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CAPITOLO 4 – LA DIFESA CIVILE NON ARMATA E NONVIOLENTA
di Stefano Scala
Introduzione - obiettivi
La normativa sul servizio civile richiama più volte la nonviolenza quale scelta per rendere efficace
la difesa non armata del Paese, che è finalità prima del Servizio Civile Nazionale così come viene
definito dalla legge n. 64/2001. Ma, a parte alcune esperienze all’estero configurabili come azioni di
peacekeeping o similari, non è immediato cogliere, nei progetti in cui sono impiegati i volontari nei
vari enti, come la nonviolenza possa essere un’espressione abituale dell’agire dei suoi attori, nella
gestione dei conflitti che possano aprirsi nelle relazioni con l’altro così come nella gestione dei
servizi alla comunità.
Il presente modulo formativo intende descrivere le specificità della difesa civile e della difesa non
armata e nonviolenta cercando di fare chiarezza sui termini e provando a trasferire alcune prassi di
tali elementi nell’agire quotidiano dei volontari in SCN.
Sintesi dei contenuti
L’espressione “Difesa civile non armata e nonviolenta” è la formula con cui lo Stato Italiano
assume per la prima volta la responsabilità di promuovere lo studio e la sperimentazione di forme di
difesa civile, alternative a quella militare, affidandone il compito all’Ufficio Nazionale per il
Servizio Civile, d’intesa con il Dipartimento per il coordinamento della protezione civile. Tale presa
di coscienza avviene ancor prima dell’istituzione del Servizio Civile Nazionale, se ne parla nella
legge n. 230 del 1998 che attua la riforma dell’Obiezione di Coscienza.
Con la legge n. 64 del 2001 si arriverà alla formalizzazione giuridica del concetto di Difesa Civile
Non Armata e Nonviolenta (sintetizzata dall’acronimo DCNAN) allorché si definirà compiutamente
il Servizio Civile Nazionale come “alternativa al servizio militare obbligatorio”, mirante “alla difesa
della Patria con mezzi ed attività non militari”.
Sotto questo profilo, la difesa civile non è più concepita come un aspetto marginale della difesa
dello Stato – di consuetudine affidata alle Forze armate e, in via secondaria e complementare
rispetto alle strategie militari, a possibili forme di difesa non armata – ma come una vera e propria
alternativa alla difesa militare, svincolata da quest’ultima sia sul piano culturale sia su quello
gerarchico.
Narrazione – agenda formativa
Riferimenti costituzionali
Punto di partenza di questo modulo è la constatazione dell’assenza, nella Costituzione Italiana, di
qualsiasi riferimento alla “difesa civile”.
Il nostro testo costituzionale si riferisce alla difesa in modo specifico nell’art. 52 allorché considera
la “difesa della Patria” come un “sacro dovere del cittadino”. Nello spirito dei padri costituenti la
difesa della Patria appare strettamente connessa alla difesa militare.
Infatti, il primo comma dell’art. 52 Cost. sancisce il dovere di difesa e, di seguito, si fa riferimento
al servizio militare obbligatorio e alla necessità di informare l’ordinamento delle Forze Armate
“allo spirito democratico della Repubblica”. Una circostanza che consente di collocare l’origine del
dovere costituzionale di difesa in organica connessione con la difesa militare ed armata.
Tale connotazione “militarista” del dovere di difesa, perfettamente comprensibile nei primi anni del
secondo dopoguerra quando viene redatto il testo costituzionale, viene rivista nel corso degli anni
ad opera non solo della legge ma anche della giurisprudenza e della dottrina costituzionale. Si
giunge così all’attuale rappresentazione, molto più ampia e complessa, che certamente continua a
riguardare la difesa militare, senza tuttavia escluderne altre di diversa natura.
Per ciò che interessa da vicino il nostro discorso, possiamo ricordare che sia la legge n. 230/1998
sia la legge n. 64/2001 dichiarano espressamente che il servizio civile “risponde al dovere di difesa”
e “concorre alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari”.
Queste formule legislative sono state considerate costituzionalmente legittime in più occasioni dalla
giurisprudenza della Corte Costituzionale (si noti la sentenza n. 53 del 1967 e la più significativa
sentenza n. 164 del 1985) che, in questo modo, ha contribuito ad estendere il concetto di difesa oltre
i contorni della sola difesa militare.
Oggi possiamo dunque affermare senza ombra di dubbio che quando la Costituzione fa riferimento
al “dovere di difesa” intende rapportarsi a molteplici forme di adempimento della stessa, sia in
senso militare ed armato sia sotto forma disarmata e non militare (perciò “civile”).
Obiettivi e metodi di difesa
Si offre di seguito uno schema della differenza di approccio, sviluppata in ambito militare e in
ambito civile, circa obiettivi e metodi di difesa.
Nella dottrina militare si considera che le possibili situazioni in cui coalizioni, Stati e gruppi
possono trovarsi in relazione di conflittualità siano essenzialmente tre:
pace: condizione delle relazioni tra gruppi, classi o Stati in assenza di violenza e di minaccia
di violenza reciproca
crisi: situazione in cui si manifestano con evidenza minacce o rischi, ovvero dove la
violenza viene esercitata in varie forme, sebbene in maniera contenuta. Qualora la crisi
riguardi direttamente uno Stato, le Forze destinate alla difesa devono essere in grado di
sostenere le decisioni dell’autorità politica con azioni adeguate alla situazione. Nel caso in
cui un paese si impegni nella soluzione di una crisi fra altri Stati o gruppi, tali Forze possono
essere chiamate ad intervenire a sostegno dell’attività politica e diplomatica nella condotta
di operazioni di risposta alle crisi (Crisis Response Operations – CRO)
guerra: situazione in cui lo scontro tra opposte volontà si manifesta con l’uso estensivo e
generalizzato della violenza. In funzione del grado di coinvolgimento delle risorse di una
Nazione, la guerra può essere distinta in guerra generale e guerra/conflitto regionale o
limitato.
Le operazioni militari di risposta alle crisi comprendono sia operazioni di sostegno alla pace (Peace
Support Operations – PSO) sia altri tipi di operazioni svolte in ambito nazionale o multinazionale; le
operazioni di risposta alle crisi includono l’uso di strumenti politici, diplomatici e militari secondo
quanto stabilito dalle leggi internazionali, al fine di prevenire o risolvere un conflitto. Oltre alle
forze militari, coinvolgono le autorità diplomatiche, le organizzazioni internazionali, la popolazione
civile, le organizzazioni governative, quelle non governative e quelle private. Esse sono condotte
con imparzialità in supporto ad un mandato stabilito da un’organizzazione internazionale (es. ONU,
OCSE, ecc.) e si propongono di raggiungere una stabilità politica a lungo termine o altre condizioni
specificate nel mandato.
Nella categoria delle operazioni di sostegno alla pace rientrano diverse operazioni, che nella
dottrina militare godono di specifiche definizioni:
operazioni di mantenimento della pace (peacekeeping): attività sviluppate a seguito di un
accordo di pace o di un cessate il fuoco che abbia realizzato un ambiente dove il livello del
consenso è alto mentre la minaccia di un’azione disgregativa è bassa. Hanno lo scopo di
monitorare e favorire l’implementazione dell’accordo stesso; le formazioni militari presenti
nell’azione devono possedere la capacità di utilizzare la forza anche se, normalmente, essa
verrà applicata solo per autodifesa;
operazioni per l’imposizione della pace (peace enforcement): sono operazioni di natura
coercitiva condotte qualora non sia stato raggiunto il consenso di tutte le parti in causa o
quando esso sia incerto. Hanno lo scopo di mantenere o di ristabilire la pace ovvero di
imporre le condizioni specificate nel mandato;
operazioni per la prevenzione dei conflitti (conflict prevention): comprendono una vasta
gamma di attività, diplomatiche e/o militari, finalizzate ad individuare le possibili cause del
conflitto, monitorarne gli indicatori e assumere tutte le azioni opportune per impedirne
l’insorgere, l’intensificazione o la ripresa delle ostilità;
operazioni di edificazione della pace (peacemaking): riguardano un’ampio spettro di attività
diplomatiche e possono anche includere la minaccia dell’uso della forza. Sono condotte
dopo l’insorgere di un conflitto armato al fine di stabilire un cessate il fuoco o raggiungere
un sollecito accordo di pace;
operazioni per il consolidamento della pace (peacebuilding): sono condotte normalmente da
organizzazioni civili con il supporto militare, se richiesto; agiscono sulle cause alla base del
conflitto e, nel lungo periodo, sulle necessità della popolazione.
Nella dottrina civile non si seguono sempre le classificazioni utilizzate in ambiente militare.
Tuttavia, guardando alla diversificazione fra interventi straordinari ed interventi ordinari, si osserva
la necessità di intraprendere i primi solo a seguito di una specifica formazione che, in determinate
occasioni, comprende anche elementi di carattere militare. Mentre per gli interventi ordinari, che
riguardano anche attività di carattere preventivo rivolte sia ad impedire l’escalation di un conflitto
sia ad evitare l’insorgenza di emergenze ambientali, la formazione potrebbe escludere l’uso delle
Forze armate per riservare tali attività alle sole “forze civili”.
In sostanza, gli interventi resi in occasione di disastri naturali o di conflitti bellici in senso proprio
necessitano di un’attività propria anche delle Forze armate (che per legge agiscono nei casi in cui
sussistano “necessità ed urgenza”), mentre gli interventi resi in circostanze di prevenzione
dovrebbero escludere l’utilizzo della forza armata e della struttura militare.
In ambito internazionale le tesi civili connesse alla gestione dei conflitti privilegiano poi il dato
dialogico rispetto all’uso della forza armata, considerata una extrema ratio cui ricorrere solo dopo
aver esperito i tentativi predisposti dal diritto internazionale (sanzioni economiche, sanzioni
politiche, embargo, arbitrato, ecc.).
Le azioni attivate nel caso di un conflitto vengono peraltro distinte tra attività dissociative e attività
associative a seconda che abbiano per scopo la separazione dei contendenti oppure la ricostituzione
dei loro legami:
attività dissociative: rientrano in questo primo gruppo le operazioni di peacekeeping che, in
questo contesto, designano lo stanziamento di forze di interposizione (sia armate sia
disarmate) fra le forze che si combattono
attività associative: in questo ambito rientrano sia le azioni di peacemaking sia quelle di
peacebuilding. Nella dottrina civile, l’attività di peacemaking è simile a quella vista nella
dottrina militare: indica interventi di carattere associativo in cui la componente militare può
essere utilizzata come strumento di pressione per sostenere la conclusione di accordi fra le
parti in lotta. Si parla invece di peacebuilding per indicare i progetti di lungo periodo che
mirano a ricomporre le parti sociali di un conflitto al di fuori del superamento di una crisi
specifica ed anche nella logica della prevenzione dell’utilizzo della forza armata. Si
interviene qui sulle ragioni profonde del conflitto, tentando di eliminare le cause che
potrebbero condurre ad una sua escalation.
La difesa nazionale come insieme di difesa militare e difesa civile
Visto il discorso precedente, si può affermare senza dubbio che, in assenza di una specifica
disposizione normativa, la difesa nazionale si articola in difesa militare e difesa civile.
Occorre osservare che la difesa civile si svolge in ambiti anche molto diversi tra loro; questa
circostanza determina una frammentazione delle competenze amministrative che poco si adatta alla
ricostruzione dell’unitarietà di scopo e alla omogeneità delle tecniche adottate per la gestione delle
emergenze in cui la difesa civile è coinvolta. In ogni caso, il più importante organismo di difesa
civile per la gestione e prevenzione delle emergenze è certamente la Protezione Civile. In Italia essa
trae origine dalla legge n. 996/1970 che forma, per la prima volta nel nostro Paese, un corpo civile
destinato a praticare interventi tecnici straordinari per fronteggiare calamità naturali o catastrofi. Ma
questo e altri temi connessi verranno approfonditi nell’apposito capitolo dedicato in toto alla
Protezione Civile.
Circa la difesa civile e gli altri organismi ad essa preposti, possiamo osservare che alcune
competenze in materia riguardano il Ministero dell’Interno – cui sono formalmente attribuite le
funzioni di difesa civile, non a caso esiste un apposito dipartimento del Viminale denominato “Dei
vigili del fuoco, del soccorso alpino e della difesa civile” – altre appartengono alla Presidenza del
Consiglio che le esercita attraverso il Dipartimento della protezione civile nonché mantenendo una
funzione di raccordo e di indirizzo delle altre amministrazioni dello Stato. Va ricordato che anche il
Servizio Civile Nazionale è da annoverare tra le competenze della Presidenza del consiglio in
materia di difesa civile. Ma di questo si parlerà in maniera dettagliata più avanti.
La difesa militare e la difesa civile
Viste le diverse competenze attribuite a diversi organi dello Stato, si è cercato, negli anni, di
armonizzare le posizioni in materia di difesa civile attraverso una serie di Commissioni
interministeriali. La più importante è stata la Commissione Interministeriale Tecnica per la Difesa
Civile (CITDC). Essa ha svolto compiti di indirizzo, propulsione e coordinamento delle attività di
difesa civile, tanto che, in occasione di esercitazioni della NATO, la CITDC ha assunto il ruolo di
organo tecnico di supporto. Si tratta di attività che riguardano il civil emergency planning, ideato
dalla NATO nel 1991, e che tendono ad attribuire a risorse civili funzioni di supporto nelle
operazioni di peacekeeping.
Va inoltre segnalato che, nel quadro della costituzione della Difesa Comune Europea, sono state
assunte, a livello comunitario, iniziative che mirano a realizzare un sistema di difesa civile a
supporto di azioni di peacekeeping indipendenti da quanto realizzato finora in ambito NATO. In
questo contesto la difesa civile non concerne attività umanitarie, ossia di protezione civile in senso
proprio, poiché riguarda più direttamente l’inserimento della componente civile nella strategia di
carattere militare. L’operazione italiana “Alba” in Albania – così come quella successiva in Kosovo
– costituiscono un esempio paradigmatico di questo tipo di operazioni che postulano, accanto alla
componente militare, contributi di forze civili nelle aree della gestione amministrativa di enti locali,
della pubblica sicurezza, della giustizia, delle infrastrutture civili, dell’organizzazione di elezioni
generali e regionali, ecc.
La cooperazione con l’Albania è tuttora volta soprattutto alla elaborazione di un quadro normativo e
applicativo utile per la pianificazione delle attività di emergenza e per l’organizzazione delle
relative strutture. Simili attività sono il frutto dell’applicazione del concetto ampio di “approccio
alla sicurezza”. L’intervento “civile” italiano si giustifica infatti col fatto che, trattandosi di un paese
confinante, la capacità di fronteggiare autonomamente ed in modo efficace le emergenze interne,
anche solo civili, costituisce una diminuzione del rischio per la sicurezza italiana (si ragiona cioè in
termini di interesse nazionale e di reciprocità tra sicurezza interna ed internazionale).
Il servizio civile e la difesa civile
In un simile quadro, già consolidato, molto complesso, articolato e forse bisognoso di revisione,
armonizzazione e ristrutturazione, si inserisce la legge n. 230 del 1998. Come si è già detto, essa
disciplina l’obiezione di coscienza al servizio militare e, all’articolo 8, attribuisce all’Ufficio
Nazionale per il Servizio Civile il compito di “predisporre, d’intesa con il Dipartimento della
protezione civile, forme di ricerca e sperimentazione di difesa civile non armata e non violenta”.
Relativamente al nostro discorso, possiamo notare come in questo caso l’espressione “difesa civile”
si connette immediatamente al carattere non armato e non violento di questo nuovo istituto. La
ragione è facilmente intuibile se si guarda al contesto in cui è situata la norma: la pratica del
servizio civile di leva, alternativo a quello militare e svolto da obiettori di coscienza; cosa che non
pare facilmente identificabile a priori né immediatamente rapportabile alle altre forme di difesa
civile conosciute nell’ordinamento italiano.
Il Servizio Civile costituisce senza dubbio una novità ordinamentale che, all’epoca della sua
istituzione, era considerato in modo originale e non in connessione con il variegato complesso delle
istituzioni di difesa civile. Esso mantiene un carattere “militare” allorché viene identificato come
“servizio civile di leva” ma – quando si considera che debba operare d’intesa con la protezione
civile – sembra evidente che venga inserito con un proprio apporto originale tra le forme di difesa
civile, caratterizzandosi per essere “non armato e non violento”.
I fondamenti culturali della DCNAN: la Difesa Popolare Nonviolenta
Ci troviamo così a parlare, in maniera più precisa di Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta,
concetto sintetizzato nell’acronimo DCNAN. Vari sono i fondamenti culturali di tale tipo di difesa,
primo fra tutti la Difesa Popolare Nonviolenta, o DPN.
L’idea classica è che, con l’acronimo DPN, si vada ad intendere un modello di difesa alternativo a
quello militare, strutturato dal basso ma sapientemente organizzato, che – da solo o in concorrenza
con una struttura armata – possa garantire una difesa efficace del territorio, delle persone che ci
vivono e delle sue istituzioni. Il termine usato in Italia non trova riscontro in altri paesi Europei che,
di volta in volta, hanno preferito usare locuzioni simili quali “difesa civile” (Sharp), “difesa civile
nonviolenta” (Muller), “difesa sociale” (Ebert). Esso fa riferimento a qualcosa di molto preciso che
si differenzia dai concetti similari, ma non del tutto coincidenti, di “resistenza passiva”, “resistenza
nonviolenta” o “disobbedienza civile”.
È vero, però, che il percorso teorico intorno al concetto di Dpn nasce proprio dall’esperienza non
violenta gandhiana e trova poi le prime applicazioni storiche nel mondo occidentale con la
resistenza al nazi-fascismo. Solo in seguito si svilupperà, in seno alle prime esperienze di peace
research italiana degli anni ’70, la locuzione “difesa popolare nonviolenta”. Gandhi definiva la sua
azione “autodifesa”, stando così a significare la rinuncia a qualsiasi tipo di aggressività o
competizione che non fosse giustificata dal sacro diritto/dovere alla difesa di sé e dei propri cari.
Queste forti motivazioni, che sono alla base di un’ampia mobilitazione di massa, sono state le stesse
che hanno attivato i movimenti di resistenza, armata e non armata, al nazi-fascismo. Diversamente
da quanto accade oggi, quando in presenza di guerre che l’Occidente combatte quasi esclusivamente
in territorio straniero, la “difesa” dei diritti umani e della democrazia appare un concetto non
sempre distinto dagli interessi di tipo economico o politico.
Ecco dunque che la prima condizione che si deve verificare affinché si possa parlare di DPN è che si
tratti inequivocabilmente di azioni di difesa. D’altra parte la forza di mobilitazione nei casi di
intervento all’estero è senz’altro minore e sempre più spesso i sistemi di reclutamento sono basati
su incentivi di tipo economico e/o a campagne di sensibilizzazione di tipo nazionalistico e retorico.
Questo contraddice con il secondo elemento fondamentale della DPN, ovvero il fatto che sia
popolare oltre che civile, nel senso che viene avvertita come un impegno condiviso da tutta la
popolazione. Questa è la diretta conseguenza del primo termine, la difesa: un evento così
drammaticamente importante che non può essere delegato ad una struttura esterna (tanto meno
privata come nel caso di eserciti di mercenari o “agenzie private di sicurezza”) ma deve essere
assunta dall’intera popolazione come impegno primario e fondamentale. Solo su queste basi
teoriche il risultato sarà una difesa “efficace” in quanto diffusa, radicata, ampia e completa (nel
senso che si basa su risorse di tipo diverso e sulla ricchezza di esperienze e di idee che una intera
popolazione può mettere in campo quando adeguatamente motivata).
Il terzo termine nonviolenta rimanda alla caratterizzazione etico-filosofica del termine. Esso sta ad
indicare da un lato le premesse “teoriche” dell’azione, le sue radici di pensiero e le motivazioni di
fondo, dall’altro definisce in modo netto e distinto quello che all’interno di questa difesa è
contemplato e quello che non lo è. Ecco perché la scelta tra termini come “difesa civile” e “difesa
nonviolenta” è una scelta di campo assolutamente dirimente e rende necessario fare chiarezza tra i
termini. Se le categorie di fondo della nonviolenza sono il sacrificio di sé, la ricerca della verità, la
fede (in qualsiasi religione, ma comunque in una vita spirituale che va al di là della vita stessa del
genere umano) allora anche le azioni che ne conseguono possono differire notevolmente. L’unica
cosa che è simile in un’azione di difesa nonviolenta e in un’azione di difesa civile è il fatto che non
si usino le armi. Un’azione di difesa civile si può mettere in campo anche solo semplicemente
perché non si hanno armi a disposizione (come in molti casi di resistenza popolare al nazismo) o
perché le armi che si hanno a disposizione non sono efficaci contro quelle dell’invasore (come nel
caso della difesa dalle armi nucleari). Ma una difesa nonviolenta parte dal nesso ahimsa - amore per
la vita (e tutte le creature) > satyagraha - ricerca della verità > swaraj - lotta per l’autogoverno >
per cui le azioni poste in essere non possono che essere ispirate all’amore per il nemico, alla volontà
di con-vincere il nemico piuttosto che di annientarlo e all’essere dunque disposto a morire piuttosto
che a uccidere (da qui il carattere assolutamente intrinseco di nonviolenza).
L’idea attuale di DPN
Con la fine del bipolarismo e della guerra fredda il modello di difesa basato sulla deterrenza
nucleare è scomparso. Nel giro di pochi anni la prima guerra del golfo, la guerra nella ex-
Jugoslavia, i massacri in Ruanda, le crisi diffuse in molte aree del pianeta hanno cambiato la
strategia militare delle superpotenze. La caduta del muro di Berlino da un lato ha rotto il cosiddetto
“equilibrio del terrore” ma questa rottura non ha portato una nuova era di tolleranza e dialogo tra le
potenze, bensì una nuova era di “disordine mondiale” in cui sono apparsi all’orizzonte nuovi
armamenti (si pensi all’uranio impoverito), nuovi scenari di guerra (si pensi all’antrace e la guerra
batteriologica), o ipotesi futuribili (si pensi allo scudo spaziale). In questi dieci anni, insomma,
mentre il pacifismo era intento a riconsiderare le proprie posizioni e ad impegnarsi in scenari di
concreta solidarietà internazionale, come ad esempio il pacifismo italiano nei Balcani, le
superpotenze si sono trovate impreparate per la sfida del nuovo millennio: la guerra al terrorismo.
Dal crollo delle torri gemelle, il terrorismo internazionale è entrato a pieno titolo nei programmi e
nelle esercitazioni di difesa delle nazioni occidentali. In questo contesto, anche la Difesa Popolare
Nonviolenta deve essere rimodulata. I mutati scenari mondiali e di gestione dei conflitti
internazionali fanno sì che la Dpn comincia ad essere intesa non solo in senso stretto come
alternativa alla difesa classica ma, in senso lato, come nuovo paradigma per la trasformazione
nonviolenta dei conflitti, a livello micro e a livello macro.
Sulla base di questa considerazione è stata proposta una ridefinizione della DPN, articolata su cinque
diversi livelli di intervento:
1. lotte nonviolente di base (detta micro DPN o difesa sociale)
2. lotte di liberazione nonviolenta
3. la resistenza civile nonviolenta
4. la dissuasione nonviolenta
5. l’intervento e l’interposizione in caso di conflitto: i cosiddetti “corpi civili di pace”.
La Difesa civile non armata nonviolenta e il SCN
Alla luce della legge n. 64/2001 si osserva che il nuovo Servizio Civile Nazionale si presenta come
un fenomeno sociale consolidato in modo indipendente dai riferimenti alla DPN e alle strutture
tradizionali di difesa dello Stato. Esso ha propri punti di riferimento e propri principi di base, non
esattamente coincidenti con quelli posti a fondamento della Difesa popolare nonviolenta.
Non vi è dubbio, infatti, che – mentre l’obiezione di coscienza si fondasse, oltre che sull’art. 52
Cost. anche e soprattutto sull’art. 11 Cost. – oggi il riferimento all’art. 52 Cost. e al “dovere di
difesa della Patria” resta assodato, mentre pare affievolirsi la caratterizzazione del SCN quale
strumento di pace attraverso il ripudio della guerra, ragion per cui l’art. 11 Cost. appare sempre
meno connesso alla nuova situazione dei giovani volontari.
Il Servizio Civile Nazionale mantiene una propria specificità in funzione della costruzione della
giustizia sociale e dell’uguaglianza sostanziale, fattori di pace e quindi forme di concretizzazione
del ripudio della guerra. Queste funzioni riguardano sia specifici progetti di SCN sia la mission dei
vari enti di servizio civile i quali, accreditandosi al sistema servizio civile e sottoscrivendo la carta
di impegno etico, rendono esplicita la propria vocazione di promozione della cultura della pace
quale espressione basilare del superamento della violenza e della prevenzione della guerra.
Secondo questa impostazione, il dovere di difesa della Patria può essere letto in senso più ampio di
quanto non sia stato fatto finora, identificandolo con la difesa dei valori della Costituzione della
Repubblica Italiana. Del resto, il SCN, non più formalmente collegato all’obiezione di coscienza al
servizio militare, risponde all’adempimento dell’inderogabile dovere di solidarietà così come
proposto nell’art. 2 Cost. e segnalato dalla sentenza n. 228 del 2004 della Corte Costituzionale.
Il Servizio Civile Nazionale, secondo i dettami dalla legge n. 64/2001 costituisce senza dubbio una
forma istituzionale di difesa civile e, al contempo, rappresenta l’ambito prioritario di applicazione
della Difesa Civile non armata e non violenta.
In primo luogo nella sua dimensione estera, soprattutto quando si concretizza in azioni coincidenti
con le forme già intese della DPN, ma certamente anche nella sua articolazione sul piano interno.
Criticità e soluzioni
Una evidente criticità di questo modulo è la sua estrema complessità, cosa che viene confermata
ogni anno nelle ore di formazione con i ragazzi. Per rendere il tema più affascinante e coinvolgente
trovo sia fondamentale partire da contributi audio quali le parole di Gandhi o di Martin Luther
King, due grandi esempi di non violenza cui tutti hanno almeno sentito parlare. Da lì si può
impostare il discorso, monitorando sempre il livello di attenzione dell’aula e cercando di sollecitarlo
attraverso specifici momenti di brainstorming sulle parole chiave del modulo, magari complicando
di volta in volta il significato di ciò cui si vuole arrivare a discutere. Si potrà allora prima di tutto
affrontare il tema “difesa” per poi dibattere di “difesa civile”, quindi di “difesa non armata e non
violenta” evidenziando connessioni e differenze tra i vari termini.
Personalmente, non faccio mai mancare una slide iniziale che accoglie i corsisti al loro ingresso in
aula. Sedendosi ai loro posti e guardando il lo schermo essi si trovano di fronte le parole di Gandhi:
“Per quanto piccola una nazione o anche un gruppo possa essere, una volta che abbia raggiunto
una precisa determinazione, ed anche una unitaria volontà e fermezza, non è meno capace di un
individuo di difendere il proprio onore e la propria dignità contro un intero mondo in armi. In ciò
consiste la forza ineguagliabile e la bellezza dei disarmati. Tale nonviolenza non conosce né
accetta sconfitte in alcuno stadio. Perciò, nemmeno la bomba atomica potrebbe assoggettare in
schiavitù una nazione o un gruppo che abbia fatto della nonviolenza la propria politica definitiva”.
(Mohandas Karamchand Gandhi)
Così si comincia ad entrare in argomento prima ancora che il docente abbia preso la parola.
Circa i contenuti specifici del modulo, sarebbe opportuna una riflessione sul senso del Servizio
Civile Nazionale come espressione della Difesa Popolare Nonviolenta e/o come potenziale
espressione della Difesa Civile non armata e nonviolenta. E’ molto scarsa, anche nel bagaglio
culturale di OLP e formatori, la consapevolezza di tale dimensione del SCN.
In altri termini, appare oggi molto complicato trasferire nella coscienza comune l’idea del servizio
civile come forma di adempimento del dovere di difesa della Patria e resta aperta la sfida circa la
costruzione di un servizio civile che sia effettivamente uno strumento di difesa civile non armata e
nonviolenta. In questo senso, occorre dare maggiore spazio agli elementi di formazione che non
solo parlino in senso generale di metodi di risoluzione dei conflitti ma provino a far entrare tali
elementi nel vissuto quotidiano dei corsisti.
Guardando la realtà degli enti di servizio civile, accade spesso, infatti, che i progetti d’impiego del
servizio civile, come qualsiasi altro contesto organizzativo, possono essere terreno di disagio,
incomprensione, rivalità e quindi conflitto e violenza. Vari OLP possono testimoniare come
numerosi siano i volontari che si scontrano con l’ente, rappresentato dai suoi dirigenti come
dall’operatore locale di progetto, per i vincoli o le regole poco chiare, magari sentite come
oppressive; oppure i casi in cui gli operatori dell’ente entrano in conflitto aperto con giovani
volontari “incompetenti” o “disinteressati”. Senza considerare che i giovani si possono inserire in
progetti dove preesistono conflitti latenti o palesi propri dell’organizzazione, che vanno così a
minare lo spirito e l’efficacia del loro servizio civile.
La proposta allora può essere quella di rileggere la nonviolenza e la gestione non violenta dei
conflitti, recuperando i principi fondamentali e le strategie gandhiane e traducendoli in prassi
quotidiane a servizio dei gruppi di lavoro di giovani. L’approccio è rovesciato: non partiamo più da
motivazioni nonviolente (dei giovani, degli operatori), ma affrontando i conflitti quotidiani con
“stile nonviolento” operiamo un cambiamento strutturale (nei progetti, negli enti, nei servizi, nella
società). Giochi di ruolo ‘ad hoc’ sui temi della gestione e della risoluzione nonviolenta dei conflitti
ve ne sono parecchi e sono facilmente rintracciabili nei testi elencati in bibliografia.
Può essere questo un modo concreto di trasmettere ai ragazzi la connessione tra figure di spicco del
movimento nonviolento quali Gandhi o Aldo Capitini (tanto per citare anche esempi italiani) e il
loro gesto quotidiano di impegno in un progetto di servizio civile.
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Contributi audio e video
Gandhi e la non violenza: (min 5’13)
http://it.youtube.com/watch?v=nEZiTpEp1XY
I have a dream: Discorso di Martin Luther King a Washington (min.2’13)
http://it.youtube.com/watch?v=Y4AItMg70kg
Ragioni di coscienza: intervista a Pietro Pinna – I Parte (min. 1’35)
http://it.youtube.com/watch?v=qylX_fX5HK4&feature=related
Obiezione di coscienza: intervista a Pietro Pinna – II Parte (min. 0’55)
http://it.youtube.com/watch?v=g3A3R1lqYy8
Intervento di Alex Zanotelli a Bolzano (min.4’15)
http://it.youtube.com/watch?v=dnoH5_Qew0U&feature=related