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61-62 NUOVA SERIE · ANNO XXXII · GENNAIO-DICEMBRE 2011 FABRIZIO SERRA EDITORE PISA · ROMA STUDI DI TEORIA E STORIA DELLA LETTERATURA E DELLA CRITICA IL CENTRO E IL CERCHIO. CONVEGNO DANTESCO brescia, università cattolica, 30-31 ottobre 2009 a cura di cristina cappelletti

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61-62NUOVA SERIE · ANNO XXXII · GENNAIO-DICEMBRE 2011

FABRIZIO SERRA EDITOREPISA · ROMA

STUDI DI TEORIA E STORIA DELLA LETTERATURA E DELLA CRITICA

IL CENTRO E IL CERCHIO.CONVEGNO DANTESCO

brescia, università cattolica,30 -31 ottobre 2009

a cur a di cr istina cappelletti

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Numero monografico pubblicato con il contributo di :Fondazione Cattolica Assicurazioni e Università Cattolica sede di Brescia

Autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 10 del 10/05/2002Direttore responsabile: Enzo Noè Girardi

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Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo eVettuati, compresi la copia fotostatica, il mi-croWlm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della

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SOMMAR IO

Programma del convegno 9Carlo Annoni, Attualità di Dante 11Nota del curatore 13Edizioni di riferimento e abbreviazioni 15

Luigi Franco Pizzolato, Presenza e assenza di Agostino in Dante 17Carlo Paolazzi, Francesco e i frati minori nella Commedia 35Uberto Motta, La poesia di Dante. Da Croce a Contini 45Andrea Canova, Il testo della Commedia dopo l’edizione Petrocchi 65Rosaria Antonioli, Un poema intitolato Commedia : Dante nell’epoca di Tasso 79Cristina Cappelletti, Della prima e principale allegoria del poema di Dante. Interpretazioni sette-ottocentesche di Inferno i 93Andrea Battistini, La retorica della salvezza 105Pierantonio Frare, La retorica del nome e del numero : Purgatorio xi 123Edoardo Fumagalli, La retorica dell’ingegno : tra falsi profeti e profeti veri 145Paolo Gresti, Dante e i trovatori : qualche riflessione 175Aldo Menichetti, Bonagiunta e lo stilnovo 191Luca Carlo Rossi, Un bilancio sugli antichi commenti alla Commedia (1965- 2008) 201Luca Azzetta, Il Convivio e i suoi più antichi lettori 225Gian Paolo Marchi, « Equis armisque vacantem ». Postille interpretative a un passo dell’epistola di Dante a Oberto e Guido da Romena 239Giorgio Simonelli, « Questo tuo grido farà come vento ». Le trasposizioni di Dante dal cinema muto alla televisione di Roberto Benigni 253Marco Corradini, Marino e Dante 263Massimo Castoldi, Un episodio del dantismo pascoliano : le Canzoni di re Enzio 289Carla Riccardi, Ripensando il dantismo della Bufera : la Commedia come teoria della letteratura. Con una corrispondenza inedita Pound-Montale 295Paolo Corsini, Il carcere di Farinata, la prigione di Gramsci 311

Indice dei nomi 327

Giancarlo Pontiggia, Libri di poesia 341

schedario manzoniano internazionale

Edizioni 349Riscritture 353Studi 356

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6 sommario

Libri ricevuti 401

Riviste ricevute 403

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DANTE E I TROVATORI : QUALCHE RIFLESSIONE*

Paolo Gresti

The essay points out the main stages in Dante’s speculation about the Occitan Troubadours, specifi-cally focusing on the Commedia. Arnaut Daniel is the only troubadour to appear as a troubadour, while Bertran de Born, Sordel and Folquet de Marselha find their place in Dante’s Commedia according to their moral personality – both in the positive or negative sense. Actually, their poeti-cal activity may have influenced Dante’s choice. The unnamed troubadour, i.e. quel de Lemosì, is almost certainly Giraut de Bornelh… or might he be Bernart de Ventadorn ?

Il rapporto tra Dante e i trovatori è probabilmente tra gli aspetti più studiati dell’opera del grande fiorentino ; è, per usare una metafora corrente, un campo

profondamente arato e attentamente concimato, dal quale potranno forse nasce-re nuovi germogli interpretativi : il mio intervento, però, vuole essere una sempli-ce riflessione sull’argomento, senza alcuna pretesa di esaustività, né di novità.

1. Per un intellettuale dell’epoca di Dante era normale conoscere e frequentare le letterature galloromanze nelle lingue originali, e non c’è dubbio che gli scrittori in lingua di sì del xiii e del xiv secolo sapessero destreggiarsi – pur se con grada-zioni diverse, a seconda delle capacità e dell’interesse – tra le letterature in lingua d’oc e in lingua d’oïl : Brunetto Latini, Marco Polo, Martin da Canal, i trovatori ita-liani (Rambertino Buvalelli, Sordello, Bonifacio Calvo, Bartolomè Zorzi, per non citarne che alcuni), il trattatista Terramagnino da Pisa, l’anonimo autore dell’En-trée d’Espagne, sono solo alcuni esempi, le punte più appariscenti di un iceberg di proporzioni sicuramente assai vaste.

Venendo a Dante, la conoscenza da parte sua delle lingue e delle letterature gal-loromanze è forse un postulato che non necessita di alcuna dimostrazione : e co-munque la Vita nova, il De vulgari eloquentia, il Convivio, la canzone in lingua trina, il canto xxvi del Purgatorio, il Fiore e il Detto d’amore (se sono opere sue) sono testi-monianze più che sufficienti. Per quanto riguarda la Vita nova, per esempio, è an-tica l’individuazione della fonte strutturale dei commenti in prosa ai testi poetici nelle razos trobadoriche. 1 Ma d’altra parte, sappiamo dal Convivio che cosa Dante pensasse (almeno all’altezza del trattato) degli scrittori italiani che si servivano di lingue straniere (soprattutto I.xi : « li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano »). A noi qui interessa, nello specifico, il rapporto tra Dante e i trovatori. Non sappiamo di quali e di quanti trovatori egli conoscesse le opere, non sappiamo quali manoscritti avesse tra le mani : è comun-que un errore di prospettiva ridurre la percezione dantesca della lirica trobadorica

* Ho mantenuto nello scritto il tono discorsivo della relazione orale.1 Si veda Pio Rajna, Lo schema della Vita nuova, « Biblioteca delle scuole italiane », n. 11, 1890, pp.

161-164 e Vincenzo Crescini, Le razos provenzali e le prose della Vita nuova, « Giornale storico della letteratura italiana », n. 32, 1898, p. 463 sgg.

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ai pochi autori, ai pochi testi ch’egli cita esplicitamente nelle proprie opere, in par-ticolare nel De vulgari eloquentia e nella Commedia. 1 È ben vero che l’idea che Dan-te ha della storia della lirica trobadorica sembra piuttosto vaga in assoluto, benché abbastanza precisa nello specifico : il più antico trovatore che Dante cita nel suo trattato linguistico è Peire d’Alvernhe (e peraltro ne cita solo il nome), e dunque la cronologia ch’egli precisa nella Vita nova (cfr. 25, 4 ; 16, 4 dell’edizione Gorni : « se volemo cercare in lingua d’oco e in quella di sì, noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni ») non si discosta di molto da quella – è vero, approssimativa – che noi conosciamo proprio del trovatore alverniate.

I cosiddetti trovatori di Dante sono, dunque : Peire d’Alvernhe (DVE I.x, 2 : « ut puta Petrus de Alvernia et alii antiquiores doctores », dove antiquiores non ha neces-sariamente valore di comparativo ; si rammenti che nella vida Peire è « lo premiers bon trobaire que fo outramon »), Bertran de Born, Arnaut Daniel, Giraut de Bor-nelh, Folquet de Marselha, Aimeric de Belenoi, Aimeric de Peguilhan, Sordello (ne cita solo il nome). Anche un semplice studente che abbia seguito un solo cor-so sui trovatori noterebbe subito delle « lacune vistose d’informazione », 2 perché Dante non cita mai trovatori che per noi sono saldamente in cima alla classifica dei migliori esponenti della lirica in lingua d’oc : Guglielmo ix, Jaufre Rudel, Mar-cabru, Bernart de Ventadorn, Peire Vidal, Raimbaut d’Aurenga. Perché costoro non vengono mai menzionati ? È una domanda alla quale io non so trovare che una risposta banale e insoddisfacente : perché le opere di questi autori non in-teressavano Dante in relazione a ciò ch’egli voleva dire, perché – forse – non li tro-vava abbastanza rappresentativi ; 3 non credo si possa rispondere, invece, ‘perché non li conosceva’ : mi pare difficile che il canzoniere trobadorico che Dante ebbe senz’altro per le mani non contemplasse le opere dei trovatori negletti dal grande poeta, sia che si sostenga che tale esemplare dovesse essere un codice affine a P o comunque a un rappresentante della cosiddetta terza tradizione, 4 sia che si pensi che dovesse essere un codice affine a adik. E credo che non si debba affatto esclu-dere, anzi, che Dante abbia avuto a disposizione più d’una raccolta di liriche in lingua d’oc, se si pensa ch’egli ha vagato in esilio soprattutto nelle corti del Nord, in ambienti, cioè, particolarmente ricettivi, come sappiamo, nei confronti della poesia proveniente dal Midi della Francia. Purtroppo non sappiamo di più, nono-stante Arthur Pakscher abbia creduto, nel 1886, di riconoscere la mano di Dante

1 Il problema della biblioteca di Dante è ancora completamente aperto : il più recente interven-to in proposito è probabilmente l’articolo di Luciano Gargan, Per la biblioteca di Dante, « Gior-nale storico della letteratura italiana », n. 186, 2009, pp. 161-193, che però si occupa in pratica della sola biblioteca latina.

2 Gianfranco Folena, Dante e i trovatori, ora in Idem, Textus testis. Lingua e cultura poetica delle origini, Torino, Bollati-Boringhieri, 2002, pp. 229-240 : 232 (il saggio è del 1961).

3 Si veda per esempio quanto scrive Pietro G. Beltrami, Arnaut Daniel e “la bella scola” dei trovatori di Dante, in Le culture di Dante. Studi in onore di Robert Hollander, Atti del quarto Seminario dantesco internazionale (University of Notre Dame, Indiana, 25-27 settembre 2003), a cura di Mi-chelangelo Picone, Theodore J. Cachey Jr, Margherita Mesirca, Firenze, Cesati, 2004, pp. 29-59 : 47.

4 Ammesso che tale tradizione esista : cfr. Luca Barbieri, Tertium non datur ? Alcune riflessioni sulla « terza tradizione » manoscritta della lirica trobadorica, « Studi Medievali », s. iii, n. 47, 2006, pp. 497-548.

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in alcune postille sui margini del manoscritto provenzale H, il Vaticano Latino 3207 : dubbi subito fugati, peraltro, da Cesare De Lollis. 1 Mi pare dunque riduttivo dire che Dante non prende in considerazione i trovatori più antichi, quelli delle generazioni anteriori a Peire d’Alvernhe, perché non li conosceva ; 2 Dante non nomina nemmeno la famosa sestina di Arnaut Daniel (del quale pure cita, nel De vulgari eloquentia, ben tre canzoni), eppure credo che nessuno possa pensare che non la conoscesse. Dante cita Arnaut nel DVE II.x, 2, dove parla delle stanze di canzone senza ripetizione di alcuna frase musicale e senza diesis : di questo tipo di stanza, dice Dante, « usus est fere in omnibus cantionibus suis » proprio Arnaut ; e aggiunge : « et nos eum secuti sumus cum diximus Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra ». Ancora, a II.xiii, 2 Dante parla delle stanze sine rithimo e cita Arnaut, Si.m fos Amors de ioi donar, e ancora la sua Al poco giorno.

D’altra parte si continua a ripetere, ormai da decenni, che Dante doveva cono-scere la poesia italiana a lui precedente e contemporanea grazie a un manoscritto probabilmente assai prossimo al Vaticano Latino 3793 : che è testimone per noi unico di autori del calibro di Chiaro Davanzati e di Monte Andrea, per i quali, co-me per Marcabru e compagni, il silenzio dantesco è totale : « come credere […] che [Dante] non conoscesse né Monte Andrea né Chiaro Davanzati (nessuno infatti lo crede) ? ». 3 Le scelte di Dante sono sempre chiaramente selettive, 4 non percorrono una linea retta : Dante segue sempre una sua idea, e dunque trasceglie gli autori e le opere che gli interessano in quel momento, senza badare ad altro. E non dimenti-chiamo – informazione tanto ovvia che si rischia di non darle il giusto peso – che del De vulgari eloquentia ci sono rimasti solo due libri : quali altri autori, quali altri testi in lingua d’oco avrebbe allegato Dante nelle parti mai scritte ? Nel trattato latino il poeta usa un metro di giudizio stilistico più che ideologico, storico, non metastorico o tipologico, come invece nella Commedia : i veri poeti sono contrap-posti ai falsi poeti. 5

1. 1. Su Bernart de Ventadorn conviene forse soffermarsi un poco di più. Lasciamo da parte l’ipotetico ritorno della lauzeta bernardiana in Par. xx, 73-75 (« Quale al-lodoletta che ’n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de l’ultima dolcezza che la sazia »). 6 Seguendo Luciano Formisano prendiamo invece in con-siderazione il passo del capitolo viii del libro vi della Rethorica antiqua di Boncom-pagno da Signa, nota anche con il titolo di Boncompagnus, nel quale si discorre di un modello di lettera De remuneracionibus ioculatorum. « La lettera si riferisce all’in-

1 Si veda Arthur Pakscher, Randglossen von Dantes Hand ?, « Zeitschrift für romanische Philo-logie », n. 10, 1886, pp. 447-459 con Cesare De Lollis, Postille autografe di Dante, « Giornale storico della letteratura italiana », n. 9, 1887, pp. 238-248.

2 Come scrive Pier Vincenzo Mengaldo nella voce Oc dell’ED.3 Pietro G. Beltrami, Arnaut Daniel e la “bella scola”, cit., p. 47.4 Cfr. anche Gianfranco Folena, Dante e i trovatori, cit., p. 233.5 Cfr. Michelangelo Picone, Canto xxvi, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di Georges Gün-

tert, Michelangelo Picone, Firenze, Cesati, 2000-2002, vol. ii, pp. 407-422 : 417.6 Ritorno che viene definito « suggestivo, ma […] poco probante », da Gianfranco Folena,

Dante e i trovatori, cit., p. 232, n. 7.

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ventor cancionum, ossia al tipo sociale del trovatore professionista, che agli occhi di Boncompagno appare incarnato da Bernart de Ventadorn » : 1Quanti nominis quanteve fame sit Bernardus Eventator, et quam gloriosas fecerit cancio-nes et dulcisonas invenerit melodias, multe orbis provincie recognoscunt. Ipsum ergo ma-gnificentie vestre duximus conmendandum, liberalitatem vestram rogantes attentius ut eum ob nostre amicitie interventum honorabilius remunerare velitis, scientes nobis fuisse gratum plurimum et acceptum quod vestre militie atque nuptiis voluit interesse. 2

Il giudizio critico positivo su Bernart de Ventadorn è evidente, e per Formisano è ovvia anche la scelta fatta da Boncompagno di citare proprio quel trovatore : il trattatista si sarebbe « fondato sulla fama universale dell’autore », di colui che vie-ne definito « caposcuola dei “lirici puri” », il più illustre rappresentante, cioè, della « linea poetica vincente tanto in Francia e nella penisola iberica, quanto in Italia ». 3 A me pare, invece, che la presenza, qui, di Bernart de Ventadorn non sia così scon-tata ; lo stesso Formisano è costretto a osservare quanto « gli echi italiani del capo-scuola siano […] scarsi », e riferibili più ai toscani che ai siciliani ; all’altezza della Rethorica antiqua (recitata a Bologna nel 1215, e poi, in una seconda redazione, a Padova nel 1226) nulla lascia trapelare la grandezza poetica di Bernart, se non, beninteso, la sua stessa poesia : voglio dire che non c’è alcuna indicazione extrate-stuale che segnali Bernart come caposcuola (a differenza di ciò che càpita con Gi-raut de Bornelh, come vedremo). È assai verosimile che Dante conoscesse l’opera di Boncompagno, anche senza contare la presenza del poeta a Bologna pochi de-cenni dopo la morte dell’illustre maestro, e pare difficile che l’eco della grandezza bernardiana esaltata dal trattatista non sia giunta alle orecchie, o agli occhi, di Dante. Ma forse bisogna pensar male del poeta della Commedia. Nell’introduzione all’ottima edizione dei sonetti amorosi di Guittone (posti sotto l’etichetta, per me non del tutto accettabile, di Canzoniere) Lino Leonardi sottolinea, con puntuali riscontri, i debiti contratti dal poeta di Arezzo nei confronti di Bernart de Venta-dorn, che sarebbe per Guittone « il principale punto di riferimento – in positivo e in negativo – della tradizione lirica d’amore dietro il Notaio ». 4 Se questo è vero – ma si potrà essere certi solo dopo uno spoglio sistematico e una cernita rigorosa dei materiali raccolti –, l’assenza di Bernart nell’orizzonte dantesco potrebbe ave-re origine proprio nell’appropriazione del trovatore da parte dell’odiato Guitto-ne : del quale, lo vedremo (ed è cosa più che nota), Dante si servirà per seppellire il da lui stesso pluridecorato Giraut de Bornelh. Ma ci torneremo.

2. Qui mi contenterò in qualche modo del quia, concentrandomi in particolare sulla Commedia. Nel suo viaggio nell’aldilà Dante incontra quattro trovatori (e ne cita cinque) : uno nell’Inferno (Bertran de Born), due nel Purgatorio (Sordello e

1 Luciano Formisano, Aspetti della cultura letteraria a Bologna al tempo di Federico II, in Federico II e Bologna, Bologna, Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna, 1996, pp. 107-138 : p. 115.

2 Cfr. anche Le Origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani, a cura di Antonio Viscardi, Bruno e Tilde Nardi, Giuseppe Vidossi, Felice Arese, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, p. 756.

3 Luciano Formisano, Aspetti della cultura letteraria a Bologna al tempo di Federico II, cit., p. 115.4 Guittone d’Arezzo, Canzoniere. I sonetti amorosi del codice laurenziano, a cura di Lino Leo-

nardi, Torino, Einaudi, 1994, p. xlv.

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Arnaut Daniel), uno nel Paradiso (Folquet de Marselha). È noto a tutti che il più importante di questi trovatori – il più importante in quanto trovatore – è Arnaut, che è presentato a Dante dal padre di tutti coloro che « mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre », cioè Guido Guinizzelli. Siamo al canto xxvi del Purgatorio ; i versi che introducono sulla scena il trovatore sono forse troppo famosi perché li si debba ricordare, ma sono anche troppo importanti perché non li si ripeta :

« O frate, » disse « questi ch’io ti cernocol dito », e additò uno spirto innanzi,« fu miglior fabbro del parlar materno. Versi d’amore e prose di romanzisoverchiò tutti ; e lascia dir gli stoltiche quel di Lemosì credon ch’avanzi. A voce più ch’al ver drizzan li volti,e così ferman sua oppinïoneprima ch’arte o ragion per lor s’ascolti ».

(vv. 115-123) 1

In verità in questi versi aleggia un fantasma, appunto il quinto trovatore del poe-ma : quel de Lemosì altri non sarebbe se non Giraut de Bornelh, il maestre dels troba-dors, come recita l’antica vida, già lodato da Dante nel De vulgari eloquentia (I.ix, 3 ; II.ii, 8) come maestro della rectitudo (o meglio, della poesia della rectitudo). Conti-ni si chiedeva : « Perché Dante limita Giraut ? Perché è un bon à tout faire disponibile per ogni bisogna di ordine poetico, svolazzando fra trobar leu ed ermetismo, e per dir tutto un po’ cinico ? ». 2

3. Ma occorre procedere con ordine ; ritorniamo all’Inferno, nella nona bolgia dell’ottavo cerchio, dove si puniscono i seminatori di discordia : il canto che ci in-teressa è il xxviii. Dante inventa una delle immagini più memorabili dell’intera Commedia :

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,un busto sanza capo andar sì comeandavan li altri della trista greggia ; e ’l capo tronco tenea per le chiome,pesol con mano a guisa di lanterna :e quel mirava noi e dicea : « Oh me ! ». Di sé facea a sé stesso lucerna,ed eran due in uno e uno in due ;com’esser può, quei sa che sì governa.

(vv. 118-126)

1 Per quanto riguarda l’espressione prose di romanzi, Michelangelo Picone pensa che possa trat-tarsi di un’allusione alle vidas e alle razos, che in alcuni manoscritti accompagnano le liriche tro-badoriche ; anzi, « in tale alternanza di prose e poesie di alcune Liederbücher provenzali è stato addi-tato il modello più immediato e probabile per il prosimetrum dantesco. Dante verrebbe a dire che nelle prose esegetiche arnaldiane […] troviamo la conferma razionale della sua superiorità poeti-ca » : cfr. Michelangelo Picone, Vita nuova e tradizione romanza, Padova, Liviana, 1979, pp. 35-36.

2 Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, in Idem, Un’idea di Dan-te, Torino, Einaudi, 1976, pp. 33-62 : 57-58. Su un’altra interpretazione di quel de Lemosì si veda avanti.

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Rivolgendosi a Dante che lo guarda da sopra il ponte, l’anima rivela la propria identità :

« E perché tu di me novella portisappi ch’i’ son Bertram del Bornio, quelliche diedi al re giovane i ma’ conforti. »

(vv. 133-135)

A Dante non importa qui l’attività poetica di Bertran, egli dà piuttosto credito alle voci – messe per iscritto anche nell’antica vida – che volevano il trovatore, piccolo feudatario del Périgord, invischiato attivamente nella lotta tra Enrico ii d’Inghil-terra e i figli, in particolare Enrico, appunto il re giovane. Sappiamo bene che Dan-te conosceva l’attività poetica di Bertran : oltre alle citazioni nel De vulgari eloquen-tia, è stato osservato che l’intero canto xxviii dell’Inferno è intessuto con ricordi bertrandiani (i vv. 7-21 del canto, per esempio, ricordano l’inizio della canzone Si tuit li dol, uno dei due planhs che Bertran scrisse proprio per la morte di Enrico). La stessa espressione re giovane si trova in Bertran (reis joves). Questo canto « si svi-luppa dall’evocazione orripilata di stragi e di sanguinose battaglie […] giungendo ad un crescendo di orrori sempre più sconvolgenti, evocati, proprio come assai spesso in Bertran, tramite la percezione visiva e facendo sistematicamente ricorso a termini e formule tipiche del trovatore » : 1 gli incalzanti versi di Dante, così pieni di angoscia, rovesciano la poetica della guerra gioiosa tanto cara a Bertran (« Patz no.m fai conort, / ab guerra m’acort, / qu’ieu no tenh ni crei / negun’autra lei » : sirventese Ges de far sirventes no.m tartz, vv. 21-24 ; « Bela m’es […] / lanzas frassar, escutz traucar, e fendre / elmes brunitz, e colps donar e prendre » : sirventese Ar vei la coindeta sazon, vv. 21-23). La continua presenza del sottotesto bertrandiano sottolinea una condanna morale, ma forse – nella sottile ottica dantesca – anche artistica, dell’opera del trovatore.

Nel De vulgari eloquentia Bertran de Born è celebrato quale massimo esponente della armorum probitas, uno dei tre grandi argomenti della lirica volgare (a II, 2 viene citato il sirventese Non posc mudar c’un cantar non esparja) ; nel Convivio il tro-vatore è un esempio di liberalità accanto ad altri grandissimi signori (IV.xi, 14). Ma nella Commedia la prospettiva di Dante cambia, come sappiamo, e condannando il trovatore Dante mette in discussione la stessa figura del cavaliere-guerriero. « At-traverso Bertran de Born e la poesia ‘alla maniera’ di Bertran Dante fa i conti con una certa cultura cavalleresca e coi modelli che essa esprime, contestando […] gli ideali e i valori che guidano i comportamenti. È questo che, con Bertran, viene condannato in maniera esemplare ». 2

4. Il secondo trovatore della Commedia è Sordello, il più importante e fecondo poeta italiano in lingua d’oc, originario di Goito, presso Mantova ; Dante lo incon-tra nell’antipurgatorio (canto vi). Sordello è un poeta d’amore, ma anche, e qui soprattutto, un poeta politico : nella valletta dei principi soggiornano alcuni dei

1 Stefano Asperti, Dante, i trovatori, la poesia, in Le culture di Dante. Studi in onore di Robert Hol-lander, cit., pp. 61-92 : 71. 2 Ivi, cit., p. 72.

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dante e i trovatori: qualche riflessione 181

personaggi che Sordello elenca nel suo componimento più famoso, il planh per la morte di Blacatz. Il trovatore mantovano viene menzionato nel De vulgari eloquen-tia (I.xv, 2) come tantus eloquentie vir, ma di lui non viene citata alcuna canzone specifica ; questo può significare due cose : o Dante conosceva solo per sentito dire la grandezza poetica del mantovano (ma mi pare un’ipotesi da scartare), oppure non lo riteneva un trovatore abbastanza significativo sul piano della qualità for-male. Il brano del trattato è il seguente :

Dicimus ergo quod forte non male opinantur qui Bononienses asserunt pulcriori locutio-ne loquentes, cum ab Ymolensibus, Ferrarensibus et Mutinensibus circunstantibus aliquid proprio vulgari asciscunt, sicut facere quoslibet a finitimis suis conicimus, ut Sordellus de Mantua sua ostendit, Cremone, Brixie atque Verone confini : qui, tantus eloquentie vir exi-stens, non solum in poetando sed quomodocumque loquendo patrium vulgare deserti.

In verità il passaggio citato non è chiarissimo : come può Sordello mostrare che i Mantovani, come i Bolognesi, hanno tratto, per il loro volgare, qualcosa dai vici-ni, visto ch’egli in poetando e loquendo ha abbandonato (deseruit) il volgare patrio ? Secondo Mengaldo (si veda alla voce Mantova nella Enciclopedia dantesca) « è neces-sario ammettere che l’accenno all’eloquenza poetica di Sordello non può riferirsi che alla sua produzione provenzale ; ma d’altra parte è improbabile che Dante gli attribuisse l’uso sistematico del provenzale anche nella conversazione orale sia pure di carattere solenne e ufficiale ». Sordello dunque ha abbandonato il volgare di Mantova nell’uso scritto, a favore del provenzale, e nell’uso orale a favore di un volgare sovramunicipale. Maurizio Perugi, per parte sua, commenta : « Insomma Dante verrebbe […] a dire che Sordello abbandonò il volgare della sua patria sia facendo poesia d’arte, sia in qualunque altro impiego della lingua [quomodocumque loquendo], non solo o necessariamente orale, ma soprattutto con riferimento al-le espressioni letterarie gerarchicamente più basse. Il che corrisponde alla perfe-zione con quanto di Sordello sappiamo, o possiamo ragionevolmente supporre senza ricorrere ad ipotesi non suffragabili dai fatti ». 1 E proprio questo impedì a Dante di includerlo tra i vulgares eloquentes : perché, pur possedendo l’eloquenza (tantus eloquentie vir), « ossia la capacità di poetare in alto stile », egli ha preferito abbandonare linguisticamente la patria (peccato di negligenza) anziché « battere la strada del volgare aulico ». 2

Sordello è uno dei pochi personaggi della Commedia con una presenza tanto lunga, dal vi all’viii canto del Purgatorio : e anzi si affianca come guida ai due pel-legrini : « per quanto ir posso, a guida mi t’accosto » (Purg. vii, 42). In molti si sono chiesti il motivo del rilievo che Dante dà a un poeta tutto sommato non sublime. Secondo Teodolinda Barolini, Sordello è importante agli occhi di Dante perché è un poeta politico : « Sordello è […] legato a triplo filo al tema della politica della Commedia : in primo luogo, in virtù della sua identità storica, come poeta preoccu-pato del comportamento dei governanti del suo tempo [cfr. in particolare il planh per Blacatz] ; inoltre, grazie alla collocazione in Purgatorio vi, canto politico, dove

1 Maurizio Perugi, Il Sordello di Dante e la tradizione mediolatina dell’invettiva, « Studi dante-schi », n. 55, 1983, pp. 23-135 : 59. 2 Ivi, pp. 60-61.

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il suo abbraccio con Virgilio, esemplificante l’unità politica, dà adito all’invetti-va [la più lunga della Commedia, se non erro] in cui Dante deplora la mancanza d’unità in Italia ; infine, Sordello costituisce la rifocalizzazione poetica di Farinata, la lente attraverso la quale il tema dell’amor di patria riappare sulle pendici della montagna purgatoriale ». 1 A ciò si potrebbe aggiungere l’importanza che Sordello avrebbe per Dante – ma questa volta in negativo – sul piano della politica, per così dire, linguistico-culturale : scegliere il provenzale ha significato non aderire al pro-getto di Federico ii, « che dotò l’Italia di una Curia, la poesia italiana di un’aula ». 2 I nuclei attorno ai quali Sordello avvolge la propria poesia sono l’onore (la parola onor ricorre con grandissima frequenza), la prodezza, la grandezza ; la poesia sor-delliana è pervasa da un’etica politica che, pur essendo ancora tutta terrena e le-gata alle contese di parte, ha in sé un’ispirazione etica che mancava, per esempio, a Bertran de Born : « La poesia politica di Bertran alimenta separatismo e scisma incoraggiando il giovane re a disobbedire al padre, mentre Sordello, criticando i principi in un modo che prefigura la posizione critica di Dante in Purg. vi e vii, ser-vì un obiettivo finale di unità politica ». 3 Sordello sarebbe dunque la controparte di Bertran ; se questo è vero, allora Dante sceglie Bertran e Sordello anche perché trovatori : la loro attività poetica avrà avuto un ruolo nella scelta fatta dall’autore della Commedia, anche se nei versi del poema non si fa alcun cenno ai due come poeti. È chiaro che, in più, Sordello è mantovano, come Virgilio, e il fraterno ab-braccio tra i due conterranei sarà la molla, come detto, che fa scattare l’invettiva.

Sordello, abbiamo detto, diventa guida dei due pellegrini, seppure per un breve tratto del cammino ; com’è noto a tutti, un’altra guida per così dire aggiuntiva sa-rà – sempre nel Purgatorio – il poeta latino Stazio : Virgilio e Stazio sono poeti epici, Sordello è un lirico, eppure svolge, per Dante, un ruolo quasi da poeta epico, pro-prio per la dimensione politica che qui sembra prendere il sopravvento su ogni al-tra. A rafforzare questa idea (che in realtà mi convince solo fino a un certo punto) è stata sottolineata, a chiudere il cerchio e a rinsaldare il legame, l’affinità tra quan-to dice Stazio (Purg. xxii, 67-69) e la già citata presentazione di Bertran de Born :

Facesti come quei che va di notte,che porta il lume dietro e sé non giova,ma dopo sé fa le persone dotte.

5. Sempre nel purgatorio, ma tra i lussuriosi (vii cornice, canto xxvi), incontriamo il terzo trovatore, che nelle terzine conclusive del canto, in lingua d’oc, si autono-minerà Arnaut : si tratta certamente di Arnaut Daniel, ma c’è anche chi ha pensato a Arnaut de Maruelh, il men famoso Arnaldo di Petrarca, Triumphus Cupidinis iv, 44 : lo ha fatto, per esempio, Paolo Canettieri in un articolo su Anticomoderno e in un intervento in rete : 4 faccio dunque una breve digressione, scusandomi per il bru-

1 Teodolinda Barolini, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, Torino, Bollati Bo-ringhieri, 1993, p. 132.

2 Giuseppina Brunetti, Il frammento inedito Resplendiente stella de albur di Giacomino Pugliese e la poesia italiana delle origini, Tübingen, Niemeyer, 2000, p. 242.

3 Teodolinda Barolini, Il miglior fabbro, cit., p. 138.4 Si veda Paolo Canettieri, Un episodio della ricezione di Purgatorio xxvi : la Leandreide di

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tale riassunto. Il primo punto riguarda il v. 117 di Purg. xxvi, che nell’edizione Pe-trocchi suona « fu miglior fabbro del parlar materno », e che Canettieri immagina possa essere stato, in origine, « fu miglior fabbro ; ma ’l parlar materno » : in questo modo « sarebbe la lingua materna di Guido Guinizzelli e di Dante, l’italiano, che soverchiò tutti gli altri linguaggi della poesia e della lirica volgare », 1 poiché quel de Lemosì sarebbe, appunto, il volgare usato dai trovatori (limosino è infatti una nor-male denominazione antica di ciò che noi chiamiamo lingua d’oc). Si stabilirebbe, così, secondo Canettieri, un più coerente parallelo con il passo del Convivio (I.x-xi) nel quale Dante se la prende con chi, italiano, decide di usare un volgare straniero, « massimamente quello in lingua d’oco ». Secondo lo studioso, l’Alighieri potrebbe qui criticare Terramagnino da Pisa, che nella Doctrina d’Acort (trasmessa dal can-zoniere provenzale P, di fattura toscana, che Dante avrebbe potuto conoscere) scrive che la parladura lemoizina è superiore a tutte le altre, come l’oro è superiore ai metals cars (e così sarebbe spiegata anche la metafora del miglior fabbro). Secondo Canettieri Dante polemizzerebbe con Terramagnino per colpire, in realtà, Guit-tone, nominato pochi versi dopo, anche perché il pisano loda l’aretino nell’unico suo testo italiano giunto fino a noi, Poi dal mastro Guitton latte tenete, in risposta a un anonimo. Mi pare, però, poco probabile che Dante si periti di polemizzare con il tutto sommato innocuo Terramagnino per colpire Guittone, in un canto così cruciale come il xxvi del Purgatorio. Inoltre mi pare anche poco stringente il pa-rallelo tra una lingua (quel de Lemosì = provenzale) e un poeta (Guittone) : mi par-rebbe più logico che Dante voglia mettere in sostanza sullo stesso piano, qui, due poeti, Giraut de Bornelh e Guittone. Mi sembra inoltre assai complicato riuscire a spiegare il motivo per cui un originale ma ’l parlar materno sia diventato sotto le penne dei copisti del parlar materno, e come possa una definizione tutto sommato vulgata di lingua d’oc (lemosì) passare a significare un poeta provenzale innomina-to e probabilmente ignoto alla maggior parte dei copisti della Commedia.

In secondo luogo Paolo Canettieri mette in dubbio che l’Arnaut che Dante in-contra in questo canto purgatoriale, e che recita le terzine finali in provenzale, sia Arnaut Daniel : lo studioso avanza infatti l’ipotesi che sia Arnaut de Maruelh. È strano, si argomenta, che un poeta leu come Guinizzelli introduca un trovatore ric come Arnaut Daniel ; logico, invece, che presenti a Dante il facile e leggiadro Arnaut de Maruelh : le congruenze tra i versi provenzali di Purgatorio xxvi e la produzione del men famoso Arnaldo, però, mi paiono piuttosto deboli. Un dato ad-dirittura probante per identificare l’Arnaut purgatoriale con il de Maruelh si tro-verebbe nella galleria satirica scritta dal Monge de Montaudon, nella quale si dice che Arnaut de Maruelh « on plus canta, l’aiga en deissen » : immagine che farebbe il paio con il dantesco « Ieu sui Arnaut que plor e vau cantan ». Scrive Canettieri : « sia l’Arnaut de Maruelh del Monge de Montaudon che l’Arnaut di Dante compiono

Giovanni Girolamo Nadal, in Anticomoderno. La sestina, Roma, Viella, 1996, pp. 179-200 e Il miglior fabbro, il men famoso Arnaldo e altre notizie dal purgatorio, [Internet] Versione 2, Knol. 26 aprile 2009 (http ://knol.google.com/k/paolo-canettieri/il-miglior-fabbro-il-men-famoso-arnaldo/vyvpjuoxc2n0/6).

1 Paolo Canettieri, Il miglior fabbro, il men famoso Arnaldo, cit., p. 2.

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simultaneamente l’azione di piangere e di cantare ». 1 Mi pare, però, che questa immagine sia assimilabile ad altre usate nella Commedia, come per esempio « dirò come colui che piange e dice » (Inf. v, 126), oppure « parlare e lagrimar vedrai insie-me » (Inf. xxxiii, 9) : la sostituzione di dice o di parlare con il vau cantan provenzale può essere semplicemente dovuta al fatto che qui chi parla è un trovatore. Canet-tieri aggiunge però un altro tassello alla sua ipotesi : al 1380 circa risale il poema in terza rima intitolato Leandreide, la cui composizione è attribuita al veneziano Giovanni Girolamo Nadal. Il protagonista evoca l’ombra di Dante, il quale gli pre-senta un corteo di poeti, tra i quali, al primo posto della schiera dei provenzali, c’è Arnaut de Maruelh ; Dante gli cede la parola, e costui parla in lingua d’oc. A Ca-nettieri « sembra probabile che il Nadal identificasse l’Arnaut dantesco con Arnaut de Maruelh : ciò è dimostrato anche dallo scarsissimo rilievo che invece è dato ad Arnaut Daniel » ; lo studioso ritiene che Nadal, « se avesse inteso l’importanza tri-butata da Dante ad Arnaut Daniel, avrebbe speso almeno qualche verso per com-mentare le sue poesie ». 2 Insomma, l’episodio della Leandreide sarebbe una spia del fatto che l’Arnaut di Purgatorio xxvi sarebbe il de Maruelh e non il Daniel. Ma perché, mi chiedo allora, Dante si dovrebbe confrontare con un poeta minore co-me Arnaut de Maruelh in un canto fondamentale per la sua visione della poesia ? Perché fare entrare sulla scena qui, in un nodo cruciale non solo per Dante autore della Commedia, ma anche per Dante intellettuale, un trovatore mai citato prima ? E sarebbe l’unico caso, giacché gli altri trovatori che fanno la loro apparizione nel poema si sono già incontrati altrove, nel De vulgari eloquentia.

Torniamo, dunque, ad Arnaut Daniel : egli è l’unico dei trovatori della Comme-dia che compare nella sua veste di poeta : anzi, come abbiamo sentito, egli è pre-sentato a Dante da Guinizzelli come « il miglior fabbro del parlar materno », colui che soverchiò tutti. E questo non è senza motivo (nulla in Dante è senza motivo) : l’importanza di Arnaut è soprattutto poetica, perché per Dante questo trovatore è l’esponente più eloquente di una delle tradizioni più importanti di tutta la li-rica romanza, quella che esalta la forma. Arnaut assume un ruolo davvero cen-trale nel grande edificio del poema e nella mente di Dante, è uno snodo lungo il pellegrinaggio oltremondano, che è un pellegrinaggio sì di perfezionamento interiore, ma anche (soprattutto ?) di supremo affinamento artistico ; come scrive G. Contini : « nel fuoco di Arnaut (fuoco che affina, come per corrente provenza-lismo fa il fuoco d’amore) Dante brucia le rime petrose, cioè, se non proprio lo stile fine a se stesso e che inventa e materializza il proprio ostacolo, la carnalità dello stile, la lingua specializzata nell’espressività […], prima di essere assunta e corretta nella sintesi ed enciclopedia degli stili : appunto la Commedia ». 3 Arnaut è un punto d’arrivo e di partenza insieme : « quello con Arnaut è l’ultimo confronto di Dante con un proprio collega e maestro, l’ultimo momento nel quale si affron-tano esplicitamente questioni di teoria ed estetica letteraria, ed è prossimo ormai il distacco da Virgilio ». 4 Arnaut rappresenta una reductio ad unum : è l’unico poeta

1 Idem, Un episodio della ricezione di Purgatorio xxvi, cit., p. 197. 2 Ivi, p. 184. 3 Gianfranco Contini, Dante personaggio-poeta, cit., p. 57. 4 Stefano Asperti, Dante, i trovatori, la poesia, cit., p. 89.

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volgare – a quest’altezza cronologica, quasi al culmine dell’esperienza artistica di Dante – con il quale l’autore della Commedia sente di dover fare i conti. Ma prima dell’atto finale Dante deve liquidare per sempre, per bocca di Guinizzelli quel de Lemozì, cioè, come abbiamo visto e secondo l’interpretazione corrente e quasi unanime, Giraut de Bornelh. Colpire Giraut non è un’azione priva di logi-ca nell’ottica dantesca, perché « la superiorità relativa di Giraut era cosa sancita sia nelle vidas sia, implicitamente, nel posto e consistenza assegnatagli nei codici trobadorici ». 1 All’altezza del De vulgari eloquentia quella immagine doveva brillare ancora agli occhi di Dante, visto che Giraut de Bornelh è il trovatore più presen-te nel trattato (ben quattro testi : Arnaut è solo secondo, con tre citazioni). Mi pare invece meno pertinente l’osservazione di Picone secondo la quale l’attacco a Giraut prefigurerebbe quello di Beatrice a Dante stesso nel Paradiso Terrestre, nel quale la donna rimprovera il traviamento dell’antico aspirante amante per la donna gentile, segno poetico di una stagione ricca di una salus forse un po’ troppo mondana, vicina a quella cantata appunto dal trovatore di Bornelh. 2

Arnaut non è solo un simbolo in questo canto del Purgatorio, il simbolo della poesia lirica storicamente più importante, quella appunto in lingua d’oc : Arnaut è proprio Arnaut, l’inventore della sestina, il rappresentante raffinato di quello che alcuni chiamano trobar ric, è il poeta che ha scritto, per esempio, « per qu’om no m’en fassa crim / obri e lim / motz de valor / ab art d’Amor » (Canso do.ill mot son plan e prim), di quell’amore per colpa del quale ora il poeta si deve affinare nel fuoco del Purgatorio ; e Arnaut è anche – ma chissà se a Dante questo interessava ? sembrerebbe di no : non certo all’altezza del Purgatorio – l’autore comico del sirven-tese Pus Raimons e Truc Malecx. Dante ingaggia con Arnaut una sorta di duello, una singolar tenzone dalla quale non può che uscire vincitore, perché il suo scopo è di giudicare in via definitiva la poesia romanza nel suo complesso, dai trovatori a sé stesso, di « distinguere i valori dai disvalori, la vera poesia (di Guinizzelli e di Arnaut, ma soprattutto di Dante) dalla falsa poesia (di Guittone e di Giraut) » : 3 le tre terzine in provenzale che chiudono il canto xxvi del Purgatorio possono rappre-sentare, in questo senso, l’archiviazione definitiva della poesia precedente ; è vero che vengono pronunciate da Arnaut, ma è anche vero, e non possiamo dimenti-carcene, che sono scritte da Dante, il quale, per liquidare la ‘questione poetica’ che percorre la Commedia, ma che tra il xxiv e il xxvi canto del Purgatorio raggiun-ge il culmine, si serve proprio del provenzale, consapevole delle proprie capacità. Si è discusso sulla qualità della lingua d’oc usata da Dante, sulla sua correttezza : ma secondo me è un finto problema, giacché si tratta pur sempre, per parafrasare ciò che Contini scrive a proposito del francese usato nella canzone trilingue, del provenzale d’un italiano (e non d’un poeta esclusivamente provenzale come Sordel-

1 Pier Vincenzo Mengaldo, Dante come critico, « La parola del testo », a. 1, 1997, pp. 36-54 : p. 50 ; e si veda anche Pietro G. Beltrami, Arnaut Daniel e la “bella scola”, cit., pp. 38-39 : Giraut « ha certamente goduto di un’immagine di eccellenza contro la quale ha un senso polemizzare, che si manifesta sia nella vida sua e in quella di Peire d’Alvernhe […], e ha un corrispondente nella posi-zione incipitaria delle sue poesie in alcuni canzonieri ».

2 Michelangelo Picone, Giraut de Bornelh nella prospettiva di Dante, « Vox Romanica », n. 39, 1980, pp. 22-43. 3 Idem, Canto xxvi, cit., p. 418.

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lo). Così, solo per fare un esempio, poco c’importa sapere che escalina è sostanti-vo assente dal vocabolario trobadorico : è stata proposta la lettura, avallata da un manoscritto, ses freg e ses calina, che è un binomio, come scrive Folena, « presente nella poesia provenzale, per esempio in Guillem de Berguedan, e abituale nella Commedia, ma in ordine inverso » (« ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo », Inf. iii, 87 ; oppure « A sofferir tormenti, caldi e geli », Purg. iii, 31 ; o ancora « lievemen-te passava caldi e geli », Par. xxi, 116). 1 Questa variante è accolta per esempio da Michelangelo Picone. 2 Ma secondo me ha ragione Giorgio Petrocchi, il quale annota, nella sua edizione della Commedia, che Dante ha voluto « lasciare il segno, in questi pochi versi, della sua originalità e autonomia di creazione linguistica, anziché affidarsi al tipo d’una comunissima dittologia ». Ha ragione, intendo, nel senso che sarebbe probabilmente fuorviante voler calibrare a tutti i costi e al cen-to per cento il provenzale di Dante sulla lingua d’oc che la tradizione trobadorica ci ha consegnato (senza contare che l’espressione al som de l’escalina richiama Purg. xiii, 1 : « Noi eravamo al sommo de la scala »). 3

6. Ma prima di arrivare alla visione di Dio e al termine del viaggio e del poema Dante ha il tempo e l’occasione di incontrare un altro trovatore : siamo in Paradi-so, nel cielo di Venere (canto ix). Ed ecco venire verso Dante un’anima splenden-te, quella di Cunizza da Romano, una delle presenze più scoppiettanti sul jet set cortese del primo xiii secolo, co-protagonista del rapimento con seduzione che tanti dolori (ma speriamo anche qualche piacere) addusse a Sordello : Cunizza che presenta a Dante l’anima che le è accanto dicendo solo che nel mondo ha lasciato una grande fama di sé (« Di questa luculenta e cara gioia / del nostro cielo che più m’è propinqua, / grande fama rimase ; e pria che moia, / questo centesimo anno ancor s’incinqua » : Par. ix, 37-40). Quando poi quest’anima parla apprendiamo che il suo nome è Folco (« Folco mi disse quella gente a cui / fu noto il nome mio… » : vv. 94-95) : noi sappiamo che si tratta del trovatore Folquet de Marselha, ma la for-ma del nome che Dante usa, Folco appunto, non è casuale : questo è il nome che compare nei documenti che parlano del vescovo di Tolosa, di colui che affiancò Domenico nella crociata contro gli Albigesi, non è il nome del poeta, che nelle rubriche dei manoscritti è sempre e solo nella forma diminutiva Folquet ; Dante è al cospetto dell’autore di Tant m’abellis l’amoros pensamen, canzone inserita nel De vulgari eloquentia nel catalogo di quelle che hanno un « gradum constructionis excellentissimum » (II.vi, 5 ; per inciso : qui il nome del trovatore è Folquetus). È stato notato che questo incipit riecheggia nell’inizio delle terzine provenzali di Purgatorio xxvi (« Tant m’abellis vostre cortes deman ») ; anzi, si è sottolineato che tali terzine sono un vero e proprio centone folchettiano, e il fatto stesso che Dante abbia ‘saccheggiato’ il trovatore di Marsiglia per scrivere i versi messi in bocca a Arnaut sarebbe significativo della « stima di cui il trovatore gode all’interno della

1 Gianfranco Folena, Il canto di Guido Guinizzelli, ora in Idem, Textus testis, cit., pp. 241-265 : 262. 2 Michelangelo Picone, Canto xxvi, cit., p. 411.

3 E d’altronde vari studi, per esempio di Maurizio Perugi e di Walter Meliga, ci stanno sempre più chiaramente mostrando quanto imperfetta sia la nostra conoscenza della lingua ‘reale’ dei trovatori, o almeno di certi trovatori.

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Commedia, della sua effettiva e attiva presenza come modello della poesia roman-za della virtus ». 1 Ma c’è di più. L’antica vida ci racconta che Folchetto « abandonet lo mon e rendet.se a l’orden de Cistel ab sa moiller et ab dos sos fills que el avia » dopo la morte della donna amata e cantata (egli, infatti, « entendia.se en la moiller del sieu seignor en Barral »). Questo radicale cambiamento della rotta esistenziale di Folchetto dopo la morte dell’amata è stato messo in parallelo con l’esperienza della Vita nova, con la decisione da parte di Dante di dicer di Beatrice « quello che mai non fue detto d’alcuna ». Già Benvenuto da Imola sottolineava a proposito di Folchetto : « Mortua uxore Baralis amarissimum dolorem concepit, sicut olim Dantes de morte suae Beatricis ». E come non far caso al fatto che sulla scena ci so-no, qui, Dante e Folchetto, Cunizza e Beatrice : un bel quartetto poetico-amoroso (con l’assente presenza di Sordello).

Ma, è stato detto e scritto, nel paradiso sembra non esserci spazio per la poesia, meno che mai per le ambages pulcerrime della poesia amorosa : Folchetto è stato trovatore, di più, è stato poeta d’amore ma solo « infin che si convenne al pelo » (v. 99). Michelangelo Picone ha intravisto nella poesia Si tot me sui a tart aperceu-butz – canzone che piaceva anche ai siciliani – un punto di snodo nel corpus del trovatore, addirittura un’ammissione a una rinuncia amorosa che potrebbe essere interpretata come non episodica, bensì definitiva : un verso della seconda cobla re-cita, oltretutto, « mas eu m’en part e segrai autra via ». Questa svolta potrebbe es-sere stata notata anche da Dante : di fatto, una volta entrato in monastero e dopo aver intrapreso la carriera ecclesiastica fino all’alta responsabilità dell’episcopato di Tolosa ai tempi degli albigesi, Folchetto diventa Folco, e dimentica la poesia, che anzi è una colpa (v. 104). (Sia detto tra parentesi : che i trovatori cessino l’attivi-tà poetica una volta entrati in monastero è una di quelle certezze mai revocate in dubbio, ch’io sappia, e mai neppure dimostrate). Il folle amore profano ha ceduto il passo all’amore sacro. Il valore divino ha guidato i passi dell’ex trovatore fino alla conversione, ed è questo ciò che conta qui, all’altezza del Paradiso : è impensabile che Dante possa riconsiderare, anche solo per un istante, l’ipotetico valore della poesia amorosa. Tutto ciò che riguarda l’aspetto profano dell’esistenza, e dunque anche la poesia d’amore, rimane giù, in purgatorio : la poesia rimane in compa-gnia di Arnaut. Come è già stato detto, non si può di certo affermare che nella lirica folchettiana sia rintracciabile un surplus di moralità rispetto a quella arnal-diana. Scrive Stefano Asperti : « la conquista del cielo di Venere dipende in prima istanza dall’abbandono della poesia cortese, attraverso una scelta esistenziale […], che Dante suggerisce comparabile, per forza e qualità, alla propria ». 2

Tuttavia Dante sceglie di mettere qui proprio questo personaggio, e non un altro : certo un vescovo che si è particolarmente distinto nella lotta all’eresia ac-canto a Domenico (che sarà esaltato pochi canti dopo, Paradiso xii) ; anzi, Dome-nico riceve proprio dal vescovo di Tolosa la chiesa di Sainte-Marie de Prouille che sarà il primo nucleo dell’ordine domenicano, e Folco accompagna poi Domenico

1 Michelangelo Picone, Paradiso ix : Dante, Folchetto e la diaspora trobadorica, « Medioevo ro-manzo », n. 8, 1981-83, pp. 47-89 : 75.

2 Stefano Asperti, Dante, i trovatori, la poesia, cit., p. 79.

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al Concilio Lateranense del 1215 per perorare davanti a Innocenzo iii la causa del riconoscimento dell’ordine. Ma Folco è pur sempre stato Folquet, è stato poeta : stento a credere che ciò che s’incontra nella Commedia sia dovuto al caso. Non sarei così pronto a escludere del tutto l’ipotesi avanzata anni fa da M. Picone che la scelta dantesca possa essere stata innescata anche dal fatto che Folquet è autore di due canzoni di crociata ; 1 certo, il discorso di Folco in Par. ix, 133-142 è diretto contro la curia romana, mentre nelle canzoni di crociata – secondo uno schema consueto – Folquet invita i re e i nobili a mobilitarsi per liberare il Santo Sepolcro : più stringente, ma anche in questo caso tuttavia ovvio, il legame che s’instaura, per esempio, tra « però che fatto ha lupo del pastore », v. 132, e l’inizio di un famo-sissimo sirventese di Peire Cardenal :

Li clerc si fan pastore son aussizedor e semblan de santor ;can los vei revestir e prent m’a sovenir de n’Alengri[…].

Ma il tono usato da Folco nel Paradiso sembra propriamente da crociata. Secon-do Picone Dante usa nella Commedia la forma Folco in modo polemico, « per di-stinguere accuratamente le due metà del canzoniere folchettiano : la poesia della fol’amor, propria della fase giovanile […] ; e la poesia dell’amor veraia, propria della fase matura ». 2 Non sarà forse proprio così, giacché non ci sono indizi in tal senso : ma penso che l’attività poetica di Folco, e la sua firma sotto due canzoni di cro-ciata, non siano fatti del tutto privi di senso nella scelta operata da Dante. 3 Come ha giustamente scritto Mengaldo : « I trovatori della Commedia sono evocati non, o non in primo luogo, come vulgares eloquentes, ma in quanto generalmente uomini di alta fama, attori di una vicenda eticamente esemplare nel male o nel bene. Que-sto non significa però che le ragioni letterarie non siano presenti, allusivamen-te toccate e come cifrate, e per così dire consustanziate nel prevalente giudizio umano e morale ». 4 In altri termini : se Dante avesse voluto rappresentare solo un campione della lotta all’eresia avrebbe potuto scegliere un altro personaggio : se ha scelto l’ex trovatore Folco non sarà per caso.

Folco/Folchetto è tra gli spiriti amanti, come Arnaut è, nel purgatorio, tra i lussuriosi. Il corto circuito può scattare, e la contrapposizione salta agli occhi. Ma Folco vescovo combatte in una guerra che non prevede esclusione di colpi, e que-sto potrebbe in qualche modo legarlo a Bertran de Born, come se un unico filo unisse tutti questi personaggi-poeti : che sono nella Commedia non perché poeti (tranne Arnaut), ma anche perché poeti.

1 Michelangelo Picone, Paradiso ix : Dante, Folchetto e la diaspora trobadorica, cit. in particola-re p. 81 sgg. 2 Ivi, p. 81.

3 Accennerò soltanto di sfuggita al fatto che il manoscritto M della galleria Pois Peire d’Al- vernh’a chantat del Monaco di Montaudon non ha Folquet, ma Folco : che andrà tra l’altro pronun-ciato tronco. 4 Pier Vincenzo Mengaldo, voce oc dell’ED, p. 22ab.

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dante e i trovatori: qualche riflessione 189

Folco/Folchetto, in quanto poeta, è figura di Dante ; ma il trovatore – come racconta Robert de Sorbon, cappellano di Luigi ix di Francia – « cum audiebat cantare aliquam cantilenam suam quam ipse existens in saeculo composuerat […] non comedebat nisi panem et aquam », mentre Dante si commuove, fin quasi a dimenticarsi del viaggio salvifico da compiere, quando sente Casella, sulla spiag-gia del purgatorio, intonare la sua Amor che nella mente mi ragiona, e non riesce a celare l’orgoglio personale quando mette in bocca a Bonagiunta l’incipit della fa-mosa Donne ch’avete intelletto d’amore. È vero che lì Dante è ancora in Purgatorio, dove l’umana debolezza del cedimento autocelebrativo è scusabile ; ma non si può dimenticare che il poeta ricorda più volte la propria attività artistica anche in Paradiso : per esempio ii, 1 sgg. ; viii, 37 (quando cita Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete) ; e soprattutto l’inizio di xxv :

Se mai continga che ’l poema sacroal quale ha posto mano e cielo e terra,sì che m’ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudeltà che fuor mi serradel bello ovile ov’io dormi’ agnello,nimico ai lupi che li danno guerra ;

con altra voce omai, con altro velloritornerò poeta, e in sul fontedel mio battesmo prenderò ’l cappello

(vv. 1-9)

Con Folco/Folchetto il cerchio si chiude, si ritorna a Bertran, alla sua poesia : già in De vulgari eloquentia II.vi, 6 il trovatore perigordino viene rimpiazzato proprio da Folchetto ; 1 ma si ritorna anche e forse soprattutto ad Arnaut e al tacito Gi-raut : Dante non limiterà quest’ultimo, riprendo e chiudo la citazione continiana d’apertura, « forse perché il suo impegno alla rectitudo (vedi De vulgari) lo avvicina-va piuttosto a Guittone che al Dante morale ? ». 2 E infatti, come ognuno di noi sa e ricorda, ai versi citati di Purgatorio xxvi segue la citazione dell’Aretino :

« Così fer molti antichi di Guittone,di grido in grido pur lui dando pregio,fin che l’ha vinto il ver con più persone. »

(vv. 124-126)

Dante accosta Giraut al nemico di sempre, Guittone, perché vuole liquidarlo in via definitiva, come ha già fatto con Bonagiunta, che sarà stato uno dei molti an-tichi che hanno dato pregio all’Aretino. Anzi, l’abbassamento di Giraut sarebbe determinato da quello di Guittone. 3 Oppure con questo accostamento all’odiato Guittone Dante vuole, attraverso vie occulte, spingerci a riaprire l’esile fascicolo su quel de Lemosì, per il quale già Martín de Riquer aveva pensato, pur se dubitati-

1 Si veda Ivi, p. 21a.2 Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta, cit., p. 58.

3 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Dante come critico, cit., p. 50.

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190 paolo gresti

vamente, a Bernart de Ventadorn ? Cioè, come detto all’inizio, al trovatore forse più amato proprio da Guittone ? 1

Comunque sia della vicenda, dovunque stia la verità, l’autentica rectitudo è quel-la di Folchetto diventato Folco, è quella stessa di Dante pellegrino oltremondano che, a questo punto del viaggio e della storia, ha ormai davvero soverchiato tutti.

1 Martín De Riquer, Arnaut Daniel, Poesías, Barcelona, Quaderns Crema, 1994, p. 45 : « ¿Y por qué no podría señalar al lemosín Bernart de Ventadorn, por quien tan poco se interesó Dante ? y ruego que se me perdone esta tan heterodoxa suposición ».

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composto in carattere dante monotype dallafabriz io serra editore, p i sa · roma.

stampato e r ilegato nellatipografia di agnano, agnano p i sano (p i sa) .

*Luglio 2011

(cz 2 · fg 3)