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Giacomo Ricci Il Sogno di Jeronimus Bauknecht viaggio in una città immaginaria Giannini Editore Napoli 2009

Il sogno di Jeronimus Bauknecht

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Giacomo Ricci

Il Sogno di Jeronimus Bauknechtviaggio in una città immaginaria

Giannini EditoreNapoli 2009

ad Antoniae a coloro che desiderano un mondo felice

Giacomo Ricci

Il Sogno di Jeronimus Bauknechtviaggio in una città immaginaria

Giannini EditoreNapoli 2009

edizione web a cura di “ArchigraficA - live architecture on the web”

Tutti i disegni che corredano il testo sono dell’autorePer approfondimenti:www.archigrafica.orgwww.giacomoricci.it

ISBN© 2009 Giannini editori © 2009 Giacomo Ricci per le opere grafiche

Indice

il Sogno di Jeronimus Bauknecht.......................

Prologo................................................. p. 7

l’Epistolario........................................... p. 15

Frammenti della Città-senza-Nome............... p. 29

la Scrittura............................................ p. 43

l’Oscurità della Notte................................ p. 59

breve Intermezzo...................................... p. 75

il Sogno................................................ p. 76

l’Inghiottimento....................................... p. 104

Epilogo................................................. p. 123

Catalogo............................................... p. 127

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il Sogno di Jeronimus Bauknecht

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Il sogno di Jeronimus Bauknecht

“Tutto quello che siamo o sembriamoNon è che sogno entro un sogno?”

Edgar Allan Poe

Prologo

Jeronimus è decisamente il mio alter-ego. Questo lo so con preci-sione. Quello che ormai non so più è se sia realmente esistito o se, al contrario, sia soltanto frutto di un inaspettato delirio, covato al lungo in qualche angolo oscuro della mente. Penetrato violentemente ed all’improvviso nella mia vita, se ne è come im-possessato, imponendomi i suoi ritmi di lavoro, i suoi gusti, il suo modo di vedere il mondo.Ho cercato, non appena me ne sono reso conto, di porre riparo a questa “possessione” con la forza del raziocinio e del buon senso. Ma ogni tentativo è valso a poco.Il suo interminabile racconto, in ogni momento della giornata, ri-suona costantemente all’interno della mia anima, basso, quasi impercettibile, ma ossessivamente persistente.Il lungo viaggio di Jeronimus verso non so quale sperduta città dell’Asia centrale, al di là della catena dell’Himalaya, nello sconfi-nato altipiano desertico del Tibet, si srotola nella mia fantasia con le tinte ambigue della favola. Così palazzi, folle immense e dolo-rose, notti gonfie di nuvole basse, stelle trafitte, strade bianche sotto i raggi evanescenti della luna percorse da ippogrifi ansimanti, tremuli profili di odalische sognanti, profumi accesi che penetrano sotto la pelle, lunghissimi tempi d’attesa in corridoi deformi (e chissà quant’altre stranezze dalle quali la mia coscienza si difende con repentini, quanto inutili, sprofondamenti nell’ignavia) circo-lano nella mia immaginazione, impedendomi la vita.Jeronimus Bauknecht - questo il suo nome - architetto e poeta, pre-tende di esser nato a Stuttgart il 15 ottobre 1875 e morto il 28 feb-braio del 1945; di essere stato tra gli amici più fedeli di Walter Gropius - del quale lamenta continuamente l’irrimediabile perdita - e di aver effettivamente vissuto una strana avventura in

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un mondo sospeso tra occidente e oriente, sogno e veglia, ragione e follia.E, soprattutto, pretende di essersi reincarnato in me, uomo che sta vivendo gli inizi del terzo millennio, sostenendo che l’attimo del suo trapasso coincise con quello del mio concepimento. Mi ha raccontato, infatti, che, per una strana legge di quest’universo che ci ospita, a noi ancora del tutto sconosciuta, la morte di alcuni individui non significherebbe un’estinzione totale e definiti-va del loro principio vitale, come ragionevolmente ci sarebbe da supporre in virtù di tutta l’esperienza accumulata lungo il corso della storia, ma, al contrario, l’essenza si trasmetterebbe da uomo ad uomo nell’istante in cui la morte dell’uno collima con il concepimento dell’altro.È inutile dire che, non appena queste idee hanno iniziato a cir-colare nella mia mente, ho creduto dapprima in un’irruzione in-controllata dell’inconscio nello stato di veglia; ma poi, per tutta una serie di fenomeni che sarebbe troppo lungo e complicato qui tentare di riassumere, mi sono dovuto convincere che effettiva-

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mente non si trattava del mio inconscio ma di un’altra entità, una sorta di “doppio”, un “sosia”, un altro “me stesso” che, da non so quale luogo, mi parlava.Prigioniero di questa assurda, eppur estremamente reale condi-zione, dopo aver compreso che ogni tentativo di sottrarmi a questo destino era inevitabilmente destinato al fallimento, mi sono visto costretto ad accettare questo stato di fatto. Ammettere, cioè, che Jeronimus doveva essere veramente esistito e che, inoltre, per tutta una serie di incredibili coincidenze, era indissolubilmente legato a me, una vera e propria parte della mia vita spirituale.Sotto la spinta di questa convinzione ho tentato di saperne di più e mi sono messo alla ricerca di notizie, documenti, testimo-nianze e tutto quanto altro fosse in grado di provare realmente la sua esistenza. Dopo una serie infinita di vicissitudini, sono riuscito a trovare alcune significative tracce: Heinrich von Kleist, professore di archeologia all’Università di Praga, non soltanto aveva notizie di tal Bauknecht ma, girando per le biblioteche e gli archivi di mezza Europa, era riuscito a raccoglie-re, nell’arco di circa dieci anni, una notevole messe di materiale documentario in grado non soltanto di provare l’esistenza dell’ar-chitetto ma anche la sua produzione. Purtroppo, per un oscuro disegno del destino, pur essendo così vicino alla realizzazione con-creta dei miei scopi, mi sono dovuto accontentare soltanto di una testimonianza, per così dire, di seconda mano, autorevole quanto mai, ma pur sempre tale. Un incendio terrificante divampato nello studio di von Kleist, infatti, aveva distrutto, alcuni mesi prima del nostro incontro, tutto il materiale in suo possesso. Rimanevano soltanto le copie non autografe dei testi di alcuni frammenti di un diario di viaggio di Bauknecht e degli appunti di lettura e di studio di von Kleist che, pur rivestendo un notevole interesse sul piano storico-critico e, soprattutto, di estrema utili-tà per il tentativo di ricostruire la sua complessa vicenda - che in parte è racchiusa in questo libro - non erano assolutamente in gra-do di aiutarmi in quello che mi stava particolarmente a cuore, entrare in possesso, cioè, di reperti pregnanti di “verità”, capaci di provare indubitabilmente che ciò che stavo vivendo aveva un fondamento oggettivo e non si trattava soltanto di un mio delirio, di una produzione “fantastica” dovuta al sovreccitamento della mia immaginazione.

Prologo

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Ero, così, giunto vicinissimo alla soluzione, toccata quasi con mano; ma quella realtà mi si era rivelata inconsistente al tatto, proprio come se si trattasse di un miraggio, accrescendo e non ri-solvendo la mia situazione di angoscia e di dubbio.Non contribuivano certamente a dissipare queste mie per-plessità le testimonianze dirette di von Kleist. Proprio la vicenda legata al recupero dei documenti, tra l’altro, assunse ai miei occhi tinte ambigue e certamente poco credibili. Von Kleist, infatti, mi raccontò di averne avuto premonizione in un agitatissimo so-gno, estremamente confuso e contraddittorio, nel quale Bauknecht gli sarebbe apparso nelle vesti di un gran Visir, il capo coperto da un’alta tiara rosso-fiamma, a cavallo d’un unicorno candido al

pallore dei tremuli astri della notte.“Egli - mi disse Kleist - mi mostrò un lungo sentiero tortuoso che s’inerpicava per un colle oscuro fitto d’alberi dagli altissimi fusti inanellati nei pressi di Mala Strana, a Praga. ‘Lungo di esso andrai” mi urlò a gran voce “e troverai un ceppo riannodato dal tempo, dall’acqua e dal vento. Sotto di esso, sepolto nella terra, un cofanetto contiene le sudate carte nelle quali è racchiuso il segno della mia esperienza terrena’. Così disse e svanì dissolven-dosi nella nebbia del mattino”.Il sogno proseguiva con immagini infuocate delle quali Kleist mi disse di avere un ricordo frammentario ed incoerente.“Da quella notte agitata - proseguì - non ebbi pace e mi posi alla ricerca di quel colle, di quel bosco d’alberi dall’altissimo fusto e di

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quel tortuoso percorso che l’attraversava”.Dopo molti tentativi infruttuosi lo sforzo e la tenacia furono pre-miati; proprio in un angolo molto appartato del parco di Chotko-vy, discretamente nascosto agli occhi dei passanti, perfettamente simile a quello visto in sogno, von Kleist trovò il prezioso cofa-netto contenente le memorie e i grafici di Jeronimus Bauk-necht.A seguito di questo ritrovamento von Kleist aveva potuto rico-struire gran parte della storia di Bauknecht, il fatto che egli fosse nato a Stuttgart, che si fosse sposato con la pittrice Else Gutenberg il 12 aprile 1899, i rapporti con le avanguardie artistico-architet-toniche europee degli anni venti, l’amicizia con Gropius, l’av-venturoso viaggio in oriente, verso una città sconosciuta situata nel vasto altipiano del Tibet, al di là della catena dell’Himalaya, viaggio che, in ogni caso, manteneva connotazioni assai misterio-se sia per il luogo visitato che per le cose accadute, il ritorno in Europa e, dopo l’oblio nel quale inspiegabilmente cadde presso i contemporanei, la vita appartata, schiva dei rapporti con il gran-de pubblico che egli condusse fino alla fine. Il lungo resoconto di von Kleist, che in altra occasione mi avreb-be letteralmente affascinato - sia per la carica emotiva che il mio interlocutore comunicava nel rivivere le avventure dell’architetto tedesco, sia perché quel viaggio assumeva a tratti connotazioni tali da poter sembrare una vera e propria discesa nei meandri del Sé, una scoperta degli orizzonti spirituali e dei limiti dell’uo-mo contemporaneo - mi fece, al contrario, sprofondare in uno stato di profonda prostrazione, una strana zona d’attesa, sospesa a metà tra la veglia ed il sonno, dilaniato da quella forza in-teriore che non smetteva di sussurrare lentamente la mia appar-tenenza ad un’altra epoca, ad altri sentimenti, ad altre passioni. Ma le conseguenze furono più profonde. Al ritorno da Praga e dall’incontro con von Kleist. Le parole del diario, i tratti di quella lontana città, la sua popolazione, gli strani rituali che l’attraversavano, le notti che scorrevano sui muri ed i vicoli dei quartieri, le piazze deserte, e finanche le architetture, le decorazio-ni, i festoni, i bassorilievi, le statue dai corpi contorti, i masche-roni che addobbavano balconi e scale, i portoni e le logge dei suoi spazi mi ritornavano ossessivamente in mente. I frammenti del diario presero la consistenza di immagini. Sulle prime diafane

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figure colorate che facevano la loro apparizione, senza che me ne rendessi conto, non appena socchiudevo gli occhi, la stessa voce di Jeronimus, proveniente da non so dove, cominciò a dettarmi, con estrema lentezza, la storia minuziosa di tutto quello che gli era capitato.Si trattava di una specie di sordo monologo, un incessante fiume di parole, sussurrate come una litania, lenta, cadenzata; proprio come se chi la pronunciava fosse in stato di trance e volesse, contemporaneamente, coinvolgermi in maniera irreparabile in quell’arcano. Le parole, con il loro suono, avanzavano con dolce movimento circolare sulla pelle come onde d’acqua sotterranea che sale impercettibilmente alla luce. A poco a poco fui vittima di questo ritmo oscuro e rividi le immagini che avevano attra-versato la mente dell’architetto tedesco ottant’anni prima. Il suo sogno interrotto riprese consistenza negli spazi della mia fantasia ormai completamente ammaliata dalla nenia cantilenante.Non tutto quello che vidi in quella specie di stato di ipnosi è ri-masto nella mia memoria. I ricordi sono come appannati e, so-prattutto, la sensazione che si sia trattato soltanto del frutto di un’improvvisa malattia, di una sorta di sovreccitazione dell’ani-ma, di una vera e propria produzione delirante ascrivibile a chissà quale misteriosa patologia della mia psiche, non mi ha mai del tutto abbandonato.Ho allora pensato di trascrivere, in un resoconto che fosse il più dettagliato possibile, tutto quello che ho visto e provato in questa inconsueta esperienza. La speranza è stata quella di venire a capo, in qualche maniera, del dilemma che mi ha letteralmente dilaniato per lunghissimo tempo e di comprendere - proprio come se fosse una sorta di confessione liberatoria - la natura dello strano fenomeno che mi ha posseduto. È inutile dire che la mia condizione spirituale non è mutata.Ha, così, preso consistenza una specie di diario-monologo il cui protagonista narrante è lo stesso Jeronimus, le immagini sono quelle che i suoi occhi videro o sognarono, i luoghi sono quelli che lui visitò e gli avvenimenti quelli che lui asserisce essere real-mente accaduti. In molte parti al mio debole ricordo ho sostituito, quando erano disponibili, i frammenti del diario di Bauknecht che von Kleist trascrisse, ritenendomi assolutamente incapace di descrivere il violento turbinio di avvenimenti, sensazioni e lo

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scatenarsi delle passioni che Jeronimus ha richiamato dal fondo della mia immaginazione. Il lettore dovrà, dunque, essere pa-ziente e perdonare l’assoluta incoerenza dello scritto che sto per proporgli non soltanto dal punto di vista del contenuto, gonfio di ambiguità per tutto quello che ho detto finora, ma anche dal punto di vista stilistico, curioso miscuglio di frammenti di un impro-babile diario d’un dannato d’inizio secolo, di alcune lettere e, infine, d’un monologo-descrizione d’un lungo sogno che, a tratti, presenta una assurda logica di concatenazione tra i fatti tipica dei fenomeni onirici e, in altre parti, la stringatezza propria delle relazioni tecnico-scientifiche.A mia parziale discolpa non posso far altro che ricordare, ancora una volta, il mio ruolo di mero strumento di trascrizione, del tutto passivo e, per quanto possibile, assolutamente privo di qualsiasi responsabilità se non quella di non aver potuto più tacere l’as-surda vicenda di cui sono stato, ad un tempo, protagonista ed involontario testimone.Il testo steso da Jeronimus è pieno di lacune, dovute, in mas-sima parte, alla frammentarietà della sua narrazione ma anche alla labilità del suo ricordo. Ho annotato, con la massima fedeltà possibile, tutte queste discontinuità del discorso e, laddove del testo non avevo che una vaga memoria, mi sono limitato a descrivere, in modo sintetico, il senso delle parole di Bauknecht.Mi rendo conto della completa inattendibilità scientifica di questo modo di procedere ma, d’altro canto, data l’assoluta aleatorietà di tutto il contesto nel quale mi sono trovato ad agire - che, come ho già detto, ha lasciato finanche in me stesso non pochi dubbi circa la natura di ciò che è accaduto, se si trattasse, cioè, di un reale fenomeno inconsueto o di un vero e proprio eccesso deli-rante dovuto ad un mio profondo malessere psicologico - non mi è sembrato sostanzialmente scorretto.Ho pensato che, alla fine, tra le tante inattendibili teorie ed inter-pretazioni del mondo che pretendono di essere “scientifiche” e, cioè, di contenere seri, numerosi e considerevoli elementi di verità in relazione alla natura dell’uomo e del suo destino - per tacere qui delle infinite interpretazioni fantasiose appartenenti ai territori della letteratura, della filosofia, dell’arte e della politi-ca - questa improbabile esperienza delirante, pur in tutte le sue contraddizioni inaccettabili dovute certemente ai limiti propri

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della mia mente nel comprendere ciò che è realmente avvenuto ed alla mie modestissime risorse descrittive, potesse risultare, in qualche maniera, utile a qualcuno. Se così fosse e se qualcuno riuscisse a vedere oltre quello che la mia vista è riuscito a percepire, tutto il tempo perduto nel vivere quest’esperienza e nel tentare di registrarla non sarebbe stato dissipato invano.

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l’Epistolario

Questa storia ebbe origine a Parigi, nell’autunno avanzato del 1904, città dove il giovane studioso Jeronimus Bauknecht si tro-vava per stendere le ultime pagine di un libro su Etienne Louis Boullée, conclusione di un’appassionata ricerca sull’architet-to della Rivoluzione che lo aveva assorbito per un lungo periodo di tempo.Le tensioni spirituali che, in quel periodo, agitavano il suo animo erano, all’origine, molto ben documentate da un ricchissimo epi-stolario contenente le lettere scritte alla moglie Else ed a Walter Gropius, amico fraterno. Ma, poichè tutto il materiale origina-rio è andato distrutto, bisogna piegare sulle trascrizioni che von Kleist, per motivi di studio, ha effettuato di suo pugno, le quali ri-guardano soltanto una parte molto esigua del materiale originario e rivestono il ruolo di significative ed insostituibili testimonianze ma non di documenti scientificamente inoppugnabili. Riporto, qui di seguito, i brani delle uniche tre lettere di cui dispo-niamo - una diretta ad Else e due a Gropius - le quali, nonostante le limitazioni e le riserve di cui sopra, molto bene mettono a fuoco i singolari tormenti interiori di cui Bauknecht fu vittima.L’ultima delle tre merita, però, una particolare attenzione perchè in essa Jeronimus riferisce dell’avvenimento che avrebbe improvvi-samente mutato in maniera radicale la sua vita spingendolo verso l’avventura che sappiamo. Mi permetto di sottolineare due elementi che, a mio parere, assumono un significato estre-mamente interessante: il primo è il senso premonitorio che la vita condotta da Bauknecht fino all’incontro con Edward Lafitte assume, come se si trattasse di un predisporsi dello spirito ad accogliere avvenimenti fuori dell’ordinario; l’altro è l’apparizione improvvisa dello stesso Lafitte, vera e propria manifestazione di un ordito nascosto, avvalorato, in qualche modo, anche dal fatto che si tratta di un nome rimasto assolutamente oscuro, nono-stante gli sforzi compiuti da von Kleist nell’associare ad esso un personaggio concretamente identificabile sul piano biografico e storico.

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Ma ecco, dunque, le lettere.La prima, diretta a Walter Gropius, è anche l’unica ad offrire una datazione certa:

Parigi, Rue Cassette 25, 26 ottobre 1904

(...) L’atmosfera di Parigi in questo lungo autunno è densa ed opprimente. Piove da quattro giorni e ciò incupisce il mio animo. Come potrai ricordare non posso fare a meno del sole perchè è come se rischiarasse il mio animo e mettesse in fuga oscure sensazioni che premono per emergere dal fondo. Mi aiuta, in parte, il ricordo del cielo del meridione d’Italia che vi-sitai la scorsa primavera con Else. Ma, a parte questa tristezza che è dovuta in gran misura alla sua lontananza, sento il biso-gno delle tue parole, sempre così lucide e precise nel descrivere la realtà e il modo in cui essa si costruisce e cresce. Ti scrivo e già mi pare di udire la tua voce rispondere con il solito entu-siasmo per fugare la mia depressione; ma non preoccuparti, il lavoro, nonostante i miei stati d’animo, procede bene. La ricerca su Boullée e lo scritto sull’architettura della rivoluzione fanno progressi grazie anche all’aiuto di quell’influente perso-naggio che si è molto appassionato alle mie idee. So che senza la tua parola benevola ciò non sarebbe stato possibile e non puoi immaginare quanto ti sia grato per aver spedito quella lettera in cui l’informavi di me e dei miei interessi per l’illu-minismo francese. Del resto credo che, se riuscirò nell’intento che mi sono prefisso, anche i nostri progetti ne trarranno non pochi vantaggi. Sarà, così, possibile fondare su basi teoriche più solide quell’impalcatura di pensiero alla quale stiamo alacremente lavorando da qualche anno.Amico mio, non soltanto noi ne trarremo partito ma, ne sono sicuro, un’intera generazione di architetti se ne potrà avvalere, quella di coloro i quali hanno scorto in Schinkel un maestro da riscoprire fino in fondo e che coltivano l’ambizioso progetto di riunire tutte le arti (non soltanto quelle maggiori ma an-che, e soprattutto, le minori e quelle applicate) sotto le ali di un’unica, grande Architettura che avrà, in questo modo, il compito di indirizzare gli sforzi di ognuno - sia esso artista, artigiano, letterato, poeta o musicista - in vista di una pro-

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spettiva più piena e soddisfacente per l’uomo.L’opera d’arte totale non sarà più la teorizzazione di una eli-te, ma frutto del lavoro esaltante di una comunità di anime elette, cresciute in esemplare accordo spirituale, con l’unico grande scopo di fare della vita stessa, di ogni suo momento, il singolo ingranaggio di un grande meccanismo universale che ha come unico obbiettivo finale quello della poesia, dell’arte, dell’espressione.Ricordi, amico mio, le nostre discussioni appassionate, l’ammirazione che nutrivamo verso il Medioevo e la collettività anonima di artisti, artigiani, maestri lapicidi impegnati nella costruzione delle grandi cattedrali? Al nostro giovanile entu-siasmo manca ancora l’impegno teorico di un grande Maestro come Boullée. Con il mio studio spero di contribuire al perfetto compimento del risultato finale.Ma per questo ho bisogno di sentirti vicino, di avere a fianco le persone che mi sono spiritualmente affini. Scrivimi al più presto. Se questa lettera ti giungesse prima di quella che ho scritto ad Else raccontale della mia solitudine senza di lei ma dille che è la sorgente spirituale della mia forza d’animo. Un caloroso abbraccio tuo JeronimusPost Scriptum: se puoi, mandami copia degli appunti che stendemmo assieme tempo addietro; mi tornerebbero utilissi-mi per rivedere alcune tesi che porto avanti nello scritto

Della seconda lettera, diretta ad Else Gutenberg, non datata ma chiaramente successiva, in ordine di tempo, a quella ora riporta-ta, non possediamo, purtroppo, che il frammento conclusivo di quello che doveva essere un lungo discorso:

“...Con l’ardore di sempre poterti riabbracciare e sentire il tuo respiro leggero. Spero, dunque, di avere subito tue noti-zie, mia cara, e leggere sembrerà parlarti, averti vicina. Parigi è una città immensa e, come tutte le grandi città, è affasci-nante e smisurata, così nelle dimensioni come nelle passioni che accende. Accoglie, respinge, attrae e rifiuta. Ho visto donne morire per strada senza che nessuno si fermasse alle loro invocazioni d’aiuto, oltrepassandole con lo sguardo, sem-

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plicemente come se non esistessero. Ho visto uomini strisciare come larve al pallore notturno contro i muri delle case e mi sembravano appartenere ad un altro mondo, ad un’altra storia. Sapessi, allora, come mi è sembrato inutile lo studio, la ricerca filologica di documenti che provassero le idee del Ma-estro della Rivoluzione e quanto inutile la missione che io e i miei compagni ci siamo proposta. La razionalità dell’Illu-minismo è stata dunque una reazione puramente intellettuale all’orrore dell’umanità disperata, dilaniata dalla rabbia ri-voluzionaria? La razionalità è una pura fantasia degli uomini per fugare i mostri del mondo reale ma, soprattutto, quelli che si nascondono nel fondo del loro animo inquieto?A volte penso che dovrei smettere di interrogarmi e dedicarmi soltanto a te ed all’amore come ultima sponda per porre fine a questo lento sballottolio da naufrago sulle onde lunghe dell’esistenza; abbandonarsi al flusso delle maree, al respiro profondo del mondo, accettarne le regole, le chiusure, le maledizioni, l’inclemenza delle bufere e la dolcezza della quiete. Ma, poi, si risveglia, a tratti, il vecchio entusiasmo che ha sempre animato la nostra vita, la mia, quella di Gropius e

pensando ad Else ...

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penso che hai ragione tu a spingermi su questa strada. È ne-cessario avere un’idea costruttiva fondamentale ed unificante che possa sovvertire il nero della depressione individuale e il buio della storia nella luminosa prospettiva d’una vita liberata dall’angoscia e dal male quotidiano. Riuscire a concepire un’opera d’arte in grado di trasfigurare l’ordine diurno delle cose in una serie di innumerevoli momenti estetici travolgenti capaci di rendere l’esistenza degna in generale di essere vissuta e che questa, alla fine, sia percepita come lo scorrere di istanti pienamente sublimi.... Se potrò. Ma, naturalmente, ti ho sempre nel cuore, come un anelito di vita che rischiara fortemente il mio percorso.Addio per oggi, tuo Jeronimus

La terza lettera in nostro possesso, diretta a Walter Gropius, pur se anch’essa non datata e incompleta, fornisce illuminanti infor-mazioni a proposito dell’incontro con Edward Lafitte e, soprattut-to, dello stato d’animo con il quale Bauknecht accolse l’idea di imbarcarsi nell’avventura di un viaggio verso una misteriosa città situata nel cuore dell’Asia centrale.

“Sembrò affidabile con quella sua voce calma e persuasiva e per tutto ciò che andava esponendo. D’altro canto, incontrarlo in casa del nostro comune amico fu - come dire? - una garanzia che quanto affermava non poteva essere infondato. Eppure quella storia di una città così lontana della quale si sapevano tanti particolari, finanche dettagli ed inezie del tutto secon-darie e senza alcun apparente significato, aveva certamente dell’incredibile. Però, a mano a mano che il racconto prose-guiva, mi sentivo trascinato in una strana atmosfera irreale e finanche i contorni consueti delle pareti domestiche, delle preziose decorazioni e degli oggetti di arredamento che carat-terizzavano il buon gusto del nostro illustre ospite sembra-vano ovattarsi, sfumare impercettibilmente allo sguardo. Già vedevo delinearsi i profili inconsueti di quei lontani paesaggi e le costruzioni di quell’esotica città. In breve, amico mio, fui completamente affascinato dall’idea di una spedizione in un paese così lontano. Finanche le nostre tesi sulla razionalità

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dell’Illuminismo francese, il merito classificatorio di Diderot, l’arguzia di Voltaire, la ricerca di concretezza orientata verso un’architettura profondamente radicata nei bisogni quotidia-ni e il mio continuo riferimento al Maestro Boullée, unico possibile inizio di ogni rivoluzione formale capace di sconvol-gere l’assetto della città e determinarne il destino in maniera chiara, mi sembrarono, a quel punto, opinabili e l’intera im-palcatura di valori che essi rappresentavano si sgretolò come un apparato inconsistente di facili mitologie intellettuali. La fede e l’entusiasmo che Edward comunicava mi colpirono pro-fondamente e mi spingevano ad abbandonare tutto.In conclusione decisi di tentare l’avventura. Ci ho tanto pen-sato, dopo quella sera, al punto di farne un vero e proprio tormento. Mi sono, poi, reso conto che si è trattato di una vera e propria illuminazione sul senso del mio lavoro, del mio stare qui a Parigi, in quest’atmosfera che sembra trasmettere, con il suo grigiore piovoso, l’inutilità della mia ricerca di fron-te all’occasione che si offre. In altre parole, sono giunto alla conclusione che è necessario, ad un certo punto della propria esistenza, ricercare le motivazioni profonde della nostra arte anche a costo di esplorare le regioni più oscure della mente, del tempo, della terra e della storia degli uomini. In quella lontana città e nei resti che provengono da un remotissimo passato, vi deve certamente essere la chiave di lettura della nostra comparsa sulla terra, la possibilità di rispondere ai molti interrogativi insoluti che tormentano la nostra vita di uo-mini moderni, razionali, tecnologici.So che disapprovi questo slancio emotivo ma, amico mio, cre-dimi, se tu avessi avuto l’opportunità di ascoltare, come me, dalla viva voce di Edward quel racconto ai limiti del compren-sibile, il tono delle parole che fluivano leggere l’una dietro l’al-tra, se avessi visto la sicurezza che aleggiava nel suo sguardo, le domande alle quali tentava di dare risposta, la ricerca del punto d’inizio, come per riammagliare una sottile catena infranta che, al di sotto dei sentimenti, dovrebbe legare tutte le nostre esperienze individuali in un’unica vicenda finalmente com-prensibile, intelligibile, ebbene, anche tu avresti pensato alla stessa mia maniera, saresti stato ansioso di metterti in viag-gio. (...) L’attrezzatura, nonostante ci sia stato assicurato che

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tutto è disponibile anche laggiù, è consistente ed ha richie-sto un notevole sforzo di organizzazione per contenere tutto il materiale in limiti sopportabili tali da renderlo trasportabile senza eccessivi sforzi. Partiremo, dunque, soltanto tra tre gior-ni. Conto di riscriverti prima che si monti in treno per darti altre notizie e comunicarti con maggiore precisione le tappe del nostro spostamento verso oriente. Che Dio ci aiuti e, soprat-tutto, mi permetta di raccogliere informazioni, documenti e re-perti in grado di far luce sulle domande di fondo che segnano la nostra esistenza. La scoperta, infatti, dei resti dell’antica città su cui il luogo dove siamo diretti è stato fondato può fornire innumerevoli risposte ai tanti perchè che disseminano la storia dell’arte e dell’architettura.L’ansia fa scorrere il tempo lentamente anche se molte sono ancora le cose da fare.Un abbraccio fraterno, tuo Jeronimus

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I pochi frammenti visti mostano, dunque, la svolta nella vita di Jeronimus. Se palese è la sua predisposizione spirituale di intellettuale segnato da una profonda crisi culturale, non altret-tanto evidenti sono la meta del viaggio e l’interesse scientifico che essa doveva in qualche modo rivestire. Questi punti oscuri sono però illuminati, anche se solamente in parte, da alcuni frammenti del diario di viaggio di Bauknecht che von Kleist fortunatamente aveva già trascritto e che sottopongo senza indugio all’attenzione del lettore.

“... Finalmente seduto, mentre il treno lentamente s’avviava. Tirai un profondo respiro di sollievo. Ora non mi restava che aspettare e lasciare scorrere il lungo tempo del viaggio. L’al-lentamento improvviso della tensione che s’era andata ac-cumulando nei giorni precedenti, dovuta ai preparativi, a dir poco frenetici, della partenza, alle lunghissime discussioni organizzative, all’emozione per un’avventura così straordina-ria ed inaspettata, mi lasciò per un po’ stordito, proprio come dopo un enorme sforzo fisico il corpo prova a distendersi ma è ancora sotto l’affaticamento dello straordinario impegno cui è stato sottoposto.Mentre il treno abbandonava una Parigi nebbiosa ed estra-nea, il mio pensiero riandava a tutto quello che era suc-cesso nello spazio di due sole settimane. Privo ormai della necessaria fiducia nel mio lavoro, avevo insistito nello studio su Boullée più per la continuità dell’impegno intellettuale che non per un’effettiva profonda convinzione. Ora mi ritrovavo coinvolto in una spedizione scientifica diretta verso una città lontanissima, sperduta nel cuore dell’Asia centrale, della quale non avevo mai sentito parlare prima.Tutto era accaduto così rapidamente da non permettermi nessuna riflessione. Ora, però, la prospettiva del lungo viag-gio mi riportava, gioco forza, ad una dimensione più inti-ma e mi induceva a ripercorrere, con maggiore distacco, tutto quello che era accaduto.Il ritmo cadenzato del treno stabiliva una distanza sempre più grande tra quei momenti di attività frenetica e il mio pensiero. Cominciai, allora, a riconnettere tra loro, le infor-mazioni, le impressioni e gli avvenimenti che si erano sovrap-

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posti l’uno sull’altro in maniera frenentica.... Mi accorgo di soffrire la solitudine. Ed è questa, forse, la mia più grande contraddizione, che, anzi, appartiene a tutti quelli che, come me, si sono posti il difficile - se non impossi-bile - compito di cambiare il corso delle cose, di sostituire la razionalità al posto dei sentimenti e della passione, l’uso al gusto, la struttura alla funzione....Ma, ogni volta che scivolo involontariamente in un dialogo con il fondo di me stesso, mi rendo conto di essere atterrito da un siffatto confronto e di sostituire, alle sensazioni, vuote questioni intellettuali. Eppure ogni conflitto non può ri-solversi se non sul piano della razionalità. Così accade anche

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Pianta della Città-senza-Nome

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per i problemi della grande città, della folla enorme che l’at-traversa, infinita moltitudine di individui soli, ognuno tena-cemente avvinghiato alla sua disperazione, ai suoi meccanismi per dimenticare, per sfuggire ai ricordi che lo perseguitano.Non so spiegarmi, ora che posso rifletterci con calma, il perchè del fascino esercitato su di me da quest’inconsueta avventura in una lontana città alla ricerca dei mitici resti di popoli arcaici. Nè, a rigore, avrei motivo di non prestar fede a tutta la storia raccontata da Edward, anche se il suo resoconto presenta non pochi elementi inconsueti e contraddittori.... Edward, profondamente colpito dalla luce che illuminò gli occhi del vecchio esploratore pakistano prima che si chiudes-sero per sempre, dal fremito che scosse quel corpo rinsecchi-to e dalla stretta delle dita che lasciarono al lungo il segno sull’avambraccio, non ha avuto pace fin quando, nel corso di circa un anno di frenetiche ricerche condotte per gli archivi più importanti di mezza Europa, non ha raccolto un cospicuo numero di documenti nei quali si fa menzione di alcune circo-stanze relative all’esistenza di quella misteriosa città.Ha, così, rintracciato alcune planimetrie, descrizioni e re-lazioni - anche se frammentarie ed incomplete - nelle quali si riferisce di una spedizione di studiosi ed intellettuali di Berna, partita da Praga verso la fine della primavera del 1802, giunta nei pressi di Kabul all’inizio dell’autunno per una sosta di circa due settimane e ripartita, poi, per il Tibet senza che se ne avessero, successivamente, ulteriori notizie. In questi stessi documenti si fa anche cenno ad una città, ubi-cata nella zona centrale del Tibet, verso cui la spedizione sarebbe stata diretta, la quale, a quanto risulterebbe dalla descrizione di un superstite, avrebbe sorprendenti analogie con quella cui ha fatto riferimento il vecchio pakistano in punto di morte. Ma ciò che è più sorprendente - ed è faccenda alla quale, a mio parere, non è possibile dare eccessivo credito - è il fatto che in questa città vi siano usi, costumi e tradizioni culturali fortemente segnati da caratteri dominanti europei, in parti-colare francesi e spagnoli, propri del Seicento. Al con-trario, Edward sostiene che ciò non deve destare particolare meraviglia e scetticismo visto che esistono attendibili

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testimonianze nelle quali si fa menzione di alcune spedizioni di colonizzazione ancora precedenti a quella del 1802, - addi-rittura risalenti ai primi anni del 1600 - composte da elementi misti francesi e spagnoli, forse galeotti cui era stata offerta la libertà a patto d’imbarcarsi in quell’ avventura, i quali, giunti a destinazione, avrebbero preferito rimanere in quel sito piuttosto che tornare in patria e rischiare di essere nuovamente incatenati ai remi. Proprio loro sarebbero stati i fondatori del-la nostra misteriosa città, collocandola sui resti di un vecchio villaggio le cui origini si perdono nella notte dei tempi.Ripeto, però, che, nonostante il fascino delle descrizioni di Edward, la logica stringente delle argomentazioni e, infine, la grande capacità di rendere concrete le atmosfere più irreali e lontane, non mi sarei mai determinato a partecipare a quest’impresa se non fosse intervenuta un’altra circostanza particolare. Ciò che mi ha decisamente coinvolto e spinto all’avventura è la copia di una planimetria della città in questione, il cui originale, rinvenuto in un vecchio codice alessandrino trovato per puro caso in una piccola biblioteca annessa ad una rustica chiesetta del bellunese in Italia, è ora conservato nel museo del Convento di San Marco in Firenze.La copia in possesso di Edward, per la verità, non dava molte indicazioni sia per le cattive condizioni di conservazione, sia perchè estremamente lacunosa ed imprecisa. Ma, per un architetto, una mappa riesce ad avere un indice di verità che nessuna descrizione, testimonianza o argomentazione logica possiederà mai. Poter osservare le strade, alcuni edifici, le curve di livello che individuano le forme delle montagne e delle colline, il tracciato dei fiumi, dei laghi, dei boschi e delle stra-dine che s’allontanano nella campagna è come percorrere materialmente la città, significa impossessarsene fino a non poter più rinunciare a vederla veramente. Quella città con-cretamente deve esistere se ne esiste un disegno planimetrico per quanto impreciso, approssimativo e sbiadito dal tempo esso sia.... Ci stiamo allontanando, impercettibilmente, dalla civil-tà occidentale alla quale siamo abituati da sempre. Non che ci siano così evidenti e rimarchevoli differenze; il paesaggio è lo stesso; così pure il cielo, gli alberi e le montagne che scorrono

l’Epistolario

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al di là del finestrino del treno. Così, infine, gli animali, gli uccelli, le nuvole, l’aria e i profumi dei fiori. Ciò che cambia radicalmente sono gli uomini e non tanto per i costumi che indossano, per gli incomprensibili dialetti con i quali si espri-mono, che suonano alle nostre orecchie come strane cantile-ne altalenanti o complicatissimi esercizi per la lingua e le lab-bra o, infine, per le caratteristiche somatiche, quanto piuttosto per l’espressione degli occhi che in alcuni è sorprendentemente profonda e triste e, in altri, è perduta nella contemplazione di immaginari paesaggi interiori che il nostro spirito occiden-tale non sarà mai in grado di percepire sia pure in minima parte e per un solo brevissimo lasso di tempo”.

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Frammenti della Città-senza-Nome

La presenza di una vistosa lacuna nel diario non consente di riprendere le tracce del piccolo gruppo di esploratori se non dopo il loro arrivo alla meta, nella misteriosa città che Jeronimus non nomina mai. E, per un doveroso rispetto di questa sua scelta, mi è sembrato opportuno indicarla come la “Città-senza-Nome”, chè qualsiasi altro appellativo, a dispetto di ogni sforzo dell’imma-ginazione, si sarebbe rivelato certamente arbitrario e fuori luogo.D’altro canto, se il vero nome rimane nel mistero, altrettanto esi-gue sono le notizie intorno all’organizzazione politica e il tipo di governo che vi regnava. Ma questa seconda carenza dev’essere ascritta soltanto alla mia negligenza, anche se decisamente invo-lontaria. Ricordo, infatti, che Jeronimus, in sogno, mi ha par-lato lungamente di questi ultimi aspetti con una notevole dovizia di particolari al punto da diventare pedante e puntiglioso. E mi rendo conto, d’altro canto, che sarebbe estremamente interes-sante poter qui ricostruire tutto questo assieme di informazioni le quali, tra l’altro, non soltanto permetterebbero di tracciare un quadro della città molto più realistico ma, di più, aumente-rebbero certamente le possibilità di una sua concreta ubicazione geografica e planimetrica. Ma, come ho detto, non so bene per quale strano sconosciuto con-gegno nascosto nel fondo della memoria, di tutto questo non è restato in me la benchè minima traccia. Senza dubbio si deve essere trattato di un vero e proprio meccanismo di rigetto par-tito dall’inconscio che ha cancellato definitivamente quei punti dell’esperienza, per me più odiosi, che Jeronimus mi stava costrin-gendo a rivivere; una censura che ha fatto nettamente prevale-re, nella coscienza, il rifiuto, che ho sempre avuto profondamente radicato, di accettare qualsiasi sistema sociopolitico coercitivo ed iperorganizzato, foss’anche il più libertario possibile, degli uomini sugli uomini in nome di qualsivoglia principio generale che non sia quello della totale assenza di princìpi, del totale ed assoluto autogoverno di ogni singolo individuo, giunto ad una maturità tale da “rispettare” gli altri perchè questo è, di fatto, un dato costituente e fondativo del suo essere.Nelle caratteristiche generali si doveva trattare, comunque, per quanto il mio labile ricordo ora mi permette di ricostruire, di una

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struttura politica basata su di una rigida suddivisione della popo-lazione in due parti, proprio come se si trattasse di caste, classi “parallele” che, pur vivendo a strettissimo contatto tra loro, con-servavano usi e costumi profondamente differenziati.Come poi Jeronimus si sarebbe reso conto in seguito, questo era soltanto ciò che si voleva che i visitatori esterni credessero, perchè gli scambi sotterranei e le interdipendenze tra le due parti erano molto più consistenti e sostanziali di quanto non apparis-se esplicitamente alla luce del giorno. Ma, poichè tutto questo emergerà nella sua cruda chiarezza più avanti, è meglio ab-bandonare quest’argomento, aggiungendo soltanto che, come im-pressione generale, la natura del rapporto intercorrente tra le due caste poteva, grossolanamente, permettere di assimilarlo a

quello, assai consueto nel corso della storia, tra coloni e colo-nizzatori. Questa schematizzazione, però, è calzante soltanto per alcuni aspetti, trattandosi, come ho detto, di una situazione di fatto molto più complessa e tormentata.In realtà non si faceva fatica a comprendere che, in questa rigida suddivisione, persistevano le condizioni iniziali venutesi a crea-re dopo l’arrivo delle spedizioni, composte di elementi francesi e spagnoli, che risalivano all’inizio del Seicento. Ma, all’arrivo di

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Bauknecht e dei suoi compagni, questa realtà fu abilmente nasco-sta e chi aveva compiti di governo apparve agli occhi degli studiosi, come fautore di uno degli ordini sociali più completi, armonici ed equilibrati che si fossero mai visti. Essi furono indotti in questo giudizio anche, e forse soprattutto, dall’immagine della città che si presentò ai loro occhi. Un vero e proprio miracolo formale e, come ebbe a dire lo stesso Jeronimus, un luogo dove “mirabilmente si era realizzato uno straordinario equilibrio tra armonia delle forme classiche e principi di composizione della città moderna”.A proposito di questa sintesi tra architettura e natura, tra forma e modalità della vita urbana, devo aggiungere che l’originario popolo fondatore della Città-senza-Nome era sconosciuto, essendo questa precedente alla venuta della spedizione dei francesi e degli

spagnoli, al contrario di quanto, erroneamente, Jeronimus e gli altri avevano creduto in base ai documenti ritrovati in Europa. Nulla su questa origine trapelò, nonostante gli sforzi di Bau-knecht per saperne di più. La fondazione della città si perdeva nella notte dei tempi, nè era possibile desumere ulteriori notizie dai numerosi, ma del tutto indecifrabili e muti, reperti archeo-logici che erano disseminati nel territorio urbano e nelle sue immediate vicinanze, testimonianza di una ancor precedente e più misteriosa civiltà. Jeronimus, da architetto appassionato cultore del suo mestiere, si

Frammenti della città

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prodigò nello scrivere svariate descrizioni della città e disegnare una numerosa serie di schizzi. Ma, purtroppo, neanche una mi-nima parte di questo materiale originale è scampata alle fiamme e nè io nè von Kleist siamo stati in grado di ricostruirlo, neanche con larga approssimazione. Un unico frammento di diario, scampato all’incendio, che ora trascrivo, ci torna molto utile per la ricostru-zione delle vicende successive.

“Il capostazione aveva assunto, con il trascorrere dei giorni della nostra permanenza in quel luogo, la funzione di guida e interprete ufficiale. Egli era sempre in grado di sciogliere i dubbi che sorgevano a proposito delle questioni più disparate. Ma non fu, in questo caso, capace di fornirci alcuna spiega-zione plausibile, nè, a dire la verità, la faccenda per lui presen-tava risvolti poco chiari. Semplicemente non costituiva un problema. A tal punto era scontato che la città fosse così com’era e, soprattutto, fosse immobile nel tempo che qual-siasi diversa eventualità assumeva, a suo modo di vedere, le ca-ratteristiche della fandonia o dell’improbabile fantasticheria”.

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Jeronimus Bauknecht, Abaco delle tipologie della Città-senza-Nome

Jeronimus Bauknecht, Progetto di dirigibile a forma di Grande Oca

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il Sogno di Jeronimus Bauknecht

Non mi è stato possibile comprendere cosa voglia significare questa curiosa puntualizzazione sul tempo e sull’immobilità della città. Particolare attenzione merita la figura del capostazione perchè, come apparirà chiaro nell’evolversi della vicenda, riveste un ruolo molto importante nella storia. Innanzitutto va precisato, perchè il lettore non sia indotto in errore, che l’appellativo di “capo-stazione” con il quale Bauknecht designa questo singolare perso-naggio non è affatto il corrispettivo linguistico di una funzione realmente da lui svolta nell’ambito strutturale ed organizzativo della Città-senza-Nome, così come, del resto, pare dovesse accadere

a tutti gli altri suoi abitanti appartenenti a quella che abbiamo definito la prima “casta”, quella, dei “colonizzatori”, tanto per continuare ad usare il paragone introdotto in precedenza che, pur in tutta la sua approssimazione, è quello più efficace a restitu-ire la situazione esistente in quel luogo.Infatti, ogni appellativo, cui nel nostro uso comune della lingua è destinato il compito di designare una particolare funzione o occupazione lavorativa, non era impiegato con simile intento. Così il “capostazione”, anche se occasionalmente poteva occu-parsi delle faccende relative alla locale stazione ferroviaria, non era effettivamente colui che si occupasse del suo funzionamento e del fatto che i treni giungessero in orario, bensì un funzionario, per

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così dire, tra i più importanti del governo con mansioni dirigen-ziali di primo piano anche se poteva svolgere anche le mansioni di segretario, giudice, farmacista e altro ancora. Questa mescolanza di mestieri e competenze era una faccenda gene-ralizzata a tutti i colonizzatori e si trattava di una frammistione non soltanto trasversale ma anche longitudinale, nel senso che nell’attività di un singolo coesistevano le funzioni più dispa-rate e contrastanti, ma era possibile, proprio come per il caposta-zione, che si verificasse anche la presenza congiunta di quelle più alte e quelle più basse. In altre parole, un alto rappresentante del governo poteva svolgere mansioni umilissime come quella di lavapiatti, così come un oste grassoccio ed unto degli olii e grassi della sua cucina, era capace di destreggiarsi, tra una omelette ed un soufflè, nella stesura di articolatissimi, complicatissimi e im-penetrabili trattati, a sfondo filosofico-poetico, sull’immortalità dell’anima.Jeronimus afferma che, dopo il primo iniziale sbandamento, tut-ti i membri della spedizione si abituarono senza alcuna difficoltà a questo stato di cose, come pure divenne familiare la strana me-scolanza di stili e, modi di abbigliamento appartenenti a diver-se epoche storiche cui gli abitanti erano avvezzi, così come appare dalla descrizione dell’arrivo e dell’accoglienza loro riservata dai dignitari più in vista del governo:

“Ci introdussero in una grande sala affrescata, luminosissima. Era lì ad accoglierci, come se da sempre stesse aspettando la nostra venuta, un numeroso gruppo di personaggi, i quali, a giudicare dagli abiti e dal portamento, dovevano occupare posti di primo piano nella struttura gerarchica della città. A questo proposito, tranne quelle poche informazioni fornite-ci dal capostazione, che ci aveva accolto al nostro arrivo dal deserto, eravamo completamente a digiuno di qualsiasi notizia riguardante il governo della città e le leggi che la regolavano.Il capostazione ci presentò ai funzionari che erano nella sala e ognuno di questi si esibì in un inchino. Mi colpirono i loro abiti che, contrariamente a quelli indossati dal capostazione e dagli altri, che avevamo incontrato fino a quel momento, sembravano non aver subito sostanziali modifiche, negli ultimi tre secoli, fin dall’arrivo dei primi colonizzatori.

Frammenti della città

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Quello che ci era stato presentato come idraulico-ciambellano e gran dignitario, dopo averci rivolto un sorriso amabilissi-mo, esprimendosi nello stesso strano francese, dalla pronunzia molto dura, adoperato dal capostazione in precedenza, co-minciò a prodursi in un discorso di benvenuto nel quale avem-mo la sensazione che nulla fosse lasciato all’improvvisazione; parole, virgole, pause e finanche le riprese del fiato, tutto, insomma, doveva esser stato provato e riprovato un’infinità di volte, per essere teatralmente esibito in ogni occasione uffi-ciale come quella nella quale ci trovavamo. A causa della lingua e della pronuncia assai approssimativa del nostro ospite, non riuscii a capire granchè del suo discorso. Questo, però, mi permise di concentrarmi sul suo modo di ve-stire che aveva risvegliato la mia curiosità. Sia l’inchino di introduzione, che l’abito, ne facevano un gentiluomo della corte di Luigi XIV di Francia: il cappello piumato a tre pun-te, in pesante velluto nero, si accoppiava, con grazia, al gran-de mantello, adorno di merletti e bottoni dorati, mentre la sciarpa, annodata con studiata trasandatezza, gli scendeva mollemente tra i due larghi baveri ondeggianti della giacca. I polsini della camicia di pizzo finissimo richiamavano la vernice lustra delle scarpe, con tacco alto e fibbie dorate. A comple-tamento del tutto, la grande parrucca inanellata, con i suoi delicati boccoli bianchi, gli scendeva fluente sulle spalle, con-fondendosi nel ricco tessuto damascato.Il discorso durò poco. Dopo di che fummo condotti a visitare il palazzo e le residenze dei dignitari, dello splendore delle quali dirò soltanto che non erano seconde, come ricchezza, dimensioni, solidità e funzionalità, ai più riusciti palazzi della rinascenza italiana e, in particolare, alle ville venete attribui-te al Palladio ed alla sua scuola”.

Questi frammenti di discorso contengono, anche se piuttosto con-fusa, l’intuizione, da parte di Bauknecht, del destino che incombe sulla Città-senza-Nome, come ci si renderà conto, proseguendo nella lettura. Jeronimus è come combattuto tra la sua appa-renza, per così dire, “solare”, risplendente di luci, colori, densa di profumi, nella quale si svolge una vita armoniosa e razionale, e qualcosa che si nasconde, di cui, però, in qualche modo s’intuisce

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la presenza, che assume, a poco alla volta, connotazioni poco rassicuranti. Si tratta di un incedere lento, impercettibile, i cui segni sono, inizialmente, tanto lievi da passare inosservati, ma che, purtuttavia, vengono involontariamente registrati al di sotto del livello cosciente della percezione individuale, rimanendo, però, fissi nel profondo dell’io. Essi si sommano l’uno all’altro, gene-rando, in questo modo, un moto d’inquietudine del quale Jeroni-mus e i suoi compagni non sanno spiegarsi il perchè.Ma prima di giungere alla descrizione dettagliata di questo stato d’animo e del suo trasformarsi in vero e proprio tormento, sarà opportuno leggere gli ultimi frammenti di questa parte di diario.

“L’isolato era al di là del fiume, situato in perfetto accordo con il dolce pendio della collina e sullo sfondo della grande mon-tagna. Era, poi, in questo complesso architettonico che io ed Edward passavamo la maggior parte del tempo, sia perchè il luogo era quello maggiormente indicato a fornire risposte all’infi-nità di quesiti che affollavano la nostra mente, sia perchè l’architettura di quell’assieme delimitava uno spazio nel quale il tempo sembrava seguire ritmi e leggi diverse.Non so bene quale fosse la causa specifica che generava questa sensazione; forse la forma raccolta degli spazi interni e delle strade, forse il tipo di vita che lì si conduceva, le strane funzioni che lì si svolgevano e, soprattutto, il fatto che quello era il luogo, nella città, ufficialmente destinato alla speculazio-

Isolato dei filosofi, prospetto

Frammenti della città

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Isolato dei filosofi, assonometria

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ne intellettuale e alla ricerca poetica. Sta di fatto che, una volta varcato l’edificio d’ingresso, ogni cosa, finanche il colo-re del cielo, assumeva un particolare aspetto, del tutto diverso da quello cui si è normalmente abituati, anche se si tratta-va di mutazioni delle quali ci si accorgeva soltanto dopo lunga e attenta osservazione. Si trattava, insomma, di sfumature, di variazioni delicatissime di tono, di qualità dei suoni, della consistenza stessa dell’aria, leggermente più fresca, della tra-sparenza o dell’opacità delle figure e degli sfondi contro i quali queste si muovevano, del tono particolarmente ovattato che le voci assumevano e numerosissime altre cose che ora non affiorano alla superficie dei miei ricordi. Tutto l’insieme con-tribuiva a far dimenticare il mondo esterno, la stessa città nel suo splendore, la vasta distesa d’acqua del lago, la grande altitudine delle montagne, la presenza inquietante del deserto oltre i confini urbani e ogni altra cosa. Si era, soprattutto, invitati ad un’attività mentale che non è corretto chiamare “riflessione”, anche se a questa molto si avvicinava. Eravano rapiti da una profonda tranquillità interiore, un rilassamento del corpo e dello spirito che, però, invece di sopire, rendeva più acute le capacità speculative, per-mettendo di destreggiarci con estrema facilità tra immagini e concetti, per quanto astratti e rarefatti essi fossero, sta-bilendo nessi, similitudini, assonanze, contrasti e filiazioni estremamente feconde. Eravamo in grado, cioè, di dar libero corso a tutto quell’assieme di facoltà della mente che co-munemente, e in maniera grossolana, siamo soliti raggruppare nell’ambiguo concetto che va sotto il nome di “intuizione”. I risultati di quest’attività assumevano, di volta in volta, aspet-ti sempre nuovi e per noi sorprendenti ma, ciò che ci lasciava ogni volta stupefatti, era la circostanza che quel procedere del-la nostra immaginazione e della speculazione avveniva come se si trattasse di un gioco o, meglio di un concerto, un duet-to, visto che il più delle volte la discussione vedeva impegnati me ed Edward. Ma si ebbero, spesso, anche terzetti e quartetti molto affiatati, nei quali, mi si conceda l’inconsueto termine, il materiale mentale concettuale ed associativo fluiva rapido e armonioso, proprio come in un intrattenimento musicale, in un concerto di musica da camera, godibilissimo sia per chi lo

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produceva, sia per chi, ed erano spesso in molti, si fermava ad ascoltare in silenzio, partecipando al ritmo, alle armonie e alle dissonanze della discussione.Quest’attività si protrasse per un lunghissimo tempo, giorni, mesi, forse anni, non saprei assolutamente dirlo. Si trattava di una dimensione talmente inusuale nell’esperienza della vita contemporanea, dove ogni cosa e, in particolare, il discor-rere è tollerato soltanto se rigidamente finalizzato all’utile, che acquistò per noi il valore di una conoscenza straordinaria. Ciò che ho chiamato, in maniera approssimativa, “intuizio-ne” assumeva, nel fluire del discorso, la consistenza d’una sfera evanescente, trasparente, attraverso la quale si potevano osservare, come in una lente, alcuni aspetti del mondo esteriore e interiore degli uomini. Le caratteristiche degli argomenti che erano oggetto del nostro discorrere erano, così, amplifi-cate, esaltate, scomposte negli elementi costitutivi e questi, a loro volta, erano ridotti a principi, proprio come se si trattasse di particelle discrete di materia. Queste, insomma, potevano

Isolato dei filosofi, pianta

Frammenti della città

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Isolato dei filosofi, prospetto essere vagliate, analizzate nel loro spettro energetico e, finan-che, riequilibrate secondo gli scopi che il discorso generale si era proposto.Il risultato di questo affascinante procedimento mentale era quello che l’oggetto, il concetto, il principio, il sentimento e qualunque altra cosa che appartenesse all’animo umano, alla fine della discussione, era non soltanto conosciuto ma, per così dire, rifondato, riequilibrato, reinventato, in maniera molto simile a quanto accade, per l’appunto, nell’intuizione, dove una cosa che se ne sta da sempre sotto gli occhi, improvvisa-mente, si mostra negli aspetti mai percepiti di assoluta novità”.

La Scrittura

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La Scrittura

“Non mi era mai capitato, nonostante fossi passato di là svaria-te volte, di osservare quella porta, forse perchè sempre chiusa, forse per le particolari condizioni di luce, che ora erano favore-voli, data l’ora inconsueta della giornata.Il varco era situato proprio all’uscita della torre che conclu-deva l’isolato sul lato nord, nei pressi del muro di confine che s’affacciava sulla deviazione del fiume. Oltre la porta v’era un ponte in legno che scavalcava il livello dell’acqua e portava ad un grande edificio con stucchi in rosso e oro.Non so come, mi diressi dall’altra parte e, senza rifletterci, mi ritrovai nell’atrio. Si trattava di un ambiente molto ristret-to e dimesso, senza particolari decorazioni alle pareti, con un soffitto semplicemente dipinto in bianco e riquadrato da un sottile listello di legno di noce. Una piccola scala a chioccio-la, in ferro battuto, s’arrampicava, in un angolo, verso l’alto. Era l’unica via percorribile, visto che non vi erano più porte.

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“riscrivere la storia del mondo in bella calligrafia ...”

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Salii, non senza difficoltà, perchè quella scala sembrava più adatta, nelle sue dimensioni, ai bambini o alle persone molto piccole di statura. Facendo attenzione a non urtare con la te-sta i gradini che si avvolgevano verso l’alto, sopra di me, giunsi a un piccolo disimpegno, male illuminato da una luce molto fioca proveniente da un lucernario. Da un vetro rotto passava-no rapide folate di vento gelido.Sarei certamente tornato indietro, dato il fatto che quella mia involontaria sortita non mi aveva fatto scoprire niente di significativo, se non fosse stato per un colpo di tosse che mi giunse ovattato, debole, come da molto lontano. Mi girai verso destra e lo vidi. Se ne stava dietro quello che doveva essere un tavolo, assolutamente irriconoscibile, sepolto com’era sotto un’interminabile pila di carte, libri, registri. Non mi riuscì di vedere subito il volto dell’uomo. Con il capo chino, era intento a scrivere, e la tesa del cappello gli nascondeva gran parte del volto.Mi accostai. Ero soprattutto incuriosito dall’enorme distesa di carte che, partendo dal tavolo, invadevano tutto lo spazio in larghezza e in altezza. Il fiume cartaceo si trasformava, man mano che lo sguardo si allontanava dalla luce, in una scon-finata distesa, informe, che si confondeva nella penombra del locale, fino a perdersi nell’oscurità più fitta degli angoli nascosti della stanza, proseguendo in un lunghissimo corridoio, del quale non si scorgeva la fine.Mi avvicinai al tavolo. Il rumore dei miei passi, tra l’in-finità di carte sparse per il pavimento, lo avvertì della mia presenza. Alzò la testa e mi vide. Aveva occhi profondi e tristi in un viso minuto. I baffi grigi si stendevano sulle labbra sottili che mi sorridevano.- Salve - disse senza meravigliarsi della mia presenza. - La sta-vo aspettando da molto tempo -.Ero sul punto di ribattere non so che cosa, quando, come se legesse i miei pensieri, aggiunse:- Lo so, lei non mi ha mai visto finora. Ma io ho saputo molte cose sul suo conto e, conoscendola un poco, sapevo che, prima o poi, avremmo finito per incontrarci, perchè la sua curiosità l’avrebbe spinto fin quassù. Ma, la prego, non resti lì in piedi, si segga -.

la Scrittura

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E, così dicendo, mi mostrò, seminascosta in un’enorme catasta di pergamene, una minuscola sedia accanto al tavolo, proprio di fronte a lui.Sedetti, mentre lui mi osservava in silenzio e mi sorrideva affabilmente. Era un sorriso che mi piaceva, sincero, rassicu-rante.- Lei si starà chiedendo chi io sia e come faccia a conoscer-la. Non la lascerò ancora nel dubbio. Mi chiamo Robert Schrei-ber e sono, come molto eloquentemente tutto quest’ambiente dimostra, scrivano e archivista-capo della città -. Un improvviso colpo di tosse lo interruppe. Pescò nelle ta-sche, tirandone fuori un largo fazzoletto a fiori. Si soffiò rumo-rosamente il naso, poi riprese:- La conosco perché ognuno degli abitanti di questa città sa tutto di tutti e in special modo delle novità. E il vostro arri-vo dal deserto è certamenteavvenimento inconsueto per questa città. Qualche riflessione e qualche deduzione ed ecco che ho finito per conoscerla. Mi sono note, soprattutto, le tensioni spi-rituali che attraversano la sua coscienza -.Aveva marcato l’accento sulla parola “spirituali”. Feci nuovamente per parlare, ma lui mi prevenne ancora una volta.- No, non si preoccupi, io non condivido le idee materia-listiche del capostazione, la sua incrollabile fede nel progresso e nella razionalizzazione produttiva della vita urbana. Ma è proprio per questo che sono stato collocato qui, in disparte. Anche se, però, non sono del tutto d’accordo con lei.- Lei - dissi - non crede, dunque, che l’interiorità vada, in qual-che maniera, scoperta, portata alla luce e salvaguardata? -.- Non credere al positivismo non significa, necessariamente, dar libero corso a tutto ciò che si cela nel profondo, aprire un varco che si potrebbe rivelare estremamente pericoloso -.- Di quali pericoli parla? -.- Veda, l’apparenza inganna, nel senso che tutto ciò che è co-struito per funzionare in un certo modo, in realtà, ha dentro di sè, al di sotto della pellicola esteriore che lo riveste, misteriosi percorsi che, il più delle volte, sono incontrollabili ma che, soprattutto, possono scatenare tensioni poco utili, ma tragi-che, infinitamente pericolose -.- Si spieghi perchè non credo di capire. Quali forze, quali peri-

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coli, quali situazioni, quali tragedie? -.- Non posso essere più chiaro. Posso soltanto dirle che non vi può essere vantaggio alcuno se si abbandona la superficie del-le cose, se si immerge il capo al di sotto del livello del mare, in un regno totalmente sconosciuto. Si potrebbero scorgere delle profondità, talmente sconfinate da atterrire per la loro vastità piena di nulla. Il mondo può essere, al contrario, raggirato, per così dire. Cioè, si può costruire una complessità, in qual-che maniera soddisfacente ma non pericolosa, rimanendo sulla superficie del mondo.- Senza, cioè, nessun approfondimento? Mi sembra del tutto impossibile -.- E invece no, se prova a pensarci con maggior calma. Lei, nei suoi discorsi con il capostazione, ha sostenuto che le vecchie mitologie sono comunque necessarie, anche se infondate. Non è vero? -.- Certamente -.- E non è questo un discorso che poggia la sua principale stra-tegia sulla finzione e, dunque, su quella che possiamo defi-

Lo studio di Herr Schreber

la Scrittura

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nire, mi perdoni, la regina delle superfici? -.- Non vedo l’equivalenza tra finzione e superficie -.- Le sarà chiara se ha la pazienza di seguirmi nel mio ragio-namento. Segua con attenzione l’esempio che le propongo. Il mio scopo, qui, tra queste carte che vede, è quello di ricopiare documenti originali in bella copia, in bella calligrafia, come si dice. Tutto quest’oceano di carte, trattati, pergamene, ro-giti notarili, testamenti, ultime volontà, costituzioni di società, manoscritti, fatture, conti e così via, non aspetta altro che la mia opera, per così dire, di superficie ma, non per questo, non ordinatrice, non in grado di attribuir loro un senso, anzi.Riesce ad immaginare, lei, come sarebbe il mondo se tutti fossero in grado di scrivere in bella calligrafia, di impegnarsi profondamente in questo scopo, spendendovi tempo, ener-gie, rinunciando, contemporaneamente, a tutte quelle altre attività remunerative cui, nello stesso tempo speso per ricopiare documenti in bella grafia, avrebbero potuto dedicar-si, ricavando, certamente, un margine di profitto enormemente più grande? Questo comporterebbe un cambiamento radi-cale dell’atteggiamento umano rispetto al concetto di utile. Non è d’accordo? -.- In qualche maniera, pur partendo da premesse completa-mente diverse, lei sembra giungere alla mia stessa conclusione. Ma il problema di fondo, però, permane. Lei svuota comple-tamente di significato l’azione. Scrivere in bella calligrafia significa scrivere “bene”, in maniera attraente, senza alcun ri-guardo per il contenuto o, almeno, ponendolo assolutamente in secondo piano. Io sostengo proprio il contrario, la riappro-priazione piena e profonda del contenuto, del significato -.- Un significato del tutto infondato - mi interruppe lui - men-tre invece io non mi occupo più di esso. Lo metto da parte senza alcuna preoccupazione. Non è quello che scrivo ad assumere importanza ma come lo scrivo. D’altronde, converrà con me, tutto, in qualche modo, lungo il corso della storia, è stato già detto, usato, svuotato della carica iniziale. Dunque, se non fosse come dico io, se cioè non fosse la grafia ad occupare un posto di primo piano rispetto al significato, non ci restereb-be che tacere -.Ci fu un attimo di silenzio nel quale mi osservò come se mi

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volesse scavare all’interno dell’anima. Poi riprese, con la voce turbata da non so quale leggero ansimare.- Non è quello che si scrive ad assumere importanza ma come lo si scrive - disse di nuovo, come per convincersi che il concetto fosse giusto. - Il come - proseguì dopo una breve pausa - in altre parole, dà la misura artistica dell’azione. Scrivere in bella calligrafia si-gnifica decorare, riempire di segni il foglio bianco e scacciare l’angoscia che esso incute. I segni delicati ed armoniosi che lentamente invadono, con ordine e grazia, rigo dopo rigo, quel vuoto, quella superficie deserta, scacciano il disordine, il caos, il conflitto. L’applicazione ad un’occupazione come questa non potrebbe che migliorare gli uomini. La decorazione, in questo modo, scorrerebbe leggera, deliziosa come il fluire stesso della vita, come il canto degli uccelli nella natura, come le im-magini sotto gli occhi di chi passeggia per la città e trascorre la sua giornata tra un’alzata di cappello ad una bella sconosciuta e un sorriso rivolto ad un volto cordiale che s’incontra per caso. Questo scorrere fornirebbe il tempo per il fluire dell’im-maginazione, dei ricordi e delle associazioni di idee -.- Non posso negare che, quantunque da me non condiviso - aggiunsi meravigliato dalla sua capacità di fornire delle immagini così ampie del suo pensiero - il suo discorso procede coerente. Ma non posso fare a meno di rilevare un paradosso del suo ragionamento: com’è possibile dal vuoto generare il pieno? Com’è possibile dalla mancanza di significato avvi-cinarsi a quello che, forse, è l’unico comprensibile per la nostra sensibilità di uomini moderni? -.Non mi rispose. Rimase per un po’ in silenzio. Poi, come spinto da un’improvvisa determinazione, si alzò dal suo scanno e mi disse:- Mi segua. Ho da mostrarle alcune cose. Spero che la ri-sposta che lei va cercando le appaia evidente dalla loro osservazione -.Mi fece cenno di seguirlo per il lungo corridoio. Rimanemmo in silenzio per tutto il percorso, un silenzio rotto soltanto dallo sfregarsi dei nostri abiti contro i lembi di carta che sporgeva-no dalle due enorni cataste, disordinatamente accumulate ai lati del nostro cammino, a formare due incoerenti pareti altissi-

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me che ci sovrastavano.Non ricordo per quanto tempo vagammo in un interminabi-le labirinto di carta. Ricordo soltanto che mi venne di pensare al tempo che ci sarebbe voluto a ricopiare in bella calligrafia quella massa sterminata di documenti. Un interminabile esercito di migliaia copisti, impegnato giorno e notte per centinaia di anni, non sarebbe bastato a portare a termine quell’immane lavoro. E mi venne fatto di ammirare la forza d’animo di quell’esile ometto che mi precedeva, con la schiena un po’ curva per il lavoro e per il peso degli anni, che ancora ricordava la luce del sole e paragonava quella sua occupazione al vagare per i campi”.

Non sono riuscito a capire per quanto tempo Jeronimus, con-dotto da Robert, sia rimasto a girovagare negli archivi della Città-senza-Nome. Ma, a giudicare dalla loro probabile estensione planimetrica, certamente si trattò di un percorso lungo alcuni giorni se non di settimane o addirittura mesi. In quell’intermi-nabile arco di tempo, l’archivista continuò a parlargli della sua particolarissima visione del mondo e della strategia, per così dire, che egli aveva elaborato per soppravvivere in esso. Questo lungo discorso, come abbiamo già compreso dalle battute registrate nel diario, veniva componendo un quadro complessivo, affat-to diverso da quello che apparentemente era l’organizzazione diurna della Città-senza-Nome. Al di sotto della realtà solare e luminosa, per così dire, che appariva in pieno giorno, essa na-scondeva aspetti a dir poco inquietanti, segreti, tormentati. Tanto contorti e perversi che uno spirito come quello di Schreiber, che Jeronimus non esitò a definire nobile e generoso, aveva pre-ferito nascondersi all’interno di quella vera e propria fortezza di carta, piuttosto che continuare ad affrontarli. Fortemente condizionato da questa convinzione che, a poco alla volta, andava facendosi strada dentro di lui, Jeronimus ascoltò con estrema attenzione tutto quello che lo scrivano gli andava ancora raccontando. Parole e frasi come “massa”, “singolo”, “omologazione”, “arroganza” e “perdita di ogni orizzonte di ri-ferimento” cominciarono a sovrapporsi l’una sull’altra e, come le carte in quello sconfinato archivio si erano ammucchiate, nel corso dei secoli, in colossali cataste, così i termini consueti della lingua

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si inseguivano e si confondevano fra loro in un lento rimescolio fino a perdere del tutto la loro capacità di comunicare.Proprio come aveva teorizzato in precedenza, l’archivista, con il suo parlare, non comunicava significati in se stessi comprensibili, ma veniva componendo un unico disegno che, per la sua strut-tura complessiva, per i ritmi e le assonanze fu in grado di suggestionare Bauknecht in maniera profonda. E fu così che egli ebbe l’impressione che qualcosa, da qualche parte, si anda-va decomponendo e di un imminente disastro irreparabile. Non v’era, a detta dello scrivano, alcuna possibilità di scampo. Una sola soluzione era possibile: nell’attesa del crollo finale, bisogna-va rinunciare a qualsiasi protagonismo, farsi umili, passare inosservati, nascondersi nel più profondo della folla. Soltanto in questo modo sarebbe stato possibile recuperare la propria indivi-dualità e affrontare gli ultimi momenti con consapevolezza, con la piena coscienza di ciò che si era stati e non essere trascinati

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nell’orribile baratro dell’illusione che divorava tutti.Quando giunsero nei pressi dell’uscita, l’archivista guardò nuo-vamente Jeronimus con quei suoi occhi profondi e melanconici:

“- Non posso più proseguire - mi disse - Per me è vietato im-boccare questa strada. Ma è proprio passando da questa parte, a quest’ora della notte che, forse, alcuni dei quesiti che le ingombrano la mente potranno essere soddisfatti e i problemi ad essi connessi avviarsi a soluzione. Ma, come le ho detto, stia attento alla folla. Essa è infida e pericolosa e nasconde proprio quelle oscure minacce di cui le parlavo. No, - mi prevenne - non mi chieda di più perchè qui il mio compito cessa. Vada avanti e, ricordi, creda sempre con estrema riserva mentale a tutto quello che vedrà. Addio -.Scappò via, dopo avermi stretto la mano, perdendosi nel buio dell’edificio.Ed ecco lì la città, seminascosta dall’oscurità della notte.Avevo la strana sensazione di trovarmi in uno spazio e in un tempo molto diversi da quelli diurni, in un’altra epoca. Anche quel poco dei palazzi, che riuscivo a scorgere nella penombra, mi sembrava in aperto contrasto con quanto mi sarei aspet-tato di vedere. Ma, passato il primo momento di diso-rientamento, questa sensazione si andò attenuando e, dopo un po’, non mi meravigliai di averla provata perchè, ora che me ne rendevo conto, era quella la prima occasione che mi si era presentata, da quando ero nella città, di vederla di notte. E di notte, mi dissi, tutte le cose cambiano aspetto, diventano diverse.Mi trovavo in una strada lunga e stretta che proseguiva in discesa, costeggiando quello che intuivo doveva essere il corso del fiume ma che mi appariva, a causa del buio, come un nero specchio senza fondo, una superficie inperscrutabile in freneti-co movimento.Lontano, verso il ponte, i lampioni delle torri mandavano, nell’atmosfera circostante, un debole alone di luce azzur-ra, fredda come l’aria della notte che mi tagliava il viso e mi ghiacciava le dita. Strinsi i pugni in tasca e mi diressi, a passo svelto, verso la zona illuminata. Lì, pensai, c’era l’opportunità di incontrare qualcuno, perchè mi sarei trovato

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a pochi passi dalla piazza dove, di solito, era sempre possibile vedere un gran numero di persone sostare e chiacchierare animatamente, anche se mi venne in mente di non aver la più pallida idea di ora fosse e se ancora qualcuno, con quel freddo, girasse per strada. Il mio pensiero andò ad Edward e gli altri. Da quanto tempo non li vedevo? Quanti giorni erano passati, girando in quell’interminabile labirinto di carte, senza che me ne rendessi conto?Mentre procedevo in fretta e le pareti scure degli edifici ai lati della strada rimandavano l’eco dei miei passi che s’affret-tavano verso il tavolato di legno del ponte, mi ritornavano in mente le parole dello scrivano e il senso di smarrimento che aveva suscitato in me quella specie di profezia apocalitti-ca, sulla città e la sua popolazione. Ero confuso, frastornato. Non potevo negare che, immerso nell’atmosfera dell’archivio, oppresso dalla polvere millenaria di quell’infinità di docu-

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menti, ero stato come avvolto nel disegno di sfacelo che quel singolare personaggio mi aveva tratteggiato con la sua voce, lenta, dolce, ammaliante. L’aria fredda della notte ebbe l’effetto di un brusco risveglio e mi riportò di colpo alla realtà. Com’era possibile che quello splendore non fosse che illusione, una specie di miraggio, destinato a dissolversi da un momento all’altro? Tutto quello cui avevo assistito e le discussioni cui avevo partecipato, le relazioni del capostazione, sempre così ef-ficiente e razionale, tanto da trascinarci, molto spesso, in inter-minabili battibecchi sul senso dello spirituale, e le meraviglie di quell’isolato splendido, nel quale la libertà di pensiero aveva raggiunto una dimensione addirittura fisica, tanto era sentita; tutto ciò una finzione?Certamente non avevo del tutto compreso il senso del discorso di Herr Schreiber. Molti nessi logici, che oggi mi appaiono plausibili, mi sembravano del tutto opinabili, infondati, ines-senziali, al punto da farmi smarrire il significato complessivo di quel parlare che, ora, a ben vedere, mi sembrava pieno di contraddizioni e di illazioni. E, poi, di quali pericoli andava parlando? E come condividere, inoltre, quella tesi secondo la quale l’unica via di salvezza era nel rimanere sempre alla superficie delle cose? Mi meravigliai di come fossi rimasto ad ascoltarlo, senza dire nulla contro quelle che, alla distanza, mi sembravano delle idee originali sul piano discorsivo e lettera-rio, ma che non erano assolutamente condivisibili e certamen-te molto lontane dai miei principi di razionalità e di ricerca interiore. E inoltre, come era possibile affermare, con tanta disinvoltura, che la ricerca dei significati delle cose è inuti-le perché, a sondarne la profondità con il dovuto rigore, si trovava inevitabilmente il nulla? E se non v’era nulla al di là del nulla perché parlare di pericolo? Come era possibile che il niente, il vuoto assoluto potesse essere pericoloso? Giunsi alla conclusione che doveva essere soltanto il gusto del parados-so ad animare l’archivista e che, inoltre, doveva trattarsi di una specie di deformazione, derivatagli da quel suo mestiere del tutto al di fuori dalla realtà e in continuo contatto con un passato che doveva aver assunto, nella sua fantasia, dimen-sioni tali da assorbire completamente qualsiasi altra cosa il mondo potesse offrire. Era questa condizione a fargli enunciare

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teorie del tutto inaccettabili, come quella che fosse necessa-rio sprofondare nell’anonimato della massa, nell’angolo più recondito per recuperare la propria individualità.Completamente assorbito da queste mie considerazioni, arri-vai al ponte che attraversava il corso d’acqua. Ma quella che da lontano m’era sembrata una gran fonte di luce si rivelava essere, ora che ero giunto fin là, una fioca lanterna che illu-minava l’insegna che sovrastava un piccolo portoncino in un angolo di un grande edificio immerso nel buio.Un tipo intabarrato in un lungo pastrano nero e cappello con una larga tesa se ne stava sotto il lampione e la sua figura tracciava sul selciato una lunga ombra. Mi fece un cenno fur-tivo al quale risposi con riluttanza. Dal fiume, intanto, s’era alzata una fitta nebbia che rendeva la visibilità ancora più scarsa. Mentre gli andavo incontro avvertii, con un gran senso di disagio ed un lungo brivido, una coltre di umidità span-dersi sulle spalle, le braccia e lungo la schiena”.

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L’uomo in nero era ciò che noi chiameremmo un imbonitore, un acchiappa grulli, un adescatore insomma, il cui compito consisteva essenzialmente nell’attirare i viandanti che, a quell’ora di notte, si trovavano occasionalmente a transitare per strada. Li invitava a varcare il portoncino per entrare in quello che lui asse-riva essere uno dei luoghi più accoglienti della città, al riparo dal gelo e dagli imprevisti della notte, in grado di assicurare ai suoi visitatori ore liete in allegra compagnia. E, a onor del vero, dovette essere oltremodo convincente perché Jeronimus non si fece molto pregare per accettare quell’invito ed entrò. Una volta varcata la soglia, egli si trovò in quella che era poco più di una lurida bettola, stipata di sedie di paglia, tavoli vecchi e bisunti, scaffali traballanti alle pareti, densa di fumo e di persone che si accalcavano le une sulle altre, giocavano d’azzardo, bevevano e cantavano a più non posso. Sia come sia, è da supporsi che, sotto l’influsso dell’alcol, del fumo opprimente che invadeva il piccolissimo ambiente e il sorriso complice di qualche bella donnina egli si lasciasse convincere a partecipare a non so quale gioco d’azzardo che lì si stava svolgendo, con lo scopo di incastrare proprio quelli come lui che incidentalmente fossero capitati in quei paraggi. E si sa come terminano le avventure di questo genere: con una rissa, una retata o che ci si ritrova, completamente spogliati di tutto ciò che si ha indosso, in qualche angolo buio nel fondo di un vicolo, eventualmente tramortiti da un colpo ben assestato sulla nuca al momento opportuno .Così dovette pressappoco accadere nel nostro caso. Sta di fatto che Jeronimus si ritrovò disteso sul freddo pavimento della strada, al centro di un capannello di strani personaggi notturni. “Stra-ni” è aggettivo usato da Bauknecht, in uno dei suoi pochi ri-cordi chiari di quell’episodio.

“Erano strani, vestiti con strani abiti, con uno spesso strato di cerone sul viso e pesanti rigature di bistro sotto gli occhi, tanto che mi diedero l’impressione di caricature. Un uomo con occhi molto grandi, bovini, ed un fiore rosso all’occhiello di

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un irreprensibile vestito a righe, mormorava parole, per me incomprensibili, all’orecchio di un tizio allampanato con un lungo volto inespressivo.La testa mi girava vorticosamente e non ricordavo asso-lutamente niente di quello che mi era accaduto. Altre persone si aggiungevano a quelle che già erano presenti sul posto. Il silenzio diventava sempre più pesante ed insopportabile mentre il freddo m’aveva stretto con prepotenza il corpo in un violento tremito.Mi fissavano con insistenza con occhi penetranti, sfacciati, in-decenti. Non ero in grado di capire che cosa volessero e quali fossero le loro intenzioni nei miei riguardi.Cominciarono a sussurrare un’incomprensibile parola che fini-va in una inconsueta, impronunciabile desinenza. La mor-moravano all’unisono, tutti assieme, pian piano, guardandomi fissamente, crudeli e minacciosi. Così facendo, s’erano disposti in circolo attorno a me che, a fatica, ero riuscito ad alzar-

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mi da terra. Man mano che i loro volti si avvicinavano lentamente al mio, quella parola veniva gridata più forte, un gradino più su di tono, finchè si trasformò in un urlo senza fine, lanciato nella notte sulle note più acute e isteriche delle femmine e su quelle più roche e potenti dei maschi.Ero terrorizzato. Non capivo che cosa mi stessero urlando ma lo facevano con una violenza ed un odio che non avevo mai visto. Cominciai ad strillare anch’io, sperando che qualcuno udisse le mie invocazioni di aiuto. Cercai di fuggire da quella situazione allucinante, facendo di tutto per aprirmi un varco in quel cerchio di corpi che avevano preso a girarmi intorno in un infernale girotondo da manicomio.Avrei voluto avere una voce forte come un tuono e farmi sentire fino al deserto.

BANG! BANG! BANG!I tre colpi esplosero all’improvviso, facendo sobbalzare tut-ti. Da una finestra al primo piano una sagoma indistinta, nel buio, puntava minacciosamente una pistola verso il gruppetto dei miei aggressori.- Via canaglie se ci tenete alla pelle - gridò con voce acuta e, poi, rivolto a me: - Herr Bauknecht, scappi finchè è in tem-po, si butti in quel vicolo e corra più veloce che può, faccia presto! -.Completamente frastornato dagli avvenimenti, mi lanciai di corsa vero la direzione che mi aveva indicato il mio sconosciuto soccorritore. Non mi riuscì di vederlo in faccia ma riconobbi la voce inconfondibile di Edward e ringraziai il cielo che si fosse trovato lì in quel preciso momento.Il vicolo era stretto e buio ma la paura che i miei sco-nosciuti persecutori decidessero di inseguirmi e mi raggiunges-sero, aveva messo le ali ai miei piedi e correvo a più non posso. Giunsi alla fine della strettoia e voltai a destra in una strada più larga. Poi ancora a sinistra, finchè capitai in una piazzetta deserta. Mi fermai un attimo per riprendere fiato. Il cuore mi sobbalzava nel petto come impazzito e mi mancava il respiro. Era un infinità di tempo che non correvo in quella

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maniera e il mio corpo era stremato dallo sforzo e dal terrore che l’aveva attanagliato fino a pochi minuti prima. Corsi non so per quanto, fino a che mi sembrò di non avvertire più alcun rumore dietro di me. Nessuno dunque mi inseguiva. Evi-dentemente Lafitte doveva averglielo impedito continuando a minacciarli con la pistola. Non c’era dubbio: intervento provvidenziale il suo! Chissà come mai si trovava lì, mi chiesi. Evidentemente, preoccupato, con gli altri, per la mia improv-visa sparizione, si doveva esser messo, in qualche modo, alla mia ricerca. Infatti, senza rendermene conto, ero scomparso. Quanti giorni erano passati, settimane, o un mese? Da quanto durava quel mio girovagare notturno? Non avrei saputo dirlo.E, dunque, i miei compagni erano sulle mie tracce, magari avevano parlato con l’archivista, riuscendo, in questo modo a ricostruire il mio cammino. E Lafitte si era provvidenzialmente trovato lì a tempo. Ma perchè aveva detto di allontanarmi in fretta da quel posto e non mi aveva seguito? E perchè non era uscito da quell’edificio? Ora, riflettendoci, anche la sua voce

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mi sembrava in qualche modo spaventata. Dovevo as-solutamente tornare verso la strada dov’era il nostro alloggio, rimettermi in contatto con lui perchè tutto quello che stava succedendo sembrava non avere nè capo nè coda.Mentre procedevo a passo svelto lungo una stretta viuzza, un’infinità di altre domande, che fino a quel momento il rapido susseguirsi degli avvenimenti aveva ricacciato nel fondo di me stesso, si accavallavano l’una sull’altra. Ma, su tutto, s’imponeva l’ormai precisa sensazione che quella che io stavo percorrendo di notte, fosse una città completamente diversa da quella diurna con la quale avevo consuetudine e, soprattut-to, ero ormai certo che le pietre che componevano i suoi elementi, strade, palazzi, muri avessero acquistato una certa mollezza, che fossero, in qualche maniera, diventate sensibili come le parti di un corpo, di una grande massa di carne che si perdeva nella notte, sulla quale io camminavo affondando i passi. Sembravano suggerirmi quest’idea tutte le forme che cadevano sotto i miei occhi e, nella semioscurità, finivano per accellerare ancor più i pensieri della mia fantasia sovreccitata dagli avvenimenti e dalla corsa a perdifiato per quel dedalo di viuzze. Cartocci e sfere marmoree, archi spezzati, volute e spirali mai viste si arrampicavano sulle facciate dei palazzi, torcendo fine-stre, spalancando balconi, piegando basamenti marmorei, deformando larghe scale che si trasformavano in grandi lingue che dall’interno dei cortili venivano a lambire la strada fino ai miei piedi. Un esercito di maschere dagli occhi cavi e dalle bocche spalancate, di gnomi, cavalli alati ingroppati da statue con i capelli mossi dal vento, s’affollava in nicchie ellittiche, scavate nelle pietre dei muri, circondate da foglie, pampini, grappoli d’uva, capitelli gonfi e pesanti poggiati su enormi colonne ritorte su se stesse. Grandi lastroni di piperno, scuri come la pece, facevano da sfondo a lunghi cornicioni agget-tanti, cupole, lanterne e stucchi corrosi dalla pioggia e dalle muffe. Ed ancora balaustre di marmo, colonnine rigonfie, sca-lee, trofei, cippi funerari, archi trionfali, ogni sorta di uccelli marmorei, leoni e grifi, armature e paraste, lance, false fine-stre, cieche come gli occhi di grandi statue abbandonate dal tempo, bassorilievi, tritoni cartacei dallo sguardo perfida-

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mente vuoto, coppie di delfini dalle code intrecciate a formare uno stucchevole fiore, corone, ghirlande, donne semivelate dagli sguardi imploranti, cariatidi, sfingi, meduse, chimere, centauri, dragoni, unicorni doppi, canephorae, demoni sghi-gnazzanti, putti obesi dagli odiosi sorrisi, arpe dorate, divi-nità bifronti, baldacchini, altane diroccate ed ogni sorta di serpenti dalle fauci spalancate.Quella che di giorno, dunque, s’affettava a superba città neoclassica, sobria nelle sue decorazioni e razionale nel suo impianto era, in realtà la maschera d’un odioso dedalo inestricabile di viuzze sordide, d’una gonfia e pesante città barocca, gravida di odio e d’una popolazione stracciona e violenta, assurdamente aggressiva, incomprensibile nel suo linguaggio? Cominciai a temere che l’archivista avesse visto giusto. Non era tutto quello che cadeva sotto i miei occhi materia in decomposizione, preludio ad un crollo totale e definitivo che si preannunciava terrificante? ... Una notte interminabile che durava da un tempo infi-nito, che non mi dava tregua, che non mi permetteva di trovare pace. Dovevo dunque rassegnarmi a non ritrovare mai più i miei amici, a mai più rivedere il giorno, la luce del sole? Ero condannato per sempre a questa prigione, all’assurda struttura di questa città, a nascondermi dal popolo larvale che strisciava per i suoi vicoli?... Ne ero ormai convinto. Come un orrendo animale della not-te dei tempi, infinitamente grande e possente, la città viveva. Non sapevo dove fosse la sua anima, se mai ne avesse avuta una. Ma il suo corpo si stendeva dappertutto, le strade erano come la sua pelle e gli edifici come tanti bubboni purulenti che sobbalzavano ad ogni suo movimento e la divoravano, in una lenta malattia senza fine. Di ogni cosa gli abitanti sembravano essere perfettamente consapevoli come se si fosse trattato di una faccenda del tutto ovvia”.

Non sono realmente riuscito a rendermi conto se questa grande dilatazione del tempo della quale Bauknecht parla, corrispon-desse ad un effettivo trascorrere di giorni o se, al contrario, data la particolare condizione in cui egli si venne a trovare, si trattasse soltanto di un suo personale sentire, di una sorta di deliorio allu-

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cinato che lo possedette. La conoscenza esatta di queste circostanze, comunque, se, da un lato, sarebbe estrememente utile ed oppor-tuna per un’esatta ricostruzione degli avvenimenti, dall’altro, su quello della valutazione della portata emotiva dell’esperienza vissuta da Jeronimus, nulla in più aggiungerebbe a ciò che già siamo in grado di valutare: tutta la speranza d’aver rintracciato un luogo, la Città-senza-Nome, nel quale l’uomo non soltanto progettasse la sua felicità ma fosse realisticamente avviato sulla buona strada per realizzarla, non era altro che una profon-da illusione. Quella città, radiosa di giorno, era, di notte, una trappola infernale, preda dei più perversi meccanismi che l’animo umano avesse mai potuto ospitare nei suoi più reconditi recessi.L’idea s’era insinuata in maniera strisciante nella sua mente fino a che, di colpo, gli si parò dinanzi in tutta la sua crudezza. Questa consapevolezza lo portò a cercare istintivamente un rifugio, un buco nel quale, non visto, potersi rintanare, al sicuro da tutto ciò che la notte poteva nascondere nelle sue profondità. In questo anfratto egli fu atterrito spettatore di una serie incredibile di avve-nimenti e situazioni che, in parte, riuscì a trascrivere nel diario.

“Da quel posto potevo osservare, non visto, tutto ciò che ac-cadeva di sotto, per strada. D’altro canto, non so per quale strano fenomeno, da quella parte la luminosità era abbastanza accentuata, come se non fosse più notte fonda, ma ci si tro-vasse dopo il tramonto, all’imbrunire, anche se quel grigio piattamente diffuso nulla aveva a che fare con la gamma di co-lori che determinano la particolare atmosfera del crepuscolo. La strada sottostante era, in alcuni punti, tanto stretta che bisognava passarci uno per volta e, in altri, si allargava a forma di fuso. In quella penombra, le pareti degli edifici sembravano ancor più alte, come fossero delle muraglie e facevano pensare alla strada come ad un budello lungo e umido che attraver-sava, per tutta la lunghezza, un grande animale di pietra, nel quale le voci ed i passi degli inghiottiti risuonavano e rimbal-zavano al lungo, come palle di gomma, da un muro all’altro.I palazzi erano quasi completamente privi d’intonaco, avvolti nell’unica, ostinata tinta, simile al grigio del cielo, la quale assumeva svariate sfumature, da quella scuro-tenebrosa del pavimento a quella pallida dei cornicioni di colmo dei tetti e

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dei cantonali. Qua e là spiccavano grandi chiazze ombreggiate di nero-fuligine, dovute alle muffe, cresciute nell’umidità delle interminabili piogge o alle esplosioni periodiche degli abitan-ti che si sfogavano, lanciando, dove capitava, grandi catini pieni di acqua lurida, residuo degli usi domestici più infami.Da quei muri indecentemente spogli, infinite finestre-occhio si spalancavano sbilenche e, dal vuoto che riquadravano, si mostrava il buio più cupo dell’interno delle case, di stanze ingiallite dalla polvere, di pareti con vecchi parati laceri e scoloriti, di tele dei soffitti macchiate dal giallo-marrone delle infiltrazioni d’acqua, di chiusi piccolissimi stanzini immondi ricolmi di bacili dallo smalto scheggiato, di storte cucine-corridoio annerite dal fumo e dai resti d’ogni specie d’insetti, incartapecorite negli odori antichi di cibi con-tinuamente scaldati, di grassi colanti lentissimamente dai muri polverosi e rosicchiati da tempi infinitamente lontani.Vecchie fauci di animali senza denti, i portoni, tutti uguali, si spalancavano mostrando le loro gole polverose e maleodoranti dal fondo delle quali le rampe di scale, sbozzate in pietra nera o di marmo imputridito dal piscio di misteriosi felini notturni, s’inerpicavano per strettissime vanelle, avide di aria e di luce. Sui pavimenti opachi, alla luce di fioche lampade giallognole, sparsi alla rinfusa, giacevano esangui i residui della vita quotidiana, carte, polvere, calcinacci provenienti da soffitte che s’erano andate sgretolando a poco alla volta.In un angolo, molto spesso, era collocato un timido vaso di fiori accartocciati ed avvizziti sotto lo sguardo assente delle foto dei geni protettori degli abitanti del palazzo, lui e lei, in una sdrucita marsina, trine e merletti, i capelli impomatati e rac-colti sulla testa come nei giorni di festa, raffigurati, da vivi, con la tipica espressione cadaverica, di chi, insomma, sa già, all’atto della posa, a quale uso futuro, in un tempo nel quale già sarà morto da un pezzo, sarà destinata la foto che sta per essere scattata e di conseguenza atteggia il viso.Le porte ai pianerottoli, in marrone funereo, celebravano, con i loro pomelli d’ottone annerito da venature verdastre d’ossido mai lucidato e di unto mai pulito, quella morte dozzinale all’ombra dei fiori appassiti.Su, in alto, in copertura della tromba delle scale, sbilenchi lu-

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cernari rappresentavano, forse, l’unico tentativo di assicurare alla casa una nota di allegria, con il loro vezzo di piccoli ve-tri colorati che avrebbero potuto vivacizzare quell’aria triste e stantìa se vi fosse stata abbastanza luce da filtrare verso l’oscurità dell’androne di sotto.Altre fauci, più piccole e numerose dei portoni, si aprivano sul-la strada, vere e proprie tane dove gli abitanti se ne stavano acquattati come strani sorci pigri e macilenti, lasciando scorrere il tempo in tutta la sua esasperante lentezza; vecchi dagli sguardi acquosi e dalle mani tremanti di pelle spessa e grinzosa erosa dall’acqua, avvinghiate a nodosi rami ritorti come se fossero un naturale prolungamento degli arti e delle dita distorte con unghie doppie e gialle; bambini con grandi oc-chi di vetro come di bambole mutilate prive delle dorate par-rucche; donne grasse, cascanti, rigonfie, su sedie sempre troppo piccole, con profonde occhiaie spesse come un dito, in rilievo sulle faccie floscie, pendule sotto gli occhi bovini, indagatori, curiosi, chioccianti, avidi.... Ciò che colpì la mia attenzione. In prossimità dell’incrocio tra la strada ed una delle viuzze laterali si potevano trovare delle piccole costruzioni, delle edicole rettangolari, costitu-ite da una piccola nicchia scavata nel muro, sormontata da un semplice timpano triangolare di marmo, destinate ad ospitare sconosciute divinità multinanellate, dalla pelle scura e fulig-ginosa, ricoperte di strampalati oggetti dorati dalle forme più inconsuete: triangoli lobati, quadrilateri irregolari, a forma di dita, di lunghi budelli, di sacche, di borse, di lunghi capelli sottili, di piccole gambe sbilenche, di mani rattrapite dalle dita adunche.Nonostante una qualche pretesa formale, anche se modestis-sima - che, comunque, risaltava fortemente nell’assoluta piattezza dell’ambiente circostante - le cappelle erano siste-maticamente ignorate dai passanti come se semplicemente non esistessero. Per lunghi periodi di tempo cadevano nell’oblio più totale. Questa radicata regola d’indifferenza era infranta a scadenze fisse, quando evidentemente cadeva il tempo consa-crato al culto della divinità ospitata nell’edicola. Ed allora avveniva come se tutta la popolazione volesse porre rimedio, d’un colpo, ai lunghi periodi precedenti di indifferenza.

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Ho detto tutta la popolazione ma non è esatto. Mi parve di capire, infatti, dopo aver lungamente osservato le consuetu-dini degli abitanti della strada, che le edicole, nonostante l’apparente occasionalità della loro collocazione, fossero planimetricamente distribuite in base a rigidissime norme di spazio, di tempo e di densità di popolazione. Anzi, fui quasi certo, alla fine, che ad ognuna di esse facesse capo un ben de-terminato gruppo di individui e non soltanto per una mera questione di distribuzione numerica o di vicinanza delle abi-tazioni all’edicola. Se, infatti, queste circostanze erano facil-mente verificabili, ve ne erano altre, più difficili da decifrare basandosi soltanto sull’osservazione visiva, ma delle quali s’in-tuiva senza alcun dubbio la presenza ordinatrice. In breve mi feci l’idea, insomma, che la vita intorno ad ognuna di quelle costruzioni fosse una faccenda estremamente complessa, risul-tato di una sofisticatissima rete di norme, restrizioni e doveri; anzi, ebbi la precisa intuizione che alcune regole fondamentali fossero ben stabilite. Tutti gli abitanti della strada, le cui case erano collocate in un raggio d’azione che oscillava tra i venti e i cinquanta metri da una cappella, dipendevano dal cul-to che attorno ad essa era organizzato. Esisteva, cioè, una precisa distribuzione territoriale degli abitanti della strada in relazione alle edicole. Ogni ogni abitante apparteneva ad uno e un sol clan. I casi periferici, quelli che, cioè, cadevano in una zona di confine tra due edicole, erano anch’essi ri-gorosamente distribuiti, nonostante le ambiguità proprie della collocazione spaziale.Non tutti gli appartenenti ad una stessa edicola avevano i me-desimi obblighi di culto, ma era lecito supporre una precisa gerarchia della quale almeno due ruoli spiccavano con chia-rezza: quello del fondatore dell’edicola che era anche colui che aveva il governo del clan non soltanto nelle cerimonie “ufficia-li” ma anche nella conduzione della vita quotidiana e dei suoi obblighi, sorvegliando la condotta degli accoliti e distribuendo fra essi incarichi, compiti, punizioni e gratificazioni; quello dei neofiti, che si distinguevano chiaramente nel corso del-le manifestazioni, perchè erano obbligati ai lavori più duri ed umili, come portare pesi, provvedere all’allestimento della cappella, al trasporto dei baldacchini, dei vessilli, delle donne

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grasse e così via; quella particolare delle donne all’interno dei clan. Esse erano, fin dalla tenera età, messe all’ingrasso, rite-nute tanto più belle, quanto più corpulente ed obese. Giunte al culmine della grassezza, che era davvero inenarrabile, gode-vano dell’ambito privilegio di non compiere più nemmeno un sol passo ed erano trasportate, anche in casa, a braccia o in particolari portantine-baldacchini di legno decorato, ornate di tendine e morbidi cuscini di velluto. Ogni portantina aveva due grandi assi di legno che servivano sia per reggere il baldac-chino vero e proprio, costituito da quattro pareti sfinestrate con imbottitura e da una copertura a forma di cono o di pa-goda, sia per permettere ai neofiti-portatori di sollevarla dal suolo con il suo pesante carico e trasportarla.Degno di nota era, poi, il modo di condurre la portantina che ammetteva svariate andature: al passo, saltellante, al trotto, di gran carriera, ginocchioni, a suon di musica, con speciali figurazioni di danza e così via. Mi fu, poi, chiaro che queste an-dature non erano affatto gratuite o innocenti ma, al contrario, venivano usate in particolari occasioni e, soprattutto, serviva-no per esprimere dei veri e propri stati d’animo, non soltanto della consistente ospite trasportata, ma anche dell’in-tera collettività che ruotava intorno ad una ben determinata edicola.In altre parole, nel corso delle manifestazioni, alle portantine ed alla loro andatura era affidato il compito di esprimere lo stato sensibile della massa, lo stupore, l’invocazione di aiuto rivolta alla divinità, l’ostilità nei riguardi di un altro clan, le tensioni tra i membri dello stesso clan e così via.E, dunque, il movimento delle portantine-baldacchini, il loro disporsi nella folla e le une rispetto alle altre, il loro relazionarsi al grande baldacchino-feticcio principale, costituivano quello che mi sembrò un vero e proprio lin-guaggio, denso di significati, di allusioni, di rimandi. Tutto ciò mi fu chiaro in alcune particolari occasioni che vale la pena annotare anche se i lati oscuri permangono ancor oggi.Ma ancor più forte fu la mia meraviglia quando vidi parte-cipare a quell’osceno raduno notturno anche molti visi noti di quelli che avevo visto di giorno e che non avrei mai sospettato, dati i discorsi e le idee professate a riguardo della

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razionalità e del rifiuto totale di ogni superstizione o di ogni moto irrazionale, neanche alla lontana poter sopportare quan-to in quel luogo era avvenuto e stava ancora per accadere. Vidi finanche il capostazione, alla testa di una sparuta soldata-glia, precipitarsi, da un vicolo laterale, nello slargo dove erano accorsi tutti. Vestiva, come gli altri, quella strana uniforme di color rosso vermiglio, misto di drappi, cinghie e corpetto d’acciaio, con una lunga spada al fianco ed una vistosa fare-tra ricolma di frecce sulle spalle. Urlava, il dannato, a più non posso, e rideva, sputava e sbraitava e con le mani afferrava chi gli stava più vicino e, gli occhi iniettati di sangue, incitava i suoi a fare altrettanto. Il gruppetto di soldati, i lunghi ar-chibugi spianati, roteando spadoni e ferraglie nell’aria, si apri-va rapidamente un varco tra la folla urlante, giungendo proprio ai bordi del circolo che s’era aperto nella marmaglia per dar spazio ai due baldacchini in lotta. Oramai non v’era più alcun dubbio che la furiosa lite tra gli appartenenti ai due clan diversi sarebbe degenerata in una vera e propria battaglia senza esclusione di colpi . E, come c’era da aspettarsi, la presenza dei soldati non serviva affatto a mi-tigare, in qualche maniera, l’esplosione rabbiosa della massa brulicante, che si accresceva sempre di più per la folla di nuovi arrivati che si riversava dai vicoli circostanti attirati dal gran clamore. Ma, anzi, causava un ancor più esaltata e delirante partecipazione della folla che reclamava, a gran voce, lo spar-gimento di sangue, il suo desiderio di violenza.Altri gruppi di soldati si erano aggiunti all’orribile festino e, come una marea che violenta saliva all’improvviso, l’enorme calca di persone premeva sulle due contendenti che si guar-davano con odio, la bava alla bocca come fiere sul punto di azzannarsi.Tremavo nel mio posto di osservazione ed ero combattuto tra il desiderio di rintanarmi ancor più all’interno del mio nascondiglio, nell’angolo più oscuro che esso poteva offrirmi, e la necessità di verificare de visu ciò che si annunciava. Ma, so-prattutto, ciò che mi lasciava letteralmente esterrefatto e che non mi sarei mai aspettato di vedere era la partecipazione, a tutto questo, del capostazione e dei suoi.... Come il grande baldacchino di sinistra che, compiuto un bal-

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zo di lato, schivò il colpo, fremente di rabbia. Ma, a sua volta, l’altro, di rimando, assestò sulla destra un colpo formidabile, violentissimo e con un urlo mostruoso si buttò di lato, im-pennando la cupola, con le aste frementi sostenute dai neofiti ansimanti, spossati per il grande sforzo. Ciò fatto, puntò in direzione del primo ad una velocità elevatissima. Lo scontro che ne derivò fu terrificante. I due baldacchini si schiantaro-no sotto la pressione dei neofiti-portatori che, frustati dagli aguzzini e dai soldati ed incitati dalle donne giovani con gli spilloni, ansimavano, imprecavano, urlavano sotto lo sforzo, si schiantavano al suolo, sputavano, schiumavano e stringevano le labbra tra i denti fino a farle sanguinare.Vidi, dopo l’urto che mandò in frantumi le pareti dei bal-dacchini, le due donne grasse che li occupavano rotolare l’una sull’altra, strappandosi con le unghie la pelle, affondandole nella carne flaccida delle braccia e delle coscie, stringendo spasmodicamente nelle mani i brandelli di grasso, la stoffa de-gli abiti laceri, i capelli stracciati furiosamente con lembi di cute.La più grossa delle due sembrò per un attimo avere il so-pravvento, rotolando sull’altra e staccandole con un morso il lobo d’un orecchio. Il sapore del sangue dovette evidentemen-te eccitarla oltre ogni misura perchè, in preda ad un paros-sismo isterico ed imbaldanzita dal suo momentaneo successo, si voltò, raggiante, verso la massa che parteggiava per lei ed aspettò un’ovazione. Questo attimo di distrazione le risultò fatale. L’altra ne approfittò per farla scivolare di lato con un sussulto della pancia enorme e, immediatamente, con una destrezza assolutamente insospettabile data la grande mole, la vidi saltare sull’avversaria ed affondarle le unghie di una mano negli occhi che schizzarono fuori dalle orbite e con l’al-tra afferrarle la gola mentre i suoi sostenitori emettevano altissime urla d’incitamento...... La dilaniava pezzo per pezzo, prima gli occhi e la lingua, staccata con un morso, poi le guance scarnite ad unghiate, la gola trafitta con lunghi spilloni acuminati adatti ad intessere la lana, poi le restanti parti del corpo che venivano lancia-te alla folla che s’accalcava, si dimenava come impazzita, da un capo all’altro della piazza, inseguendo le traiettorie che

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questi tracciavano nell’aria fino a cadere in terra, dove zuffe furiose scoppiavano tra tutti quelli che se ne contendevano il possesso. Nella folla delirante anche il capostazione si dava da fare, correndo a destra e a sinistra, il corpetto slacciato e il mantello ormai ridotto a brandelli nella gran ressa, cercando di arraffare senza alcun ritegno quanto più poteva....Da lì alla caccia spietata di ogni componente del clan che, al posto di fuggire prontamente, s’era attardato nella calca il passo fu brevissimo. Venivano additati a vista, avvinghiati e passati da parte a parte senza esitazioni con lunghi spiedi per poi essere gettati sul grande falò nell’angolo. L’aria era am-morbata dal puzzo di carne bruciata e da un enorme colonna di fumo nero che s’alzava tra le grandi muraglie del vicolo, affumicandole. Alcuni, che erano riusciti ad allontanarsi di poco dal luogo dell’eccidio, furono inseguiti e lapidati. Altri, dopo esser stati legati mani e piedi a lunghe pertiche, furono immersi, il capo all’ingiù, nei tombini ricolmi di sangue e ogni genere di lordura, finanche i resti e le interiora di quelli che erano già stati sgozzati ed aperti a metà, dove morivano soffo-cati....Vidi finanche un individuo, che mi sembrava giovane ma, data la lontananza non potrei giurare sull’età che avesse, mentre s’arrampicava lungo la facciata di un edificio nel ten-tativo di sfuggire alla folla inferocita, afferrato da mille mani per i piedi e il lembo dei pantaloni e tirato giù a forza, sparire nella marea infinita, brulicante di teste urlanti e sbeffeggianti e mai più riemergere.Altri, più fortunati, erano riusciti a raggiungere i tetti e da lì strillavano ogni sorta di insulti, improperie e orribili be-stemmie all’indirizzo della folla inferocita che paurosamente ondeggiava, si diradava, s’infittiva e reagiva, lanciando pietre, pezzi di legno ed ogni altra cosa capitasse a portata di mano verso l’alto, contro di loro. Altri, ancora, riusciti a raggiun-gere il ponte sospeso, si erano impegnati nell’impresa dispe-rata di superare la rete altissima che fungeva da parapetto ed il filo spinato che ne coronava la sommità. Molti, stremati dallo sforzo, non ce la facevano a reggersi e cadevano di sotto nella folla che s’apriva come un’enorme bocca per inghiottirli e richiudersi immediatamente. Alcuni, raggiunta la cima, era-

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no rimasti impigliati e gridavano orribilmente sanguinanti, trafitti dalle punte micidiali e uncinate. Soltanto pochi, due o tre, mi sembra di ricordare, erano riusciti ad oltrepassare, indenni, l’ostacolo e, incredibile a dirsi, non scappavano via, ma restavano a guardare lo spettacolo, gli aderenti al loro stesso clan che, di sotto, erano dilaniati dalla folla, sbranati, impalati, sgozzati, aperti a metà. E ridevano a crepapelle, fino alle lacrime, reggendosi con le mani la pancia, percuotendosi sulle spalle l’un l’altro, piegandosi in due, facendo strani bal-letti e girotondi, tenendosi per le mani come bambini felici”.

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breve Intermezzo

Dopo l’interminabile orgia di sangue e di sconvolgimenti spa-ventosi, tutti i forsennati interpreti di quella orrida comme-dia si dileguarono come assorbiti dai muri e dai pavimenti della strada. Dopo aver assistito da impotente spettatore alla battaglia tra clan rivali e alla carneficina, che descrisse in parte nel diario, Bauknecht, con l’animo completamente sconvolto, sulle soglie della pazzia, cercò disperatamente di scappare via da quel luogo di terrore. Non sono in grado qui di riferire che cosa di preciso egli abbia fatto. La sua mente sconvolta non serbò alcun ricordo di quanto dopo successe. Certamente vagò al lungo per quel l’intricato la-birinto interminabile di vicoli e minuscole piazzette ormai com-pletamente deserti, disperatamente alla ricerca della città solare e dei suoi amici che sembravano definitivamente svaniti nel nulla. È lecito supporre, da tutta una serie di indizi, che una donna in nero e con il viso nascosto da un etereo velo, la quale ebbe un ruolo di primo piano nel sogno delirante di Jeronimus che più avanti si racconterà, lo raccolse dalla strada, misero resto umano com-pletamente privo della memoria, gli occhi perduti nel vuoto, e gli fornì le prime cure, sottraendolo ai pericoli di quella terribile notte e dalla folla impazzita che la animava.Da questo punto in poi le tracce del suo racconto reale si perdono perchè il diario non reca più alcuna testimonianza di quello che successe nel seguito per un lunghissimo periodo di tempo. Il so-gno, però, prosegue e, anche se in maniera molto più ermetica, certamente reca i segni di quello che dovette successivamente accadere e del destino che incombeva sulla città e sulla sua miste-riosa popolazione. Ho trascritto il sogno così come Jeronimus me lo ha raccon-tato, limitandomi ad aggiungere, là dove si sono rese necessarie, poche note esplicative del testo e delle situazioni delle quali egli parla.

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il sogno

“La porta girò lentamente sui cardini. La luce proveniente dall’esterno non era forte, un marrone di tono più chiaro dell’interno. Tentai di guardare oltre la porta, verso il fondo. Si andarono delineando, a tratti, in un lontano paesaggio sbiadito, una collina e un sentiero che, curvando leggermente, si stendeva sui suoi fianchi.In un fruscio di veli e garze vidi entrare la donna. Indossava un abito lungo e nero. Un velo scurissimo le copriva il viso. Mi fissò al lungo.

- Guardi qui dentro, la prego - mi disse con leggero affanno.Mi avvicinai all’oggetto che le mani tremanti mi porgevano. Si trattava di una cassetta tappezzata in velluto rosa, con spigoli protetti da squadri d’ottone borchiato. Era chiusa.

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- Non provi ad aprirla - aggiunse in un soffio. - Non ci riusci-rebbe. Si limiti ad osservare dal buco della serratura -.Non mi riuscì di vedere subito a causa del buio che avvolgeva l’interno. A poco alla volta, man mano che gli occhi si abi-tuavano all’oscurità, prese corpo un ambiente perfettamente uguale alla stanza in cui eravamo, con una porta sullo sfondo come quella che s’era aperta per farla entrare.Anche quella lentamente si aprì e mostrò un’altra stanza uguale che, sulla parete di fondo, aveva un’altra porta che si aprì lentamente su di un’altra stanza con un’altra porta che si aprì anch’essa lentamente su di un’altra stanza.

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Osservavo le porte che si dischiudevano l’una dopo l’altra come un grande, lentissimo aprirsi di ali. Fui costretto a di-stogliere lo sguardo da quella prospettiva indeterminata con un leggero senso di vertigine. Mi sembrò di trovarmi molto in alto, come sospeso nel vuoto. Tutte le porte dischiuse sembravano

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svolgersi a partire dai miei piedi, verso il basso, suggerendo un’infinita profondità abissale.Questa sensazione di disagio non m’impedì, però, di con-tinuare a scrutare nella scatola e, sporgendomi per quanto mi concedeva la dimensione ristretta del buco della serratura, riuscii ad intravedere, a sinistra della porta i cui battenti si era-no dischiusi per primi, un piccolo tavolo nero di ebano, sor-montato da un piano di pietra naturale levigatissima. V’era poggiata una minuscola casa-orologio. Mi lasciai andare per un attimo al tic-tac che faceva affio-rare dai miei ricordi smarriti un non so quale senso di sicurez-

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za. Quel rumore, che segnava il tranquillo incedere del tempo, andava in assonanza con chissà quale ritmo nascosto nel mio corpo. Esaminai scrupolosamente l’oggetto che mi sembrò, a pri-ma vista, di molto valore, sia per la natura degli intarsi che impreziosivano le sue pareti in legno, sia per le decorazioni sbalzate sulle lamine dorate che rivestivano la zoccolatura e il prospetto anteriore. Non so quali pietre risplendenti, tanto piccole da essere del tutto impercettibili ad occhio nudo, erano incastrate nel quadrante superiore del primo piano, proprio al di sotto del timpano e della trabeazione di colmo.Nel centro della facciata un grande cassetto mostrava una serratura in ottone con una chiave e, al piano terra, una porta socchiusa lasciava scorrere sul tavolino una debole luce giallognola.Feci per entrare all’interno ed afferrai la maniglia quando mi accorsi di una bambola che se ne stava pigramente appoggiata su di un fianco e mi guardava con i suoi grandi occhi di vetro.Venni colpito dalle pieghe e dalla finissima grana dei mer-letti color perla che rivestivano il suo lungo vestito blu-azzurro, dalle sue piccole immobili mani bianco-candide con unghie rosse. Mi lasciò desolato quello sguardo assente che si perdeva nel vuoto, oltre di me.Una litania lenta invase l’aria, una nenia ipnotica, a tratti sbiadita, come consumata dal vento, a tratti più vicina. Proveniva dal fondo di un lungo corridoio dalle pareti bianche illuminate da una debole luce azzurra che scendeva dall’alto.Lontanissima una stanza con una grande tenda rosso-fuoco.Uno smisurato arco di tempo mi separava da quel luogo. Pro-vai a percorrerlo ma non riuscii a muovermi. Centinaia di mani nascoste, secche, nodose, maligne mi trattenevano avvin-ghiato al nero tavolino.Uno specchio rifletteva, al posto dell’immagine di un bambino, la testa vuota d’un manichino di legno. Come mosso da fili nascosti, l’inespressivo pupazzo ripeteva i suoi gesti. I mo-vimenti, per quanto mi riusciva di vedere da lontano, non avevano nulla dell’armonia di quelli di un corpo vivente.Un trenino di latta camminava sbuffando.Il giocattolo si gonfiò a poco alla volta fino ad ingombrare tut-

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to lo spazio vuoto della stanza. La lanterna anteriore s’illuminò in un fascio di luce che mi abbagliò. Grandi cerchi iridescenti avvolsero lo spazio. Il mio corpo, come in preda ad un improvviso profondo torpore, non mi sorresse, lasciandomi precipitare in un vuoto indefinibile, uno stretto budello senza fondo, oscuro, palpitante come un tubo vivente, ansimante come sotto un incredibile sforzo. Rotolai via, sbattuto in preda ad una grande confusione men-tale, scivolai lungo il corso degli anni e mi ritrovai nella stanza antica dei desideri dell’infanzia.L’atmosfera generale mi era familiare. Riconobbi il colore e gli strappi della carta da parato. Le mattonelle sconnesse del pavimento mandarono un suono che, da quando ho ricordo, ha sempre accompagnato i miei passi.Sulla parete di fondo era stato eretto un minuscolo teatrino di legno, con il timpano giallo-oro riquadrato in azzurro, e le le-sene laterali incorniciate da un sottile righino rosso. Il telone

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era aperto su di una scena scena praticamente nuda. Tutti gli oggetti che entravano a far parte della rappresentazione si riducevano ad una sedia di paglia e, sul fondale grigio, un quadro racchiudeva un grande occhio azzurro. Un uomo in tuta arancio ballava, mimava, recitava. La stanza era piena di bambini che ridevano alle sue battute. Guardan-do con maggiore attenzione, vidi che quelli che mi erano ap-parsi come bambini, erano manichini di legno, nudi burattini in fila. L’uomo aveva la testa nascosta da uno scatolo aperto in una grande bocca quadrata con tendine, una sorta di minusco-lo teatrino nel quale si stava svolgendo uno spettacolo di marionette. Pulcinella e la Morte se le davano di santa ragione,con due bastoni di legno, mentre parlavano di amore, fame, gelo-sia, malattie, dolcezze della carne, soavità del vino e labilità dell’anima.

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All’insulsa tetraggine della Nera Ospite, l’irriverente mario-netta rispondeva con smisurata volgarità, un osceno dime-narsi del ventre, squillanti pernacchie.A poco alla volta il dialogo diventò oscuro ed incom-prensibile. Le parole si trasformarono in puri suoni o rumo-

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ri. Mi riuscì di decifrare soltanto il ritmo delle battute e delle legnate, la cadenza delle strida di Pulcinella e i rochi boati del-la Morte. Mi colpivano come sassate. Il pubblico di manichini fremeva, sobbalzava come percorso da brividi.Ad ogni colpo l’uomo-teatro si tendeva, cadeva, si rialzava per poi nuovamente cadere. E con lui tutti i burattini nella stanza si dimenavano in una danza sfrenata che, a scatti, si svolge-va come il movimento d’un congegno, d’un grande orologio esploso e sparso disordinatamente all’intorno.Ero forse io quel manichino che s’esponeva, senza alcun pu-dore nella sua malinconica posa, agli occhi di chi era di pas-saggio, le membra abbandonate sorrette da fili sottili e il capo mesto rivolto agli assi di legno del proscenio?

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Da lontano vidi il mare e una lunga fila di uomini che guar-davano il cielo. Ad un tratto, contemporaneamente, lasciaro-no andare i palloncini rossi che salirono sempre più in alto.Alla piazza si giungeva da una strada non molto larga. L’inva-so centrale era costituito da un prato in leggero declivio verso il fiume.

All’ombra delle querce gemelle se ne stavano immobili per-sonaggi in fila, le sciarpe rosse leggermente mosse dal vento.Vidi me stesso seduto, sulla panchina, lo sguardo verso il ponte di legno.Mi fu possibile intravedere i miei pensieri. Scorrevano len-tamente lungo i portici che circondavano la piazza, sotto la suggestione di sogni improbabili di spiagge lontane, oltre il cielo e il mare, di antiche navi con le vele spiegate, di voli di anitre bianche.Scoprii che quell’altro me stesso disteso sulla panchina po-teva muoversi con incredibile rapidità senza temere nessun

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ostacolo; poteva alzarsi, scorrere di lato, strisciare lungo le pareti dell’alto campanile e guardare l’orizzonte dove si perdeva il fiume. Poteva inseguire gli uccelli nel loro volo. Poteva saltare da un ramo all’altro, pur continuando a star fermo. Poteva, addirittura, d’un balzo, spostarsi sul profilo delle montagne lontane e scorgere i paesaggi sconosciuti che si stendevano al di là dei monti.Poteva tuffarsi nel fondo dell’acqua e farsi penetrare dai fre-miti ghiacciati della corrente del fiume, dai riflessi del sole tra le onde e risalire in superficie, arrampicandosi sul tavo-lato del ponte, fino alle bandierine rosse della torre.”

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Il senso del racconto successivo di Jeronimus è quello d’una com-penetrazione costante e continua del corpo della città con la sua immagine, quello che lui chiama l’”altro-se-stesso”. Questo “doppio” percorre ogni elemento urbano, scorrendovi attraverso, impossessandosene. Così la fontana e l’acqua che zampilla nel suo specchio ovale, il lungo portico che circonda la piazza dal pavimento bianco e nero, le due querce gemelle dai bassi fusti, tozze e ritorte dal tempo, il grande prato di trifoglio che forma l’in-vaso centrale, l’altissimo campanile-torre a fianco del quale volano gruppi di oche selvatiche, le tende che si muovono lentamente al passare della brezza, le alte finestre dalle ante socchiuse, il ponte in legno che sovrapassa il fiume e la piazza al di là di questo, con la grande vasca d’acqua, sono altrettante parti del suo corpo, in esse scorre la stessa linfa che fornisce a quello la vita.

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“Mi vidi all’interno della grande corte, circondata per tutto il suo perimetro da un lungo portico con arcate a tutto sesto, sorrette da sottili colonne slanciate in marmo bianco quasi del tutto privo di venature, tanto da fornire, ad un primo sguardo, un’incredibile impressione di candida inconsistenza e di lasciare la sovrastante parte dell’edificio come sospesa nel vuoto.Al centro del grande prato un vestito da donna sospeso anch’esso nel vuoto. Di fianco, due frack si producevano in un trillante duetto. L’altro me-stesso fu attratto dal grande vestito etereo che gli apparve come una splendida donna dai ca-pelli corvini e gli occhi di fuoco. Per un segreto e inspiegabile gioco di specchi, quelli che io vedevo come abiti vuoti, a lui apparvero come persone vive. Vidi, dunque, l’altro me-stesso procedere completamente rapito da un improvviso incante-simo che gli faceva percepire il vuoto pieno e il pieno vuoto, l’inesistente come reale e il concreto come etereo ed invisibile.Ma, nonostante questa capacità di comprendere ciò che stava realmente accadendo, non potei opporre la mia volontà a ciò che accadeva e fui rapito da un irrefrenabile desiderio di avvi-cinare quella donna e, riportando me stesso a coincidere con la mia immagine, finora proiettata fuori di me, mi lanciai all’inseguimento di colei che aveva preso forma al posto dell’aria e stava imboccando una piccola porta alla fine del portico.

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Qualcuno mi fermò bruscamente con una pesante manata sulla palla.- Dove intende andare? - mi urlò. Voltai la testa e lo vidi, un tipo in uniforme, con un berretto dalla stretta visiera calata sugli occhi piccoli come spilli ed una lunga giacca da dameri-no del Settecento. - È vietato entrare in questo edificio. E, d’altro canto, lo dovrebbe sapere benissimo, visto che non è affatto nuovo a questo genere di cose - soggiunse aspro.Feci per replicare ma quello, con voce più forte: - Le consiglio di allontanarsi immediatamente se non vuole che avverta gli altri guardiani e la cosa faccia rapidamente il giro del Palazzo e giunga all’orecchio del Generale -.Farfugliai e tentai di svincolarmi dalla mano che ancora mi ar-tigliava la spalla. All’improvviso suonò un campanello in una minuscola guardiola di legno che era collocata tra due colonne e che fino a quel momento non avevo visto. Lui si avviò per rispondere e, senza lasciare la presa, mi trascinò appresso. Afferrò un minuscolo telefono e scattò sull’attenti.- Sissignore, senza dubbio! - rispose. - L’ho preso. È qui nelle mie mani. No, certamente, non me lo lascio scappare -. Pausa. - Si, sarà fatto - aggiunse posando il telefono.Mi resi conto che le cose per me si stavano mettendo male e cercai di svincolarmi con uno strattone improvviso. Non so come mi liberai e scappai via, più veloce possibile, verso il varco in fondo al portico dove avevo visto sparire la donna. Lui si mise a strillare senza alcun ritegno. Lo sentii alle mie spalle soffiare furiosamente in un fischietto e chiamare aiuto. Giunsi alla porta e, mentre mi inoltravo all’interno, avvertii il rumore di altri passi concitati che si aggiungevano ai suoi, accorrendo dal fondo della grande corte.Salii le scale a quattro a quattro. La scala era molto ampia. Feci a tempo a riflettere, tra uno scalino ed un altro, alla sproporzione che esisteva tra il vano di ingresso e la larghezza di quello scalone. Al primo pianerottolo, mi buttai di lato in un corridoio in penombra piuttosto stretto. Lo attraversai di corsa e, in fondo, ad un bivio, girai sulla destra. Poi ancora a sinistra, a destra e ancora a destra.Man mano che procedevo si andava spegnendo l’eco dei passi dei miei inseguitori. Ero riuscito a distanziarli. Mi fermai un

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attimo per riprender fiato all’imbocco d’un grande corridoio, inondato dalla luce di una grande volta a vetri. All’improv-viso lei mi apparve nel suo vestito bianco, mentre varcava una grande porta dai battenti dorati. Era per seguire lei che mi trovavo in quel pasticcio, pensai. Dovevo parlarle ad ogni costo.Corsi verso il fondo. Giunsi alla porta e la aprii. Un altro lun-ghissimo corridoio ci separava. La vidi, lontana sagoma bian-ca sulla parete rosso cupo. Scomparve attraverso un altro varco.Tentai di raggiungere più in fretta possibile quella porta che s’era chiusa alle sue spalle. La aprii e mi trovai in un ambien-te vastissimo, a pianta circolare, sormontato da una enorme cupola. Al centro un grande occhio lasciava passare un lungo raggio di luce che si proiettava in terra in un ovale abbaglian-te, sullo sfondo in penombra dello spazio circostante.Cominciò a prendere consistenza nella mia mente la con-sapevolezza dell’inganno nel quale ero caduto, una trappola ipnotica fatta di continui rimandi. Affiorava, a tratti, nell’oblio totale dei pensieri, lo strano e tortuoso percorso che ero costretto a seguire e la stanza vuota dalla quale ero partito e quella storia aveva avuto inizio. Rapidi squarci sul mio passato si aprivano per poi immediatamente richiudersi, senza lasciare traccia, proprio come quel raggio di luce at-traversava l’oscurità della sala.Mi tornava alla mente insistentemente il nome di Else, ma non mi era possibile associarlo a nessun volto conosciuto. Mentre questi frammenti di pensiero si ingarbugliavano nella testa, mi spostai, senza avvedermene, di lato e, passando in uno stretto disimpegno, attraversai un piccolo portone massiccio.La luce forte all’interno mi abbagliò.Musica, profumi, gente che parlava, rideva.Ero capitato in un vasto salone addobbato a festa, con grandi quadri alle pareti rivestite di stucchi, il soffitto a cassettoni in azzurro ed oro. Al centro della sala una lunghissima ta-vola, sontuosamente allestita, con molte persone eleganti che conversavano, pranzavano, ridevano, brindavano.Alla mia vista zittirono tutti di colpo. “Non devo essere tanto presentabile”, pensai, dopo la lunga corsa per scale, corri-

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doi e salotti, inseguito da un gruppo di guardiani inferociti, nel tentativo di raggiungere un’inafferrabile donna vestita di bianco.Mi guardavano ostili con una generale espressione di stupore. Tutti erano vestiti con raffinata ricercatezza. Alcuni indossa-vano uniformi militari, altri abiti da cerimonia. Dame ingio-iellate mi osservavano, valutando con attenzione il mio aspet-to, in ogni dettaglio. Una tra quelle a me più vicine arrossì e sussurrò a bassa voce qualcosa a chi le stava accanto.Li guardai.All’altro capo della tavola un uomo in alta uniforme con una gran barba mi osservava con aria feroce.Tutti si attendevano da me qualcosa, delle parole che giusti-ficassero la mia presenza. Era chiaro che dovevo, in qualche maniera, sottrarmi a quella situazione disdicevole, inventando una qualsiasi cosa, cercando di non urtare la loro suscetti-bilità e, allo stesso tempo, approfittare del primo momento favorevole per scappar via. Rammentando la telefonata del guardiano del cortile, infatti, pensai che quello che mi stava di fronte con la sua uniforme scintillante, barba maestosa, occhi che mi volevano fulminare e sopracciglia ciclopiche, do-veva essere proprio il “Generale”, individuo dal quale, istin-tivamente, capii che era meglio tenersi alla larga.Il silenzio, frattanto, era diventato insopportabile. Due ca-merieri in livrea mi si avvicinarono e, dai loro sguardi, mi resi conto che per me si metteva male.- Avete visto un uccello con le piume azzurre - domandai quasi senza rendermi conto delle parole che le mie labbra pronunzia-vano - e con gli occhi di donna? -. I commensali si guardarono fra di loro. Il silenzio era rotto soltanto dal ticchettio della pendola a muro.Il “Generale” si alzò in piedi, i pugni stretti puntati sul tavolo e il tronco rigido, duro come quello di un vecchio albero. Vidi la pelle del suo volto, tra i peli della foltissima barba, arrossarsi a poco alla volta, i muscoli contrarsi lentamente in una smor-fia, le labbra tendersi allungandosi verso l’alto e, gradatamen-te, il corpo intero leggermente sobbalzare su se stesso spinto da un lieve ma irresistibile movimento proveniente dall’in-terno. L’aria usciva dalla bocca dando corpo a piccoli suoni

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brevi, concisi, distaccati tra loro, proprio come in un ritmo sin-copato che a poco alla volta prendeva il possesso dello spazio, leggero ma irresistibile. Gli “ah” si susseguivano gli uni agli altri in un crescendo che, rapidamente, assunse la struttura e l’aspetto di un’immensa, travolgente, smisurata, oceanica ri-sata. A pieno regime il torace del “Generale” come un mantice si gonfiava e si scuoteva vistosamente nell’esplosione e suoni possenti prorompevano dal petto.E come incandescenti meteoriti gli “ah”, dopo essersi librati in aria fino ai candelabri dorati che pendevano dal soffitto, ricadevano, ruzzolando sul pavimento, sui mobili, sul tavolo, sulle stoviglie ed i bicchieri, facendo risuonare i cristalli, le finissime porcellane e gli argenti, facendo ribollire i vini nel-le bottiglie e colpendo tutti gli altri personaggi nel salone che, non appena erano toccati, entravano in risonanza e ridevano.Ridevano i militari, virilmente; in tono basso, di ventre, i più anziani , scuotendo barba e baffi, menando il capo all’indie-tro, scossi incontenibilmente nei busti, con le pance tremanti sotto lo sforzo. In tono più alto, di petto, i più giovani, dan-dosi l’un l’altro delle violente manate sulle spalle e sulle cosce, torcendosi le mani e le dita. Ridevano i civili in abito da ce-rimonia, agitando i guanti bianchi, cercando di coprire le bocche sguaiatamente spalancate per permettere il forzato pas-saggio dell’ aria, fino alle lagrime, asciugandosele con fazzoletti estratti a fatica dalle tasche. Tremavano convulsi, in un ra-pidissimo andar su e giù, i più magri segaligni. Ondeggiando di qua e di là le larghe masse di adipe, i più grassi diventavano, sotto il terribile sforzo, rossi, paonazzi, cianotici per l’assoluta mancanza d’aria. Alcuni, tra una boccata e l’altra di lunghi sigari, prorompevano in forti scuotimenti dei bronchi e colpi furiosi di tosse ed altri, ancora, erano piegati in due, come colpiti sulle spalle da un enorme macigno. Qualcuno, allar-gando le gambe oltre ogni misura sotto l’enorme pressione del riso incontenibile, scivolò al di sotto del tavolo mentre altri lasciarono cadere le stoviglie perdendo, sotto l’immane sfor-zo, qualsiasi ritegno e, con esso, ogni regola di buona educa-zione. Ridevano le dame multinanellate con i loro lunghi colli d’oca contratti sotto lo sforzo e le vene ingrossate ai lati delle tempie. Ridevano di petto le più anziane facendo vibrare,

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nei corpetti troppo stretti, i seni ipertrofici e molli; di gola le più giovani che sbottavano in stridolini affannosi acutissimi. Quasi un nitrito usciva dalle narici di quelle che cercavano, a tutti i costi, di non perdere quel poco di decoro che a fatica era stato ricostruito sui resti rovinosi di un passato di facili al-cove, mentre altre scappavano per tentare di porre rimedio ad inconfessabili, quanto assolutamente incontenibili perdite liquide dalle basse vie del corpo.Nel suo corpo complessivo, fatto di scuotimenti, sussulti, ge-miti, strida, urla, sibili, aperture, tremito inconsulto di tutto quello che colpiva, la risata correva, straripava irresistibile, soffiava come un vento potente, una tempesta.Come al cenno d’un fremente direttore che di colpo avesse impartito all’orchestra l’ordine del silenzio dopo un crescendo impetuoso, così la risata improvvisamente cessò ad un imper-cettibile segnale del “Generale”.- È inammissibile - egli urlò. - Assurdo, pazzesco che lei abbia il coraggio di presentarsi qui dopo tutto quello che è successo da ascriversi solo alla sua piena responsabilità. Prendetelo, afferratelo, non lasciatelo scappare! -.Intervenne una moltitudine di camerieri e di servi che ten-tarono di afferrarmi. Riuscii, non so come, ad afferrare la maniglia, aprire la porta e, divincolandomi dalla presa, get-tarmi di corsa nel corridoio. Mi sembrò di rotolare verso il basso, di precipitare senza scampo mentre le urla del Gene-rale mi accompagnavano assieme alle imprecazioni dei servi, riannodandosi nell’aria come in una spirale che cercava di stringermi alla gola senza riuscirci. “Stavolta sono perduto”, pensai mentre cadevo sempre più velocemente, come se fossi improvvisamente diventato infinitamente pesante. Venni in-ghiottito da un nero profondo, in un’eco senza fine.

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Mi ritrovai disteso su di un morbido cuscino mentre, molto vicini ai miei, i suoi occhi profondi e neri, unica parte del viso lasciata libera dal morbido velo che la ricopriva per inte-ro, mi avvolgevano con dolcezza. Lentamente accarezzavano quei ricordi che, ostinatamente nascosti in qualche piega del mio vissuto, si sottraevano alla mia vista. Era come se quello sguardo fosse da sempre stato dentro di me, ne avesse sempre fatto parte e ora, per la prima volta, si manifestasse. Era come un invisibile filo che doveva riportare alla coscienza tutto quello che giaceva sul fondo.E avevo la sensazione di una confluenza di acque, come se, diventato liquido e disteso lentamente alla luce del tramonto in una lunga conca, circondata da monti lontani, la mia es-senza acquosa si fosse mescolata alla sua, dissolvendosi. All’improvviso la mia corsa per quell’interminabile labirinto era finita ed avevo raggiunto il miraggio che fino a poco pri-ma sembrava dovermi sfuggire per sempre.Un vasto paesaggio sconosciuto si svelava alla mia vista; lentamente lunghe distese bianche mi si porgevano e mi sem-brava di poter abbracciare quella grande e vellutata lumine-scenza che mi scorreva lieve sotto le dita. Non so quale brivido increspò quell’atmosfera lunare, facendo vibrare, in modo im-percecettibile, il lungo velo che era caduto mollemente di lato e il suo respiro, appena percepito come un lontanissimo anelito che si muoveva all’orizzonte, mi sfiorò lieve i capelli. Nel fondo del mio essere fluido sentivo muoversi sconosciuti principi vitali che segretamente venivano alla superfice per mostrarsi ai pallidi raggi dell’astro notturno, sulla sua candida schiena, il lungo collo sottile, le dita di merletto. Due lumi opalescenti nel buio dei suoi occhi mi raccontavano una storia che avevo da tempo dimenticato, smarrita nei mean-dri degli anni lontani, di piccole gioie, di sorrisi, di fiumi di parole e sciocchezze e salti, danze, abbracci, risate, tutta la storia di quell’inafferrabile me-stesso che non ricordavo più. E nel lento fluire della marea affiorava il profumo increspato dell’erba umida del suo corpo disteso.Un lungo viale di alberi dalle foglie di panno si rifletteva sul fondo delle pupille tra le piume di candidi uccelli. Ma potevo spingermi fino ad un varco, ad una soglia che non riuscivo a decifrare, oltre la quale non mi era dato di vedere...”

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Qui il mio ricordo diventa labile e quanto Bauknecht ha raccon-tato del suo sogno si sfoca a poco alla volta, fino ad abbandonar-mi del tutto. Le parole, con le quali descrisse quello stato d’ina-spettato benessere che lo avvolse, si sfaldano nella memoria, in una manciata di polvere. Non potrei mai, anche impegnando-mi oltre le mie possibilità, riuscire a rendere quell’atmosfera, il senso di beatitudine, il frenetico agitarsi del suo animo. Troppo distanti quei momenti di abbandono, dopo quell’assurdo crescendo di tensioni, rivissuti in un sogno privo di memoria e sull’onda negata dei ricordi, per tentare di richiamarli con delle parole. Troppo lontana l’immagine di quella donna-miraggio da lui inseguita e finalmente posseduta, ambigua e sfocata e, pro-prio per questo, simbolo del suo animo dilaniato tra la volontà di ricercare la ragione di tutte le cose e la necessità di ricomporre, senza sapere come, i frammenti dispersi della spiritualità ormai perduta. Una donna che è, nel sogno, allusione ad una creatura vera, fatta di carne e passione e desiderio e, allo stesso tempo, simbolo, diafana e sfuggente figura nella quale si condensano tutti i desideri incompiuti di un’epoca al tramonto.

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“- Troverai la mia anima nei ricordi sul fondo dell’armadio in quella stanza chiusa -. Lo disse guardandomi negli occhi e sollevandosi nella sua bianca figura di piume e grandi ali.La debole luce che filtrava nella stanza scorreva sul suo mor-bido mantello e disegnava argentei mosaici che brillavano nella penombra e si muovevano lungo il corpo sottile.Il volto mi sfuggiva ancora, seminascosto nell’oscurità e dal velo, tranne quei grandi occhi melanconici e dolcissimi. Nere, luccicanti perle nel candore della pelle.Mi attraversò una struggente sensazione di tristezza, senza fine, mentre, così come era apparsa, lentamente spariva alla mia vista. Mi sentii come un tetro pozzo senza fondo nel quale fosse stato lanciato un urlo.Mi fu impossibile, non so per quanto tempo, fare un sol gesto, immobile, solo, atterrito in quella piccola stanza, senza parole, desideri, sogni, svuotata scatola, con un sapore indefinibile di gelo sulle labbra. Non l’avrei più rivista? Ciò che avevo tanto inseguito e, alla fine, posseduto era nuovamente per-duto, un miraggio, un’immagine che s’era spostata più lonta-no, più difficile afferrare di nuovo? Il mio cammino riprendeva contro la mia volontà. Ma dove iniziava? Per quale luogo? Che cosa mi aspettava ancora, al di fuori delle quattro mura

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di quella stanza?Le pareti avevano cambiato colore. Erano divetate più sottili, di un’imprecisata tinta grigio-azzurra come quella del crepu-scolo, quasi del tutto trasparenti, inconsistenti e confuse con la lontana linea d’orizzonte. La porta dell’armadio, con un lieve scricchiolio, lentamente si aprì. Dallo spiraglio uno stormo di anatre selvatiche si precipitò fuori e, trapassato da parte a parte quel residuo di materia che ancora restava nei muri, si avviò verso destra, sparendo, a poco alla volta, nella lontananza del cielo e nelle nuvole che si confondevano con le chiome degli alberi, mosse dalla brezza.Impercettibilmente la stanza era sparita e ne restava soltanto il pavimento a scacchi che s’era allargato a perdita d’occhio, in tutte le direzioni. Un’immensa distesa di piastrelle bianche e nere copriva tutto il piano fino all’orizzonte, arrampicandosi sulle colline, circondando i laghi e i fiumi, passando sui ponti e sotto le case, i mobili e gli alberi.Dalla porta aperta dell’armadio erano usciti dei palloncini colorati, rossi, verdi, gialli e, mentre alcuni rotolarono per terra sparpagliandosi sul pavimento fino ai bordi dell’acqua, tutti gli altri, più grandi, più turgidi e più leggeri, s’alzaro-

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no in volo in una lunga fila multicolore all’inseguimento delle anatre.Mi avvicinai alla porta dell’armadio e la spalancai. Mi caddero addosso una moltitudine di frack e manichini bianchi tanto leggeri da sembrare impalpabili come bolle di sapone. Riuscii a rendermi conto che l’interno di quel mobile na-scondeva uno smisurato spazio al di sopra d’una laguna al cen-tro della quale una zattera trasportava un piccolo tempio di marmo con un semplice tetto a due falde ed una porticina al centro della parete. Una tenda di velluto, smossa dal vento, lasciava passare un folto gruppo di frak che volavano verso la vegetazione sullo sfondo.Di colpo, non so come, mi fu tutto chiaro e ricordai quello che mi era accaduto, il nostro viaggio, le speranze, la fede che aveva sempre animato Lafitte, le sue teorie sull’alpinismo e la conquista delle vette, la teoria della porta per un altro mondo, e la notte, l’inseguimento, la ferocia della folla, e, infine, lei che aveva saputo, anche se per poco, mostrarmi la dolcezza.Dovevo andar via da quel posto, ritrovare subito Lafitte e gli altri. Era necessario che ci organizzassimo al più presto”.

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“ - Fermo! Dove intende andare? Crede che ogni cosa sia ter-minata? -.La voce suonò come una fucilata esplosa alle mie spalle. Mi voltai e vidi il generale uscire dall’armadio. Sembrava no-tevolmente più alto di quanto mi fosse apparso al nostro primo incontro, forse perchè indossava l’alta uniforme, un cappello con una lunga piuma di struzzo, sciabola ed alamari dorati. Non aveva più la lunga barba grigia ma soltanto un paio di baffetti e sembrava molto più giovane. Ma la mia meraviglia

fu quando mi resi conto che si trattava del capostazione. Il generale e il capostazione erano dunque la stessa persona? Sembrò leggermi nel pensiero perchè subito rispose:- Si, credo che dovrò smetterla con i miei continui trave-stimenti e mostrarmi per quello che sono. La storia, giunti a questo punto, per lei volge al termine -. Fece un cenno con la

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mano verso l’armadio: - Entrate tutti - disse.A quel suo invito un’incredibile moltitudine di persone uscì dal mobile. Per primo l’idraulico-gran ciambellano che, del suo magnifico abito da cicisbeo che ricordavo, indossava soltanto il cappello piumato a tre punte. Per il resto era in tuta da la-voro, spessi occhiali affumicati, da velocipedista, che gli strin-gevano curiosamente ai lati della fronte la parrucca bianca delle cerimonie. Dopo di lui entrarono dei soldati, in veste da campo, con archibugi, lance e spadoni e lo stesso gruppetto dei miei sconosciuti aggressori notturni che, a guardarli bene in piena luce, sembravano proprio dei personaggi caricaturali da avanspettacolo, sciatti, con vestiti troppo stretti o troppo lunghi, baveri e marsine sdrucite, sciarpe dai colori stonati, calzettoni a strisce rosse e bianche, panciotti a fiori su completi gessati e smessi abiti da cerimonia. Le donne, con furiosi tratti di matita per contornare le labbra esangui e campiture di viola sotto gli occhi, le sopracciglia completamente rasate, mi mo-stravano dei ghigni che nulla avevano più a che fare con quello che siamo soliti definire sorriso.E poi fece il suo ingresso una fila interminabile di strac-cioni e di plebaglia mal messa, chi munito di sedie impa-gliate, per prender posto ed assistere a quello che si pre-annunciava essere uno spettacolo, del quale ero certamente io il primo attore, chi con grandi pentoloni di brodaglia da consumare, immensi dolci, bottiglie di vino e birra, salsicce, galline, pecore e finanche un maiale, già cotto, infilato in un lungo spiedo e trascinato per terra da un sistema di corde e carrucole, maneggiato da un gruppo schiamazzante di ragazzi sporchi, tremendamente brutti e dagli occhi maligni. Entrarono, poi, numerosi appartenenti ai clan che avevo visto nel corso di quella notte, con tutti i loro armamentari di culto, baldacchini con donne grasse, e trofei ed ex voto, insegne e bandiere, una massiccia costruzione di legno, portata a braccia da un ansimante gruppo di neofiti, sulla quale era stata issata una statua in cartapesta che rappresentava una donna vestita in celeste dallo strano sguardo acquoso e dagli occhi a palla pronunciatissimi, proprio come se soffrisse di un esagerato iper-tiroidismo.

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Man mano che entravano, si disponevano in un grande circolo che aveva per centro me e il capostazione, prendendo posto a terra o sulle sedie che avevano con sè, sistemando tavolini, panche, scaffali e pentole, accendendo i fuochi laddove era necessario, raggruppandosi secondo le attività che avevano intenzione di continuare a svolgere anche durante il corso dello spettacolo. Arrivata tra le ultime, una fila interminabile di vecchie, ve-stite con sconvolgente trasandatezza e sudiciume, prese posto alla mia sinistra. Tutte mi guardarono con occhi seminebetiti dall’età, stanche per lo sforzo che doveva essere costato loro giungere colà, da chissà dove. Alcune avevano dei movi-menti involontari delle mani tremebonde e si guardavano attorno spaesate, completamente all’oscuro di che cosa stesse succedendo e di dove le avessero condotte. Un prete allampa-natissimo, dalla veste unta e occhi segnati da enormi borse cascanti sulle guance, cercava di metterle diligentemente in fila e in ordine di altezza, in modo che tutte, senza bisogno di litigare per contendersi i posti migliori, potessero vedere quello che sarebbe successo di lì a poco. Ma i risultati di questo suo sforzo organizzativo erano assolutamente scarsi. Molte infatti già si erano afferrate per quei pochi capelli che rimanevano sul cranio e si trascinavano miserevolmente tra la folla che tenta-va, con poca convinzione, di dividerle.Vicino a queste, lo stesso prete aveva sistemato un gruppo, ordinato per tre, di orfanelli dalle teste rapate e i grembiu-lini a quadretti, ognuno con il suo secchiello di stagno per la refezione dal sottilissimo manico, gli occhi semplici e vuoti di-schiusi sulla pena che suscitava il loro sorriso dai denti larghi precocemente ingialliti. Cantavano una canzone giuliva che ringraziava non si sa quale dio per averli messi al mondo e resi felici. Più in là v’erano gli storpi ed i ciechi accompagnati da un’in-credibile messe di protesi e marchingegni per reggersi in piedi e per sembrare meno orrendamente mutilati: carriole, car-rocci, carrozzelle, sedie con rotelline di ferro e legno spin-te a mano, braccia e gambe di legno con la parte terminale rivestita da uno straccio di stoffa ripiena di stoppa per non scivolare sulla strada, corpetti di cuoio con tiranti studiati per

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reggere tutto ciò che da solo non si manteneva al suo posto, reg-gicollo con stecche e busti in acciaio per le infermità più gravi, ganci ed uncini al posto delle mani e, finalmente, complesse tessiture di fili, carrucole, occhielli e viti per far sì che alcu-ni individui potessero simulare il movimento pur restando assolutamente fermi. A questi si accompagnava uno stuolo incredibile di sciancati dalle stranissime andature ondeggianti, ritmate, asimmetriche, dai piedi come incollati in terra, in gra-do di muoversi soltanto a prezzo di sforzi che sembravano avere del sovrumano. E poi venivano i gruppi di dementi dallo smunto sorriso diretto verso ogni cosa, non soltanto i loro simili ma anche gli animali e perfino le mute pietre degli edifici. Da un gruppo di sciantose sculettanti, seguite da uno stuolo di anziani cascamorti prolassati, rimbambiti dalle stridule moine che queste distribuivano a destra e a manca, si alzavano, a più non posso, strepitii e proteste perchè pretendevano di far parte anche loro dello spettacolo che si sarebbe tenuto in quel luogo e di esibirsi in vorticose danze da tabarin. Con loro uno sparuto manipolo di attori, fantasisti, strani cantanti an-drogini dall’acutissima voce e posteggiatori ormai nonuagenari con i loro violini e chitarre scordate sottobraccio, spoglia-relliste grassocce e su con gli anni, prestidigitatori alcolizzati vestiti con frack lisi e rattoppati, ballerine in tutù e aitanti giovanotti in calzamaglia nera, lenoni e prostitute dai rossetti sbavati e le parrucche rosso-oro, malinconici poeti e pittori della domenica e tantissimi altri, tutti si accalcavano dal lato del capostazione, premendo per farsi notare, per distinguersi nella folla che aveva ormai invaso tutto lo spazio visibile, ogni angolo libero.Si scorgeva ogni tanto, nell’infame marmaglia che ondeggiava e che vociava, facendo tremare la terra come se si trattasse di un terremoto, qualche banchiere, tanto grasso da aver bisogno di grucce speciali, appositamente studiate per appoggiare la pancia e restare in piedi senza rotolare in terra sotto il grande peso; e ancora avanzavano gli stallieri con le mani sporche di sterco di cavallo e i contadini, tozzi esseri intenti a conta-re il danaro, raccolto in miserevoli fazzoletti luridi da tem-po immemore, ficcati nel fondo di enormi tasche cucite sulle braghe, che cadevano loro da dosso spiegazzate e bisunte,

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con lo spago e gli aghi, comunemente adoperati per la stoffa grezza dei materassi.Spiccavano, inoltre, come rare ciliegie rosse sull’immensa glassa grigia della folla, alcuni cadaverici e minutissimi car-dinali, portati in groppa da corpulenti e rubizzi giovanottoni e, a loro accanto, rara avis, i professori universitari, che, con dottorale cipiglio disegnato sui volti, indossavano cappelli-ni con piuma di struzzo e mantelline rosso-porpora svasate a campana su calzamaglie nere aderentissime che mettevano in mostra le impudiche opulenze. Con loro, un’intera truppa di sagrestani curvi e macilenti, dai lucidi crani scoperti, con guanti neri da contabile, che lasciavano in maniera indecente nudi i polpastrelli delle dita, perchè non perdessero mai, in nessun momento della giornata, la sensibilità al danaro.Per ultima, accompagnata da una folla indescrivibile di ragazzini e vecchi e, soprattutto, di venditori dagli occhi iniettati di sangue e di cupidigia, un’intera banda musicale, direttore in testa, che strombazzava a più non posso a colpi di grancassa, basso tuba e tromboni, accompagnati da uno sfer-ragliante rumore di piatti e rullante. Tutti parlavano contemporaneamente, strillavano, le mam-me invocavano i nomi dei figli perduti tra la folla con profondi strilli modulati, molto simili agli ululati di sconosciuti animali in punto di morte. Ognuno, perchè si potesse capire ciò che stava dicendo, cercava di sovrastare, invano, il frastuono generale, con l’unico risultato di aumentare ancor più il rumore complessivo.Ad un cenno del capostazione tutto cessò e un irreale silenzio piombò, all’improvviso, sulla piazza. Lui si guardò intorno, volgendo gli occhi compiaciuti sulla folla che lo os-servava con rispetto. Con le mani incrociate dietro la schiena, passeggiò con misurata, teatrale lentezza avanti ed indietro facendo attendere la folla per il suo discorso. Si fermò con le gambe leggermente divaricate, guardandomi con sufficienza.- Siamo qui riuniti - disse ad alta voce, senza distogliere lo sguardo da me - per giudicare quest’uomo che si è reso colpevo-le di numerosi e gravissimi reati -.Mi additò alla folla che mi osservava minacciosa, ostile. Fui scosso da un brivido mentre infinite domande si affannavano

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nella mia mente: cosa ne era di Lafitte e gli altri e perchè non venivano in mio aiuto? Secoli mi separavano da loro e dal-l’atmosfera solare della città diurna. Era stato tutto un sogno il mio? Di che cosa mi si accusava? Quali gravi delitti avevo commesso senza assoltamente essermene reso conto? Ancora una volta il capostazione sembrò leggermi nel pensiero.- I suoi delitti sono elementari ma non per questo meno gravi - disse lentamente, scandendo le parole, trascinandole per renderle ancor più terrificanti per me.- E sono gli stessi - aggiunse alzando improvvisamente la voce e rivolgendosi alla folla - per i quali tutti i suoi amici sono stati già condannati e giustiziati-.Il mio cuore ebbe una stretta d’angoscia, mentre un improvvi-so grido collettivo di giubilo si alzò rabbioso dalla folla. I cap-pelli volavano in aria, mentre tutti applaudivano, gridavano, si esaltavano come dei dannati e reclamavano anche per me la stessa sorte. “Giustizia sia fatta” gridavano a più non posso, “Basta”, “Eliminatelo”, “Sia fatto a pezzi”. Un coro cominciò a scandire su di un ritmo forsennato una frase che, sulle pri-me, non riuscii a capire ma che, poi, mi fu di colpo chiara, lasciandomi letteralmente allibito. Stavano gridando “Che sia inghiottito”, non mi potevo assolutamente sbagliare anche se non potevo prestar fede alle mie orecchie.Il capostazione riprese a parlare di nuovo. La folla fece silen-zio.- Lei, con i suoi amici, ha avuto la pretesa di teorizzare l’esi-stenza di una porta, un varco al di là del quale vi potesse esse-re la definizione di un’umanità “superiore”. Che, cioè, fosse possibile stabilire una corrispondenza tra questa condizio-ne di vita ed un’altra, tutta fittizia, definibile soltanto attra-verso l’idea della mancanza -. Fece una breve pausa, umettandosi le labbra mentre la folla rumoreggiava.- Tutto ciò - riprese - è per noi inammissibile. Così facendo lei, con la complicità dei suoi amici, ha smascherato la forma delle nostre parole e dei nostri gesti. Lei non è stato, in modo fraudolento e doloso, al gioco. Con la sua pretesa di andare nel profondo, nel mondo dei significati, ha messo in evidenza, senza volerlo, la loro assenza. Lei ha messo in discussione la

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nostra “apparenza”, la nostra simulazione -.Non capivo assolutamente quale fosse il senso di quello sconclusionato discorso. Compresi soltanto che l’odio nei miei riguardi era senza fine. Continuò a parlare per ore, elen-cando particolari dimenticati della mia vita, sepolti in chissà quale angolo sperduto della memoria, che non avrei mai cre-duto possibile riemergessero alla luce e dei quali non sospet-tavo più nemmeno l’esistenza. Ogni cosa, rimaneggiata dal suo discorso, mi appariva terribilmente distorta, capovolta con un’incredibile abilità verbale, in modo da apparire esattamen-te l’opposto di quello che io ritenevo che fosse. Vidi me stesso rivoltato come un guanto, ridicolizzato, umiliato senza alcuna pietà. Mi sentii colpevole, arrossii, avrei voluto sprofondare.La folla lo acclamava e sottolineava i passaggi e le pause del suo discorso con risate, grida di odio, imprecazioni e agitava minacciosamente i pugni contro di me. - È stato visto parlare con gli elementi più pericolosi, quelli messi al bando e partecipare all’elaborazione delle loro assur-de teorie - disse.Poi, guardandomi negli occhi: - L’avevo avvertito. Dovrò inghiottirla -. Un’ovazione incredibile s’alzò dalla folla, un vero e proprio delirio.Si avvicinò. Ero esterrefatto. Tutto mi sembrava così irreale e così ridicolo. Credevo si trattasse soltanto d’una minaccia. Come avrebbe potuto fare, come sarei potuto entrare in quella bocca, il mio corpo così grande rispetto a quell’apertura così piccola ...La bocca si aprì lentamente. Le labbra si allungarono a poco alla volta fino a tendersi del tutto. Apparvero i denti e la lingua si ritrasse indietro, verso l’ugola. Poi, come accade nei serpenti, la mandibola, al di sotto della pelle, si distaccò dalla parte superiore del cranio e cominciò a scendere verso il basso permettendo, in questo modo, un allargamento progressivo e smisurato dell’apertura. Dall’interno arrivava un cattivo odo-re penetrante che aumentava d’intensità man mano che il varco progrediva. Ce l’avrebbe dunque fatta!Un terrore senza pari mi prese. Mi sentii come una preda agguantata da un sanguinario felino. Tentai di scappare

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ma mi avevano afferrato per le braccia e mi spingevano verso quell’orrida cavità fetida. La folla era in preda ad un incredibile parossismo, ad un’esaltazione furiosa. Non mi riusciva di fare un sol gesto, ero immobilizzato, la situazione allucinante mi aveva letteralmente annichilito.La bocca del capostazione era diventata ormai tanto grande che non si riuscivano più a distinguere le altre parti della testa. Le labbra si erano trasformate in due sottilissimi lembi di carne che circondavano l’enorme ovale vuoto di quella cavità nera, nel fondo della quale mi parve di vedere degli organi deformi che palpitavano.Ebbi un ultimo moto di ribellione tentanto di divincolarmi, ma fu inutile. Erano in troppi a tenermi. Mi spinsero avanti con forza. Capii di essere perduto e la volontà di combattere ancora mi venne meno. Si trattò di un attimo, poi fui assorbi-to dal nero attaccaticcio di un liquido infame e maleodorante, mentre sprofondavo immerso nel buio di quella spaventosa ca-verna.

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“Herr Bauknecht, Herr Bauknecht”, un richiamo nell’umi-da oscurità inseguiva il mio corpo che, come un groppo, scendeva spinto dalle contrazioni del nero budello.Tutto ritorna e tutto non è mai iniziato.

I pensieri dell’inghiottito sono come quelli d’un impiccato che dondola al chiaro di luna e se la ride del mondo che non gli appartiene più e che si lascia accarezzare dal vento umido della notte. Le sue idee sono vuote sacche sdrucite.“Herr Bauknecht, la sua vita non è terminata qui. Dovrà proseguire “Edward e la sua teoria del varco. Forse è questo il varco, un infame budello fetido che ci maciulla, ci rosicchia con i suoi aci-di e lentamente nel buio ce ne andiamo. Non poter nemmeno più pensare, forse questa sarebbe la liberazione, perchè la vera malattia è proprio il pensiero.Vidi una lunga spiaggia e un candido vestito di donna bagnato dalla brezza marina.- Herr Bauknecht è tutto finito. Devo scappare non posso più trattenermi. Addio -.Distolsi lo sguardo dal buco della serratura. Rividi quei suoi occhi ancora una volta. In fretta e in silenzio com’era entrata la donna in nero, presa la scatola rivestita in velluto rosa, uscì dalla stanza, tra i fruscii delle sue garze e dei suoi morbidi veli, chiudensosi la porta alle spalle. Rimasi davvero solo.

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Epilogo

“Egli sogna, adesso. E che cosa credi che sogni?“Nessuno lo può indovinare.”

“Ma come, sogna di te. E se smettesse di sognare di te, dove credi che saresti tu?”

“Dove sono ora, naturalmente.”“Niente affatto, non saresti in nessun luogo. Perchè tu sei

soltanto una cosa dentro il suo sogno.”“Se il Re dovesse svegliarsi, tu ti spegneresti...puf...proprio

come una candela.

Lewis Carroll, 1871

Gentile lettore, ora che sei giunto alla conclusione del Sogno di Jeronimus è anche giusto che ti riferisca del mio ultimo incon-tro con lui. E, date le stranezze di tutta questa storia, confido nella tua discrezione, nel chiedermi se, dove e quando l’abbia effettivamente incontrato e perdonerai, di conseguenza, il mio riserbo a riguardo. Ti basti sapere che mi sono imbattuto in lui per puro caso, senza riconoscerlo. Fu lui stesso a fermarmi. È stato, il nostro, un lungo e concitato parlare. Un dialogo del quale mi è stato consentito di riportare qui soltanto le ultime battute. Tutto ciò che non è scritto è, di conseguenza, affidato alla tua immaginazione.- Insomma - mi disse in conclusione - non mi sembra che vi sia nè capo nè coda in tutta questa storia di me stesso. Non chiedermi perchè. È fin troppo evidente. Te lo dimostro in un momento. Metti che, ad un certo punto della tua strada, quando meno te lo aspetti, tra le tante immagini e visioni che ti circondano, per un puro caso, tu ti imbatta in uno spec-chio. Ma non si tratta di uno specchietto, piccolo, tascabile, bensì di un grande specchio nel quale tutta la tua persona si possa riflettere. E che questo ti capiti per strada, mentre cammini pensando ai casi tuoi. Ti ritrovi davanti, all’improvvi-so, un altro Io, figura intera, con lo sguardo assente proprio di

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chi è tutto compreso su se stesso. Ti guardi e, per un attimo, non ti riconosci, non capisci che quell’imagine che sta davanti ai tuoi occhi è proprio la tua. È come se quell’ “altro” ti chiedesse (ma sei tu che ti chiedi visto che l’immagine non rispecchia che te) chi sei, si meraviglias-se di te. Ti trovi, in poche parole, senza volere, fuori del tuo corpo. Sei costretto ad osservarlo, nel suo stupore, nei suoi limiti, nelle sue miserie. E questi limiti contingenti diventano, subito, i limiti asso-luti del tuo essere. Anzi, il tuo essere perde di significato o, meglio, diventa più piccolo, più umile, più cosa da poco, che si può perdere da un momento all’altro, una cosa effimera che può svanire, come l’immagine nello specchio, non appena ci si sposti un po’ più in là, fuori del campo di riflessione.Una cosa da poco quella cosa che, al contrario, è sempre stato tutto il tuo mondo, il presente ma anche il passato e il fu-turo, tutto il mondo conosciuto ma anche tutto quello ancora da conoscere. Una cosa da poco quell’infinito di significato, quell’unico significato comprensibile. Allora il pensiero corre più veloce della paura che ti fa quel riconoscersi per caso. E corre ai limiti della memoria. Pensa, cioè, che poi tutto quello che assicura un significato al presen-te è la vaga sensazione, a volte quasi inesistente, di “essere stato”. Il che non è ancora memoria, ma una precognizione, per così dire, della memoria, il vago sapore, insomma, che vi sia continuità nello svolgersi della propria vita, del proprio percorso. E dunque se questo senso svanisse, questo debole collegamen-to, questa precognizione d’una strada già percorsa, si smar-rirebbe l’intero universo percepito, svanirebbe, cioè, tutto -.- Per questo dici, dunque, che io ti proseguo? Tu sei, in-somma, l’immagine che di me rimanda lo specchio? Tu vivi in un mio insospettabile sogno, sconosciuto a me stesso?- gli ho chiesto.E lui, di rimando: - Sei tu il mio doppio-. E poi ha aggiunto in un soffio: - Per questo me ne sto immobile. Muovermi potrebbe significare non riuscire più a guardare nello specchio, potrebbe significare la fine della storia, non soltanto la tua. Potrebbe significare la fine di questo sogno che, al contrario, ci-

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clicamente si richiude su se stesso per ricominciare. Potrebbe significare perderti irrimediabilmente -.Non sono riuscito più a vederlo. È stato come inghiottito dal-l’ombra cupa proiettata dal campanile. Mi sono allontanato a passi svelti dalla piazza. Mi è parso, mentre camminavo in fretta, di udire un soffocato lamento, lontano, nel buio, verso le luci delle mura dal lato del porto.

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Catalogo

Ho qui di seguito riportato alcuni miei disegni e opere grafiche realizzate sotto le suggestioni oniriche che Jeronimus, in più di un’occasione, mi ha suggerito.Si tratta di libere interpretazioni fortemente segnate dalla cultura diversa nella quale sono vissuto che, certamente, non può avvertire, se non come puro stimolo intellettuale, la particolare atmosferadi decadenza dell’inizio del Novecento che, al contrario, per Bauknecht costituì il background esclusivo di formazione e cristal-lizzazione del suo modo di sentire il mondo ed interpretarlo.Il significato di questo lavoro va, dunque, ricercato esclusivamente nel riecheggiamento di un’epoca e del suo significato, una sorta di “anastilosi concettuale”, per così dire, che ha l’unico scopo di restituire, anche se molto alla lontana, gli effetti che quel viaggio ebbero nella complessa vicenda culturale dell’architetto tedesco e nel dissolversi di qualsiasi visione ottimistica sul futuro della civiltà occidentale, condizione nella quale ancora ci troviamo ad agire.

La folla davanti ad una città verticalerapidograph 0,1, china nera virata a marrone su cartoncino

Catena estivarapidograph 0,1, chine colorate, acquerello su cartoncino pesante

Quello che si vede dalla cucinarapidograph 0,1, chine colorate, acquerello su cartoncino pesante

Quello che si vede dalla camera da lettorapidograph 0,1, china nera virata a marrone, matite colorate

Composizione con manichinorapidograph 0,1, china nera e colorata su cartoncino

Pensieri lontanimatita grassa su carta rosaspina

Palladianarapidograph 0,1, china nera e bianca su cartoncino

Teatro palladianorapidograph 0,1, china nera su cartoncino

Una mano lava l’altrarapidograph 0,1, china nera, chine colorate, acquerello su cartoncino

L’appesorapidograph 0,1, china nera su cartoncino

Il sogno del poetarapidograph 0,1, china nera su cartoncino

Teatro multidimensionalerapidograph 0,1, china nera, chine colorate, acquerello, pastello su cartoncino

Notturnomatita grassa su carta rosaspina

Nel corso del tempomatita grassa su carta rosaspina

Uno sguardo sul mondo che girarapidograph 0,1, china nera su cartoncino

Città allo specchiorapidograph 0,1, china nera su cartoncino

La grande muragliarapidograph 0,1, china nera su cartoncino

La pesca miracolosarapidograph 0,1, china nera su cartoncino