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CAPITOLO 4 LA DIFESA CIVILE NON ARMATA E NONVIOLENTA di Stefano Scala Introduzione - obiettivi La normativa sul servizio civile richiama più volte la nonviolenza quale scelta per rendere efficace la difesa non armata del Paese, che è finalità prima del Servizio Civile Nazionale così come viene definito dalla legge n. 64/2001. Ma, a parte alcune esperienze all’estero configurabili come azioni di peacekeeping o similari, non è immediato cogliere, nei progetti in cui sono impiegati i volontari nei vari enti, come la nonviolenza possa essere un’espressione abituale dell’agire dei suoi attori, nella gestione dei conflitti che possano aprirsi nelle relazioni con l’altro così come nella gestione dei servizi alla comunità. Il presente modulo formativo intende descrivere le specificità della difesa civile e della difesa non armata e nonviolenta cercando di fare chiarezza sui termini e provando a trasferire alcune prassi di tali elementi nell’agire quotidiano dei volontari in SCN. Sintesi dei contenuti L’espressione “Difesa civile non armata e nonviolenta” è la formula con cui lo Stato Italiano assume per la prima volta la responsabilità di promuovere lo studio e la sperimentazione di forme di difesa civile, alternative a quella militare, affidandone il compito all’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, d’intesa con il Dipartimento per il coordinamento della protezione civile. Tale presa di coscienza avviene ancor prima dell’istituzione del Servizio Civile Nazionale, se ne parla nella legge n. 230 del 1998 che attua la riforma dell’Obiezione di Coscienza. Con la legge n. 64 del 2001 si arriverà alla formalizzazione giuridica del concetto di Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta (sintetizzata dall’acronimo DCNAN) allorché si definirà compiutamente il Servizio Civile Nazionale come “alternativa al servizio militare obbligatorio”, mirante “alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari”. Sotto questo profilo, la difesa civile non è più concepita come un aspetto marginale della difesa dello Stato di consuetudine affidata alle Forze armate e, in via secondaria e complementare rispetto alle strategie militari, a possibili forme di difesa non armata ma come una vera e propria alternativa alla difesa militare, svincolata da quest’ultima sia sul piano culturale sia su quello gerarchico. Narrazione agenda formativa Riferimenti costituzionali Punto di partenza di questo modulo è la constatazione dell’assenza, nella Costituzione Italiana, di qualsiasi riferimento alla “difesa civile”. Il nostro testo costituzionale si riferisce alla difesa in modo specifico nell’art. 52 allorché considera la “difesa della Patria” come un “sacro dovere del cittadino”. Nello spirito dei padri costituenti la difesa della Patria appare strettamente connessa alla difesa militare. Infatti, il primo comma dell’art. 52 Cost. sancisce il dovere di difesa e, di seguito, si fa riferimento al servizio militare obbligatorio e alla necessità di informare l’ordinamento delle Forze Armate “allo spirito democratico della Repubblica”. Una circostanza che consente di collocare l’origine del dovere costituzionale di difesa in organica connessione con la difesa militare ed armata.

La difesa civile non armata e non violenta

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Page 1: La difesa civile non armata e non violenta

CAPITOLO 4 – LA DIFESA CIVILE NON ARMATA E NONVIOLENTA

di Stefano Scala

Introduzione - obiettivi

La normativa sul servizio civile richiama più volte la nonviolenza quale scelta per rendere efficace

la difesa non armata del Paese, che è finalità prima del Servizio Civile Nazionale così come viene

definito dalla legge n. 64/2001. Ma, a parte alcune esperienze all’estero configurabili come azioni di

peacekeeping o similari, non è immediato cogliere, nei progetti in cui sono impiegati i volontari nei

vari enti, come la nonviolenza possa essere un’espressione abituale dell’agire dei suoi attori, nella

gestione dei conflitti che possano aprirsi nelle relazioni con l’altro così come nella gestione dei

servizi alla comunità.

Il presente modulo formativo intende descrivere le specificità della difesa civile e della difesa non

armata e nonviolenta cercando di fare chiarezza sui termini e provando a trasferire alcune prassi di

tali elementi nell’agire quotidiano dei volontari in SCN.

Sintesi dei contenuti

L’espressione “Difesa civile non armata e nonviolenta” è la formula con cui lo Stato Italiano

assume per la prima volta la responsabilità di promuovere lo studio e la sperimentazione di forme di

difesa civile, alternative a quella militare, affidandone il compito all’Ufficio Nazionale per il

Servizio Civile, d’intesa con il Dipartimento per il coordinamento della protezione civile. Tale presa

di coscienza avviene ancor prima dell’istituzione del Servizio Civile Nazionale, se ne parla nella

legge n. 230 del 1998 che attua la riforma dell’Obiezione di Coscienza.

Con la legge n. 64 del 2001 si arriverà alla formalizzazione giuridica del concetto di Difesa Civile

Non Armata e Nonviolenta (sintetizzata dall’acronimo DCNAN) allorché si definirà compiutamente

il Servizio Civile Nazionale come “alternativa al servizio militare obbligatorio”, mirante “alla difesa

della Patria con mezzi ed attività non militari”.

Sotto questo profilo, la difesa civile non è più concepita come un aspetto marginale della difesa

dello Stato – di consuetudine affidata alle Forze armate e, in via secondaria e complementare

rispetto alle strategie militari, a possibili forme di difesa non armata – ma come una vera e propria

alternativa alla difesa militare, svincolata da quest’ultima sia sul piano culturale sia su quello

gerarchico.

Narrazione – agenda formativa

Riferimenti costituzionali

Punto di partenza di questo modulo è la constatazione dell’assenza, nella Costituzione Italiana, di

qualsiasi riferimento alla “difesa civile”.

Il nostro testo costituzionale si riferisce alla difesa in modo specifico nell’art. 52 allorché considera

la “difesa della Patria” come un “sacro dovere del cittadino”. Nello spirito dei padri costituenti la

difesa della Patria appare strettamente connessa alla difesa militare.

Infatti, il primo comma dell’art. 52 Cost. sancisce il dovere di difesa e, di seguito, si fa riferimento

al servizio militare obbligatorio e alla necessità di informare l’ordinamento delle Forze Armate

“allo spirito democratico della Repubblica”. Una circostanza che consente di collocare l’origine del

dovere costituzionale di difesa in organica connessione con la difesa militare ed armata.

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Tale connotazione “militarista” del dovere di difesa, perfettamente comprensibile nei primi anni del

secondo dopoguerra quando viene redatto il testo costituzionale, viene rivista nel corso degli anni

ad opera non solo della legge ma anche della giurisprudenza e della dottrina costituzionale. Si

giunge così all’attuale rappresentazione, molto più ampia e complessa, che certamente continua a

riguardare la difesa militare, senza tuttavia escluderne altre di diversa natura.

Per ciò che interessa da vicino il nostro discorso, possiamo ricordare che sia la legge n. 230/1998

sia la legge n. 64/2001 dichiarano espressamente che il servizio civile “risponde al dovere di difesa”

e “concorre alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari”.

Queste formule legislative sono state considerate costituzionalmente legittime in più occasioni dalla

giurisprudenza della Corte Costituzionale (si noti la sentenza n. 53 del 1967 e la più significativa

sentenza n. 164 del 1985) che, in questo modo, ha contribuito ad estendere il concetto di difesa oltre

i contorni della sola difesa militare.

Oggi possiamo dunque affermare senza ombra di dubbio che quando la Costituzione fa riferimento

al “dovere di difesa” intende rapportarsi a molteplici forme di adempimento della stessa, sia in

senso militare ed armato sia sotto forma disarmata e non militare (perciò “civile”).

Obiettivi e metodi di difesa

Si offre di seguito uno schema della differenza di approccio, sviluppata in ambito militare e in

ambito civile, circa obiettivi e metodi di difesa.

Nella dottrina militare si considera che le possibili situazioni in cui coalizioni, Stati e gruppi

possono trovarsi in relazione di conflittualità siano essenzialmente tre:

pace: condizione delle relazioni tra gruppi, classi o Stati in assenza di violenza e di minaccia

di violenza reciproca

crisi: situazione in cui si manifestano con evidenza minacce o rischi, ovvero dove la

violenza viene esercitata in varie forme, sebbene in maniera contenuta. Qualora la crisi

riguardi direttamente uno Stato, le Forze destinate alla difesa devono essere in grado di

sostenere le decisioni dell’autorità politica con azioni adeguate alla situazione. Nel caso in

cui un paese si impegni nella soluzione di una crisi fra altri Stati o gruppi, tali Forze possono

essere chiamate ad intervenire a sostegno dell’attività politica e diplomatica nella condotta

di operazioni di risposta alle crisi (Crisis Response Operations – CRO)

guerra: situazione in cui lo scontro tra opposte volontà si manifesta con l’uso estensivo e

generalizzato della violenza. In funzione del grado di coinvolgimento delle risorse di una

Nazione, la guerra può essere distinta in guerra generale e guerra/conflitto regionale o

limitato.

Le operazioni militari di risposta alle crisi comprendono sia operazioni di sostegno alla pace (Peace

Support Operations – PSO) sia altri tipi di operazioni svolte in ambito nazionale o multinazionale; le

operazioni di risposta alle crisi includono l’uso di strumenti politici, diplomatici e militari secondo

quanto stabilito dalle leggi internazionali, al fine di prevenire o risolvere un conflitto. Oltre alle

forze militari, coinvolgono le autorità diplomatiche, le organizzazioni internazionali, la popolazione

civile, le organizzazioni governative, quelle non governative e quelle private. Esse sono condotte

con imparzialità in supporto ad un mandato stabilito da un’organizzazione internazionale (es. ONU,

OCSE, ecc.) e si propongono di raggiungere una stabilità politica a lungo termine o altre condizioni

specificate nel mandato.

Nella categoria delle operazioni di sostegno alla pace rientrano diverse operazioni, che nella

dottrina militare godono di specifiche definizioni:

operazioni di mantenimento della pace (peacekeeping): attività sviluppate a seguito di un

accordo di pace o di un cessate il fuoco che abbia realizzato un ambiente dove il livello del

consenso è alto mentre la minaccia di un’azione disgregativa è bassa. Hanno lo scopo di

monitorare e favorire l’implementazione dell’accordo stesso; le formazioni militari presenti

nell’azione devono possedere la capacità di utilizzare la forza anche se, normalmente, essa

verrà applicata solo per autodifesa;

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operazioni per l’imposizione della pace (peace enforcement): sono operazioni di natura

coercitiva condotte qualora non sia stato raggiunto il consenso di tutte le parti in causa o

quando esso sia incerto. Hanno lo scopo di mantenere o di ristabilire la pace ovvero di

imporre le condizioni specificate nel mandato;

operazioni per la prevenzione dei conflitti (conflict prevention): comprendono una vasta

gamma di attività, diplomatiche e/o militari, finalizzate ad individuare le possibili cause del

conflitto, monitorarne gli indicatori e assumere tutte le azioni opportune per impedirne

l’insorgere, l’intensificazione o la ripresa delle ostilità;

operazioni di edificazione della pace (peacemaking): riguardano un’ampio spettro di attività

diplomatiche e possono anche includere la minaccia dell’uso della forza. Sono condotte

dopo l’insorgere di un conflitto armato al fine di stabilire un cessate il fuoco o raggiungere

un sollecito accordo di pace;

operazioni per il consolidamento della pace (peacebuilding): sono condotte normalmente da

organizzazioni civili con il supporto militare, se richiesto; agiscono sulle cause alla base del

conflitto e, nel lungo periodo, sulle necessità della popolazione.

Nella dottrina civile non si seguono sempre le classificazioni utilizzate in ambiente militare.

Tuttavia, guardando alla diversificazione fra interventi straordinari ed interventi ordinari, si osserva

la necessità di intraprendere i primi solo a seguito di una specifica formazione che, in determinate

occasioni, comprende anche elementi di carattere militare. Mentre per gli interventi ordinari, che

riguardano anche attività di carattere preventivo rivolte sia ad impedire l’escalation di un conflitto

sia ad evitare l’insorgenza di emergenze ambientali, la formazione potrebbe escludere l’uso delle

Forze armate per riservare tali attività alle sole “forze civili”.

In sostanza, gli interventi resi in occasione di disastri naturali o di conflitti bellici in senso proprio

necessitano di un’attività propria anche delle Forze armate (che per legge agiscono nei casi in cui

sussistano “necessità ed urgenza”), mentre gli interventi resi in circostanze di prevenzione

dovrebbero escludere l’utilizzo della forza armata e della struttura militare.

In ambito internazionale le tesi civili connesse alla gestione dei conflitti privilegiano poi il dato

dialogico rispetto all’uso della forza armata, considerata una extrema ratio cui ricorrere solo dopo

aver esperito i tentativi predisposti dal diritto internazionale (sanzioni economiche, sanzioni

politiche, embargo, arbitrato, ecc.).

Le azioni attivate nel caso di un conflitto vengono peraltro distinte tra attività dissociative e attività

associative a seconda che abbiano per scopo la separazione dei contendenti oppure la ricostituzione

dei loro legami:

attività dissociative: rientrano in questo primo gruppo le operazioni di peacekeeping che, in

questo contesto, designano lo stanziamento di forze di interposizione (sia armate sia

disarmate) fra le forze che si combattono

attività associative: in questo ambito rientrano sia le azioni di peacemaking sia quelle di

peacebuilding. Nella dottrina civile, l’attività di peacemaking è simile a quella vista nella

dottrina militare: indica interventi di carattere associativo in cui la componente militare può

essere utilizzata come strumento di pressione per sostenere la conclusione di accordi fra le

parti in lotta. Si parla invece di peacebuilding per indicare i progetti di lungo periodo che

mirano a ricomporre le parti sociali di un conflitto al di fuori del superamento di una crisi

specifica ed anche nella logica della prevenzione dell’utilizzo della forza armata. Si

interviene qui sulle ragioni profonde del conflitto, tentando di eliminare le cause che

potrebbero condurre ad una sua escalation.

La difesa nazionale come insieme di difesa militare e difesa civile

Visto il discorso precedente, si può affermare senza dubbio che, in assenza di una specifica

disposizione normativa, la difesa nazionale si articola in difesa militare e difesa civile.

Page 4: La difesa civile non armata e non violenta

Occorre osservare che la difesa civile si svolge in ambiti anche molto diversi tra loro; questa

circostanza determina una frammentazione delle competenze amministrative che poco si adatta alla

ricostruzione dell’unitarietà di scopo e alla omogeneità delle tecniche adottate per la gestione delle

emergenze in cui la difesa civile è coinvolta. In ogni caso, il più importante organismo di difesa

civile per la gestione e prevenzione delle emergenze è certamente la Protezione Civile. In Italia essa

trae origine dalla legge n. 996/1970 che forma, per la prima volta nel nostro Paese, un corpo civile

destinato a praticare interventi tecnici straordinari per fronteggiare calamità naturali o catastrofi. Ma

questo e altri temi connessi verranno approfonditi nell’apposito capitolo dedicato in toto alla

Protezione Civile.

Circa la difesa civile e gli altri organismi ad essa preposti, possiamo osservare che alcune

competenze in materia riguardano il Ministero dell’Interno – cui sono formalmente attribuite le

funzioni di difesa civile, non a caso esiste un apposito dipartimento del Viminale denominato “Dei

vigili del fuoco, del soccorso alpino e della difesa civile” – altre appartengono alla Presidenza del

Consiglio che le esercita attraverso il Dipartimento della protezione civile nonché mantenendo una

funzione di raccordo e di indirizzo delle altre amministrazioni dello Stato. Va ricordato che anche il

Servizio Civile Nazionale è da annoverare tra le competenze della Presidenza del consiglio in

materia di difesa civile. Ma di questo si parlerà in maniera dettagliata più avanti.

La difesa militare e la difesa civile

Viste le diverse competenze attribuite a diversi organi dello Stato, si è cercato, negli anni, di

armonizzare le posizioni in materia di difesa civile attraverso una serie di Commissioni

interministeriali. La più importante è stata la Commissione Interministeriale Tecnica per la Difesa

Civile (CITDC). Essa ha svolto compiti di indirizzo, propulsione e coordinamento delle attività di

difesa civile, tanto che, in occasione di esercitazioni della NATO, la CITDC ha assunto il ruolo di

organo tecnico di supporto. Si tratta di attività che riguardano il civil emergency planning, ideato

dalla NATO nel 1991, e che tendono ad attribuire a risorse civili funzioni di supporto nelle

operazioni di peacekeeping.

Va inoltre segnalato che, nel quadro della costituzione della Difesa Comune Europea, sono state

assunte, a livello comunitario, iniziative che mirano a realizzare un sistema di difesa civile a

supporto di azioni di peacekeeping indipendenti da quanto realizzato finora in ambito NATO. In

questo contesto la difesa civile non concerne attività umanitarie, ossia di protezione civile in senso

proprio, poiché riguarda più direttamente l’inserimento della componente civile nella strategia di

carattere militare. L’operazione italiana “Alba” in Albania – così come quella successiva in Kosovo

– costituiscono un esempio paradigmatico di questo tipo di operazioni che postulano, accanto alla

componente militare, contributi di forze civili nelle aree della gestione amministrativa di enti locali,

della pubblica sicurezza, della giustizia, delle infrastrutture civili, dell’organizzazione di elezioni

generali e regionali, ecc.

La cooperazione con l’Albania è tuttora volta soprattutto alla elaborazione di un quadro normativo e

applicativo utile per la pianificazione delle attività di emergenza e per l’organizzazione delle

relative strutture. Simili attività sono il frutto dell’applicazione del concetto ampio di “approccio

alla sicurezza”. L’intervento “civile” italiano si giustifica infatti col fatto che, trattandosi di un paese

confinante, la capacità di fronteggiare autonomamente ed in modo efficace le emergenze interne,

anche solo civili, costituisce una diminuzione del rischio per la sicurezza italiana (si ragiona cioè in

termini di interesse nazionale e di reciprocità tra sicurezza interna ed internazionale).

Il servizio civile e la difesa civile

In un simile quadro, già consolidato, molto complesso, articolato e forse bisognoso di revisione,

armonizzazione e ristrutturazione, si inserisce la legge n. 230 del 1998. Come si è già detto, essa

disciplina l’obiezione di coscienza al servizio militare e, all’articolo 8, attribuisce all’Ufficio

Nazionale per il Servizio Civile il compito di “predisporre, d’intesa con il Dipartimento della

protezione civile, forme di ricerca e sperimentazione di difesa civile non armata e non violenta”.

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Relativamente al nostro discorso, possiamo notare come in questo caso l’espressione “difesa civile”

si connette immediatamente al carattere non armato e non violento di questo nuovo istituto. La

ragione è facilmente intuibile se si guarda al contesto in cui è situata la norma: la pratica del

servizio civile di leva, alternativo a quello militare e svolto da obiettori di coscienza; cosa che non

pare facilmente identificabile a priori né immediatamente rapportabile alle altre forme di difesa

civile conosciute nell’ordinamento italiano.

Il Servizio Civile costituisce senza dubbio una novità ordinamentale che, all’epoca della sua

istituzione, era considerato in modo originale e non in connessione con il variegato complesso delle

istituzioni di difesa civile. Esso mantiene un carattere “militare” allorché viene identificato come

“servizio civile di leva” ma – quando si considera che debba operare d’intesa con la protezione

civile – sembra evidente che venga inserito con un proprio apporto originale tra le forme di difesa

civile, caratterizzandosi per essere “non armato e non violento”.

I fondamenti culturali della DCNAN: la Difesa Popolare Nonviolenta

Ci troviamo così a parlare, in maniera più precisa di Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta,

concetto sintetizzato nell’acronimo DCNAN. Vari sono i fondamenti culturali di tale tipo di difesa,

primo fra tutti la Difesa Popolare Nonviolenta, o DPN.

L’idea classica è che, con l’acronimo DPN, si vada ad intendere un modello di difesa alternativo a

quello militare, strutturato dal basso ma sapientemente organizzato, che – da solo o in concorrenza

con una struttura armata – possa garantire una difesa efficace del territorio, delle persone che ci

vivono e delle sue istituzioni. Il termine usato in Italia non trova riscontro in altri paesi Europei che,

di volta in volta, hanno preferito usare locuzioni simili quali “difesa civile” (Sharp), “difesa civile

nonviolenta” (Muller), “difesa sociale” (Ebert). Esso fa riferimento a qualcosa di molto preciso che

si differenzia dai concetti similari, ma non del tutto coincidenti, di “resistenza passiva”, “resistenza

nonviolenta” o “disobbedienza civile”.

È vero, però, che il percorso teorico intorno al concetto di Dpn nasce proprio dall’esperienza non

violenta gandhiana e trova poi le prime applicazioni storiche nel mondo occidentale con la

resistenza al nazi-fascismo. Solo in seguito si svilupperà, in seno alle prime esperienze di peace

research italiana degli anni ’70, la locuzione “difesa popolare nonviolenta”. Gandhi definiva la sua

azione “autodifesa”, stando così a significare la rinuncia a qualsiasi tipo di aggressività o

competizione che non fosse giustificata dal sacro diritto/dovere alla difesa di sé e dei propri cari.

Queste forti motivazioni, che sono alla base di un’ampia mobilitazione di massa, sono state le stesse

che hanno attivato i movimenti di resistenza, armata e non armata, al nazi-fascismo. Diversamente

da quanto accade oggi, quando in presenza di guerre che l’Occidente combatte quasi esclusivamente

in territorio straniero, la “difesa” dei diritti umani e della democrazia appare un concetto non

sempre distinto dagli interessi di tipo economico o politico.

Ecco dunque che la prima condizione che si deve verificare affinché si possa parlare di DPN è che si

tratti inequivocabilmente di azioni di difesa. D’altra parte la forza di mobilitazione nei casi di

intervento all’estero è senz’altro minore e sempre più spesso i sistemi di reclutamento sono basati

su incentivi di tipo economico e/o a campagne di sensibilizzazione di tipo nazionalistico e retorico.

Questo contraddice con il secondo elemento fondamentale della DPN, ovvero il fatto che sia

popolare oltre che civile, nel senso che viene avvertita come un impegno condiviso da tutta la

popolazione. Questa è la diretta conseguenza del primo termine, la difesa: un evento così

drammaticamente importante che non può essere delegato ad una struttura esterna (tanto meno

privata come nel caso di eserciti di mercenari o “agenzie private di sicurezza”) ma deve essere

assunta dall’intera popolazione come impegno primario e fondamentale. Solo su queste basi

teoriche il risultato sarà una difesa “efficace” in quanto diffusa, radicata, ampia e completa (nel

senso che si basa su risorse di tipo diverso e sulla ricchezza di esperienze e di idee che una intera

popolazione può mettere in campo quando adeguatamente motivata).

Il terzo termine nonviolenta rimanda alla caratterizzazione etico-filosofica del termine. Esso sta ad

indicare da un lato le premesse “teoriche” dell’azione, le sue radici di pensiero e le motivazioni di

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fondo, dall’altro definisce in modo netto e distinto quello che all’interno di questa difesa è

contemplato e quello che non lo è. Ecco perché la scelta tra termini come “difesa civile” e “difesa

nonviolenta” è una scelta di campo assolutamente dirimente e rende necessario fare chiarezza tra i

termini. Se le categorie di fondo della nonviolenza sono il sacrificio di sé, la ricerca della verità, la

fede (in qualsiasi religione, ma comunque in una vita spirituale che va al di là della vita stessa del

genere umano) allora anche le azioni che ne conseguono possono differire notevolmente. L’unica

cosa che è simile in un’azione di difesa nonviolenta e in un’azione di difesa civile è il fatto che non

si usino le armi. Un’azione di difesa civile si può mettere in campo anche solo semplicemente

perché non si hanno armi a disposizione (come in molti casi di resistenza popolare al nazismo) o

perché le armi che si hanno a disposizione non sono efficaci contro quelle dell’invasore (come nel

caso della difesa dalle armi nucleari). Ma una difesa nonviolenta parte dal nesso ahimsa - amore per

la vita (e tutte le creature) > satyagraha - ricerca della verità > swaraj - lotta per l’autogoverno >

per cui le azioni poste in essere non possono che essere ispirate all’amore per il nemico, alla volontà

di con-vincere il nemico piuttosto che di annientarlo e all’essere dunque disposto a morire piuttosto

che a uccidere (da qui il carattere assolutamente intrinseco di nonviolenza).

L’idea attuale di DPN

Con la fine del bipolarismo e della guerra fredda il modello di difesa basato sulla deterrenza

nucleare è scomparso. Nel giro di pochi anni la prima guerra del golfo, la guerra nella ex-

Jugoslavia, i massacri in Ruanda, le crisi diffuse in molte aree del pianeta hanno cambiato la

strategia militare delle superpotenze. La caduta del muro di Berlino da un lato ha rotto il cosiddetto

“equilibrio del terrore” ma questa rottura non ha portato una nuova era di tolleranza e dialogo tra le

potenze, bensì una nuova era di “disordine mondiale” in cui sono apparsi all’orizzonte nuovi

armamenti (si pensi all’uranio impoverito), nuovi scenari di guerra (si pensi all’antrace e la guerra

batteriologica), o ipotesi futuribili (si pensi allo scudo spaziale). In questi dieci anni, insomma,

mentre il pacifismo era intento a riconsiderare le proprie posizioni e ad impegnarsi in scenari di

concreta solidarietà internazionale, come ad esempio il pacifismo italiano nei Balcani, le

superpotenze si sono trovate impreparate per la sfida del nuovo millennio: la guerra al terrorismo.

Dal crollo delle torri gemelle, il terrorismo internazionale è entrato a pieno titolo nei programmi e

nelle esercitazioni di difesa delle nazioni occidentali. In questo contesto, anche la Difesa Popolare

Nonviolenta deve essere rimodulata. I mutati scenari mondiali e di gestione dei conflitti

internazionali fanno sì che la Dpn comincia ad essere intesa non solo in senso stretto come

alternativa alla difesa classica ma, in senso lato, come nuovo paradigma per la trasformazione

nonviolenta dei conflitti, a livello micro e a livello macro.

Sulla base di questa considerazione è stata proposta una ridefinizione della DPN, articolata su cinque

diversi livelli di intervento:

1. lotte nonviolente di base (detta micro DPN o difesa sociale)

2. lotte di liberazione nonviolenta

3. la resistenza civile nonviolenta

4. la dissuasione nonviolenta

5. l’intervento e l’interposizione in caso di conflitto: i cosiddetti “corpi civili di pace”.

La Difesa civile non armata nonviolenta e il SCN

Alla luce della legge n. 64/2001 si osserva che il nuovo Servizio Civile Nazionale si presenta come

un fenomeno sociale consolidato in modo indipendente dai riferimenti alla DPN e alle strutture

tradizionali di difesa dello Stato. Esso ha propri punti di riferimento e propri principi di base, non

esattamente coincidenti con quelli posti a fondamento della Difesa popolare nonviolenta.

Non vi è dubbio, infatti, che – mentre l’obiezione di coscienza si fondasse, oltre che sull’art. 52

Cost. anche e soprattutto sull’art. 11 Cost. – oggi il riferimento all’art. 52 Cost. e al “dovere di

difesa della Patria” resta assodato, mentre pare affievolirsi la caratterizzazione del SCN quale

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strumento di pace attraverso il ripudio della guerra, ragion per cui l’art. 11 Cost. appare sempre

meno connesso alla nuova situazione dei giovani volontari.

Il Servizio Civile Nazionale mantiene una propria specificità in funzione della costruzione della

giustizia sociale e dell’uguaglianza sostanziale, fattori di pace e quindi forme di concretizzazione

del ripudio della guerra. Queste funzioni riguardano sia specifici progetti di SCN sia la mission dei

vari enti di servizio civile i quali, accreditandosi al sistema servizio civile e sottoscrivendo la carta

di impegno etico, rendono esplicita la propria vocazione di promozione della cultura della pace

quale espressione basilare del superamento della violenza e della prevenzione della guerra.

Secondo questa impostazione, il dovere di difesa della Patria può essere letto in senso più ampio di

quanto non sia stato fatto finora, identificandolo con la difesa dei valori della Costituzione della

Repubblica Italiana. Del resto, il SCN, non più formalmente collegato all’obiezione di coscienza al

servizio militare, risponde all’adempimento dell’inderogabile dovere di solidarietà così come

proposto nell’art. 2 Cost. e segnalato dalla sentenza n. 228 del 2004 della Corte Costituzionale.

Il Servizio Civile Nazionale, secondo i dettami dalla legge n. 64/2001 costituisce senza dubbio una

forma istituzionale di difesa civile e, al contempo, rappresenta l’ambito prioritario di applicazione

della Difesa Civile non armata e non violenta.

In primo luogo nella sua dimensione estera, soprattutto quando si concretizza in azioni coincidenti

con le forme già intese della DPN, ma certamente anche nella sua articolazione sul piano interno.

Criticità e soluzioni

Una evidente criticità di questo modulo è la sua estrema complessità, cosa che viene confermata

ogni anno nelle ore di formazione con i ragazzi. Per rendere il tema più affascinante e coinvolgente

trovo sia fondamentale partire da contributi audio quali le parole di Gandhi o di Martin Luther

King, due grandi esempi di non violenza cui tutti hanno almeno sentito parlare. Da lì si può

impostare il discorso, monitorando sempre il livello di attenzione dell’aula e cercando di sollecitarlo

attraverso specifici momenti di brainstorming sulle parole chiave del modulo, magari complicando

di volta in volta il significato di ciò cui si vuole arrivare a discutere. Si potrà allora prima di tutto

affrontare il tema “difesa” per poi dibattere di “difesa civile”, quindi di “difesa non armata e non

violenta” evidenziando connessioni e differenze tra i vari termini.

Personalmente, non faccio mai mancare una slide iniziale che accoglie i corsisti al loro ingresso in

aula. Sedendosi ai loro posti e guardando il lo schermo essi si trovano di fronte le parole di Gandhi:

“Per quanto piccola una nazione o anche un gruppo possa essere, una volta che abbia raggiunto

una precisa determinazione, ed anche una unitaria volontà e fermezza, non è meno capace di un

individuo di difendere il proprio onore e la propria dignità contro un intero mondo in armi. In ciò

consiste la forza ineguagliabile e la bellezza dei disarmati. Tale nonviolenza non conosce né

accetta sconfitte in alcuno stadio. Perciò, nemmeno la bomba atomica potrebbe assoggettare in

schiavitù una nazione o un gruppo che abbia fatto della nonviolenza la propria politica definitiva”.

(Mohandas Karamchand Gandhi)

Così si comincia ad entrare in argomento prima ancora che il docente abbia preso la parola.

Circa i contenuti specifici del modulo, sarebbe opportuna una riflessione sul senso del Servizio

Civile Nazionale come espressione della Difesa Popolare Nonviolenta e/o come potenziale

espressione della Difesa Civile non armata e nonviolenta. E’ molto scarsa, anche nel bagaglio

culturale di OLP e formatori, la consapevolezza di tale dimensione del SCN.

In altri termini, appare oggi molto complicato trasferire nella coscienza comune l’idea del servizio

civile come forma di adempimento del dovere di difesa della Patria e resta aperta la sfida circa la

costruzione di un servizio civile che sia effettivamente uno strumento di difesa civile non armata e

nonviolenta. In questo senso, occorre dare maggiore spazio agli elementi di formazione che non

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solo parlino in senso generale di metodi di risoluzione dei conflitti ma provino a far entrare tali

elementi nel vissuto quotidiano dei corsisti.

Guardando la realtà degli enti di servizio civile, accade spesso, infatti, che i progetti d’impiego del

servizio civile, come qualsiasi altro contesto organizzativo, possono essere terreno di disagio,

incomprensione, rivalità e quindi conflitto e violenza. Vari OLP possono testimoniare come

numerosi siano i volontari che si scontrano con l’ente, rappresentato dai suoi dirigenti come

dall’operatore locale di progetto, per i vincoli o le regole poco chiare, magari sentite come

oppressive; oppure i casi in cui gli operatori dell’ente entrano in conflitto aperto con giovani

volontari “incompetenti” o “disinteressati”. Senza considerare che i giovani si possono inserire in

progetti dove preesistono conflitti latenti o palesi propri dell’organizzazione, che vanno così a

minare lo spirito e l’efficacia del loro servizio civile.

La proposta allora può essere quella di rileggere la nonviolenza e la gestione non violenta dei

conflitti, recuperando i principi fondamentali e le strategie gandhiane e traducendoli in prassi

quotidiane a servizio dei gruppi di lavoro di giovani. L’approccio è rovesciato: non partiamo più da

motivazioni nonviolente (dei giovani, degli operatori), ma affrontando i conflitti quotidiani con

“stile nonviolento” operiamo un cambiamento strutturale (nei progetti, negli enti, nei servizi, nella

società). Giochi di ruolo ‘ad hoc’ sui temi della gestione e della risoluzione nonviolenta dei conflitti

ve ne sono parecchi e sono facilmente rintracciabili nei testi elencati in bibliografia.

Può essere questo un modo concreto di trasmettere ai ragazzi la connessione tra figure di spicco del

movimento nonviolento quali Gandhi o Aldo Capitini (tanto per citare anche esempi italiani) e il

loro gesto quotidiano di impegno in un progetto di servizio civile.

Bibliografia

Teorie della nonviolenza e gestione dei conflitti

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Difesa civile e Difesa Popolare Nonviolenta

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Giannini G. (a cura di); L’opposizione popolare al fascismo (Atti del convegno del 27 ottobre

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Stefani, G. (a cura di); La difesa popolare nonviolenta in Italia e nelle crisi internazionali (Atti del

convegno di Bologna Novembre 1991), Thema editore, Bologna, 1992

Contributi audio e video

Gandhi e la non violenza: (min 5’13)

http://it.youtube.com/watch?v=nEZiTpEp1XY

I have a dream: Discorso di Martin Luther King a Washington (min.2’13)

http://it.youtube.com/watch?v=Y4AItMg70kg

Ragioni di coscienza: intervista a Pietro Pinna – I Parte (min. 1’35)

http://it.youtube.com/watch?v=qylX_fX5HK4&feature=related

Obiezione di coscienza: intervista a Pietro Pinna – II Parte (min. 0’55)

http://it.youtube.com/watch?v=g3A3R1lqYy8

Intervento di Alex Zanotelli a Bolzano (min.4’15)

http://it.youtube.com/watch?v=dnoH5_Qew0U&feature=related