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Tessere relazioni mediterranee De-localizzazioni e narrazioni di genere a Tanger di Lucia Turco Altra. L’essere altra che è il mio essere politica. E riconoscere l’alterità nelle narrazioni altre e riconoscermi. La mia ricerca abita le sponde del Mediterraneo, nello specifico una città di frontiera, Tanger. Ho agito gli spazi del centre ville come i quartieri periferici di M’ghogha e Béni Makada, ho vissuto la geografia della centralità e della marginalità e mi sono interrogata sulle cause che l’hanno prodotta. Ho osservato i centinaia e centinaia di furgoncini bianchi tracciare i percorsi quotidiani delle donne e degli uomini impiegati nelle fabbriche tessili de-localizzate. L’essere in presenza di tutte noi, donne delle fabbriche, studentesse, femministe, ricercatrici da tutto il mondo, vecchie e nuove abitanti della città di frontiera, è ciò che valorizzo, è ciò che riconosco come mia pratica scelta di lotta anti-capitalista. È da una storia altra che voglio dare inizio al presente contributo; tra le maglie delle filature del Maghreb, tessere l’inizio di una narrazione. Ricevo e restituiscono racconti sul tessile, attività legata alla tradizione, al lavoro delle donne all’interno di spazi familiari, odoranti la legna dei telai. Il tessile che ha da sempre tracciato le strade del commercio medio-orientale, si è intrecciato con la storia dell’Islam, sin dalla sua nascita, nel VII sec. ed è divenuto simbolo d’appartenenza alla religione musulmana per i fedeli sparsi dal Marocco alla Cina. I legami con l’epoca pre-islamica restano nelle trame dei tiraz, che rimandano ai

Tessere relazioni mediterranee

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Tessere relazioni mediterraneeDe-localizzazioni e narrazioni di genere a Tanger

di Lucia Turco

Altra. L’essere altra che è il mio essere politica. E riconoscere

l’alterità nelle narrazioni altre e riconoscermi.

La mia ricerca abita le sponde del Mediterraneo, nello specifico

una città di frontiera, Tanger. Ho agito gli spazi del centre

ville come i quartieri periferici di M’ghogha e Béni Makada, ho

vissuto la geografia della centralità e della marginalità e mi

sono interrogata sulle cause che l’hanno prodotta. Ho osservato i

centinaia e centinaia di furgoncini bianchi tracciare i percorsi

quotidiani delle donne e degli uomini impiegati nelle fabbriche

tessili de-localizzate. L’essere in presenza di tutte noi, donne

delle fabbriche, studentesse, femministe, ricercatrici da tutto il

mondo, vecchie e nuove abitanti della città di frontiera, è ciò

che valorizzo, è ciò che riconosco come mia pratica scelta di

lotta anti-capitalista.

È da una storia altra che voglio dare inizio al presente contributo;

tra le maglie delle filature del Maghreb, tessere l’inizio di una

narrazione. Ricevo e restituiscono racconti sul tessile, attività

legata alla tradizione, al lavoro delle donne all’interno di spazi

familiari, odoranti la legna dei telai. Il tessile che ha da

sempre tracciato le strade del commercio medio-orientale, si è

intrecciato con la storia dell’Islam, sin dalla sua nascita, nel

VII sec. ed è divenuto simbolo d’appartenenza alla religione

musulmana per i fedeli sparsi dal Marocco alla Cina. I legami con

l’epoca pre-islamica restano nelle trame dei tiraz, che rimandano ai

grandi centri di tessitura dell’Egitto e della Persia durante il

califfato Omeyyade; l’abitudine sassanide della veste ricamata in

oro come ricco dono per nobili e funzionari viene adottata dai

califfi abbasidi e dalle dinastie musulmane del Medio Evo. Ancora

oggi, le donne marocchine delle classi più agiate, sono solite

portare in dono dei tessuti ricamati con i quali vengono fatti

cucire dei djellabas (tipico abito marocchino). Sui tessuti è dipinta

la storia dei popoli: l’ascesa del potere dei mori si riflette sul

progressivo abbandono delle figure umane e animalesche a vantaggio

di motivi geometrici e floreali, le figure arabesche che

permangono fino ai nostri giorni. Anche la storica frattura delle

due scuole musulmane è accompagnata dai motivi decorativi dei

tessuti: in Iran, terra sciita, le decorazioni richiamano figure

umane e animali mentre in terra sunnita si preferiscono

decorazioni geometriche e calligrafiche. Si pensi che la parola

“cotone” deriva dall’arabo qutun e furono gli arabi a diffonderne

l’utilizzo in Asia e in certe regioni dell’Africa; il lino da

tessuto dei faraoni è poi scelto dai copti d’Egitto come tessuto

prediletto; infine la lana, apparsa inizialmente in Anatolia e in

Mesopotamia, diviene il tessuto più utilizzato per i vestiti degli

ulama e del clero musulmano.

Per quanto riguarda il Marocco, anche qui i tessuti narrano la

storia dei popoli che hanno attraversato e abitato la terra; si è

sviluppata una forte tradizione del ricamo in seta su tessuti di

cotone, specialmente a Fès, Meknès, Rabat e Sale e nonostante

questa sia andata poi perdendosi progressivamente, ancora oggi è

possibile vedere le donne berbere dei monti dell’Atlas, intente a

tessere la lana attraverso le arcaiche tecniche dello sprang che

prevedono il lavoro manuale su telai. I tessuti accompagnano le

cerimonie più importanti: nel matrimonio, ad esempio, la sposa è

solita portare un hizam, una cintura di seta stretta intorno alla

vita, che leva alla fine della cerimonia, rappresentando in

maniera simbolica la possibilità di divenire madre.

Quello che il Marocco racconta oggi, però, è una storia ben

diversa; la storia di ieri resta nelle piccole città berbere,

principalmente nelle zone dell’Atlas, dove i prodotti vengono

venduti all’interno dei souk delle affollate medine; la

negoziazione è d’obbligo, fa parte della tradizione.

Diversamente, alla fine della catena di montaggio nella fabbrica

Larinori S.p.a, ecco i capi d’abbigliamento a me noti, con tanto

di cartellino e l’indicazione di un prezzo stabilito. La Larinori

S.p.a, come le altre fabbriche tessili presenti sul territorio del

Nord del Marocco, è un’impresa che opera in qualità di fornitrice

di servizi, in relazioni di sub-appalto principalmente con la

multinazionale spagnola Inditex. Le vendeurs du minutes, così vengono

definite le imprese che divengono lo specchio di un nuovo modo di

intendere il consumo, esplicabile attraverso l’immagine di una

collezione primaverile che in estate è già divenuta fuori moda. Ho

conosciuto alcune delle donne impiegate nelle fabbriche tessili

de-localizzate ed è dalle loro esperienze e dalle loro narrazioni

che traggo la spinta per analisi dal respiro globale, sui nuovi

modi di intendere la produzione, sulla moltiplicazione (e non più

soltanto divisione) internazionale del lavoro e questa folle

ricerca dell’abbattimento dei costi attraverso l’implementazione

di progetti neo-coloniali e neo-liberisti. Anzitutto è necessario

sottolineare come il lavoro tessile, anche nei paesi più

sviluppati, venga generalmente individuato come lavoro femminile e

il caso del Marocco ne è una conferma in quanto in media il 70%

della manodopera in essa impiegata è una manodopera femminile,

come attestato in tutti i rapporti che ho avuto modo di

analizzare. Erroneamente, vi sono competenze considerate

“naturali” da che ne consegue che tali lavori vengano considerati

non specializzati o semi-specializzati. Ma la questione delle

nimble fingers, non è certo un’eredità biologica quanto la conseguenza

di un training culturale a cui le donne sono soggette da parte

delle madri e della altre donne in famiglia, sin da piccole. Nei

libri di scuola dell’infanzia, è costante la divisione degli spazi

per cui la donna viene rilegata alla dimensione domestica mentre

la dimensione pubblica è attraversata principalmente da uomini.

Nel domandarmi se, relativamente a tale divisione, la

partecipazione delle donne all’attività produttiva abbia mutato la

ripartizione dei lavori all’interno delle mura domestiche, tutte

le testimonianze raccolte negano un aumento della partecipazione

maschile. Gli unici compiti riservati all’uomo sono, ancora una

volta, quelli relativi allo spazio esterno come il portare il pane

al forno del quartiere per la cottura. Dunque, nessuna delle donne

riscontra una differenza nella ripartizione dei compiti di

riproduzione. Le differenze riguardano, invece, la possibilità di

gestire il denaro guadagnato, sempre in accordo con le altre

persone del nucleo familiare, principalmente le madri. I salari,

sono un altro dei motivi additati per cui si preferisce impiegare

le donne all’interno delle fabbriche. Pare, infatti, che le donne

siano maggiormente disposte ad accettare salari più bassi rispetto

agli uomini in quanto i loro guadagni sono finalizzati non a

soddisfazioni di natura edonistica ma al sostegno familiare. Per

quanto le testimonianze raccolte sembrino dar conferma di ciò,

principalmente in riferimento alle donne provenienti dagli

ambienti rurali trasferitesi in città, che sono solite inviare

mensilmente la maggior parte dei loro guadagni alle famiglie,

altre ricerche, quali quelle condotte dal Professor Belkheiri,

rivelano esiti completamente opposti: gli uomini, essendo

obbligati –culturalmente- a sostentare economicamente la famiglia,

vivono il rapporto con il lavoro come un preciso dovere cui

adempiere, al contrario delle donne che si rapportano al mondo

lavorativo più libere dalle aspettative sociali e producono,

dunque, una rottura con la tradizione. Penso che entrambi gli

approcci falliscano parzialmente nel tentativo poiché perpetrano

una divisione manichea del genere che amputa, attraverso percorsi

di semplificazione, le diverse esperienze di vita di ciascuna e

ciascuno. Più interessante è notare invece l’importanza che i

progetti familiari occupano nelle scelte individuali delle donne:

tutte affermano che il principale progetto di vita sia metter su

famiglia e dunque lasciare il lavoro; tutte eccetto Knouz che

sostiene con orgoglio la sua contrarietà a dover dipendere

economicamente dal marito: Non è accettabile dover chiedere al marito i soldi per

prendere un caffè, per andare dal parrucchiere. Completamente opposta la

reazione di una delle donne lontane da casa che sostiene: Noi

lavoriamo adesso e non andiamo comunque dal parrucchiere; non è possibile lavorare

fuori di casa e dentro casa; la casa per me e lo spazio esterno per l’uomo.

La separazione degli spazi è al centro di un interessante lavoro

di ricerca condotto da Rahma Bourquia nei campements, individuati

come spazi transitori tra la vita urbana e la vita rurale,

prodotti in seguito agli esodi rurali che hanno interessato la

città di Oujda, nella parte nord-orientale del Marocco (Bourquia,

1996). Bourquia sostiene che lo spazio sia un prodotto maschile (e

maschilista) che pone due modelli di donna agli antipodi: la femmes

de la maison et la femme de la rue. Quello che si può evidenziare, dunque, è

una riflessione proposta da Edison e Pearson: a women is never “free”[…]:

she has obligation of domestic labour, difficulties in establishing control lover her own

body, on inability to be fully a member of society in her own right; but also the possibility

of obtaining her subsistence from men in exchange for personal services of a sexual or

nurturing king (D. Elson, R. Pearson, 1981). Il fenomeno

dell’abbandono del lavoro in seguito al matrimonio, conosciuto

come un “natural wastage”, risulta di grande vantaggio per le imprese

la cui mole di lavoro dipende dall’incostanza della domanda del

mercato. Le donne sono, infatti, considerate come “sacche di

riserva” della manodopera facilmente licenziabili quando le

imprese vogliono diminuire la forza-lavoro e facilmente

riassumibili quando vogliono estenderla.

L’ultima caratteristica data come “naturale” dovrebbe essere la

maggiore docilità attribuita alle donne, più disciplinate e meno

inclini ad attività sindacali. Per testare l’assunto, è

sufficiente ritornare alla dimensione di fabbrica. All’interno

della letteratura mainstream è spesso sottolineato come, in

fabbrica, le relazioni sociali siano da ascrivere alle impersonali

connessioni monetarie, più che alle distinzioni di genere, che pur

sono presenti. Si tracci allora un quadro dei problemi che

interessano questa “presunta” forza-lavoro priva di una

distinzione di genere. Anzitutto mi preme sottolineare come a

differenza degli uomini incontrati, la maggior parte dei quali

lavora nelle de-localizzazione del settore automobilistico e ha

trovato lavoro attraverso l’invio del CV, le donne che ho

incontrato o accedevano al lavoro attraverso i legami familiari

oppure, dopo la migrazione dalle campagne, si ritrovavano a

bussare direttamente alle porte delle fabbriche. Sono donne su cui

l’intera famiglia fa affidamento tanto da, come nel caso di

Yassmine e Najad, scegliere il trasferimento in città di tutti i

membri del nucleo allargato facendo leva sulle giovani figlie, le

quali avranno il compito di sostenere economicamente l’intera

famiglia. È questa la fragilità di cui si parlava? Come i dossier

di ricerca e il lavoro sul campo confermano, i principali problemi

relativi al lavoro di fabbrica percepiti riguardano anzitutto gli

orari di lavoro e la retribuzione. Gli operai e le operaie

guadagnano poco meno o poco più dello smig, il salario minimo

garantito fissato dallo Stato affinché i beneficiari possano

soddisfare i bisogni primari essenziali. Le associazioni Attawasol

e Settem hanno stimato, attraverso ricerche sul territorio, che il

costo di un paniere di servizi primari per una famiglia composta

da 2 adulti e 2 minori, sia pari a 600 euro al mese. Non si tratta

qui dei calcoli effettuati dagli istituti di credito

internazionale, i “tracciatori di linee professionisti”; si

preferisce far riferimento alle proposte di Amartya Sen e

sostituire a calcoli calorici e simili, metri di giudizio che si

rifacciano al comune sentire per un calcolo dei bisogni che abbia

come punto di partenza la costatazione delle opportunità. Ed è

sufficiente vivere a Tanger per qualche tempo, questa città di

confine dove il costo dei prodotti necessari per la preparazione

di un cous cous può superare i 200 dh (17,94 euro) al mercato dei

fiori su Rue de Fès e non supera i 50 dh (4,49 euro) al mercato di

Ben Dibane, per capire come lo smig non permetta una vita

dignitosa. Uno spunto di riflessione molto interessante viene

dalla testimonianza di Lathifa che sostiene: È lo stato che domanda al

proprietario di porre un limite, “le salaire de l’État” lo chiamano; solo lo Stato può

obbligarlo ad alzare gli stipendi. Dunque, Lathifa concepisce lo smig come

una sorta di tetto massimo imposto dallo Stato. Ciò rende evidente

anche un altro aspetto, ossia che le operaie, dato il basso

livello di scolarizzazione di cui si è già detto, sono alle volte

ignare dei vari processi burocratici legati al mondo lavorativo,

quali ad esempio il contratto di lavoro, la CNSS Cassa Nazionale

di Sicurezza Sociale, la carta nazionale etc., tutti temi al

centro delle politiche associative assieme alla formazione

professionale e alla scolarizzazione. Altro problema rilevato è

quello degli orari lavorativi che sono spesso prolungati in

maniera arbitraria da parte del padrone e non vengono retribuiti

secondo le norme di legge in materia [La giornata lavorativa

prevede un massimo di 44 ore settimanali, che non possono tradursi

in più di 10 ore di lavoro giornaliero;oltre le 10 ore si parla di

lavoro straordinario che se effettuato tra le 5h00 e le 22h00

viene retribuito al 25% in più rispetto al salario base; al di

fuori di questo orario è retribuito al 50%; durante i giorni

festivi al 50% durante gli orari diurni (5h00-22h00) e al 100%

durante gli orari notturni]. Nel rapporto finale redatto da

Mariam, dell’associazione UNFM, relativo all’anno 2010-2011, tra

le principali ragioni dell’abbandono del corso si ritrovano le ore

supplementari al lavoro; la prima volta che andai

all’associazione, inoltre, la metà delle donne si presentò con

un’ora di ritardo a causa del prolungamento dell’orario. Ciò rende

difficile, com’è sempre l’associazione Attawasol a sottolineare,

l’organizzazione del tempo fuori dalla fabbrica: attività

sindacali o simili sono fortemente impedite dalla mancanza di

tempo, divise così le donne tra un lavoro in fabbrica dagli orari

cangianti e un lavoro domestico che le attende al ritorno. Quando

parlo con le operaie delle violenze subite sul luogo di lavoro,

due delle ragazze di Drissia mi raccontano: La violenza la riceviamo

soprattutto da parte dello chef (il responsabile della catena); se c’è un litigio

con lui, per punizione ci obbliga restare a casa per tre giorni. E ancora: Lo chef ci getta

i vestiti in faccia, ci sgrida, ci insulta; tira schiaffi; un giorno, lui e un operaio stavano

litigando; l’uomo voleva andar via, si è alzato di colpo e la sedia è caduta per terra, allora

il capo ha preso la sedia e ha colpito l’uomo con la sedia; tutte ci siamo messe a parlare, ci

siamo lamentate, ma alla fine siamo tornate a lavoro. Khidide e Knouz, amiche da

molti anni, sono invece d’accordo nell’affermare che la violenza è

l’esigenza della produzione da soddisfare in tempi stabiliti e che

supera spesso le possibilità umane. Queste imprese che operano nel

settore attraverso le relazioni di sub-appalto con le

multinazionali europee devono infatti divenire capaci, per

risultare competitive sul territorio, di stabilire un flusso

regolare di prodotti al fine di ridurre le spese di stoccaggio ed

evitare così rischi aziendali; ciò comporta due conseguenze: da

una parte il lavoro all’interno delle stesse è completamente

sottomesso ai diktat della flessibilità e dall’altra, laddove

l’ordine superi le capacità di produzione dell’impresa nel tempo

stabilito, il lavoro viene nuovamente subappaltato a piccoli

atelier dislocati nei quartieri periferici che inglobano i più

alti livelli di precarietà e, ovviamente, li perpetrano.

L’ultimo ambito che ha interessato la mia ricerca sul campo è la

lotta sindacale. Vi sono delle specificità territoriali che

motivano la debolezza del sindacato in Marocco e che devono

necessariamente essere ricondotte alle lotte sindacali degli anni

’70, i cosiddetti années de plomb, confluite poi in processi

negoziali finalizzati alla restaurazione della pace sociale. Ma su

queste specificità locali non mi dilungherò poiché altre

considerazioni di natura globale sono alla base dell’indebolimento

della portata conflittuale dell’azione sindacale. La maggior parte

delle fabbriche presenti in Marocco, sono istallate all’interno

delle cosiddette Zone franche che hanno completamente violentato

la regione Nord del Marocco. Le zone franche giocano un ruolo

importante nel passaggio da “paese in via di sviluppo” a “paese

emergente” come dimostrano, ad esempio, i casi del Messico, della

Malesia e della Repubblica domenicana, dove però il contributo

delle esportazioni ha, attualmente, un peso minore rispetto al

passato; per gli investitori, gli interessi principali riguardano

il basso costo della manodopera, la possibilità di beneficiare del

regime di vantaggi fiscali e degli esoneri dalle tasse doganali e

la riduzione dei costi di installazione ma potendo al contempo

disporre di strutture adeguate.

La regione nord, per molti anni completamente assente dall’agenda

nazionale, più incentrata sullo sviluppo di Casablanca e della

costa atlantica, acquisisce, con il nuovo sovrano, un’importanza

strategica. La futura Singapore Mediterranea come alcuni organi di

stampa hanno voluto rinominare la zona nord sotto la spinta del

nuovo sviluppo!

La punta di diamante è la zona franca portuale Tanger Med a cui si

aggiungono la zona di esportazione Melloussa I e Melloussa II

nella prefettura di Fahs Béni Makada strettamente connesse al

progetto TangerMed, la prima distante 20 km dal porto, nel cuore

della penisola tingitana e la seconda, dislocata a 12 km da Tanger

prevalentemente occupata dalle attività della Renault; in più è

stata realizzata una zona logistica adiacente che prevede attività

logistiche, di assemblaggio e imballaggio e di distribuzione;

ancora la zona commerciale di Fnideq e il prolungamento TFZ e

della zona industriale di Gueznaya, in direzione di Rabat. Tanger

conta due zone franche ossia la Tanger Free Zone e la vecchia zona

franca portuale. Queste zone sono il volto della nuova economia-

mondo e le politiche di vantaggi fiscali e sostegni economici

all’istallazione delle imprese all’interno di queste zone

(esenzioni dalle tasse, rimborso fino 100% da parte dello Stato

attraverso il Fondo Hassan II del costo necessario all’acquisto

del terreno etc.) fa sì che, in ipotesi di scioperi o blocchi

della produzione, più che rispondere alle istanze dei lavoratori e

delle lavoratrici, risulti più conveniente per gli investitori

stranieri, de-localizzare nuovamente la produzione altrove. Le

regole del mercato, in questo caso specifico del mercato del

tessile, hanno da tempo abbandonato le sedi locali per stabilirsi

sui tavoli internazionali. Nel 1994, sotto la spinta di dei PVS,

India, Pakistan e Indonesia in testa, si determina la fine del MFA

Multifibre Arrangement il quale nasce nel quadro del GATT General

Agreement on Tariffs and Trade del 1947, dunque, all’interno di un regime

di deroga che permette l’applicazione di restrizioni quantitativa

alle quote delle importazioni all’interno di accordi bilaterali

fra stati. Dal 1984 al 1994, si avvia un processo di vari

negoziati a livello internazionale, l’Uruguay Round che termina con

la firma degli Accordi di Marrakesh il 15 Aprile 1994. Particolare

attenzione è dedicata al settore del tessile attraverso la stipula

dell’ATA Accordo sui tessili e sull’abbigliamento in cui viene prevista la

progressiva eliminazione delle restrizioni quantitative al

commercio dei prodotti tessili che, a partire dal 1 gennaio 2005,

viene completamente disciplinato dalle regole del GATT del 1994.

Il Marocco, come gli altri paesi dell’area mediterranea, perde i

vantaggi di cui ha goduto fino a questo momento. Il mercato

europeo si apre, infatti, ai prodotti cinesi e indiani i quali

iniziano ad invadere anche il mercato interno dei PTM paesi terzi

mediterranei. Altri episodi che presentano una forte incidenza sulle

capacità competitive della zona sono l’allargamento ad est dell’UE

nel 2004 e le concessioni tariffarie supplementari concesse nel

2005, specificatamente nel settore del tessile, ai paesi colpiti

dallo tsunami nel dicembre 2004, ossia Thailandia, Sri Lanka e

Indonesia. Ma nonostante gli effetti negativi della fine

dell’Accordo Multifibre, il mercato degli investimenti esteri

nell’aerea mediterranea presenta comunque buoni livelli di

performance. Tra le ragioni del mantenimento del livello di

competitività va ricordata anzitutto la vicinanza geografica, che

soprattutto nel campo del fast-fashion assume un’importanza

strategica, a cui si aggiunga la qualità dei prodotti mediterranei

in rapporto alla qualità dei prodotti asiatici. L’ottima

performance del Marocco all’interno dell’area mediterranea, è

dovuta non soltanto all’apparente stabilità politica del paese ma

soprattutto alle politiche nazionali implementate nel corso degli

ultimi decenni finalizzate ad attrarre gli ingenti investimenti

stranieri, di cui le Zone franche sono i volti più emblematici. Le

radici affondano nei passati terreni coloniali che hanno prodotto

l’adozione dei Piani di Aggiustamento Strutturale nell’83 e le

progressive privatizzazioni operate principalmente nel campo delle

telecomunicazioni, del turismo, del tessile, dell’industria

automobilistica, dell’elettronica e dell’agro-alimentare. Ogni

pezzo del puzzle si posiziona facilmente ed il quadro risultante è

chiaro: la progressiva crisi economica che colpisce i paesi

sviluppati, spinge gli imprenditori a cercare nuovi mercati che

permettano un abbassamento del costo del lavoro. I paesi in via di

sviluppo, divengono i territori fertili per le nuove esigenze

produttive di stampo neo-capitaliste, che si realizzano attraverso

relazioni neo-coloniali e attraverso i processi individuati da

Saskia Sassen di de-nationalized state-agenda, all’interno un nuovo ordine

istituzionale la cui principale caratteristica è la capacita di

privatizzare ciò che prima era pubblico e de-nazionalizzare ciò

che prima era parte dell’agenda politica nazionale. Determinate

componenti dello stato-nazione hanno iniziato ad assolvere alla

funzione di base istituzionale per le operazioni del “capitale

globale”e del “mercato globale del capitale”(S. Sassen, 2000).

Cosi facendo, queste istituzioni contribuiscono ad orientare

l’agenda statale verso le richieste dell’economia globale. Un

esempio lampante di questo discorso è, per rimanere inerenti al

terreno di ricerca proposto, il Code des Investissement Agricoles del 1969,

adottato dal Marocco sotto la spinta della Banca Mondiale. Questo

va a colpire la produzione agricola tradizionale attraverso

l’individuazione di “suolo pubblico” da porre sotto il controllo

dello Stato; segue poi la legge n 39-89 sulle privatizzazioni

delle imprese pubbliche; il terreno è cosi preparato all’arrivo

degli ingenti capitali stranieri. Intensi flussi rurali di uomini

e donne, non potendo più disporre di terreni collettivi per

l’agricoltura, sono costretti a spostarsi nelle città offrendosi

come manodopera a basso costo. Il quadro è completo. La conta

delle parti non da resto (Rancière, 2007). Le ragioni economiche,

sono sufficienti a spiegare una tale carrellata di fenomeni? La

risposta è no. Vi sono importanti ragioni politiche alla base di

quanto avviene oggi sul territorio marocchino, ragioni

rintracciabili all’interno del processo di allargamento dei

confini dell’Unione Europea e di creazione della cosiddetta zona

euro-mediterranea. Anzittutto, la consapevolezza del valore

performativo del linguaggio, non declassabile ad una mera

rappresentazione del reale, costringe a sottolineare come Zona

euro-mediterranea presupponga la partecipazione di due entità

differenti: da una parte l’Unione Europea, forte delle sue

strutture politico-economiche, dall’altra un referente anonimo, un

mare svuotato dei suoi abitanti. Non mi dilungherò sui passaggi

istituzionali e mi limiterò a citarne i principali: dai Dialogues

euro-arabe del ‘73, si passa ad una serie di ulteriori tentativi che

si riveleranno fallimentari fino alla firma dell’Accordo di

partenariato euro-mediterraneo stipulato nel 1995 durante la

Conferenza di Barcellona, che coinvolge i 12 PTM: Turchia, Cipro,

Malta e Israele al nord, Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto,

Giordania, Libano ,Siria e Palestina al Sud. Si tratta dei paesi

sul bordo del Mediterraneo e questa è stata la motivazione

dell’esclusione di 14 degli altri paesi facenti parte della Lega

Araba. Stesso discorso non viene ovviamente applicato sull’altro

versante in cui tutti i paesi dell’UE, anche quelli lontani dal

Mediterraneo, vengono inclusi nel progetto. La filosofia alla base

dell’interno processo è che lo sviluppo dell’area sarà assicurato

dall’introduzione del libero mercato, dai processi di

democratizzazione e dal flusso di aiuti finanziari. Nel 2010,

attraverso una progressiva eliminazione di dazi e tasse per quasi

tutti i prodotti industriali europei che possono dunque

liberamente circolare nel mercato della riva sud, viene istituita

la Zona di Libero Scambio. Essa non è altro che la messa in atto

di Programmi d’aggiustamento strutturale su larga scala imposti ai

paesi in via di sviluppo dagli Istituti di credito internazionale

a partire dagli anni ’80. Nei fatti però questa Zls sembra

comportare vantaggi soltanto per una delle due parti, così mentre

si aggrava la difficoltà percepita da Marocco e Tunisia di rendere

competitivi i loro prodotti agricoli sul territorio europeo,

diviene sempre più facile per il nord commerciare i prodotti

industriali e tecnologici al sud, ormai liberi dai costi di

entrata Anche la ENP European Neighbourhood Policy del 2005, in seguito

agli eventi del 11/09/2001, risulta insufficiente e si inizia a

parlare di una politica di vicinato, la quale prende in

considerazione la dimensione interna e la dimensione esterna

dell’UE, così creando l’immagine del ring of friends. Il 23 ottobre 2007

il Presidente francese Sarkozy, nell’antica città internazionale

di Tanger, lancia il suo appello all’Unione del Mediterraneo e il

13 Luglio 2008 viene istituita l’organizzazione internazionale UpM

Unione per il Mediterraneo. Adottando la prospettiva specifica delle

relazioni tra UE e Marocco, si ricordi che il Marocco è il solo

stato della riva sud ad aver formulato ufficialmente, nel 1984 e

poi nel 1995, una domanda d’adesione all’Unione. Nous voudrions être à

l’Europe ce que le Mexique est à l’Amérique, così declamava Hassan II, il

terribile monarca dei cosiddetti Anni di piombo. Il 3 Ottobre 2008

il Marocco è il primo paese al quale viene accordato lo statuto

avanzato, che pur non avendo ancora valore formale, a differenza

dell’accordo di associazione del 1996, ricalca gli stessi passaggi

compiuti dai PECO prima della definitiva adesione all’UE. Ma quali

sono i veri obiettivi di questo allargamento delle frontiere in

cui oggi il Marocco si trova inglobato? Nell’interessante articolo

elaborato dal gruppo di ricerca in European Urban and Regional Studies

dell’Università di Sidney, viene ripresa la riflessione di

Michelle Pace, la quale sottolinea come la narrativa delle macro-

regioni faccia riferimento da una parte, alla spazialità dei “mari

interni” e dall’altra, alla ridefinizione dei confini. The sea and the

border marcano, così, lo spazio europeo. Ma il mare interno, come la

porosità dei confini, si scontrano con l’immagine della sicurezza

europea che dunque necessita di un rafforzamento delle politiche

del controllo migratorio attraverso, anzitutto, la

militarizzazione dello spazio marittimo. Si ha dunque una duplice

immagine spaziale dietro l’idea di macro-regione:

a seascape ossia un discorso che si basa sull’idea di uno spazio

aperto di reti e connessioni;

a borderscape che necessita di regolamenti e controlli;

il Marocco diviene, così, gendarme del Mediterraneo a cui viene

chiesto di assumersi la responsabilità del transito migratorio

sub-sahariano, come testimonia il Patto sull’immigrazione e la

direttiva dei rimpatri del 2008. Ma la chiusura dei confini che

danno vita all’immagine di una fortezza europea è solo un lato

della medaglia. L’altro, sono i confini porosi, che porosi lo

diventano quando protagonista diviene la soluzione liberista su

scala globale, l’imposizione di una cultura economica espressione

della volontà di mondializzazione di stampo euro-americano. E la

regine Nord del Marocco diviene l’emblema di una tale porosità.

Come in un movimento di filatura, in cui ogni maglia è legata alla

precedente ed alla successiva ed in cui basta tirare l’unico filo

affinché l’intera opera si raccolga nella forma originale di un

gomitolo, riprendo i volti delle donne, delle amiche, delle

compagne di entrambe le sponde del Mediterraneo. All’interno delle

relazioni con esse istaurate si colloca il mio breve tentativo

teorico di far saltare la conta delle parti!

Due coppie di alter ego sono state i punti di riferimento costanti

della mia ricerca.

La prima coppia è composta da Fatima, lavoratrice in una fabbrica

d’abbigliamento a Tanger e Mercedez, lavoratrice della fabbrica

tessile spagnola. Com’è noto, i processi di de-localizzazione, se

da una parte vengono presentati come possibilità di sviluppo per i

paesi della riva sud, dall’altra non sono che il prodotto di

licenziamenti di massa dovuti alla chiusura delle fabbriche

d’oltreriva. Julie Chaudier, titola il suo articolo apparso sul

Magazine on-line Yabila Les employés du textile viendront-ils chercher du travail

au Maroc? Tanto per fare un esempio concreto, nel momento in cui

Inditex decide di de-localizzare in Marocco ed in Turchia la marca

Pull&Bear, la fabbrica tessile Corrochano de Talavera de la Reina,

a Toledo, chiude i battenti e a nulla valgono le proteste dei

lavoratori e delle lavoratrici licenziat*. Nuovamente sottolineo,

infatti, come la lotta sindacale, intesa in senso classico e, se

vogliamo, negoziale non possa più esser considerata di alcuna

efficacia dal momento che viene meno la controparte: tanto in

Marocco quanto in Spagna, il padrone della fabbrica non può più

essere considerato l’unico referente (e dunque responsabile) in

quanto è anch’esso soggetto (e/o legittimato) ai diktat della

flessibilità e del nuovo modello di produzione neo-capitalista. La

differenza di retribuzione tra Fatima e Mercedez rende evidenti

gli interessi in gioco: in Marocco lo stipendio medio del settore

è di poco superiore ai 200 Dirham (circa 180 euro) al mese, mentre

in Spagna si arriva a percepire un salario medio lordo di 1250

euro. E l’obiettivo, lo si ricordi, è proprio il seguente, ossia

la riduzione del costo del lavoro di cui la manodopera a basso

costo risulta essere la via più efficace; riduzione non sempre

“giustificata” dalla crisi; Inditex, infatti, come dichiarato nel

sito ufficiale, presenta tra il 2010 e il 2011 un tasso di

crescita del 12%. E con una mobilità del lavoro presente a Tanger,

attestata intorno al 30%, principalmente a causa dell’intensa

migrazione rurale verso le città, l’obiettivo è facilmente

raggiunto.

La seconda coppia di alter ego è invece rappresentata da Fatima e

Madame Pompadour, donna appartenente alla classe della borghesia

francese. Affinché Madame Pompadour, possa acquistare il suo abito

a basso costo è necessario che Fatima sia sottopagata. All’interno

di questa coppia, possono essere sviluppate diverse tipologie di

riflessione. Facendo sempre riferimento alla produzione di

Inditex, è stato per me sufficiente girare all’interno delle

fabbriche per notare il forte e visibile contrasto tra i capi

d’abbigliamento prodotti e i capi d’abbigliamento che vestono le

donne marocchine. Alcuna delle produzioni tessili di queste

fabbriche è riservata al mercato interno. Il modello proposto da

queste imprese, è il tipico modello a cui le nostre pubblicità e

il nostri programmi televisivi ci hanno abituate. Donne semi-

svestite che si riconoscono in ciò che vestono. E immediatamente

mi risuonano le eco degli scritti di Simone Weil, una donna molto bella

che guarda la sua immagine allo specchio può credere facilmente di essere ciò che vede.

Una donna brutta sa di non essere questa (S. Weil, 1985). E di rimbalzo,

un’altra voce, che assieme alla precedente come alle non citate,

qui, a Tanger, città di frontiera, si mescolano e confondono come

le voci dei mercanti dei souk: se considerate il nostro velo un simbolo di

sottomissione, cosa dire della vostra taglia 42? (F. Mernissi, 2006). Su quali

terreni si incontrano queste due riflessioni e in che maniera, le

figure dell’alter ego possono divenire traccia?

Per rispondere a queste domande, parto dal mio vissuto. Uno degli

ultimi giorni della mia permanenza a Tanger, il 24 gennaio 2013,

scendo in strada assieme alle molte altre persone che protestano

contro le politiche del governo di Mohamed VI e in ricordo delle

vittime della repressione degli anni precedenti. Le pratiche di

piazza, gli slogan, le bandiere nere… tutto vive di uno spirito

globale, finalement! Non sono presenti le sigle femministe che pur

hanno acquisito molta forza in Marocco, soprattutto in seguito

alla promulgazione della moudawana (Codice della famiglia) del

2004 , ma sono presenti alcune delle donne dell’Associazione

Attawasol, impiegate nelle fabbriche tessili. L’insegnamento che

ne ricavo è che nonostante non accetti le teorie di alcune

correnti marxiste circa la riduzione della lotta contro lo

sfruttamento di genere alla lotta di classe, la fabbrica resta il

luogo di conflitto per eccellenza. Eppure, le debolezze relative

all’azione sindacale riscontrate, rendono questa prospettiva

insufficiente. Se i nuovi modelli di produzione e sfruttamento,

costruiti attorno ai regimi della mobilità (di persone e capitali)

e all’esportazione di modelli patriarcali in cui le donne si

ritrovano soggiogate ad un duplice sfruttamento nella dimensione

produttiva e riproduttiva (ben lungi, dunque, dalle teorie che

inneggiano all’emancipazione di genere attraverso la

partecipazione al mondo del lavoro), è nelle relazioni tra donne

che l’alternativa dev’essere ricostruita. L’operaia spagnola e

l’operaia marocchina, non ritrovano un punto in comune nel loro

statuto professionale, ma nella loro appartenenza di genere. La

donna proletaria marocchina e la donna borghese europea, non sono

legate in maniera conflittuale dal fatto che il lavoro dell’una

produce il vantaggio economico dell’altra, ma sono accumunate

dall’essere altra rispetto ad un mondo patriarcale rivelato nelle

sue differenti forme. Non è il vittimismo il mio punto d’arrivo.

Accolgo la critica di Carla Freeman, la quale mette in guardia dal

perpetrare l’errore della letteratura mainstream sulla

globalizzazione circa l’adozione di categorie binomiali date

(globale/maschile e locale/femminile) che produce l’effetto di

individuare le donne come “vittime” rendendo, di conseguenza,

difficile immaginare dei frame in cui alle donne possa esser

assegnato o, meglio, in cui le donne possano autonomamente

legittimarsi all’interno di ruoli differenti. L’analisi di genere

qui presentata è invece lo spunto per riflettere sui nuovi modelli

produttivi imposti dal sistema neo-capitalista e sull’allargamento

dei confini dell’Unione Europea che si realizza attraverso

l’implementazione di progetti neo-coloniali. Da cittadina europea,

che gode dei vantaggi inerenti il suddetto status, voglio divenir

protagonista di questo progressivo abbattimento delle frontiere,

che non sono da intendere soltanto attraverso le immagini delle

fortezze e dei muri che in tutto il mondo dividono i popoli; le

frontiere sono invece complessi sistemi di dighe e meccanismi di

filtraggio che fanno sì che i problemi di fronte cui ci troviamo non possono

essere intesi come problemi di rapporto tra un compatto “noi” e “gli altri”. Sono piuttosto

problemi che chiamano in causa la stessa definizione di un “noi”europeo (S.

Mezzadra, 2006). Oggi, l’identità europea, si rivela essere

un’identità creata da policy makers e professionisti di settore

che agiscono in nome dell’Europa ed il cui concetto spaziale viene

dunque implementato in forme di iterazione di natura produttiva e

selvaggia. Preferisco riconoscermi nelle identità frammentate di Seyla

Benhabib e tra queste, valorizzare la mia identità di genere

all’interno di un percorso di ridefinizione delle categorie che

prenda avvio dalle pratiche del partire da sé, dalla narrazione

come punto di contatto tra la dimensione dell’esperienza e le

relazioni che intessono i corpi nel loro agire gli spazi. Nella

città di frontiera di Tanger, ciò che accade ha, a mio avviso, un

fortissimo potenziale rivoluzionario. Nonostante l’anima

profondamente cosmopolita della città, essa rimane fortemente

legata alle sue tradizioni culturali e religiose, come si evince

dalla separazione degli spazi di cui si è già trattato. Nelle case

delle famiglie agiate come delle famiglie più umili, vi è sempre

un salotto predisposto per le invitate di genere femminile ed un

altro per gli invitati. Le due categorie non si incontrano e

seppur all’interno della dimensione familiare più intima questa

divisione risulta più flessibile, di continuo mi ritrovavo in

situazioni in cui il mio ingresso nella dimensione domestica di

famiglie amiche, comportasse l’allontanamento degli uomini. Stesse

situazioni si perpetrano nella dimensione pubblica laddove seduti

ai tavolini all’esterno del bar, vi sono solo uomini intenti a

sorseggiare il thé, mentre alle donne viene riservato l’interno,

anzi, per la precisione, il secondo piano. È in questi luoghi che

salta il conto delle parti. Perché in quei salotti, in quegli

spazi associativi riservati alle donne, nel prendere il pasto

durante le pause del lavoro sul prato di fronte la fabbrica, il

potenziale rivoluzionario del pensare in presenza agisce.

L’insegnamento di Chandra Talpade Mohanty guida il mio pensare. Ma

non soltanto un sentimento di solidarietà femminista produrrà

tentativi di liberazione in quanto questa è, per me, da costruire

su terreni conflittuali. Le donne originarie di Tanger da anni

hanno portano avanti le loro lotte per l’emancipazione, contro una

legislazione che permette ad uno stupratore di redimere la sua

colpa sposando la ragazza violata come contro la tutorialità

genitoriale e tutto vantaggio dell’uomo. L’arrivo delle donne

delle campagne, più legate alle restrizioni che le sempre nuove

fatāwā (pareri consultivi di un giurisperito faqīh, circa le

disposizioni previste dalla Sharia, la legge religiosa musulmana,

inerenti le diverse fattispecie del vissuto) e le vecchie

tradizioni impongono, ha minacciato la conquista di molte delle

libertà a cui le “donne di città” tendono, quali il circolare

liberamente per strada dopo le 8 di sera o l’invitare un amico a

casa per il thé. Eppure, le nostre identità frammentate, vanno

tutelate dall’esser poste in categorie confinate. Ognuna delle donne

che ho incontrato in Marocco, racconta un’esperienza singolare. Lo

scambio di queste esperienze e il condividere spazi e tempi,

produce continui cambiamenti. Fatima, la mia più cara compagna di

Tanger, parlava all’interno delle associazioni femministe e

parlava all’interno del salotto familiare, con sorelle, cugine e

zie pronte a criticare la sua spinta verso la libertà. Quegli

innumerevoli dialoghi nei salotti, sono stati per me, la chrétien, così

come le ragazze m’appellavano, una possibilità di divenire.

Credo, dunque, che sia dalle relazioni tra donne di diversa

provenienza geografica ed estrazione sociale che bisogni ripartire

per parlare di Europa e di Mediterraneo. L’esperienza di genere

che ci accomuna, le determinazioni spaziali che ci vogliono

confinate in siffatti luoghi, non ci rendono vittime, ma

protagoniste di un superamento.