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L’INCLUSIONE NELLA PROSPETTIVA ECOLOGICA DELLE RELAZIONI Roberto Medeghini ( in Medeghini R. Fornasa W. ( a cura di), 2011, L’educazione inclusiva. Culture e pratiche nei contesti educativi e scolastici: una prospettiva psicopedagogica, Milano:Angeli, pp.95-127) Perché porre il problema dell’integrazione nella realtà italiana? Perché, dopo anni in cui si sono raggiunti obiettivi importanti sia nell’ambito legislativo che in quello di una cultura per l’integrazione, diventa necessario mettere sotto i riflettori un’esperienza di integrazione che nella realtà italiana è originale rispetto alle altre, europee e non, in quanto tenta di superare la visione delle scuole speciali e del semplice inserimento? Gli interrogativi che qui vengono posti, per alcuni, sembrano esercizi teorici che possono mettere in ombra gli sviluppi positivi di un’esperienza di integrazione scolastica che si è radicata nella cultura pedagogica; interrogativi che potrebbero apparire una sorta di ridiscussione dei presupposti ormai sedimentati nelle esperienze e nelle organizzazioni scolastiche; interrogativi che sembrerebbero sviare l’attenzione dal terreno delle buone pratiche che per molti oggi rappresenta l’ambito maggiormente significativo di analisi. Non c’è dubbio che queste perplessità possano avere un fondamento: infatti la problematizzazione potrebbe mettere in secondo piano modelli di integrazione ed esperienze che segnano nuovi terreni di avanzamento o porterebbe ad assimilare i problemi posti dall’integrazione scolastica italiana a quelli presenti nelle altre nazioni o, ancora, potrebbe svalorizzerebbe la parte applicativa, quel fare che ha in sé e nella sua progettazione la dimensione pedagogica e didattica dell’integrazione. Perplessità condivisibili che però non tengono conto di uno scivolamento, sia concettuale che organizzativo e operativo, verso forme riduttive e semplificatorie che in questi ultimi anni hanno coinvolto il processo di integrazione, riducendone il potenziale di cambiamento. Ricostruire criticamente questi passaggi diventa oggi un’operazione essenziale per togliere il tema della disabilità e con esso quello di integrazione da ciò che si può definire un indifferenziato semantico che porta ad assumere le idee di disabilità e di integrazione come elementi privi di teorie di riferimento e quindi cristallizzati nella sola dimensione operativa ed applicativa. Il percorso di ricostruzione critica richiede però di far chiarezza in una confusione lessicale prodotta da un’epistemologia della disabilità e dell’integrazione o scarsamente esplicitata o contraddittoria per i riferimenti teorici utilizzati. In questa mancanza di trasparenza le «revisioni» sono affidate ad ammodernamenti lessicali tramite sovrapposizioni semantiche prive di riferimenti ad una reale decostruzione delle idee che le sorreggono. Ne sono esempio le assimilazioni fra i termini di inserimento e integrazione, di integrazione e inclusione, di integrazioni e inclusione: qui i significati si mescolano in un indifferenziato concettuale nonostante essi facciano riferimento ad aree, a processi e ad epistemologie differenti che,a loro volta, rimandano a differenti pratiche discorsive e non discorsive (organizzazione, didattica). Un tema centrale riguarda l’area di riferimento a cui le diverse prospettive si rivolgono e sulla quale si producono riflessioni, pratiche, discorsi, processi che si attivano per raggiungere le diverse finalità di inserimento, integrazione, inclusione. Ad uno sguardo superficiale sembra che tutte abbiano lo stesso riferimento e attivino gli stessi processi: un’analisi attenta fa emergere invece un’evidente differenziazione prodottasi in questi ultimi anni. Infatti se l’inserimento e l’ integrazione sono accomunati da un’esplicita relazione all’area della disabilità, le prospettive delle integrazioni e dei bisogni educativi speciali, oltre alle disabilità, rimandano ad altre diverse

L’INCLUSIONE NELLA PROSPETTIVA ECOLOGICA DELLE RELAZIONI

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L’INCLUSIONE NELLA PROSPETTIVA ECOLOGICA DELLE RELAZIONI

Roberto Medeghini

( in Medeghini R. Fornasa W. ( a cura di), 2011, L’educazione inclusiva. Culture e pratiche nei

contesti educativi e scolastici: una prospettiva psicopedagogica, Milano:Angeli, pp.95-127)

Perché porre il problema dell’integrazione nella realtà italiana? Perché, dopo anni in cui si sono raggiunti obiettivi importanti sia nell’ambito legislativo che in quello di una cultura per l’integrazione, diventa necessario mettere sotto i riflettori un’esperienza di integrazione che nella realtà italiana è originale rispetto alle altre, europee e non, in quanto tenta di superare la visione delle scuole speciali e del semplice inserimento?

Gli interrogativi che qui vengono posti, per alcuni, sembrano esercizi teorici che possono mettere in ombra gli sviluppi positivi di un’esperienza di integrazione scolastica che si è radicata nella cultura pedagogica; interrogativi che potrebbero apparire una sorta di ridiscussione dei presupposti ormai sedimentati nelle esperienze e nelle organizzazioni scolastiche; interrogativi che sembrerebbero sviare l’attenzione dal terreno delle buone pratiche che per molti oggi rappresenta l’ambito maggiormente significativo di analisi. Non c’è dubbio che queste perplessità possano avere un fondamento: infatti la problematizzazione potrebbe mettere in secondo piano modelli di integrazione ed esperienze che segnano nuovi terreni di avanzamento o porterebbe ad assimilare i problemi posti dall’integrazione scolastica italiana a quelli presenti nelle altre nazioni o, ancora, potrebbe svalorizzerebbe la parte applicativa, quel fare che ha in sé e nella sua progettazione la dimensione pedagogica e didattica dell’integrazione. Perplessità condivisibili che però non tengono conto di uno scivolamento, sia concettuale che organizzativo e operativo, verso forme riduttive e semplificatorie che in questi ultimi anni hanno coinvolto il processo di integrazione, riducendone il potenziale di cambiamento.

Ricostruire criticamente questi passaggi diventa oggi un’operazione essenziale per togliere il tema della disabilità e con esso quello di integrazione da ciò che si può definire un indifferenziato semantico che porta ad assumere le idee di disabilità e di integrazione come elementi privi di teorie di riferimento e quindi cristallizzati nella sola dimensione operativa ed applicativa.

Il percorso di ricostruzione critica richiede però di far chiarezza in una confusione lessicale prodotta da un’epistemologia della disabilità e dell’integrazione o scarsamente esplicitata o contraddittoria per i riferimenti teorici utilizzati. In questa mancanza di trasparenza le «revisioni» sono affidate ad ammodernamenti lessicali tramite sovrapposizioni semantiche prive di riferimenti ad una reale decostruzione delle idee che le sorreggono. Ne sono esempio le assimilazioni fra i termini di inserimento e integrazione, di integrazione e inclusione, di integrazioni e inclusione: qui i significati si mescolano in un indifferenziato concettuale nonostante essi facciano riferimento ad aree, a processi e ad epistemologie differenti che,a loro volta, rimandano a differenti pratiche discorsive e non discorsive (organizzazione, didattica).

Un tema centrale riguarda l’area di riferimento a cui le diverse prospettive si rivolgono e sulla quale si producono riflessioni, pratiche, discorsi, processi che si attivano per raggiungere le diverse finalità di inserimento, integrazione, inclusione. Ad uno sguardo superficiale sembra che tutte abbiano lo stesso riferimento e attivino gli stessi processi: un’analisi attenta fa emergere invece un’evidente differenziazione prodottasi in questi ultimi anni. Infatti se l’inserimento e l’ integrazione sono accomunati da un’esplicita relazione all’area della disabilità, le prospettive delle integrazioni e dei bisogni educativi speciali, oltre alle disabilità, rimandano ad altre diverse

difficoltà prodotte ad esempio da uno svantaggio socio-culturale o dai disturbi di apprendimento (Gelati, 2004, Ianes, 2008 ). Diversamente dalle visioni ora citate, l’inclusione si rivolge invece alle differenze di tutti gli alunni e studenti senza il riferimento ad un criterio deficitario: le differenze qui sono infatti pensate come modi personali di porsi nelle relazioni di apprendimento e di relazione e non come «bisogno» o «bisogni diversi» conseguenti ad una norma e derivanti da una mancanza sia essa un deficit o una posizione gerarchicamente inferiore rispetto al sapere.

L’area di riferimento ( alunni con disabilità e bisogni educativi speciali da una parte e tutti gli alunni dall’altra) traccia una differenza fra le prospettive integrative e quelle inclusive, ma ciò non è sufficiente a giustificarla qualitativamente: si tratta infatti di interrogarsi anche sulle espistemologie che determinano tale differenziazione, i processi che ne conseguono e la natura delle pratiche che ne derivano. Ma anche tutto ciò non è ancora sufficiente: dobbiamo spingere ancora più avanti la riflessione, ponendo a questo tentativo di percorso critico due interrogativi: l’integrazione può essere analizzata come un «dispositivo» educativo o deve essere lasciata all’interno di una semplice forma concettuale? E ancora: tale «dispositivo» ha ancora la capacità di trasformarsi per prefigurare percorsi più avanzati per le differenze presenti nella scuola?

L’integrazione Le leggi e le epistemologie di riferimento Nell’esperienza italiana le leggi 517/77 e 104/92 hanno avuto come specifico riferimento l’area

della disabilità1 e rappresentano i due passaggi fondamentali per il discorso che stiamo affrontando: entrambe utilizzano il termine «integrazione», ma con delle differenze. Infatti con la 517 si sancisce la possibilità di ingresso nei percorsi normali di istruzione per tutte quelle categorie di alunni che erano collocate in scuole speciali e in classi differenziali; con la 104 si definisce invece il quadro di un’integrazione più compiuta che, oltre ad individuare gli obiettivi della formazione scolastica ( lo sviluppo delle potenzialità della persona con disabilità nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione), prende in considerazione le aree dell’inserimento sociale e dei diritti. Questa legge ha avuto diversi riconoscimenti ma, pur mantenendosi come punto di riferimento essenziale per il processo di integrazione, non è stata esente da critiche ( Breda & Santenera, 1995): queste si riferiscono al carattere di indirizzo della legge, alla scarsa operatività, ma soprattutto alla sua caratterizzazione assistenziale (già presente nel titolo), all’assenza di una definizione innovativa dei diritti delle persone con disabilità e di precise indicazioni relative al loro ruolo sociale e istituzionale.

Le critiche alla legge sono fondate in quanto i limiti segnalati derivano da un’epistemologia dell’integrazione che assume come presupposti la categoria dell’abilismo (nella sua dicotomia deficit/abilità) e i conseguenti processi di compensazione e di normalizzazione. Tali premesse sono tutte presenti nelle leggi citate (517/77 e 104/92), ma con un peso differente in quanto diverso è il clima culturale e le condizioni sociali entro cui si colloca il discorso sull’integrazione.

La legge 517/77 La legge 517 risente maggiormente dell’approccio adattivo/compensativo in quanto il problema

sostanziale di quel periodo era assicurare l’ingresso nella scuola a tutta quell’area di alunni che era stata esclusa dai percorsi normali. Questa operazione si è costruita però su una doppio percorso: da un lato sulla programmazione e la definizione di una flessibilità organizzativa2 per gli alunni non

1 Nei testi legislativi citati il termine di riferimento è «handicap». L’utilizzo dei termini «disabilità, con disabilità, disabile» viene adottato dalla classificazione ICF (International classification of functioning, disability and health) elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001. 2 «… organizzare per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni…»

disabili e dall’altra sull’attuazione di «…forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps…» attraverso l’introduzione dell’insegnante specializzato a seguito della certificazione di un deficit.

Emerge qui il primo problema e cioè la prevalenza dell’inabilità dell’alunno e dello specialismo (diagnosi medica, certificazione, insegnante di sostegno) sulla responsabilità di tutti gli insegnanti attuabile attraverso l’organizzazione della classe e della didattica. Queste scelte non sono inerti, ma producono e sostengono, ancora oggi (togliere ancora oggi) tuttora, visioni dell’integrazione che si sostanziano in forme di delega allo specialista, sia esso il neuropsichiatria, lo psicologo o l’insegnante specializzato per l’integrazione. É proprio la relazione fra difficoltà dell’alunno (scolastiche e più generali) e gestione specialistica il tema che oggi sembra segnare maggiormente la criticità dell’integrazione perché questa (aggiungere “questa” e toglie “la prospettiva citata), influenzata da un approccio prevalentemente medico, mantiene l’attenzione su uno specifico, cioè” sul non funzionamento dell’alunno, piuttosto che sulla tenuta formativa ed educativa del contesto scolastico e della sua organizzazione.

Un secondo problema riguarda la formazione degli insegnanti: infatti l’influenza della 517 sulle

prospettive pedagogiche dell’integrazione sono tuttora presenti soprattutto nell’area della formazione degli insegnanti e delle figure specializzate. Non c’è dubbio che inizialmente tali figure potessero rappresentare una condizione importante per l’attivazione del processo di integrazione, ma nel corso degli anni esse sono diventate l’elemento di riferimento quasi unico di tale processo. Infatti la relazione di insegnamento-apprendimento fra alunno con disabilità e insegnante specializzato è diventata sempre più esclusiva nonostante i continui richiami delle circolari ministeriali alla contitolarità degli insegnanti specializzati,

Non si vuole certo misconoscere la grande mole di esperienze e di pratiche integrative e l’investimento operato da moltissime scuole nella direzione della contitolarità, ma è indubbio che in moltissime realtà l’organizzazione scolastica ha progressivamente assunto una funzione conservativa di tale figura. Quali possono essere i motivi di tale risultato?

Il motivo principale va ricercato nella relazione insegnante specializzato-alunno con disabilità come garanzia e tutela dell’integrazione: già in precedenza si è osservato come tale opzione è ispirata da una visione deficitaria e dalla conseguente emersione e prevalenza del principio adattivo riferito al singolo alunno con disabilità sulla strutturazione del contesto scolastico. (togliere ) E, nonostante i continui richiami delle circolari ministeriali alla contitolarità degli insegnanti specializzati, la relazione di insegnamento-apprendimento che coinvolge alunno con disabilità e insegnante specializzato rimane dominante.

Un altro motivo, conseguente a quanto si è ora esposto, è la natura della formazione degli insegnanti: infatti le modalità di apprendimento degli alunni con disabilità sono viste, anche oggi, come conseguenza di condizioni deficitarie e come tali necessitanti di conoscenze, di strumenti interpretativi e di pratiche didattiche «speciali» in grado di dare risposte ai processi socio-relazionali e di apprendimento che si attivano nella scuola. La necessità di questo «specialismo» (insegnante specializzato e didattica speciale) ha generato percorsi di formazione specifici per quelle figure che si devono occupare dei processi di integrazione che vanno però in parallelo ad un altro percorso che coinvolge gli insegnanti che si devono occupare del processo normale, cioè degli alunni senza deficit. La creazione di percorsi formativi differenziati (insegnanti per la classe e insegnanti specializzati per l’integrazione) ha favorito e giustificato una frattura nella professionalità docente e nella responsabilità della presa in carico non solo degli alunni con disabilità, ma di tutti coloro che hanno difficoltà nel loro percorso formativo. In tal modo, nella classe, viene sancita una doppia presenza che coinvolge gli alunni (da una parte gli alunni deficitari che necessitano di percorsi speciali e dall’altra coloro che non hanno problemi e che seguono un percorso di omogeneizzazione formativa ) e gli insegnanti (l’insegnante di classe per il percorso «normale» e l’insegnante di sostegno per i percorsi «speciali»).

La frattura che qui viene evidenziata può trovare le sue radici nella continuità con il dibattito politico, culturale e pedagogico che, iniziato alla fine degli anni sessanta, è proseguito negli anni settanta e ottanta: dibattito che verteva sull’esclusione o sull’inserimento scolastico di una estesa categoria di alunni appartenenti alle classi sociali meno abbienti e sulla conseguente necessità di una politica per l’ inserimento. Nonostante l’obiettivo fosse l’abolizione delle classi differenziali e delle scuole speciali, l’attenzione è però stata assorbita per la quasi totalità dalle classi differenziali, lasciando così in ombra il problema delle classi speciali e dell’istituzionalizzazione. Non è un caso che su diverse riviste scolastiche degli anni citati apparivano contemporaneamente riflessioni e richieste di abolizione delle classi differenziali e articoli che mettevano in guardia dal superamento delle scuole speciali.

È qui evidente la presenza di una frattura culturale fra il concetto di svantaggio e di handicap la cui radice sta in una diversa attribuzione causale: esterna (esito sociale) per lo svantaggio ed interna (deficit nella prospettiva biomedica) per l’handicap. Tale distinzione impedisce di vedere come le due situazioni devono essere affrontate contemporaneamente in quanto condividono una stessa condizione di esclusione: l’esito è che il primo, in quanto prodotto del sociale, diventa un problema urgente da essere preso in considerazione dalla politica scolastica, mentre il secondo, in quanto condizione deficitaria e non nella norma, diventa di competenza specialistica.

Tale dicotomia, ancora presente, spiega i diversi percorsi, temporali e qualitativi, attuati per il superamento delle classi differenziali e delle scuole speciali, ma spiega anche il principio delle differenziazioni che ritroviamo nella professionalità docente fra insegnanti specializzati e di classe.

La legge 104/92 La legge 104 del 1992, definita come Legge Quadro sull’handicap, arriva a distanza di quindici

anni dalla legge 517; anni all’interno dei quali si consolida l’approccio compensativo e si confrontano le posizioni di chi condivide l’inserimento nella scuola di tutti gli alunni con disabilità, indipendentemente dalla gravità e di chi propone gli accessi scolastici solo per deficit lievi. La legge, oltre ad assumere lo sfondo adattivo/compensativo3, accoglie la posizione dell’integrazione svincolata dai criteri di gravità e fa suoi i principi che ispirano la teoria della «normalizzazione».

Proposta da B.Nirje, direttore dell’associazione svedese per i bambini con ritardo mentale, la teoria della normalizzazione indica un’azione che tende :« […] a rendere disponibili a tutte le persone che hanno delle incapacità o degli handicap intellettuali o altri, delle abitudini e delle condizioni di vita quotidiane che sono il più possibile le stesse a quelle che si presentano nella società » (1992, p.16). Questo principio viene rivisitato e ridefinito nel dibattito sviluppatosi nell’America del Nord ad opera di W.Wolfensberger (1972) il quale, attraverso rielaborazioni successive, allarga il tema a tutte quelle classi che vengono definite socialmente svalorizzate. Inizialmente la definizione di normalizzazione viene collegata all’utilizzo di mezzi culturalmente valorizzanti, come la scuola, il lavoro o la partecipazione sociale, per produrre o mantenere dei comportamenti e delle caratteristiche personali il più possibile normali. A seguito di diverse critiche seguite alla definizione di normalizzazione, W.Wolfensberger (1983) la rinomina, introducendo il concetto di valorizzazione dei ruoli sociali (VRS) dove il ruolo sociale viene inteso come un insieme di comportamenti, di responsabilità, di aspettative e di prerogative conformi ad un modello sociale4. Da questa prospettiva la VRS tende a spiegare come si formano i ruoli sociali, come vengono attribuiti e come possano essere utilizzati per contrastare la svalorizzazione: ne consegue che l’obiettivo fondamentale diventa quello di rendere possibile alle persone svalorizzate l’accesso ai ruoli socialmente valorizzati poiché, in tal modo, le persone verranno, da una parte, investite di aspettative e avranno l’opportunità di migliorare le loro competenze e, dall’altra, potranno

3 Si veda il punto d dell’articolo 8 4 Qui è evidente l’influenza della corrente sociologica dell’interazionismo simbolico : G.H.Mead ne viene considerato il fondatore e l’esponente principale, con H.Blumer, che ne ha coniato il termine. La Scuola di Chicago e E.Goffman ne hanno sviluppato i temi.

compensare o diminuire gli aspetti deficitari. Nella prospettiva citata non è solo l’assegnazione a ruoli sociali positivi che permette di minimizzare gli effetti sociali e le pratiche negative, ma anche il tipo di scolarità, di servizi e di pratiche destinate alle persone svalorizzate. Infatti per la VRS l’organizzazione della scuola e dei servizi può avere un forte impatto sulla costruzione sociale di un’immagine valorizzata o svalorizzata: ad esempio il luogo e i contenuti dell’apprendimento, i contatti sociali in termini di frequenza e tipologie, le attività proposte, i tipi di routines, i ritmi di vita della scuola e/o dei servizi, il tipo di linguaggio e l’etichettatura utilizzata: questi sono alcuni degli aspetti che generano immagini e rappresentazioni sociali che possono essere positive o negative5. Questi aspetti si ritrovano spesso all’interno della legge6 associati all’obiettivo dell’integrazione, «… lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione…» e dell’intervento coordinato con le strutture sanitarie.

La teoria della normalizzazione e dei ruoli sociali valorizzati ha incontrato però diverse critiche soprattutto da parte di quegli autori che vedono un forte intreccio fra condizioni individuali e strutture sociali. Da una prospettiva sociologica P. Fougeyrollas e K Roy (1996) hanno cercato di problematizzare il concetto di ruolo sociale sia in riferimento al concetto di abitudini di vita, sia alle idee sottostanti al principio della normalizzazione. Gli autori partono dall’idea che la disabilità è un processo che si costruisce nell’interdipendenza fra fattori personali (sia biologici che attitudinali) e fattori ambientali: è in questa interazione che si possono mettere in luce i modi attraverso cui si costruiscono gli ostacoli o i facilitatori alla realizzazione delle abitudini di vita delle persone. Ne consegue che tali abitudini di vita, intese come categorie di attività ( lavorare, istruirsi, mangiare, guardare la televisione…), sono costruite socialmente in quanto risultato dell’interazione fra persona e ambiente.

Un secondo aspetto critico riguarda il rapporto fra il concetto di differenza e quello di valorizzazione dei ruoli sociali. Per gli autori citati i principi di normalizzazione suggeriscono che esiste un’idea generale condivisa, di norme, di regole, di comportamenti, una sorta di verità oggettiva nella quale si iscrivono dei ruoli sociali definiti dalla società; tentare di normalizzare le persone attraverso apparenze ordinarie come possono essere i ruoli sociali valorizzati può assumere il senso di una violenza integrante, di una standardizzazione limitativa alla cui base si trovano la negazione e l’espulsione delle differenze.

La relazione fra processo di normalizzazione, adattamento e compensazione sottostanti al paradigma dell’integrazione espressi dalla legge 104 non sono mai stati messi in discussione e, nel tempo, hanno prodotto differenti forme integrative: infatti, accanto all’idea di integrazione partecipata si sono consolidate altre forme concettuali e operative (integrazione differenziata, integrazione progressiva, integrazione condizionale) che condividono l’idea di un processo formativo ispirato dai principi sopra esposti che caratterizzano le istituzioni scolastiche come conservatrici. Infatti, pur nelle differenziazioni, le istituzioni scolastiche chiedono norme, risorse e sostegni non per modificarsi, ma per mantenersi integre di fronte all’inserimento di gruppi che non corrispondono a forme tipiche di funzionamento, siano esse cognitive e/o relazionali. Questo naturalmente accomuna alunni con disabilità e coloro che si trovano in una costante situazione di insuccesso scolastico.

L’atteggiamento conservativo può assumere diverse forme come la negazione diretta ed esplicita all’accesso, ma in generale utilizza la logica della condizione, cioè dei vincoli che tendono a salvaguardare l’istituzione. Questi possono identificarsi, ad esempio, nella progressività, cioè nel legame fra ingresso e acquisizione di abilità sempre meno distanti dalla norma richiesta dall’ l’istituzione, nella differenziazione, cioè nella relazione fra accesso e livello di gravità che pone non solo una divisione fra chi può e non può accedere ma dà anche l’indicazione di percorsi differenziati

5 La VRS utilizza strumenti di valutazione dei servizi: PASS (Wolfensberger e Glenn, 1975), PASSING (Wolfensberger e Thomas, 1983). 6 Si veda l’art.8

fra chi non è in grado e chi può affrontare il processo di integrazione, nelle condizioni, cioè nella richiesta di risorse umane o finanziarie destinate alla persona in ingresso.

Come si può osservare la riduzione più evidente del concetto di integrazione la si ritrova nella forma condizionale, cioè in quella modalità integrativa che coincide con la richiesta di risorse umane o finanziarie destinate alla persona in ingresso ma non al cambiamento del contesto. In questa prospettiva si definisce una relazione asimmetrica fra l’istituzione scolastica che detta le condizioni di accesso e gli alunni con disabilità e loro famiglie che devono adeguarvisi; e tale asimmetria si accentua con l’aumentare del deficit e delle conseguenti difficoltà delle persone con disabilità a conformarsi ai criteri di ingresso. Qui le risorse vengono invocate come condizioni di tutela dell’organizzazione e non come possibilità e mezzi che possono facilitare un cambiamento e un’innovazione in grado di aprirsi alle differenze in ingresso come quella dell’alunno con disabilità.

Si spiegano così i diversi fallimenti dell’integrazione pur in presenza di risorse adeguate: ne sono un esempio i ragazzi con disabilità che trovano poche opportunità di partecipazione all’apprendimento in classe nonostante una copertura adeguata di ore.. Emerge qui una condizione «nuova» per l’integrazione che richiama il costrutto dell’ «handicap da conversione7», cioè un’impossibilità a tradurre in positivo le risorse che vengono messe a disposizione (ad esempio le ore dell’insegnante di sostegno e dell’assistente educatore). La causa di questa impossibilità va ricercata nella staticità del contesto e (Togliere nel suo conservatorismo) nella scelta di non modificarsi: tale situazione produce in tal modo un «doppio handicap» derivante dalla relazione fra deficit e struttura del contesto e dall’incapacità del contesto di tradurre le risorse in miglioramenti e cambiamenti della vita di classe per l’alunno con disabilità..

Vi è una seconda forma concettuale di integrazione che non si limita alla condizione, ma assume il modello della differenziazione (integrazione differenziata) in relazione al tema della gravità: tale prospettiva ha come corrispettivo la costituzione di forme, percorsi e luoghi speciali siano essi interni o esterni alla istituzione. Ne sono esempi alcuni percorsi formativi scolastici, di scuola primaria8, secondaria di primo grado e professionale, che prevedono sezioni o classi per soli studenti con disabilità oppure percorsi di integrazione interni alle istituzioni scolastiche che utilizzano prevalentemente aule di sostegno. Il paradosso è che tali interventi vengono presentati con finalità integrative, come tentativi di mantenere un livello di partecipazione ai percorsi formativi, ignorando il fatto che tali azioni rinforzano nell’ambiente scolastico e sociale l’idea di una integrazione differenziata.

Le forme integrative ora riportate, nonostante le diverse denunce per il rischio di un progressivo logoramento del potenziale innovativo del concetto di integrazione, hanno trovato uno spazio sempre più ampio e condiviso tanto da produrre modalità di gestione razionale a scapito di forme innovative sia sul versante organizzativo che didattico.

Una conferma di ciò la si può rintracciare nelle concezioni9 integrative degli insegnanti che si possono ricondurre a due categorie: gli aspetti dell’adattamento e della socializzazione e le condizioni relazionali quali l’accoglienza, l’ascolto e la condivisione. Dalle ricerche riportate in nota emerge infatti come la preoccupazione maggiore degli insegnanti sia spesso rivolta alle condizioni di adattamento e alle relazioni interpersonali che si attivano tra insegnanti e alunno disabile e fra questo e i compagni di classe e non sempre al ruolo specifico che deve avere lo studente con disabilità all’interno dei percorsi di apprendimento e all’esito dell’esperienza scolastica Le difficoltà degli insegnanti ad esplicitare il ruolo e l’esito derivano da un’idea deficitaria di alunno con disabilità utilizzata in associazione ad un presupposto abilista, secondo il quale l’apprendimento è un problema di natura individuale: da questa associazione consegue che

7 Tale definizione è presa in prestito da A.Sen (Inserto domenicale Sole 24 Ore – 4 settembre 2005 – p.36) il quale, riferendosi al concetto di povertà, mette in relazione le risorse con la possibilità di convertirle in forme di vita adeguate.

8 Ad esempio le scuole potenziate 9 Qui si fa riferimento a ricerche condotte in Istituti professionali delle province di Bergamo, Milano e Lecco da insegnanti in formazione per il sostegno nel corso S.I.L.S.I.S. sez. Bergamo-Brescia, di Metodologie e Prassi per l’integrazione degli alunni disabili nella scuola nel periodo 2003/2004.

per lo studente con disabilità rimangono sfumate le possibilità per gli esiti dell’apprendimento e per un ruolo visibile di studente, mentre rimangono aperte tutte quelle opportunità di relazione alle quali si è fatto accenno precedentemente. Naturalmente la contraddizione tra queste due prospettive è palese in quanto diventa difficile pensare a reali processi di socializzazione in un contesto di apprendimento senza un ruolo specifico di studente.

Le concezioni ora evidenziate chiamano in causa anche gli aspetti qualitativi dell’integrazione: all’interno della ricerca sopra citata uno degli obiettivi riguardava l’analisi degli indicatori di qualità dell’integrazione proposti dagli insegnanti che, per un’analisi, sono stati raggruppati in tre aree (S. Nocera, 2002)10 : indicatori strutturali comprendenti la presenza di risorse umane, di materiali, di spazi e strumenti in grado di favorire l’integrazione; indicatori funzionali relativi agli atteggiamenti individuali ( ad esempio rispetto, dialogo, tolleranza, accoglienza), alla socialità (come l’inserimento e l’interazione con i compagni di classe, l’amicizia, la sicurezza ), alla progettualità ( riferita ai progetti per l’integrazione, alla collegialità delle scelte e delle azioni, all’organizzazione dell’attività didattica); indicatori di esito relativi alle competenze da acquisire e alla valutazione dei risultati. L’analisi condotta sugli indicatori di integrazione segnalati dagli insegnanti facenti parte della ricerca mette in evidenza che questi si indirizzano quasi totalmente verso gli indicatori funzionali che riguardano gli atteggiamenti, mentre vengono quasi ignorati gli indicatori di esito e quelli strutturali. Da qui sembra emergere sullo sfondo una concezione dello studente con disabilità simile a quella che ispira il concetto di integrazione, cioè l’idea che l’integrazione scolastica consista nell’inserimento, in un’esperienza di semplice esposizione sociale, senza possibilità per loro di assumere un effettivo ruolo di studente.

Una (togliere conferma la si ritrova in una) successiva ricerca11 ( Medeghini et al, 2007) attivata nei Centri di Formazione Professionale di Bergamo città e Provincia ha confermato il quadro precedente: infatti nelle concezioni degli insegnanti prevalgono le categorie classificatorie per le tipologie di disabilità e categorie deficitarie per il livello di gravità che vengono utilizzate dagli insegnanti in diverse situazioni: accesso al Centro, progettazione, definizione degli obiettivi e organizzazione del lavoro in classe. Le categorie citate si associano spesso all’idea di dipendenza quale indicatore critico per un’istituzione scolastica che deve pensare ad una diversa organizzazione e progettazione didattica in grado di coinvolgere tutti gli studenti nel percorso formativo.

Anche le tipologie dell’integrazione alle quali fanno riferimento gli insegnanti conseguono alle categorizzazioni ora evidenziate: infatti si ritrovano le tre tipologie sopra presentate con una maggior convergenza sulla differenziazione, in rapporto al grado di difficoltà presentato dagli allievi (integrazione differenziale negli accessi) e alle condizioni, in relazione alla disponibilità delle risorse umane, didattiche e ambientali (integrazione condizionale). In quest’ultimo caso il riferimento principale delle condizioni è soprattutto l’insegnante di sostegno visto come elemento necessario per l’esperienza formativa e educativa, ma non altre condizioni, come ad esempio la formazione, utili al docente per l’organizzazione e la progettazione didattica per la classe. Si conferma così una forte tendenza alla delega, molto comune fra le scuole di diverso ordine e grado, che si fa via, via più accentuata all’aumentare delle difficoltà presentate dall’allievo.

Un ulteriore elemento di riflessione si ricava dagli indicatori segnalati dagli insegnanti come caratterizzanti la qualità dell’integrazione: questi si orientano maggiormente verso indicatori funzionali che riguardano gli atteggiamenti e le condizioni più che su indicatori di esito. Sembra quindi emergere una concezione dell’esperienza formativa di tipo socio-educativo, maggiormente spostata su temi relazionali, di atteggiamento e comportamento sociale e meno esigente sul piano dei risultati. Ciò si presenta anche a proposito della valutazione dell’esperienza di integrazione dove

10 Nocera, S. (2002). Gli indicatori di qualità dell’integrazione scolastica di alunni con disabilità. L’integrazione scolastica e sociale, 1/4, 363-372. 11 La ricerca si è svolta nell’anno 2005 e, tramite un campionamento causale, ha interessato i docenti delle classi (60), gli studenti (30), gli studenti con disabilità (30) e i loro genitori (30). Inoltre sono stati oggetto di ricerca i coordinatori e i vicedirettori dei corsi (11) nonché tutti gli studenti delle classi quando è stato somministrato il sociogramma.

i giudizi generali interpretano l’integrazione come modo per impedire l’emarginazione, come occasione educativa e sociale per costruire un rapporto positivo tra i ragazzi.

Come può essere interpretato tutto ciò? Perché gli insegnanti delle ricerca condividono tale concezione? Una possibile risposta può essere rintracciata nel fatto che il ragazzo con disabilità viene percepito come studente che non ha le abilità in grado di garantire un successo scolastico e la mancanza di queste condizioni in ingresso genera negli insegnanti l’idea di disabilità come inabilità, idea che riduce l’esperienza dell’integrazione all’opzione relazionale, lasciando molto sfumata quella dell’esito. Questi dati si avvicinano all’analisi di Morvan (1988) e di Mercier (1999) secondo la quale nella società occidentale esiste una rappresentazione della disabilità, soprattutto mentale, che mette l’accento sul deficit inteso come mancanza, patologia, negatività: l’idea che viene veicolata non è quella della potenzialità, della qualità e delle possibilità di sviluppo delle condizioni fisiche e mentali, ma quella dell’impossibilità di modificare la condizione data.

I Bisogni Educativi Speciali e le Integrazioni La legge 104 con il suo riferimento alla disabilità è stata per diversi anni il principale referente

dell’integrazione, ma l’emergere nella scuola di nuovi problemi, di nuovi «bisogni educativi» espressi da alunni non disabili ha portato ad una ricategorizzazione dell’area di riferimento, ora definita «bisogni educativi speciali», e del conseguente processo che viene proposto con il nome di «integrazioni». La relazione fra le due aree è evidente non solo per ciò che concerne l’ambito di riferimento, ma anche per i presupposti ai quali esse si ispirano e che sono i medesimi dell’integrazione: il riferimento ad aree deficitarie e ai principi abilisti.

Visto il cambiamento dei riferimenti può essere utile comunque problematizzare il passaggio ora accennato, proponendo da una parte alcune riflessioni sui problemi di natura classificatoria dei «bisogni educativi speciali» e dall’altra una lettura del concetto di «integrazioni» alla luce degli impliciti educativi legati al paradigma integrativo.

Rispetto al primo punto: la diagnosi su base biomedica, relativa alla disabilità e ai disturbi, difficilmente sembra conciliarsi con l’area delle difficoltà più interne al percorso educativo e formativo come la lingua di origine o gli svantaggi sociali: infatti se le prime sono definite in virtù di norme, le seconde non hanno alcun riferimento normativo. La differenza qui evidenziata rende quindi difficile la costruzione di un’area omogenea: anche il tentativo di uscire da tale difficoltà con il superamento dei riferimenti alle origini eziologiche del disturbo e alle classificazioni patologiche (D.Ianes, 2008) per assumere il funzionamento dell’alunno sui versanti educativi e di apprendimento presenta gli stessi problemi. Infatti nel momento in cui si stabilisce un continuum fra bisogno educativo speciale e normalità e si sottolinea la necessità di definire criteri oggettivi per stabilire il punto di passaggio e la condizione di bisogno educativo speciale che necessita di un aiuto (aspetto che definisce la categorie dei bisogni educativi speciali) si entra nella dimensione normativa del funzionamento in base a criteri di gravità.

Anche il riferimento al paradigma bio-psico-sociale dell’ICF12 non riesce ad attenuare l’influenza dell’ottica medico-abilista: infatti, pur riconoscendo una evoluzione rispetto alla classificazione dell’ICDH13, diversi studi evidenziano come in tale classificazione convivano aspetti contraddittori, teorici e lessicali, che rendono l’ottica medica ancora centrale nella relazione fra gli elementi biologici psicologici e sociali. Ne è un esempio il contributo critico di Fougeyrollas e Beauregard (2001) i quali evidenziano come nella classificazione il termine abilità viene definito in una prospettiva individuale come esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo, mentre il termine partecipazione assume il significato di coinvolgimento di una persona in una situazione di vita, rappresentando ciò la prospettiva sociale del funzionamento. Per gli autori citati queste definizioni risultano ambigue in quanto non si evidenzia fra loro nessuna relazione, ma solo una differenziazione all’interno di una stessa situazione: infatti alcune attività quali la

12 Acronimo di International classification of functioning, disability and health 13 ICDH del 1980, acronimo di International Classification of Impairment, Disability and Handicap

frequenza scolastica, preparare il pranzo, avere un’intimità fisica vengono viste o come performance personale o come coinvolgimento sociale e ciò porta gli autori citati ad interrogarsi se sia possibile separare le due condizioni all’interno di una persona. La preoccupazione espressa riguarda il rischio che si riproponga la classica distinzione fra corpo, persona e società nella quale quest’ultima non viene vista come potenziale causa di difficoltà, ma solo come luogo nel quale si esprime il disagio conseguente ad una inabilità che viene in tal modo confinata all’interno della persona.

In questa direzione va anche D’Alessio (2006), la quale riprendendo i rilievi critici di Barnes (2003) e di Imrie (2004), evidenzia come nel processo di classificazione dell’ICF il punto di partenza rimane l’individuo e le sue condizioni biologiche ( strutture corporee, funzioni, attività) e la partecipazione viene assunta e analizzata nella prospettiva individuale. La conseguenza è che l’insorgere di un problema viene messo in relazione alla persona e al suo funzionamento e, quando questo esce dalla norma, l’analisi non si dirige verso le circostanze o le strutturazioni dei contesti che possono avere impedito o limitato l’attività e/o la partecipazione della persona. Ad esempio si dà maggior importanza alle osservazioni dei comportamenti problematici o delle difficoltà del singolo alunno piuttosto che prendere in esame l’organizzazione della classe, il tipo di insegnamento o le relazioni fra gli alunni.

Queste sottolineature evidenziano la problematicità di tale classificazione che ha già trovato non poche difficoltà nel contesto europeo dove la definizione di «bisogni speciali» non riesce a costruirsi come categoria rappresentativa: questa infatti varia come contenuto nelle diverse società e, di conseguenza, tra i diversi sistemi educativi. Infatti tale categorizzazione dipende da una parte dalla definizione istituzionale delle performance standard nei diversi sistemi educativi e dall’altra dalla quantità e dai tipi di mezzi finanziari che la società vuole mettere in campo: ciò significa che il numero degli alunni con bisogni educativi speciali più che rappresentare una categoria in sé è il prodotto di fattori che hanno più una caratterizzazione politica e sociale che diagnostica. É da qui che conseguono diverse modalità di collocazione dei bisogni educativi speciali: a tale proposito può essere interessante sottolineare come in otto paese europei la distribuzione dei bisogni educativi speciali in categorie condivise14 evidenzi la difficoltà ad inquadrarle allo stesso modo: ad esempio i disturbi specifici di apprendimento vengono inseriti da alcuni paesi nella stessa categoria del ritardo mentale lieve, mentre per altri le difficoltà di apprendimento sono assimilate a difficoltà relative alla lingua.

Rispetto al secondo punto e cioè alla problematizzazione del paradigma integrativo nel suo rapporto nella sua influenza sul il concetto di «integrazioni», pare utile riferirsi a quegli impliciti educativi che si sono costruiti in questi anni nell’area della disabilità e che stanno alla base delle pratiche educative. Il riferimento agli impliciti è un passaggio necessario se si vuole portare i superficie forme «tacite» di saperi, conoscenze, pratiche discorsive e atteggiamenti che si sono costituite attorno ai presupposti dell’integrazione; e ciò al fine di far emergere le teorie che li ispira e di rendere possibile un confronto nel quale si esplicitino le prospettive delle quali si sta parlando. Infatti la condizione dell’implicito, proprio per la sua natura, produce una scarsa consapevolezza del pensiero dal quale si genera; origina una resistenza a ritrovare ed analizzare le premesse su cui si basa; costruisce un terreno linguistico e comunicativo incerto dove i termini, le frasi, le argomentazioni sembrano indistinte proprio perché sfuggenti alle teorie. Per questo l’implicito fatica a modificarsi assieme alle pratiche ad esso collegate; per questo è un generatore di conferme, basate a loro volta su percezioni, piuttosto che sulle problematizzazioni.. Affrontare l’«implicito» da questa prospettiva richiede però di interrogarsi sul suo significato, soprattutto sui discorsi che lo confermano e lo riproducono per poter così decostruire una pretesa neutralità del contenuto; neutralità spesso invocata per temi educativi sensibili quali ad esempio «differenze» ed «integrazione».

14 Alunni con disabilità; alunni con generali difficoltà scolastiche, comprese quelle derivate da problemi emotivi, e ai disturbi di apprendimento; alunni con bisogni dovuti a situazioni socio-economiche particolari

Già Foucault15 nella sua riflessione sul sapere sottolineava che le diverse conoscenze, le opinioni quotidiane, le pratiche e i costumi rimandano ad un sapere implicito che è specifico di una società; sapere che risulta essere un terreno favorevole per la comparsa e gestione di una teoria, di un’opinione, di una pratica; sapere che necessita di enunciati che si trovano sempre in relazione a pratiche istituzionali e a comportamenti. La prospettiva seguita dal filosofo francese non è rivolta alla definizione dell’ideologia in quanto conseguenza di una struttura dominante (economica, materiale, politica), ma all’analisi di come si producono degli effetti di verità all’interno dei discorsi. Infatti per Foucault ogni società ha un sua «politica generale della verità»16 che consente di accogliere e di far funzionare come veri alcuni discorsi piuttosto che altri; di sostenere tecniche e procedimenti considerati più idonei di altri; di definire il ruolo di coloro che sono preposti a determinare ciò che funziona come vero.

Qui entrano in gioco gli ambiti scientifici, il sistema delle informazioni e le istituzioni (togliere: sistemi, questi,) che rivestono il ruolo di produttori e controllori del «vero» il quale diventa oggetto di una grandissima diffusione e consumo sia nelle strutture educative che in quelle di informazione. In questa prospettiva la formazione discorsiva e le pratiche che ne conseguono diventano prodotti e riproduttori di relazioni di potere17 che attraversano e caratterizzano le istituzioni e il sociale. Relazioni, queste, dove la costruzione discorsiva incrocia spesso pratiche non discorsive come avviene, ad esempio, per il discorso educativo: questo infatti può essere visto sia come campo in cui si attivano saperi, ipotesi, descrizioni e osservazioni che come ambito in cui si richiede di prendere decisioni, mettere in atto metodologie (togliere educative), tenere conto di norme istituzionali.

In tal senso l’oggetto del discorso educativo si costruisce all’interno di relazioni tra saperi discorsivi e istituzioni, norme, metodologie, tecniche; intreccia quindi elementi di specificità con altri aspetti come i luoghi all’interno dei quali si esercitano tali saperi, le norme e gli stessi insegnanti che osservano, percepiscono e agiscono. Il discorso educativo diventa così pratica discorsiva che instaura fra tutti gli elementi in gioco un sistema di relazioni che non è dato in anticipo, ma che viene via, via costruito.

Su questo terreno si è costruito il «dispositivo» dell’integrazione che, coniugando serie di pratiche e un sistema di «verità», ha prodotto nel tempo enunciati formulabili (i discorsi sulle disabilità) attorno a processi di soggettivazione (alunni con disabilità, insegnanti di sostegno, assistenti educatori) e di oggettivazione ( le scritture della disabilità come ad esempio la diagnosi, la classificazione e la gerarchizzazione delle figure educative). E questo è stato possibile perché il dispositivo dell’integrazione si è presentato e si presenta come un insieme eterogeneo di discorsi e pratiche, istituzioni, leggi, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche; ha avuto la capacità di rispondere ad un’urgenza (il superamento dell’istituzionalizzazione) in un determinato periodo storico ( anni sessanta/settanta); da obiettivo strategico come era nella sua genesi è diventata riferimento per azioni legislative ed educative (legge 517/77, 104/92 e circolari seguenti); si è ridefinita nel corso degli anni in base ai problemi emergenti (bisogni educativi speciali con il passaggio alle integrazioni). Seguendo Deleuze (1989) si potrebbe affermare che il dispositivo, in questo caso dell’integrazione, riesce a legare il visibile e l’enunciabile, tanto che attorno ad esso nel corso degli anni si è costruito un universo consensuale che costituisce la mappa di lettura delle situazioni e delle relazioni educative in tema di disabilità; una condivisione di pratiche discorsive e non discorsive tale da produrre impliciti che si sono sedimentati, lasciando così sotto traccia le radici epistemologiche dalle quali sono generati.

Gli impliciti pedagogici delle integrazioni

15 M.Foucault, (1966). Les mots les choses, tr. It. Le parole e le cose in ( a cura di) , (1994) J.Revel. Archivio Foucault 1. Milano: Feltrinelli 16 Intervista a Michel Foucault in Michel Foucault (2001), Il discorso, la storia, la verità. Torino: Einaudi Editore. 17 Foucault non interpreta il potere come oggetto che divide chi lo possiede e chi lo subisce. Il potere si esercita e funziona in reti relazionali nelle quali le persone sono nella condizione sia di subirlo che di esercitarlo o di accettarlo.

Il problema degli «impliciti» in educazione assume una rilevanza particolare nel momento in cui

ci si occupa delle differenze e dei percorsi utilizzati per la loro integrazione: tale termine viene utilizzato provvisoriamente per far emergere quegli impliciti che stanno alla base di un progressivo scivolamento del concetto di integrazione verso forme riduttive e semplificatorie che in questi ultimi anni ne hanno ridotto il potenziale di cambiamento18.

Primo implicito: l’idea di abilismo.

Un’attenta analisi del linguaggio pedagogico utilizzato dagli insegnanti e dagli educatori mette in evidenza la presenza di una partizione fra abilità/non abilità soprattutto nel momento in cui essi si trovano alle prese con una valutazione. Tale impostazione abilista fa riferimento alla presenza di un parametro normativo ideale al quale fanno riferimento per definire il funzionamento o meno di una persona: ne deriva che la cultura scolastica ed educativa tende a valutare e definire la posizione di una persona in base alla distanza normativa, definendo così le difficoltà di apprendimento e/o di relazione e/o sociali in termini di deficit e/o di mancanza, sia essa cognitiva, relazionale e/o linguistica. Il problema è che la caratterizzazione abilista piega il deficit sulle persone senza alcun riferimento al ruolo disabilitante dei contesti e delle interazioni che li caratterizzano. Risulta chiaro che la radice teorica del contenuto abilista è in relazione al sapere bio-medico e alle conseguenti pratiche discorsive e non che considerano il deficit come dato interno alla persona e come fattore causale delle difficoltà.

Ne consegue una progressiva presa di distanza del linguaggio pedagogico dalla condizione definita deficitaria e una sua difficoltà nel porsi in modo autonomo rispetto al linguaggio specialistico: nel primo caso si determina un processo di delega, mentre nel secondo una relazione gerarchica di linguaggi con la prevalenza di quello specialistico.

Quali possono essere le condizioni che hanno permesso il formarsi di una epistemologia abilista? Potremmo trovare la risposta nel concetto di «produttore» nella sua relazione fra dimensione economica e sociale dove la produzione di beni, saperi, apprendimento e informazioni diventa la condizione fondamentale per poter riconoscere ad una persona il ruolo di agente sociale. Ad esempio questa impostazione ha agito da frattura culturale degli anni ’70 fra la prospettiva dello svantaggio socio-culturale (che era il tema prevalente nell’educazione) e quella di disabilità che, in quanto non produttiva, non veniva considerata come potenziale fonte di azione sociale. Ciò ha prodotto una divisione nella presa in carico dei due problemi: da una parte lo svantaggio diventa un problema da gestire da parte della politica scolastica, mentre la disabilità diventa di competenza medica e assistenziale. Questa dicotomia, ancora presente nell’attuale implicito educativo, spiega le difficoltà delle leggi ad uscire da una semplice logica di compensazione, adattamento e normalizzazione ( qui nel senso proposto da Wolfensberger19).

Secondo implicito : la neutralità dei contesti. La prospettiva abilista, piegando il deficit sulle persone, le costringe ad essere prigioniere del

non funzionamento: ne consegue una condizione di isolamento in quanto non viene definito il ruolo causale dei contesti nella costruzione della disabilità, non viene cioè definito il loro ruolo disabilitante. Anche il cambiamento introdotto dall’ICF20 (2001) rispetto alle classificazioni precedenti non ha sciolto il dubbio sull’effettivo ruolo dell’ambiente: l’ha solamente introdotto come variabile da mettersi in relazione alle condizioni della persona e non come agente causale. Ne consegue che l’idea di condizione deficitaria della persona è ancora prevalente mentre l’incidenza dei contesti risulta secondaria: in questa prospettiva le forme organizzative, i processi di insegnamento-apprendimento, le relazioni educative e sociali sono considerate come elementi

18 Medeghini, R. (2006). Quale disabilità?Culture, modelli e processi di inclusione. Milano: Franco Angeli. 19 Wolfensberger, W. (1991). La Valorisation des Rôles Sociaux: Introduction à un concept de référence pour l'organisation des services. Genève: Editions des Deux Continents. 20 International Classification of Functioning, Disability hand Health

«neutri» rispetto ad una condizione. La neutralità dei contesti richiama con sé la neutralità degli attori che vi operano: così l’insegnante e/o l’educatore faticano non solo ad assumere la responsabilità degli esiti, ma tendono a delegare allo specialismo la gestione dei percorsi ritenuti difficili. Nella scuola lo testimoniano i riferimenti alla figura dell’insegnante di sostegno, alla certificazione o alla segnalazione che mettono le differenze ritenute deficitarie in carico agli esperti.

Quali possono essere le condizioni che hanno permesso il formarsi di un’idea neutrale del contesto? Una delle risposte più immediate riguarda l’antico contrapporsi fra epistemologie ispirate da una parte all’individualismo (principio auto affermativo) e al personalismo (valore, senso e promozione dell’essere persona) e dall’altra ad una visione (togliere eminentemente sociale) che individua nella struttura sociale e politica il fattore causale delle condizioni delle persone. Il contrapporsi ideologico fra queste epistemologie, anche se con alterni successi delle une sulle altre, ha prodotto in campo educativo il prevalere della prospettiva autoaffermativa sostenuta in questo confronto da quei saperi disciplinari ( medicina e alcune correnti della psicologia) centrati essenzialmente sul funzionamento individuale o sulle condizioni individuali.

( Togliere Pur nelle differenze concettuali e degli esiti, le prospettive ora evidenziate sono accomunate da una medesima prospettiva riconducibile alla dicotomia fra individuo, persona e ambiente; dicotomia che impedisce di individuare nelle reciproche relazioni il formarsi delle condizioni esperienziali e di vita delle persone).

Terzo implicito : differenze e omogeneità formativa La prospettiva sopra evidenziata ha una ricaduta non solo sull’idea di «differenze», ma anche

sulle pratiche educative. Infatti l’assenza di relazioni rende necessario il riferimento ad un «a priori», cioè ad un punto ideale attraverso il quale leggere, interpretare e valutare l’individualità; un a priori produttore della credenza che possa esistere e si possa proporre un unico modo di essere, un unico modo di conoscere e un unico mondo di produrre significati. Da qui la necessità di riferirsi ad un dato esterno, cioè al concetto di norma e di «distanza» che porta ad una (togliere piatta) descrizione lineare di comportamenti, atti e situazioni.

La negazione delle relazioni fra variabili individuali e di contesto porta così a ricercare e stabilire il principio di omogeneità, espellendo in tale modo le differenze: l’attenzione si sposta così dalle relazioni e dalle loro forme plurivoche alla unidirezionalità delle definizioni e del significato ( «È disabile, per cui… È straniero, perciò… Non capisce, allora…).

Tutto questo è indicativo di una resistenza culturale della società e delle istituzioni formative verso le differenze alle quali si risponde con il principio dell’ «uguaglianza delle opportunità» che risulta contraddittorio in quanto utilizza un criterio di omogeneità per dare una risposta ad una presenza plurale. Assumere le differenze come dato culturale implica invece, da parte dei contesti educativi e fra questi dell’istituzione scolastica e degli insegnanti, un decentramento rispetto all’omogeneizzazione formativa, ripensando l’organizzazione, i tempi e le metodologie: da qui emerge il concetto di pluralizzazione nella formazione e nella educazione ed è in questa direzione che le differenze non vengono collocate nella eccezionalità, come incidenti, ma nella normalità e nelle relazioni di tutti i giorni.

Quarto implicito : l’autonomia e l’adattamento

La neutralità dei contesti rafforza l’implicito dell’autonomia nella sua relazione con l’adattamento : principi, questi, che rappresentano uno dei fondamenti dei processi educativi. Infatti l’autonomia e l’adattamento hanno assunto nella nostra cultura uno spazio sempre più rilevante tanto da essere utilizzati come parametri fondamentali per la definizione di un corretto e adeguato funzionamento delle persone: l’attenzione che viene loro riservata testimonia un’alta pervasività dei concetti che li definiscono tanto da ritrovarli non solo nel linguaggio comune, ma anche nelle valutazioni educative dei servizi e della scuola e nell’analisi delle organizzazioni. Alla base di tale relazione sta il paradigma epistemologico del soggetto che fonda la sua autonomia nel fatto che pensa e quindi è, un soggetto che è principio e fondamento di se stesso tanto da riassumere nel pronome «io» le

funzioni del mondo: creare, giudicare, definire (E.C.Gattinara, 2004). L’idea di autonomia che ne consegue è quella di un prodotto conseguente ad un’azione isolata, senza altri riferimenti se non al sé.

La ridefinizione dell’autonomia nella sua relazione con l’adattamento diventa possibile se si collega al concetto di sistema che E. Morin (1977) descrive come unità globale organizzata di interrelazioni fra elementi, azioni e persone. Ciò che è significativo per il nostro discorso è che i sistemi si presentano allo stesso tempo tramite aperture e chiusure organizzazionali: con le prime i sistemi si garantiscono gli scambi e le possibilità di riformarsi, mentre con le seconde chiudono l’organizzazione su se stessa. È in quest’ultima dimensione che si realizza un’autonomia che non risulta però svincolata dai processi di apertura. Come si può osservare la centralità delle relazioni obbligano le persone a fare i conti con ciò che potrebbe essere definito come un paradosso dell’autonomia; più si dichiara la propria autonomia più si evoca la dipendenza dal proprio ambiente. Infatti dobbiamo imparare un linguaggio, interagire in una cultura, assumere un sapere e bisogna che questa cultura sia abbastanza varia da permetterci di fare (togliere da soli) la scelta nell’insieme delle idee esistenti e di riflettere su di esse: dunque, questa autonomia si nutre di dipendenza tanto da venir definita da Morin come un’«autonomia dipendente» fondata sulla relazionalità piuttosto che sull’affermazione della propria autosufficienza e comporta la necessaria consapevolezza delle dipendenze dal contesto e dagli altri. In questa dimensione le autonomie e le dipendenze si sviluppano quindi in modo necessariamente complementare e sono destinate a moltiplicarsi in virtù del progressivo aumentare della complessità dei contesti in cui si vive.

L’autonomia, quindi, non si sviluppa in spazi vuoti né si pone al di fuori: al contrario, è in relazione ad una serie di dipendenze che sono da considerare condizioni indispensabili per la sua stessa presenza. I temi posti mettono chiaramente in evidenza come il riconoscimento della dipendenza chiami in causa l’idea di responsabilità e la necessità che questa venga assunta come elemento sostanziale delle relazioni.

L’assunzione di questo punto di vista risulta molto difficoltosa da parte degli insegnanti in quanto vi è una forte resistenza culturale ad assumere il concetto di sistema nell’analisi e nella lettura delle relazioni: ne conseguono una loro resistenza a percepirsi come parte della classe, del gruppo, delle loro dinamiche e la scelta di considerarsi come osservatori e agenti esterni. In questa prospettiva gli insegnanti non si sentono coinvolti in un processo, ma estranei ad esso tanto da utilizzare strumenti e metodologie centrate sul controllo.

In questa situazione la dicotomia dipendenza/autonomia trova il suo terreno privilegiato: infatti l’adesione dell’insegnante alla prospettiva citata porta ad identificare la dipendenza come una categoria negativa perchè costringe continuamente a rientrare, a mettersi in relazione. Al contrario l’assunzione e la richiesta di una sempre maggiore autonomia garantiscono la scissione delle componenti (insegnate/alunni) ed un loro controllo. Una tale concezione porta necessariamente a condizionare la lettura dell’insieme relazionale, le modalità interattive, le scelte organizzative ed operative nonché la valutazione dei processi e degli esiti. Per chiarire ulteriormente questa affermazione può essere utile prendere come esempio le modalità attraverso cui gli insegnanti si rappresentano le situazioni educative definite difficili perché ritenute dissonanti rispetto alle attese e alle norme educative. La valutazione che spesso viene fatta di queste situazioni può essere ricondotta alla capacità o meno di saper gestire autonomamente le relazioni sociali (ad esempio, rispetto delle regole, accordo con i compagni, investimento verso le attività proposte) e i percorsi di apprendimento. Il criterio che spesso ispira la lettura di condizioni dissonanti è perciò la difficoltà di alunni e ragazzi a mettere in atto, autonomamente, processi di adattamento senza prendere in considerazione le relazioni fra questi e l’insieme che caratterizza un contesto: come si può osservare qui l’adattabilità è unidirezionale, dall’alunno/ragazzo ad un contesto già strutturato (ad esempio in persone, regole, richieste, attività, esiti).

Risulta chiaro che di fronte ad un alunno o un ragazzo che non riesce a rapportarsi nel modo atteso con le figure educative e con il contesto o che presenta difficoltà negli apprendimenti, le difficoltà verranno ricercate esclusivamente nell’alunno/ragazzo stesso, nei suoi atteggiamenti, nel suo modo di comportarsi e di apprendere, lasciando in ombra le relazioni che si stanno attivando nel

contesto. In questo modo gli insegnanti si pongono paradossalmente al di fuori delle relazioni in cui sono inseriti, cristallizzando alcuni caratteri (“non rispetta le regole”, “è aggressivo”, “disturba”, “fatica ad apprendere”) per poi utilizzarli nella valutazione. Qui si ha un chiaro esempio di quale possa essere il ruolo decisivo del principio dell’ autonomia: infatti tale costruzione è possibile nel momento in cui qualcuno si colloca all’esterno delle relazioni e rende la funzione (in questo caso “io insegnante”) l’esclusivo parametro di riferimento. La conseguenza è che il principio di responsabilità dell’insegnante si limita al controllo e alla richiesta, ponendone il carico della gestione esclusivamente sull’alunno: infatti lo svuotamento della relazione impedisce interazioni in grado di dar corso a processi co-costruttivi che richiedono ad insegnanti, educatori, alunni e ragazzi di rimettersi in gioco continuamente.

L’analisi degli impliciti sin qui condotta ha permesso di portare in superficie la pratica discorsiva dell’integrazione e l’epistemologia che la ispira e che oggi risulta dominante per il suo carattere di trasversalità: infatti la definizione di integrazione e le pratiche che ne derivano si ritrovano non solo nelle aree della disabilità, ma anche in quelle delle differenze culturali e dello svantaggio sociale. Ciò connota l’integrazione come «dispositivo» in quanto produttrice di pratiche discorsive disciplinari (pedagogica e didattica, psicologica, sociale, giuridica) e non disciplinari che attengono a regole, metodologie, aspetti di organizzazione, procedure, tecniche. Infatti nella vasta area dell’integrazione si attivano e si producono descrizioni, osservazioni, decisioni, norme giuridiche ed istituzionali; entrano in gioco diversi ambiti del sapere, coloro che li producono e le istituzioni, della politica che porta alle leggi. Proprio per tale diffusione e consumo, nel corso degli anni, il dispositivo dell’integrazione è diventato esso stesso un sapere implicito, specifico di una società e cultura scolastica nelle quali le idee e le pratiche del deficit, dell’abilismo, della neutralità dei contesti, dell’omogeneità formativa, di adattamento e autonomia sono diventati elementi caratterizzanti tanto da diventare essi stessi dei veri e propri impliciti. Questo ha costituito e costituisce il terreno per la definizione di un’idea di integrazione con la quale ci misuriamo oggi: una pratica discorsiva della quale si danno per scontate le radici e che, quindi, viene assunta come conclusa in sé, come aspetto non problematico, come circuito logico-interpretativo orfano o privo di altre teorie di riferimento. E che per questo fatica a diventare terreno di confronto.

Fra i diversi motivi dell’attuale difficoltà dell’integrazione, uno merita di essere citato: la sua riduzione e chiusura all’interno delle differenze definite deficitarie, distinguendo le risposte da dare agli alunni con disabilità e con difficoltà da quelle relative agli alunni con processi di apprendimento definiti normali. Questa differenziazione ha provocato ricadute certamente non volute, ma negative, fra le quali si possono indicare le più evidenti: un’accentuazione del carattere di normalità e omogeneità dei processi di apprendimento con l’espulsione delle differenze date in carico alla categoria speciale; una conseguente differenziazione delle responsabilità educative e formative degli insegnanti fra i processi di apprendimento ritenuti normali e quelli relativi agli alunni ritenuti con disabilità e con difficoltà; in relazione a questo, una delega dei processi di apprendimento e dei problemi scolastici definiti difficili a carico di figure specializzate (insegnanti di sostegno, psicologi, neuropsichiatri) e una progressiva deresponsabilizzazione e delega degli insegnanti verso la presa in carico di tali problemi.

Da queste considerazioni nasce la risposta non certo positiva all’interrogativo circa la capacità del dispositivo dell’integrazione di essere ancora potenzialmente innovativo e, quindi, in grado di trasformarsi. Infatti dall’analisi prodotta sin qui, l’integrazione appare prigioniera delle stratificazioni e delle sedimentazioni dei diversi impliciti educativi, quasi tesa a confermarsi nel suo archivio di esperienze piuttosto che incrinarsi per mettere in discussione ciò che realmente impedisce al sistema educativo di essere un sistema aperto alle differenze.

L’inclusione nella prospettiva ecologica delle relazioni L’analisi delle differenti cause che hanno ridotto il potenziale innovativo dell’integrazione

sottolinea come un nuovo approccio alla disabilità non possa limitarsi al concetto di risorse o al dibattito tecnico sulla qualità della fornitura dei servizi educativi, ma debba ampliarsi fino a

comprendere il ruolo del contesto e delle sue relazioni, in questo caso delle istituzioni scolastiche, nei processi di disabilitazione.

Ed è qui che si definisce il concetto di inclusione che, a differenza delle concezioni attuali dell’integrazione, non assume l’idea di adattamento/normalizzazione in un insieme di norme e codici comportamentali stabiliti a priori, ma sposta l’attenzione sulle barriere alla partecipazione all’apprendimento di tutti, disabili e non. Infatti l’inclusione non utilizza termini quali «integrazione scolastica degli alunni con disabilità» o espressioni concettualmente contraddittorie come «inclusione scolastica degli alunni con Bisogni Educativi Speciali»: mira, invece, a garantire la partecipazione di tutti gli alunni, con le loro differenze, nel processo di apprendimento; richiede il superamento del concetto di omogeneità formativa e valutativa; sottolinea l’urgenza di una forte riflessione sulla formazione degli insegnanti21 nella prospettiva del superamento dell’insegnante di sostegno22 e della certificazione.

I contenuti di questo passaggio, che verranno ripresi successivamente in modo più articolato, delineano chiaramente il significato dell’inclusione e la sua differenziazione dall’integrazione e dalle sovrapposizioni terminologiche (integrazione-inclusione) che tendono a presentarla come passaggio solamente temporale a forme integrative più evolute ancorate però al campo applicativo dei bisogni speciali. La prospettiva inclusiva ha naturalmente riferimenti diversi in quanto supera la relazione norma-deficit-bisogno su cui si basa il paradigma dei Bisogni Educativi Speciali e delle Integrazioni per assumere le «differenze» come insieme di percorsi, modi e stili che ognuno mette in atto per orientarsi e agire nei processi relazionali e di apprendimento-insegnamento. Il superamento dell’ottica normativa e della conseguente prospettiva deficitaria, dove le «differenze» sono il prodotto di condizioni interne, porta l’inclusione ad occuparsi del ruolo «disabilitante» dei contesti e delle relazioni che in essi si attivano: da qui l’attenzione particolare che l’osservazione inclusiva dedica alla presenza o meno di barriere per la partecipazione e l’apprendimento.

Ciò non significa però mettere in secondo piano le specificità dei singoli, confondendole in un generico discorso: anzi, le «differenze» assumono un significato e una valenza maggiore nel momento in cui si presentano come modi personali di porsi a cui vanno date risposte significative e convincenti da parte del sociale, dell’istituzione scolastica e dei suoi insegnanti.

Per tali motivi l’inclusione si pone nella prospettiva di un’educazione per tutti e accentua il complemento per tutti, allargandolo a tutte le differenze presenti nei diversi contesti e in un’aula scolastica. Questa relazione può attivarsi se il concetto di educazione per tutti non si limita al diritto di partecipare alle esperienze sociali e scolastiche, ma chiama anche in causa il tipo di organizzazione, il piano di studi e l’insegnamento come possibili fattori di esclusione e di discriminazione.

L’educazione inclusiva vuole quindi fornire uno sfondo adeguato alle «differenze» in ambienti di forte connotazione relazionale per cui, anziché essere un tema specifico relativo a come si possa integrare qualcuno nell’educazione ordinaria, essa si propone di indicare un percorso e delle scelte per portare il sistema educativo a dare risposte significative, in termini di partecipazione e formazione, alle differenze di tutti. Questa affermazione rimette in discussione il principio di adattamento che permette alle organizzazioni, compresa quella scolastica, e alle loro culture di essere conservative e di utilizzare le risorse per mantenersi identiche a se stesse.

Ciò significa che il problema degli accessi e dell’inclusione, implicante anche il successo formativo, non è limitato solo ad alcune categorie come quelle dei disabili, ma coinvolge tutti, comprendendo anche l’area impropriamente definita « della normalità». Non ci si rivolge ad un sostegno specifico, alle condizioni deficitarie e ai processi di compensazione e normalizzazione, ma alle forme organizzative, alle modalità relazionali, alle metodologie di insegnamento che dovrebbero già comprendere in esse tutti i sostegni e gli aiuti necessari per rispondere alle differenti richieste educative e di apprendimento. Ed è qui il nodo che l’integrazione non ha affrontato o

21 Per un approfondimento si veda Iosa, R.(2002). I dieci anni della legge 104 in L’integrazione scolastica e sociale, settembre, pp.326-331. Trento: Erickson. 22 Genovesi, G. (2005). Scienza dell’educazione e pedagogia Speciale. Roma:Carocci

meglio non è riuscita a sciogliere e che viene invece assunto dalla prospettiva inclusiva: nodo che vede il successo formativo ostacolato dal modello dell’omogeneizzazione formativa. Come si può osservare la prospettiva inclusiva non interpreta le situazioni come condizioni essenzialmente individuali, ma come risultante di complesse interazioni che si svolgono in un sistema. Ciò significa, ad esempio, che l’esito formativo non può essere letto e analizzato solo da un punto individuale o attribuito a condizioni essenzialmente interne alle persone come avviene nell’epistemologia abilista con i suoi parametri normativi che ispirano le visioni deficitarie delle persone: esso va invece collocato all’interno del sistema interattivo che si co-costruisce all’interno di un contesto. Viene qui esplicitandosi la prospettiva ecologica dell’inclusione dove risultano centrali le interazioni fra sistemi (persone, contesti), le loro culture e le loro storie, in un rimando continuo fra dimensioni macro (politiche, sistema sociale e istituzionale) e micro (sistemi di funzioni come ad esempio la scuola, i servizi alle persone e i sistemi di significati espressi dalle singole persone o da gruppi) e la loro organizzazione.

Lo sfondo interattivo ora delineato, pur aderendo al ruolo giocato dai contesti, si distanzia da una loro visione subalterna rispetto a condizioni individuali come avviene nel modello bio-psico-sociale e da una egemonia sulle relazioni come avviene nel modello sociale. Infatti nel primo caso, nonostante il tentativo di introdurre un livello di interattività fra diversi fattori, permangono dominanti il carattere individuale della disabilità, gli aspetti classificatori, il linguaggio e la prospettiva medica. Infatti nel processo di classificazione dell’ICF il punto di partenza rimane sempre l’individuo e le sue condizioni biologiche ( strutture corporee, funzioni, attività) e la partecipazione viene assunta e analizzata nella prospettiva individuale. Così, come sottolineato in precedenza, i termini abilità e partecipazione risultano ambigui senza che sia esplicitata una loro relazione.

Un discorso più approfondito merita la differenza fra la prospettiva ecologica e quella sociale dell’inclusione: se quest’ultima da una parte aiuta ad introdurre concetti quali « barriere alla partecipazione» oppure « barriere all’apprendimento» e permette di assumere la politica come area di decostruzione e di azione, dall’altra lascia in ombra percorsi, significati e biografie di chi vive quotidianamente attraverso il proprio corpo, la propria mente e le proprie emozioni le pratiche di gestione culturali ed istituzionali della condizione disabile (Murphy, 1987). L’interrogativo che qui viene posto è se sia sufficiente limitarsi all’egemonia della struttura sociale nei processi di disabilitazione e, di conseguenza, agli effetti di potere che ne derivano o se non sia più utile superare la dimensione causa/effetto per inserirli in un sistema ampio di relazioni..

Per questo sembra utile seguire ancora le riflessioni di Foucault (1998) per il quale il potere non si identifica con la coercizione o con il dominio, ma emerge da un sistema di relazioni di potere, intese come insieme di giochi strategici tendenti a costituire la condotta degli altri ai quali, questi ultimi, rispondono cercando di impedirlo o di determinare loro stessi tale condotta. Questa natura relazionale richiede però la presenza di forme di libertà tali da permettere alle varie parti di poter agire anche nelle situazioni di maggior disequilibrio: qui il potere può essere esercitato solo se sono possibili forme di resistenza tendenti a modificare la situazione.

Il concetto di resistenza diventa quindi centrale e decisivo in quanto, rendendo possibili le relazioni di potere, testimonia la presenza di forme di libertà. Tale situazione costituisce il rapporto con le altre persone sui luoghi di lavoro e nei rapporti quotidiani: in tutte queste situazioni le persone sono costantemente esposte ai giochi di potere, a strategie di affermazione messe in atto, subite o mediate; costantemente esposte all’assunzione di ruoli che variano in virtù degli esiti del confronto.

L’approccio ora presentato è senz’altro interessante in quanto colloca il potere all’interno delle dinamiche relazionali e nel libero svolgersi delle azioni, ma merita alcune precisazioni in merito al concetto di resistenza: questa è stata presentata come atto contrastivo, dinamico, tendente al cambiamento della relazione e quindi costitutivo del concetto di potere. Questa concezione come può generalizzarsi a situazioni, educative e non, in cui l’altro è talmente vulnerabile, e quindi

esposto ad azioni esterne, tanto da essere definito dipendente23 e con scarse o nulle possibilità di resistenza? Il pensiero va a chi si trova in una condizione di accentuata necessità, agli alunni con difficoltà, ai disabili verso i quali lo stereotipo dell’inabilità e quindi della «scontata» dipendenza legittima il potere dell’azione su di essi, ad un alunno in apprendimento la cui conoscenza viene costantemente definita in una situazione di dipendenza da quella dell’insegnante. L’interrogativo sembra legittimo, ma è conseguente ad un’opzione epistemologica che costituisce gerarchie di pensiero, di azione e di relazione e legittima il loro esercizio del potere. L’uscita da questa prospettiva è la risposta all’interrogativo posto sopra e la condizione va ricercata nel recupero dell’esperienza individuale in termini di norma del vivente (Canguilhem, 1966) che in qualche modo può assumere forme singolari di resistenza. In questo modo viene messo in discussione quel principio secondo il quale il vivente vive essenzialmente in mezzo a saperi, norme e leggi in grado di guidare o mettere sotto silenzio l’esperienza individuale. Infatti il vivente vive in mezzo ad esseri e ad avvenimenti che diversificano queste leggi in un gioco dove le relazioni sono l’elemento costitutivo. Ne consegue che la normalità viene messa in discussione e superata come norma in sé e come dato di necessità collettivo per assumere la prospettiva di una «norma» che si trasforma e ridefinisce all’interno delle relazioni fra i sistemi viventi. Si comprende allora come le persone non possano essere collocate nella dicotomia normale/anormale, ma, al contrario, vadano pensate come sistemi viventi che hanno capacità normative in grado di mantenere, modificare e costruisce nuove norme in nuove condizioni al fine di attivare incessantemente nei sistemi relazionali i processi di equilibratura.

Le riflessioni fin qui proposte permettono ora di tracciare un profilo della prospettiva inclusiva che può essere costruito attorno ad alcuni aspetti chiave: le finalità, i modelli teorici, il focus dell’azione, i modelli di insegnamento, la formazione e il contesto di riferimento.

Le finalità cioè le mete che i vari approcci si prefiggono. Si è più volte sottolineato come l’integrazione si propone il reperimento di risorse, spazi e sostegni che possono consentire l’inserimento e il raggiungimento di risultati adeguati nel campo della comunicazione, dell’autonomia, (togliere della comunicazione) della socializzazione e dello scambio relazionale. L’inclusione, andando oltre l’ottica della razionalizzazione, si pone invece l’obiettivo di abbattere le barriere alla partecipazione e all’apprendimento, ridiscutendo i presupposti sui quali si fonda l’omogeneizzazione formativa.

I modelli teorici di riferimento. Come si è precedentemente sottolineato, l’integrazione si (togliere può) ispira ad un modello condizionale, compensativo e normalizzante che cerca di costruire le condizioni attraverso sostegni e risorse che compensino in un qualche modo il deficit dell’alunno con disabilità e gli permettano di adattarsi al contesto. Qui la richiesta compensativa può essere forte o debole e viene condizionata dalla cultura e dalle conseguenti scelte dell’organizzazione scolastica in merito alla sua capacità di modificarsi. Nell’ambito inclusivo qui delineato il modello orientativo è invece il paradigma ecologico delle interazioni fra sistemi, fra le loro culture e le loro storie, in un rimando continuo fra dimensioni macro (politiche, sistema sociale e istituzionale) e micro (sistemi di funzioni come ad esempio la scuola, i servizi alle persone e i sistemi di significati espressi dalle singole persone o da gruppi) e la loro organizzazione. In questa prospettiva diventa fondamentale il superamento dell’epistemologia abilista con i suoi parametri normativi che ispirano le visioni deficitarie delle persone nonché concetti ad esse associati quali l’idea deficitaria delle differenze, la relazione causale norma-deficit-bisogno, lo specialismo, la relazione autonomia-adattamento, la compensazione, la neutralità dei contesti e degli attori in essi presenti.

Il tema che pone l’inclusione è quindi il superamento della concezione abilistica che ispira le visioni deficitarie e i loro supporti compensativi per collocare le riflessioni e l’azione all’interno del concetto inclusivo di interazioni fra abilità differenti come modi personali di porsi all’interno delle relazioni.

23 Il termine dipendente in questo passaggio i è utilizzato per indicare la concezione comune di dipendenza e quindi non assume il significato relazionale che è stato presentato in precedenza.

Il focus dell’azione in campo scolastico, cioè i destinatari delle finalità. Nel caso dell’integrazione questi sono gli alunni con disabilità con il loro deficit, in quello dei bisogni speciali e delle integrazioni sono gli allievi che incontrano particolari difficoltà nel percorso scolastico: in quello inclusivo invece sono tutti gli alunni che si trovano a vivere una esperienza scolastica impropriamente definita «della normalità». La tipologia dei destinatari condiziona anche la qualità delle richieste: infatti se l’integrazione, i bisogni educativi speciali e le integrazioni chiedono agli insegnanti di rivolgere l’attenzione alle possibilità di contatto tra il piano di studio normale e quello degli alunni con disabilità o in difficoltà, l’inclusione fa riferimento a percorsi personalizzati per tutti gli studenti, richiedendo ai piani di studio un ampio margine di flessibilità e di cambiamento.

I modelli di insegnamento, cioè i modi (pedagogico-didattici, socio-relazionali) di avvicinarsi al tema delle differenze. Gli approcci dell’integrazione e dei bisogni educativi speciali tendono a riferirsi ad un sostegno specifico che (togliere , nel caso dell’integrazione,) si deve coordinare con il percorso normale e con gli insegnanti di classe. L’inclusione sottolinea invece che l’obiettivo centrale è il superamento culturale e didattico del principio dell’omogeneizzazione formativa la quale tende a rispondere alla presenza di «pluralità » con criteri di omogeneità. Tale cambiamento (togliere , nel percorso inclusivo,) richiede a tutti gli insegnanti, ai loro percorsi di insegnamento e all’organizzazione di avere in sé i presupposti e le condizioni per rispondere alle differenze degli alunni in un’ottica di sostegni distribuiti. Questo non può però ridursi ad operazioni di semplifica-zione e di riduzione, prestando attenzione solamente agli aspetti di contenuto, ma deve prendere in considerazione il legame fra processi di insegnamento e di apprendimento. Infatti l’approccio inclusivo richiama (togliere quindi) la caratteristica relazionale della didattica, cioè quella dimensione co-costruttiva nella quale il conoscere viene visto come attività, cioè come costruzione e organizzazione del sapere da parte dell’alunno in una continua interazione e negoziazione con i significati proposti dall’insegnante e dal gruppo classe. E ciò è tanto più necessario quanto più ci si rivolge a forme definite impropriamente deficitarie.

La formazione e l’insegnante specializzato. Come si può osservare, il discorso inclusivo coinvolge le concezioni, gli atteggiamenti e il fare scuola degli insegnanti perché non solo richiede che vengano esplicitati i principi di riferimento, ma che vengano anche concretizzati in scelte ed azioni didattiche. Emerge qui il tema centrale della formazione che, ridiscutendo l’attuale prospettiva dell’ insegnante specializzato in vista di un suo superamento, assuma come fondamentale un percorso formativo (sia iniziale che in servizio) unitario per tutti gli insegnanti nel quale sia centrale il tema delle abilità differenti. Qui (togliere il discorso della) la «specializzazione» si modifica in (togliere quello di) «competenza» dove i diversi aspetti del vivere scolastico (disciplinari, didattici, socio-relazionali) si declinano sulle differenze e non su processi di omogeneizzazione. In questa dimensione l’obiettivo della formazione è l’estensione di un pensiero che porti ad una cultura pedagogico e didattica diffusa che include le differenze e supera le barriere alla partecipazione.

La certificazione di deficit o di difficoltà. Nella forma integrativa la diagnosi e la conseguente certificazione risultano essere le condizioni per avere diritto ad un insegnante di sostegno. La stessa cosa accade nel caso dei disturbi di apprendimento come la dislessia dove la diagnosi legittima la scuola ad introdurre forme di aiuto. Questa dipendenza fra diagnosi-certificazione e azione di aiuto è una chiara contraddizione pedagogica che nella prospettiva inclusiva viene superata attraverso l’abbandono della certificazione. Qui il valore di una diagnosi non è di tipo strumentale, tendente cioè a legittimare facilitazioni e supporti, ma esplicativo ed orientativo in quanto può offrire interpretazioni riguardo al problema evidenziato, permettendo agli insegnanti di progettare l’azione. ( togliere In questa prospettiva) Il problema principale per la scuola non è quindi quello di avere una diagnosi che giustifica l’aiuto o una diversa organizzazione, ma ( togliere diventa) quello di costruire e assumere culturalmente le differenze per poi ricercare tutte quelle condizioni e quegli adattamenti che permettono di garantire davvero opportunità nella formazione. È la capacità di comprendere le situazioni che permette ai docenti di adattare gli strumenti e le modalità di

insegnamento alle condizioni di apprendimento dei singoli e di proporre soluzioni differenti a condizioni non omogenee. Queste considerazioni richiedono alla didattica di andare oltre l’idea di omogeneità per pluralizzarsi non tanto nominalmente e formalmente, ma nel suo guardare il contesto, (togliere nel proporsi e svolgersi dell’azione,) nelle modalità con cui si avvicina alle diverse espressioni delle differenze (difficoltà di apprendimento, la lingua e la cultura, le varie forme di svantaggio, la disabilità, i soggetti definiti dotati, gli stili di pensiero...). In questa dimensione le forme di aiuto diventano una naturale forma della didattica e non un’eccezione conseguente ad una diagnosi.

Il contesto di riferimento, cioè il luogo privilegiato dell’azione. Tutti gli approcci presi in esame si rivolgono alla scuola, ma l’inclusione accentua e rivendica la necessità di non scorporare l’esperienza di questo contesto dall’insieme dei legami e condizionamenti sociali che la coinvolgono. Trattare la scuola come entità separata dal più vasto concetto di relazione sociale equivale a definire un principio di autoreferenzialità che impedisce di connetterla con altre questioni legate alla esclusione. Ciò significa che non vi può essere un progetto adeguato di costruzione di legami sociali interni alla scuola senza che questo si misuri e coinvolga il territorio.

Un ulteriore elemento di riflessione che si aggiunge al precedente è la collocazione del concetto di inclusione nell’ottica del corso di vita e della qualità della vita: questa opzione permette di aprire una prospettiva non riducibile alla singola performance scolastica e al semplice bilancio delle abilità e dei deficit delle persone, ma la allarga ai suoi elementi relazionali e sociali che si trovano in relazione all’evoluzione del corso di vita. L’assunzione di un orizzonte così ampio permette di proiettare gli interventi nell’area della qualità esistenziale e del benessere della persona, caratte-rizzati dalla relazione fra competenze operative e socio-relazionali. In questa direzione risulta importante ancorare gli obiettivi e gli interventi alle relazioni esistenti fra persona, contesti e corso di vita: mete, obiettivi ed interventi assumono in tal modo un carattere di flessibilità e di modificabilità proprio per la stessa natura dinamica ed evolutiva del farsi delle relazioni. Questo sfondo concettuale e metodologico diventa decisivo in quanto permette di pensare alla scuola e all’azione didattica come a uno dei contesti dell’inclusione e di vederlo in continua interazione con altri (famiglia, territorio). Non è più sufficiente infatti pensare ad un obiettivo (ad esempio l’apprendimento di un contenuto o di una procedura) nella sua sola visione strumentale senza che si sia definita una sua validità, appunto, ecologica (quale vantaggio procura, come può essere speso nell’ambiente, quale apporto dà all’autonomia) oppure sostenere le relazioni sociali nella scuola senza collegarle e proiettarle progettualmente verso il sociale. L’inclusione richiede quindi di ricomporre in un quadro unitario tutti gli ambiti che, con maggior o minor responsabilità, e interrelazione, intervengono nel processo biografico formativo: la famiglia, la scuola, i servizi, le associazioni, ma anche le reti informali della società come i gruppi, i compagni di classe, il vicinato, i conoscenti che a vario titolo interagiscono con la persona disabile. Questa rete di interdipendenze è essenziale in quanto il concetto di inclusione richiede di pensare non solo a luoghi istituzionali aperti, ma anche agli altri luoghi dell’inclusione, quelli meno formali a volte inattesi, ma po-tenzialmente forti e significativi, che consentono di concretizzare un progetto integrato ed evolutivo.

Le argomentazioni sin qui esposte hanno portato in superficie gli impliciti fondamentali che guidano il concetto di integrazione e di integrazioni, hanno evidenziato i saperi che li guidano ed esplicitato il loro nesso con le pratiche e i discorsi educativi. In questo percorso di «scavo» si sono utilizzati temi centrali e non eludibili come le «differenze» e il senso che viene loro attribuito; il possibile ruolo disabilitante o inclusivo delle variabili sociali e contestuali nel gioco delle interdipendenze fra sistemi ( persone, gruppi, territori, città, istituzioni); la decostruzione dell’idea «abilista»; il peso delle epistemologie e delle rappresentazioni utilizzate dagli insegnanti nell’affrontare il tema delle differenze e dell’inclusione; la difficoltà del linguaggio educativo e pedagogico ad uscire da una logica «speciale», mettendo in discussione la formazione degli insegnanti e la figura dell’insegnante di sostegno; l’approccio critico ai processi di semplice

omogeneizzazione e razionalizzazione e alla conseguente logica degli aggiustamenti organizzativi e didattici.

Tale attività di scavo ha permesso così di fondare e argomentare la proposta dell’Inclusione nell’ottica ecologica delle relazioni fra sistemi; sfondo che certamente riconosce l’influenza positiva esercitata negli anni precedenti dalla prospettiva integrativa, ma che ne evidenzia anche gli attuali limiti e la necessità di superarne i presupposti. Lo sfondo inclusivo non si propone quindi come spazio specifico della disabilità, ma delle differenze: e questo tema assieme al senso che viene loro attribuito e al ruolo causale dei contesti nei processi di disabilitazione diventano quindi centrali e non eludibili tanto da diventare uno spartiacque culturale e teorico fra Integrazione, Integrazioni, Bisogni Educativi Speciali da una parte e l’ Educazione Inclusiva dall’altra. Per questo l’inclusione si propone come nuovo paradigma che tende ad orientare nuovi processi educativi e di apprendimento e quindi una nuova scuola.

TAVOLA D’ANALISI

Integrazione, Integrazioni, Bisogni Educativi speciali

Inclusione

Focus dell’azione

scuola

Alunni con disabilità

Alunni con Bisogni Educativi Speciali

Tutti gli alunni

Modelli teorici

Paradigma bio- medico prima e ora

bio-psico-sociale (ICF)

Riferimenti al concetto di Norma, Deficit e di Abilismo

Figure specializzate

Paradigma Ecologico delle

relazioni Ruolo disabilitante delle

interazioni Ostacoli alla partecipazione e

all’apprendimento Concetto di differenze e di abilità

differenti

Competenze diffuse in tutti coloro che partecipano al percorso educativo e di

apprendimento Forme

Diagnosi certificativa

Le risorse come condizione

Sostegno specializzato

Azioni di compensazione, normalizzazione,

autonomia, adattamento

Principio di razionalizzazione dei contesti.

Diagnosi orientativa

Le risorse come norma per una politica scolastica orientata alle

differenze Modifica dei contesti e delle loro

interazioni.

Superamento delle barriere alla partecipazione e

all’apprendimento Contesti di riferimento e

temporalità

Ambiente scolastico e percorsi scolastici

Relazione con i contesti del sociale

Arco di vita Modelli didattici e valutazione

Riferiti al sostegno e alle risorse

attivate Neutralità dei contesti e dei piani di

studio Adattamento al piano di studi

Riferiti alla qualità delle relazioni

fra contesti, insegnamento, apprendimento.

Percorsi semplificati Percorsi differenziati

Valutazione in riferimento ad un modello di attese standard

L’aiuto vincolato alla diagnosi certificativa

Percorsi personalizzati per tutti

Valutazione in riferimento alla personalizzazione

L’aiuto come diritto

Modelli professionali

Percorsi differenziati nella formazione

Figure specializzate

Dalla specializzazione alle competenze per tutti gli

insegnanti Formazione continua per tutti gli

insegnanti Superamento dell’insegnante di

sostegno

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