82

L'apparato iconografico del codice Vat. gr. 1087. Per la ricostruzione dell'edizione tardoantica del corpus arateo

  • Upload
    unipi

  • View
    0

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

SEMINARI E CONVEGNI

32

Giornata di studio.Pisa, Scuola Normale Superiore8 febbraio 2012

Antiche stelle a BisanzioIl codice Vaticano greco 1087

a cura diFabio Guidetti e Anna Santoni

© 2013 Scuola Normale Superiore Pisaisbn 978-88-7642-485-4

Sommario

PresentazioneAnna Santoni 7

Il Vat. gr. 1087 e l’astronomia bizantina: cenni introduttiviFilippomaria Pontani 9

Struttura e mani del Vat. gr. 1087 (con osservazioni paleografiche sul copista C e il Marc. gr. 330) Mariella Menchelli 17

Dall’arabo al greco. Considerazioni su una peculiarità del codice Vat. gr. 1087Amos Bertolacci 57

L’ordine delle figure nel codice Vat. gr. 1087Allegra Iafrate 63

L’ordine degli estratti di testo nel Vat. gr. 1087 (e alcune ipotesi di lavoro)Leyla Ozbek 69

Il testo dei Fragmenta Vaticana nella tradizione dei CatasterismiJordi Pàmias 77

I Fenomeni di Arato e i Catasterismi di Eratostene nelle illustrazioni del manoscritto Vat. gr. 1087Anna Santoni 91

L’apparato iconografico del codice Vat. gr. 1087. Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateoFabio Guidetti 113

Bibliografia 153

Indice dei manoscritti citati 167

Indice dei nomi e delle cose notevoli 171

Illustrazioni 177

Presentazione

Il codice Vat. gr. 1087 è un documento prezioso da molti punti di vista: è un prodotto del circolo di Niceforo Gregora, in parte di sua mano, e ci permette di conoscere meglio l’attività del gruppo e dello studioso; fornisce informazioni sull’astronomia bizantina e quella tar-doantica (per la parte di commento a Tolomeo di Teone che include); oltre a questo, conserva una serie di fogli (300r-312r) che costituisco-no per noi la principale testimonianza dell’esistenza di edizioni greche illustrate di Arato: contengono estratti dai Catasterismi di Eratostene, scoli e immagini delle costellazioni di eccezionale qualità artistica.

Il codice non è mai stato oggetto di uno studio complessivo, forse proprio per la difficoltà di riunire insieme tutte le diverse competenze che un tale studio comporterebbe.

Per questo motivo il gruppo di ricerca sui Manoscritti astronomici illustrati della Scuola Normale Superiore ha deciso di dedicare al codi-ce una giornata di studio (Pisa, 8 febbraio 2012) cui hanno partecipato studiosi di discipline diverse. L’intento era di richiamare l’attenzione sull’importanza del codice e di contribuire a una riflessione generale su questo documento, soffermandosi in particolare su alcuni aspetti che lo riguardano. Senza la pretesa di offrire una trattazione esaustiva, ci siamo posti come obiettivo di mettere a fuoco e ridiscutere insieme almeno alcune delle molte domande che questo documento suscita. Secondo gli interessi di ricerca dei promotori dell’iniziativa un’atten-zione particolare è stata rivolta agli estratti aratei, ma anche altri aspetti del manoscritto sono stati trattati.

Questo volume raccoglie i contributi di quella giornata; essi conten-gono molti elementi nuovi per la comprensione del codice e del suo contenuto.

Filippomaria Pontani colloca i testi astronomici contenuti nel ma-noscritto nel contesto dell’astronomia bizantina, di cui traccia un bre-ve profilo; Mariella Menchelli data finalmente con precisione il manu-fatto e ne fornisce per la prima volta un’analisi codicologica completa; Jordi Pàmias mette in luce i caratteri originali della recensio dei Ca-

8 Anna Santoni

tasterismi conservata nel codice e la loro importanza all’interno della tradizione eratostenica; Allegra Iafrate e Leyla Ozbek analizzano in dettaglio la disposizione dei materiali di tradizione aratea (estratti dai Catasterismi, immagini e scoli) per ricostruire il processo formativo di questa sezione del manufatto; Anna Santoni distingue aspetti aratei ed eratostenici nell’insieme di questi materiali, confermando l’ipotesi di Jean Martin della loro provenienza da un’edizione illustrata di Arato; Fabio Guidetti ricostruisce la storia delle illustrazioni dal punto di vista iconografico, riconducendo la loro origine alla revisione tardoantica (IV-V secolo) del corpus arateo.

Anna Santoni

L’apparato iconografico del codice Vat. gr. 1087. Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

Nelle pagine seguenti intendo proporre una lettura delle immagi-ni contenute nel codice Vat. gr. 1087, con un duplice intento: da un lato, stabilire il posto occupato dal nostro manoscritto all’interno della tradizione aratea, testimoniata dalle illustrazioni di numerosi codici astronomici, soprattutto latini; dall’altro, individuare il momento in cui venne canonizzata la versione di questo corpus di immagini dive-nuta poi normativa, destinata ad avere immensa fortuna nel Medioevo occidentale. Questa indagine consentirà non solo di ottenere qualche informazione in più sul nostro manoscritto e sulla sua origine, ma an-che di allargare lo sguardo oltre il manufatto in esame, risalendo fino ad alcuni momenti fondamentali per la storia dell’astronomia e della civiltà europea in generale. Il nostro viaggio comincerà dalla Costanti-nopoli paleologa e in particolare dal monastero di Chora, in cui venne presumibilmente redatto il codice vaticano: un ambiente di straordina-ria ricchezza intellettuale, soprattutto per il rapporto stretto e fecondo ivi instaurato tra cultura antiquaria e produzione scientifica e artistica contemporanea. Ci trasferiremo quindi in Occidente, nei grandi mo-nasteri francesi fiorenti tra l’età carolingia e l’anno Mille: qui, in alcuni dei più importanti scriptoria, circolavano infatti materiali astronomici molto simili a quelli del codice vaticano, rintracciabili per via indizia-ria attraverso traduzioni e copie più o meno fedeli. Infine risaliremo fino alla tarda antichità, a quel momento decisivo della nostra storia in cui l’eredità della civiltà greco-romana venne sublimata e riplasmata a fondamento del nuovo impero cristiano: in questo contesto venne prodotto, fra i decenni centrali e quelli finali del IV secolo, il modello copiato dal disegnatore del nostro manoscritto.

Questo lavoro si è sviluppato grazie allo scambio di idee con Anna Santoni, Leyla Ozbek e Marco Rossati, ai quali va il mio più sentito ringraziamento; devo inoltre alla professoressa Claudia Barsanti numerosi chiarimenti e utili consigli. Ogni errore e inesattezza resta naturalmente di mia esclusiva responsabilità.

114 Fabio Guidetti

1. «Di una sapienza esteriore e superflua»: il codice vaticano e gli artisti di Chora

Comincerò dunque la mia trattazione dall’ambiente culturale in cui venne prodotto il codice Vat. gr. 1087. Per il suo contenuto e per le caratteristiche della sua scrittura, il manoscritto è riconducibile alla cerchia intellettuale attiva nella prima metà del XIV secolo intorno al monastero costantinopolitano di Chora, ingrandito e restaurato ne-gli anni 1315 circa-1321 da Teodoro Metochite, che lo trasformò in uno dei più importanti centri di cultura della capitale. I disegni del nostro codice si inseriscono perfettamente entro la corrente classici-sta ben attestata nell’illustrazione libraria della prima età paleologa, come testimoniano ad esempio il frontespizio del perduto ottateuco di Smirne o le miniature della Genesi nell’ottateuco laurenziano (Fi-renze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 5.38): le illustrazioni di questi manoscritti sono vicine a quelle del codice vaticano per la ten-denza a un classicismo equilibrato e monumentale, che si esplica da un lato nelle pose bilanciate delle figure e nell’animazione volumetrica dei panneggi, dall’altro nell’ampio respiro della composizione, in cui i personaggi si dispongono secondo una calcolata distribuzione spazia-le1. Credo tuttavia sia possibile, uscendo dal campo dell’illustrazione libraria, individuare alcuni tratti iconografici e stilistici che accomu-nano i disegni del codice vaticano alle decorazioni a mosaico e ad af-fresco della chiesa di Chora, che costituiscono com’è noto uno dei più vasti e importanti complessi figurativi bizantini che ci siano pervenuti. Anche i cicli figurativi di Chora si caratterizzano infatti per la stessa marcata tendenza al classicismo e al recupero di modelli antichi, in particolare tardoromani: tali modelli vengono però declinati secondo un linguaggio quasi manierista, che spesso toglie concretezza alla fisi-cità dei personaggi trasformandoli in figure raffinate, snelle ed eleganti fino al limite dell’artificiosità. Queste caratteristiche conferiscono agli

1 Non è questa la sede per una rassegna degli studi critici sull’illustrazione libraria e in generale sull’arte della cosiddetta ‘rinascenza paleologa’: mi limito a citare, tra i lavori più importanti, almeno quelli di Kitzinger 1966; Lazarev 1967, pp. 273-442; Talbot Rice 1968; Art et société 1971; Velmans 1977; Ševčenko 1984; Ćurčić, Mouriki 1991; Seibt 1996; Iacobini, della Valle 1999; Fryde 2000; Velmans 2000. In particolare sulla miniatura di età paleologa cfr. Belting 1970; Buchthal 1975; Buchthal, Belting 1978; Lowden 1992; Furlan 1999; Perria, Iacobini 1999; Weitzmann, Bernabò 1999; Džurova 2001, pp. 175-251; Lowden 2010.

115 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

affreschi e ai mosaici di Chora notevoli affinità con il mondo dell’illu-strazione libraria, spesso riconosciute dagli studiosi; tale vicinanza è ulteriormente accentuata, nel caso dei cicli a mosaico, dall’uso di tes-sere molto piccole (una tecnica analoga all’opus vermiculatum antico), in particolare nei volti, grazie alle quali il mosaico riesce ad avvicinarsi alla fluidità di linee del disegno e a riprodurre i passaggi graduali di piano e di colore tipici della pittura2.

Una delle illustrazioni del codice vaticano in cui è maggiormente riconoscibile l’affinità stilistica con i mosaici di Chora è quella raffigu-rante Zeus in volo sulle ali di un’aquila, al f. 302v (fig. 20). Il re degli dei (identificato dalla didascalia ζεύς) è seduto in posa solenne e rilassata, con la schiena diritta e i piedi incrociati; ha i capelli di media lunghez-za e porta la barba. Indossa un mantello che copre le gambe, le spalle e il braccio sinistro, lasciando nudi il petto e il braccio destro; ha in testa un diadema e regge con la destra uno scettro e con la sinistra una torcia. L’aquila tiene fra gli artigli una corona. Il volto di Zeus (fig. 21) trova a mio parere confronti stringenti, non solo per ragioni di somi-glianza iconografica, nelle immagini di Cristo presenti nella chiesa di Chora. Si pensi ad esempio alla figura del Pantocratore, nella lunetta sopra la porta di passaggio dal nartece esterno a quello interno3 (fig. 22): del tutto simili sono il taglio allungato degli occhi, con la linea sinuosa delle sopracciglia e le palpebre inferiori appesantite; la bocca piccola e carnosa, separata dal mento da una profonda fossetta; la resa della barba, suggerita mediante sottili linee parallele; e infine il tratta-mento disegnativo della linea della clavicola, che segna il passaggio dal torace al collo con una cifra grafica quasi astratta. Un discorso a parte merita inoltre la resa della capigliatura: entrambe le teste presentano un’acconciatura analoga, con i capelli spartiti da una scriminatura al centro della fronte, che scendono ai lati in lunghe ciocche parallele. Questa disposizione, abituale nell’arte bizantina per i capelli lunghi e lisci di Cristo, non si accorda invece altrettanto bene con l’iconografia di Zeus, che è caratterizzata in genere da una capigliatura riccioluta,

2 Sui cicli figurativi di Chora è d’obbligo il rimando alla monumentale edizione di Underwood 1966-1975, e in particolare al contributo di Demus 1975 sullo stile dei mosaici e degli affreschi. Fra gli studi più recenti, concentrati soprattutto sui significati simbolici delle immagini e sul collegamento tra i programmi iconografici e i rituali che venivano celebrati nello spazio sacro, si vedano almeno Ousterhout 1995a; Ou-sterhout 1995b; Akyürek 2001; Isar 2005.

3 Underwood 1966-1975, I, pp. 39-40, cat. n. 1; II, tavv. 17-19.

116 Fabio Guidetti

di cui rimangono ben visibili le tracce sulla nuca della nostra figura. Si può quindi ipotizzare che l’artista, nel riprodurre l’originale antico, abbia modificato la parte anteriore della capigliatura di Zeus model-landola su quella di Cristo, a lui evidentemente più familiare: tale so-vrapposizione sarà stata facilitata anche dalla somiglianza iconografica tra i due personaggi. Si possono osservare invece importanti differenze tra le due figure per quanto riguarda la costruzione dei volti: il volto del Pantocratore di Chora si caratterizza infatti per il prevalere del-le forme allungate, sia nell’ovale del viso, sia nel particolare del naso sottile e adunco, che gli conferiscono un aspetto tipicamente bizanti-no; lo Zeus del codice vaticano ha invece un’aria più classicheggiante, ottenuta grazie alla forma più rotonda del viso, con un naso all’antica, diritto e triangolare. A ben vedere, queste proporzioni più rotonde si ritrovano però anche a Chora, nelle teste di alcuni personaggi minori: potrebbe trattarsi semplicemente di un modo per introdurre maggiore varietà nelle scene narrative più affollate, ma si ha spesso l’impressio-ne che questo tipo di volto, così distante dalle forme allungate tipiche del canone bizantino, sia usato per caratterizzare determinate figure, scelte in modo consapevole. Queste teste di proporzioni più classiche si ritrovano per esempio nel ciclo dell’infanzia di Cristo, che orna le lunette dell’esonartece, in alcuni personaggi legati al mondo pagano, come Quirinio4 (fig. 23), o che rivestono nel racconto la funzione di antagonisti, come Erode5 (fig. 24): l’alterità di queste figure rispetto agli eventi della storia della salvezza, a cui partecipano solo marginalmen-te o a cui si sforzano invano di opporsi, è espressa dagli artisti anche attraverso la loro caratterizzazione fisionomica, tramite un allontana-mento dalle proporzioni canoniche e il recupero di una costruzione volumetrica del volto di carattere anticheggiante.

Un altro aspetto interessante dello Zeus del codice vaticano è rap-presentato dal forte contrasto tra la resa armoniosa e classicheggiante del volto e del panneggio e il trattamento decisamente antinaturali-stico delle parti nude del corpo, realizzate graficamente, senza alcun tentativo di coerenza anatomica e di organicità spaziale. Non si tratta di un caso isolato: scorrendo le illustrazioni del codice, si nota chia-ramente come il nostro artista adotti le medesime convenzioni nella resa anatomica ogni volta che affronta la rappresentazione di un corpo umano nudo, come mostrano ad esempio le figure di Perseo (f. 304r)

4 Underwood 1966-1975, I, pp. 88-89, cat. n. 101; II, tavv. 159-165.5 Underwood 1966-1975, I, pp. 92-93, cat. n. 103; II, tavv. 173-176.

117 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

e dell’Acquario (f. 304v). Questa particolarità non può essere imputata all’incapacità del disegnatore o alla sua scarsa dimestichezza con l’a-natomia. In altri casi, infatti, l’artista si dimostra perfettamente in gra-do di riprodurre lo stile naturalistico del modello antico: è il caso per esempio delle figure di animali o di esseri semiferini, quali il Centauro (f. 301r, fig. 14) o il Sagittario (f. 306r , fig. 15), caratterizzate da forme prettamente classiche. Il peculiare trattamento anatomico del corpo umano andrà messo piuttosto in relazione con le concezioni estetiche e le convenzioni stilistiche del periodo tardobizantino: pur avendo di fronte a sé un modello antico di altissima qualità, e pur disponendo dell’abilità tecnica necessaria per riprodurlo, un artista bizantino del XIV secolo non doveva evidentemente trovarsi a proprio agio con la resa del corpo umano in termini naturalistici. Il nostro disegnatore ha scelto dunque deliberatamente di adottare un diverso canone per la rappresentazione del corpo umano nudo: la ripresa antiquaria dello stile del modello, in questo caso considerata forse inappropriata, lascia quindi il posto al linguaggio codificato dell’arte paleologa.

La resa antinaturalistica del corpo umano, delineato in maniera analitica tramite la pura giustapposizione di segni grafici, è in effetti dominante in tutta la cultura figurativa bizantina; vi sono però nel no-stro Zeus alcune caratteristiche che, a mio parere, trovano ancora una volta i migliori confronti proprio sulle pareti e sulle volte di Chora. Un primo tratto peculiare è rappresentato dalla linea delle spalle, perfetta-mente rettilinee e un po’ troppo larghe rispetto al torso: in particolare il deltoide risulta eccessivamente sviluppato rispetto al braccio, ma-grissimo e quasi completamente privo di muscolatura, che si unisce alla spalla in modo disorganico. Una identica costruzione anatomica è riscontrabile in alcuni personaggi di Chora, ad esempio nel mosaico raffigurante la nascita della Vergine, collocato nel nartece interno della chiesa, a sinistra della porta d’accesso alla navata: qui, in particolare, la figura di Maria neonata mostra la medesima geometrizzazione e disorganicità, nel trattamento delle spalle larghe e squadrate e nella giunzione problematica tra la spalla e il braccio6 (fig. 25). Un altro trat-to caratteristico delle illustrazioni del codice vaticano è, inoltre, la resa disegnativa dell’anatomia del torace, e in particolare l’indicazione della struttura ossea attraverso la giustapposizione di corte linee parallele, di andamento spezzato e nervoso: questa cifra stilistica si ritrova sia nell’immagine di Zeus, a suggerire le ossa dello sterno, sia in alcune

6 Underwood 1966-1975, I, pp. 66-68, cat. n. 87; II, tavv. 98-103.

118 Fabio Guidetti

figure viste di spalle, ad esempio Ercole (f. 305v, fig. 9) o l’Ofiuco (f. 306r), in cui è usata per indicare rispettivamente la successione delle costole e delle vertebre. Anche questo tipo di astrazione trova interes-santi paralleli a Chora: la medesima resa anatomica caratterizza infatti le figure nude dei dannati nella scena del Giudizio Universale, che orna le lunette e la volta del parecclesion7 (fig. 26).

Gli affreschi del parecclesion ci forniscono un ulteriore confronto per i disegni del codice vaticano. L’immagine della costellazione della Vergine, al f. 307r del manoscritto, raffigura una fanciulla alata, vestita all’antica, che regge una spiga nella mano sinistra e una bilancia nella destra (fig. 27). Il disegnatore ha in questo caso rielaborato il model-lo antico filtrandolo attraverso un’iconografia caratteristica dell’arte bizantina, quella degli angeli: l’immagine della Vergine trova infatti ottimi paralleli nelle dodici figure angeliche che popolano la cupola del parecclesion di Chora8 (fig. 28). Come questi angeli, anche la Vergine del nostro codice presenta proporzioni allungate ed eleganti, evidenti soprattutto nella forma affusolata delle gambe e delle ali e nel piccolo modulo della testa; la complessa acconciatura, su due livelli sovrap-posti separati da un nastro, ha un aspetto anticheggiante senza essere tuttavia genuinamente antica: si tratta dell’acconciatura abituale per le figure angeliche nell’arte paleologa, e possiamo ipotizzare che per influsso di queste ultime sia stata trasferita all’immagine della costel-lazione. L’abbigliamento è invece differente; la Vergine del codice va-ticano indossa un semplice chitone senza maniche, mentre gli angeli di Chora presentano un costume molto più elaborato, di ascendenza tardoromana, formato da tre indumenti sovrapposti: una tunica a ma-niche lunghe, una dalmatica (in alcuni casi lunga fino ai piedi, in altri corta al ginocchio) e una clamide avvolta intorno al braccio sinistro. Ciononostante sono riconoscibili alcuni elementi comuni, ad esempio l’ampia banda decorata che segna l’orlo inferiore della veste, oppure il sistema della doppia cinta, con una fascia superiore lasciata visibile e una seconda cintura coperta dalla piega del tessuto: nel caso degli angeli le due fasce sono situate rispettivamente sul petto e in vita, men-tre nella Vergine si trovano una subito sotto i seni, l’altra all’altezza dei fianchi. Dal punto di vista stilistico, assai simile è il trattamento dei panneggi, che negli angeli del parecclesion appaiono decisamente meno nervosi e spezzati rispetto alla media dei personaggi di Chora:

7 Underwood 1966-1975, I, pp. 209-210, cat. n. 209; III, tavv. 398-403.8 Underwood 1966-1975, I, pp. 213-216, cat. nn. 211-223; III, tavv. 408-425.

119 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

ciò conferisce a queste figure un effetto di coerenza spaziale e di tri-dimensionalità che li avvicina notevolmente allo stile classicheggiante dei disegni del nostro codice. Vale la pena, tuttavia, osservare anche qui la diversità nella costruzione volumetrica dei volti: la Vergine del manoscritto vaticano presenta un viso rotondo, di proporzioni classi-che, mentre le teste degli angeli ripropongono le forme allungate tipi-che del canone bizantino; anche in questo caso la maggiore o minore aderenza alle proporzioni canoniche rispecchia il grado di pertinenza del soggetto al sistema di valori dell’arte paleologa.

In base alle somiglianze ora citate, credo sia possibile ricondurre i di-segni del codice vaticano al medesimo ambiente artistico che in quegli stessi anni andava realizzando, o aveva appena terminato di realizzare, i mosaici e gli affreschi della chiesa di Chora; anzi, ritengo probabile che nell’antigrafo del Vat. gr. 1087 vada riconosciuto uno di quei mo-delli antichi che ispirarono lo stile di Chora, e che il disegnatore del nostro manoscritto potesse essere proprio uno degli artisti che parte-ciparono alla produzione degli affreschi o dei cartoni per i mosaici. I disegni di questo codice e il loro rapporto con i cicli figurativi di Chora ci forniscono dunque un’ulteriore conferma della vastità degli interessi antiquari degli artisti di età paleologa, e soprattutto di quanto, nella cerchia intellettuale di Teodoro Metochite e di Niceforo Gregora, lo studio dell’antico e la realizzazione di nuove opere (artistiche, lettera-rie, scientifiche) fossero indissolubilmente legati l’uno all’altra. Anzi, il codice vaticano con il suo apparato iconografico rappresenta una per-fetta illustrazione delle parole di Metochite, contenute in una famosa lettera scritta ai monaci di Chora negli anni dell’esilio (1328-1330) se-guiti alla morte del suo protettore, l’imperatore Andronico II. In que-sta lettera, il grande studioso esortava i monaci a conservare intatta la sua preziosa biblioteca e a non disprezzare le opere di argomento profano9 (Th. Met. or. 15,24, ll. 1-5 Ševčenko):

9 La lettera è edita in Ševčenko 1975, pp. 57-84; questo contributo, insieme con il volume di Ševčenko 1962, resta tuttora la migliore sintesi sull’ambiente intellet-tuale che gravitava intorno a Teodoro Metochite e al monastero di Chora. Per quan-to riguarda la bibliografia più recente sulla figura di Metochite e sulla sua fisionomia intellettuale, sono da consultare almeno i lavori di Gigante 1981, pp. 167-244; De Vries-van der Velden 1987; Fryde 2000, pp. 322-373; Hinterberger 2001; Baz-zani 2006.

120 Fabio Guidetti

Ταύτῃ τοι καὶ μελέτω πάνυ τοι περὶ τούτων [scil. βίβλων] ὑμῖν, καὶ φυλαττέσθων ἀμείωτα τὰ κάλλιστα ταῦτα χρήμαθ᾽ ὑμῖν καὶ θησαυρίσματα, καὶ περισπούδαστα κομιδῇ τὸν ἅπαντ᾽ ἀνθρώποις αἰῶνα· καὶ χρειωδέσταθ᾽ ὑμῖν τε πάντως οἴκαδε – καὶ οὐχ ἱερὰ μόνον, ἀλλὰ καὶ τῆς ἔξω περιττῆς σοφίας, καὶ οὐδ᾽ ὑμῖν ἔστιν οἷστισιν ἴσως ἄρα περιφρονητῆς καὶ ἀχρείου – καὶ πολλοῖς ἄλλοις χρειωδέστατ᾽ αἰεί· κἀν ἐπιμελείᾳ πάσῃ φυλαττέσθων ἀλώβητα.

Per questa ragione, dunque, abbiate la massima cura di questi libri, e sia da voi custodito indenne questo patrimonio di splendidi tesori, ricercati con passio-ne dagli uomini in ogni epoca, di grandissima utilità per il vostro uso perso-nale (e non solo i libri sacri, ma anche quelli di contenuto estraneo ai vostri interessi e superfluo, e che tuttavia per alcuni di voi non sarà forse disprezza-bile e inutile) e di grandissima utilità per molti altri, per sempre; e siano essi custoditi intatti, con ogni diligenza.

Riesce difficile immaginare qualcosa di più «estraneo e superfluo» dei ff. 300r-312r del nostro codice: qui, infatti, i sofisticati trattati di astronomia si interrompono per lasciare spazio a una stringata colle-zione (peraltro largamente lacunosa) di informazioni mitologiche e a un ciclo di illustrazioni del cielo vecchie di quasi mille anni; il valore scientifico di queste pagine, in effetti, era pressoché nullo se rappor-tato ai notevoli progressi dell’astronomia antica e medievale, di cui rendono testimonianza i trattati contenuti nello stesso manoscritto. Si trattava quindi davvero di una «ἔξω περιττή σοφία», per usare le parole di Metochite: una sapienza estranea, perché esulava dagli inte-ressi primariamente religiosi dei monaci di Chora, e allo stesso tempo anche superflua, non solo dal punto di vista di questi ultimi ma anche da quello degli studiosi professionisti, dal momento che i contenuti di questa sezione erano ormai del tutto inutili da un punto di vista scien-tifico. Eppure questi resti di un codice illustrato tardoantico vennero trascritti e copiati con la massima cura, perché il loro contenuto non andasse perduto. È senz’altro vero che queste immagini non avevano più alcuna attualità per lo studio dell’astronomia: tuttavia esse meri-tavano di essere preservate, agli occhi di Gregora e dei suoi collabora-tori, come testimonianza delle più antiche concezioni astronomiche dei Greci e dei Romani e come un eccezionale documento del livello qualitativo raggiunto dall’arte libraria antica. Furono però gli artisti dell’epoca paleologa i primi e più importanti fruitori di queste illu-strazioni: essi seppero impossessarsi del loro stile, lo fecero proprio e lo utilizzarono per raccontare la storia della salvezza sulle pareti e sulle volte di Chora. Più tardi, al momento della compilazione della

121 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

sua miscellanea astronomica, Gregora chiese a uno di questi artisti di riprodurre in bella copia l’intera serie di immagini (per quanto lacu-nosa), arricchendole personalmente di didascalie e scoli, preservando in questo modo l’apparato illustrativo delle più antiche opere astrono-miche a lui disponibili.

2. Il codice vaticano e la tradizione aratea latina

Entriamo ora nel vivo dello studio delle illustrazioni astronomiche del codice Vat. gr. 1087. Se le caratteristiche stilistiche di queste im-magini, come ho cercato di mostrare, possono trovare interessanti paralleli nell’arte monumentale costantinopolitana dell’inizio del XIV secolo, le loro iconografie ci portano invece più lontano nel tempo e nello spazio, verso l’Alto Medioevo latino e la tarda antichità.

La porzione illustrata del codice Vat. gr. 1087 occupa, come si è visto, i ff. 300r-312r; essa è articolata in due sezioni di testo (la prima al f. 300r, la seconda ai ff. 311r-312r), separate da un nucleo di illustrazioni. Il testo che precede e segue le figure è costituito da estratti dei cosiddet-ti Catasterismi di Eratostene di Cirene, una raccolta di miti eziologici legati alle origini delle costellazioni: questa trattazione, con ogni pro-babilità, era parte da un più vasto trattato di argomento astronomico, il cui contenuto è ricostruibile sulla base sia delle testimonianze greche rimaste, sia delle riprese dell’opera eratostenica nella tradizione lati-na10. 38 delle 46 figure riprodotte nel codice illustrano in effetti altret-tante costellazioni, formando una serie quasi completa (rispetto alle versioni più estese mancano solo le immagini dei Gemelli, del Cancro e delle Pleiadi), per quanto priva, almeno in apparenza, di un ordine pre-ciso11. Nel codice sono presenti però anche due nuclei di immagini che non raffigurano costellazioni. Uno è costituito dalle tre carte celesti che occupano i ff. 309v-310v: la coppia di emisferi, estivo e invernale12 (fig.

10 Santoni 2009, in part. pp. 24-28.11 Le illustrazioni del codice vaticano sono state copiate con ogni probabilità da un

antigrafo sfascicolato: è infatti possibile suddividere le 46 immagini in diversi gruppi, ciascuno dei quali presenta al suo interno una sequenza coerente, e che tuttavia venne-ro riprodotti uno dopo l’altro in ordine casuale. Sul problema dell’ordine delle figure si veda il contributo di Allegra Iafrate in questo volume.

12 Dekker 2013, pp. 120, 126-128 (sulla precisione della costruzione cartografica), 140-142; pp. 223-225, cat. n. H10.

122 Fabio Guidetti

19), e un planisfero (fig. 18) raffigurante la porzione di volta celeste visibile dalle nostre latitudini, compresa tra il polo settentrionale e il tropico del Capricorno13. L’altro gruppo si trova invece ai ff. 301v-302v e comprende: le personificazioni dei cinque pianeti (f. 301v in basso); il circolo della Via Lattea (f. 302r in alto); lo Zodiaco con al centro il Sole e la Luna (f. 302r in basso, fig. 16); gli Asini e la Mangiatoia, stelle della costellazione del Cancro (f. 302v in alto, fig. 17); e infine Zeus in volo sul dorso di un’aquila (f. 302v in basso, fig. 20). Il codice vaticano, come si è detto, presenta queste illustrazioni in stretto collegamento con gli estratti dei Catasterismi di Eratostene; tuttavia, nessun altro dei manoscritti greci contenenti quest’opera è illustrato: i migliori con-fronti per le immagini del nostro codice, spesso riproposti secondo iconografie del tutto analoghe, si trovano invece nei manoscritti latini dei cosiddetti Aratea. Con questo nome si intendono le diverse tradu-zioni latine (quattro delle quali sono pervenute fino a noi) dei Fenome­ni di Arato di Soli, poeta tra i più celebri dell’epoca ellenistica, attivo nel III secolo a.C.; queste traduzioni sono spesso arricchite con ma-teriali di commento prodotti in ambito alessandrino, in parte ricon-ducibili proprio all’opera astronomica di Eratostene, e illustrate con un ampio corredo di immagini. I diversi rami della tradizione degli Aratea presentano ciascuno un differente apparato iconografico, che varia a seconda degli argomenti trattati nel testo: questi ultimi, a loro volta, possono corrispondere più o meno fedelmente, nel contenuto e nell’ordine dell’esposizione, a quelli presenti nell’originale greco14.

La maggior parte delle immagini contenute nel codice vaticano tro-va i migliori confronti nei manoscritti del ramo più recente della tra-dizione aratea occidentale, il cosiddetto Aratus Latinus. Con questo nome si indica l’ultima delle traduzioni latine del poema di Arato, o meglio dell’intero corpus arateo (compresi quindi i materiali di com-mento alessandrini), realizzata nel Nord della Francia, probabilmente nel monastero benedettino di Corbie, nel secondo quarto dell’VIII se-colo15. Questa traduzione tuttavia, condotta con l’ausilio di glossari e

13 Dekker 2013, p. 155; pp. 247-249, cat. n. P10.14 La genealogia dei testi di tradizione aratea e le loro relazioni reciproche sono ben

sintetizzate nella tabella pubblicata da Le Bourdellès 1985, p. 15.15 Per leggere i testi dell’Aratus Latinus bisogna tuttora fare riferimento all’edizione

di Maass 1898, pp. xxi-xliv e 99-306 (Anonymus II); alla medesima tradizione appar-tengono anche i testi alle pp. 571-606, tra cui il De signis coeli già attribuito al venerabi-le Beda. Gli stessi materiali sono stati poi studiati da Martin 1956, pp. 35-126, che ha

123 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

non supportata da un’adeguata conoscenza della lingua greca, venne presto considerata insufficiente; entro la seconda metà dello stesso se-colo se ne produssero quindi due nuove versioni: la cosiddetta recensio interpolata e il breve trattatello De signis coeli, in passato falsamente attribuito al venerabile Beda16. Che la traduzione del corpus arateo nel regno franco fosse motivata da criteri prima di tutto scientifici, piutto-sto che da un interesse per gli aspetti artistici o letterari, è dimostrato dal fatto che le due versioni più tarde omettono completamente il testo poetico di Arato, la cui traduzione risultava particolarmente incom-prensibile, conservandone solo i materiali di commento; anzi, mentre la recensio interpolata mantiene anche il paratesto mitografico, con i racconti sulle origini delle costellazioni, i manoscritti del De signis coe­li si limitano a riprodurre il catalogo stellare (l’unica sezione genui-namente scientifica dell’intero corpus), eliminando sia il testo poetico che le informazioni mitologiche. In ogni caso, l’esistenza di queste due nuove traduzioni, più corrette e affidabili, fece sì che la prima versio-ne dell’Aratus Latinus smettesse ben presto di essere copiata: essa ci è pervenuta infatti in soli quattro codici, nessuno dei quali conserva l’ap-parato di immagini17. Sono invece ampiamente illustrati i manoscritti

riconosciuto in essi l’unica testimonianza completa superstite della cosiddetta ‘edizio-ne Φ’ di Arato, comprendente (oltre al testo poetico) una serie di trattati introduttivi, un commento estratto dall’opera astronomica di Eratostene e un ciclo di illustrazioni. Da ultimo, l’Aratus Latinus è stato al centro del lavoro di Le Bourdellès 1985, che si è concentrato soprattutto sul posto occupato da questo testo nella cultura dell’Alto Medioevo latino, sia dal punto di vista scientifico, sia come testimonianza linguistica; a questo studioso si deve anche la datazione ormai condivisa della traduzione agli ultimi anni del regno merovingio.

16 Il De signis coeli si può ora leggere nell’edizione di Dell’Era 1979b.17 I manoscritti della versione primitiva dell’Aratus Latinus sono elencati e classifi-

cati da Le Bourdellès 1985, pp. 52-60. È appena il caso di osservare che, nonostante si trovi spesso ripetuta nella bibliografia l’opinione contraria (da ultimi Blume, Haffner, Metzger 2012, p. 42), la mancata sopravvivenza di codici illustrati della prima versio-ne dell’Aratus Latinus non costituisce argomento sufficiente per affermare che questo testo non fosse mai stato illustrato prima della redazione della recensio interpolata. Già Le Bourdellès, in effetti, avanzò l’ipotesi che due dei quattro codici conservati avessero in origine un corredo illustrativo, realizzato almeno in parte. Il primo è un manoscritto prodotto all’inizio del IX secolo in area borgognona (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Latin 7887), che presenta numerosi spazi bianchi per l’inserimento delle illu-strazioni; alcuni di questi spazi sono stati successivamente ritagliati: sembra dunque che

124 Fabio Guidetti

della recensio interpolata di epoca carolingia18 e quelli del De signis coe­li19: ed è proprio in questi codici che si trovano i migliori confronti per le immagini del Vat. gr. 1087.

I principali punti di contatto tra le illustrazioni del codice vaticano e la tradizione figurativa dell’Aratus Latinus sono i seguenti:

1) Innanzitutto, i codici della recensio interpolata dell’Aratus Latinus sono gli unici, all’interno della tradizione aratea, a includere la raffigu-razione dei due emisferi estivo e invernale, collocati all’inizio dell’opera fra i trattati astronomici introduttivi20. Nel nostro codice i due emisferi si trovano invece ai ff. 309v-310r, al termine della sezione illustrata, appena prima del planisfero: probabilmente chi ha progettato il manoscritto ha voluto riunire in un unico luogo tutte le carte celesti che aveva a disposi-zione, collocandole in coda alle immagini delle costellazioni.

2) In secondo luogo, solo nella tradizione dell’Aratus Latinus (in questo caso sia nella recensio interpolata che nel De signis coeli) tro-viamo la duplicazione delle immagini delle Orse: queste ultime sono

una parte delle immagini siano state effettivamente realizzate, salvo poi essere asportate. Il secondo è il celebre codice basileense di Germanico, della prima metà del IX secolo, proveniente dal monastero di Fulda e commissionato probabilmente da Rabano Mauro (Basel, Universitätsbibliothek, AN IV 18). Questo manoscritto contiene, nei primi fogli (ff. 1-9), la parte iniziale dell’Aratus Latinus nella versione primitiva, introdotta da un planisfero ellenistico con 11 segni zodiacali; il fascicolo in questione è però in gran parte mutilo: si può ipotizzare che anche in questo caso il testo fosse illustrato, e che la por-zione con la maggior concentrazione di immagini sia stata successivamente asportata.

18 I principali testimoni della recensio interpolata sono elencati e classificati da Le Bourdellès 1985, pp. 74-80; 11 dei manoscritti pervenuti sono illustrati; se ne possono consultare l’elenco e le schede nel sito internet The Saxl Project, curato da Kristen Lippincott: <http://www.kristenlippincott.com/the-saxl-project/manuscripts/classical-literary-tradition/revised-aratus-latinus>.

19 Sui codici del De signis coeli si veda l’introduzione all’edizione di Dell’Era 1979b, pp. 269-276; anche in questo caso l’elenco e le schede dei 15 testimoni illu-strati pervenutici possono essere consultati nel sito internet The Saxl Project: <http://www.kristenlippincott.com/the-saxl-project/manuscripts/classical-literary-tradition/ps-bede-de-signis-in-caeli>.

20 Uno dei trattati introduttivi dell’Aratus Latinus è intitolato appunto Descriptio duorum semispheriorum, ma il suo contenuto (Maass 1898, p. 145) non corrisponde a questo titolo: si tratta infatti di un commento ai vv. 22-23 del poema di Arato, dedicati all’asse celeste, come ha riconosciuto Martin 1956, pp. 140-141.

125 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

raffigurate infatti due volte in apertura della serie delle costellazioni, prima ciascuna singolarmente e poi entrambe in un’unica illustrazio-ne insieme con il Drago. La stessa duplicazione è riscontrabile nelle illustrazioni del codice vaticano, anche se qui, dato lo sconvolgimen-to dell’ordine originario, le tre immagini non sono adiacenti: l’Orsa Maggiore è infatti al f. 303r (fig. 7), l’Orsa Minore al f. 304v, mentre il gruppo di Orse e Drago si trova al f. 305r (fig. 8).

3) Il codice vaticano inoltre, come si vedrà meglio più avanti, appare assai vicino ai manoscritti della recensio interpolata e soprattutto a quelli del De signis coeli anche per quanto riguarda alcune peculiari iconogra-fie delle costellazioni: un esempio particolarmente istruttivo è quello di Eridano, raffigurato al f. 307r in forma di busto con l’attributo della cornucopia21 (fig. 10), secondo uno schema che si ritrova soltanto nella tradizione dell’Aratus Latinus22. Più avanti analizzerò alcune di queste immagini mostrandone la probabile derivazione da modelli tardoro-mani, per i quali proporrò una datazione basata su criteri iconografici.

4) Infine, l’immagine dello Zodiaco con al centro il Sole e la Luna, pertinente alla sezione conclusiva della trattazione dei Fenomeni, è ca-ratteristica dei manoscritti della recensio interpolata ed è invece assen-te dagli altri rami della tradizione.

21 Sull’iconografia di Eridano cfr. Lippincott 2009, in part. pp. 64-66 sulla tipolo-gia in forma di busto, e il contributo di Anna Santoni in questo volume.

22 Al di fuori della tradizione dell’Aratus Latinus, il tipo iconografico di Eridano in forma di busto si trova, a mia conoscenza, solo in altri tre manoscritti: i due più recenti, ossia l’Igino di Ademaro di Chabannes (Leiden, Universiteitsbibliotheek, VLO 15) e un codice astronomico miscellaneo della metà dell’XI secolo, di probabile origine ca-talana (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 123), attingono per il materiale figurativo alla tradizione del De signis coeli. La terza attestazione è offerta invece dal già citato codice basileense di Germanico, in cui il testo del poema è illustra-to da 35 immagini delle costellazioni; qui Eridano è sì raffigurato in forma di busto, ma reca un attributo particolare (l’idria da cui sgorga l’acqua), assente nelle altre immagini di questa tipologia: tale illustrazione è quindi un hapax iconografico e sembrerebbe derivata da un modello indipendente. Il manoscritto di Basilea meriterebbe senz’altro uno studio più approfondito, dal momento che ci testimonia diverse iconografie assai antiche, prive di adeguati confronti nel resto della tradizione aratea. Questi codici sono stati recentemente riesaminati nell’opera di sintesi curata da Dieter Blume e dai suoi collaboratori: cfr. Blume, Haffner, Metzger 2012, pp. 202-207, cat. n. 6 (Germani-co di Rabano Mauro, oggi a Basilea); pp. 284-291, cat. n. 22 (Igino di Ademaro di Cha-bannes, oggi a Leida); pp. 488-495 (manuale di computo di Ripoll, oggi in Vaticano).

126 Fabio Guidetti

Non tutte le illustrazioni del nostro codice sono però riconducibi-li alla tradizione dell’Aratus Latinus: la figura di Zeus sull’aquila (f. 302v), così come il planisfero di tipo ellenistico, con 11 segni zodiacali (f. 310v), trovano infatti confronti in un altro ramo della tradizione, quello degli Aratea di Germanico. Anche di questo autore ci sono per-venuti numerosi manoscritti illustrati, nei quali la traduzione latina del poema di Arato è accompagnata da un commento in prosa, ugualmen-te derivato da materiali di ambito alessandrino23, e corredata da una serie di illustrazioni24. Nei codici illustrati di Germanico queste due immagini fanno parte del paratesto delle pagine iniziali: il planisfero, retaggio della più antica tradizione aratea e necessario per seguire il percorso della descrizione del cielo25, è collocato appena prima dell’ini-zio del testo poetico; la figura di Giove sull’aquila accompagna invece il proemio dell’opera e i testi di origine alessandrina che lo commenta-no. Le due famiglie testuali, identificate rispettivamente con le lettere

23 Le diverse versioni dei materiali di commento al testo di Germanico sono sta-te pubblicate da Breysig 1867, in base ai principali manoscritti che le testimoniano, con i nomi di scholia Basileensia (Basel, Universitätsbibliothek, AN IV 18), Strozzia­na (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozzi 46), Sangermanensia (Paris, Bi-bliothèque Nationale de France, Latin 12957), Bernensia (Bern, Burgerbibliothek, ms. 88). Di questi tuttavia, come mostra Le Bourdellès 1985, p. 15, solo gli scholia Basi­leensia e gli scholia Strozziana sono da considerarsi a tutti gli effetti testi indipendenti: i primi derivano direttamente dalla traduzione di commenti greci ad Arato, i secondi sono il risultato di una contaminazione tra gli scholia Basileensia, la recensio interpo­lata dell’Aratus Latinus e brani del De natura rerum di Isidoro di Siviglia. Gli scholia Basileensia e gli scholia Strozziana sono oggi consultabili rispettivamente nelle edizioni di Dell’Era 1979a e Dell’Era 1979c. Gli altri due commenti sono invece entrambi riconducibili alla tradizione dell’Aratus Latinus: gli scholia Sangermanensia sono in realtà brani della recensio interpolata, con l’aggiunta di passi tratti da Isidoro, mentre i cosiddetti scholia Bernensia non sono altro che il testo del De signis coeli, suddiviso in sezioni staccate usate per commentare i versi di Germanico.

24 Sulla tradizione iconografica dei codici di Germanico cfr. Haffner 1997; l’elenco e le schede dei 18 testimoni illustrati pervenutici possono essere consultati, ancora una volta, nel sito internet The Saxl Project: <http://www.kristenlippincott.com/the-saxl-project/manuscripts/classical-literary-tradition/germanicus-aratea>.

25 Sulla funzione del planisfero per la comprensione della descrizione aratea del cie-lo, e sulla pertinenza di questa carta celeste alla più antica tradizione figurata del poema di Arato cfr. Santoni c.s.

127 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

O e Z, in cui sono suddivisi i manoscritti del poema di Germanico26 annoverano tra le loro divergenze anche il trattamento di queste due illustrazioni introduttive: la famiglia Z è caratterizzata infatti dalla pre-senza di un problematico Giove sbarbato e di un planisfero con 12 se-gni zodiacali, dunque aggiornato alle conoscenze scientifiche di epoca romana; la famiglia O presenta invece il tradizionale Giove barbuto, simile a quello del Vat. gr. 1087, e il planisfero ellenistico con soltanto 11 segni zodiacali. È dunque ai codici di quest’ultima famiglia che è possibile avvicinare le due illustrazioni del codice vaticano.

Per il momento possiamo quindi affermare che il codice Vat. gr. 1087 presenta un corredo iconografico composito. Il suo disegnatore ha certamente copiato le illustrazioni di un manoscritto di tradizio-ne aratea; questo antigrafo tuttavia non è inquadrabile all’interno di uno solo dei rami a noi noti di tale tradizione, ma piuttosto sembra includere materiali eterogenei, caratteristici di due rami distinti della tradizione aratea latina: le illustrazioni introduttive si ritrovano infatti nei codici del poema di Germanico, mentre la serie di immagini delle costellazioni e le illustrazioni conclusive appartengono alla tradizione dell’Aratus Latinus. Come si vedrà, il carattere composito dell’appara-to iconografico del Vat. gr. 1087 rispetto a quello dei manoscritti aratei latini deriva dal fatto che le illustrazioni del nostro codice risalgono di-rettamente a un modello molto antico, anteriore alla differenziazione dei diversi rami della tradizione aratea in ambito occidentale.

3. Un confronto occidentale: il Germanico di Aberystwyth

Questo carattere composito consente di avvicinare l’apparato ico-nografico del Vat. gr. 1087 a quello di un manoscritto latino, tra i più interessanti della tradizione aratea occidentale: si tratta di un codice di Germanico prodotto in Francia intorno all’anno Mille (Aberystwyth, National Library of Wales, cod. 735C); anche questo manoscritto, in-fatti, conserva materiali iconografici assai antichi, caratteristici di rami diversi della tradizione27. Il manoscritto come si presenta attualmente

26 Si vedano la classificazione dei manoscritti in Le Bœuffle 1975, pp. xliii-xlvii, e l’articolo di Lott 1981.

27 Il codice di Aberystwyth, non incluso nel catalogo di Saxl, Meier 1953, venne pubblicato da McGurk 1973-1974; tra i contributi successivi cfr. almeno Eastwood 1981; Munk Olsen 1982-, I, pp. 404-405 e 525; Blume, Haffner, Metzger 2012,

128 Fabio Guidetti

è composto in realtà dall’unione di due sezioni distinte: al codice ori-ginale, tradizionalmente attribuito per ragioni paleografiche all’area limosina, ma più recentemente ricondotto da Dieter Blume al mo-nastero di Fleury sulla base dell’apparato illustrativo, vennero infat-ti aggiunti altri 20 fogli dopo il trasferimento nelle isole britanniche, avvenuto con ogni probabilità entro la fine dell’XI secolo28. L’attribu-zione del nucleo originario del manoscritto allo scriptorium di Fleury piuttosto che a quello di Limoges rappresenta un problema di non se-condaria importanza, dal momento che attorno al Mille erano attive in questi due monasteri personalità di grande rilievo per la storia dell’a-stronomia e della cultura medievale in genere, quali Abbone di Fleu-ry e Ademaro di Chabannes. Non ho lo spazio, né le competenze per risolvere la questione in questa sede: quello del luogo di redazione, tra l’altro, è solo uno dei molti problemi ancora aperti riguardanti questo codice, che meriterebbe uno studio ben più approfondito, per quanto

pp. 95-97 e 179-184, cat. n. 1. Il manoscritto è stato completamente digitalizzato ed è consultabile nel sito internet della National Library of Wales: <http://www.llgc.org.uk/index.php?id=medievalastronomy>.

28 La sezione più antica del codice è suddivisa in due parti. La prima, di contenuto retorico, comprende: gli Aenigmata di Bonifacio di Magonza (ff. 1r-2v); i Versus de est et non (Anthologia Latina 645), con attribuzione a Prisciano di Cesarea (f. 3r); e la coppia di invectivae attribuite a Cicerone e a Sallustio (ff. 5v-7v). All’interno di questa parte si trovano però anche alcune carte celesti: una coppia di emisferi accompagna-ti da un’immagine della Via Lattea, uno schema delle sfere celesti e l’abbozzo di un globo celeste (ff. 3v-4r), una configurazione planetaria (f. 4v) e una seconda coppia di emisferi semplicemente abbozzati (f. 5r). Al f. 7v inizia la seconda parte, quella più propriamente astronomica, segnalata dal titolo in caratteri capitali: «Incipit epitome phenomenon idest apparitio sive apparencia». Questa sezione comprende: i Versus de sideribus dello pseudo-Prisciano (Anthologia Latina 679) (f. 7v); il Somnium Scipionis di Cicerone (ff. 7v-9v), con poche righe del commento di Macrobio (soltanto l’inizio e la fine di entrambi i libri) (f. 9v); e infine gli Aratea di Germanico con il commento detto scholia Basileensia (ff. 10v-24v). Il testo di Germanico è interessato purtroppo da una vasta lacuna, situata tra gli attuali ff. 20 e 21, corrispondente ai vv. 233-432 del poema: ben 200 versi sono quindi andati perduti, insieme con il commento e le illustrazioni che li accompagnavano. Dell’originario ciclo di 47 immagini ne restano ora soltanto 20, a cui va aggiunto, dopo la conclusione del testo poetico, uno schema di planisfero (f. 25r). Il f. 26 è bianco. In epoca posteriore vennero aggiunti in coda al codice i ff. 27-47, contenenti il De astronomia di Igino non illustrato, la cui scrittura è concordemente attribuita ad una mano insulare della fine dell’XI secolo.

129 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

riguarda sia la sua composizione, sia il suo contesto di produzione. Per il momento mi limiterò a rilevare che le argomentazioni di natura iconografica, avanzate da Blume per sostenere l’origine floriacense del manoscritto, come si vedrà tra poco, non appaiono decisive.

Fin dalla prima pubblicazione del codice gli studiosi hanno riscon-trato una discordanza fra le parentele individuabili sulla base della tra-dizione testuale e quelle ricostruibili a partire dalle illustrazioni. Per quanto riguarda il testo poetico e i materiali di commento (i cosiddetti scholia Basileensia), il manoscritto di Aberystwyth appartiene alla clas-se denominata Francica dei codici di Germanico, uno dei due rami del-la famiglia O. I codici di questo sottogruppo non sono molto numero-si: oltre a quello di Aberystwyth, l’unico altro rappresentante illustrato della classe è il manoscritto basileense (Basel, Universitätsbibliothek, AN IV 18), prodotto a Fulda nella prima metà del IX secolo, che è an-che uno dei pochissimi testimoni della redazione originale dell’Aratus Latinus. I disegni del codice di Basilea sono però molto particolari, e presentano spesso iconografie del tutto isolate all’interno della tradi-zione aratea: non è quindi con essi che si possono confrontare le illu-strazioni del Germanico di Aberystwyth. Queste ultime, come è stato spesso osservato, trovano invece i migliori paralleli, almeno per quan-to riguarda la serie di immagini delle costellazioni, nei codici del De signis coeli: ha senz’altro ragione Blume nell’indicare come confronto iconografico particolarmente calzante le miniature di un manoscritto realizzato a Fleury probabilmente nella prima metà del X secolo (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Latin 554329). Meno condivisibile è invece il corollario che ne trae lo studioso, e cioè che anche il Germa-nico di Aberystwyth debba essere ricondotto al medesimo scriptorium. Tale ipotesi mi sembra un po’ troppo meccanica: non è detto, infatti, che le somiglianze nell’apparato illustrativo dei due codici debbano per forza spiegarsi con la filiazione diretta dell’uno dall’altro, e non possano piuttosto indicare semplicemente la discendenza di entrambi dallo stesso archetipo, ovvero la loro appartenenza al medesimo ramo della tradizione. Decisamente contro l’ipotesi di un’origine floriacen-se, e a favore dell’attribuzione alla cerchia di Ademaro di Chabannes, porta invece il confronto con un altro manoscritto, quest’ultimo sicu-ramente di mano di Ademaro (Leiden, Universiteitsbibliotheek, VLO 15), in cui il testo del De astronomia di Igino è illustrato con immagini

29 Blume, Haffner, Metzger 2012, pp. 422-426, cat. n. 44 (con bibliografia pre-cedente).

130 Fabio Guidetti

delle costellazioni tratte, anche in questo caso, dalla tradizione icono-grafica del De signis coeli. Illustrare un testo con immagini pertinenti a una diversa tradizione non è affatto un procedimento banale, e richie-de la presenza di una personalità creativa, che non si limita a copiare un antigrafo, ma pone a confronto due o più modelli per produrre un oggetto nuovo: oltre ai due codici citati, in effetti, non sono a cono-scenza, per quest’epoca, di altri esempi di un procedimento analogo, nei manoscritti di tradizione aratea. Accanto alle argomentazioni pa-leografiche tradizionalmente proposte a favore di un’origine limosi-na del codice di Aberystwyth, mi sembra quindi importante attirare l’attenzione sul confronto con il manoscritto di Leida: quest’ultimo, infatti, dimostra che Ademaro di Chabannes possedeva la creatività e la vastità di interessi necessarie per progettare uno strumento scientifi-co nuovo e complesso, realizzato secondo un modus operandi del tutto analogo a quello riscontrabile nel Germanico di Aberystwyth30.

Al di là della precisazione dello scriptorium d’origine, quel che più ci interessa in questa sede è tuttavia il carattere composito dell’apparato illustrativo del codice di Aberystwyth, che induce a domandarsi quali fonti figurative avessero a disposizione i suoi estensori. Come si è det-to, tra queste fonti andrà sicuramente annoverato, almeno per quan-to riguarda le immagini delle costellazioni, un codice della tradizione del De signis coeli: forse quello di Fleury, forse un suo parente stret-to o magari il suo stesso antigrafo31. Un secondo nucleo di immagini fa parte invece del corredo abituale dei manoscritti di Germanico. In particolare, il codice di Aberystwyth conserva l’attestazione allo stesso tempo più antica e più completa del ciclo delle tre illustrazioni intro-duttive, che dovevano accompagnare l’inizio del poema nelle edizioni commentate di Arato, sia nella tradizione greca che in quella latina: il planisfero di tipo ellenistico con 11 segni zodiacali (f. 10v), l’immagine

30 Sul codice di Leida si veda ora van Els 2011, con bibliografia precedente; in particolare sui suoi disegni cfr. Blume 2004.

31 Insostenibile è a mio parere la proposta di Blume (Blume, Haffner, Metzger 2012, pp. 87-88 e p. 424) che le illustrazioni del manoscritto floriacense possano esse-re derivate «almeno indirettamente» nientemeno che dall’archetipo greco dell’Aratus Latinus, vale a dire il codice tardoantico tradotto a Corbie nell’VIII secolo. Si vedrà tra poco come le immagini delle costellazioni nei manoscritti del De signis coeli siano spes-so diverse da quelle della recensio interpolata (queste sì derivate dal codice di Corbie), e come tale discrepanza non possa essere spiegata altrimenti che con la presenza di due archetipi distinti all’origine delle due tradizioni figurative.

131 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

del poeta Arato con la musa Urania (f. 11v) e quella di Giove sull’aquila (f. 12r). In tutti gli altri manoscritti di Aratea, infatti, questa triade di il-lustrazioni è conservata solo parzialmente. Nel Vat. gr. 1087 sono pre-senti, come si è visto, il planisfero e l’immagine di Zeus sull’aquila, ma non quella di Arato con la Musa; anche per quanto riguarda la tradi-zione di Germanico, fatta eccezione per il manoscritto di Aberystwyth, gli altri codici presentano analoghe lacune: sia i manoscritti della clas­sis Italica (l’altro ramo della famiglia O), sia quelli della famiglia Z sono infatti sempre mancanti di almeno una delle tre illustrazioni32. Vale la pena notare, inoltre, come l’iconografia di Giove sull’aquila nel codice di Aberystwyth (fig. 29) abbia come unico confronto preciso proprio l’analoga immagine del Vat. gr. 1087. Solo in questi due esempi, infatti, il re degli dei è raffigurato con una coppia di attributi non canonici: una fiaccola nella mano sinistra, al posto del più usuale fulmine, e una corona rigida, probabilmente interpretabile come metallica, collocata fra gli artigli dell’aquila, là dove di solito si trova una benda o una coro-na di foglie. La coincidenza di questi attributi peculiari nei due mano-scritti, talmente distanti nel tempo e nello spazio da rendere estrema-mente improbabile un’influenza diretta dell’uno sull’altro, impedisce di liquidare tali particolarità iconografiche come aberrazioni isolate all’interno della tradizione astronomica antica. Esse testimoniano, al contrario, l’esistenza di un punto di contatto fra i diversi rami della tradizione ai quali vanno ricondotte le due immagini: la loro vicinanza

32 I testimoni illustrati della classis Italica comprendono un codice cassinese del XII secolo (Madrid, Biblioteca Nacional de España, cod. 19) e una dozzina di discendenti umanistici di un secondo manoscritto, anch’esso di probabile origine cassinese e stret-tamente imparentato con il precedente, scoperto da Poggio Bracciolini nel 1429 in Sicilia e in seguito disperso: il manoscritto di Madrid include le immagini di Arato con la Musa e di Giove sull’aquila, ma ha perduto il planisfero; le copie quattrocentesche del codice di Poggio hanno invece il planisfero e l’immagine di Giove sull’aquila, ma non quella di Arato con la Musa, perduta evidentemente già nell’antigrafo. Anche la tradizione della famiglia Z è priva dell’immagine di Arato con la Musa; le altre due illustrazioni, oggi assenti dall’archetipo (Leiden, Universiteitsbibliotheek, VLQ 79), devono però essere andate perdute solo in epoca recente, visto che sono conservate dai suoi discendenti (Boulogne-sur-Mer, Bibliothèque Municipale, cod. 188; Bern, Burgerbibliothek, cod. 88). Infine, il manoscritto basileense, unico rappresentante il-lustrato della classis Francica oltre al codice di Aberystwyth, conserva della triade di illustrazioni introduttive solo il planisfero, messo però in relazione, come si ricorderà, con il testo dell’Aratus Latinus e non con quello di Germanico.

132 Fabio Guidetti

è spiegabile probabilmente con una stretta parentela tra i rispettivi ar-chetipi, che possa rendere ragione delle particolarità comuni.

Il codice di Aberystwyth contiene infine un notevole nucleo di carte celesti, molte delle quali non trovano paralleli in tutta la tradizione ara-tea: alcune di esse testimoniano la disponibilità, all’interno dello scrip­torium di produzione, di materiale astronomico del tutto eccezionale, mentre altre attestano un non comune livello di rielaborazione critica delle conoscenze acquisite. La collocazione di questo materiale all’in-terno del codice corrisponde alla sua maggiore o minore pertinenza rispetto alla tradizione di Germanico: il planisfero ellenistico a 11 se-gni, abituale nei manoscritti di questo autore, si trova appena prima dell’inizio del poema, come avviene in tutti gli altri testimoni illustra-ti dell’opera33; altre carte celesti meno consuete compaiono invece in apertura del codice, prima dell’inizio della sezione propriamente astro-nomica, in mezzo a testi di argomento retorico. I ff. 3v-4r, ad esempio, conservano la rarissima attestazione di una coppia di emisferi a 11 se-gni zodiacali, raffiguranti quindi anch’essi, come il planisfero, un cielo ancora prettamente ellenistico: l’emisfero invernale appare privo della costellazione della Bilancia, mentre quello estivo non include la Chio-ma di Berenice34 (fig. 30). La presenza di una coppia di emisferi nel Germanico di Aberystwyth rappresenta un ulteriore indizio della vici-nanza di questo codice alla tradizione illustrativa dell’Aratus Latinus: queste carte celesti sono infatti caratteristiche, come si è accennato, dei manoscritti della recensio interpolata. A tale tradizione rimanda anche l’immagine del globo celeste, di dimensioni monumentali, montato su un supporto a colonnette, visibile allo stato di abbozzo nella parte in-feriore del f. 4r, sotto la raffigurazione dell’emisfero invernale35. Nei codici della recensio interpolata, tuttavia, i due emisferi sono sempre aggiornati alle conoscenze scientifiche di epoca imperiale: essi conten-

33 Santoni 2009, pp. 53-55 sull’antichità del cielo raffigurato in questo planisfero, in cui sono riconoscibili caratteri eratostenici. Dekker 2013, pp. 142-145, 165 (sulla precisione cartografica di questo documento), 171-173; pp. 227-228, cat. n. P1.

34 Dekker 2013, pp. 118-120, 139-140; pp. 207-209, cat. n. H1.35 Non mi sembra invece riconducibile a un modello antico la coppia di personaggi

sulla sinistra, che al contrario del globo risultano accuratamente rifiniti nei minimi dettagli: vi è raffigurato un astronomo (Arato?), nell’atto di far girare il globo celeste, incoronato da una personificazione femminile, forse identificabile come l’Astronomia. La scena è assente da tutta la tradizione aratea, e ha del resto un sapore tipicamente medievale.

133 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

gono infatti l’indicazione dei circoli astronomici e delle case zodiacali, ma soprattutto includono le due costellazioni di più recente introdu-zione. La Bilancia e la Chioma di Berenice sono sempre presenti, a par-tire dal codice sangermanense (Paris, Bibliothèque Nationale de Fran-ce, Latin 1295736 – fig. 31), considerato da Le Bourdellès il più vicino all’archetipo, sia dal punto di vista testuale che per quanto riguarda l’apparato illustrativo37; e così avviene anche nei pochissimi testimo-ni greci conservati, tra i quali appunto il nostro Vat. gr. 108738. Mi pare quindi obbligatorio concludere che nell’archetipo della tradizione dell’Aratus Latinus, ovvero il codice greco del corpus arateo tradotto in latino nell’VIII secolo nel monastero di Corbie, gli emisferi raffigu-rassero un cielo di epoca imperiale, comprendente tutti i 12 segni zo-diacali e la Chioma di Berenice. La presenza nel codice di Aberystwyth di una coppia di emisferi ellenistici rappresenta quindi un notevole ostacolo alla ricostruzione recentemente proposta da Blume: lungi dal rimandare al medesimo archetipo dell’Aratus Latinus, infatti, queste carte celesti dimostrano, al contrario, la presenza in Occidente, a ca-vallo tra X e XI secolo, di materiali figurativi di origine assai antica, de-rivati sicuramente da un ramo della tradizione aratea diverso da quello a cui apparteneva il codice tradotto a Corbie.

Il codice di Aberystwyth presenta però anche altre carte celesti di particolare interesse, che testimoniano un eccezionale livello di riela-borazione delle conoscenze scientifiche da parte dello scriptorium di produzione. Al f. 4v è tracciato uno schema del moto dei pianeti, che rappresenta (come ha dimostrato Bruce Eastwood39) un tentativo di conciliazione fra la teoria planetaria neoplatonica, esposta nel II libro del commento di Macrobio al Somnium Scipionis, e quella descritta

36 Cfr. da ultimi Blume, Haffner, Metzger 2012, pp. 76-77 e 442-448, cat. n. 47.37 Sull’iconografia della Chioma di Berenice in forma di foglia d’edera, di ascenden-

za tolemaica, si veda da ultima Dekker 2013, pp. 140-141.38 Alla stessa tipologia appartiene anche l’unica altra attestazione di queste carte

celesti in ambito greco, vale a dire i due emisferi che compaiono all’inizio del codice Vat. gr. 1291 (ff. 2v e 4v), un esemplare delle Tavole astronomiche facili di Tolomeo realizzato nella prima metà del IX secolo; i primi fogli del codice, comprendenti i due emisferi, sono probabilmente da considerarsi un’aggiunta di poco posteriore. Su que-sto manoscritto e le sue illustrazioni cfr. almeno Spatharakis 1978; Wright 1985; Tihon 1992, in part. pp. 61-64; Tihon 2011, pp. 34-40; Dekker 2013, pp. 120, 129-134, 141-142; pp. 225-227, cat. n. H11.

39 Eastwood 1981.

134 Fabio Guidetti

da Marziano Capella nell’VIII libro del De nuptiis: il nostro codice ci fornisce anzi una delle più antiche attestazioni grafiche di tale modello, elaborato a partire dal IX secolo e largamente diffuso soprattutto tra l’XI e il XII. Al f. 5r si trova invece di nuovo una coppia di emisferi con 11 segni zodiacali, analoga a quella dei ff. 3v-4r, accompagnata da alcuni esametri riguardanti le zone astronomiche e i circoli celesti40. Questa seconda coppia di emisferi si differenzia però dalla precedente per due ragioni. La prima riguarda la costruzione astronomica di tali carte; in esse infatti, come ha recentemente riconosciuto Elly Dekker41, la costellazione dell’Ariete appare divisa tra i due emisferi: la testa e le zampe anteriori sono visibili in quello invernale, mentre le zampe posteriori e la coda sono raffigurate in quello estivo. In tutti gli altri emisferi conservati (compresi quelli ai ff. 3v-4r dello stesso codice di Aberystwyth), l’Ariete è invece sempre contenuto interamente nell’e-misfero estivo. La costellazione dell’Ariete è particolarmente impor-tante nella cartografia astronomica, perché si pone in relazione con la data dell’equinozio di primavera: da questo punto di vista, gli emisferi al f. 5r del codice di Aberystwyth raffigurano un cielo in cui il coluro equinoziale (vale a dire la linea immaginaria che segna la divisione tra il cielo estivo e quello invernale) passa proprio attraverso la costella-zione dell’Ariete. Questa posizione della costellazione è in accordo con le concezioni astronomiche esposte da Eudosso e da Arato, ed è in ogni caso precedente alla scoperta della precessione degli equinozi, avvenu-ta grazie a Ipparco di Nicea nella seconda metà del II secolo a.C.: la se-conda coppia di emisferi del codice di Aberystwyth rappresenta quindi l’unica testimonianza completa di una carta celeste antichissima, pres-soché contemporanea alla redazione dei Fenomeni42. La seconda par-

40 Dekker 2013, pp. 118-120, 139; pp. 209-210, cat. n. H2. 41 Dekker 2013, pp. 134 e 138-139.42 Questa antichissima tradizione sembra aver lasciato anche un’altra traccia, pur-

troppo oggi molto difficile da decodificare perché decontestualizzata: un manoscritto lombardo del secolo XI o XII (Monza, Biblioteca Capitolare, cod. b-24/163), contenen-te il commento di Boezio ai Topica di Cicerone, ripropone in coda al codice (f. 66r), senza alcuna relazione con il testo che lo precede, il solo emisfero invernale. Sul codice monzese cfr. almeno McGurk 1966, p. 52; Mancinelli 1969, pp. 150-151 (prima metà del secolo XII, origine monzese); Belloni, Ferrari 1974, p. 39 (secolo XI, ori-gine italiana). Sulla carta celeste che chiude il codice cfr. ora Dekker 2013, pp. 120-121, 127-128, 130, 134, 139; pp. 212-213, cat. n. H4. Come nota la studiosa, l’emisfero contenuto nel codice monzese doveva essere in origine parte di una coppia di emisferi

135 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

ticolarità di questa coppia di emisferi consiste invece nella resa delle figure delle costellazioni: queste ultime, infatti, non sono qui disegnate nei particolari, ma semplicemente tratteggiate come silhouettes. Que-sto stile compendiario rappresenta una rinuncia all’aspetto più pro-priamente artistico nella resa delle immagini celesti, ed è quindi da interpretare come indizio di una preminenza dell’interesse scientifico a scapito di quello estetico43. Ancora più esplicita a questo riguardo è l’immagine che si trova al f. 25r, l’ultimo della prima parte del codice. Qui, subito dopo l’explicit del testo di Germanico, si trova infatti un planisfero a 12 segni, raffigurato in forma schematica: le costellazioni non sono state rappresentate, nemmeno come semplici silhouettes; il disegnatore ha tracciato soltanto i circoli astronomici e la fascia zodia-cale, e su questa intelaiatura ha inserito nelle sedi appropriate i nomi delle costellazioni44. Chi disegnò questo planisfero non ha mostrato dunque alcun interesse per l’aspetto artistico delle raffigurazioni: ciò che importava era soltanto che fosse immediatamente riconoscibile il posto occupato da ciascuna costellazione sulla volta celeste. La pre-senza di un planisfero a 12 segni, aggiornato dunque alle conoscenze

ellenistici, caratterizzati da una grande accuratezza nella costruzione cartografica, da uno zodiaco con soli 11 segni e dal coluro equinoziale passante per la costellazione dell’Ariete: si tratta dunque, come nel caso della seconda coppia di emisferi del codice di Aberystwyth, del discendente di una carta molto antica, derivante da un archetipo realizzato entro la metà del II sec. a.C.

43 Alla stessa conclusione induce anche il tipo innovativo di proiezione qui utilizza-to. L’emisfero estivo che compare al f. 5r presenta infatti una particolarità mai attestata altrove, almeno a mia conoscenza, in tutta la tradizione aratea. Esso adotta una proie-zione speculare rispetto a quella normalmente utilizzata per la realizzazione degli emi-sferi (e seguita anche in questo codice al f. 3v): mentre l’emisfero invernale resta raffi-gurato, come di consueto, da un punto di vista esterno, l’emisfero estivo è visto invece da un punto di vista interno. Non sono in grado di fornire una spiegazione per questa particolarità, che potrebbe essere interpretata come un banale errore, oppure come la sopravvivenza (o la sperimentazione da parte del disegnatore) di un metodo alternati-vo di proiezione: il livello molto approfondito di conoscenze astronomiche dimostrato dall’estensore del codice farebbe però escludere la prima ipotesi. Cfr. Dekker 2013, p. 138, che sottolinea il «peculiar arrangement» di questa coppia di emisferi: secondo la studiosa, anche gli emisferi del codice di Monza in origine dovevano presentare questa particolarità, il che farebbe propendere per l’ipotesi che vi intravede la sopravvivenza di un tipo antichissimo di proiezione.

44 Dekker 2013, pp. 171-172.

136 Fabio Guidetti

scientifiche di epoca imperiale, e con indicazione della fascia zodiacale è caratteristica della famiglia Z dei codici di Germanico. Una parentela tra il planisfero che chiudeva il codice di Aberystwyth e quelli della famiglia Z è però da escludere: nel nostro codice, infatti, lo schema è tracciato sul modello dei più antichi planisferi a 11 segni, di cui ripro-pone il punto di vista esterno, e non dipende pertanto dai planisferi della famiglia Z, che sono costruiti invece secondo un punto di vista interno45. Anche il secondo planisfero del codice di Aberystwyth, per il quale non è attestato alcun confronto, deve quindi essere considerato una rielaborazione originale, realizzata da uno scriptorium in grado di produrre nuove carte celesti da affiancare a quelle già disponibili ma scientificamente non aggiornate.

Le carte celesti che compaiono nel Germanico di Aberystwyth fanno di questo codice un unicum all’interno della tradizione aratea, alme-no allo stato attuale delle testimonianze conservate. Le due coppie di emisferi ellenistici rappresentano la sopravvivenza di una tradizione antichissima e altrove praticamente non attestata, mentre il modello del moto dei pianeti e le raffigurazioni schematiche dei due emisferi con le silhouettes e del secondo planisfero sono invece indizio di una

45 Vale la pena ricordare che le carte celesti costruite secondo un punto di vista esterno sono caratteristiche della tradizione astronomica greca e sono coerenti con le indicazioni fornite nei loro testi da Arato e da Eratostene; in questo modello, la carta del cielo rappresenta la proiezione in piano di un globo celeste: la sfera, quindi, appare vista dall’alto e dall’esterno. Le traduzioni latine del corpus arateo conservano in genere queste indicazioni astronomiche e, di conseguenza, anche le carte originali. Le carte celesti costruite secondo un punto di vista interno sono invece molto più rare, e nella tradizione aratea si trovano solo nella famiglia Z dei codici di Germanico; esse rappre-sentano la proiezione in piano del cielo quale appare all’osservazione diretta da terra: la volta celeste, pertanto, appare vista dal basso e dall’interno. Queste carte corrispondono al modo di osservare il cielo caratteristico della tradizione romana, e sono coerenti con le indicazioni astronomiche fornite per esempio da Igino: le descrizioni delle costel-lazioni in questo autore sono infatti speculari a quelle fornite da Eratostene, che pure rappresenta la fonte principale del De astronomia. La differenza tra i due modi di dise-gnare la volta celeste emerge con evidenza nelle immagini delle costellazioni: in questo caso, infatti, le illustrazioni degli Aratea latini adottano generalmente un punto di vista interno, riproducendo le costellazioni quali appaiono all’osservazione diretta, ed en-trando quindi spesso in contraddizione con i testi di origine greca che le accompagna-no; vedremo tra poco un esempio di questa specularità, analizzando l’immagine della Vergine. Su questo problema cfr. Bakhouche 1997 e, da ultima, Dekker 2013, p. 163.

137 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

riflessione scientifica autonoma, certamente all’avanguardia per lo stato degli studi astronomici nell’Europa occidentale intorno all’anno Mille. La concomitanza di questi due fattori permette di istituire un parallelo fra il codice di Aberystwyth e il Vat. gr. 1087: entrambi opera di una personalità di altissimo livello intellettuale e scientifico, i due codici attestano sia la disponibilità di materiali figurativi molto antichi e di grande valore artistico, sia l’autonoma rielaborazione delle cono-scenze acquisite. Tuttavia, il diverso utilizzo di questi materiali ci fa in-tuire chiaramente la differenza tra i due manoscritti e tra gli ambienti culturali che li hanno prodotti. Nella Francia dell’anno Mille, i testi e le illustrazioni del corpus arateo rappresentano una cultura scientifica ancora vitale, sulla quale lo studioso può e deve intervenire per mo-dificarla e per aggiornarla; del resto, non si può dire che il Medioevo latino avesse fatto veri progressi in questo campo: anche le carte cele-sti più aggiornate, frutto di rielaborazione autonoma, raffigurano un cielo sostanzialmente identico a quello tolemaico, riletto attraverso i compendi tardoantichi di Macrobio e di Marziano Capella. L’atteggia-mento di Niceforo Gregora e del suo scriptorium è invece totalmen-te diverso: il grande astronomo bizantino si rivolge infatti ai prodotti della riflessione scientifica greco-romana con il gusto appassionato di un antiquario, che preserva come documento storico e artistico una rappresentazione del cielo ormai irrimediabilmente superata, dal pun-to di vista scientifico, dalla recente evoluzione tecnologica avvenuta soprattutto in ambiente arabo e persiano.

4. Le iconografie delle costellazioni: tre rami di una stessa tradizione

Le analogie su cui mi sono soffermato dimostrano quindi l’esisten-za di tre nuclei di materiali iconografici di ambito arateo, distinti ma strettamente collegati tra loro:

1) il codice Vat. gr. 1087, le cui illustrazioni derivano, con ogni pro-babilità, direttamente da un modello tardoantico;

2) gli 11 testimoni illustrati della recensio interpolata dell’Aratus La­tinus, riconducibili tutti al medesimo archetipo, identificabile con un codice tardoantico del corpus arateo, redatto in lingua greca, attestato nel monastero di Corbie nell’VIII secolo;

3) il Germanico di Aberystwyth e i 15 codici illustrati del De signis coeli, appartenenti a un’unica tradizione iconografica, anch’essa deri-

138 Fabio Guidetti

vata da un modello molto antico, ma che si discosta in diversi punti da quella della recensio interpolata.

Le forti analogie fra questi tre nuclei inducono comunque a formu-lare l’ipotesi che tutti questi apparati iconografici discendano da un’u-nica tradizione comune. Dal punto di vista scientifico tale tradizione si presenta abbastanza incoerente, dal momento che mescola materiali elaborati in fasi diverse degli studi astronomici antichi: alcune carte celesti sono riconducibili alla prima età ellenistica e raffigurano un cielo non dissimile da quello di Arato e di Eratostene, mentre altre testimoniano uno stadio più moderno dell’evoluzione della scienza astronomica, raggiunto solo nella media età imperiale; evidentemen-te, chi radunò tutto questo materiale non era interessato più di tanto all’accuratezza scientifica del corpus, ma ne privilegiava piuttosto il va-lore estetico, enfatizzato anche dall’abbondanza stessa del corredo ico-nografico. Dal punto di vista storico-artistico, al contrario, l’insieme appare molto coerente: la maggior parte delle iconografie si data infatti con relativa facilità in epoca tardoromana, più precisamente tra i de-cenni centrali e quelli finali del IV secolo. Il Vat. gr. 1087 è sicuramente il codice stilisticamente più fedele al modello antico, mentre i mano-scritti latini se ne discostano fortemente dal punto di vista stilistico e a volte anche da quello iconografico, in seguito a incomprensioni o a scarti consapevoli. Ciò costituisce un’ulteriore testimonianza della di-versità di approccio al materiale arateo riscontrabile nel codice vatica-no rispetto ai suoi omologhi latini: l’interesse prima di tutto artistico e antiquario del disegnatore di Chora lo induce a riproporre, con ottimi risultati, l’iconografia e lo stile tardoantichi; gli illustratori dei codici latini, al contrario, non percependo una cesura rispetto al modello, si appropriano delle sue iconografie, le declinano secondo il proprio sti-le, le modificano, ove necessario, per renderle più coerenti con il testo che accompagnano. Nelle pagine che seguono metterò a confronto le immagini di alcune costellazioni contenute nel codice Vat. gr. 1087 con quelle attestate nei manoscritti della recensio interpolata e nella tradizione del De signis coeli; per queste due opere prenderò in con-siderazione due manoscritti realizzati rispettivamente nella seconda metà del IX e nella prima metà del X secolo, considerati dagli studiosi i testimoni più fedeli ai modelli antichi: il codice sangermanense (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Latin 12957) per la recensio interpo­lata dell’Aratus Latinus, l’enciclopedia computistica di Fleury (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Latin 5543) per il De signis coeli. Quattro casi di studio, scelti tra le illustrazioni iconograficamente più

139 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

significative, basteranno per rendersi conto della discendenza di que-sta tradizione da modelli tardoantichi, della sua articolazione in diver-si rami tra loro strettamente interconnessi, nonché della diversità dei metodi di lavoro utilizzati dal disegnatore di Chora e dai suoi colleghi occidentali.

4.1. CoronaUna delle prove più lampanti della derivazione del codice Vat. gr.

1087 da un modello tardoantico è offerta dall’immagine della Corona Boreale: tale costellazione è raffigurata al f. 305v nella forma di una corona d’alloro, tenuta insieme da un nastro, le cui estremità ricadono libere in basso, e ornata di 11 gemme, alternativamente rettangolari e ovali, intervallate da coppie di perle (fig. 32); questa tipologia di corona gemmata è identica al diadema utilizzato come insegna ufficiale dagli imperatori romani del IV secolo e trova confronti puntuali nella ritrat-tistica imperiale a partire dalla tarda età costantiniana, come mostra in modo eloquente la monetazione della zecca di Costantinopoli (fig. 33). Il medesimo oggetto, per quanto in alcuni casi parzialmente modifica-to, è ben riconoscibile anche nei manoscritti latini di tradizione aratea. La Corona raffigurata nei codici della recensio interpolata dell’Aratus Latinus ha perso le foglie d’alloro, e con esse la continuità della forma circolare: restano invece indicate le singole gemme, disposte a formare un cerchio, ed è ancora visibile anche il nodo che legava le due estremi-tà della ghirlanda46 (fig. 34). I manoscritti del De signis coeli conservano invece la forma circolare dell’oggetto, sul quale è indicata a intervalli regolari la presenza delle gemme: dal nodo che tiene unita la ghirlanda scendono libere, a destra e a sinistra, le estremità del nastro (fig. 35); alla medesima tradizione appartiene anche l’immagine della Corona al f. 14r del Germanico di Aberystwyth. Già da questo primo esempio si può notare chiaramente come la versione testimoniata dal De signis coeli si caratterizzi per una maggiore aderenza al modello antico ri-spetto a quella presente nei manoscritti della recensio interpolata. Tale maggiore fedeltà si accompagna anche ad un più alto grado di accura-

46 Fanno eccezione, rispetto a questa evoluzione iconografica, due manoscritti della recensio interpolata (Göttweig, Stiftsbibliothek, ms. 7 e il frammento conservato a Sie-na, Biblioteca comunale degli Intronati, L.IV.25), copie trecentesche di un medesimo codice di lusso carolingio oggi perduto: qui la Corona è raffigurata come una ghirlanda vegetale sulla quale sono collocate, in modo più o meno arbitrario, sette gemme ovali, oltre a una gemma rettangolare che prende il posto del nodo di chiusura.

140 Fabio Guidetti

tezza scientifica, non solo nel panorama degli Aratea latini ma anche rispetto al Vat. gr. 1087; ciò non deve stupire, dal momento che il De signis coeli è prima di tutto un catalogo stellare: è quindi naturale che le sue illustrazioni presentino, nella maggior parte dei casi, la corretta astrotesia delle singole costellazioni. In questo ramo della tradizione, per esempio, la Corona è generalmente raffigurata con nove gemme, corrispondenti alle nove stelle indicate nel testo corrispondente, men-tre nei codici della recensio interpolata e anche nel Vat. gr. 1087 il nu-mero delle gemme è variabile e rispecchia criteri artistici piuttosto che scientifici. Non credo però che la minore correttezza astronomica di questi codici sia da imputare solo ai rispettivi disegnatori: tale incoe-renza nella resa dell’astrotesia è infatti riscontrabile anche in un mano-scritto come il Vat. gr. 1087, senz’altro molto vicino al modello antico; pertanto già in quest’ultimo, verosimilmente, l’interesse per il valore artistico delle figure doveva prevalere sulla loro accuratezza scientifica. Si può ipotizzare, invece, che le immagini del De signis coeli dipendano da un archetipo diverso, il cui illustratore aveva saputo coniugare l’ec-cellente qualità artistica con una grande attenzione per la precisione astronomica.

4.2. BootesLa figura di Boote è resa dal disegnatore del Vat. gr. 1087, al f. 306r,

secondo una perfetta iconografia antica (fig. 36). Il personaggio, iden-tificato dai mitografi con l’eroe Arcade in atto di inseguire la madre Callisto tramutata in orsa, è coerentemente raffigurato nel costume ti-pico del cacciatore: è vestito con una exomis, la tunica corta che lascia una spalla scoperta, calza un paio di stivali e tiene nella mano destra il lagobolon, lo strumento uncinato utilizzato per la caccia alla lepre; l’eroe è colto di spalle, nel momento in cui sta per scagliare l’arma per catturare la sua preda, con il braccio sinistro levato per ottenere un miglior bilanciamento. Questa iconografia, diffusa per tutto il periodo ellenistico e imperiale, è riproposta anche nella miniatura mediobizan-tina: un confronto particolarmente calzante è costituito da un’analoga figura di cacciatore, dipinta al f. 48r del famoso codice parigino di Ni-candro, databile al X secolo (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Supplément grec 247 – fig. 37). La stessa immagine è riproposta anche nella tradizione aratea occidentale, ma in una variante più drammatica ed espressiva, che contrasta nettamente con la posa elegante della figu-ra del codice vaticano; nei manoscritti latini, inoltre, Boote è raffigura-to a piedi nudi e si fa scudo con una pelle di animale avvolta intorno al braccio sinistro, assente nella versione costantinopolitana. Così si pre-

141 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

senta l’immagine della costellazione nel codice floriacense del De signis coeli (fig. 38), nonché nel Germanico di Aberystwyth (f. 15r). Diversa è invece la tradizione della recensio interpolata dell’Aratus Latinus: qui infatti l’eroe ha perso tutta la parte superiore della veste al di sopra del-la cintura, tanto che l’exomis è sostituita da una sorta di perizoma che lascia il torso scoperto; la pelle di animale invece si è dilatata, al punto da coprire tutto il braccio sinistro fino alla spalla47 (fig. 39). Anche in questo caso possiamo quindi riconoscere nei codici del De signis coeli una maggiore aderenza al modello antico, rispetto al quale le illustra-zioni della recensio interpolata presentano maggiori libertà, se non veri e propri travisamenti.

4.3. VirgoUn’altra costellazione che presenta in questi codici un’iconografia

caratteristica è quella della Vergine. La versione del Vat. gr. 1087 ci restituisce, al f. 307r, un modello pittorico tardoromano di straordina-ria qualità (fig. 40): la figura di giovane donna alata, vestita all’antica, che tiene nella destra una bilancia e nella sinistra una spiga di gra-no, si identifica perfettamente con la personificazione della Giustizia, garante della civile convivenza del consorzio umano e divinità della fruttifera età dell’oro, così come la troviamo descritta nel poema di Arato (vv. 96-136). Dal punto di vista dello stile, si è già posto l’ac-cento sulle notevoli somiglianze tra la figura della Vergine e gli angeli affrescati nella cupola del parecclesion di Chora, per quanto riguarda sia il trattamento delle vesti, sia soprattutto quello dell’acconciatura. Se analizzato invece sotto l’aspetto più specificamente antiquario, l’abbi-gliamento della Vergine, vestita con un chitone senza maniche ferma-to da due cinture (una sui fianchi e l’altra sotto i seni) e con le armille a ornare le braccia nude, corrisponde esattamente a quello di moltissimi personaggi femminili ideali del IV secolo, diffusi in particolare nell’ar-te tardocostantiniana: tra gli innumerevoli confronti possiamo citare, exempli gratia, la figura dell’Autunno dai mosaici di una villa di Dafne, presso Antiochia, databili nel secondo venticinquennio del IV secolo48 (fig. 41), o le immagini delle figlie di Licomede nel cosiddetto ‘piatto

47 Ciò causerà una serie di incomprensioni in alcuni codici recenziori, i cui illustra-tori interpreteranno il braccio, interamente coperto dalla pelle ferina, come un’ala.

48 Paris, Musée du Louvre, Département des Antiquités grecques, étrusques et ro-maines: Art chrétien et byzantin, inv. Ma 3444. Levi 1947, pp. 226-257; Cimok 2000, pp. 201-221.

142 Fabio Guidetti

di Achille’ del tesoro di Kaiseraugst, magnifica opera di oreficeria do-nata con ogni probabilità dall’imperatore Costante a un alto ufficiale dell’esercito in occasione dei festeggiamenti per i decennali del regno, nell’anno 34349 (fig. 42).

Nella resa della figura della Vergine, la tradizione latina si presenta bipartita ancora più nettamente che nei casi precedenti. Le illustrazio-ni che troviamo nei codici del De signis coeli sembrano dipendere da un modello molto simile a quello del Vat. gr. 1087 e conservano non solo le caratteristiche iconografiche del personaggio mitologico (le ali, l’abbigliamento all’antica, gli attributi della spiga e della bilancia), ma anche il forte senso di movimento della figura in volo e la visione di tre quarti che dovevano caratterizzare l’originale tardoromano (fig. 43); a questa iconografia si uniforma, ancora una volta, il Germani-co di Aberystwyth (f. 16r). Vi sono però alcune importanti differenze tra la versione conservataci in questi codici e quella del Vat. gr. 1087. Innanzitutto, nei manoscritti del De signis coeli la figura è speculare rispetto a quella del codice bizantino, e quindi anche i suoi attributi risultano scambiati: questa scelta, come ho accennato poco fa parlando della costruzione dei planisferi, è coerente con la prassi dell’illustra-zione astronomica romana, che raffigura la volta celeste quale appare all’osservazione diretta da terra; la tradizione iconografica degli autori ellenistici presupponeva invece l’utilizzo di un globo come supporto alla descrizione delle costellazioni, e raffigurava quindi la volta celeste da un punto di vista esterno50. In secondo luogo i disegnatori occiden-tali, trovandosi evidentemente a disagio nel rappresentare la nudità femminile, hanno sistematicamente coperto le braccia della Vergine, trasformando le spalline del chitone e le armille in altrettante fasce de-corative che ornano le spalle e le maniche della veste. I codici della re­censio interpolata, invece, adottano per questa costellazione un’icono-grafia completamente diversa, presentandoci una Vergine con i con-sueti attributi della spiga e della bilancia, ma priva di ali e interamente

49 Augst, Römermuseum, inv. 1962.1. von Gonzenbach 1984, in part. pp. 263-269; cfr. anche Szidat 2003, in part. p. 230, sulla probabile pertinenza del piatto di Achille al nucleo originario della largitio di Costante.

50 In ogni caso, il testo epitomato del De signis coeli non distingue la posizione degli attributi, e quindi non può entrare in contrasto con le illustrazioni; diversa è invece la situazione per quanto riguarda il Germanico di Aberystwyth, in cui sia il testo poetico che il commento, entrambi tradotti da originali greci, contraddicono esplicitamente l’astrotesia dell’illustrazione.

143 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

avvolta nel mantello (fig. 44). Si tratta di un’immagine evidentemente risalente a tutt’altra tradizione, che non ho qui lo spazio per indagare; mi limito quindi a rilevarne la totale estraneità rispetto a quella at-testata nei manoscritti del De signis coeli, e a far notare come questa illustrazione entri decisamente in contrasto con le informazioni date nel testo corrispondente, che contiene un chiaro riferimento alle due stelle collocate sulle ali della figura51.

4.4. AndromedaInfine, assai interessante per i numerosi spunti iconografici di natura

antiquaria è il gruppo di costellazioni raccolto intorno al mito di An-dromeda: in particolare la figura centrale della scena, grazie all’abbi-gliamento e soprattutto agli attributi che la accompagnano, ci fornisce alcuni preziosi indizi che permettono di datare la creazione del model-lo in epoca tardoantica. Il codice Vat. gr. 1087 presenta questa figura al f. 308r (fig. 45): la fanciulla, incatenata per i polsi tra due alte for-mazioni rocciose, indossa un chitone leggerissimo cinto appena sotto i seni, che lascia intravedere le forme affusolate del corpo; ai lati del torso penzolano due lembi di stoffa, che il nostro disegnatore sembra aver interpretato, in modo non del tutto soddisfacente, come le mani-che del chitone. Le braccia e i polsi di Andromeda sono ornati con la consueta coppia di armille, caratteristica dei personaggi femminili di IV secolo, di cui ho parlato poco fa a proposito dell’immagine della Vergine. Particolarmente indicativa ai fini della datazione è l’acconcia-tura, con una sorta di crocchia tenuta ferma da un nastro in cima alla testa, che ritroviamo in numerose figure femminili ideali fra i decenni centrali e la seconda metà del IV secolo: come confronto si possono citare, anche in questo caso exempli gratia, le personificazioni femmi-

51 Questa iconografia della Vergine priva di ali si ritrova anche nelle carte celesti del manoscritto di Aberystwyth, che quindi sembra in questo punto seguire una tra-dizione diversa da quella utilizzata per le immagini delle costellazioni: la presenza di tale iconografia in queste carte, che raffigurano un cielo ancora ellenistico, suggerisce in ogni caso la derivazione di questa immagine da modelli molto antichi. In tali carte inoltre, come avviene anche in molti dei codici più recenti della recensio interpolata, il mantello in cui si avvolge la Vergine risale a coprire anche il capo della fanciulla: questo particolare appare coerente con il testo del catalogo stellare, che pone l’accento sulla poca luminosità della stella posta sul capo della figura.

144 Fabio Guidetti

nili raffigurate nei mosaici della cosiddetta tomba di Mnemosine, dalla necropoli sudorientale di Antiochia52 (fig. 46).

Di grande aiuto ci sono però soprattutto gli oggetti da cui è attor-niata Andromeda: la sventurata principessa, promessa sposa al mostro marino, è stata infatti incatenata agli scogli insieme con il suo corredo nuziale. Gli oggetti di cui si compone tale corredo trovano confronti precisi negli accessori da toeletta femminile in uso nell’inoltrato IV secolo: un esempio eccezionale di questo tipo di materiali ci è offer-to dal cosiddetto tesoro dell’Esquilino, rinvenuto a Roma alla fine del Settecento, il cui nucleo originario risale appunto al corredo nuziale di una nobile fanciulla cristiana, di nome Proiecta, andata in sposa ad un certo Secondo probabilmente intorno al 38053. L’oggetto colloca-to in basso a sinistra accanto ai piedi di Andromeda, per esempio, è identificabile come una sorta di trousse per contenere trucchi, profumi e unguenti, formata da un basso corpo cilindrico sormontato da un coperchio a punta: il tesoro dell’Esquilino ci ha restituito un oggetto simile54 (fig. 47), decorato con elementi vegetali, uccelli, tralci di vite e le immagini di otto Muse; differente è però la terminazione del co-perchio, che non è a punta come nel nostro disegno, bensì piatta, in modo da accogliere entro un medaglione la nona figura femminile, interpretabile come Proiecta stessa (assimilata dunque a una Musa), seduta in atto di raccogliere frutta in un paesaggio bucolico. Sopra la trousse si trova un catino la cui superficie è solcata da linee verticali, nelle quali è probabilmente da riconoscere una decorazione a baccel-lature; questo oggetto è connesso con un altro evento tipico della sfera femminile, quello del parto: un confronto assai pertinente è il catino preparato per il primo bagno di Achille nell’omonimo piatto del te-soro di Kaiseraugst55 (fig. 48). Ancora più in alto si vede invece un oggetto dalla forma non immediatamente riconoscibile, o forse non del tutto compresa dal disegnatore, che potrebbe essere interpretato come una patera dotata di manico, analoga a quella del tesoro dell’E-squilino, decorata con un’immagine della toeletta di Venere56 (fig. 49).

52 Worcester, Ma., Worcester Art Museum, inv. 1936.26. Levi 1947, pp. 291-304; Cimok 2000, pp. 230-233; Becker, Kondoleon 2005, pp. 196-207, cat. n. 4.

53 Shelton 1981.54 London, British Museum, Department of Prehistory and Europe, inv. 1866,1229.2.

Shelton 1981, pp. 75-77, cat. n. 2; Aurea Roma 2000, pp. 495-496, cat. n. 116.55 von Gonzenbach 1984, in part. pp. 232-235.56 Paris, Petit Palais – Musée des Beaux Arts de la Ville de Paris, Antiquités des

145 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

Infine, il recipiente raffigurato in basso a destra, di forma tozzamente cilindrica e provvisto di manico, con una decorazione a onde sul cor-po, è senz’altro identificabile come una situla, utilizzata per trasportare l’acqua destinata al bagno o alla toeletta: come confronto si può citare la cosiddetta ‘secchia Doria’, realizzata in bronzo e decorata a incisio-ne con scene del mito di Achille, per la quale si attende ancora una definizione più precisa delle coordinate cronologiche e geografiche di produzione57. Di minor valore come elementi datanti sono invece gli altri oggetti visibili sulla destra della figura di Andromeda: la brocca decorata a baccellature, così come lo specchio rotondo dotato di mani-co rappresentano forme rimaste in uso, senza modifiche rilevanti, per un periodo molto lungo, dall’età ellenistica fino a quella tardoantica. I confronti qui proposti con il tesoro dell’Esquilino e con altri prodotti di oreficeria databili tra la metà del IV e i decenni iniziali del V secolo ci permettono comunque di ipotizzare una datazione per gli oggetti del corredo nuziale di Andromeda, e quindi per l’invenzione iconogra-fica del nostro disegno, intorno alla seconda metà del IV secolo.

Per quanto riguarda l’immagine di Andromeda nella tradizione oc-cidentale, si può facilmente osservare come i manoscritti del De signis coeli presentino, ancora una volta, una versione molto simile a quella del Vat. gr. 1087. Nell’illustrazione del codice floriacense (fig. 50) la figura si caratterizza per il medesimo abbigliamento all’antica, con il lungo chitone senza maniche che lascia intravedere le forme del corpo; sulle braccia scoperte sono riconoscibili le armille. I due lembi di stoffa che pendono ai lati del torso, non perfettamente compresi, come si è visto, dal disegnatore di Chora, sono in questo caso più coerentemente interpretati come le estremità di un mantello, annodato sulla vita e lasciato libero dietro le spalle; l’acconciatura è invece ridotta di volume e trasformata in una calotta abbastanza anonima di capelli corti. Sono presenti anche qui gli oggetti del corredo, analoghi a quelli del codice vaticano anche se disposti in maniera diversa: sulla sinistra si vedono il

mondes grec et romain, inv. A.Dut. 171. Shelton 1981, p. 78, cat. n. 3; Aurea Roma 2000, pp. 497-498, cat. n. 118.

57 Roma, Galleria Doria Pamphili, inv. 559. Attualmente la secchia Doria è consi-derata un’opera riconducibile ad ambiente egiziano, databile all’inizio del V secolo: Carandini 1963-1964; Aurea Roma, 2000, pp. 485-486, cat. n. 105. Per un confronto in ambito sacro si può citare la situla bronzea vaticana (Città del Vaticano, Museo Sacro, inv. 846), decorata con l’immagine di Cristo in trono fra i dodici Apostoli, su cui cfr. Burke 1930.

146 Fabio Guidetti

catino e una brocca di forma allungata, mentre a destra si trovano una brocca più piccola, lo specchio (o la patera?) e la trousse con coperchio a punta. Nei codici del De signis coeli troviamo però anche un parti-colare assente dall’immagine del Vat. gr. 1087: in questi manoscritti è infatti raffigurato anche il mostro marino, nella forma di un lungo serpente dalla testa di cane (ben riconoscibile per il muso appuntito e le lunghe orecchie) visibile sotto ai piedi di Andromeda. Questa stessa immagine ritorna, identica fin nei particolari, al f. 19v del Germanico di Aberystwyth. La recensio interpolata dell’Aratus Latinus presenta invece, anche in questo caso, una versione notevolmente semplificata rispetto agli altri due rami della tradizione (fig. 51): se infatti l’abbiglia-mento della figura, per quanto parzialmente travisato, sembra analogo a quello che abbiamo descritto nelle illustrazioni del Vat. gr. 1087 e dei codici del De signis coeli, sono invece qui del tutto assenti sia il mostro marino, sia gli oggetti del corredo nuziale. Ancora una volta, dunque, dobbiamo riscontrare la presenza, nei manoscritti di Aratea latini, di una tradizione bipartita; e, ancora una volta, i codici del De signis coeli sembrano dipendere da un modello più complesso e più fedele all’ori-ginale tardoromano rispetto a quelli della recensio interpolata.

5. Alle origini della tradizione: l’edizione tardoantica di Arato

I casi di studio che ho qui analizzato consentono, a mio parere, di proporre alcune riflessioni sui rapporti fra i tre rami della tradizio-ne iconografica e sui rispettivi archetipi, da cui hanno avuto origine i manoscritti conservati fino ai giorni nostri. Nel mondo bizantino, l’unica testimonianza sopravvissuta di un ciclo più o meno completo di illustrazioni di tradizione aratea è rappresentata dal Vat. gr. 108758, che deriva con ogni probabilità direttamente da un codice di lusso tardoantico, realizzato fra la tarda età costantiniana e la fine del IV secolo; di quest’ultimo non è possibile stabilire con sicurezza il centro

58 A completare il quadro delle testimonianze di illustrazioni aratee in ambito bi-zantino vanno aggiunti i due emisferi collocati in apertura del codice Vat. gr. 1291; questi due emisferi presentano numerose differenze rispetto a quelli contenuti nel Vat. gr. 1087, e devono dunque con ogni probabilità essere derivati da un diverso antigrafo. Si veda ora in particolare Dekker 2013, p. 141, che dimostra come gli emisferi del Vat. gr. 1087, pur essendo recenziori, siano molto più corretti dal punto di vista astronomi-co rispetto a quelli del Vat. gr. 1291.

147 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

di produzione: un’attribuzione ad ambiente alessandrino, ipotizzabile sulla scorta dell’identificazione come Nilo dell’immagine del Fiume59, è certamente suggestiva, ma non è purtroppo in alcun modo verifica-bile data la mancanza di confronti. In ogni caso, tale antigrafo dovette approdare ben presto a Costantinopoli, dove venne infine riscoperto all’epoca di Niceforo Gregora.

È invece estremamente improbabile che l’antigrafo del Vat. gr. 1087 possa aver giocato un ruolo nella tradizione iconografica occidentale, nel cui ambito devono invece essere stati attivi almeno altri due esem-plari della stessa edizione. In Occidente si riscontra infatti la presenza contemporanea di due serie iconografiche, entrambe riconducibili a modelli tardoantichi, e tuttavia in molti casi assai diverse tra loro: da un lato la tradizione figurativa del De signis coeli, a cui vanno ricondot-te anche le illustrazioni del Germanico di Aberystwyth, dall’altro quel-la della recensio interpolata dell’Aratus Latinus. Per quanto riguarda i rapporti fra i rispettivi testi, Antonio Dell’Era ha ricondotto il catalogo stellare del De signis coeli entro la stessa tradizione dell’Aratus Latinus, interpretandolo come una sorta di prodotto intermedio fra la prima traduzione di Corbie e la recensio interpolata di età carolingia; dal pun-to di vista iconografico, al contrario, ritengo di poter affermare con sicurezza che le immagini del De signis coeli non possono dipendere dallo stesso archetipo che diede origine alla tradizione figurativa del-la recensio interpolata: è quindi necessario ipotizzare l’esistenza, nella Francia carolingia, di due codici tardoantichi del corpus arateo, ciascu-no dei quali diede origine a uno dei due rami della tradizione illustrati-va occidentale. Uno di questi due codici potrà ragionevolmente essere identificato con l’esemplare greco attestato nel monastero di Corbie, sul quale venne effettuato il primo tentativo di traduzione dell’Aratus Latinus: in questo codice andrà probabilmente riconosciuto l’archeti-po della recensio interpolata, oltre che per la parte testuale, anche per quanto riguarda le illustrazioni. Tra questo archetipo greco e i testimo-ni conservati della recensio interpolata andrà in ogni caso ipotizzato almeno un passaggio intermedio: come ha mostrato Le Bourdellès60, infatti, la revisione della traduzione non avvenne direttamente sull’o-riginale greco, bensì sulla prima versione latina, che già era probabil-mente stata illustrata; a questo punto, possiamo ritenere che anche le

59 Sull’immagine del Fiume nel Vat. gr. 1087 (f. 307r) si veda il contributo di Anna Santoni in questo volume.

60 Si veda lo stemma proposto da Le Bourdellès 1985, p. 60.

148 Fabio Guidetti

immagini della recensio interpolata non siano state copiate diretta-mente da quelle del modello tardoantico, bensì dalle copie di queste ultime, inserite nella prima versione della traduzione. Questo passag-gio intermedio può rendere ragione di alcune ingenuità iconografiche, e in generale della maggiore distanza delle illustrazioni di questo ramo della tradizione rispetto al modello antico61: è probabile, del resto, che anche l’apparato illustrativo dell’Aratus Latinus primitivo non fosse immune da difficoltà interpretative o da incomprensioni analoghe a quelle che ne caratterizzavano la parte testuale.

Non disponiamo invece di molte informazioni riguardo all’altro ar-chetipo, quello che diede origine alla serie di illustrazioni attestata dal De signis coeli e dal Germanico di Aberystwyth: sembra però assai pro-babile, in questo caso, una derivazione più diretta degli esemplari con-servati dal modello tardoantico, che si traduce in una maggiore coe-renza iconografica e stilistica delle immagini. Si può inoltre ipotizzare, in base a un principio di economia, che le illustrazioni del codice di Aberystwyth (a parte le carte celesti di nuova ideazione, su cui mi sono soffermato) derivino tutte da un unico modello; quanto si è osservato a proposito della serie delle costellazioni, infatti, è valido anche per i due emisferi e la triade di immagini introduttive, attestati soltanto dal codice di Aberystwyth: anche queste illustrazioni non sono riconduci-bili alla tradizione della recensio interpolata, anzi rispetto a quest’ulti-ma mostrano una maggiore aderenza a modelli antichi (in molti casi addirittura ellenistici) e una maggiore vicinanza ai disegni del Vat. gr. 1087. A questo punto, mi sembra possibile ipotizzare che il Germanico di Aberystwyth riprenda il suo apparato illustrativo non da un codice del De signis coeli, bensì da un modello più antico (non sappiamo se in lingua greca o latina), identificabile con lo stesso esemplare del corpus arateo al quale attinsero anche gli illustratori del catalogo stellare. Il Germanico di Aberystwyth ci restituirebbe quindi una versione più estesa della stessa serie iconografica a cui appartengono i codici del De

61 Oltre a riprodurre le immagini della serie delle costellazioni in modo meno ac-curato rispetto a quanto si riscontra negli altri due rami della tradizione, i manoscritti della recensio interpolata presentano anche numerosi errori nelle carte celesti, come ha riconosciuto Elly Dekker, per quanto riguarda sia la costruzione cartografica (Dekker 2013, pp. 128-130), sia il posizionamento delle singole costellazioni nella volta celeste (ibid., pp. 134-135); la conclusione della studiosa è che «all six maps [scil. le carte celesti conservate nei manoscritti della recensio interpolata] derive from one and the same original that itself was already corrupt» (ivi).

149 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

signis coeli: pur avendo perduto gran parte delle costellazioni a causa di una vasta lacuna, infatti, questo manoscritto ha conservato quasi tut-te le illustrazioni introduttive presenti nel modello antico, che invece sono state eliminate, in quanto superflue, nei codici che contengono solo il catalogo stellare.

In ogni caso, gli archetipi dei tre diversi rami della tradizione ico-nografica presentavano tutti un contenuto analogo, e devono essere identificati come altrettanti esemplari dell’edizione tardoantica del corpus arateo. Si deve, come è noto, a Jean Martin62 la ricostruzione di un’edizione commentata di Arato, realizzata in epoca imperiale, che conteneva, oltre al poema, numerosi elementi accessori: un’in-troduzione astronomica e una biografica, collocate prima dell’inizio del testo; materiali di commento riguardanti l’eziologia e l’astrotesia delle singole costellazioni, tratti in gran parte dall’opera astronomica di Eratostene, che inframmezzavano il testo poetico; e un consistente apparato iconografico, che tra breve cercherò di ricostruire più nel det-taglio. Martin data questa edizione, che identifica con la lettera greca Φ, al II o III secolo d.C. Il limite cronologico più antico è fornito dall’o-pera di Igino, che conosceva ancora il trattato astronomico di Erato-stene in forma indipendente63; quello più recente è invece il terminus ante quem per la redazione degli scoli a Germanico, che vengono citati da Lattanzio all’inizio del IV secolo: di tale edizione doveva esistere quindi, almeno a partire da quest’epoca, anche una versione latina, che utilizzava appunto per il testo poetico la traduzione di Germanico. La versione latina di Φ è sopravvissuta nei codici di questo autore, che conservano sovente, oltre al poema, la traduzione latina dei materiali di commento alessandrini e un nutrito nucleo di illustrazioni. Della versione greca restano invece pochissimi frammenti originali, tra cui gli estratti eratostenici e l’apparato iconografico conservati nel codi-ce Vat. gr. 1087; dalla versione greca deriva però senza dubbio anche la tradizione dell’Aratus Latinus, che ripropone in traduzione latina

62 Martin 1956, pp. 35-126.63 Martin data l’opera di Igino al II secolo, negando quindi la paternità del De astro­

nomia a Gaio Giulio Igino, liberto e bibliotecario dell’imperatore Augusto. Non è que-sta la sede per una disamina dell’argomento, sul quale rimando almeno alle prese di posizione degli editori del testo, generalmente inclini a collocarlo in età augustea: Le Bœuffle 1965, in part. pp. 286-294; Le Bœuffle 1983, pp. xxxi-xliii; Viré 1992, pp. iii-v; la tesi contraria è sostenuta invece da Mascoli 2002, che propende piuttosto per una datazione al II secolo.

150 Fabio Guidetti

il testo poetico (poi eliminato nella recensio interpolata) e i materiali di commento, e che conserva buona parte delle illustrazioni originali.

È possibile estendere il lavoro di ricostruzione filologica, condotto da Martin sui testi della tradizione aratea, anche ai materiali icono-grafici, in modo da ricomporre a grandi linee l’apparato illustrativo dell’edizione Φ, o almeno dei tre esemplari di essa di cui ci restano i discendenti64. Nella tabella qui di seguito sono messe a confronto le il-lustrazioni contenute nei diversi filoni della tradizione: il Vat. gr. 1087, unico testimone derivato dall’esemplare costantinopolitano; i codici della recensio interpolata dell’Aratus Latinus, che ci conservano gran parte dell’apparato illustrativo del manoscritto greco di Corbie; e il Germanico di Aberystwyth, il codice più ricco di materiali figurativi all’interno della tradizione del De signis coeli.

sezioni illustrazioni Vat. gr. 1087

recensio interpolata

Aberystwyth 735C

I. carte celesti introduttive

coppia di emisferi X X X

globo celeste X X

II. illustrazioni proemiali

planisfero X XArato e la Musa XGiove sull’aquila X X

III. serie delle costellazioni X X XIV. circoli celesti

galassia X X Xzodiaco X X

V. segni celesti

Luna XSole Xasini e mangiatoia X

Risulta evidente dalla tabella che il Vat. gr. 1087 è il codice che ci ha conservato nella forma più completa il materiale figurativo dell’edi-zione tardoantica di Arato: in esso sono infatti presenti illustrazioni riferibili a tutte le sezioni del corpus arateo. Possiamo quindi ipotiz-zare che la mancanza di alcune immagini, 6 in totale, sparse tra tutte queste sezioni, sia dovuta semplicemente a guasti meccanici prodottisi

64 Non entra in questa analisi un altro ramo della tradizione attestato in ambito bizantino, testimoniato soltanto dai due emisferi del codice Vat. gr. 1291: queste due sole illustrazioni sono infatti troppo poche per permettere un confronto costruttivo con le altre serie iconografiche.

151 Per la ricostruzione dell’edizione tardoantica del corpus arateo

nell’antigrafo del codice: tanto più che le illustrazioni mancanti sono isolate e originariamente dovevano essere distribuite in modo abba-stanza uniforme per tutta l’estensione del poema e del suo paratesto65. I manoscritti della recensio interpolata risultano invece sprovvisti di un intero gruppo di immagini, mentre conservano tutte le altre sezioni in forma pressoché completa. Tale lacuna trova spiegazione nella storia testuale di questo ramo della tradizione: a differenza di quanto acca-duto per il Vat. gr. 1087, infatti, in questo caso la perdita della seconda sezione dell’apparato illustrativo non è la conseguenza di guasti mec-canici, bensì di una scelta consapevole. Quelle soppresse sono infatti le illustrazioni che accompagnavano il proemio del poema di Arato, eli-minato dal revisore che redasse la recensio interpolata: insieme al testo poetico e ai suoi materiali di commento scomparvero quindi anche le immagini che lo illustravano. Per quanto riguarda infine la tradizione del De signis coeli, la situazione appare più complessa. I manoscrit-ti che contengono solo il catalogo stellare hanno conservato la serie completa delle costellazioni, senza copiare tutte le altre immagini: si tratta dunque di un procedimento analogo a quello che ha portato alla soppressione delle illustrazioni proemiali nella recensio interpolata, esteso semplicemente a un nucleo più ampio di materiali. Il codice di Aberystwyth, invece, ha conservato, oltre alla serie delle costellazioni (interessata peraltro da una vasta lacuna, imputabile con ogni proba-bilità a un guasto meccanico successivo alla redazione del manoscrit-to), anche buona parte delle immagini introduttive: non solo il sistema completo delle illustrazioni proemiali, che accompagna coerentemen-te il testo di Germanico, ma anche i due emisferi e il globo celeste tratti dall’introduzione al corpus arateo; questi ultimi sono riprodotti però in forma isolata, senza testo corrispondente. Al contrario, forse per una lacuna dell’antigrafo, la serie delle illustrazioni si interrompe bru-

65 Oltre alle quattro indicate nella tabella, risultano assenti dal Vat. gr. 1087 anche due immagini della serie delle costellazioni: i Gemelli e il Cancro (disegnati di norma in un’unica illustrazione, dal momento che il testo poetico dedica loro uno spazio mol-to esiguo) e le Pleiadi; è molto probabile che Niceforo Gregora e i suoi collaboratori fossero consci della perdita di alcune immagini nell’antigrafo, e che le due pagine la-sciate bianche (ff. 308v-309r) al termine dei disegni delle costellazioni, appena prima del nucleo di carte celesti, fossero destinate ad ospitare le illustrazioni mancanti, se mai fossero state ritrovate.

152 Fabio Guidetti

scamente con l’immagine dei cinque pianeti, e gli ultimi 300 versi del poema sono del tutto privi di figure66.

Il riconoscimento di questi tre rami della tradizione figurativa aratea ci permette quindi di proporre una ricostruzione dell’apparato illu-strativo dell’edizione Φ di Arato, applicando ai materiali iconografici il medesimo metodo filologico utilizzato da Martin per ricostruirne i contenuti testuali. La nostra indagine ha quindi fornito un’ulteriore conferma all’ipotesi di Martin, permettendoci inoltre di individuare un importante momento di revisione editoriale, databile intorno alla seconda metà del IV secolo: in questo momento venne infatti ridi-segnato l’intero apparato figurativo dell’edizione Φ, adeguandolo al gusto estetico dell’epoca. La revisione tardoantica di Φ rappresenta la versione del corpus arateo che l’epoca tardoromana consegnò al Me-dioevo: si trattava di un’edizione di lusso, ricchissima di immagini, senz’altro animata da intenti più artistici che scientifici, i cui contenuti erano a volte perfino contraddittori tra loro (si pensi al nucleo delle carte celesti, derivate da originali di epoche diverse e costruite secondo modelli scientifici differenti). Questo prodotto editoriale non conobbe vasta fortuna nell’Oriente bizantino, dove l’astronomia si rivolse ben presto a testi e immagini più aggiornati, anche grazie al contatto con la cultura araba e persiana: solo alla volontà di recupero antiquario di Niceforo Gregora si deve infatti la fortunata sopravvivenza delle illustrazioni del codice Vat. gr. 1087. In Occidente invece, nei secoli centrali del Medioevo, la riscoperta di almeno due esemplari di questo grandioso prodotto dell’arte libraria tardoromana portò a una vera e propria rinascita dell’interesse per la scienza astronomica: gli studio-si occidentali, rimasti estranei alla più recente evoluzione tecnologica, si rivolsero a queste opere cercando in esse un contenuto scientifico che andava ben oltre l’intento dei loro redattori tardoantichi; fu quin-di l’inaspettata attualità di questi materiali, favorita dalla mancanza di contenuti più aggiornati, che consentì al patrimonio dell’illustrazione astronomica antica di sopravvivere fino ai giorni nostri.

Fabio Guidetti

66 Al f. 3v, sotto l’emisfero estivo, sulla sinistra si riconosce tuttavia l’immagine della Via Lattea, che nei codici di Aratea segue di norma la raffigurazione dei pianeti.

Bibliografia

Akyürek 2001 = E. Akyürek, Funeral Ritual in the Parekklesion of the Chora Church, in Byzantine Constantinople. Monuments, Topography and Everyday Life, ed. by N. Necipoğlu, Leiden-Boston-Köln 2001 (The Medieval Mediterranean, 33), pp. 89-104

Andreotti 1956 = R. Andreotti, Per una critica dell’ideologia di Alessandro Magno, «Historia», 5, 1956, pp. 257-302

Anson 2003 = E.M. Anson, Alexander and Siwah, «AncW», 34, 2003, pp. 117-130

Art et société 1971 = Art et société à Byzance sous les Paléologues, Atti del convegno (Venezia, settembre 1968), Venezia 1971 (Bibliothèque de l’Institut hellénique d’études byzantines et post-byzantines de Venise, 4)

Asirvatham 2001 = S.R. Asirvatham, Olympias’ Snake and Callisthenes’ Stand: Religion and Politics in Plutarch’s Life of Alexander, in Between Magic and Religion: Interdisciplinary Studies in Ancient Mediterranean Religion and Society, ed. by S.R. Asirvatham, C.O. Pache and J. Watrous, Lanham 2001, pp. 93-125

Aurea Roma 2000 = Aurea Roma: dalla città pagana alla città cristiana, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 22 dicembre 2000-20 aprile 2001), a cura di S. Ensoli e E. La Rocca, Roma 2000

Bakhouche 1997 = B. Bakhouche, La peinture des constellations dans la littérature aratéenne latine: le problème de la droite et de la gauche, «AC», 66, 1997, pp. 145-168

Bauden 2008 = F. Bauden, Maqriziana II: Discovery of an Autograph Manuscript of al-Maqrīzī: Towards a Better Understanding of His Working Method Analysis, «Mamlūk Studies Review», 12, 2008, pp. 51-118

Bazzani 2006 = M. Bazzani, Theodore Metochites, a Byzantine Humanist, «Byzantion», 76, 2006, pp. 32-52

Becker, Kondoleon 2005 = The Arts of Antioch. Art Historical and Scientific Approaches to Roman Mosaics and a Catalogue of the Worcester Art Museum Antioch Collection, ed. by L. Becker and C. Kondoleon, Princeton 2005

Belloni, Ferrari 1974 = A. Belloni, M. Ferrari, La Biblioteca Capitolare di Monza, Padova 1974 (Medioevo e Umanesimo, 21)

154 Bibliografia

Belting 1970 = H. Belting, Das illuminierte Buch in der spätbyzantinischen Gesellschaft, Heidelberg 1970 (Abhandlungen der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, 1/1970)

Bernabé 2011 = A. Bernabé, El Himno homérico a Dioniso: el dios nacido del muslo de Zeus, in Parua Mythographica, ed. by J. Pàmias, Oberhaid 2011, pp. 33-44

Beyer 1978 = H.V. Beyer, Eine Chronologie der Lebensgeschichte des Nikephoros Gregoras, «JÖByz», 27, 1978, pp. 127-155

Bianconi 2003 = D. Bianconi, Eracle e Iolao. Aspetti della collaborazione fra copisti nell’età dei Paleologi, «ByzZ», 96, 2003, pp. 521-558

Bianconi 2004 = D. Bianconi, Libri e mani. Sulla formazione di alcune miscellanee dell’età dei Paleologi, in Crisci, Pecere 2004, pp. 311-363

Bianconi 2005a = D. Bianconi, La biblioteca di Cora, tra Massimo Planude e Niceforo Gregora. Una questione di mani, «S&T», 3, 2005, pp. 391-438

Bianconi 2005b = D. Bianconi, «Gregorio Palamas e oltre». Qualche riflessione su cultura profana, libri e pratiche intellettuali nella controversia palamitica, «MEG», 5, 2005, pp. 93-119

Bianconi 2005c = D. Bianconi, Tessalonica nell’età dei Paleologi. Le pratiche intellettuali nel riflesso della cultura scritta, Paris 2005

Bianconi 2006 = D. Bianconi, Le pietre e il ponte, ovvero identificazioni di mani e storia della cultura, «Bizantinistica», s. II, 8, 2006, pp. 135-181

Bianconi 2008a = D. Bianconi, La ‘biblioteca’ di Niceforo Gregora, in Actes du VIe Colloque International de Paléographie Grecque (Drama, 21-27 septembre 2003), éd. par B. Atsalos et N. Tsironi, Athènes 2008 (Vivlioamphiastis. Annexe, 1), II, pp. 225-233; III, pp. 1049-1059

Bianconi 2008b = D. Bianconi, La controversia palamitica. Figure, libri, testi e mani, «S&T», 6, 2008, pp. 337-376

Bianconi 2010 = D. Bianconi, Erudizione e didattica nella tarda Bisanzio, in Libri di scuola e pratiche didattiche. Dall’antichità al Rinascimento. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Cassino, 7-10 maggio 2008), a cura di L. Del Corso e O. Pecere, Cassino 2010, pp. 475-512

Blume 2004 = D. Blume, Ademar von Chabannes – ein zeichnender Mönch und seine Bilder, in Opus Tessellatum: Modi und Grenzgänge der Kunstwissenschaft. Festschrift für Peter Cornelius Claussen, hrsg. von K. Corsepius et al., Hildesheim-Zürich-New York 2004 (Studien zur Kunstgeschichte, 157), pp. 375-384

Blume, Haffner, Metzger 2012 = D. Blume, M. Haffner, W. Metzger, Sternbilder des Mittelalters: Der gemalte Himmel zwischen Wissenschaft und Phantasie, 1: 800-1200, Berlin 2012

Bosworth 1980-1995 = A.B. Bosworth, A Historical Commentary on Arrian’s History of Alexander, Oxford 1980-1995

155 Bibliografia

Bravo García, Pérez Martín 2010 = The Legacy of Bernard de Montfaucon: Three Hundred Years of Studies on Greek Handwriting, Proceedings of the Seventh International Colloquium of Greek Palaeography (Madrid-Salamanca, 15-20 September 2008), ed. by A. Bravo García and I. Pérez Martín, with the assistance of J. Signes Codoñer, Turnhout 2010

Breysig 1867 = Germanici Caesaris Aratea cum scholiis, ed. A. Breysig, Berolini 1867

Browning 1960 = R. Browning, Recentiores non deteriores, «BICS», 7, 1960, pp. 11-21 (= Id., Studies on Byzantine History, Literature and Education, London 1977, cap. 12).

Buchthal 1975 = H. Buchthal, Toward a History of Palaeologan Illumination, in K. Weitzmann et al., The Place of Book Illumination in Byzantine Art, Princeton 1975, pp. 143-177

Buchthal, Belting 1978 = H. Buchthal, H. Belting, Patronage in Thirteenth-Century Constantinople. An Atelier of Late Byzantine Book Illumination and Calligraphy, Washington 1978 (Dumbarton Oaks Studies, 16)

Burke 1930 = W.L.M. Burke, A Bronze Situla in the Museo Cristiano of the Vatican Library, «ABull», 12, 1930, pp. 163-178

Bydén 2003 = B. Bydén, Theodore Metochites’ Stoicheiosis astronomike and the study of natural philosophy and mathematics in early Palaiologan Byzantium, Göteborg 2003

Cacouros 2000 = M. Cacouros, Deux épisodes inconnus dans la réception de Proclus à Byzance aux XIIIe-XIVe siècles: La philosophie de Proclus réintroduite à Byzance grace à l’Hypotyposis; Néophytos Prodromènos et Kontostéphanos (?) lecteurs de Proclus (avant Argyropoulos) dans le xénon du Kralj, in Proclus et la Théologie platonicienne, Actes du Colloque international de Louvain (13-16 mai 1998) en l’honneur de Henry Dominique Saffrey et Leendert G. Westerink, éd. par A.-P. Segonds et C. Steel, Leuven-Paris 2000, pp. 589-627

Cacouros 2006 = M. Cacouros, La philosophie et les sciences du Trivium et du Quadrivium à Byzance de 1204 à 1453 entre tradition et innovation: les textes et l’enseignement, le cas de l’école du Prodrome (Pétra) in Philosophie et sciences à Byzance de 1204 à 1453. Les textes, les doctrines et leur transmission, Actes de la Table Ronde organisée au XXe Congrès International d’Études Byzantines (Paris, 2001), éd. par M. Cacouros et M.-H. Congourdeau, Leuven-Paris-Dudley 2006, pp. 1-51

Canart 1998 = P. Canart, Quelques exemples de division du travail chez les copistes byzantins, in Recherches de codicologie comparée: la composition du codex au Moyen age, en Orient et en Occident, éd. par P. Hoffmann, Paris 1998, pp. 49-67

156 Bibliografia

Carandini 1963-1964 = A. Carandini, La secchia Doria: una «storia di Achille» tardo-antica. Contributo al problema dell’industria artistica di tradizione ellenistica in Egitto, Roma 1963-1964 (Studi miscellanei, 9)

Carney 2006 = E. Carney, Olympias. Mother of Alexander the Great, New York-London 2006

Carney 2010 = E. Carney, Putting Women in Their Place. Women in Public under Philip II and Alexander III and the Last Argeads, in Philip II and Alexander the Great. Father and Son, Lives and Afterlives, ed. by E. Carney and D. Ogden, Oxford 2010, pp. 43-53

Carpenter, Faraone 1993 = T.H. Carpenter, C.A. Faraone, Masks of Dionysus, Ithaca-London 1993

Casadio 1994 = G. Casadio, Storia del culto di Dioniso in Argolide, Roma 1994

Cavallo 2001 = G. Cavallo, «Foglie che fremono sui rami». Bisanzio e i testi classici, in I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di S. Settis, vol. 3: I Greci oltre la Grecia, Torino 2001, pp. 593-628

Cawkwell 2003 = G.L. Cawkwell, The Deification of Alexander the Great: A Note, in Alexander the Great. A Reader, ed. by I. Worthington, London-New York 2003, pp. 263-272

Cimok 2000 = Antioch Mosaics. A Corpus, ed. by F. Cimok, İstanbul 2000Clérigues 2007 = J.-B. Clérigues, Nicéphore Grégoras, copiste et superviseur

du Laurentianus 70, 5, «RHT», n.s., 2, 2007, pp. 21-47Colli 1978 = G. Colli, La sapienza greca, vol. 2, Milano 1978Crisci, Pecere 2004 = Il codice miscellaneo. Tipologie e funzioni, Atti del

convegno internazionale (Cassino, 14-17 maggio 2003), a cura di E. Crisci, O. Pecere (= «S&T», 2, 2004)

Ćurčić, Mouriki 1991 = The Twilight of Byzantium. Aspects of Cultural and Religious History in the Late Byzantine Empire, Atti del convegno (Princeton, 8-9 maggio 1989), ed. by S. Ćurčić and D. Mouriki, Princeton 1991

De Gregorio, Prato 2003 = G. De Gregorio, G. Prato, Scrittura arcaiz-zante in codici profani e sacri della prima età paleologa, «Römische histori-sche Mitteilungen», 45, 2003, pp. 59-101

Dekker 2013 = E. Dekker, Illustrating the Phaenomena. Celestial Cartography in Antiquity and the Middle Ages, Oxford 2013

Delatte 1939 = A. Delatte, Anecdota Atheniensia et alia II, Paris 1939Dell’Era 1974 = A. Dell’Era, Una ‘caeli descriptio’ d’età carolingia,

Palermo 1974 (Quaderni della Facolta di magistero dell’Università di Palermo. Serie di filologia latina, 2)

Dell’Era 1979a = A. Dell’Era, Gli Scholia Basileensia a Germanico, «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Memorie. Classe di Scienze morali, storiche e filosofiche», s. VIII, 23, 1979, pp. 299-380

157 Bibliografia

Dell’Era 1979b = A. Dell’Era, Una rielaborazione dell’Arato latino, «StudMed», s. III, 20, 1979, pp. 269-301

Dell’Era 1979c = A. Dell’Era, Una miscellanea astronomica medievale: gli Scholia Strozziana a Germanico, «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Memorie. Classe di Scienze morali, storiche e filosofiche», s. VIII, 23, 1979, pp. 145-268

Demus 1975 = O. Demus, The Style of the Kariye Djami and its Place in the Development of Palaeologan Art, in Underwood 1966-1975, IV, pp. 107-160

De Vries-van der Velden 1987 = E. De Vries-van der Velden, Théodore Métochite. Une réévaluation, Amsterdam 1987

Duits 2005 = R. Duits, Celestial Transmissions. An Iconographical Classification of Constellation Cycles in Manuscripts (8th-15th Centuries), «Scriptorium», 59, 2005, pp. 147-202

Džurova 2001 = A. Džurova, La miniatura bizantina. I manoscritti miniati e la loro diffusione, Milano 2001

Eastwood 1981 = B.S. Eastwood, Notes on the planetary configuration in Aberystwyth N.L.W. ms. 735C, f. 4v, «The National Library of Wales Journal», 22, 1981, pp. 129-140

Edmunds 1971 = L. Edmunds, The Religiosity of Alexander, «GRBS», 12, 1971, pp. 363-391

van Els 2011 = A. van Els, A Flexible Unity: Ademar of Chabannes and the Production and Usage of MS Leiden, Universiteitsbibliotheek, Vossianus Latinus Octavo 15, «Scriptorium», 65, 2011, pp. 21-66

Featherstone 1998 = J.M. Featherstone, Three more letters of Nicephorus Callistus Xanthopoulos, «ByzZ», 91, 1998, pp. 20-31

Feraboli 1993 = S. Feraboli, Sulle tracce di un catalogo stellare preipparcheo, in Mosaico. Studi in onore di U. Albini, Genova 1993, pp. 75-82

Feraboli 1998 = S. Feraboli, Astrotesie celesti in antichi cataloghi stellari, in Sciences exactes et sciences appliquées à Alexandrie, éd. par G. Argoud et J.-Y. Guillaumin, Saint-Étienne 1998 (Centre Jean-Palerne. Mémoires, 16), pp. 347-358

Fraser 1970 = P.M. Fraser, Eratosthenes of Cyrene, «PBA», 56, 1970, pp. 175-207

Fraser 1972 = P.M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford 1972Fredricksmeyer 1991 = E.A. Fredricksmeyer, Alexander, Zeus Ammon,

and the Conquest of Asia, «TAPhA», 121, 1991, pp. 199-214Fryde 2000 = E. Fryde, The Early Palaeologan Renaissance (1261-c. 1360),

Leiden-Boston-Köln 2000 (The Medieval Mediterranean, 27)Furlan 1999 = I. Furlan, Il libro enciclopedico di maestro Astrapas, in

Iacobini, della Valle 1999, pp. 113-123

158 Bibliografia

Gacek 2009 = A. Gacek, Arabic Manuscripts. A Vademecum for Readers, Leiden 2009

Geus 2002 = K. Geus, Eratosthenes von Kyrene. Studien zur hellenistischen Kultur und Wissenschaftsgeschichte, München 2002 (Münchener Beiträge zur Papyrusforschung und antiken Rechtsgeschichte, 92)

Gigante 1981 = M. Gigante, Studi sulla civiltà letteraria bizantina, Napoli 1981 (Saggi Bibliopolis, 5)

Golitzis 2008 = P. Golitzis, Georges Pachymère comme didascale. Essai pour une reconstitution de sa carrière et de son enseignement philosophique, «JÖByz», 58, 2008, pp. 53-68

Golitzis 2010 = P. Golitzis, Copistes, élèves et érudits: la production de manuscrits philosophiques autour de Georges Pachymère, in Bravo García, Pérez Martín 2010, pp. 157-170

von Gonzenbach 1984 = V. von Gonzenbach, Achillesplatte, in Der spätrömische Silberschatz von Kaiseraugst, hrsg. von H.A. Cahn, A. Kaufmann-Heinimann, Derendingen 1984 (Basler Beiträge zur Ur- und Frühgeschichte, 9), pp. 225-307

Goukowsky 1981 = P. Goukowsky, Essai sur les origines du mythe d’Alexandre. II. Alexandre et Dionysos, Nancy 1981

Guilland 1967 = Nicephorus Gregoras, Correspondance, texte édité et traduit par R. Guilland, Paris 19672 [1927]

Gutas 1998 = D. Gutas, Greek Thought, Arabic Culture. The Graeco-Arabic Translation Movement in Baghdad and Early ‘Abbāsid Society (2nd-4th/8th-10th centuries), London-New York 1998 (trad. it. Pensiero greco e cultura araba, a cura di C. D’Ancona, Torino 2002)

Haffner 1997 = M. Haffner, Ein antiker Sternbilderzyklus und seine Tradierung in Handschriften vom Frühen Mittelalter bis zum Humanismus: Untersuchungen zu den Illustrationen der “Aratea” des Germanicus, Hildesheim-Zürich-New York 1997 (Studien zur Kunstgeschichte, 114)

Harlfinger, Harlfinger 1996 = D. Harlfinger, J. Harlfinger, Wasserzeichen aus griechischen Handschriften, Berlin 1974-1980

Harlfinger 1996 = D. Harlfinger, Autographa aus der Palaiologenzeit, in Seibt 1996, pp. 43-50

Heckel 1981 = W. Heckel, Polyxena, the Mother of Alexander the Great, «Chiron», 11, 1981, pp. 79-86

Henrichs 1978 = A. Henrichs, Greek Maenadism from Olympias to Messalina, «HSPh», 82, 1978, pp. 121-160

Hinterberger 2001 = M. Hinterberger, Studien zu Theodoros Metochites. Gedicht I – Des Meeres und des Lebens Wellen – Die Angst vor dem Neid – Die autobiographischen Texte – Sprache, «JÖByz», 51, 2001, pp. 285-319

Hockey et al. 2007 = The Biographical Encyclopedia of Astronomers, ed. by T. Hockey et al., New York 2007

159 Bibliografia

Hoffmann 1983 = H. Hoffmann, ΥΒΡΙΝ ΟΡΘΙΑΝ ΚΝΩΔΑΛΩΝ, in Antidoron. Festschrift für Jürgen Thimme zum 65. Geburtstag am 26. September 1982, hrsg. von D. Metzler, B. Otto, Ch. Müller-Wirth, Karlsruhe 1983, pp. 61-73

Hohlweg 1996 = A. Hohlweg, Astronomie und Geschichtsbetrachtung bei Nikephoros Gregoras, in Seibt 1996, pp. 51-63

Hunger 1978 = H. Hunger, Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, München 1978 (Byzantinisches Handbuch, 5)

Iacobini, della Valle 1999 = L’arte di Bisanzio e l’Italia al tempo dei Paleologi, 1261-1453, a cura di A. Iacobini e M. della Valle, Roma 1999 (Milion, 5)

Isar 2005 = N. Isar, ΧΟΡΟΣ: Dancing into the Sacred Space of Chora. An Inquiry into the Choir of Dance from the Chora, «Byzantion», 75, 2005, pp. 199-224

Jarry 2009 = C. Jarry, Sur une recension du Traité de l’astrolabe de Jean Philopon a l’époque des Paléologues, «RHT», n.s., 4, 2009, pp. 31-78

Karpozilos 1991 = A. Karpozilos, Books and Bookmen in the 14th c.: The Epistolographical Evidence, «JÖByz», 41, 1991, pp. 255-276

Keydell 1958 = R. Keydell, rec. a Martin 1956, «Gnomon», 30, 1958, pp. 575-584

Kidd 1997 = Aratus, Phaenomena, ed. by D. Kidd, Cambridge 1997Kitzinger 1966 = E. Kitzinger, The Byzantine Contribution to Western Art

of the Twelfth and Thirteenth Centuries, «DOP», 20, 1966, pp. 25-47Kotzabassi 2010 = S. Kotzabassi, Kopieren und Exzerpieren in der

Palaiologenzeit, in Bravo García, Pérez Martín 2010, pp. 473-482Lamberz 2000 = E. Lamberz, Das Geschenk des Kaisers Manuel II. an das

Kloster Saint-Denis und der “Metochitesschreiber” Michael Klostomalles, in Λιθόστρωτον. Studien zur byzantinischen Kunst und Geschichte. Festschrift für Marcell Restle, Stuttgart 2000, pp. 155-165

Larson 2001 = J. Larson, Greek Nymphs. Myth, Cult, Lore, Oxford 2001Lazarev 1967 = V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino 1967Le Bœuffle 1965 = A. Le Bœuffle, Recherches sur Hygin, «REL», 43, 1965,

pp. 275-294Le Bœuffle 1975 = Germanicus, Les Phénomènes d’Aratos, texte établi et

traduit par A. Le Bœuffle, Paris 1975Le Boeuffle 1977 = A. Le Boeuffle, Les noms latins d’astres et de

constellations, Paris 1977Le Bœuffle 1983 = Hygin, L’astronomie, texte établi et traduit par A. Le

Bœuffle, Paris 1983Le Bourdellès 1985 = H. Le Bourdellès, L’Aratus Latinus. Étude sur la

culture et la langue latines dans le Nord de la France au VIIIe siècle, Lille 1985

160 Bibliografia

Leurquin 1991 = R. Leurquin, Un manuscrit autographe de la Tribiblos astronomique de Théodore Méliténiote: le Vaticanus gr. 792, «Scriptorium», 45, 1991, pp. 145-160

Levi 1947 = D. Levi, Antioch Mosaic Pavements, Princeton 1947Levine 1975 = N.A. Levine, Architectural Reasoning in the Age of Positivism:

The Néo-Grec Idea of Henri Labrouste’s Bibliothèque Sainte-Geneviève, Yale 1975

Lippincott 2009 = K. Lippincott, The Problem with Being a Minor Deity: The Story of Eridanus, in Images of the Pagan Gods. Papers of a Conference in Memory of Jean Seznec, ed. by R. Duits and F. Quiviger, London-Turin 2009 (Warburg Institute Colloquia, 14), pp. 43-96

Lott 1981 = E.S. Lott, The textual tradition of the Aratea of Germanicus Caesar: missing links in the «µ» branch, «RHT», 11, 1981, pp. 147-158

Lowden 1992 = J. Lowden, The Octateuchs. A Study in Byzantine Manuscript Illumination, University Park 1992

Lowden 2010 = J. Lowden, Illustrated Octateuch Manuscripts: A Byzantine Phenomenon, in The Old Testament in Byzantium, ed. by P. Magdalino and R. Nelson, Washington, D.C. 2010, pp. 107-152

Maass 1898 = Commentariorum in Aratum reliquiae, collegit, recensuit prolegomenis indicibusque instruxit E. Maass, Berolini 1898

Magdalino 2002 = P. Magdalino, The Byzantine Reception of Classical Astrology, in Literacy, Education and Manuscript Transmission in Byzantium and Beyond, ed. by C. Holmes, J. Waring, Leiden-Boston-Köln 2002, pp. 33-57

Mancinelli 1969 = F. Mancinelli, I codici miniati della Biblioteca Capitolare di Monza e i loro rapporti con gli scriptoria milanesi dal IX al XIII secolo, «RIASA», n.s., 16, 1969, pp. 108-208

Maniaci 2004 = M. Maniaci, Il codice greco ‘non unitario’. Tipologie e terminologia, in Crisci, Pecere 2004, pp. 75-107

Martin 1956 = J. Martin, Histoire du texte des Phénomènes d’Aratos, Paris 1956 (Études et commentaires, 22)

Martin 1974 = Scholia in Aratum vetera, ed. J. Martin, Stuttgart 1974Martin 1998 = Aratos, Phénomènes, ed. J. Martin, Paris 1998Mascoli 2002 = P. Mascoli, Igino bibliotecario e gli Pseudo Igini, «InvLuc»,

24, 2002, pp. 119-125Mazzucchi 1994 = C.M. Mazzucchi, Leggere i classici durante la catastrofe

(Costantinopoli, maggio-agosto 1203): le note marginali al Diodoro Siculo Vaticano gr. 130. Parte prima: stratigrafia, «Aevum», 68, 1994, pp. 164-218

Mazzucchi 1995 = C.M. Mazzucchi, Leggere i classici durante la catastrofe (Costantinopoli, maggio-agosto 1203): le note marginali al Diodoro Siculo Vaticano gr. 130. Parte seconda: i dodecasillabi della terza mano e la personalità del loro autore, «Aevum», 69, 1995, pp. 200-258

161 Bibliografia

McGurk 1966 = P. McGurk, Catalogue of astrological and mythological illuminated manuscripts of the Latin middle ages, IV: Astrological manuscripts in Italian libraries (other than Rome), London 1966

McGurk 1973-1974 = P. McGurk, Germanici Caesaris Aratea cum scholiis: a new illustrated witness from Wales, «The National Library of Wales Journal», 18, 1973-1974, pp. 197-216

Menchelli 2000 = M. Menchelli, Appunti su manoscritti di Platone, Aristide e Dione di Prusa della prima età dei Paleologi. Tra Teodoro Metochite e Niceforo Gregora, «SCO», 47, 2000, pp. 141-208

Menchelli 2010 = M. Menchelli, Un nuovo codice di Gregorio di Cipro. Il codice di Venezia, BNM, gr. 194 con il Commento al Timeo e le letture platoniche del patriarca tra Sinesio e Proclo, «Scriptorium», 64, 2010, pp. 227-250

Metzger 1944-1945 = H. Metzger, Dionysos chthonien d’après les monuments figurés de la période classique, «BCH», 68-69, 1944-1945, pp. 296-339

Mioni 1985 = E. Mioni, Bibliothecae Divi Marci Venetiarum Codices Graeci Manuscripti, II. Thesaurus Antiquus. Codices 300-625, Roma 1985

Mittenhuber 2009 = F. Mittenhuber, Text- und Kartenüberlieferung in der Geographie des Klaudios Ptolemaios, Bern 2009

Mogenet et al. 1983 = Nicéphore Grégoras, Calcul de l’éclipse de soleil du 16 juillet 1330, éd. par. J. Mogenet et al., Leiden 1983

Mondrain 2002 = B. Mondrain, Maxime Planude, Nicéphore Grégoras et Ptolémée, «Palaeoslavica», 10, 2002, pp. 312-322

Mondrain 2007 = B. Mondrain, Les écritures dans les manuscrits byzantins du XIVe siècle. Quelques problématiques, «RSBN», 44, 2007 (Ricordo di Lidia Perria, III), pp. 157-196

M.-T. = V.A. Mošin, S.M. Traljić, Filigranes des XIIIe et XIVe siècles, Zagreb 1957

Munk Olsen 1982- = B. Munk Olsen, L’étude des auteurs classiques latins aux XIe et XIIe siècles, Paris 1982-

Nock 1928 = A.D. Nock, Notes on Ruler-Cult, I-IV, «JHS», 48, 1928, pp. 21-43

Noret 2011 = J. Noret, Une orthographe relativement bien datée, celle de Georges de Chypre, patriarche de Constantinople in From Manuscripts to Books-Vom Kodex zur Edition. Proceedings of the International Workshop on Textual Criticism and Editorial Practice for Byzantine Texts, ed by. A. Giannouli, E. Schiffer, Wien 2011, pp. 93-126

O’Brien 1992 = J.M. O’Brien, Alexander the Great: The Invisible Enemy. A Biography, London-New York 1992

Ogden 1999 = D. Ogden, Polygamy, Prostitutes and Death. The Hellenistic Dynasties, London 1999

162 Bibliografia

Olck 1907 = F. Olck, Esel, in RE, VI.1, Stuttgart 1907, coll. 626-676Olivieri 1897 = Pseudo-Eratosthenis Catasterismi, rec. A. Olivieri,

Leipzig 1897 (Mythographi Graeci, III.1)Ousterhout 1995a = R. Ousterhout, Temporal Structuring in the Chora

Parekklesion, «Gesta», 34, 1995, pp. 63-76Ousterhout 1995b = R. Ousterhout, The Virgin of the Chora: An Image

and Its Contexts, in The Sacred Image East and West, ed. by R. Ousterhout and L. Brubaker, Urbana-Chicago 1995 (Illinois Byzantine Studies, 4), pp. 91-109

Pàmias 2004a = Eratòstenes de Cirene, Catasterismes, Introducció, edició crítica, traducció i notes de J. Pàmias i Massana, Barcelona 2004

Pàmias 2004b = J. Pàmias, Dionysus and Donkeys on the Streets of Alexandria: Eratosthenes’ Criticism of Ptolemaic Ideology, «HSPh», 102, 2004, pp. 191-198

Pàmias 2004c = J. Pàmias i Massana, El manuscrito Edimburgensis Adv. 18.7.15 y los Catasterismos de Eratóstenes, «Faventia», 26, 2004, pp. 19-25

Pàmias, Geus 2007 = Eratosthenes, Catasterismi, Text, Übersetzung, Kommentar von J. Pàmias und K. Geus, Oberhaid 2007

Paschos, Sotiroudis 1998 = E.A. Paschos, P. Sotiroudis, The Schemata of the Stars: Byzantine Astronomy from A. D. 1300, Singapore 1998

Pérez Martín 1996 = I. Pérez Martín, El Patriarca Gregorio de Chipre (ca. 1240-1290) y la transmisión de los textos clásicos en Bizancio, Madrid 1996

Pérez Martín 1997a = I. Pérez Martín, La “escuela de Planudes”: notas paleográficas a una publicación reciente sobre los escolios euripideos, «ByzZ», 90, 1997, pp. 73-96

Pérez Martín 1997b = I. Pérez Martín, El scriptorium de Cora: un modelo de acercamiento a los centros de copia bizantinos, in Ἐπίγειος Οὐρανός. El cielo en la tierra. Estudios sobre el monasterio bizantino, ed. P. Badénas, A. Bravo, I. Pérez Martín, Madrid 1997, pp. 203-223

Pérez Martín 2008 = I. Pérez Martín, El ‘estilo Hodegos’ y su proyección en las escrituras constantinopolitanas, «S&T», 6, 2008, pp. 389-458

Pérez Martín 2010 = I. Pérez Martín, L’écriture de l’hypatos Jean Pothos Pédiasimos d’après ses scholies aux Elementa d’Euclide, «Scriptorium», 64, 2010, pp. 109-119

Perria, Iacobini 1999 = L. Perria, A. Iacobini, Gli ottateuchi in età paleologa: problemi di scrittura e illustrazione. Il caso del Laur. Plut. 5.38, in Iacobini, della Valle 1999, pp. 69-111

Petrucci 2004 = A. Petrucci, Introduzione a Crisci, Pecere 2004, pp. 3-16

Pingree 1964 = D. Pingree, Gregory Chioniades and Palaeologan Astrono-my, «DOP», 18, 1964, pp. 135-160

163 Bibliografia

Pontani 2005 = F. Pontani, Sguardi su Ulisse, Roma 2005Pontani 2010 = F. Pontani, The World on a Fingernail: An Unknown

Byzantine Map, Planudes, and Ptolemy, «Traditio», 65, 2010, pp. 177-200Prato 1991 = G. Prato, I manoscritti greci dei secoli XIII e XIV: note

paleografiche, in Paleografia e codicologia greca, Atti del II Colloquio internazionale (Berlino-Wolfenbüttel, 17-21 ottobre 1983), Alessandria 1991, pp. 131-149 [= Id., Studi di paleografia greca, Spoleto 1994, pp. 115-131]

Rashed 2001 = M. Rashed, Die Überlieferungsgeschichte der aristotelischen Schrift De generatione et corruptione, Wiesbaden 2001

Rehm 1899 = A. Rehm, Eratosthenis Catasterismorum Fragmenta Vaticana, Ansbach 1899

RGK = Repertorium der griechischen Kopisten 800-1600, hrsg. von E. Gamillscheg und D. Harlfinger, Wien 1981-1997 (Österreichische Akademie der Wissenschaften. Veröffentlichungen der Kommission für Byzantinistik, 3)

Rome 1927 = A. Rome, Membra disiecta, «RBen», 39, 1927, pp. 185-194Ronconi 2007 = F. Ronconi, I manoscritti greci miscellanei, Spoleto 2007Santoni 2009 = A. Santoni, Introduzione a Eratostene, Epitome dei

Catasterismi. Origine delle costellazioni e disposizione delle stelle, a cura di A. Santoni, Pisa 2009 (Il mito. Testi e saggi, 6), pp. 7-59

Santoni c.s. = A. Santoni, A Map for Aratus, in Ancient Astronomy and its Later Reception, Atti del convegno (Atene, 1 novembre 2012), in corso di stampa

Saxl, Meier 1953 = F. Saxl, H. Meier, Verzeichnis astrologischer und mythologischer illustrierter Handschriften des lateinischen Mittelalters, III: Handschriften in englischen Bibliotheken / Catalogue of Astrological and Mythological Illuminated Manuscripts of the Latin Middle Ages, III: Manuscripts in English Libraries, London 1953

Seibt 1996 = Geschichte und Kultur der Palaiologenzeit, Atti del convegno (Vienna, 30 novembre-3 dicembre 1994), hrsg. von W. Seibt, Wien 1996 (Veröffentlichungen der Kommission für Byzantinistik, 8; Denkschriften der Österreichischen Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, 241)

Ševčenko 1962 = I. Ševčenko, Études sur la polémique entre Théodore Métochite et Nicéphore Choumnos, Bruxelles 1962 (Corpus Bruxellense Historiae Byzantinae. Subsidia, 3)

Ševčenko 1964 = I. Ševčenko, Some Autographs of Nicephorus Gregoras, «Zbornik Radova Vizantološkog Instituta», 8, 1964 (Mélanges G. Ostrogorsky, II), pp. 435-450 [= Id., Society and Intellectual Life in Late Byzantium, London 1981 (Collected Studies, 137), cap. 12]

Ševčenko 1975 = I. Ševčenko, Theodore Metochites, the Chora, and the Intellectual Trends of His Time, in Underwood 1966-1975, IV, pp. 17-91

164 Bibliografia

Ševčenko 1984 = I. Ševčenko, The Palaeologan Renaissance, in Renaissances Before the Renaissance. Cultural Revivals of Late Antiquity and the Middle Ages, ed. by W. Treadgold, Stanford 1984, pp. 144-171

Shelton 1981 = K.J. Shelton, The Esquiline Treasure, London 1981Spatharakis 1978 = I. Spatharakis, Some observations on the Ptolemy ms.

Vat. Gr. 1291: Its date and the two initial miniatures, «ByzZ», 71, 1978, pp. 41-49

Stückelberger 1994 = A. Stückelberger, Wort und Bild. Das illustrierte Fachbuch in der antiken Naturwissenschaft, Medizin und Technik, Mainz am Rhein 1994

Szidat 2003 = J. Szidat, Der Silberschatz von Kaiseraugst: Gedanken zu seiner Entstehung, seinem Besitzer und seiner Funktion, in Der spätrömische Silberschatz von Kaiseraugst. Die neuen Funde: Silber im Spannungsfeld von Geschichte, Politik und Gesellschaft der Spätantike, hrsg. von M.A. Guggisberg, Augst 2003 (Forschungen in Augst, 34), pp. 225-246

Talbot Rice 1968 = D. Talbot Rice, Byzantine Painting. The Last Phase, New York 1968

Tannery 1940 = P. Tannery, Quadrivium de Georges Pachymère ou Σύνταγμα τῶν τεσσάρων μαθημάτων· ἀριθμητικῆς, μουσικῆς, γεωμητρίας καὶ ἀστρονομίας, texte revisé et établi par le R.P. E. Stéphanou, Città del Vaticano 1940 (Studi e Testi, 94)

Theodossiou et al. 2006 = E.T. Theodossiou et al., The greatest Byzantine astronomer Nicephoros Gregoras and Serbs, «Publications of the Astronomical Observatory of Belgrade», 80, 2006, pp. 269-274

Tihon 1981 = A. Tihon, L’astronomie byzantine (du Ve au XVe siècle), «Byzantion», 51, 1981, pp. 603-624 (= Ead., Études d’astronomie byzantine, Aldershot 1994, cap. 1)

Tihon 1992 = A. Tihon, Les Tables Faciles de Ptolémée dans les manuscrits en onciale (IXe-Xe siècles), «RHT», 22, 1992, pp. 47-87

Tihon 2008 = A. Tihon, Numeracy and Science, in The Oxford Handbook of Byzantine Studies, ed. by E. Jeffreys, J. Haldon, R. McCormack, Oxford 2008, pp. 803-819

Tihon 2011 = A. Tihon, Πτολεμαίου Πρόχειροι Κάνονες. Les Tables Faciles de Ptolémée, vol. 1a: Tables A1-A2. Introduction, édition critique, Louvain-la-Neuve 2011 (Publications de l’Institut Orientaliste de Louvain, 59a)

Todd 1990 = Cleomedis Caelestia, ed. R. Todd, Leipzig 1990Underwood 1966-1975 = P.A. Underwood, The Kariye Djami, New York

1966-1975 (Bollingen Series, 70) Velmans 1977 = T. Velmans, La peinture murale byzantine à la fin du

Moyen Âge, Paris 1977 (Bibliothèque des Cahiers Archéologiques, 11)Velmans 2000 = T. Velmans, De l’élaboration et de la déviation de la

165 Bibliografia

renaissance des Paléologues (1180-1315), in Byzantinische Malerei. Bildprogramme – Ikonographie – Stil, Atti del convegno (Marburg, 25-29 giugno 1997), hrsg. von G. Koch, Wiesbaden 2000 (Spätantike – Frühes Christentum – Byzanz. Kunst im ersten Jahrtausend, Reihe B: Studien und Perspektiven, 7), pp. 345-363

Viré 1992 = Hygini De astronomia, ed. G. Viré, Stutgardiae et Lipsiae 1992Weitzmann 1991 = K. Weitzmann, L’illustrazione nel rotolo e nel codice,

Firenze 1991 (tr. it. di Illustration in Roll and Codex, Princeton 19702 [1947])

Weitzmann, Bernabò 1999 = K. Weitzmann, M. Bernabò, The Byzantine Octateuchs, Princeton 1999

West 1973 = M. West, Textual Criticism and Editorial Technique, Stuttgart 1973

West 1983 = M. West, Tragica VI, «BICS», 30, 1983, pp. 63-82West 1990 = M. West, Studies in Aeschylus, Stuttgart 1990Wilson 1974 = N. Wilson, The Autograph of Nicephorus Callistus

Xanthopoulos, «JThS», 25, 1974, pp. 437-442Wright 1985 = H.D. Wright, The Date of the Vatican Illuminated Handy

Tables of Ptolemy and its Early Additions, «ByzZ», 78, 1985, pp. 355-362

illustrazioni

193 Fabio Guidetti

20. Zeus in volo sul dorso di un’aquila; Costantinopoli, 1325-1330 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. gr. 1087, f. 302v (© Biblioteca Apostolica Vaticana).

194 Fabio Guidetti

21. Testa di Zeus, particolare dalla figura 20.

22. Testa di Cristo, particolare del mosaico raffigurante il Pantocratore; Costantinopoli, 1315 circa-1321. İstanbul, Kariye Müzesi (da Underwood 1966-1975)

23. Testa di Quirinio, particolare del mosaico raffigurante la registrazione di Giuseppe al censimento; Costantinopoli, 1315 circa-1321. İstanbul, Kariye Müzesi (da Underwood 1966-1975).

24. Testa di Erode, particolare del mosaico raffigurante i Magi dinanzi a Erode; Costantinopoli, 1315 circa-1321. İstanbul, Kariye Müzesi (da Underwood 1966-1975).

195 Fabio Guidetti

25. Il primo bagno di Maria, particolare del mosaico raffigurante la nascita della Vergine; Costantinopoli, 1315 circa-1321. İstanbul, Kariye Müzesi (da Underwood 1966-1975).

26. I dannati, particolare dell’affresco raffigurante il Giudizio Universale; Costantinopoli, 1315 circa-1321. İstanbul, Kariye Müzesi (da Underwood 1966-1975).

196 Fabio Guidetti

27. Costellazione della Vergine; Costantinopoli, 1325-1330 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. gr. 1087, f. 307r (© Biblioteca Apostolica Vaticana).

28. Figura di angelo; Costantinopoli, 1315 circa-1321. İstanbul, Kariye Müzesi. (da Underwood 1966-1975).

197 Fabio Guidetti

29. Giove in volo sul dorso di un’aquila; Limoges, inizio dell’XI secolo. Aberystwyth, National Library of Wales, cod. 735C, f. 12r (by permission of Llyfrgell Genedlaethol Cymru / The National Library of Wales).

198 Fabio Guidetti

30. Emisferi estivo e invernale, circolo della Via Lattea, schema delle sfere celesti, astronomo con globo celeste; Limoges, inizio dell’XI secolo. Aberystwyth, National Library of Wales, cod. 735C, ff. 3v-4r (by permission of Llyfrgell Genedlaethol Cymru / The National Library of Wales).

199 Fabio Guidetti

200 Fabio Guidetti

31. Emisferi invernale ed estivo; Corbie, seconda metà del IX secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 12957, ff. 60v-61r (© Bibliothèque Nationale de France).

201 Fabio Guidetti

202 Fabio Guidetti

32. Costellazione della Corona; Costantinopoli, 1325-1330 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. gr. 1087, f. 305v (© Biblioteca Apostolica Vaticana).

33. Solido di Costantino; Costantinopoli, 336-337. London, British Museum, Department ofCoins and Medals,inv. 1860,0329.297 (© Trustees of the British Museum).

34. Costellazione della Corona; Corbie, seconda metà del IX secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 12957, f. 65r (© Bibliothèque Nationale de France).

35. Costellazione della Corona; Fleury, prima metà del X secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 5543, f. 161r (© Bibliothèque Nationale de France).

203 Fabio Guidetti

36. Costellazione di Boote; Costantinopoli, 1325-1330 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. gr. 1087, f. 306r (© Biblioteca Apostolica Vaticana).

37. Figura di cacciatore; Costantinopoli, X secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Supplément grec 247, f. 48r.

38. Costellazione di Boote; Fleury, prima metà del X secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 5543, f. 162r (© Bibliothèque Nationale de France).

39. Costellazione di Boote; Corbie, seconda metà del IX secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 12957, f. 65v (© Bibliothèque Nationale de France).

204 Fabio Guidetti

40. Costellazione della Vergine; Costantinopoli, 1325-1330 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. gr. 1087, f. 307r (© Biblioteca Apostolica Vaticana).

41. L’Autunno, particolare di un mosaico con le quattro stagioni e scene di caccia; Antiochia, 325-350 circa. Paris, Musée du Louvre, Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines: Art chrétien et byzantin, inv. Ma 3444 (da Cimok 2000).

42. Achille tra le figlie di Licomede, particolare del cosiddetto ‘piatto di Achille’, dal tesoro di Kaiseraugst; Tessalonica, 343. Augst, Römermuseum, inv. 1962.1 (da von Gonzenbach 1984).

205 Fabio Guidetti

43. Costellazione della Vergine; Fleury, prima metà del X secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 5543, f. 162v (© Bibliothèque Nationale de France).

44. Costellazione della Vergine; Corbie, seconda metà del IX secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 12957, f. 65v (© Bibliothèque Nationale de France).

206 Fabio Guidetti

45. Costellazione di Andromeda; Costantinopoli, 1325-1330 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. gr. 1087, f. 308r (© Biblioteca Apostolica Vaticana).

46. Mosaico con scena di banchetto funerario, dalla cosiddetta ‘tomba di Mnemosine’; Antiochia, seconda metà del IV secolo. Worcester, Ma., Worcester Art Museum, inv. 1936.26 (da Cimok 2000).

207 Fabio Guidetti

47. Trousse decorata con immagini delle Muse, dal tesoro dell’Esquilino; Roma, 380 circa. London, British Museum, Department of Prehistory and Europe, inv. 1866,1229.2 (© Trustees of the British Museum).

48. Il primo bagno di Achille, particolare del cosiddetto ‘piatto di Achille’, dal tesoro di Kaiseraugst; Tessalonica, 343. Augst, Römermuseum, inv. 1962.1 (da von Gonzenbach 1984).

49. Patera decorata con la toeletta di Venere, dal tesoro dell’Esquilino; Roma, 380 circa. Paris, Petit Palais-Musée des Beaux Arts de la Ville de Paris, Antiquités des mondes grec et romain, inv. A.Dut. 171 (© Patrick Pierrain / Petit Palais / Roger-Viollet).

208 Fabio Guidetti

50. Costellazione di Andromeda; Fleury, prima metà del X secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 5543, f. 163v (© Bibliothèque Nationale de France).

51. Costellazione di Andromeda; Corbie, seconda metà del IX secolo. Paris, Bibliothèque Nationale de France, cod. Latin 12957, f. 67r (© Bibliothèque Nationale de France).

Finito di stampare nel mese di ottobre 2013presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A.

Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • PisaTelefono 050 313011 • Telefax 050 3130300

Internet: http://www.pacinieditore.it