, mio faro e mio compagno in ogni
cammino.
So long, and thanks for all the fish.