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Tessere relazioni mediterraneeDe-localizzazioni e narrazioni di genere a Tanger
di Lucia Turco
Altra. L’essere altra che è il mio essere politica. E riconoscere
l’alterità nelle narrazioni altre e riconoscermi.
La mia ricerca abita le sponde del Mediterraneo, nello specifico
una città di frontiera, Tanger. Ho agito gli spazi del centre
ville come i quartieri periferici di M’ghogha e Béni Makada, ho
vissuto la geografia della centralità e della marginalità e mi
sono interrogata sulle cause che l’hanno prodotta. Ho osservato i
centinaia e centinaia di furgoncini bianchi tracciare i percorsi
quotidiani delle donne e degli uomini impiegati nelle fabbriche
tessili de-localizzate. L’essere in presenza di tutte noi, donne
delle fabbriche, studentesse, femministe, ricercatrici da tutto il
mondo, vecchie e nuove abitanti della città di frontiera, è ciò
che valorizzo, è ciò che riconosco come mia pratica scelta di
lotta anti-capitalista.
È da una storia altra che voglio dare inizio al presente contributo;
tra le maglie delle filature del Maghreb, tessere l’inizio di una
narrazione. Ricevo e restituiscono racconti sul tessile, attività
legata alla tradizione, al lavoro delle donne all’interno di spazi
familiari, odoranti la legna dei telai. Il tessile che ha da
sempre tracciato le strade del commercio medio-orientale, si è
intrecciato con la storia dell’Islam, sin dalla sua nascita, nel
VII sec. ed è divenuto simbolo d’appartenenza alla religione
musulmana per i fedeli sparsi dal Marocco alla Cina. I legami con
l’epoca pre-islamica restano nelle trame dei tiraz, che rimandano ai
grandi centri di tessitura dell’Egitto e della Persia durante il
califfato Omeyyade; l’abitudine sassanide della veste ricamata in
oro come ricco dono per nobili e funzionari viene adottata dai
califfi abbasidi e dalle dinastie musulmane del Medio Evo. Ancora
oggi, le donne marocchine delle classi più agiate, sono solite
portare in dono dei tessuti ricamati con i quali vengono fatti
cucire dei djellabas (tipico abito marocchino). Sui tessuti è dipinta
la storia dei popoli: l’ascesa del potere dei mori si riflette sul
progressivo abbandono delle figure umane e animalesche a vantaggio
di motivi geometrici e floreali, le figure arabesche che
permangono fino ai nostri giorni. Anche la storica frattura delle
due scuole musulmane è accompagnata dai motivi decorativi dei
tessuti: in Iran, terra sciita, le decorazioni richiamano figure
umane e animali mentre in terra sunnita si preferiscono
decorazioni geometriche e calligrafiche. Si pensi che la parola
“cotone” deriva dall’arabo qutun e furono gli arabi a diffonderne
l’utilizzo in Asia e in certe regioni dell’Africa; il lino da
tessuto dei faraoni è poi scelto dai copti d’Egitto come tessuto
prediletto; infine la lana, apparsa inizialmente in Anatolia e in
Mesopotamia, diviene il tessuto più utilizzato per i vestiti degli
ulama e del clero musulmano.
Per quanto riguarda il Marocco, anche qui i tessuti narrano la
storia dei popoli che hanno attraversato e abitato la terra; si è
sviluppata una forte tradizione del ricamo in seta su tessuti di
cotone, specialmente a Fès, Meknès, Rabat e Sale e nonostante
questa sia andata poi perdendosi progressivamente, ancora oggi è
possibile vedere le donne berbere dei monti dell’Atlas, intente a
tessere la lana attraverso le arcaiche tecniche dello sprang che
prevedono il lavoro manuale su telai. I tessuti accompagnano le
cerimonie più importanti: nel matrimonio, ad esempio, la sposa è
solita portare un hizam, una cintura di seta stretta intorno alla
vita, che leva alla fine della cerimonia, rappresentando in
maniera simbolica la possibilità di divenire madre.
Quello che il Marocco racconta oggi, però, è una storia ben
diversa; la storia di ieri resta nelle piccole città berbere,
principalmente nelle zone dell’Atlas, dove i prodotti vengono
venduti all’interno dei souk delle affollate medine; la
negoziazione è d’obbligo, fa parte della tradizione.
Diversamente, alla fine della catena di montaggio nella fabbrica
Larinori S.p.a, ecco i capi d’abbigliamento a me noti, con tanto
di cartellino e l’indicazione di un prezzo stabilito. La Larinori
S.p.a, come le altre fabbriche tessili presenti sul territorio del
Nord del Marocco, è un’impresa che opera in qualità di fornitrice
di servizi, in relazioni di sub-appalto principalmente con la
multinazionale spagnola Inditex. Le vendeurs du minutes, così vengono
definite le imprese che divengono lo specchio di un nuovo modo di
intendere il consumo, esplicabile attraverso l’immagine di una
collezione primaverile che in estate è già divenuta fuori moda. Ho
conosciuto alcune delle donne impiegate nelle fabbriche tessili
de-localizzate ed è dalle loro esperienze e dalle loro narrazioni
che traggo la spinta per analisi dal respiro globale, sui nuovi
modi di intendere la produzione, sulla moltiplicazione (e non più
soltanto divisione) internazionale del lavoro e questa folle
ricerca dell’abbattimento dei costi attraverso l’implementazione
di progetti neo-coloniali e neo-liberisti. Anzitutto è necessario
sottolineare come il lavoro tessile, anche nei paesi più
sviluppati, venga generalmente individuato come lavoro femminile e
il caso del Marocco ne è una conferma in quanto in media il 70%
della manodopera in essa impiegata è una manodopera femminile,
come attestato in tutti i rapporti che ho avuto modo di
analizzare. Erroneamente, vi sono competenze considerate
“naturali” da che ne consegue che tali lavori vengano considerati
non specializzati o semi-specializzati. Ma la questione delle
nimble fingers, non è certo un’eredità biologica quanto la conseguenza
di un training culturale a cui le donne sono soggette da parte
delle madri e della altre donne in famiglia, sin da piccole. Nei
libri di scuola dell’infanzia, è costante la divisione degli spazi
per cui la donna viene rilegata alla dimensione domestica mentre
la dimensione pubblica è attraversata principalmente da uomini.
Nel domandarmi se, relativamente a tale divisione, la
partecipazione delle donne all’attività produttiva abbia mutato la
ripartizione dei lavori all’interno delle mura domestiche, tutte
le testimonianze raccolte negano un aumento della partecipazione
maschile. Gli unici compiti riservati all’uomo sono, ancora una
volta, quelli relativi allo spazio esterno come il portare il pane
al forno del quartiere per la cottura. Dunque, nessuna delle donne
riscontra una differenza nella ripartizione dei compiti di
riproduzione. Le differenze riguardano, invece, la possibilità di
gestire il denaro guadagnato, sempre in accordo con le altre
persone del nucleo familiare, principalmente le madri. I salari,
sono un altro dei motivi additati per cui si preferisce impiegare
le donne all’interno delle fabbriche. Pare, infatti, che le donne
siano maggiormente disposte ad accettare salari più bassi rispetto
agli uomini in quanto i loro guadagni sono finalizzati non a
soddisfazioni di natura edonistica ma al sostegno familiare. Per
quanto le testimonianze raccolte sembrino dar conferma di ciò,
principalmente in riferimento alle donne provenienti dagli
ambienti rurali trasferitesi in città, che sono solite inviare
mensilmente la maggior parte dei loro guadagni alle famiglie,
altre ricerche, quali quelle condotte dal Professor Belkheiri,
rivelano esiti completamente opposti: gli uomini, essendo
obbligati –culturalmente- a sostentare economicamente la famiglia,
vivono il rapporto con il lavoro come un preciso dovere cui
adempiere, al contrario delle donne che si rapportano al mondo
lavorativo più libere dalle aspettative sociali e producono,
dunque, una rottura con la tradizione. Penso che entrambi gli
approcci falliscano parzialmente nel tentativo poiché perpetrano
una divisione manichea del genere che amputa, attraverso percorsi
di semplificazione, le diverse esperienze di vita di ciascuna e
ciascuno. Più interessante è notare invece l’importanza che i
progetti familiari occupano nelle scelte individuali delle donne:
tutte affermano che il principale progetto di vita sia metter su
famiglia e dunque lasciare il lavoro; tutte eccetto Knouz che
sostiene con orgoglio la sua contrarietà a dover dipendere
economicamente dal marito: Non è accettabile dover chiedere al marito i soldi per
prendere un caffè, per andare dal parrucchiere. Completamente opposta la
reazione di una delle donne lontane da casa che sostiene: Noi
lavoriamo adesso e non andiamo comunque dal parrucchiere; non è possibile lavorare
fuori di casa e dentro casa; la casa per me e lo spazio esterno per l’uomo.
La separazione degli spazi è al centro di un interessante lavoro
di ricerca condotto da Rahma Bourquia nei campements, individuati
come spazi transitori tra la vita urbana e la vita rurale,
prodotti in seguito agli esodi rurali che hanno interessato la
città di Oujda, nella parte nord-orientale del Marocco (Bourquia,
1996). Bourquia sostiene che lo spazio sia un prodotto maschile (e
maschilista) che pone due modelli di donna agli antipodi: la femmes
de la maison et la femme de la rue. Quello che si può evidenziare, dunque, è
una riflessione proposta da Edison e Pearson: a women is never “free”[…]:
she has obligation of domestic labour, difficulties in establishing control lover her own
body, on inability to be fully a member of society in her own right; but also the possibility
of obtaining her subsistence from men in exchange for personal services of a sexual or
nurturing king (D. Elson, R. Pearson, 1981). Il fenomeno
dell’abbandono del lavoro in seguito al matrimonio, conosciuto
come un “natural wastage”, risulta di grande vantaggio per le imprese
la cui mole di lavoro dipende dall’incostanza della domanda del
mercato. Le donne sono, infatti, considerate come “sacche di
riserva” della manodopera facilmente licenziabili quando le
imprese vogliono diminuire la forza-lavoro e facilmente
riassumibili quando vogliono estenderla.
L’ultima caratteristica data come “naturale” dovrebbe essere la
maggiore docilità attribuita alle donne, più disciplinate e meno
inclini ad attività sindacali. Per testare l’assunto, è
sufficiente ritornare alla dimensione di fabbrica. All’interno
della letteratura mainstream è spesso sottolineato come, in
fabbrica, le relazioni sociali siano da ascrivere alle impersonali
connessioni monetarie, più che alle distinzioni di genere, che pur
sono presenti. Si tracci allora un quadro dei problemi che
interessano questa “presunta” forza-lavoro priva di una
distinzione di genere. Anzitutto mi preme sottolineare come a
differenza degli uomini incontrati, la maggior parte dei quali
lavora nelle de-localizzazione del settore automobilistico e ha
trovato lavoro attraverso l’invio del CV, le donne che ho
incontrato o accedevano al lavoro attraverso i legami familiari
oppure, dopo la migrazione dalle campagne, si ritrovavano a
bussare direttamente alle porte delle fabbriche. Sono donne su cui
l’intera famiglia fa affidamento tanto da, come nel caso di
Yassmine e Najad, scegliere il trasferimento in città di tutti i
membri del nucleo allargato facendo leva sulle giovani figlie, le
quali avranno il compito di sostenere economicamente l’intera
famiglia. È questa la fragilità di cui si parlava? Come i dossier
di ricerca e il lavoro sul campo confermano, i principali problemi
relativi al lavoro di fabbrica percepiti riguardano anzitutto gli
orari di lavoro e la retribuzione. Gli operai e le operaie
guadagnano poco meno o poco più dello smig, il salario minimo
garantito fissato dallo Stato affinché i beneficiari possano
soddisfare i bisogni primari essenziali. Le associazioni Attawasol
e Settem hanno stimato, attraverso ricerche sul territorio, che il
costo di un paniere di servizi primari per una famiglia composta
da 2 adulti e 2 minori, sia pari a 600 euro al mese. Non si tratta
qui dei calcoli effettuati dagli istituti di credito
internazionale, i “tracciatori di linee professionisti”; si
preferisce far riferimento alle proposte di Amartya Sen e
sostituire a calcoli calorici e simili, metri di giudizio che si
rifacciano al comune sentire per un calcolo dei bisogni che abbia
come punto di partenza la costatazione delle opportunità. Ed è
sufficiente vivere a Tanger per qualche tempo, questa città di
confine dove il costo dei prodotti necessari per la preparazione
di un cous cous può superare i 200 dh (17,94 euro) al mercato dei
fiori su Rue de Fès e non supera i 50 dh (4,49 euro) al mercato di
Ben Dibane, per capire come lo smig non permetta una vita
dignitosa. Uno spunto di riflessione molto interessante viene
dalla testimonianza di Lathifa che sostiene: È lo stato che domanda al
proprietario di porre un limite, “le salaire de l’État” lo chiamano; solo lo Stato può
obbligarlo ad alzare gli stipendi. Dunque, Lathifa concepisce lo smig come
una sorta di tetto massimo imposto dallo Stato. Ciò rende evidente
anche un altro aspetto, ossia che le operaie, dato il basso
livello di scolarizzazione di cui si è già detto, sono alle volte
ignare dei vari processi burocratici legati al mondo lavorativo,
quali ad esempio il contratto di lavoro, la CNSS Cassa Nazionale
di Sicurezza Sociale, la carta nazionale etc., tutti temi al
centro delle politiche associative assieme alla formazione
professionale e alla scolarizzazione. Altro problema rilevato è
quello degli orari lavorativi che sono spesso prolungati in
maniera arbitraria da parte del padrone e non vengono retribuiti
secondo le norme di legge in materia [La giornata lavorativa
prevede un massimo di 44 ore settimanali, che non possono tradursi
in più di 10 ore di lavoro giornaliero;oltre le 10 ore si parla di
lavoro straordinario che se effettuato tra le 5h00 e le 22h00
viene retribuito al 25% in più rispetto al salario base; al di
fuori di questo orario è retribuito al 50%; durante i giorni
festivi al 50% durante gli orari diurni (5h00-22h00) e al 100%
durante gli orari notturni]. Nel rapporto finale redatto da
Mariam, dell’associazione UNFM, relativo all’anno 2010-2011, tra
le principali ragioni dell’abbandono del corso si ritrovano le ore
supplementari al lavoro; la prima volta che andai
all’associazione, inoltre, la metà delle donne si presentò con
un’ora di ritardo a causa del prolungamento dell’orario. Ciò rende
difficile, com’è sempre l’associazione Attawasol a sottolineare,
l’organizzazione del tempo fuori dalla fabbrica: attività
sindacali o simili sono fortemente impedite dalla mancanza di
tempo, divise così le donne tra un lavoro in fabbrica dagli orari
cangianti e un lavoro domestico che le attende al ritorno. Quando
parlo con le operaie delle violenze subite sul luogo di lavoro,
due delle ragazze di Drissia mi raccontano: La violenza la riceviamo
soprattutto da parte dello chef (il responsabile della catena); se c’è un litigio
con lui, per punizione ci obbliga restare a casa per tre giorni. E ancora: Lo chef ci getta
i vestiti in faccia, ci sgrida, ci insulta; tira schiaffi; un giorno, lui e un operaio stavano
litigando; l’uomo voleva andar via, si è alzato di colpo e la sedia è caduta per terra, allora
il capo ha preso la sedia e ha colpito l’uomo con la sedia; tutte ci siamo messe a parlare, ci
siamo lamentate, ma alla fine siamo tornate a lavoro. Khidide e Knouz, amiche da
molti anni, sono invece d’accordo nell’affermare che la violenza è
l’esigenza della produzione da soddisfare in tempi stabiliti e che
supera spesso le possibilità umane. Queste imprese che operano nel
settore attraverso le relazioni di sub-appalto con le
multinazionali europee devono infatti divenire capaci, per
risultare competitive sul territorio, di stabilire un flusso
regolare di prodotti al fine di ridurre le spese di stoccaggio ed
evitare così rischi aziendali; ciò comporta due conseguenze: da
una parte il lavoro all’interno delle stesse è completamente
sottomesso ai diktat della flessibilità e dall’altra, laddove
l’ordine superi le capacità di produzione dell’impresa nel tempo
stabilito, il lavoro viene nuovamente subappaltato a piccoli
atelier dislocati nei quartieri periferici che inglobano i più
alti livelli di precarietà e, ovviamente, li perpetrano.
L’ultimo ambito che ha interessato la mia ricerca sul campo è la
lotta sindacale. Vi sono delle specificità territoriali che
motivano la debolezza del sindacato in Marocco e che devono
necessariamente essere ricondotte alle lotte sindacali degli anni
’70, i cosiddetti années de plomb, confluite poi in processi
negoziali finalizzati alla restaurazione della pace sociale. Ma su
queste specificità locali non mi dilungherò poiché altre
considerazioni di natura globale sono alla base dell’indebolimento
della portata conflittuale dell’azione sindacale. La maggior parte
delle fabbriche presenti in Marocco, sono istallate all’interno
delle cosiddette Zone franche che hanno completamente violentato
la regione Nord del Marocco. Le zone franche giocano un ruolo
importante nel passaggio da “paese in via di sviluppo” a “paese
emergente” come dimostrano, ad esempio, i casi del Messico, della
Malesia e della Repubblica domenicana, dove però il contributo
delle esportazioni ha, attualmente, un peso minore rispetto al
passato; per gli investitori, gli interessi principali riguardano
il basso costo della manodopera, la possibilità di beneficiare del
regime di vantaggi fiscali e degli esoneri dalle tasse doganali e
la riduzione dei costi di installazione ma potendo al contempo
disporre di strutture adeguate.
La regione nord, per molti anni completamente assente dall’agenda
nazionale, più incentrata sullo sviluppo di Casablanca e della
costa atlantica, acquisisce, con il nuovo sovrano, un’importanza
strategica. La futura Singapore Mediterranea come alcuni organi di
stampa hanno voluto rinominare la zona nord sotto la spinta del
nuovo sviluppo!
La punta di diamante è la zona franca portuale Tanger Med a cui si
aggiungono la zona di esportazione Melloussa I e Melloussa II
nella prefettura di Fahs Béni Makada strettamente connesse al
progetto TangerMed, la prima distante 20 km dal porto, nel cuore
della penisola tingitana e la seconda, dislocata a 12 km da Tanger
prevalentemente occupata dalle attività della Renault; in più è
stata realizzata una zona logistica adiacente che prevede attività
logistiche, di assemblaggio e imballaggio e di distribuzione;
ancora la zona commerciale di Fnideq e il prolungamento TFZ e
della zona industriale di Gueznaya, in direzione di Rabat. Tanger
conta due zone franche ossia la Tanger Free Zone e la vecchia zona
franca portuale. Queste zone sono il volto della nuova economia-
mondo e le politiche di vantaggi fiscali e sostegni economici
all’istallazione delle imprese all’interno di queste zone
(esenzioni dalle tasse, rimborso fino 100% da parte dello Stato
attraverso il Fondo Hassan II del costo necessario all’acquisto
del terreno etc.) fa sì che, in ipotesi di scioperi o blocchi
della produzione, più che rispondere alle istanze dei lavoratori e
delle lavoratrici, risulti più conveniente per gli investitori
stranieri, de-localizzare nuovamente la produzione altrove. Le
regole del mercato, in questo caso specifico del mercato del
tessile, hanno da tempo abbandonato le sedi locali per stabilirsi
sui tavoli internazionali. Nel 1994, sotto la spinta di dei PVS,
India, Pakistan e Indonesia in testa, si determina la fine del MFA
Multifibre Arrangement il quale nasce nel quadro del GATT General
Agreement on Tariffs and Trade del 1947, dunque, all’interno di un regime
di deroga che permette l’applicazione di restrizioni quantitativa
alle quote delle importazioni all’interno di accordi bilaterali
fra stati. Dal 1984 al 1994, si avvia un processo di vari
negoziati a livello internazionale, l’Uruguay Round che termina con
la firma degli Accordi di Marrakesh il 15 Aprile 1994. Particolare
attenzione è dedicata al settore del tessile attraverso la stipula
dell’ATA Accordo sui tessili e sull’abbigliamento in cui viene prevista la
progressiva eliminazione delle restrizioni quantitative al
commercio dei prodotti tessili che, a partire dal 1 gennaio 2005,
viene completamente disciplinato dalle regole del GATT del 1994.
Il Marocco, come gli altri paesi dell’area mediterranea, perde i
vantaggi di cui ha goduto fino a questo momento. Il mercato
europeo si apre, infatti, ai prodotti cinesi e indiani i quali
iniziano ad invadere anche il mercato interno dei PTM paesi terzi
mediterranei. Altri episodi che presentano una forte incidenza sulle
capacità competitive della zona sono l’allargamento ad est dell’UE
nel 2004 e le concessioni tariffarie supplementari concesse nel
2005, specificatamente nel settore del tessile, ai paesi colpiti
dallo tsunami nel dicembre 2004, ossia Thailandia, Sri Lanka e
Indonesia. Ma nonostante gli effetti negativi della fine
dell’Accordo Multifibre, il mercato degli investimenti esteri
nell’aerea mediterranea presenta comunque buoni livelli di
performance. Tra le ragioni del mantenimento del livello di
competitività va ricordata anzitutto la vicinanza geografica, che
soprattutto nel campo del fast-fashion assume un’importanza
strategica, a cui si aggiunga la qualità dei prodotti mediterranei
in rapporto alla qualità dei prodotti asiatici. L’ottima
performance del Marocco all’interno dell’area mediterranea, è
dovuta non soltanto all’apparente stabilità politica del paese ma
soprattutto alle politiche nazionali implementate nel corso degli
ultimi decenni finalizzate ad attrarre gli ingenti investimenti
stranieri, di cui le Zone franche sono i volti più emblematici. Le
radici affondano nei passati terreni coloniali che hanno prodotto
l’adozione dei Piani di Aggiustamento Strutturale nell’83 e le
progressive privatizzazioni operate principalmente nel campo delle
telecomunicazioni, del turismo, del tessile, dell’industria
automobilistica, dell’elettronica e dell’agro-alimentare. Ogni
pezzo del puzzle si posiziona facilmente ed il quadro risultante è
chiaro: la progressiva crisi economica che colpisce i paesi
sviluppati, spinge gli imprenditori a cercare nuovi mercati che
permettano un abbassamento del costo del lavoro. I paesi in via di
sviluppo, divengono i territori fertili per le nuove esigenze
produttive di stampo neo-capitaliste, che si realizzano attraverso
relazioni neo-coloniali e attraverso i processi individuati da
Saskia Sassen di de-nationalized state-agenda, all’interno un nuovo ordine
istituzionale la cui principale caratteristica è la capacita di
privatizzare ciò che prima era pubblico e de-nazionalizzare ciò
che prima era parte dell’agenda politica nazionale. Determinate
componenti dello stato-nazione hanno iniziato ad assolvere alla
funzione di base istituzionale per le operazioni del “capitale
globale”e del “mercato globale del capitale”(S. Sassen, 2000).
Cosi facendo, queste istituzioni contribuiscono ad orientare
l’agenda statale verso le richieste dell’economia globale. Un
esempio lampante di questo discorso è, per rimanere inerenti al
terreno di ricerca proposto, il Code des Investissement Agricoles del 1969,
adottato dal Marocco sotto la spinta della Banca Mondiale. Questo
va a colpire la produzione agricola tradizionale attraverso
l’individuazione di “suolo pubblico” da porre sotto il controllo
dello Stato; segue poi la legge n 39-89 sulle privatizzazioni
delle imprese pubbliche; il terreno è cosi preparato all’arrivo
degli ingenti capitali stranieri. Intensi flussi rurali di uomini
e donne, non potendo più disporre di terreni collettivi per
l’agricoltura, sono costretti a spostarsi nelle città offrendosi
come manodopera a basso costo. Il quadro è completo. La conta
delle parti non da resto (Rancière, 2007). Le ragioni economiche,
sono sufficienti a spiegare una tale carrellata di fenomeni? La
risposta è no. Vi sono importanti ragioni politiche alla base di
quanto avviene oggi sul territorio marocchino, ragioni
rintracciabili all’interno del processo di allargamento dei
confini dell’Unione Europea e di creazione della cosiddetta zona
euro-mediterranea. Anzittutto, la consapevolezza del valore
performativo del linguaggio, non declassabile ad una mera
rappresentazione del reale, costringe a sottolineare come Zona
euro-mediterranea presupponga la partecipazione di due entità
differenti: da una parte l’Unione Europea, forte delle sue
strutture politico-economiche, dall’altra un referente anonimo, un
mare svuotato dei suoi abitanti. Non mi dilungherò sui passaggi
istituzionali e mi limiterò a citarne i principali: dai Dialogues
euro-arabe del ‘73, si passa ad una serie di ulteriori tentativi che
si riveleranno fallimentari fino alla firma dell’Accordo di
partenariato euro-mediterraneo stipulato nel 1995 durante la
Conferenza di Barcellona, che coinvolge i 12 PTM: Turchia, Cipro,
Malta e Israele al nord, Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto,
Giordania, Libano ,Siria e Palestina al Sud. Si tratta dei paesi
sul bordo del Mediterraneo e questa è stata la motivazione
dell’esclusione di 14 degli altri paesi facenti parte della Lega
Araba. Stesso discorso non viene ovviamente applicato sull’altro
versante in cui tutti i paesi dell’UE, anche quelli lontani dal
Mediterraneo, vengono inclusi nel progetto. La filosofia alla base
dell’interno processo è che lo sviluppo dell’area sarà assicurato
dall’introduzione del libero mercato, dai processi di
democratizzazione e dal flusso di aiuti finanziari. Nel 2010,
attraverso una progressiva eliminazione di dazi e tasse per quasi
tutti i prodotti industriali europei che possono dunque
liberamente circolare nel mercato della riva sud, viene istituita
la Zona di Libero Scambio. Essa non è altro che la messa in atto
di Programmi d’aggiustamento strutturale su larga scala imposti ai
paesi in via di sviluppo dagli Istituti di credito internazionale
a partire dagli anni ’80. Nei fatti però questa Zls sembra
comportare vantaggi soltanto per una delle due parti, così mentre
si aggrava la difficoltà percepita da Marocco e Tunisia di rendere
competitivi i loro prodotti agricoli sul territorio europeo,
diviene sempre più facile per il nord commerciare i prodotti
industriali e tecnologici al sud, ormai liberi dai costi di
entrata Anche la ENP European Neighbourhood Policy del 2005, in seguito
agli eventi del 11/09/2001, risulta insufficiente e si inizia a
parlare di una politica di vicinato, la quale prende in
considerazione la dimensione interna e la dimensione esterna
dell’UE, così creando l’immagine del ring of friends. Il 23 ottobre 2007
il Presidente francese Sarkozy, nell’antica città internazionale
di Tanger, lancia il suo appello all’Unione del Mediterraneo e il
13 Luglio 2008 viene istituita l’organizzazione internazionale UpM
Unione per il Mediterraneo. Adottando la prospettiva specifica delle
relazioni tra UE e Marocco, si ricordi che il Marocco è il solo
stato della riva sud ad aver formulato ufficialmente, nel 1984 e
poi nel 1995, una domanda d’adesione all’Unione. Nous voudrions être à
l’Europe ce que le Mexique est à l’Amérique, così declamava Hassan II, il
terribile monarca dei cosiddetti Anni di piombo. Il 3 Ottobre 2008
il Marocco è il primo paese al quale viene accordato lo statuto
avanzato, che pur non avendo ancora valore formale, a differenza
dell’accordo di associazione del 1996, ricalca gli stessi passaggi
compiuti dai PECO prima della definitiva adesione all’UE. Ma quali
sono i veri obiettivi di questo allargamento delle frontiere in
cui oggi il Marocco si trova inglobato? Nell’interessante articolo
elaborato dal gruppo di ricerca in European Urban and Regional Studies
dell’Università di Sidney, viene ripresa la riflessione di
Michelle Pace, la quale sottolinea come la narrativa delle macro-
regioni faccia riferimento da una parte, alla spazialità dei “mari
interni” e dall’altra, alla ridefinizione dei confini. The sea and the
border marcano, così, lo spazio europeo. Ma il mare interno, come la
porosità dei confini, si scontrano con l’immagine della sicurezza
europea che dunque necessita di un rafforzamento delle politiche
del controllo migratorio attraverso, anzitutto, la
militarizzazione dello spazio marittimo. Si ha dunque una duplice
immagine spaziale dietro l’idea di macro-regione:
a seascape ossia un discorso che si basa sull’idea di uno spazio
aperto di reti e connessioni;
a borderscape che necessita di regolamenti e controlli;
il Marocco diviene, così, gendarme del Mediterraneo a cui viene
chiesto di assumersi la responsabilità del transito migratorio
sub-sahariano, come testimonia il Patto sull’immigrazione e la
direttiva dei rimpatri del 2008. Ma la chiusura dei confini che
danno vita all’immagine di una fortezza europea è solo un lato
della medaglia. L’altro, sono i confini porosi, che porosi lo
diventano quando protagonista diviene la soluzione liberista su
scala globale, l’imposizione di una cultura economica espressione
della volontà di mondializzazione di stampo euro-americano. E la
regine Nord del Marocco diviene l’emblema di una tale porosità.
Come in un movimento di filatura, in cui ogni maglia è legata alla
precedente ed alla successiva ed in cui basta tirare l’unico filo
affinché l’intera opera si raccolga nella forma originale di un
gomitolo, riprendo i volti delle donne, delle amiche, delle
compagne di entrambe le sponde del Mediterraneo. All’interno delle
relazioni con esse istaurate si colloca il mio breve tentativo
teorico di far saltare la conta delle parti!
Due coppie di alter ego sono state i punti di riferimento costanti
della mia ricerca.
La prima coppia è composta da Fatima, lavoratrice in una fabbrica
d’abbigliamento a Tanger e Mercedez, lavoratrice della fabbrica
tessile spagnola. Com’è noto, i processi di de-localizzazione, se
da una parte vengono presentati come possibilità di sviluppo per i
paesi della riva sud, dall’altra non sono che il prodotto di
licenziamenti di massa dovuti alla chiusura delle fabbriche
d’oltreriva. Julie Chaudier, titola il suo articolo apparso sul
Magazine on-line Yabila Les employés du textile viendront-ils chercher du travail
au Maroc? Tanto per fare un esempio concreto, nel momento in cui
Inditex decide di de-localizzare in Marocco ed in Turchia la marca
Pull&Bear, la fabbrica tessile Corrochano de Talavera de la Reina,
a Toledo, chiude i battenti e a nulla valgono le proteste dei
lavoratori e delle lavoratrici licenziat*. Nuovamente sottolineo,
infatti, come la lotta sindacale, intesa in senso classico e, se
vogliamo, negoziale non possa più esser considerata di alcuna
efficacia dal momento che viene meno la controparte: tanto in
Marocco quanto in Spagna, il padrone della fabbrica non può più
essere considerato l’unico referente (e dunque responsabile) in
quanto è anch’esso soggetto (e/o legittimato) ai diktat della
flessibilità e del nuovo modello di produzione neo-capitalista. La
differenza di retribuzione tra Fatima e Mercedez rende evidenti
gli interessi in gioco: in Marocco lo stipendio medio del settore
è di poco superiore ai 200 Dirham (circa 180 euro) al mese, mentre
in Spagna si arriva a percepire un salario medio lordo di 1250
euro. E l’obiettivo, lo si ricordi, è proprio il seguente, ossia
la riduzione del costo del lavoro di cui la manodopera a basso
costo risulta essere la via più efficace; riduzione non sempre
“giustificata” dalla crisi; Inditex, infatti, come dichiarato nel
sito ufficiale, presenta tra il 2010 e il 2011 un tasso di
crescita del 12%. E con una mobilità del lavoro presente a Tanger,
attestata intorno al 30%, principalmente a causa dell’intensa
migrazione rurale verso le città, l’obiettivo è facilmente
raggiunto.
La seconda coppia di alter ego è invece rappresentata da Fatima e
Madame Pompadour, donna appartenente alla classe della borghesia
francese. Affinché Madame Pompadour, possa acquistare il suo abito
a basso costo è necessario che Fatima sia sottopagata. All’interno
di questa coppia, possono essere sviluppate diverse tipologie di
riflessione. Facendo sempre riferimento alla produzione di
Inditex, è stato per me sufficiente girare all’interno delle
fabbriche per notare il forte e visibile contrasto tra i capi
d’abbigliamento prodotti e i capi d’abbigliamento che vestono le
donne marocchine. Alcuna delle produzioni tessili di queste
fabbriche è riservata al mercato interno. Il modello proposto da
queste imprese, è il tipico modello a cui le nostre pubblicità e
il nostri programmi televisivi ci hanno abituate. Donne semi-
svestite che si riconoscono in ciò che vestono. E immediatamente
mi risuonano le eco degli scritti di Simone Weil, una donna molto bella
che guarda la sua immagine allo specchio può credere facilmente di essere ciò che vede.
Una donna brutta sa di non essere questa (S. Weil, 1985). E di rimbalzo,
un’altra voce, che assieme alla precedente come alle non citate,
qui, a Tanger, città di frontiera, si mescolano e confondono come
le voci dei mercanti dei souk: se considerate il nostro velo un simbolo di
sottomissione, cosa dire della vostra taglia 42? (F. Mernissi, 2006). Su quali
terreni si incontrano queste due riflessioni e in che maniera, le
figure dell’alter ego possono divenire traccia?
Per rispondere a queste domande, parto dal mio vissuto. Uno degli
ultimi giorni della mia permanenza a Tanger, il 24 gennaio 2013,
scendo in strada assieme alle molte altre persone che protestano
contro le politiche del governo di Mohamed VI e in ricordo delle
vittime della repressione degli anni precedenti. Le pratiche di
piazza, gli slogan, le bandiere nere… tutto vive di uno spirito
globale, finalement! Non sono presenti le sigle femministe che pur
hanno acquisito molta forza in Marocco, soprattutto in seguito
alla promulgazione della moudawana (Codice della famiglia) del
2004 , ma sono presenti alcune delle donne dell’Associazione
Attawasol, impiegate nelle fabbriche tessili. L’insegnamento che
ne ricavo è che nonostante non accetti le teorie di alcune
correnti marxiste circa la riduzione della lotta contro lo
sfruttamento di genere alla lotta di classe, la fabbrica resta il
luogo di conflitto per eccellenza. Eppure, le debolezze relative
all’azione sindacale riscontrate, rendono questa prospettiva
insufficiente. Se i nuovi modelli di produzione e sfruttamento,
costruiti attorno ai regimi della mobilità (di persone e capitali)
e all’esportazione di modelli patriarcali in cui le donne si
ritrovano soggiogate ad un duplice sfruttamento nella dimensione
produttiva e riproduttiva (ben lungi, dunque, dalle teorie che
inneggiano all’emancipazione di genere attraverso la
partecipazione al mondo del lavoro), è nelle relazioni tra donne
che l’alternativa dev’essere ricostruita. L’operaia spagnola e
l’operaia marocchina, non ritrovano un punto in comune nel loro
statuto professionale, ma nella loro appartenenza di genere. La
donna proletaria marocchina e la donna borghese europea, non sono
legate in maniera conflittuale dal fatto che il lavoro dell’una
produce il vantaggio economico dell’altra, ma sono accumunate
dall’essere altra rispetto ad un mondo patriarcale rivelato nelle
sue differenti forme. Non è il vittimismo il mio punto d’arrivo.
Accolgo la critica di Carla Freeman, la quale mette in guardia dal
perpetrare l’errore della letteratura mainstream sulla
globalizzazione circa l’adozione di categorie binomiali date
(globale/maschile e locale/femminile) che produce l’effetto di
individuare le donne come “vittime” rendendo, di conseguenza,
difficile immaginare dei frame in cui alle donne possa esser
assegnato o, meglio, in cui le donne possano autonomamente
legittimarsi all’interno di ruoli differenti. L’analisi di genere
qui presentata è invece lo spunto per riflettere sui nuovi modelli
produttivi imposti dal sistema neo-capitalista e sull’allargamento
dei confini dell’Unione Europea che si realizza attraverso
l’implementazione di progetti neo-coloniali. Da cittadina europea,
che gode dei vantaggi inerenti il suddetto status, voglio divenir
protagonista di questo progressivo abbattimento delle frontiere,
che non sono da intendere soltanto attraverso le immagini delle
fortezze e dei muri che in tutto il mondo dividono i popoli; le
frontiere sono invece complessi sistemi di dighe e meccanismi di
filtraggio che fanno sì che i problemi di fronte cui ci troviamo non possono
essere intesi come problemi di rapporto tra un compatto “noi” e “gli altri”. Sono piuttosto
problemi che chiamano in causa la stessa definizione di un “noi”europeo (S.
Mezzadra, 2006). Oggi, l’identità europea, si rivela essere
un’identità creata da policy makers e professionisti di settore
che agiscono in nome dell’Europa ed il cui concetto spaziale viene
dunque implementato in forme di iterazione di natura produttiva e
selvaggia. Preferisco riconoscermi nelle identità frammentate di Seyla
Benhabib e tra queste, valorizzare la mia identità di genere
all’interno di un percorso di ridefinizione delle categorie che
prenda avvio dalle pratiche del partire da sé, dalla narrazione
come punto di contatto tra la dimensione dell’esperienza e le
relazioni che intessono i corpi nel loro agire gli spazi. Nella
città di frontiera di Tanger, ciò che accade ha, a mio avviso, un
fortissimo potenziale rivoluzionario. Nonostante l’anima
profondamente cosmopolita della città, essa rimane fortemente
legata alle sue tradizioni culturali e religiose, come si evince
dalla separazione degli spazi di cui si è già trattato. Nelle case
delle famiglie agiate come delle famiglie più umili, vi è sempre
un salotto predisposto per le invitate di genere femminile ed un
altro per gli invitati. Le due categorie non si incontrano e
seppur all’interno della dimensione familiare più intima questa
divisione risulta più flessibile, di continuo mi ritrovavo in
situazioni in cui il mio ingresso nella dimensione domestica di
famiglie amiche, comportasse l’allontanamento degli uomini. Stesse
situazioni si perpetrano nella dimensione pubblica laddove seduti
ai tavolini all’esterno del bar, vi sono solo uomini intenti a
sorseggiare il thé, mentre alle donne viene riservato l’interno,
anzi, per la precisione, il secondo piano. È in questi luoghi che
salta il conto delle parti. Perché in quei salotti, in quegli
spazi associativi riservati alle donne, nel prendere il pasto
durante le pause del lavoro sul prato di fronte la fabbrica, il
potenziale rivoluzionario del pensare in presenza agisce.
L’insegnamento di Chandra Talpade Mohanty guida il mio pensare. Ma
non soltanto un sentimento di solidarietà femminista produrrà
tentativi di liberazione in quanto questa è, per me, da costruire
su terreni conflittuali. Le donne originarie di Tanger da anni
hanno portano avanti le loro lotte per l’emancipazione, contro una
legislazione che permette ad uno stupratore di redimere la sua
colpa sposando la ragazza violata come contro la tutorialità
genitoriale e tutto vantaggio dell’uomo. L’arrivo delle donne
delle campagne, più legate alle restrizioni che le sempre nuove
fatāwā (pareri consultivi di un giurisperito faqīh, circa le
disposizioni previste dalla Sharia, la legge religiosa musulmana,
inerenti le diverse fattispecie del vissuto) e le vecchie
tradizioni impongono, ha minacciato la conquista di molte delle
libertà a cui le “donne di città” tendono, quali il circolare
liberamente per strada dopo le 8 di sera o l’invitare un amico a
casa per il thé. Eppure, le nostre identità frammentate, vanno
tutelate dall’esser poste in categorie confinate. Ognuna delle donne
che ho incontrato in Marocco, racconta un’esperienza singolare. Lo
scambio di queste esperienze e il condividere spazi e tempi,
produce continui cambiamenti. Fatima, la mia più cara compagna di
Tanger, parlava all’interno delle associazioni femministe e
parlava all’interno del salotto familiare, con sorelle, cugine e
zie pronte a criticare la sua spinta verso la libertà. Quegli
innumerevoli dialoghi nei salotti, sono stati per me, la chrétien, così
come le ragazze m’appellavano, una possibilità di divenire.
Credo, dunque, che sia dalle relazioni tra donne di diversa
provenienza geografica ed estrazione sociale che bisogni ripartire
per parlare di Europa e di Mediterraneo. L’esperienza di genere
che ci accomuna, le determinazioni spaziali che ci vogliono
confinate in siffatti luoghi, non ci rendono vittime, ma
protagoniste di un superamento.