230
Scienze Umanistiche Andrea Carandini, Archeologia oggi Letizia Pani Ermini, Trentacinque anni di Archeologia medievale Alberto Cazzella, La paletnologia nell’ambito delle scienze dell’uomo Mario Liverani, Elogio del Levante Paolo Matthiae, Archeologia: scuola di tolleranza Ferruccio Marotti, Ragioni e storia di un progetto Roberto Antonelli, Filologia (romanza) e letterature comparate, oggi Alberto Asor Rosa, Gli studi letterari dalla retorica alla scienza Paola Colaiacomo, L-LIN/10 – L-LIN/12 Luigi Marinelli, Gli studi slavistici dopo il Norbert von Prellwitz, Sconfinamenti Gianfranco Rubino, Studiare francesistica Tullio De Mauro, Il topo che non mangiava formaggio Antonio Cadei, Arte Medievale Claudia Cieri Via, Storia dell’arte e scienze umanistiche Marisa Dalai Emiliani, Quale Storia dell’arte? Simonetta Lux, Il gatto di Isidore Raffaele Romanelli, Quale storia contemporanea oggi? Biancamaria Scarcia Amoretti, Ripensare gli studi sull’Islam? Gilberto Mazzoleni, La storia delle religioni

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Scienze Umanistiche

Scienze Um

anistiche

Andrea Carandini, Archeologia oggiLetizia Pani Ermini, Trentacinque anni di Archeologia medievaleAlberto Cazzella, La paletnologia nell’ambito delle scienze dell’uomoMario Liverani, Elogio del LevantePaolo Matthiae, Archeologia: scuola di tolleranzaFerruccio Marotti, Ragioni e storia di un progettoRoberto Antonelli, Filologia (romanza) e letterature comparate, oggiAlberto Asor Rosa, Gli studi letterari dalla retorica alla scienzaPaola Colaiacomo, L-LIN/10 – L-LIN/12Luigi Marinelli, Gli studi slavistici dopo il

Norbert von Prellwitz, SconfinamentiGianfranco Rubino, Studiare francesisticaTullio De Mauro, Il topo che non mangiava formaggioAntonio Cadei, Arte MedievaleClaudia Cieri Via, Storia dell’arte e scienze umanisticheMarisa Dalai Emiliani, Quale Storia dell’arte?Simonetta Lux, Il gatto di IsidoreRaffaele Romanelli, Quale storia contemporanea oggi?Biancamaria Scarcia Amoretti, Ripensare gli studi sull’Islam?Gilberto Mazzoleni, La storia delle religioni

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FSU, 1, 2005

Indice

Introduzione di Roberto Antonelli 7

Archeologia

Andrea Carandini, Archeologia oggi 13Letizia Pani Ermini, Trentacinque anni di Archeologia medievale

alla “Sapienza” 19Alberto Cazzella, La paletnologia nell’ambito delle scienze del-

l’uomo 37Mario Liverani, Elogio del Levante 43Paolo Matthiae, Archeologia: scuola di tolleranza 51

Arti e Scienze dello Spettacolo

Ferruccio Marotti, Un corso di laurea in spettacolo in una Facoltàdi Scienze Umanistiche: ragioni e storia di un progetto 61

Filologia romanza e letterature comparate

Roberto Antonelli, Filologia (romanza) e letterature comparate, oggi 71

Italianistica

Alberto Asor Rosa, Gli studi letterari dalla retorica alla scienza 95

Letterature moderne

Paola Colaiacomo, L-LIN/10 – L-LIN/12 109Luigi Marinelli, Specializzazioni e nuove integrazioni: qualche ri-

flessione sugli studi slavistici (in Italia e a Roma) dopo il 1989 123Norbert von Prellwitz, Sconfinamenti 133Gianfranco Rubino, Studiare francesistica 137

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Indice6

Linguistica

Tullio De Mauro, Il topo che non mangiava formaggio: qualcheragione per studiare linguistica 147

Storia dell’arte

Antonio Cadei, Arte Medievale 159Claudia Cieri Via, Storia dell’arte e scienze umanistiche 163Marisa Dalai Emiliani, Quale Storia dell’arte? 173Simonetta Lux, Il gatto di Isidore: lo stato delle cose prima del ri-

lancio di una scienza umanistica 183

Studi storici

Raffaele Romanelli, Quale storia contemporanea oggi? 189Biancamaria Scarcia Amoretti, Ripensare gli studi sull’Islam? 205

Studi storico-religiosi

Gilberto Mazzoleni, La storia delle religioni e i suoi paradigmiinterculturali 215

Ricerche

Aree disciplinari 225

Antropologia culturale (225), Archeologia (225), Arti e scienze dellospettacolo (228), Filologia romanza (228), Letteratura italiana (228),Letterature moderne (229), Paleografia e Storia medievale (230), Sto-ria dell’arte (230), Storia romana (231)

Grandi Progetti 231

Mostre 232

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Con questo numero inizia le pubblicazioni Scienze Umanistiche, la rivi-sta della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università “La Sapienza” diRoma. Uscirà un fascicolo l’anno, in cui saranno raccolti saggi e articoli diparticolare interesse scientifico e culturale anche al di fuori dei singoli ambitispecialistici, con rubriche dedicate a questioni di particolare attualità, ai rap-porti fra Università e Scuola secondaria e alle ricerche e iniziative culturaliin corso nella Facoltà.

Le «Conferenze Giuseppe Sinopoli», iniziate nel novembre 2004 con ilciclo Alle origini dell’identità europea, saranno invece pubblicate in una col-lana che ospiterà anche le prolusioni e le relazioni presentate a singoli eventiculturali di particolare rilievo.

Il primo numero della rivista è dedicato ad una riflessione sullo statoattuale e sulle prospettive delle grandi aree disciplinari umanistiche in rela-zione alla stessa identità della Facoltà; una particolare attenzione è dedicataal rapporto fra scienze umanistiche e società contemporanea, anche in rela-zione ai nuovi compiti formativi dell’area umanistica e ai numerosi problemiaperti dalla recente riforma universitaria (e della scuola secondaria, ovverodi tutto il percorso formativo), ancora in via di definizione, in un momento digrandi cambiamenti culturali.

Questo primo numero della rivista ha dunque un carattere “introdutti-vo”, poiché intende appunto discutere preliminarmente, in un’ottica genera-le, le tendenze e le problematiche che affronteremo volta per volta nei fasci-coli successivi. Tentiamo soprattutto di rispondere ad alcune domande relativea quella forte innovazione istituzionale e scientifica rappresentata dalla fonda-zione di una Facoltà universitaria umanistica che dopo tanti decenni ha consa-pevolmente abbandonato il tradizionale e peraltro prestigioso nome di Lettere efilosofia.

In Italia le Facoltà di Lettere e Filosofia dagli anni Sessanta del XX secoload oggi hanno dato vita autonomamente, o con l’aggiunta di settori disciplinari

Introduzione

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Roberto Antonelli8

di altre Facoltà, ad almeno otto nuove Facoltà o Scuole: Lingue, Sociologia,Psicologia, Arti e Spettacolo, Beni culturali, Scienze della comunicazione,Studi orientali, Filosofia.

Alcune (come l’Istituto Universitario Orientale di Napoli) operavano giàda tempo in autonomia, altre si sono distaccate da corsi di laurea preesistenti.È soltanto il segno più clamoroso, a livello istituzionale, di una Krisis piùcomplessiva, ma forse poco avvertita, che ha coinvolto in profondità la mappadel sapere e gli statuti epistemologici dell’area umanistica, con conseguenzeimportanti nei rapporti interni ai gruppi disciplinari, nelle relazioni con le altrearee scientifiche e complessivamente con la società, a cominciare dalla scuolasecondaria.

Per taluni settori come l’archeologia, la storia dell’arte, le scienze dellospettacolo, la paleografia, l’antropologia, la linguistica e le lingue, le relazio-ni non solo con i metodi ma anche con le competenze di singole aree scienti-fiche (dalla chimica alla fisica all’ingegneria, alla medicina,…) sono semprestate necessarie e operative, trovando nel tempo semmai ulteriori sviluppi,ma hanno certamente promosso nuove forme di collaborazione tra Humani-ties e Scienze naturali anche grandi mutamenti epistemologici (si pensi adesempio alla New Archeology) e nuove scoperte tecnologiche, che rendonoora un laboratorio di restauro o di analisi dei reperti non troppo dissimile daun corrispondente centro di scienze naturali.

Per altre discipline la situazione si è evoluta in maniera diversa, poichéle relazioni fra le cosiddette “due culture” era meno organica e la crisi ha in-vestito innanzitutto le finalità e i metodi della ricerca e solo successivamentela strumentazione operativa. È il caso delle letterature e della storia, perquanto da sempre anch’esse avessero dovuto fare i conti con l’evoluzione delpensiero e della prassi scientifica: il metodo comparativo e il positivismohanno segnato in egual misura i settori umanistici e quelli scientifici; il me-todo sperimentale è sempre stato oggetto di confronto, per quanto possibile ascienze di carattere storico, con le discipline scientifiche.

La stessa “oggettività” dei dati sperimentali, perlomeno da un punto divista teoretico, ha trovato punti di convergenza problematici sia nel pensierodelle scienze naturali sia in quello filosofico: si pensi comunemente a quantounisce il principio di indeterminazione di Heisenberg e la critica allo storici-smo assoluto di Heidegger, con la conseguente ri-considerazione in entrambii casi della centralità del punto di vista dell’osservatore, ovvero del soggettostorico.

Fra le cosiddette due culture c’è dunque sempre stato scambio, ma la verae propria rivoluzione culturale che ha investito l’Italia negli anni Sessanta haposto una serie di domande anche ai settori più tradizionalmente legati ad una

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Introduzione

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visione “antiquaria” e unilinearmente storicistica degli studi umanistici, comela storia e le letterature, in Europa e in Italia. La nuova linguistica saussuriana epostsaussuriana, lo strutturalismo, la semiologia, la teoria della comunicazione,più recentemente e profondamente la stessa rivoluzione informatica, hanno in-vestito in pieno tutte le discipline umanistiche, imponendo metodi, problemati-che e prospettive nuove, legate ad un rapporto organico con le scienze speri-mentali e con la possibilità-necessità della dimostrazione. Sono mutate gerar-chie disciplinari, sono mutati profondamente, anche all’interno delle stesse di-scipline, orientamenti e obiettivi, pur rimanendo fermo il fondamentale e neces-sario legame con la dimensione storica di ogni disciplina umanistica, ovverocon ciò che rende l’area umanistica diversa da quelle scientifico-naturalistiche(ove pure l’esigenza di una riflessione storica sull’evoluzione e il senso dellesingole discipline si è fatta progressivamente luce). Le scienze umanistichehanno ovviamente come primo oggetto di studio l’uomo e quindi la sua dimen-sione intellettuale ed emotiva, la polis e la storia, campi particolarmente liberi eaperti al conflitto delle interpretazioni, anche in sede propriamente scientifica.

La denominazione “scienze umanistiche” non implica dunque presupporreoggetti e tematiche simili a quelli delle scienze naturali: l’associazione di so-stantivo e aggettivo riguarda i metodi e le finalità, non l’oggetto e i temi. Signi-fica semmai la necessità di superare le barriere disciplinari per attraversare l’in-tera area del sapere con riflessioni, prospettive e metodi interdisciplinari:l’interdisciplinarità, per quanto predicata da molti anni, ma generalmente nonpraticata, è ancora e veramente la nuova frontiera anche degli studi umanistici,a condizione naturalmente di partire dalla solidità delle proprie competenze edalle domande che le generazioni di studiosi attivi dagli anni Sessanta in poi sisono poste con particolare urgenza; domande fondamentali, alle quali ovvia-mente non si dà una risposta definitiva ma che costituiscono l’orizzonte neces-sario di ogni grande ricerca: a che la mia filosofia, a che la mia filologia e ar-cheologia, a che la mia storia?

Negli ultimi quarant’anni, sono state fatte molte domande e sono state da-te molte risposte, anche nella nostra Facoltà, che hanno a volte mutato gli as-setti tradizionali del sapere e intere linee di ricerca. Oggi l’aggettivo ‘umanisti-co’ definisce un “campo intellegibile del sapere”, specifico ma assai ampio,fondamentale, anche nella società contemporanea, per la crescita civile e de-mocratica della società italiana. È un campo cui pertengono il senso della co-noscenza e delle scelte culturali dell’uomo, il suo rapporto col proprio Passatoe col Futuro, la globalizzazione e lo studio dell’Immaginario collettivo (di cuiormai sono parte anche le Lettere e la Storia), il ruolo delle Emozioni in unasocietà aperta ma in cui si verificano sempre maggiori concentrazioni di poteree un distacco crescente fra cultura e politica, istituzioni e cittadini.

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Roberto Antonelli10

La Facoltà di Scienze Umanistiche è nata per confrontarsi con queste pro-blematiche, ovvero col senso ed il ruolo della propria ricerca nella società con-temporanea, assumendo come compito prioritario il rapporto fra ricerca scien-tifica, scuola e futuro delle giovani generazioni, in un momento in cui si poneanche il problema di una forte dialettica fra una visione delle scienze umani-stiche come essenziali allo sviluppo pieno della personalità umana e una visio-ne che ne privilegia la funzionalità alla gestione di singoli settori della società(e quindi con obiettivi quasi esclusivamente “professionalizzanti”): ScienzeUmanistiche è dunque stata concepita come un forum aperto non solo alla ri-cerca ma anche al dibattito con la scuola e soprattutto con gli studenti, che del-la rivista costituiscono i primi interlocutori e il pubblico di riferimento.

Roberto Antonelli

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Archeologia

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L’archeologia classica era identificata un tempo – sopratutto in Germaniae in Italia – con la storia dell’arte antica. La storia dell’arte, per definizione, siinteressa di collezioni di opere d’arte, per cui parte da una visione estetica eantologica delle cose del mondo: le belle cose estratte dall’immondo contestodella vita; lo spirito infatti non regnerebbe nell’immondizia ma solo nel subli-me. È stato Hegel a stabilire una gerarchia delle arti fra le produzioni più ele-vate e basse: musica, pittura, scultura, architettura, arte applicata quest’ultimasommamente impura, da delegare anche come studio a architetti, ingegneri etecnici. Ancora oggi in Germania a dirigere gli scavi sono eminentemente ar-chitetti non professori della Kunstarchäologie e in Italia l’analisi dei monu-menti veniva riservata, fino a non molto tempo fa’, a specialisti topografi,mentre l’archeologo classico si occupava di ritratti e panneggi.

Eppure nulla di più estraneo all’archeologia dell’ottica selettiva dellostorico dell’arte. L’archeologo – un tempo si diceva l’antiquario – si occupaper antica consuetudine di ogni prodotto umano, dai più alti e preziosi finoagli oggetti della vita quotidiana (instrumentum domesticum), intesi come te-stimonianza di usi, costumi e civiltà. Basti pensare ai primissimi musei, dovealla statua si accompagnava la lucerna, per non dire di scheletri e conchiglie,tanto poco selettive erano in origine le raccolte. Il grande genius dell’anti-quaria è stato Caylus nel XVIII secolo e il culmine di questi studi è statoraggiunto nel Dictionnaire des Antiquitées Grecques et Romaines di Darem-berg e Saglio, opera edita tra il 1881 e il 1917, rimasta insuperata. Il grandegenius della storia dell’arte antica è stato Winckelmann e il culmine di questistudi è stato raggiunto dall’Enciclopedia dell’Arte antica di Bianchi Bandi-nelli, edita tra il 1958 e il 1966, rimasta insuperata.

La curiosità onnivora dell’archeologo si è accompagnata generalmente ametodi alquanto sempliciotti: il suo interesse globale per le testimonianzemateriali era ammirevole ma la sua cultura antiquaria appariva un gran pa-

Andrea Carandini

Archeologia oggi

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Andrea Carandini14

sticcio. La storia dell’arte è nata proprio al fine di bonificare questo pasticcioe la bonifica non poteva iniziare che dagli oggetti più rilevanti e belli. Veni-va così ripreso il metodo storico-artistico risalente all’Ellenismo, risuscitatodal Rinascimento e poi ulteriormente sviluppato, applicandolo questa voltaalle opere antiche. Così si è raffinato il metodo delle indagini iconografiche eformali, ma al caro prezzo dell’abbandono di tutto il resto. Ricordo il di-sprezzo che il nostro sommo storico dell’arte e mio maestro, Bianchi Bandi-nelli, nutriva per l’antiquaria insensibile ai problemi della qualità artistica edello stile. Gli studi antiquari vennero pertanto abbandonati nell’età d’orodella storia dell’arte, salvo qualche solitaria eccezione.

Fra XIX e XX secolo si sono sviluppate – a partire dall’Europa setten-trionale, più incline all’industrialismo e al rigore – la cultura stratigrafica,inventata originariamente dai geologi, e quella indiziaria, ricavata dalla se-meiotica medica, metodi entrambi eminentemente scientifici trasportati nelcampo tradizionalmente umanistico dell’archeologia. Alla fine i metodi del-l’esattezza hanno raggiunto anche l’Italia, sommamente arretrata in questisaperi di origine non umanistica, a causa della cultura monumentalistico-retorica, rispondente alle necessità del nazionalismo e del fascismo.

A metà degli anni Sessanta del secolo scorso mi recai ad apprendere ilmetodo stratigrafico a Ventimiglia, dove Lamboglia – studioso alquanto iso-lato – teneva corsi di scavo, e in questo insediamento periferico scoprii quelche non avevo potuto conoscere a Roma: la consistenza e faccia degli strati diterra in cui si risolvono le infinite, ragionevoli e appassionate azioni umanedelle civiltà tramontate e sepolte tra la protostoria e l’alto medioevo, che è ilregno proprio dell’archeologia classica. Lì capii per la prima volta che se perredimere storicamente e scientificamente gli oggetti di interesse estetico erastata necessaria la cultura storico-artistica, per redimere il resto – paesaggi, co-struzioni e reperti – era necessaria la cultura stratigrafica e degli indizi.

La battaglia culturale che ha caratterizzato la mia gioventù è consistitanel tentativo di elevare la cultura stratigrafica e degli indizi in Italia, portan-dola a livello di quella britannica, che avevo conosciuto scavando negli anniSettanta a Cartagine e che mi era parsa eccellere sulle altre europee; non acaso nell’unica terra che era stata preservata da fascismo, nazismo e comuni-smo. La resistenza ai nuovi metodi degli studiosi legati ai metodi più nobili etradizionali derivati dall’Umanesimo – la filologia, la critica storica, la storiadell’arte – è stata considerevole. Ma i giovani che mi seguivano ed io abbia-mo proseguito la nostra opera, ascoltando le critiche e al tempo stesso imper-territi. Dopo le mie Storie dalla Terra, primo manuale dello scavo archeo-logico scritto da un italiano, edito nel 1981, e dopo l’edizione dello scavo

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Archeologia oggi

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della villa di Settefinestre presso Ansedonia (1985) – primo cantiere italo-bri-tannico in cui erano gli archeologi e non gli operai a scavare – l’ostracismo ècessato e si è aperta la stagione della tolleranza per le nuove metodologie ar-cheologiche. Dal pasticcio dell’antiquaria si era passati al dominio ordinatodell’universo materiale lasciato dagli uomini passati e dimenticati.

L’archeologo è mosso dal desiderio di risuscitare non solo grandi perso-nalità storiche e artistiche, ma la vita di ogni strato e ordine delle società anti-che. Gli archeologi sono, in fondo, i salvatori di costruzioni, oggetti e uominigià in vita, come i sacerdoti sono i salvatori delle anime: quale uomo non èdegno di redenzione? Solo che la religione dell’archeologo è tutta mondana:egli salva gli uomini morti per gli uomini vivi, non per l’aldilà. Gli storicidell’arte pensano invece soltanto ai grandi spiriti, agli oggetti di qualità: a co-loro nei quali la grazia, più che da scoprire, appare in tutto il suo fulgore. Ep-pure anche l’oggetto più umile è anche un simbolo, quindi un valore culturale,e può essere teneramente amato e ricordato. (Si veda a questo proposito F.Tuena, Le variazioni Reinach, Milano 2005, che è il risvolto commovente eattuale di una ricostruzione archeologica tradotta in letteratura).

È giunto poi anche il riconoscimento ufficiale del nostro lavoro, che haportato a un diverso modo di catalogare strati e oggetti in serie, adottato dalMinistero per i Beni Culturali, grazie all’opera illuminata di una funzionariaarcheologa, Franca Badoni; figura di cui nel Ministero attuale, pur dotato diun settore tecnologico, non v’è traccia. Non è certo più l’Istituto centrale peril Restauro né quello per il Catalogo a poter risolvere i problemi metodologi-ci e tecnologici attuali. Servirebbe un Istituto centrale per l’euristica archeo-logica, tutto da creare ma che a nessuno viene in mente di ideare, riguardantegli interventi archeologici nel terreno e sui monumenti. Ciò imporrebbe unaricognizione di tutti gli sviluppi metodologici e tecnologici sviluppatisi ulti-mamente nelle università italiane e straniere, il che mai avverrà, e questa nonè certo l’ultima ragione della profonda decadenza del suddetto Ministero,sempre più isolato dalla società, burocratizzato e meno competente.

Gli sviluppi tecnologici più rilevanti dell’ultima generazione hanno ri-guardato le indagini non distruttive del suolo – esistono ormai strumenti checonsentono di mettere in pianta intere città senza bisogno di scavarle – e lericognizioni sul territorio – ormai sofisticate quanto le indagini stratigrafi-che. Le ricognizioni stanno allo scavo come la clinica alla chirurgia. È inquesto settore che si riscontrano in Italia resistenze e ritardi. Per poter rico-struire un paesaggio rurale o urbano servono non più le vetuste carte archeo-logiche dei monumenti emergenti dal terreno, per solidità di costruzione e

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fortunata sorte, quanto le raccolte di ogni indizio che possa rivelare insedia-menti sepolti: villaggi, fattorie, ville e città. Un antichissimo centro del La-zio, Crustumerium, emerge dal terreno soltanto nella forma di frammenti ce-ramici sparsi entro una area determinata e delimitabile. Per questa archeolo-gia clinica occorrono procedure prestabilite, come per lo scavo stratigrafico,ed invece in questo campo tutti fanno a modo loro – ora eccellente ora arre-trato – con risultati fra loro non comparabili, né il Ministero minimamente sicura di questo disordine, pur spettando a lui la funzione normativa e pur es-sendo i rilevamenti dei paesaggi il dato più prezioso su cui possano basarsi lericerche archeologiche e le azioni di programmazione territoriale e di tutela.Si pensi che la carta archeologica di Roma attualmente disponibile – la For-ma Urbis di Lanciani – risale al 1901: quale incredibile e colpevole ritardo,nonostante gli strumenti informatici di cui oggi si dispone.

La mania per l’esame ravvicinato ed estetico delle cose scoraggia oggile raccolte di architetture e manufatti, che l’Ottocento – il secolo dei corpora –sapeva apprezzare, perché allora era chiaro che la comprensione del mondopoteva avvenire soltanto dominando in modo ordinato l’immane congerie deiprodotti umani e non solo una loro selezione. Allora si lavorava con gli sche-dari; oggi abbiamo le banche dati alfanumeriche e grafiche raccordate da unGeographic Information System (GIS). Ad esempio, non è più il caso di stu-diare le statue avulse dal loro contesto, ma neppure ha senso raccogliere leprovenienze delle statue per tipologie di costruzioni o per aree particolaridella città, dovendosi attuare questo lavoro per tutta Roma, poiché solo dopoquesta ricerca sistematica si potranno identificare problemi e contesti di par-ticolare interesse. Questa pazienza nel far emergere la problematica dai GIS,che sono i corpora dei nostri giorni, è rara in questi tempi, che ancora prefe-riscono lo studio ravvicinato di questa architettura o di quel piccolo gruppodi opere. La cultura storico-artistica ha fretta, si precipita sulla qualità, evi-tando il vasto e complicato humus da cui anche le opere d’arte sorgono. Ser-vono invece lente ed umili raccolte come scavi decennali o ventennali, rico-gnizioni che durano porzioni di vita, raccolte tipologiche, edizioni, banchedati capaci di ricostruire le matrici complessive della vita in una determinatacittà, in un territorio particolare. Bando dunque al puntillismo e si torni fi-nalmente alla grande erudizione ottocentesca nella veste informatica.

Ciò è tanto vero che a Roma esistono meravigliosi musei di singoli og-getti, soprattutto sculture, ma non esiste un museo della città, capace di illu-strare vie e strade, acquedotti, fogne, rioni o regioni, isolati, piazze, comples-si e singoli monumenti – ora le chiamiamo “unità topografiche” – nelle di-verse fasi di sviluppo e decadenza e nelle strutture, con decorazioni e rive-

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Archeologia oggi

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stimenti architettonici, opere d’arte, iscrizioni e fonti letterarie (si veda il pro-getto chiamato Imago urbis che attrae oggi tutto il nostro interesse). Se unovolesse capire il Foro Romano o il Palatino – per non dire degli altri monti diRoma – non vi è luogo in cui recarsi per comprenderli nel loro archivio mo-numentale stratificato, il che rappresenta – per la città delle città – una immanestortura. Inoltre il Palatino e il Foro mancano di didascalie; queste dovrebberoconsistere in un numero di identità che dovrebbe rimandare a piante, guide,palmari e al museo virtuale della città e del suburbio Imago urbis.

Dunque il viaggio verso l’antico deve cominciare di lontano, come neiromanzi e films, che partono dalla visione di una città a volo di uccello, perpoi calarsi gradualmente verso un quartiere, una casa, una finestra, un uomoin una stanza. Così in archeologia si parte dalla ricognizione, si scende alloscavo e da questo alle fasi di un monumento, e da queste alle attività e unitàstratigrafiche, fino ai singoli reperti in esse contenuti, in un continuum dalgenerale al particolare, dal contesto all’opera singola, mai distolta dalla retedi relazioni ch’essa intrattiene con il resto del mondo, e ciò è reso oggi pos-sibile dall’informatica. Si pensi a Paolina Borghese nel marmo di Canova, alletto ligneo semovente su cui giace, al pavimento su cui posa, alle pareti e alsoffitto che la circondano e coprono, all’appartamento della Villa Borghese,considerato in relazione agli altri piani e parti dell’edificio, la cucina, l’orto eil giardino nelle sue articolazioni considerate in relazione sia al centro urba-no che al suburbio, e così via in un andirivieni che non ha fine. I botanici siinteressano a rose e a erbacce, gli zoologi a leoni e a insetti, gli archeologi alsistema globale dei mondi passati in relazione a quanto sappiamo dalle fontilinguistiche dei gruppi sociali e dei singoli.

Per ciascun livello di indagine – per le ricognizioni e per lo scavo – eper ciascuna tipologia di oggetti – monete, iscrizioni, iconografie etc. – ser-vono diversi metodi appropriati, che sono le filologie delle costruzioni edelle cose. Le filologie della tradizione umanistica non devono essere trala-sciate a vantaggio dei metodi nuovi riguardanti le ricerche sul campo e glioggetti in serie. Non è questione di sovvertire le gerarchie delle procedure,sostituendo la stratigrafia alla storia dell’arte, ma della consapevolezza delsistema interrelato dei metodi, che trovano il loro fine culturale solamente senon isolati, non importa se singolarmente o a gruppi, e sempre riproposti inuna competizione che veda cultura umanistica e cultura scientifica coope-ranti anziché in lotta fra loro. Se il fine ultimo è la storia, non vi è ragione diisolare dal resto dei metodi quelli topografici, stratigrafici, tipologici, ar-cheometrici e naturalistici. I fronti metodologici contrapposti vanno dissoltiinvece che proposti, se il fine ultimo della ricerca sta nel portare a sintesi i

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Andrea Carandini18

reperti, per ritrovare le combinazioni vitali dei diversi passati, servendosi dipunti di vista attuali, sempre più sofisticati. Varrone, il maggior conoscitoreantico di Roma, non si sarebbe mai sognato di fare la tipologia delle tecnicheedilizie dei Romani, né di scavare per strati il suolo della città. Noi invecetutto ciò facciamo, al prezzo di non essere Varrone, di essere cioè noi stessi.

La storia consiste dunque nel concistoro delle filologie e dei metodi, tut-ti piegati al fine supremo di ricostruire la memoria e di narrarla resuscitandoil passato al presente e ripensandolo dalla sua prospettiva. Quando filologie emetodi si scindono fra loro o si pongono come autonomi si ha la riduzionedella storia – nel nostro caso della storia archeologica – a questa o quellaprocedura, il che implica la riduzione della storia alla tecnica o a un insiemedi tecniche, così che la tecnica da mezzo diventa il fine. Ciò comporta chedobbiamo continuamente combinare critiche e procedure fra loro, mai stan-candoci di subordinarle al fine del racconto. Le tecniche al di fuori dei tempi,degli spazi e degli uomini specifici a cui ci rivolgiamo, per ritrovarli e rap-presentarli, sono schemi tanto perfezionati quanto sterili. Se dunque abbiamobisogno di un luogo mentale solo in cui riunificare tecniche e racconto, il fi-ne della storia deve essere il luogo della narrazione e non quello delle meto-dologie, per quanto universali esse possano apparire. È dunque nella storia enell’archeologia del mondo antico che devono trovar posto problemi storici,metodi e soluzioni proposte per quei problemi. Separare i metodi fra loro edalle diverse porzioni della storia non fa che facilitare la tendenza a dare ilprimato alla tecnica, dea suprema del nostro tempo, più potente ancora deldenaro. Molti paladini delle tecniche in sé concepite non si rendono conto diquesta deriva, ma la deriva c’è, e va al più presto contrastata, se possibile ar-restata.

Ho dedicato la mia vita alle metodologie della ricerca archeologica.Sento oggi la responsabilità di riparare a un radicalismo tecnico, che se ave-va una giustificazione e un senso in tempi di serrata reazionaria delle vecchiefilologie, nel clima attuale di tolleranza che siamo riusciti a instaurare oggi liha persi e rischia di diventare un errore. Scienze umanistiche dunque, oumanesimo scientifico; non filologie umanistiche tradizionali abbracciatealla storia e metodi dell’archeologia sul campo separate, come se il progres-so storico-scientifico consistesse unicamente in questi ultimi e non anchenelle prime che le hanno precedute e che devono continuare ad essere colti-vate pur in un più ampio contesto problematico e metodologico1.

1 . A. Carandini, Le archeologie e il metodo, in «Workshop di Archeologia Classica», 2(2005), c.s.

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L’archeologia medievale applica la metodologia e la tecnica della ricer-ca archeologica allo studio del periodo che, nel mondo europeo e occidenta-le, convenzionalmente ha inizio con la caduta dell’Impero Romano d’Occi-dente (a. 476) e termina alla fine del secolo XV con la scoperta dell’America(a. 1492). Si ritiene anche che l’aggettivo “medievale”, accogliendo istanzeeuropee, vada inteso nella qualifica di “post-classica”, nel senso di disciplinarelativa al recupero, all’interpretazione e all’inquadramento storico di inse-diamenti e di manufatti posteriori all’età classica (Redazione di ArcheologiaMedievale, I, 1974).

In Italia il riconoscimento di un tale ambito di ricerca ha mosso i primipassi a partire dagli anni Sessanta, ricevendo una prima convalida dalla inno-vativa interpretazione del concetto di bene archeologico insita nell’indaginecondotta dalla Commissione parlamentare Franceschini pubblicata nella re-lazione Per la salvezza dei Beni Culturali in Italia. Atti e documenti dellacommissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio sto-rico archeologico artistico e del paesaggio (1967). Ivi, collegando il benearcheologico non ad un dato periodo cronologico, bensì alle caratteristichedella sua sopravvivenza come resto materiale del passato (sia in giacimentinel sottosuolo, sia come rudere) e al metodo di ricerca che aveva condottoalla sua acquisizione (lo scavo), di fatto venivano legalizzati i concetti di ar-cheologia medievale e anche di archeologia industriale. Non solo, ma nelprimo volume (pp. 108 ss. e 309 ss.) si proponeva l’istituzione di una o piùSoprintendenze ai Beni medievali e conseguentemente quella di Soprinten-denti, Direttori di museo e Ispettori medievisti.

Nel medesimo anno 1967 si apriva a Roma il Museo dell’Alto Medioe-vo, istituito già nel 1955 e allora con una riconosciuta lungimiranza scienti-fica poiché impostato secondo un piano programmatico di natura prettamen-te archeologica, un museo nazionale rispondente alla filosofia espositiva di

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quegli anni e che oggi, a cinquant’anni di distanza, andrebbe forse rivisto al-la luce delle più recenti teorie della museografia moderna.

Ancora nell’anno accademico 1966-1967 si attivava il primo insegna-mento di archeologia medievale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuo-re di Milano, seguito negli anni immediatamente successivi dalle Università“La Sapienza” di Roma (1969-1970), di Genova (1971-1972), di Torino(1971-1972), di Pisa (due insegnamenti distinti, di archeologia medievalecon particolare attenzione all’archeologia dei popoli germanici (1973-1974)e di archeologia e topografia medievale (1975-1976), di Bologna (1974-1975), di Bari (1974-1975), di Siena (1974-1975) e di Salerno con un inse-gnamento di Antichità medievali (1971-1972) benemerito per aver dato vitanella medesima Università al Centro per l’Archeologia Medievale. Oggi gliinsegnamenti attivati (tra prima e seconda fascia, affidamenti e contratti) rag-giungono con alterne vicende poco più delle trenta unità.

Sin dagli inizi degli anni Settanta erano così accolte le istanze degli stu-diosi che componevano il Consiglio Direttivo del Centro italiano di studi sul-l’alto medioevo con sede a Spoleto, ove ogni anno, a partire dal 1952, nelleSettimane di studio era ribadita l’importanza e la quantità delle informazioniche si potevano ottenere da fonti non scritte, quali quelle archeologiche e daidati materiali, rilevando come le prime fossero assolutamente insufficientiper ricostruire un quadro esaustivo, in particolare dei secoli che, pur nelladifficoltà di una periodizzazione fra tardo antico e alto medioevo (Sestan1962), sono raccolti nell’arco cronologico dal VI all’XI.

Già nel 1958, in occasione della VI Settimana di studio dedicata a Lacittà nell’alto medioevo, Gian Piero Bognetti richiamava l’attenzione sul-l’affacciarsi della disciplina archeologica per il medioevo con il metododello scavo stratigrafico a due congressi internazionali, quelli di Parigi e diMaastricht, svoltisi contemporaneamente nel 1957, ove aveva ricevuto unaopposta accoglienza, di entusiasmo nel primo, ma di scetticismo nel secon-do, e da storico ne ribadiva la necessità nello studio della città “di pietra”della definizione isidoriana, e a tale metodo rivendicava «la possibilità ditutta una nuova sistemazione scientifica». E Roberto S. Lopez nel suo epi-logo ai lavori della Settimana sottolineava la necessità nel fare storia urba-na di cominciare dalle fondamenta: «abbiamo bisogno di sapere per ciascu-na città, nei limiti del possibile, l’area occupata in ogni momento della suastoria e, se ci si riesce, il numero e la forma delle case, delle stanze, deglispazi vuoti. Abbiamo bisogno di scavare…» proponendo addirittura unpiano concordato in campo internazionale, ma metteva anche sull’avvisoche «non i sassi, ma gli uomini» fanno la città, richiamando ancora Isidoro

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di Siviglia, e quindi che anche per il grado di popolamento è necessaria unamedesima inchiesta programmata.

Qualche anno dopo al termine della tredicesima settimana di studi dedi-cata a Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’alto medioevo, fu uffi-cialmente espresso un voto per l’insegnamento di archeologia medievale chenella formulazione riflette con chiarezza la piena consapevolezza della lacu-na esistente in Italia sia sul piano della ricerca che su quello della didattica.Negli Atti della Settimana si legge: «Il Centro italiano di studi sull’alto me-dioevo e i partecipanti alla XIII Settimana internazionale di studi, svoltasi aSpoleto dal 22 al 28 aprile 1965, udite le lezioni dei proff. Duby e Lemari-gnier, nelle quali si è ripetutamente lamentata l’assenza o la scarsità di do-cumentazione archeologica, riferendosi in proposito anche alle opinioni diillustri studiosi non presenti; le lezioni dei proff. Cagiano de Azevedo edHensel e del generale Schmiedt, le prime documentanti l’abbondanza di ma-teriale archeologico potenziale anche per il solo aspetto del tema propostoalla Settimana, l’ultima precisando l’apporto di una nuova tecnica aerofoto-grafica e della sua metodologia di interpretazione in relazione ai dati ar-cheologici, fanno voto che nelle Università si inseriscano gli insegnamenti diarcheologia, di antichità, di topografia, di epigrafia medievali, con autono-mia individuale o raggruppati per affinità, in analogia con quanto avvienenel settore degli studi di antichità classica». George Duby aveva svolto la sualezione su Le problème des techniques agricoles, Jean-Fraçois Lemarigniersu Quelques remarques sur l’organisation ecclésiastiques de la Gaule du VIIe

à la fin du XIe siècle principalement au Nord de la Loire, Michelangelo Ca-giano De Azevedo su Ville rustiche tardoantiche e istallazioni agricole al-tomedievali e Giulio Schmiedt sul Contributo della foto-interpretazione allaricostruzione del paesaggio agrario altomedievale: tutti temi per lo svol-gimento dei quali i relatori avevano lamentato la scarsità delle fonti archeo-logiche anche nei territori d’oltralpe. Infine Witold Hensel intervenendo suPerspectives de la recherche archéologique sur le milieu rural en Europeoccidentale du haut moyen âge riconosceva che «les sources archéologiquescommencent à jouer pour nous le rôle des sources historiques de plus en plusprécieuses» e concludeva affermando «permettez-moi de constater qu’uneexploitation grandissante des succès obtenus dans la domaine de l’archéolo-gie nous autorise à espérer fermement de pouvoir obtenir dans l’avenir uneimage de la campagne européenne du Haut Moyen Âge beaucoup plus netteet précise que celle dont nous disposons aujourd’hui». Al voto si univa inol-tre l’auspicio di una piena collaborazione fra medievisti, storici dell’antichitàe archeologi.

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Alle voci degli studiosi che partecipavano annualmente agli appunta-menti spoletini si unirono negli anni Settanta le iniziative degli istituti cultu-rali stranieri, dalla British School at Rome all’École française de Rome, cheinsieme ad istituzioni italiane promossero convegni e giornate di studio par-tecipando attivamente al dibattito scientifico ormai attivato e iniziarono ri-cerche archeologiche in siti medievali.

Infatti pietre miliari di questo nuovo indirizzo di studio per l’Italia sonostati nel 1972 (1-2 luglio) il Convegno di studio a Scarperia, nel 1974 (20-22settembre), il Colloquio internazionale di archeologia medievale, e a pochimesi di distanza nel 1975 (11-13 marzo) la Tavola Rotonda sulla archeologiamedievale. Il primo edito nel volume Archeologia e geografia del popola-mento (Quaderni Storici, 24), rappresenta per la nuova disciplina il momentoiniziale di discussione sul piano teorico e metodologico; il secondo volutodall’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo, dall’Istituto di storiamedievale dell’Università di Palermo e dall’École française de Rome si pro-poneva di «verificare, in sede internazionale, i risultati conseguiti in quelcampo di indagine, nonché valutare le ipotesi di sviluppo delle ricerche edella collaborazione»; la terza promossa dall’Istituto nazionale di archeolo-gia e storia dell’arte (allora diretto da Michelangelo Cagiano De Azevedo),dall’École française de Rome e dalla British School at Rome diede luogo adun ampio e costruttivo dibattito segnando di fatto l’avvenuta nascita dell’ar-cheologia medievale in Italia.

La collaborazione auspicata nel Convegno di Palermo era stata attivatacon successo in Sicilia con gli scavi italo-francesi a Brucato e a Gangivec-chio (inizio 1972) e in Campania con gli scavi italo-polacchi a Capaccio (ini-zio 1973), progetti del resto preceduti dalle indagini archeologiche a Torcel-lo e a Castelseprio negli anni 1961 e 1962, promosse da Gian Piero Bognetti,il «grande uomo e studioso, pioniere dell’archeologia medievale del mondomediterraneo», come volle chiamarlo Lech Leciejewicz nel pubblicarne iprimi risultati; ancora una missione italo-polacca, ove per conto dell’Istitutoper la Storia della Società e dello Stato Veneziano della Fondazione GiorgioCini gli scavi furono attuati dagli archeologi dell’Istituto di Storia della Cul-tura Materiale dell’Accademia Polacca delle Scienze di Varsavia segnandodi fatto l’inizio della ricerca archeologica sul campo per il medioevo in Italia.

Nel 1971 nacque il Notiziario di Archeologia Medievale, ospitato e fi-nanziato dall’Istituto di Paleografia e Storia Medievale dell’Università diGenova sino al 1974 e in seguito dal Centro Ligure per la Storia della Cera-mica. Notiziario che inizialmente rappresentò l’unica voce ufficiale della ri-cerca italiana volta all’archeologia post-classica, una ricerca attiva e in rapi-

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da affermazione. Ulteriori punti di riferimento per la ricerca archeologicavolta all’età medievale sono stati anche il Centro per il collegamento deglistudi medievali e umanistici, fondato presso l’Università di Perugia da Clau-dio Leonardi con annuali incontri di studio sull’archeologia medievale e aFirenze il Centro per lo studio delle civiltà barbariche in Italia, sorto per vo-lontà di Carlo Alberto Mastrelli, promotore dell’iniziativa accolta da StudiMedievali, rivista ufficiale del Centro italiano di studi sull’alto medioevo(ora Fondazione CISAM), con la pubblicazione delle Schede di Archeologialongobarda, ora Schede di Archeologia altomedievale.

È pur vero che nel dibattito scientifico quasi assenti sono state le vocidegli archeologi classici: infatti se si eccettua il passaggio al nuovo insegna-mento di Cagiano De Azevedo all’Università Cattolica del Sacro Cuore diMilano, l’apporto di Massimo Pallottino alla definizione di bene archeologi-co insita nella Relazione Franceschini sopra ricordata, il costruttivo saggio diNicola Bonacasa al Colloquio internazionale di Palermo, nella medesima se-de la voce del soprintendente Vincenzo Tusa e l’intervento di FrancescoD’Andria alla Tavola Rotonda romana, è mancato un costruttivo appoggio ache gli studi di archeologia si estendessero oltre quel limite segnato al ponti-ficato di Gregorio Magno (595-604) negli statuti dell’insegnamento di ar-cheologia cristiana.

Chiara e decisa pertanto la richiesta da parte degli storici di insegna-menti ufficiali di archeologia medievale, anche se inizialmente riconosciutacome scienza ausiliaria della storia. Non è infatti casuale che nella maggio-ranza dei casi furono gli istituti di storia ad attivare nelle Università i primiinsegnamenti di archeologia medievale e che, come si è visto, la prima attua-zione statale si ebbe alla “Sapienza” di Roma (a.a. 1969-1970) con un inse-gnamento di archeologia e topografia medievale, voluto e appoggiato nellaFacoltà di Lettere e Filosofia da Raoul Manselli e da Arsenio Frugoni.

Nel mese di ottobre del 1974 usciva il primo numero della rivista Ar-cheologia Medievale, diretta da Riccardo Francovich, con un sottotitolo,«Cultura materiale insediamenti territorio» che ne sigilla finalità e limiti,come illustrato nella Nota redazionale e aperto alla discussione nell’Edito-riale del 2° numero nel 1975.

Non vi è dubbio che l’archeologia medievale abbia avuto sin dal suo ini-zio un carattere segnatamente storico e abbia risentito positivamente del cli-ma culturale venutosi a creare negli anni Settanta a seguito del dibattito sto-riografico sviluppatosi nell’ambito dell’archeologia classica, tra i sostenitoridella “cultura materiale” e coloro che assegnavano ancora un ruolo premi-nente all’analisi storico-artistica. Affiancatasi decisamente ai primi la nuova

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disciplina ha rivendicato innanzitutto un ruolo autonomo e distaccato dallastoria dell’arte medievale e dalla storia dell’architettura, per finalità e meto-do di ricerca, anche se, a volte, interessata ai medesimi campi di studio.

Nell’Università “La Sapienza” di Roma l’insegnamento di ArcheologiaMedievale compie con l’anno accademico presente il trentacinquesimo annodi attività didattica e di ricerca, affiancato sin dall’anno accademico 1994-1995 dall’insegnamento di Topografia Medievale, reso autonomo dopo esse-re stato collegato nella medesima intitolazione a quello di archeologia. I dueinsegnamenti, ricoperti con cattedre rispettivamente di prima e di secondafascia sono confluiti, al momento della divisione della Facoltà di Lettere eFilosofia (febbraio 2002) nella Facoltà di Scienze Umanistiche ove tuttorasono attivati.

Per più di un decennio l’insegnamento di Archeologia e Topografia Me-dievale, tenuto da Isa Belli Barsali ha privilegiato temi didattici e temi di ri-cerca legati alla topografia degli insediamenti urbani, sia per centri maggioriche minori, alla topografia del territorio, alle tecniche edilizie, artistiche eartigianali. La studiosa già nel suo intervento alla Tavola Rotonda del 1975,aveva richiamato l’attenzione sulla necessità preliminare anche ad ogni in-tervento di scavo, di registrare quanto oggi esiste, sia nel campo delle fontitestuali, come in quello degli assetti urbani medievali ancora sopravvissuti.Rimane a testimonianza del grande lavoro svolto, pur nelle evidenti diffi-coltà di ogni inizio, il volume su Lazio Medievale. 33 abitati delle antichediocesi di Alatri, Anagni, Ferentino, Veroli (Roma 1980), che costituisce an-cor oggi un prezioso punto di riferimento non superato nella sua globalità.

Nell’anno accademico 1982-1983, essendo passata Isa Belli Barsaliall’Università di Cassino, come vincitrice del concorso per ordinario di Sto-ria dell’Arte ivi bandito, l’insegnamento fu assunto da chi scrive, e allargatoanche all’allora Scuola Nazionale di Archeologia. Da quel momento l’ar-cheologia medievale della “Sapienza” fu caratterizzata da iniziative di inda-gine archeologica sul campo.

Nell’articolazione triennale in cui gli allievi che desideravano svolgereil loro lavoro di laurea nella disciplina archeologica medievale erano impe-gnati, parve opportuno affiancare ai corsi istituzionali e monografici alcuniseminari su taluni settori fondamentali nella metodologia della ricerca ar-cheologica e su particolari tematiche legate più strettamente alla città che ac-coglie la sede universitaria.

La Roma medievale fu dunque il campo privilegiato delle nostre ricerche.Gli allievi della seconda annualità poterono acquisire una conoscenza

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delle produzioni ceramiche post-classiche attraverso il contatto diretto con imateriali provenienti dagli scavi di via della Consolazione, nei seminari orga-nizzati e condotti da Gabriella Maetzke. Nel medesimo tempo, con il coordi-namento e la guida di Elisabetta De Minicis affrontarono l’analisi e lo studiodelle strutture murarie di taluni complessi edilizi. Infine gli allievi della terzaannualità furono impegnati in un seminario coordinato da chi scrive, prenden-do in esame le strutture di fortificazione a Roma e nel territorio laziale, ini-ziando, come ricerca campione, dal censimento di quelle in qualche misuraconnesse al controllo del Tevere nel suo percorso urbano e suburbano.

L’approccio diretto al monumento contestualizzato in una più ampiaprospezione archeologica per una ricostruzione globale di volta in voltadell’assetto urbano e del territorio, quali la preliminare esegesi delle fonti te-stuali aveva consentito appena di intravedere, portò al raggiungimento di ac-quisizioni di notevole interesse. Di qui l’iniziativa di rendere noti, opportu-namente vagliati, alcuni lavori degli allievi universitari e degli specializzandiche avevano partecipato ai seminari suddetti, nel duplice intento di presenta-re i risultati dell’applicazione del metodo stratigrafico nello studio delle tec-niche costruttive e di offrire agli studenti dei corsi universitari di Archeolo-gia Medievale dei primi strumenti di lavoro.

Nel 1988 ha visto la luce il volume Archeologia del medioevo a Roma.1. Edilizia storica e territorio, che raccoglie gli esiti dell’attività didattica edi ricerca portate avanti dalla cattedra negli anni dal 1982 al 1986.

Nel 1980 era iniziato il grande progetto di scavo del Foro Romano e la di-rezione delle indagini archeologiche era stata affidata dalla Soprintendenza aiBeni Archeologici di Roma a Grabriella Maetzke, in quel momento ispettricemedievista del medesimo istituto, ma dall’anno successivo ricercatore pressola cattedra di Archeologia Medievale della “Sapienza” e di conseguenza ilcantiere archeologico del Foro divenne di fatto un cantiere didattico d’eccel-lenza, nel quale diecine e diecine di allievi hanno potuto acquisire la loro pri-ma formazione secondo le più moderne tecniche e metodologie di scavo, non-ché partecipare a seminari sulle produzioni ceramiche che si svolgevano sia incantiere che nei ridotti spazi messi a disposizione dall’Istituto di Storia medie-vale che in quegli anni ancora ospitava l’insegnamento archeologico.

Non sfugge la portata eccezionale del progetto che in prima istanza haconsentito di «riacquistare l’intera visuale dei monumenti a Nord del ClivoCapitolino: il tempio della Concordia, il tempio di Vespasiano e Tito, il Por-tico degli Dei Consenti, liberati dall’ingombro costituito dalla strada cheparzialmente li nascondeva e si è aperta inoltre la possibilità di un loro rie-same integrale insieme con quella parte del Clivo stesso, già messa in luce

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con gli scavi ottocenteschi. Non solo, ma l’area retrostante il tempio di Sa-turno, compresa tra il vico Iugario ed il Clivo Capitolino, costituendo l’unicaarea del Foro non interessata dalle esplorazioni ottocentesche, con le suestrutture abitative rimaste in uso sino al 1940, e pertanto con una continuitàdi vita dall’età romana ai nostri giorni, ha rappresentato un campo di osser-vazione eccezionale e un’occasione unica per analizzare una stratificazioneprodotta da un processo insediativo continuo.

Per la prima volta in uno scavo in area urbana a Roma era applicato ilmetodo stratigrafico (un anno dopo nel 1981 partiva anche il progetto di scavodella Crypta Balbi) in un’area urbana poi di primaria rilevanza, come centropolitico della città antica e per la prima volta era possibile osservare alcuni fe-nomeni legati all’insediamento urbano che la Maetzke ha individuato, adesempio, «nel rapporto che ebbero le epoche successive con la città antica, unrapporto che fu insieme di continuità e di mutamento, di riutilizzo e di distru-zione, nell’apporto dei fattori naturali ed antropici nell’accrescimento dei li-velli di frequentazione, ed ancora nella formazione degli imponenti interri chedividono la città romana da quella attuale e nella trasformazione delle situa-zioni ambientali dello spazio urbano, ed infine nelle persistenze e nel cambia-mento d’uso delle strutture e dell’area legati alle caratteristiche socio-econo-miche dei gruppi successivamente insediati ai bordi di quello che fu, nella cittàclassica, uno dei fulcri civili e religiosi «(Maetzke 1991).

Un secondo cantiere didattico che ha visto la partecipazione di alcunediecina di allievi dell’Università romana, era stato attuato in Sardegna in lo-calità Columbaris nel comune di Cuglieri (OR), ove dal 1976, su affida-mento della Soprintendenza ai Beni Archeologici di Cagliari, chi scrive,dapprima in condirezione con Pasquale Testini titolare della cattedra di Ar-cheologia Cristiana della “Sapienza” e poi in direzione, ha condotto annual-mente campagne di scavo che hanno portato alla rimessa in luce del com-plesso episcopale dell’antica città punica e romana di Cornus, unico esempioin Italia sul piano archeologico di un’insula episcopalis completa nelle suestrutture, con la chiesa vescovile, il battistero, la basilica funeraria, l’areacimiteriale sub divo, il palazzo episcopale, gli impianti artigianali, un com-plesso rimasto in vita dal IV almeno all’VIII secolo. In particolare il ritro-vamento nell’area funeraria di mensae per lo svolgimento del rito del refri-gerium, con ricchi depositi di vasellame, di offerte monetali e di avanzi dipasto ha consentito per la prima volta di rileggere sul piano storico la naturadel rito stesso, ritenuto precedentemente in prevalenza simbolico poiché piùvolte vietato dall’autorità ecclesiastica, e di riconoscergli al contrario la pie-na attuazione sul piano materiale, come oggi concordemente accettato.

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Ancora in Sardegna agli inizi degli anni Ottanta partiva il progetto di sca-vo nell’area del santuario martiriale di S. Saturno a Cagliari: le indagini ar-cheologiche, con la partecipazione degli allievi della cattedra, hanno portatoalla scoperta della chiesa più antica, consentendo inoltre di leggere e ricostrui-re per la prima volta, su documentazione stratigrafica, le dinamiche insediativedi quell’area del suburbio cagliaritano dall’età repubblicana al medioevo. Cir-ca un decennio dopo, su incarico della Soprintendenza per i Beni Archeologicidi Sassari, la nostra équipe iniziava le indagini nell’area della basilica di S.Gavino a Porto Torres (SS), con l’apertura di un cantiere che si è protratto peroltre dieci anni e che ha consentito la conoscenza delle fasi dell’insediamentocimiteriale e cultuale precedente alla costruzione dell’attuale chiesa romanica.

Quattro cantieri di archeologia urbana, relativi a città a continuità di vita,secondo un indirizzo di ricerca che dai primi anni Ottanta ha caratterizzatol’insegnamento della “Sapienza”, quattro cantieri che di fatto per oltre un de-cennio hanno consentito una vasta attività didattica per gli allievi dell’insegna-mento romano, anche quando, a seguito del trasferimento di chi scrive all’Uni-versità di Cagliari, come vincitore nel primo concorso a cattedre di prima fa-scia, l’insegnamento della “Sapienza”, quantunque vi fosse stata la piena di-sponibilità a mantenerlo a supplenza, per un malaugurato disguido, fu spento.La vacanza nella copertura della cattedra dall’anno accademico 1987-1988all’anno accademico 1992-1993 non significò la chiusura di ogni attività: ri-mase ancora legato alla mia persona lo svolgimento delle numerose tesi di lau-rea già assegnate e sul piano della ricerca la partecipazione a cantieri archeo-logici fu assicurata da Gabriella Maetzke e da Elisabetta De Minicis. È di que-gli anni infatti l’inizio della collaborazione con l’École française de Rome neicantieri archeologici aperti in alcuni castelli della Sabina con l’apporto dellaDe Minicis per lo studio delle strutture murarie.

Nell’anno accademico 1992-1993 la cattedra, allora ancora intitolataArcheologia e Topografia Medievale, era di nuovo ricoperta da chi scrive eafferendo al Dipartimento di scienze storiche, archeologiche e antropologi-che dell’antichità trovava finalmente il suo giusto posto nel settore deglistudi archeologici.

Sin dall’anno accademico 1990-1991 aveva preso l’avvio il dottorato diricerca in «Archeologia e Antichità post-classiche», promosso da PasqualeTestini, prematuramente scomparso prima che il dottorato stesso avesse ri-cevuto la dovuta approvazione ministeriale. Il coordinamento dei corsi fupertanto affidato alla mia persona e al dottorato parteciparono, sino alla nuo-va normativa, per i primi due anni l’Università di Cagliari, quindi le Univer-sità di Bari, di Torino, poi di Vercelli, di Chieti, di Roma “Tor Vergata”.

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Nei medesimi anni, con l’applicazione del nuovo Statuto, la Scuola Na-zionale di Archeologia assumeva l’intitolazione di Scuola di Perfeziona-mento in Archeologia e quindi di I Scuola di Specializzazione in Archeolo-gia, e in essa accanto all’indirizzo preistorico e all’indirizzo classico eraistituito l’indirizzo medievale. Merita di essere ricordato che gli undici ido-nei al concorso nazionale per ispettori medievisti, bandito dal Ministero per iBeni e le Attività Culturali ed espletato nel 1999, avevano tutti ottenuto ildiploma in tale indirizzo.

Con la riattivazione dell’insegnamento venivano ad essere ripresi pro-getti e iniziative che avevano subito un forzato rallentamento e si riallaccia-vano collaborazioni scientifiche, che quantunque mai interrotte sul pianopersonale, avevano dovuto inevitabilmente segnare il passo.

Non è casuale infatti che immediatamente si pose mano ad un grande eambizioso progetto, quello di scavare la città di Leopoli, oggetto di attenzio-ne già negli anni del precedente insegnamento romano. Veniva così avviatauna ulteriore linea di ricerca, volta allo studio delle città di fondazione alto-medievale: la città infatti era stata fondata dal pontefice Leone IV (847-854)per dare rifugio agli abitanti della Centumcellae romana (od. Civitavecchia),minacciati dai continui sbarchi e saccheggi dei saraceni e consacrata il 15agosto dell’854. Il sito non era mai stato oggetto di indagini archeologicheanche se la sua situazione di insediamento urbano abbandonato come taleforse già dal XV secolo, ancora chiuso da cospicui resti della sua cinta mura-ria e privo di qualsivoglia superfetazione di età moderna, veniva a costituireun eccezionale deposito archeologico, una sorta di “Pompei del medioevo”,come abbiamo voluto definirlo.

Sotto la direzione dell’Università “La Sapienza” il progetto si è avvalsoper il settore archeologico della collaborazione dell’Università “G. D’Annun-zio” di Chieti (prof. Anna Maria Giuntella), dell’Università della Tuscia (VT)(inizialmente prof. Gabriella Maetzke, attualmente prof. Elisabetta De Minicis)e dell’École Française de Rome (prof. François Bougard) nonché, da quest’an-no accademico, dell’Università di Perugia (prof. Donatella Scortecci); per la di-rezione del cantiere e per gli interventi conservativi e di restauro e per le lineeprogettuali della fruizione del prof. arch. Giuseppe Claudio Infranca.

Come già enunciato nella pubblicazione della mostra allestita nel Museodell’Arte Classica (1996), le linee tematiche di ricerca programmate rendonoil progetto «Leopoli – Cancelle, una città di fondazione papale» (il primonome derivato dal pontefice fondatore, il secondo dal toponimo registrato nelSeicento), unico e di rilevante interesse scientifico per la storia del medioevoin Italia e possono riassumersi nei punti seguenti.

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È indubbio che la città si rivela come eccezionale “modello” sia per cono-scere i criteri urbanistici vigenti in età carolingia e ispiratori di una fondazionedi committenza aulica, sia per ricostruire l’impianto di un insediamento comu-nale che non ha subito superfetazioni. Per l’impianto viario è offerta l’occa-sione di stabilire quanto nella fase di fondazione sia ancora legato a schemi ditradizione romana e quanto invece rifletta nuove impostazioni urbanistiche,come pure è stato già possibile enucleare alcuni mutamenti di età comunale.

Largamente proficuo si è presentato lo studio delle strutture edilizie va-riamente diversificate sia sul piano tipologico che su quello funzionale: Ri-guardo gli edifici di culto di cui in almeno due casi, stante l’esplicita men-zione del Liber Pontificalis, ne conosciamo l’esistenza in età carolingia, leindagini del decennio hanno consentito di rimettere in luce i resti della gran-de chiesa, che riteniamo dedicata a san Pietro, nella sua facies romanica e cisi augura di poter presto acquisire i dati relativi alla fondazione leoniana e diconoscere l’intera insula episcopalis di età carolingia, di cui allo stato attualeabbiamo recuperato l’area funeraria e il battistero.

Per i secoli del pieno medioevo si conosce attraverso i documenti la pre-senza di almeno cinque chiese.

Circa l’ubicazione e la consistenza degli edifici sede dei rappresentantidel comune e dei castellani ricorrenti nella documentazione scritta, le rispo-ste sono venute dal quartiere centrale della città (settore V) in cui le indaginisono affidate all’Università di Chieti.

Per l’edilizia privata le strutture ancora in elevato insieme agli edifici emer-si con lo scavo consentono già di individuare tipologie diverse sia per la lorosuccessione nel tempo, sia per le funzioni espletate, in particolare degli ambientia pianterreno, gli unici oggi superstiti. In particolare nei settore II e III è statopossibile riconoscere grandi isolati composti da più edifici con molteplici fasi diristrutturazione: nel settore I si può parlare di una tipologia di case a schiera, conaccessi allineati su un medesimo fronte-strada e nel settore V è stata evidenziatatra l’altro la presenza di una casa-torre, come del resto nel settore II.

Nei complessi edilizi scavati la documentazione offerta dalle strutturemurarie consente di accertare una pluristratificazione nel medesimo sito conun momento di particolare attività nel secolo XIII e con maestranze di altolivello qualitativo che utilizzano conci di tufo ben squadrati e a spigolo vivoper costruire complessi abitativi elitari, come le case-torre dei settori I, II eV, utilizzando invece trachite proveniente dall’apertura di cave nei fianchidella stessa collina ove sorge la città per le altre cellule abitative.

Temi particolarmente importanti nello studio della città sono quelli relati-vi alle strutture di servizio: per l’organizzazione del rifornimento idrico è stato

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già in parte individuato, nella nostra ricerca preliminare allo scavo, il percorsoe le strutture di un tratto di acquedotto che consentiva la captazione delle ac-que da una sorgente posta su un colle prospiciente il sito della città stessa, cui sideve aggiungere la presenza di cisterne; per lo stoccaggio delle derrate alimen-tari nella casa del III settore un piccolo ambiente aveva funzione di granaio;circa lo scarico dei rifiuti alcuni “butti” sono stati individuati all’esterno del cir-cuito murario e saranno oggetto di indagine nelle prossime campagne di scavo.

Per quanto attiene la vita sociale ed economica sono già stati evidenziatitaluni aspetti relativi alle attività artigianali: al piano terra degli isolati del IIe III settore il recupero di scorie e di residui di materiale semilavorato insie-me ad una ingente quantità di prodotti finiti, attesta l’esistenza di impiantiper la lavorazione del metallo, venendo così a confermare la presenza deifabbri menzionati nei documenti.

Ricchissimo è a tutt’oggi l’apporto offerto dalla cultura materiale: tra iprodotti metallici si distinguono elementi per l’edilizia, manufatti di arredo,strumenti da lavoro specie agricolo, armi e parti di armature, finimenti, utensi-li, oggetti legati alla persona e indicatori del grado sociale, come ad esempio, ilsigillo con delfino in campo stellato. Circa le produzioni ceramiche le attesta-zioni riguardano nella maggior parte vasellame in uso nelle ultime fasi di vitadegli edifici, pur non mancando prodotti relativi al momento di fondazionedella città, come pure materiali che testimoniano una frequentazione del sito,sembrerebbe a carattere occasionale e come recetto agricolo, almeno sino alsecolo XVII. Buona parte dei materiali recuperati ben si inserisce nel quadrodelle produzioni degli altri centri dell’Alto Lazio, ma sono presenti anche pro-dotti importati da regioni più lontane, come la Campania, la Sicilia e altri paesidel bacino del Mediterraneo, a cominciare dalla Penisola Iberica, consentendocosì di riconoscere nella città un centro che si rivolgeva a mercati diversi.

I risultati di grande rilevanza e il potenziale di conoscenze ancora da ac-quisire hanno indotto la Regione Lazio, in accordo con la Direzione Regiona-le, ad assegnare a quest’ultima un finanziamento finalizzato alla stesura di unprogetto di conservazione, restauro, valorizzazione e fruizione dell’intera città,progetto da realizzare con auspicabili fondi europei. Tutti gli aspetti e i temi dicarattere archeologico sono stati naturalmente affidati all’Università “La Sa-pienza” e in particolare a chi scrive, riconoscendole la paternità dell’iniziativae l’impegno di spesa e di lavoro svolto in un decennio di indagine.

Dal 2001 un ulteriore tema di ricerca ha impegnato l’attività dell’inse-gnamento, quello dei grandi insediamenti monastici medievali, segnatamentei benedettini. Infatti con concessione ministeriale è stato aperto un altro can-tiere di scavo in Sardegna, presso l’abbazia di S. Maria di Tergu (SS), situata

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nel territorio dell’Anglona a nord-est dell’isola e dipendente dall’abbazia diMontecassino. Anche in questo caso si tratta di un cantiere didattico, checonsente per molti mesi ai nostri allievi del corso di studio di ottenere deicrediti formativi e a quelli della Scuola di specializzazione di svolgere lapratica richiesta. A Tergu da parte delle autorità religiose è stato messo a no-stra disposizione un intero piano di un grande edifico in cui, con il supportofinanziario dell’amministrazione comunale, abbiamo potuto istituire un labo-ratorio di archeologia medievale con attività archeometrica, di rilevamento,di studio paleobotanico e archeozologico, nonché di informatizzazione e diricostruzione virtuale degli ambienti monastici via via rimessi in luce dagliscavi. Il cospicuo finanziamento regionale per l’anno accademico in corso,consentirà di raggiungere la conoscenza dell’intero spazio monastico.

La cattedra è stata inoltre impegnata nell’ultimo decennio nel progetto“Alta valle del Volturno”, finalizzato alla realizzazione di una carta archeolo-gica del medioevo per il territorio della provincia di Isernia. Allo stato attualedella ricerca sono stati aperti quattro cantieri di scavo didattico organizzati conconcessione di scavo ovvero su incarico della competente Soprintendenza chehanno consentito di approfondire su tematiche diverse il processo di trasfor-mazione dell’assetto insediativo nell’area prescelta. Le indagini nei territoricomunali di Pettoranello del Molise e di Monteroduni hanno testimoniato ilperdurare, almeno sino al VII secolo, degli insediamenti in pianura e nel se-condo caso l’organizzazione della cura d’anime da parte della Chiesa, con lacostruzione di un edificio di culto con annesso battistero e contigua area cimi-teriale: si tratta di un’ecclesia baptisimalis, l’unica archeologicamente nota peril Molise (Pani Ermini 2002). Un terzo intervento è stato svolto nel comune diFilignano e ha interessato un castello risalente ad età normanna, costruito suun colle le cui pendici erano già state occupate da un insediamento risalente alVII-inizio VIII secolo, come documentano una piccola cappella in muraturaassociata a costruzioni lignee, nonché oggetti di corredo, segnatamente metal-lici e ossei, di sicura cronologia, venendo a testimoniare in prossimità dellesorgenti del Volturno la risalita in altura delle popolazioni rurali, diversamenteda quanto era avvenuto nei primi due casi indagati (Pani Ermini 2002). Unquarto cantiere infine è stato aperto a seguito di emergenze archeologiche af-fiorate nella costruzione di un edificio privato, in località Piano di S. Vito, nonlontano da Isernia. I resti murari recuperati sono stati riconosciuti come perti-nenti all’insediamento monastico di S.Vito, noto dalle fonti testuali, il cui ri-cordo è rimasto nel toponimo sopra menzionato (Pani Ermini 2003).

Ancora due progetti sono attualmente in preparazione: su richiesta delleamministrazioni locali, rispettivamente del Parco regionale dei Monti Lucre-

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tili e del comune di Cervara e con incarichi delle competenti Soprintendenze,si avrà la possibilità di affrontare lo studio di una delle tematiche privilegiatenella ricerca archeologica medievale, cioè del fenomeno dell’incastellamen-to. Le indagini infatti si svolgeranno a Castiglione (nel comune di PalombaraSabina) e nella Rocca di Cervara stessa.

Nell’ultimo decennio l’insegnamento di Archeologia Medievale non hatralasciato di rivolgere la propria attenzione allo studio delle produzioni arti-gianali. Anche nell’impossibilità di poter disporre di spazi di laboratorio chepotessero consentire una sufficiente attività didattica, non è mancato lo studiodei materiali provenienti dalle nostre indagini archeologiche, organizzato connotevoli difficoltà. È stato però possibile dare inizio sin dal 1993 a convegniannuali prima e biennali poi su “Le ceramiche di Roma e del Lazio in età me-dievale e moderna”, i cui Atti sono stati puntualmente editi a cura di ElisabettaDe Minicis. L’iniziativa di organizzare questi incontri di studio nei quali glispecialisti che a diverso titolo si occupano di manufatti ceramici, potessero re-care il loro contributo di informazione e nello stesso tempo confrontare diver-sificate metodologie di approccio e di ricerca è pienamente riuscita tant’è chenell’anno passato è stata attuata la sesta edizione. Inoltre la scelta dell’ambitogeografico, limitato al Lazio, inteso nei suoi confini moderni, nel quale per suanaturale competenza l’Università “La Sapienza” è chiamata ad operare, haconsentito una naturale collaborazione con la cattedra di Archeologia Medie-vale dell’Università della Tuscia tenuta da Gabriella Maetzke e sin dall’inizio,fuori regione, si è unito il proficuo apporto della cattedra di Archeologia me-dievale dell’Università di Chieti ricoperta da Anna Maria Giuntella con la qua-le si condividevano altre numerose iniziative culturali.

In campo editoriale devono essere ricordate le iniziative che hanno datovita a due collane ancora in atto. La prima è nata nel 1984, con il titolo Me-diterraneo tardoantico e medievale. Scavi e ricerche: la sua fondazione haavuto come ragione determinante «l’esigenza di conoscere le emergenze ar-cheologiche del medioevo nella loro interezza, esigenza sempre più sentitada coloro che operavano, anche sul campo, nelle regioni dell’Italia centro-meridionale, ove, salvo felici eccezioni, troppo spesso le notizie sono ridottea sintentiche e lacunose schede informative. I curatori della collana (inizial-mente Cosimo D’Angela, Anna Maria Giuntella, Letizia Pani Ermini, Maria-rosaria Salvatore), operanti nelle amministrazioni statali che sovrintendonoalla tutela dei Beni Culturali e nelle Università, hanno inteso proporre unacollaborazione non solamente limitata al momento operativo dello scavobensì estesa anche ad una ricerca archeologica più ampia. L’ambito cronolo-gico prescelto, nell’arco che comprende la tarda romanità e il medioevo, ha

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voluto privilegiare i secoli che segnano il passaggio tra le due civiltà equanto allo spazio territoriale, determinato in parte dagli ambiti operativi deiproponenti la collana, esso ha trovato un elemento unificante nelle vicendestoriche che proprio in tale periodo hanno interessato il Mediterraneo, allor-quando nel substrato già così ricco di apporti della civiltà occidentale e diquella orientale si sono inserite le presenze dei popoli migratori (germanici earabi)» (Nota redazionale dei curatori, 1, 1985). Ad oggi la collana conta se-dici volumi, dedicati in buona parte a ricerche in Sardegna.

La seconda iniziativa, promossa da chi scrive, vede la fondazione nel1994 della collana Tardoantico e Medioevo. Studi e strumenti di archeologiache raccoglie nel comitato scientifico colleghi delle Università di Roma “LaSapienza”, di Roma “Tor Vergata”, dell’Aquila, di Bari, Cattolica di Milano,“G. D’Annunzio” di Chieti, di Firenze, II di Napoli (S. Maria Capua Vetere),della Tuscia (Viterbo), colleghi docenti di Archeologia Cristiana e di Ar-cheologia Medievale, precedendo pertanto nel tempo la loro unione nel me-desimo settore scientifico disciplinare L-ANT/08. «La formazione e l’attivitàscientifica dei promotori della nuova collana, unite al loro ruolo accademico,hanno determinato i contenuti e la conseguente scelta del titolo Tardoanticoe Medioevo nella loro continuità che naturalmente non significa appiattimen-to del lungo arco cronologico che copre più di un millennio, ma ne vuole sot-tolineare l’intima connessione aldilà dei sempre discussi limiti epocali. La col-lana nel suo sottotitolo Studi e strumenti di archeologia intende presentare unaduplice linea editoriale: la prima dedicata a studi monografici e non, ad edi-zioni di scavi e di materiali e a quant’altro si leghi all’attività archeologica sulcampo, nonché, nell’ottica storiografica, a temi e problemi di rilevante interes-se e attualità. La seconda promuoverà la pubblicazione di agili “strumenti” de-dicati all’attività didattica; nella mancanza allo stato attuale di aggiornati ma-nuali atti ad offrire una buona preparazione di base, si è inteso mettere a dispo-sizione degli allievi una serie di studi in sintesi delle diversificate tematichedell’archeologia cristiana e dell’archeologia medievale» (Nota redazionale acura del comitato scientifico, 1,1). Ad oggi sono stati per la prima linea editinove volumi, cui si aggiungono gli ulteriori tre dedicati al progetto Leopoli-Cencelle, più uno in stampa e due in preparazione. Per gli “strumenti” alvolume sul Vetro nel medioevo si uniranno presto i due sulle produzioni inmetallo e sulle produzioni ceramiche attualmente in corso di stampa.

Infine si deve aggiungere la partecipazione della cattedra alle due presti-giose collane del Centro Italiano di studi sull’altomedioevo, il Corpus dellascultura altomedievale e le Incrisptiones Medii Aevi Italiae (IMAI), con volu-mi affidati ad allievi del Dottorato di ricerca e della I Scuola di specializzazio-ne, sotto la guida di chi scrive che delle due collane è condirettore.

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Per la salvezza dei beni culturali in Italia. Atti e documenti d’indagine per la tutela e valoriz-zazione del patrimonio storico archeologico artistico e del paesaggio (Atti della Com-missione Franceschini), I, Roma 1967, in particolare il contributo di Massimo Pallottino

Attività della cattedraLazio Medievale. 33 abitati delle antiche diocesi di Alatri, Anagni, Ferentino, Veroli, a cura

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Sul progetto “Cornus”P. Testini, Il complesso paleocristiano di Cornus (regione Columbaris) in Sardegna, in Actas

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Sul progetto “Cagliari, San Saturno”L. Pani Ermini, Iscrizioni cristiane inedite da S.Saturno a Cagliari, in «Rivista di Storia della

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Progetto S. Gavino di Porto TorresL. Pani Ermini, Scavi e scoperte di archeologia cristiana in Sardegna dal 1983 al 1993, in

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Convegno sulle produzioni fittiliE. De Minicis (a cura di), I laterizi in età medievale. Dalla produzione al cantiere, Atti del

Convegno Nazionale di Studi (Roma, 4-5 giugno 1998), Roma 2001

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La paletnologia (o preistoria e protostoria, secondo una terminologiameno ricca di significati, ma più facilmente comprensibile) studia l’orga-nizzazione e i processi di trasformazione dei gruppi umani del passato, dal-le origini all’affermazione dell’uso della scrittura nei diversi contesti cul-turali. Il limite superiore, tradizionalmente accettato, è quindi svincolato dauna data corrispondente ovunque: per quanto convenzionale, tale criteriopuò avere ancora una sua validità sotto un duplice punto di vista. La scrit-tura può essere considerata un “indicatore” archeologico importante, inquanto viene utilizzata in genere da società che hanno un’organizzazioneinterna complessa, società di cui si occupano quindi altre discipline. I testiscritti a loro volta, quando decifrati, costituiscono una fonte di dati rile-vante, di cui quelle stesse discipline si avvalgono e di cui invece la palet-nologia deve fare a meno: solo in alcune situazioni particolari si hanno in-formazioni indirette su società prive di scrittura in testi contemporanei pro-dotti in ambiti culturali adiacenti che ne fanno uso (per lo studio di questotipo di situazioni si usa in genere il termine “protostoria”). Tuttavia, quelloche a prima vista sembra essere un limite, può divenire uno stimolo impor-tante allo sviluppo della ricerca, dal momento che si deve cercare di utiliz-zare nel modo più completo possibile l’informazione archeologica, appli-cando sempre nuovi strumenti di indagine. La paletnologia è quindi la di-sciplina in cui l’aspetto archeologico è più forte, in quanto rappresenta so-stanzialmente l’unica fonte di dati disponibile, ma è anche quella in cui laparte strettamente archeologica costituisce un settore limitato nell’ambitodell’intero percorso conoscitivo, in quanto l’archeologo preistorico stessodeve cercare di utilizzare i dati raccolti con la ricerca sul terreno per arriva-re, attraverso una serie articolata di procedimenti logici, a definire la strut-turazione e le trasformazioni dei contesti studiati. In questo senso la palet-nologia è sia una disciplina archeologica, sia una disciplina storica.

Alberto Cazzella

La paletnologia nell’ambito delle scienze dell’uomo

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Per raggiungere gli scopi che si prefigge, fin dalle fasi di costituzionecome settore autonomo di indagine, nel corso del XIX secolo, la paletnologiaha fatto riferimento a due settori di ricerca esterni, apparentemente moltolontani l’uno dall’altro, ma entrambi fondamentali. Il primo di questi è l’am-bito etno-antropologico, da cui è derivato il nome stesso utilizzato prevalen-temente in Italia per indicare l’archeologia preistorica: i rapporti con tale am-bito sono complessi e, naturalmente, sono molto variati nel tempo in seguitoallo sviluppo teorico-metodologico sia dell’etno-antropologia che della pa-letnologia. Il “confronto” etnografico, che particolare peso ha avuto agli inizidegli studi paletnologici, anche per capire a che cosa potessero servire alcunidei manufatti che si rinvenivano, è ora applicato in modo molto più control-lato e sono sorte branche interdisciplinari specifiche, come l’etnoarcheo-logia. Questa in particolare studia dal vivo gruppi umani che usano tecnolo-gie produttive o svolgono altre attività di tipo tradizionale, per cercare di ca-pire quali tipi di tracce archeologiche riconoscibili vengano create da tali at-tività e correlarle quindi con quelle documentate in situazioni pre-protosto-riche comparabili dal punto di vista del livello tecnologico e della comples-sità di organizzazione sociale. Si tende invece a non utilizzare più il confron-to per singoli aspetti, svincolati dal loro contesto più generale, soprattutto seimplicano una forte incidenza di elementi di carattere simbolico (come adesempio i rituali funerari, le attività cultuali, le manifestazioni iconografi-che), dal momento che a comportamenti formalmente simili possono essereassegnati significati completamente diversi nelle varie situazioni culturali dacui sono stati estrapolati. Restano invece validi alcuni punti già sufficiente-mente chiari ai paletnologi del passato più attenti: esistono principi di basecomuni ai due settori disciplinari (che naturalmente possono essere condivisianche da altri), come la consapevolezza che ci si sta occupando di societàmolto diverse dalla nostra, da analizzare quindi evitando di proiettare su diesse i nostri schemi mentali, o l’importanza assegnata all’ampiamente di-scusso concetto di cultura. In qualunque modo lo si voglia intendere (parti-colare fortuna ha avuto in ambito paletnologico moderno la definizione del-l’antropologo culturale statunitense L. White di «insieme dei mezzi extra-somatici di adattamento all’ambiente naturale e sociale»), questo concettoimplica comunque qualcosa che è condiviso socialmente: ne deriva pertantoil carattere di ricerca sui fenomeni collettivi e sui relativi processi di trasfor-mazione (e non di studio incentrato su personaggi ed eventi particolari, senon come espressione di quei fenomeni collettivi), che non solo ben si adattaalle situazioni “anonime” esaminate dalla paletnologia, ma corrisponde pie-namente alle finalità che ci si pongono, per cui tale “anonimato” non risulta

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in alcun modo come una limitazione imposta dal tipo di dati disponibili.Questo non significa comunque che non vi sia interesse anche per i compor-tamenti dei “singoli” (o comunque di unità sociali limitate all’interno delgruppo più ampio), ma solo in quanto studio dei fenomeni di variabilitànell’ambito dei modelli socialmente accettati.

L’altro polo di riferimento è costituito da un’ampia gamma di disciplinenaturalistiche (ad esempio, fisica, chimica, geologia, paleobotanica, paleon-tologia, zoologia, antropologia fisica, ecc., con le loro ulteriori suddivisioni):già dal XIX sec. ci si è resi conto che per cercare di comprendere non solol’ambiente in cui i diversi gruppi umani della preistoria vissero, ma anche leloro attività economiche, era necessario l’apporto costruttivo di questo in-sieme di discipline. L’esigenza stessa di arrivare a definire la cronologia as-soluta dei vari contesti preistorici ha contribuito inoltre a stimolare la ricercadi metodi di datazione basati su principi legati alle “leggi” del mondo natu-rale. Per tutti questi aspetti c’è stato un ampio sviluppo nel corso del temponon solo dal punto di vista delle tecniche di analisi applicate all’archeologia,ma nel modo stesso di rapportarsi tra paletnologia e discipline naturalistiche.Ci sono attualmente maggiori sforzi da parte dei naturalisti per cercare di ca-pire meglio quali siano gli interrogativi posti dagli archeologi preistorici e didare risposte soddisfacenti con tecniche di analisi adeguate, così come daparte degli archeologi di rendersi conto in modo più approfondito delle po-tenzialità delle tecniche stesse, con la nascita anche di figure di specialisti acavallo tra archeologia e scienze naturali. La collaborazione avviene inoltre aun livello più specifico (che va al di là dell’integrazione sempre maggioredei dati paleoambientali e paleoeconomici con quelli forniti dall’indagine ar-cheologica), come quello della comprensione delle modalità con cui si sonoformati gli specifici depositi archeologici. Già agli inizi della paletnologial’apporto della geologia in generale e l’applicazione in particolare del con-cetto di sequenza stratigrafica, sviluppatosi in quest’ambito, sono stati fonda-mentali per lo sviluppo dell’archeologia preistorica, così come poi di tutte lediscipline archeologiche; più recentemente si è sviluppata una riflessioneesplicita sulle implicazioni derivanti dal fatto che tutti i dati archeologici, an-che quelli relativi a comportamenti di carattere fortemente ideologico, sonotali solo nella misura in cui derivano da attività che lasciano tracce non depe-ribili nel terreno, tracce che vanno dai manufatti, agli elementi naturali utiliz-zati dall’uomo o che comunque si intersecano con la sua presenza in un sito,ai residui di attività produttive, agli scarti, ai rapporti spaziali tra tutti questi.Molte scienze naturali, che hanno per oggetto aspetti sia inorganici che or-ganici, sono quindi attualmente coinvolte nel tentativo di capire i meccani-

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smi di formazione dei singoli depositi archeologici, o parti di essi (in questosenso anche un manufatto o un residuo di lavorazione costituisce una partedel deposito archeologico stesso, in quanto su di esso sono fossilizzate diverseazioni connesse con la produzione, l’uso e lo scarto), e i successivi processidi alterazione di origine antropica e naturale, definiti post-deposizionali. Il de-posito archeologico è il luogo dell’interazione tra gli specifici fattori di caratte-re culturale, come le attività di diverso tipo svolte da un determinato gruppoumano, e le leggi fisiche, chimiche, biologiche che sono alla base della trasfor-mazione in testimonianze archeologiche degli esiti di tali attività e delle condi-zioni naturali in cui avvengono. Queste esigenze di correlazione con le scienzenaturali, che sono comuni a tutte le discipline che si servono dello scavo ar-cheologico come fonte di dati, sono particolarmente forti in paletnologia, pro-prio perché solo dall’insieme delle testimonianze rimaste nel terreno è possi-bile ottenere dati su cui basare le ulteriori elaborazioni volte alla comprensionedei comportamenti culturali specifici dei diversi gruppi umani della preistoria.Per questo motivo molte delle innovazioni che si sono venute affermando neirapporti tra discipline naturalistiche e archeologia nascono da un ampio dibat-tito internazionale che si è sviluppato su tale tema in paletnologia e da tentativieffettuati su contesti preistorici di ampliare lo spettro delle informazioni che sipossono ottenere dallo scavo archeologico inteso come procedimento voltonon solo a recuperare oggetti o a stabilire rapporti di contemporaneità/succes-sione tra i diversi elementi messi in luce, ma a ricostruire le attività svolte dalgruppo umano che utilizzò il sito indagato.

Questa serie di operazioni, fondamentali per la corretta conduzione delprocesso conoscitivo in paletnologia, come si è accennato, non lo esaurisce,in quanto aiuta a ricostruire le attività che hanno provocato la presenza di de-terminate tracce archeologiche, ma da sola non è in grado di inserire tali atti-vità nella giusta ottica dei significati dei comportamenti messi in atto dalgruppo umano in esame e dei loro rapporti con le istituzioni insite in unospecifico sistema socio-politico, con l’organizzazione economica complessi-va e con la struttura ideologica. La correlazione critica con modelli formulatidalla ricerca etno-antropologica sulla base dell’analisi di più società compa-rabili per complessità di organizzazione interna e l’analisi archeologica con-testuale delle possibili connessioni funzionali tra i diversi elementi indivi-duati possono aiutare a raggiungere livelli via via più elevati di comprensio-ne delle situazioni socio-culturali prese in esame.

Considerare la paletnologia una delle scienze dell’uomo può avere an-che un’altra implicazione, oltre quella di stabilire un particolare tipo di rap-porto tra discipline naturalistiche ed umanistiche in situazioni in cui la do-

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cumentazione archeologica costituisce l’unica fonte di dati. Formulare que-sta proposizione significa di per sé ritenere che è possibile applicare a un og-getto di studio ampiamente diversificato e che non si lascia facilmente inseri-re in schemi – i gruppi umani della preistoria e protostoria – i criteri della ri-cerca scientifica. I fattori in gioco, al di là di quelli strettamente connessi conla formazione del deposito archeologico sopra ricordati, sono di carattere so-cio-culturale e non hanno lo stesso grado di ripetitività (peraltro a sua voltadiversificato) dei fenomeni che sono oggetto di studio da parte delle discipli-ne naturalistiche. La prospettiva, portata avanti alcuni anni fa dal movimentodella “New Archaeology”, ispirata alla possibilità di arrivare a formulare ve-re e proprie leggi di comportamento culturale (per cui in determinate condi-zioni ambientali e in presenza di dati livelli tecnologici la risposta dei gruppiumani sarebbe stata sempre uguale, quindi prevedibile e ricostruibile per ilpassato, in base al criterio della minimizzazione dello sforzo considerato co-me principio universale di razionalità economica) non sembra trovare un’ef-fettiva rispondenza nella variabilità di reazioni agli stimoli dell’ambientenaturale attuate anche da parte di gruppi con organizzazione semplice, comequelli preistorici, a causa della rilevanza che i fattori sociali hanno. Tali ri-sposte risultano infatti diverse in quanto mediate da “filtri culturali” che nonsono sempre uguali: i gruppi umani si danno scopi nelle loro attività legati avalori socialmente condivisi all’interno del gruppo stesso, ma non necessa-riamente universali, e la loro razionalità consiste nel porre in atto i procedi-menti considerati più efficienti (alla luce delle relative credenze e conoscen-ze) per raggiungerli, non nel far sì che siano omogenei in ogni tempo e luogogli scopi stessi. Da questo punto di vista appare particolarmente importante,se si vogliono comprendere realtà culturali lontane dalla nostra, evitare diproiettare su di esse norme di comportamento che a noi sembrano “razio-nali”. Anche se la finalità della ricerca paletnologica non è quindi quella diindividuare leggi di comportamento culturale dei gruppi preistorici, dal mo-mento che non sembrano esistere tali modalità costanti di reazione agli sti-moli esterni, questo non impedisce che la disciplina possa agire come una“scienza” in rapporto non al grado di ripetitività del suo oggetto di studio,ma alle modalità di conduzione dell’analisi. Come avviene in tutte le disci-pline storiche, non è possibile, al fine di valutarne gli effetti, realizzare repli-che sperimentali dei comportamenti dei gruppi umani del passato, che impli-chino i relativi significati culturali. Tali repliche possono essere effettuatelimitatamente allo scopo di riprodurre (archeologia sperimentale) i rapportitra alcune attività e le testimonianze lasciate nella documentazione archeolo-gica: si tratta cioè di cercare di ricostruire in modo controllato, a volte anche

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come correlazione con quanto osservato con l’applicazione della ricerca et-noarcheologica, rapporti costanti di causa-effetto, in condizioni analoghe, traazioni e contesto naturale in cui queste hanno lasciato tracce non deperibili.Non è questo aspetto sperimentale, indubbiamente molto interessante, macon finalità ben definite, della ricerca archeologica in generale e paletnologi-ca in particolare che la può connotare nel suo insieme come disciplina“scientifica”. Ai fini di un’interpretazione storica complessiva di una deter-minata situazione culturale, si deve procedere attraverso la proposizione diipotesi non valide in assoluto, ma formulate per quella specifica situazione(stabilendo nessi tra ciò che è più e ciò che via via è meno direttamente per-cepibile: in questo senso si definisce un percorso che parte da un tipo di rac-colta dei dati sul terreno adeguata agli interrogativi che ci si pongono per ar-rivare a ricostruire l’organizzazione economica, sociale e ideologica delgruppo umano preso in esame, operazione che costituisce lo scopo finale), eper mezzo della ricerca degli elementi che possono aiutare a rafforzare o arespingere le ipotesi stesse. La comparazione con situazioni in parte simili,anche lontane nel tempo e nello spazio e documentate sia a livello archeolo-gico sia etnografico, non solo contribuisce a dare il senso della variabilità disoluzioni possibili a problemi analoghi, ma ponendo in evidenza somiglianzee differenze con quella direttamente in esame, può aiutare a comprenderemeglio il valore funzionale in quel contesto dei suoi elementi specifici e ilgrado di condivisione di caratteri presenti in altri, con le relative motivazio-ni. La comparazione con contesti meglio conosciuti, in particolare quelli diambito etnografico, può quindi aiutare a far scaturire le ipotesi stesse, chevanno comunque sempre valutate sulla base di ulteriori dati archeologicinella loro capacità di spiegare una determinata situazione. In una metodolo-gia di indagine di questo tipo (così come avviene del resto in altri ambitidella ricerca storica), contrapposta al tentativo di entrare misteriosamente in“empatia” con gli uomini della preistoria o alla formulazione di schemi clas-sificatori volutamente non finalizzati all’interpretazione dei contesti esami-nati, può consistere il carattere scientifico della paletnologia.

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Ho iniziato ad occuparmi di storia dell’antico Oriente più di quarant’an-ni fa per pura gratificazione intellettuale, per innocente diletto storico o anti-quario, attratto da chissà quali immagini e letture sulle antiche e misterioseciviltà. Col passar degli anni è maturata la consapevolezza che la scelta del-l’antico Oriente aveva a che fare, inevitabilmente, con il rapporto privilegia-to e ambiguo che quelle antiche civiltà hanno con la nostra, in una mistura dicomplicità e di contrapposizione, di eredità e di innovazione. Poi è arrivataper me – per tutti noi – la perdita dell’innocenza, e in anni recenti è diventatodifficile, se non impossibile, occuparsi di antico Oriente senza ricollegare dicontinuo e dolorosamente il sapere storico con le tragedie attuali. È diventataquasi un’ossessione, quella di leggere gli eventi attuali sulla scorta delle lororadici storiche, e viceversa di leggere gli antichi testi sulla scorta delle espe-rienze attuali. Despotismo e democrazia, guerra santa e guerra giusta, impe-rialismo e diffusione della civiltà, propaganda e consenso, rappresaglia pre-ventiva e strategia del terrore, deportazioni e pulizia etnica, giudizio di dio etortura: parliamo di tremila anni fa o parliamo di oggi?

Del resto, si sa che gli studi orientalistici sono nati e cresciuti e si sonomodificati in rapporto all’ingerenza delle potenze europee nel “grande ma-lato”, il declinante impero ottomano, e più in generale in rapporto alla con-quista coloniale europea del resto del mondo. Se lo strumento ideologico deldominio sulle popolazioni “primitive” – diciamo meglio a cultura materialepiù semplice – fu l’etnografia poi diventata antropologia sociale, lo strumen-to ideologico del rapporto con le grandi civiltà asiatiche fu l’orientalismo. Leciviltà dell’Asia, antica e moderna, erano troppo ricche di valori religiosi eletterari, filosofici ed artistici, per essere liquidate come primitive, e peròl’orientalismo affermò l’idea che l’Asia era sì civile ma anche diversa ed op-posta al mondo occidentale, affascinante ma come bloccata in una stagnazio-ne che rendeva possibile mischiare l’antico mondo e l’attuale, senza quella

Mario Liverani

Elogio del Levante

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progressione tecnologica e razionalistica che aveva fatto dell’Occidente ilpadrone del mondo.

Ancora a metà del secolo scorso, quando i primi studiosi orientali (im-magino indiani e giapponesi) si affacciarono ad un Congresso Internazionaledi Orientalisti, ci fu chi commentò – non so se è vero, ma se è inventato èben inventato – dicendo: “Ora inviteranno anche i pesci a parlare ai congres-si di ittiologia?”. Oggetto passivo di ricerca, dunque, e non compartecipi aduna interazione tra culture. Ma risalendo ai primordi dei nostri studi, al tem-po in cui Botta e Layard riscoprivano le capitali assire, dobbiamo ricordareche il grande Ernest Renan teorizzava una classificazione (razziale e pre-evoluzionista) dell’umanità, distinguendo tre fasce di popoli. Ci sono dappri-ma i popoli primitivi, che popolano la terra sin da tempo immemorabile e ilcui studio viene affidato al geologo più che allo storico. Questi primitivi so-pravvivono, dice il Renan, negli aborigeni australiani e dell’Africa sub-saha-riana. Ci sono poi le grandi civiltà materiali dei popoli camiti e cusciti (gliEgiziani e i Sumeri, per intenderci), che sopravvivono nella civiltà cinese,capaci di grandi realizzazioni tecniche, ed anche artistiche e architettoniche,fondatori di grandi imperi, ma privi di spiritualità poetica e religiosa, di ra-zionalità scientifica. Infine appaiono le due grandi razze superiori, i Semiti egli Indoeuropei, razze dotate appunto di doti spirituali e intellettuali di cui lerazze precedenti erano prive, fra di loro diversi (spirituali i primi, razionali isecondi), di una diversità che si colora però di gerarchizzazione, quando deiSemiti il Renan dà caratterizzazioni a dir poco derisorie e diffamanti. Pochidecenni dopo anche Karl Marx, che non possiamo dire fosse un razzista,continua a vedere l’Asia come dominio di un modo di produzione e di un de-spotismo immutati nel tempo attraverso i secoli e i millenni, mentre l’Europaprocedeva speditamente di stadio in stadio verso il progresso civile ed eco-nomico. Il dominio coloniale in India – dice Marx – pur se motivato da inte-ressi politici ed economici evidenti, ha però il merito di introdurre in Indiaquei fermenti di innovazione e di sviluppo civile che quel paese, da solo, nonavrebbe mai avuto la forza di generare. L’India di allora come l’Iraq di oggi.

Certamente gli stereotipi culturali sono duri da sradicare, ma il mondo de-gli studi intanto è progredito, gli orientalisti hanno preso coscienza della lorofunzione ed hanno dunque saputo assumere posizioni critiche e maggiormenteobbiettive. E del resto, più in generale, la consapevolezza di cosa sia un mon-do pluralistico, di cosa siano le traiettorie storiche, di cosa siano i rapporti in-ter-culturali, sono diventati (si spera) patrimonio comune del nostro sentire. Èperciò oggi possibile e doveroso fornire versioni aggiornate del rapporto stori-co tra Oriente e Occidente, sulla base delle conoscenze che oggi abbiamo più

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Elogio del Levante

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solide ed abbondanti sul periodo critico in cui quel rapporto cominciò ad esi-stere, e dei periodi precedenti in cui se ne formarono i presupposti.

Nel tentare una visione aggiornata, dobbiamo ancora fare i conti con idue stereotipi radicati, che – piaccia o non piaccia – fanno parte integrantedella nostra mentalità. Da un lato c’è il paradigma “Ex Oriente Lux”, del-l’Oriente come culla o alba della civiltà, paradigma che solo apparentementeconferisce all’Oriente un ruolo privilegiato, mentre in realtà conferisce a noioccidentali il diritto di considerarci eredi autentici delle antiche civiltàorientali, che gli eredi apparenti (i moderni abitanti di quelle regioni) hannodi fatto ignorato e disprezzato. Parallelamente c’è l’altro paradigma, quellodel “miracolo greco”, che attribuisce alla prima civiltà europea il merito diaver formulato quei valori che sono tipici nel mondo occidentale e assenti inAsia. Così – dall’incrocio dei due paradigmi – nasce l’idea che l’Europa deb-ba alle civiltà del Vicino Oriente antico i presupposti materiali (l’agricolturae l’allevamento, il villaggio e la città, l’artigianato e la scrittura) ma debba asé stessa i valori etico-politici. Dunque la contrapposizione tra despotismo edemocrazia, tra magia e razionalità, tra stagnazione e progresso, tra redistri-buzione palatina e libera intrapresa. Vediamo, in pochi minuti, di analizzaree di storicizzare meglio questo nodo concettuale.

Non c’è dubbio che per molti millenni il Vicino Oriente sia stato un cen-tro di diffusione culturale di cui l’Europa non era che una periferia. Negli ul-timi decenni in Europa si è molto protestato contro questa posizione, tacciatadi diffusionismo: ma si tratta palesemente di una pretesa di originalità, di ne-gazione del debito culturale, di matrice eurocentrica, che intende sostituire ilparadigma “Ex Oriente Lux” nel momento in cui questo, deprivato delle sueimplicazioni ideologiche, rischia di trasformarsi in un’ammissione di poste-riorità. Non c’è dubbio che l’Europa debba la sua “rivoluzione neolitica” alVicino Oriente: basta seguire la diffusione di pecore e capre, di orzo e fru-mento, perché la direzione del processo risulti evidente. E basta mettere inpiante di distribuzione, scaglionate per fasi diacroniche, i siti di prima neo-litizzazione, per vedere in concreto come e quando la diffusione abbiaavuto luogo. Poi si può precisare (è giusto precisare) il ruolo dei ricettoririspetto a quello dei diffusori, si possono sottolineare le originalità locali eregionali, le fasi di incipienza, le varianti ambientali e quant’altro. Ma ildato di fondo resta acquisito.

Lo stesso vale per la rivoluzione urbana, che anche ha la sua sede (unadelle sue sedi) di origine primaria nella Bassa Mesopotamia, e che per granparte dell’età del Bronzo resta limitata alla zona della cosiddetta “GrandeMesopotamia”, adiacente ad altre aree urbanizzate – dall’Egitto alla valle

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dell’Indo – mentre l’Europa è ancora in situazione pre-urbana, o comincia adurbanizzarsi nella zona (l’Egeo) a immediato contatto col Vicino Oriente.

E però parlando delle prime formazioni statali e delle prime economiecomplesse, occorre già fare una distinzione areale ed ambientale all’internodel Vicino Oriente, operazione necessaria non solo per capire gli sviluppisuccessivi, ma già alla radice per eliminare il preconcetto che l’Oriente siaun’entità unica e monolitica, un’idea assoluta anziché un mondo storico.Nelle zone di alluvio (Mesopotamia ed Egitto) le condizioni ambientali, del-l’agricoltura irrigua, si concretizzano in formazioni statali centralizzate, dimatrice dapprima templare e poi palatina, basate su un processo decisionalein cui prevale il centralismo con la sua giustificazione teologica. Invece nellezone più occidentali (in Siria e Palestina, in Anatolia e in alta Mesopotamia),ad agricoltura pluviale, prevalgono una società più aperta e un’economia piùframmentata, che si concretizzano in un processo decisionale in cui gli orga-ni collegiali hanno un ruolo maggiore.

Quando la statalizzazione e l’economia complessa raggiungono l’Egeo,è questo secondo tipo a prevalere (forse dopo una fase, quella minoica, di piùaccentuato stampo palatino e teocratico). Ancora alla fine del Tardo Bronzo,nel XIII secolo, se si mettono in pianta indicatori caratteristici, come l’esi-stenza di palazzi reali, o l’uso della scrittura, si constata a prima vista comel’Egeo sia una sorta di appendice periferica del Vicino Oriente, e come essopartecipi con la fascia levantina di quel frazionamento politico che è ormaida molti secoli riassorbito ad oriente dell’Eufrate in formazioni statali diraggio regionale, e che possiamo definire proto-imperiali. Questa bipartizio-ne si accentua poi nel XII secolo a seguito dell’invasione (dall’Occidentemediterraneo e balcanico) dei cosiddetti “Popoli del Mare”, che devastano ilLevante lasciando intatto l’Oriente profondo.

L’età del ferro inizia dunque nel segno di una netta distinzione tra quelloche possiamo chiamare l’Oriente (Assiria, Babilonia, Elam, e in modo diver-so anche l’Egitto) da quello che possiamo chiamare il Levante (la fascia siro-palestinese, la penisola anatolica, l’Egeo e la Grecia). La prima zona è arroc-cata su un sistema politico e un bagaglio culturale che più direttamente pro-seguono le tradizioni dell’età del Bronzo, mentre nel Levante prende formauna cultura più innovativa e diffusa. Basti pensare – quasi un simbolo dellabipartizione – alla scrittura: in Oriente restano in uso le complesse scritturelogo-sillabiche, mentre nel Levante prende piede il più agile e “democratico”alfabeto. Oppure si pensi alla diffusione delle rotte commerciali, verso ovestnel Mediterraneo ad opera di Fenici e Greci, e verso sud fino allo Yemenlungo le carovaniere gestite dalle città e tribù nord-arabiche e sud-arabiche:rotte che sembrano voler schivare i grandi “mercati” orientali.

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Elogio del Levante

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Nel IX e VIII secolo prendono forma due fenomeni di grande portata,che si realizzeranno pienamente poi nei secoli immediatamente successivi.Nell’età “orientalizzante” il Levante “genera” un Occidente più ampio, gra-zie anche alle risorse naturali dell’Europa. Assistiamo così al decollo autono-mo dell’Etruria, di Roma, della Spagna meridionale, come assistiamo allacolonizzazione fenicia in Tunisia, in Sicilia e Sardegna, e a quella greca inItalia meridionale, in Cirenaica, e fino a sfiorare la stessa Spagna.

Ma nel frattempo l’Oriente erode sempre più a fondo il Levante, a se-guito dell’espansione imperiale dapprima dell’Assiria, poi (col VI secolo)della Babilonia caldea, infine dell’impero persiano. Tutta una serie di piccoliregni levantini vennero annessi e trasformati uno dopo l’altro, in progressio-ne inarrestabile, in province imperiali, distrutti e deportati, decapitati delleloro élites dirigenti e creative, deculturati delle loro originalità letterarie eartistiche, trasformati in terminali periferici per l’esazione di risorse e mano-dopera. La Bibbia ha reso celebri gli assedi di Gerusalemme, da quello assirodi Sennacherib a quello caldeo di Nabucodonosor, e qualcosa sappiamodell’assedio di Tiro da parte dello stesso Nabucodonosor, ma la sorte di Si-done e di Samaria, di Carchemish e di Damasco, di Hama e di Gaza e ditante altre città-stato fu del tutto analoga. Queste città-stato non erano dissi-mili dalle poleis greche, e si è detto che la democrazia greca prima delle ri-forme di Clistene doveva essere del tutto analoga a quella del Levante asiati-co. Questa “orientalizzazione” del Levante fu un fatto grave, perché portò gliimperi orientali a confinare col Mediterraneo, senza più una zona di com-pensazione e mediazione rispetto all’Occidente.

Come tutti sappiamo, ci fu una zona del Levante che resistette allaconquista imperiale. Le vittorie ateniesi e spartane a Maratona, a Salamina,a Platea, evitarono alla Grecia la sorte del Levante asiatico, e al tempostesso diedero origine ad un paradigma ideologico sulla contrapposizionetra Oriente e Occidente ormai a contatto. Eschilo ed Erodoto sono i porta-voce di questo paradigma, che dovette essere diffuso nel sentire greco, eche servì alla mobilitazione morale dei resistenti contro l’“impero del male”.I Greci non vinsero – come diremmo noi – per il superiore armamento oper il controllo del mare, o per la conoscenza dei luoghi, o per l’eccessivadistanza tra il centro dell’impero e le zone di combattimento; i Greci vinse-ro – dice Erodoto – per la superiorità del loro sistema politico, perché il lo-ro era un esercito di liberi (che obbedivano solo alla legge) mentre l’eserci-to persiano era un esercito di schiavi costretti dalla frusta. Comincia così lastoria della contrapposizione tra un sistema di valori positivi (libertà, de-mocrazia, razionalità, innovazione, rettitudine morale) contro un sistema di

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valori negativi (servitù generalizzata, despotismo, magia, stagnazione, cru-deltà e lussuria).

Certo non conosciamo, e riusciamo a malapena a intravedere, la teoriaorientale in proposito, che certamente diceva che l’impero era l’unica entitàpolitica legittima, che combatteva contro le forze del Male e della Menzogna,per affermare la civiltà e l’ordine cosmico, e che i Greci erano insensati ri-belli e miserevoli briganti. Fatto sta che i Greci vinsero, o comunque furonoin grado di resistere e restare liberi.

A questo punto il grande sconfitto sembra essere il Levante, la zona dimediazione; le città-stato occidentali e l’impero orientale si fronteggiano.Ma il prosieguo della storia mostra che il Levante non era affatto eliminato,esso riappare infatti in varie forme e in vari periodi. Già sotto l’impero per-siano lo statuto delle città di Cipro e della Fenicia, le continue rivolte anti-imperiali in Anatolia e nella fascia siro-palestinese mostrano che la presadell’impero su quello che era stato il Levante non era poi tanto solida. E an-che dopo il grande episodio delle conquiste di Alessandro, si nota come lafrontiera dell’Eufrate sembri storicamente più importante di quella della co-sta mediterranea. All’Eufrate c’è la frontiera tra impero romano e imperopartico, all’Eufrate c’è la frontiera tra impero bizantino e impero sasanide.All’Eufrate arrivano i regni dei crociati.

Si consolida così, nel periodo medievale e poi moderno (fino alle sogliedell’appropriazione coloniale) una fascia levantina, che separa e media tra idue blocchi di civiltà, quello dell’Occidente diventato cristiano, e quello del-l’Oriente diventato islamico. Il Levante è un mondo che le due civiltà totalita-rie hanno buon gioco a squalificare come ambiguo e compromissorio, dedito afare affari e a sopravvivere in situazioni di rischio e di oppressione. Ma al di làdella facile denigrazione ideologica, queste sono le caratteristiche e le doti diuna zona di mediazione e di contatto – una zona di mercanti e magari di pirati,di interpreti e diplomatici, di artigiani e di cambiavalute, ma anche di grandifenomeni di trasmissione culturale tra eredità ellenistica e mondo arabo-isla-mico, e di contatto tra le tre religioni monoteistiche. La storia, e più spessol’immagine, del Levante in età moderna è stata più volte tratteggiata, e non staa me qui ripercorrerla. Accanto alla denigrazione (“levantino” come furbescotraffichino, se non proprio imbroglione) c’è anche un fascino diffuso in Occi-dente per il Levante come una zona di avamposti verso l’Oriente, avampostifatti di minoranze religiose e di ditte commerciali, di raffinati eruditi e di me-diatori professionali.

Oggi il Levante in senso tradizionale non esiste più o quasi più (ne restaqualcosa in Libano): travolto sia localmente dall’emigrazione delle élites

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Elogio del Levante

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commerciali e delle minoranze religiose, sia su scala mondiale dall’affermar-si di una globalizzazione commerciale e comunicativa che passa ormai attra-verso lo spazio senza bisogno di mediazioni localizzate regionalmente. I duemondi contrapposti, Oriente e Occidente, si sono entrambi allargati ed hannoassunto entrambi, anche se in modo molto differente, atteggiamenti totaliz-zanti, che lasciano poco spazio al dialogo. L’Oriente islamico, tra l’altro, sindall’epoca della conquista arabo-islamica si è esteso a tutta l’Africa setten-trionale e poi a parte dell’Asia meridionale. E l’Occidente si è decisamentespostato ancor più a ovest, ed ha ormai il suo baricentro non più in Europama negli Stati Uniti, paese che non essendo a contatto geografico con ilmondo islamico non ha pratica di interculturalismo su base paritetica, aven-do solo pratica di assorbimento di immigrati subordinati.

Credo che in questa situazione, se c’è ancora bisogno di un Levante,cioè di una zona geografica di contatto e mediazione, questa è la potenzialefunzione (o se volete missione) per i paesi dell’Europa meridionale, come laSpagna e l’Italia, che per collocazione geografica ma soprattutto per espe-rienze storiche pregresse, sono meglio in grado di capire, di dialogare, discambiare esperienze. Conoscere, capire, dialogare sono missioni impegna-tive quant’altre mai, ma necessarie per assicurare un futuro che non sia diguerra endemica o di sopraffazione totale. In questo contesto anche l’apportodi chi studia le antiche civiltà orientali, e la genesi del processo storico cheha condotto allo stallo attuale, può essere di una qualche utilità

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L’archeologia, propriamente il “discorso sulle cose antiche” del mondoclassico, è divenuta negli ultimi decenni la scienza dell’antichità per l’aspi-razione neo-positivistica a fondare la conoscenza del passato su basi scienti-fiche paragonabili a quelle delle scienze naturali. Il superamento del momentodella classificazione per privilegiare quello dell’interpretazione è stato un pas-saggio cruciale sulla via del rinnovamento profondo della disciplina archeo-logica. In un tale passaggio lo stadio della classificazione è stato anche per-cepito non tanto come qualcosa da superare in un processo conoscitivo in cuiogni tappa ha una sua funzione irrinunciabile, quanto piuttosto come qualcosada ripudiare, mentre è ovvio che la classificazione sta alla comprensione comel’analisi sta alla sintesi: senza la prima, non può darsi la seconda.

Ma è certo vero che nella classificazione non è automaticamente insitain alcun modo la comprensione: la classificazione come tale può essere e ri-manere sterile, neutra, infruttuosa, cioè improduttiva sul piano della spiega-zione storica. Perché la classificazione nell’archeologia diventi fruttuosa sideve contaminare attraverso procedimenti interdisciplinari e l’archeologia,come è stato detto efficacemente con un’ormai celebre espressione, deveperdere la sua apparente e presunta innocenza: innocenza, si può aggiungere,in realtà solo pretesa ed ipocrita. È attraverso questa contaminazione, su unversante, con la metodologia sociologica, con le teorie antropologiche, con lastoria economica, ma anche, su un altro versante, con la storia delle religioni,con la storia del pensiero, con la storia dell’arte, e, sul piano esegetico, dellalinguistica, dell’etnologia, dello strutturalismo, dell’ermeneutica, per non fa-re che alcuni esempi più vistosi, che i materiali accumulati attraverso la clas-sificazione si animano, per così dire, e parlano a noi moderni un linguaggioche è interpretazione del passato, cioè conoscenza storica del passato.

In questa contaminazione tra archeologia e altre discipline, che è una ca-ratteristica forte della condizione moderna della disciplina, si apre uno deidilemmi centrali della metodologia avanzata contemporanea: quello dell’ef-

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Archeologia: scuola di tolleranza

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ficacia, arbitrarietà e illusorietà dei modelli nel risolvere il nodo dell’inter-pretazione, della spiegazione, della comprensione in archeologia. Infatti, laclassificazione rappresenta, in un certo modo, il polo della staticità dell’ope-rare archeologico e l’interpretazione ne costituisce il polo del dinamismo, e imodelli – sociologici, antropologici, economici, storico-religiosi, storico-ar-tistici e via dicendo – sono lo strumento esegetico per dare una concretezzapiena alla documentazione riconducendola all’interpretazione, per far sì cheevidenze inerti diventino materia storica.

I modelli, tuttavia, sono per loro natura problematici, in quanto possonoessere illusori. Infatti, essi, non solo integrano e completano le evidenze, strut-turalmente ed inevitabilmente frammentarie, dell’archeologia, ma anche, e so-prattutto, conferiscono un significato, un valore, una dimensione storica alleevidenze stesse. I modelli, la cui conformazione deriva usualmente da unacomparazione critica di casi meglio documentati o meglio conosciuti, per ciòstesso rappresentano generalizzazioni concrete che, in primo luogo, supplisco-no evidenze più carenti ed incomplete e, in secondo luogo, permettono di in-terpretare storicamente queste stesse evidenze restaurate, per dir così. In que-sto duplice percorso, oggettivamente positivo, la generalizzazione insita nelmodello può attenuare o cancellare la specificità dell’evidenza raccolta.

Ora non v’è dubbio che la ricerca storica non può appiattirsi né sulla ge-neralizzazione, né sulla specificità, così come, nell’interpretazione delle cul-ture, non può avere ad oggetto solo la loro struttura permanente e non curar-ne lo sviluppo temporale, o, viceversa, dedicarsi solo agli aspetti del cam-biamento senza indagarne gli elementi strutturali. Nell’applicazione dei mo-delli, può accadere che una cultura o tratti di essa vengano apparentementeillustrati e compresi nella pienezza della loro funzionalità concreta, ma inrealtà avvenga che di essi si arrivi a ricostruire, appunto, solo una generaliz-zazione, che può anche essere parzialmente veritiera, ma tale comunque daoccultarne i caratteri di specificità rispetto agli altri casi compresi appuntonella generalizzazione. In termini semplici, uno dei rischi non secondaridell’applicazione dei modelli è l’appiattimento delle realtà della storia, cosìcome senza i modelli un rischio non minore è l’infondata convinzione di af-ferrare una realtà che è a sua volta illusoria, perché consistente solo in unaspecificità che è storicamente indefinita e quindi è fuori dalla storia.

Generalità e specificità dei modelli, così come struttura e mutamentidelle culture, sono dimensioni polari della ricerca archeologica che costitui-scono problematicità sostanziali della disciplina. Ma la grande suggestionedell’archeologia è in due altre dualità tipiche dell’archeologia, l’una nel-l’operare archeologico al livello della pratica sul terreno e l’altra nell’operare

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archeologico al livello della riflessione sul piano interpretativo: l’una e l’al-tra di queste dualità sono peculiari del mestiere dell’archeologo.

È, infatti, indubbio, che l’attrazione forse più forte e reale, ma anche, inqualche modo, più ovvia e banale del mestiere dell’archeologo appunto ènella fisicità della scoperta; in nessuna altra disciplina più che nell’archeolo-gia la scoperta è non figurativamente e traslatamente una scoperta, ma è unascoperta nel senso più proprio, letterale e concreto: fisico appunto. Non puòessere negato che l’azione dello scoprire letteralmente ciò che era primamaterialmente coperto è un’azione che si connota per sensazioni fortementeemotive e psicologicamente positive. Ma ciò che è più significativo proprio alivello emotivo e psicologico è che nel fare archeologico sul campo v’è unainscindibile fusione, interrelazione e sovrapposizione tra le operazioni men-tali e manuali, intellettuali e fisiche.

Questa categorica affermazione è vera ad ogni livello del lavoro archeo-logico, dalla più banale operazione singola e limitata nel terreno di un qua-drato di scavo alla conduzione di un responsabile di cantiere in un’area ar-cheologica più estesa, fino alla strategia complessiva che regge l’impostazio-ne e la realizzazione dell’esplorazione archeologica di un grande sito. In untempo come quello moderno in cui la maggiore causa di alienazione del la-voro è la scissione, non di rado totale, tra operazioni mentali e operazionimanuali, è naturale che una suggestione fortissima, forse spesso inconsape-volmente, derivi dall’inestricabile intreccio tra queste diverse operazioni nel-la più semplice, normale e corrente esperienza dell’archeologia sul campo.

Se la composizione e la riduzione, per così dire, della dualità tra opera-zioni mentali e manuali nel lavoro sul terreno ha aspetti di forte appagamentoper chi opera nell’archeologia sul campo, ciò che è più specificamente qualifi-cante dell’impegno intellettuale archeologico è la considerazione che il lavorodi ricerca archeologico può essere propriamente descritto come un itinerarioineludibile ed affascinante tra identità ed alterità. In ogni testimonianza delpassato, e di ogni passato di qualsivoglia tempo e di qualsivoglia spazio, ci sitroverà sempre di fronte immancabilmente ad aspetti di identità e ad aspetti dialterità. Ogni testimonianza del passato, remoto o recente, si presenta a noi conun tasso di identità e un tasso di alterità. E si può aggiungere senza tema dismentite: l’identità non sarà mai totale, come mai totale sarà l’alterità. In ognibrandello del passato che si studi, dal più monumentale al più modesto, si po-trà sempre osservare una sorta di pendolarità oscillante tra alterità ed identitàcon variazioni talora forti anche nell’ambito di espressioni della stessa cultura.

Infatti, in ogni resto della cultura materiale del passato noi sempre ricono-sciamo, istintivamente o meditatamente, qualcosa che ci è familiare, che cono-

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sciamo meglio, che sentiamo essere parte di un nostro patrimonio culturale, chesi trova, cioè, sul versante dell’identità, e qualcosa che ci è estraneo, che sten-tiamo a riconoscere, che percepiamo come avulso dal nostro patrimonio cul-turale, che si trova, cioè, sul versante dell’alterità. Impegno forte dell’onestàintellettuale del ricercatore è non falsificare l’alterità assimilandola all’identità.

Tipici di queste assimilazioni indebite sono i procedimenti logici e le ana-lisi che sono all’origine di considerazioni, assai frequenti, del tipo “Vedi, an-che loro pensavano, sentivano, agivano come noi” con riferimento ai compor-tamenti degli uomini del passato: in questi casi l’alterità è appunto denegataper assimilazione ai tempi moderni. Caratteristiche di altrettanto sostanziali,non meno frequenti, falsificazioni sono le valutazioni per cui le testimonianzedi culture del passato non classico vengono sentite antistoricamente come pre-cedenti remoti, e spesso curiosi, di qualcosa che crediamo tipico del mondogreco e romano che per noi è la sede naturale dell’identità: in questi casi l’alte-rità è appunto annullata per falsificazione dei contesti antichi.

Ciò, in realtà, avviene spesso per motivi che val la pena di non sottacere.Una delle cause più frequenti per cui si nasconde l’alterità di una testimo-nianza del passato è la convinzione ingenua che, assimilando quella testimo-nianza a qualcosa che ci è familiare e ci appartiene, questo è un contributodecisivo alla comprensione: è vero, invece, il contrario, poiché ogniqualvoltasi scambia una testimonianza del passato per qualcosa che a noi è meglionota, la si attualizza indebitamente, la si banalizza decontestualizzandola e difatto semplicemente la si falsifica, vietandone la comprensione storica.

Un’altra causa, non meno frequente, ma assai meno ingenua, anche senon di rado inconscia, è l’esigenza di annientare l’alterità, cioè la diversità diuna testimonianza di qualcosa che, per essere estraneo a noi e lontano da noi,istintivamente e per lo più irriflessivamente, sentiamo come pericoloso pro-prio in quanto diverso, di conseguenza incomprensibile e quindi da annulla-re. In questo caso qualcosa che è diverso, pertinente alla sfera dell’alterità,viene assimilato a ciò che è familiare, pertinente alla sfera dell’identità, edunque la sua temibile pericolosità potenziale viene disinnescata con un pro-cesso di falsificazione che può essere intenzionale o preterintenzionale.

Su questo aspetto dell’indagine archeologica come ricerca storica e comeimpegno etico è importante soffermarsi. Questo è, infatti, uno dei tragitti in cuil’archeologia può non essere innocente, eticamente, culturalmente e politica-mente. E qui, ad avviso di chi parla, non è dato transigere sulla base di unaconsiderazione fondamentale relativa al valore dell’archeologia come scienzadel passato. Ogni procedura di assimilazione del diverso – banalizzante, mo-dernizzante, europeizzante – deve essere respinta sul piano morale e scientifi-

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co: sul piano morale, perché le falsificazioni delle alterità non sono da consi-derare lecite sul piano dei principi; sul piano scientifico, perché le assimilazio-ni, annullando la varietà delle realtà molteplici, sono contrarie all’oggettività.

Al contrario, interesse dell’archeologia, in senso ovviamente alto e nobi-le – cioè nel senso di ciò che indubbiamente conviene al progresso oggettivodella conoscenza – è l’indagine approfondita delle testimonianze del passato,affinché ne risulti illuminata la pienezza della specificità di quelle testimo-nianze in tutto ciò che le differenzia da testimonianze di altre culture appa-rentemente simili o somiglianti. Se questa è davvero – come in effetti è – unadelle mete alte dell’archeologia, si può affermare che uno dei ruoli dell’ar-cheologia è quello di arricchire, rinnovare, accrescere il patrimonio culturaledell’umanità, lasciando intatte ed anzi operando attivamente perché sianosempre più illuminate le specifiche particolarità delle testimonianze di quelpatrimonio, che deve essere inteso, figurativamente, come un immenso e di-namico giacimento di ricchezze culturali.

Quando si pensa, dunque, che un archeologo sia uno studioso con la testarivolta all’indietro, con il volto e lo sguardo immerso ciecamente nel passato,con nessuna curiosità, interesse o prospettiva verso, non dico il futuro, manemmeno il presente, si sbaglia. L’archeologia e l’archeologo di oggi, a diffe-renza certo dell’archeologia e dell’archeologo di qualche decennio fa, sono sìrivolti al passato, ad indagare il passato nelle sue testimonianze della culturamateriale, a recuperare dall’oblio degli anni, dei secoli e dei millenni le traccedelle esperienze dell’uomo da noi più lontano, ma non in orrore al presente eal futuro, per sfuggire il presente e il futuro. Quanto piuttosto, al contrario, perarricchire l’esperienza dell’uomo del presente di quelle infinite esperienze de-gli uomini del passato recente e remoto che sono le culture le cui testimonian-ze sono disperse sul pianeta e che tutte, indistintamente, rappresentano una ric-chezza dell’umanità del presente e del futuro, una ricchezza che deve essere ri-scoperta e recuperata, una ricchezza che deve essere conservata, protetta e va-lorizzata: in sintesi, una ricchezza tanto preziosa quanto irrinunciabile.

In un tempo come il nostro in cui sembra che l’umanità viva nell’ansiadi preservare gelosamente la propria identità nazionale, ma anche regionale,locale, tribale, familiare, sembra necessario ricordare che l’alterità, al contra-rio, è una ricchezza sconfinata e spesso sconosciuta, verso cui occorre guar-dare, non, come quasi sempre si fa, con sospetto, con timore, con aggressi-vità, ma piuttosto con apertura, con fiducia, con disponibilità. È nell’alteritàche si scoprono valori che ci sono stati e ci sono estranei, valori che ci sonorimasti sconosciuti, valori che sono appunto una ricchezza cui si potrà attin-gere anche senza disconoscere i valori dell’identità.

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Se, dunque, l’archeologia è una disciplina storica che si distingue per per-correre sempre un itinerario di straordinario fascino e suggestione che è un iti-nerario oscillante tra i due poli dell’identità e dell’alterità, si potrà concordarecon l’affermazione che l’archeologia contiene nella sua stessa natura una vo-cazione alla tolleranza e per se stessa è una scuola di tolleranza, in quantostrutturalmente ammaestra e induce alla tolleranza. Avere tra i compiti fonda-mentali l’indagine sull’alterità e la ricerca della diversità nella sua integraleoriginalità non è, infatti, solo qualcosa di intellettualmente attraente e moral-mente doveroso, ma è anche un allenamento a riconoscere valori dove le no-stre abitudini mentali tendono a occultarli, se non addirittura a cancellarli.

In conclusione, l’archeologia è la disciplina storica che presiede alla ri-scoperta, al recupero, alla conservazione e all’interpretazione delle culturedel passato e dunque essenzialmente ai valori che quelle culture hannoespresso, che vanno ritrovati e non fraintesi, compresi e non stravolti, inda-gati e non falsificati. Nel tempo presente, se l’interpretazione può falsificarei valori del passato, rischi gravi mettono a repentaglio perfino la sopravvi-venza stessa delle testimonianze delle culture del passato, quelle testimo-nianze che si definiscono oggi i beni del patrimonio culturale dell’umanità.Testimonianze e beni che – un tempo si diceva non del tutto a torto – finchérestano coperti dalla terra accumulatasi sopra le rovine lungo i secoli, restanoprotetti e non rischiano di deteriorarsi per l’infuriare delle intemperie.

Oggi, anche questo non è più vero, in quanto il sempre più veloce e talo-ra vertiginoso progresso economico, che è imperativa esigenza di riscatto so-ciale anche e tanto più nei paesi in via di sviluppo, spesso, sempre più spes-so, minaccia di distruzione territori ricchissimi di vestigia non ancora ripor-tate alla luce, non di rado conosciuti in modi ancora assai sommari. Inoltre,in un tempo in cui la logica dominante è quella del mercato e la mercifica-zione dei valori anche culturali avanza implacabilmente, immensi territoriche celano ancora fondamentali testimonianze del passato su tutto il pianetasono oggetto di devastanti e sempre più sistematiche depredazioni ad operadi scavatori clandestini indotti o obbligati talora da potenti organizzazioniinternazionali a far fronte alla domanda di un mercato antiquario tanto vora-ce quanto spietato. La perdita definitiva dei contesti archeologici che tantodrammaticamente angoscia gli archeologi perché mutila le testimonianze delpassato di una parte fondamentale del loro significato e del loro valore è, in-sieme alla distruzione diretta di non pochi reperti, uno dei danni irreversibilidella criminale azione degli scavatori clandestini.

Di fronte a questo sempre più incalzante sfacelo del patrimonio culturaledell’umanità, la cui ricerca è l’oggetto proprio dell’archeologia come discipli-

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na storica militante, le organizzazioni culturali internazionali, e in primo luogoovviamente l’Unesco, devono, con fermezza e senza compromessi, levaresempre più alta la loro voce in difesa di ciò che è irrinunciabile patrimonio de-gli uomini tutti, di oggi e di domani. Dichiarando, da un lato, una guerra in-flessibile e senza quartiere, certo difficile e forse anche pericolosa, a chiunque– singolo, gruppo, lobby, paese – metta a repentaglio, direttamente o indiret-tamente, i beni del patrimonio culturale dell’umanità nella loro piena integritàovvero ne trascuri la conservazione, la fruibilità, la protezione. Proclamando eribadendo, dall’altro, almeno alcuni principi fondamentali: i beni culturali delpianeta, materiali ed immateriali, sono patrimonio universale dell’umanità, lacui pubblica fruizione è dovere morale cui non ci si può sottrarre; ai singolipaesi, e ai loro governi in primo luogo, è fatto obbligo vincolante di prendereogni provvedimento per la loro conservazione per tramandarli all’umanità delfuturo; i beni del patrimonio culturale universale sono uguali tra loro comeuguali sono gli uomini, e pertanto è arbitraria e da condannare ogni scelta diproteggerne alcuni e trascurarne, e al limite distruggerne, altri.

L’universalità piena, la fruibilità libera, la conservazione obbligatoria,l’uguaglianza senza discriminazioni sono i grandi principi che devono pre-siedere ad una corretta gestione del patrimonio culturale. L’archeologia è lascienza moderna il cui impegno primario è quello di riscoprire, recuperare,conservare e comprendere, secondo la pluralità dei metodi della ricerca maanche secondo il rigore morale proprio della scienza appunto, questo patri-monio insostituibile ed irrinunciabile. L’archeologo ha, dunque, un ruolo, undovere, una responsabilità, e non tra i minori, nella società del presente conuna prospettiva per il futuro, che è soprattutto quella di consegnare all’uma-nità del futuro quanto più e quanto meglio dell’eredità del passato.

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Arti e Scienze dello Spettacolo

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Che senso ha avuto istituire in tante Facoltà di Lettere o di ex Magisterodelle università italiane – almeno ventitre, da Imperia a Udine a Venezia aLecce a Palermo – un nuovo corso di studi in Spettacolo, negli ultimi quattroanni? È solo una risposta delle facoltà umanistiche, nell’attuale clima di libe-rismo economico, alla crisi del tradizionale reclutamento studentesco da par-te delle grandi aggregazioni accademiche (classicistica, italianistica, pedago-gia, architettura, etc.)? Sì, ma non solo.

È necessario premettere che l’industria mondiale dello spettacolo, loshow business, già sul finire del secondo millennio è entrato nella classifi-ca delle dieci attività umane di maggior impatto economico (accanto all’in-dustria dell’edilizia, del petrolio, degli armamenti, del sesso, della modaetc.), e poi che l’improvvisa esplosione del fenomeno delle Facoltà diScienze della Comunicazione – a cui una certa miopia accademica non havoluto connettere fin dall’inizio, nella realtà istituzionale, l’area dello Spet-tacolo – se è venuta incontro al bisogno di conoscenza e istruzione nelcampo delle comunicazioni di massa, sulla base di un impianto fondamen-talmente sociologico, non ha affrontato il problema del bisogno di cono-scenza ed istruzione tecnico/scientifica e artistica nel contiguo mondo dellospettacolo, dallo “spettacolo dal vivo” (come recita una brutta dizione mi-nisteriale per distinguere il teatro dal cinema) al cinema e soprattutto alnuovo mondo dello spettacolo digitale, ormai dilagante. Né le due beneme-rite istituzioni di istruzione tecnica e artistica nel campo del teatro (l’Acca-demia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”) e del cinema (ilCentro Sperimentale di Cinematografia, ora Scuola Nazionale di Cinema)possono coprire con le proprie forze (limitate se non altro territorialmente)un campo così vasto, in cui cultura, creatività ed istruzione tecnico/scienti-fica sono strettamente connesse.

Più specificamente, che senso ha avuto istituire nella nostra Facoltà di

Ferruccio Marotti

Un corso di laurea in spettacolo in una Facoltà di ScienzeUmanistiche: ragioni e storia di un progetto

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Ferruccio Marotti62

Scienze Umanistiche un nuovo corso di studi in Arti e Scienze dello Spetta-colo, comprensivo sia della laurea triennale sia di quella specialistica?

Solo da pochi anni la riforma dell’università italiana ha reso possibileattivare un Corso di Studi DAMS ovvero un Corso di studi triennale in Arti eScienze dello Spettacolo (Teatro e Arti Performative, Cinema, SpettacoloDigitale) e un Corso di Laurea Magistrale in Saperi e Tecniche dello Spetta-colo Teatrale, Cinematografico, Digitale. Il corso – che formalmente è unodei ventitre DAMS attivati in questi ultimi anni nelle università italiane – èal tempo stesso il primo in Italia, nella sua specificità, con tre indirizzi: teatroe arti performative, cinema, spettacolo digitale, tutti rivolti ad approfondireuna dimensione europea, sovranazionale.

Per costruire il futuro, è opportuno conoscere il passato: quando ho co-minciato a insegnare Storia del Teatro e dello Spettacolo, nella Facoltà diLettere e Filosofia, nel 1963, il teatro era materia non molto valutata; e anco-ra nel 1981, quando proposi di chiamare Eduardo De Filippo a insegnareDrammaturgia, e Jerzy Grotowski, il famoso uomo di teatro polacco, Tecni-che originarie dell’attore, una illustre collega si allontanò dal Consiglio diFacoltà gridando: “Dove siamo arrivati: i guitti all’Università!”. Nonostantequesto clima, nel corso degli anni ho portato a collaborare come docenti al-l’Istituto del Teatro autori, attori e registi europei di indiscusso livello inter-nazionale. E questo perché ho sempre ritenuto che una dimensione più ampiadi quella nazionale sia essenziale nel mondo dello spettacolo e che il rap-porto fra teoria e pratica, fra storia e tecniche, sia di fondamentale importan-za per chi voglia scegliere il teatro e lo spettacolo come elemento integrativoalla propria futura attività professionale di insegnante o di giornalista o altro,ma soprattutto per chi voglia lavorare nel mondo dello spettacolo, senza af-fidare la propria formazione esclusivamente ad accademie o scuole profes-sionali.

E questa scelta, di fare stages intensivi su singoli aspetti del lavoro del-l’autore e dell’attore e laboratori universitari per apprendere in modo attivo,autodidattico, i saperi e le tecniche della professione, invece di fare unascuola per attori o registi, l’hanno fatta tanti nostri ex allievi, da Leo De Be-rardinis a Peter Del Monte, da Ginni Gazzolo a Francesca Benedetti, da Cri-stian De Sica a Salvatore Piscitelli, da Nanni Moretti a Claudio Bigagli, daGiorgio Barberio Corsetti a Francesco Apolloni e ad altri ancora, con maestriquali Jerzy Grotowski, Antoine Vitez, Jurj Liubimov, Peter Stein, AnatolijVassiliev, Peter Brook, Jean Paul Denizon, Bruce Myers. Il nostro Corso diLaurea ha dunque alle spalle una lunga esperienza di lavoro.

Negli anni Trenta, quando fu costruita la Città Universitaria, nell’edifi-

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cio del Circolo Ricreativo e Culturale dei Professori fu ricavato uno spazioteatrale, il Teatro Ateneo, il solo esistente in un’università italiana, che di-ventò anche il Teatro Nazionale dei Gruppi Universitari Fascisti. Qui debut-tarono come studenti attori poi divenuti famosi, quali Giulietta Masina, Mar-cello Mastroianni, Vittorio Gassman, Anna Proclemer, Mario Riva, autori esceneggiatori come Diego Fabbri, Turi Vasile, Siro Angeli, teatranti comeEnrico Fulchignoni e Gerardo Guerrieri. Dopo la guerra, nel 1954, fu fon-dato l’Istituto del Teatro, per gestire le attività del Teatro Ateneo e promuo-vere la cultura dello spettacolo, e ne fu affidata la direzione a Giovanni Mac-chia. Nel 1960 un gruppo di studenti, fra cui Leo De Berardinis, io, Perla Pe-ragallo, Gigi Proietti, Carlo Quartucci, Rino Sudano, fondarono il CentroUniversitario Teatrale, con grande successo di pubblico e di critica, ma dopomesi e mesi senza acqua, senza riscaldamento, senza elettricità, dovetteroabbandonare il teatro…

Nel 1961 la Facoltà di Lettere conferì a Giovanni Macchia l’incarico diinsegnare Storia del Teatro e dello Spettacolo e annesse alla facoltà l’Istitutodel Teatro, un organismo finanziato dagli studenti, che gestiva il Teatro Ate-neo: due anni più tardi, dopo essermi laureato con Macchia in Storia del Tea-tro e dello Spettacolo, ho cominciato a sostituirlo gradualmente, ed ho conti-nuato a insegnare la materia fino al 2000, sdoppiando negli anni l’insegnamen-to con altri ex allievi miei e di Macchia, Luciano Mariti e Silvia Carandini, poicon Clelia Falletti, Mara Fazio, e attivando parallelamente l’insegnamento diMetodologia della Critica dello Spettacolo, tenuto prima da Maurizio Grande,poi da Renzo Tian, e infine da Antonella Ottai e Roberto Ciancarelli.

Il nostro Istituto, l’Istituto del Teatro (che aveva una biblioteca teatralefra le più aggiornate d’Italia, chiusa in casse ormai da quasi un decennio, permancanza di spazi idonei!), nel 1985 è diventato Dipartimento di Musica eSpettacolo e nel 1997 è confluito, per ordine dell’allora rettore Giorgio Tec-ce, nel Dipartimento di Italianistica, che aggiunse al proprio nome quello diSpettacolo (e ha voluto conservarlo anche dopo che tutti i docenti della ma-teria, tranne una ricercatrice su quattordici, sono adesso passati al nuovo Di-partimento di Arti e Scienze dello Spettacolo).

In questi decenni la nostra attività di ricerca scientifica ha costituito ilpresupposto e la base di un’attività didattica tesa a coniugare teoria e pratica,ricerca scientifica di alto livello e insegnamento, sia di base che specialistico.Gli ambiti indagati e divenuti oggetto di approfondimento e di studio, ancheper gli studenti, sono stati molteplici: segnalo in particolare quelli sul teatrorinascimentale e la festa, sulla commedia dell’arte, sullo spettacolo e la festanel Seicento, sull’arte dell’attore e il teatro goldoniano nel Settecento e Otto-

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cento, sul teatro delle avanguardie storiche, sui padri fondatori della regia nelNovecento, sui teatri orientali, sulla scenografia dal Seicento ai giorni nostri.Numerose pubblicazioni, storiche collane di studi teatrali (“Biblioteca tea-trale”, la prima fra quelle da me promosse, è numericamente la maggiorenell’editoria europea), cataloghi, la rivista «Biblioteca teatrale», attiva da ol-tre trent’anni, dispense di studio, tesi di laurea di alto livello, stanno a testi-moniare di questo fecondo interscambio fra studio, ricerca, promozione cultu-rale, pratica e insegnamento. Testimonianza ne sono altresì le lauree honoriscausa conferite via via negli anni a Eduardo De Filippo, Giorgio Strehler,Michelangelo Antonioni, Peter Brook, mentre siamo in attesa da anni che ilRettore convochi la commissione di laurea per assegnarla a Dario Fo.

Nel 1981, il Rettore Ruberti decise di separare l’Istituto del Teatro dalTeatro Ateneo, per potenziare l’attività di quest’ultimo, e costituì il CentroTeatro Ateneo, un organismo interfacoltà che ha organizzato, insieme conl’Istituto del Teatro, poi con il Dipartimento di Musica e Spettacolo e succes-sivamente con il Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo, laboratori,seminari, convegni, mostre, pubblicazioni. Il Consiglio Direttivo del CentroTeatro Ateneo – ora centro di ricerca interdipartimentale interateneo – è statocomposto da docenti eletti triennalmente come rappresentanti da tutte le fa-coltà, dai docenti di discipline teatrali e da rappresentanti degli studenti. Dal-la sua istituzione, ne è stato presidente Agostino Lombardo ed io direttore.

Dal 1987 al 1995, il Centro Teatro Ateneo ha inoltre gestito le stagioniteatrali del Teatro Ateneo: in quegli anni il teatro dell’Università “La Sa-pienza”, dopo oltre trent’anni di silenzio, ha offerto agli studenti universitarioltre mille spettacoli, diventando, nel giro di pochi anni, uno dei più impor-tanti spazi per la ricerca teatrale in Italia e in Europa.

L’obiettivo principale del Centro è stato ed è quello di sperimentare co-me integrare l’attività didattica dei docenti di teatro con un insieme di inizia-tive volte a consentire agli studenti di avvicinarsi al mondo dello spettacoloattraverso una conoscenza diretta del fare e del vedere teatro, nonché quellodi promuovere e coordinare la ricerca sul rapporto fra il teatro e le nuove te-cnologie audiovisive digitali e il loro uso come strumenti di analisi del teatroe dello spettacolo. Le sessioni di studio pratico, operativo, i laboratori che ilCentro ha promosso, hanno affrontato i problemi e le tecniche del lavorocreativo nel campo dello spettacolo, per far crescere e affinare le capacità de-gli studenti sperimentando la realtà del lavoro produttivo. Il Centro TeatroAteneo dunque, pur non avendo lo scopo specifico di formare attori o registi,ha contribuito alla loro formazione rendendo il processo di studio e appren-dimento più vicino alla concretezza della professionalità e della pratica dello

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Un corso di laurea in spettacolo in una Facoltà di Scienze Umanistiche

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spettacolo. I docenti che sono stati chiamati a tenere questi corsi integrativi,“paralleli”, in collaborazione fra la mia cattedra di Storia del Teatro e delloSpettacolo e il Centro Teatro Ateneo, sono infatti grandi uomini di teatro.Più di venti anni or sono, nell’ottobre 1981, ha cominciato il suo corso didrammaturgia Eduardo De Filippo, e parallelamente Jerzy Grotowski, ilgrande uomo di teatro polacco esule in quei giorni in Italia, tenne centoventiore di lezione sulle tecniche originarie dell’attore. Negli anni successivi Da-rio Fo tenne due corsi di scrittura scenica, Eugenio Barba un laboratoriosulle tecniche di lavoro dell’Odin Teatret, Peter Stein fece un laboratoriosperimentale di regia shakespeariana, uno sulla tragedia greca e uno sulladrammaturgia cechoviana, Anatolij Vasil’ev uno di regia pirandelliana,Martha Graham tenne un seminario di danza moderna, Vittorio Gassman direcitazione, Carmelo Bene di fonè.

Nel 1995 il Rettore Tecce ci ha costretto a interrompere l’attività teatra-le, denunciandomi per aver aperto il teatro, secondo lui in modo irregolare.L’Autorità Giudiziaria, dopo circa due anni di indagini preliminari, ha datoragione a me, parlando nella sentenza di fumus persecutionis, ma ovvia-mente riprendere a pieno l’attività non è semplice, perché dal 1995 il teatronon ha più rinnovato la pratica per l’agibilità teatrale: così abbiamo comin-ciato a riprendere l’attività dai seminari e dai laboratori piuttosto che daglispettacoli. E abbiamo avuto nuovamente docenti di grande rilievo come Da-rio Fo e Franca Rame, Judith Malina, Eugenio Barba, Giorgio Barberio Cor-setti, Mario Martone, Anatolij Vasil’ev, Enzo Moscato, Valère Novarina,Remondi e Caporossi, Pina Bausch, Federico Tiezzi, Jean Cébron, NikolajKarpov, Enrique Vargas, fino ai recenti laboratori di Gennadi Bogdanovsulla biomeccanica, di Bruce Myers sulla recitazione shakespeariana secon-do Peter Brook, e di teatro della spontaneità di Ferruccio Di Cori.

Per sottolineare questo aspetto dell’attività del Centro Teatro Ateneo, inquesto anno accademico dedicheremo a uno dei maestri con cui abbiamo ini-ziato l’attività “parallela” di insegnamento professionale, Jerzy Grotowski, unconvegno internazionale di studi con analisi critiche, ricordi, testimonianze.

Tutte le nostre esperienze di lavoro sono state videoregistrate e sono di-venute strumenti didattici fondamentali. Infatti una parte importante dell’at-tività di ricerca del Centro Teatro Ateneo è rivolta all’impiego delle nuovetecnologie audiovisive e in particolare alla digitalizzazione delle immagini inmovimento e alla sperimentazione del loro uso per la ricerca scientifica sulteatro e per costituire nuovi moduli didattici e di fruizione critica nel campodelle discipline dello spettacolo, con particolare riguardo al teatro.

Sulla base di queste premesse è corretto affermare che il nostro nuovo

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Corso di laurea DAMS è il primo, in Italia, per il modo in cui è strutturato enon è da confondere con il classico corso di laurea DAMS, nato a Bolognaoltre trent’anni or sono (dove anche io ho insegnato per otto anni) e replicatopoi in varie università italiane, dalla Calabria a Torino, all’Università di “TorVergata”, a Roma 3, ed ora anche nella Facoltà di Lettere de “La Sapienza”.Qual è la differenza fra il nostro corso di laurea DAMS e quello – con lostesso titolo e la stessa validità accademica – esistente presso le altre univer-sità? Il DAMS classico è fondato sull’idea di una formazione interdisciplina-re di arte, musica e spettacolo, in cui l’istanza di interdisciplinarità si è rive-lata, nel tempo, poco funzionale a un approfondimento specifico e professio-nalizzante nei diversi ambiti e nelle diverse tecniche dello spettacolo: cinqueo sei esami di teatro, o di musica o di cinema, su ventuno del corso, finivanocon l’essere troppo pochi per dare una reale formazione nel campo. Per que-sto – valendoci dei margini dell’attuale autonomia universitaria e della ri-chiesta di professionalizzazione dell’università – abbiamo progettato un Cor-so di laurea dedicato specificamente allo spettacolo, in cui la formazione siarivolta in modo prioritario a dare allo studente una professionalità culturalenel mondo dello spettacolo come autore, operatore, regista, produttore, atto-re, scenografo, giornalista, studioso. Ben 92 crediti su 180, nel corso di studitriennale, sono utilizzabili nell’ambito dello spettacolo, ma anche materie dibase come francese, tedesco o inglese o estetica hanno dei corsi mirati pergli studenti di spettacolo. E sopratutto lo studente può seguire – se lo deside-ra – fino a 200 ore di laboratori di sperimentazione tecnica e pratica o – seintende avere una più specifica formazione tecnico-scientifica nel campodello spettacolo cinematografico o digitale – uno dei cinque corsi regionalidi formazione tecnico-scientifica superiore finanziati dalla Comunità Euro-pea, che fanno riferimento al nostro corso di studi. Una formazione univer-sitaria, a parer mio, è sempre più necessaria a chi intenda lavorare cultural-mente in modo professionale nel mondo dello spettacolo. Ed è giusto che“La Sapienza”, che vanta la più antica e importante tradizione di studi sulteatro e le arti performative, sia la prima a proporre un modo nuovo, innova-tivo, di pensare a una formazione culturale e professionale sullo spettacoloper i giovani d’oggi nella civiltà contemporanea e soprattutto in quella didomani, in una dimesione europea. Il nostro nuovo corso di laurea ha dunquealle spalle anni di attività di ricerca sperimentale, che confluiscono in unprogetto didattico organico e integrato nel curriculum didattico per gli stu-denti del nuovo ordinamento.

Il settore Cinema presenta una situazione diversa: la Facoltà di Letteredecise di attivare l’insegnamento di Storia e Critica del Cinema solo nel

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Un corso di laurea in spettacolo in una Facoltà di Scienze Umanistiche

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1982, affidandolo a Guido Aristarco, uno dei maggiori studiosi della primagenerazione di storici del cinema in Italia e, quando questi andò in pensione,a Orio Caldiron e, per affidamento, prima a Giovanni Spagnoletti e poi a Giu-lia Fanara. In questi anni si sono susseguite attività integrative extracurricularidi proiezioni cinematografiche in anteprima presso la sala di proiezione cine-matografica del Centro Congressi di via Salaria, proiezioni inerenti i corsinell’Aula I e V di Lettere, presentazioni di film da parte di registi. QuandoOrio Caldiron è divenuto Presidente del Centro Sperimentale di Ci-nematografia, ora Scuola Nazionale di Cinema, si è attivato con la CinetecaNazionale un proficuo rapporto di collaborazione. Ma fino a quest’anno lamancanza di spazi specifici da adibire a set o studi cinematografici sperimen-tali in area universitaria (non solo a Roma, ma in tutta Italia) hanno penaliz-zato un’attività pratica sperimentale professionalizzante in questo settore.

Spettacolo Digitale: questo è un settore troppo recente per parlare di sto-ria, siamo ancora alla sperimentazione. Nonostante le difficoltà oggettive peri costi elevati delle attrezzature tecnologiche, abbiamo voluto dar vita fin dalprimo anno a un indirizzo di studi dedicato a questo settore, unico in Italia,valendoci della collaborazione dei maggiori esperti, perché riteniamo fon-damentale lavorare sulle conseguenze che sta portando nel mondo della co-municazione e dello spettacolo l’introduzione delle nuove tecnologie digitali:si tratta di una rivoluzione di portata almeno pari a quella che ebbe l’avventodella stampa al posto della scrittura manuale nel mondo protorinascimentale.Così come allora mutò la funzione stessa della scrittura, grazie all’invenzionedi Gutemberg, oggi non solo mutano le modalità tecniche del fare spettacolo,ma la presenza di un mondo virtuale al posto del reale o accanto al reale, stamodificando il concetto stesso del fare spettacolo. È un modo nuovo di viverelo spazio e il tempo che porta con sé conseguenze di enorme portata: e questoè, anche sperimentalmente, l’oggetto del nostro corso di studi, dove gli stu-denti devono confrontarsi obbligatoriamente anche con la cultura tecnica escientifica, senza perdere le radici della propria cultura umanistica.

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Filologia romanza e letterature comparate

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Come la Filologia classica, alla cui problematica e ai cui metodi si è sto-ricamente ispirata, la Filologia e linguistica romanza nasce come disciplinacomparatistica, sia sul piano linguistico che storico-letterario; come la Filo-logia classica, la Filologia romanza analizza un sistema di lingue e letteratu-re unitario, in quanto tutte derivate dalla cultura e dalla lingua latina (o al la-tino e alle lingue e letterature neolatine in massima parte legate, come l’in-glese) e in quanto fortemente interrelate dal punto di vista storico-sociale e/oculturale per un lungo periodo cronologico. Mentre però la Filologia classicafa riferimento ad un insieme chiuso dal punto di vista storico (malgrado ilsuo valore modellizzante, “classico”, fino ai nostri giorni), la Filologia ro-manza riconosce a sua volta in un periodo, quello tardo-medievale, fino al-l’Umanesimo (con periodizzazioni quindi variabili da paese a paese), il suopunto di riferimento basilare e privilegiato, ma con una fondamentale diffe-renza. Proprio perché Filologia e linguistica che studia il passaggio dal mon-do classico al mondo moderno, la Filologia e linguistica romanza partecipadi un sistema unitario e al contempo della sua diversificazione e contamina-zione con altre lingue, culture e letterature tuttora vive e in movimento, inuna parola, partecipa alla sua «modernizzazione». È interrelata quindi anchea due epoche storiche: ha i piedi saldamente piantati nel Medio Evo e la testanella Modernità; il suo tempo e il suo spazio non sono “chiusi”, sono tuttorain movimento: non ha avuto e non avrebbe del resto potuto avere confinispaziali e cronologici prestabiliti e rigorosamente definiti. Con conseguenzerilevanti ancor oggi per la concezione e la funzione stessa della disciplina dalpunto di vista scientifico e formativo, ivi compreso il suo rapporto con quelcomparatismo che pure ne segna fortemente la genesi.

Vi sono infatti storicamente due concezioni fondamentali della Filologia(e della Linguistica) romanza per quanto riguarda il tempo, con ricadute evi-denti anche nell’insegnamento.

Roberto Antonelli

Filologia (romanza) e letterature comparate, oggi

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Roberto Antonelli72

La prima intende la Filologia romanza come «filologia e linguistica sin-cronica» (medioevo, soprattutto romanzo, spesso, ma non sempre, mediola-tino, talvolta umanistico, limitatamente alla tradizione dei testi e della filolo-gia: Cinquecento e storia dei manoscritti, edizioni, erudizione positiva, con-testualizzazione, etc.). È la concezione riflessa, in forma estremistica, nellaprima definizione che della Filologia e Linguistica romanza aveva propostoil Consiglio Universitario Nazionale al momento di definire la Declaratoria,ovvero una sorta di paradigma del gruppo disciplinare, ma è anche quella ditanti nostri amici italiani (molto meno europei e americani). Relegava i filo-logi romanzi al ruolo di tecnici dei primi documenti volgari e del passaggiodal latino volgare alle lingue romanze, con qualche interesse (limitatissimo)per la fase iniziale delle rispettive letterature (poi mutata, in un compromes-so difficile, nell’attuale formula che “consente”, per così dire, ai filologi ro-manzi italiani di occuparsi anche dello “sviluppo” oltre che delle “origini”delle lingue e delle letterature neolatine).

La seconda intende la disciplina come «filologia diacronica», compren-dente anche il moderno (ma non necessariamente la «lunga durata»), dalMedio Evo, e magari dalla Tarda-Antichità, fino a noi, con tutti i problemirelativi ad un sistema linguistico-letterario europeo sostanzialmente roman-zo-centrico fino al XVI secolo ma dal XVII contrassegnato dal ruolo semprepiù marcato delle letterature di lingua inglese e germanica, poi anche slava(nel XIX secolo), fino ai nostri giorni, quando l’egemonia globale del siste-ma culturale e letterario angloamericano è misurabile da tanti indicatori spe-cificamente culturali (dai vincitori di premi Nobel – dal 1935 in avanti – aimoderni mezzi di comunicazioni di massa, al numero di studenti di linguaangloamericana, cui, significativamente, “resistono” soltanto quelli di spa-gnolo (lingua romanza e “americana”) e di cinese, arabo e giapponese.

Ricordo questi fatti di banale evidenza poiché segnano necessariamenteil problema del passaggio da una filologia e comparatistica di tipo “storici-stico-documentario” (da “scuola storica”: i rapporti fra culture storicamenteinterrelazionate linguisticamente e storicamente, magari con radici comuni)ad una potenzialmente, e sia pure non necessariamente, non-storicistica omeglio, neo-storicistica, secondo un dibattito che effettivamente, dagli anniTrenta in poi, ha segnato anche la comparatistica vera e propria.

Corrispondentemente, ma non necessariamente in coincidenza ideologi-ca, si sono manifestate due diverse concezioni dello spazio, l’una limitata ri-gorosamente alla Romània (preferibilmente quella precedente la scopertadell’America e l’espansione colonialistica europea in tutto il mondo, quindi

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di fatto la Romània medievale), estesa magari ad analizzare in profonditàdialetti e tradizioni popolari del vecchio continente (secondo una concezionecronologicamente aggiornata della Filologia come Altertumswissenschaft,scienza generale di una lingua o gruppo di lingue, e di una cultura – si ricor-di già Vico); l’altra estesa ad ogni luogo in cui si parlassero lingue romanzeo con esse incrociate, dunque al Nuovo Mondo e a qualunque territorio toc-cato dall’espansione coloniale europea neo-latina, con significativa coinci-denza fra spazio e tempo della nuova Romania, atlantica o pacifica che fos-se. Sono entrambe ovviamente posizioni legittime che hanno risposto anchea gusti personali, non necessariamente a preclusioni o a guerre ideologiche,ma che tradiscono anche concezioni radicalmente diverse della disciplina erispondono a sollecitazioni storiche che forse ormai, all’inizio di un nuovosecolo e millennio, è possibile tentare di individuare, contribuendo così, inqualche modo, a storicizzare e a comprendere anche la nostra posizione, lenostre scelte e magari i problemi e le vie e soluzioni possibili anche per quelche riguarda il ruolo della Filologia e delle letterature comparate, neolatine enon, nella formazione degli studenti italiani ed europei del terzo millennio,quando si sta faticosamente tentando di costruire un’Europa multilinguisticae multiculturale, con confini esterni e interni ben diversi da quelli dell’ori-ginaria Europa “carolina”.

C’è un caso, svoltosi proprio a Roma, quello del rapporto fra i due primigrandi filologi della «scuola romana», E. Monaci e C. De Lollis, che ha valo-re forse emblematico, al di là della sua collocazione municipale.

Per Monaci l’orizzonte scientifico e formativo era costituito dallo scavodocumentario, dalla storia, dalle tradizioni, anche popolari: dall’archivio, daimanoscritti e dalla Biblioteca (non per nulla straordinaria quella che egli la-sciò alla Società Filologica Romana, da lui fondata e ora ospitata dal Centro«Angelo Monteverdi»), secondo una prospettiva tipica della scuola storica:fonda insieme la Filologia Romanza a Roma, come intera area romanza me-dievale e dialettale (con tre riviste, una ancor oggi viva, «Studj romanzi»), laSocietà romana di storia patria, l’Istituto Storico Italiano, la Paleografia ro-mana e l’Archivio paleografico italiano e, appunto, la Società FilologicaRomana. Importante il bello ma soprattutto il vero, altrimenti si lavora sul“nulla”: «Nelle discipline letterarie si distinguono due principali intendimen-ti: l’uno meramente artistico, il quale aspira a mantenere il culto del bello e adilettare istruendo; l’altro eminentemente scientifico, che studia le lingue e leletterature per se stesse, e ricercandovi per entro le sublimi manifestazionidel vero, ne deriva copia d’argomenti ad illustrare la storia dell’umanità.

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Utili sommamente ambedui …» e interrelati, ma al primo «si rivolge la mag-gior parte della gioventù, il secondo non trova che rari seguaci» (Proemio alprimo numero della «Rivista di filologia romanza», 1872). Da cui un com-pito e un magistero rivolto a sostenere il secondo, a riformare «sovra basi piùsalde l’insegnamento, massime coll’avvalorarlo colla filologia comparata; laquale indirizzando gl’intelletti alle fonti del vero sapere, varrà potentementea ritemprarli di vita e gagliardia novella», facendo concorrere anche l’Italiacome Nazione nel concerto delle nazioni al primato nella ricerca del vero,nella competizione scientifica europea.

De Lollis fu suo allievo: ugual senso storico-filologico ma affiancato dainteressi moderni, in particolare per le letterature comparate: la sua chiamataa Roma avverrà non per la Filologia romanza ma per la cattedra di Letteratu-re francese e spagnola comparate, e non soltanto a causa dei problemi con-flittuali nel frattempo apertisi col Monaci, peraltro sempre molto signorile edelegante malgrado i dissensi. Il «tempo filologico» di De Lollis è dichiara-tamente diverso. Fa centro piuttosto sulla diacronia, è fondato sull’analisi sti-listica e sul superamento dell’Alterità (l’Alterität poi di Jauss) fra letteraturamedievale e letteratura moderna, fra i medievali e noi, in nome dell’«univer-salità dello spirito umano». La letteratura deve essere vissuta, capita, nonanatomizzata come fosse qualcosa che col bello e i sentimenti non ha a chevedere: «E divenni prima studioso poi professore di quella filologia neolati-na che, limitata, come la si vuole in Italia, al medio evo, studia delle lettera-ture in formazione e riveste quindi, come il solo che le convenga, quel ca-rattere di intransigente storicismo, che, se in tale disciplina può essere più omeno a suo posto [corsivo nostro], è prevalso a sproposito nello studio delleletterature in genere, le classiche comprese. Coll’effetto immancabile del-l’atrofizzazione della sensibilità letteraria; poiché indagare come e perchéun’opera letteraria, o artistica in genere, si sia formata, significa staccarla danoi; disinteressarsi di quel che essa è come creazione effettuata, e farne og-getto di fredda curiosità» (La confessione d’un figlio del secolo passato,1927, ora in Scrittori d’Italia, a cura di G. Contini e V. Santoli, Milano-Napoli 1968, p. 593). Evidente l’influenza di Croce e della reazione antiposi-tivistica, ma filtrata attraverso un rapporto coi testi infine filologico e com-paratistico, che andrebbe ancora indagato ma che comunque aveva assunto larelazione vitale colla letteratura, la sua «attualizzazione», come elementofondante, tanto da estendersi perfino alle metodologie ecdotiche, in cui illachmannismo comparatistico («positivistico» probabilmente, per la sensibi-lità di De Lollis), veniva accantonato, sul piano teorico, a favore di Bédier:«Questo tranquillo studioso è stato il primo che sistematicamente, e sia pur

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forse senza precisamente accorgersene, ha risottomesso il risultato della ricer-ca, nello studio della letteratura medievale, alle leggi eterne e universali dellospirito umano: di quella povera letteratura medievale ch’era ormai da decennicampo riservato a escavazioni di carattere geologico, o peggio ancora, allagiostra della ricerca per la ricerca» (Joseph Bédier all’Accademia, 1921).

Lo spazio è per entrambi la Romània: ma solo medievale per uno, anchemoderna per l’altro e come tale aperta, anche spazialmente, alla nuova Ro-mània, l’America: si ricordi il De Lollis studioso di Colombo. Ma soprattuttoDe Lollis è lo studioso delle lingue e letterature romanze in quanto testi inlingua, è l’indagatore dei testi nella loro fisionomia stilistica. Sono queste lecaratteristiche nuove che portano alla fondazione di una nuova rivista ancoroggi attiva e presente, La cultura, e che lo hanno fatto includere da Gian-franco Contini fra i fondatori, in Italia, della critica stilistica: «Al croceviadella filologia romanza e dell’estetica crociana (con nello sfondo la lettura«retorica» di Carducci e l’insegnamento storico del De Sanctis), il De Lollisè stato il primo nel nostro secolo, almeno in Italia, a dare illustri esempi diuno studio «stilistico» dei fatti letterari. Di più: egli ha mostrato di conside-rare la letteratura come un «sistema», con le presenze e assenze correlative,le sue alterità e opposizioni. Di qui, anche la costruzione di una storia «lette-raria» della letteratura in contrapposizione alla sociologia ottocentesca; diqui l’implicito superamento del verticalismo della storia letteraria «naziona-le» (e relativa littérature comparée alla francese)» (De Lollis, Scrittorid’Italia, p.v).

Mutatis mutandis, è lo stesso passaggio che si trovò a rappresentare, nel-la grande Vienna mitteleuropea, Leo Spitzer nei confronti di Wilhelm Meyer-Lübke, fin nei particolari aneddotici oltre che nel disagio verso una discipli-na cristallizzata in una dimensione accademica e ripetitiva.

In entrambi i casi, malgrado le differenze, un punto fondamentale in co-mune: il passaggio da una fase ad un altra della Filologia e della linguisticaromanza: dal pionerismo, dalla linguistica comparata e dalla scuola storica alTesto (poetico), alle domande sul senso della disciplina, e dei testi su cui ve-niva esercitata, nel mondo contemporaneo, nell’Europa del primo Novecentoe degli anni Venti e Trenta. Crisi del modello positivistico, dunque, che purecostituisce fino ad oggi tanta parte della Filologia romanza (e delle scienzein genere) come disciplina universitaria da un canto; dall’altro re-interpreta-zione inevitabile della stessa disciplina e della sua funzione nella culturacontemporanea ad opera della generazione più giovane, in quanto portatrice(al di là della stessa coscienza dei protagonisti), di un altro Zeitgeist. Anche

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le discipline scientifiche vivono nella storia e in quanto tali, direbbe Croce,sono “politica”, ovvero si inseriscono in quella rete di rapporti interpersona-li, civili e storici che riguardano la polis, le sue istituzioni e la sua cultura, lasua vita. Ma, nel caso di Leo Spitzer con una caratteristica particolare, comeha acutamente sottolineato Gianfranco Contini, la capacità di unire la lezioneper così dire “grammaticale” di Meyer Lübke a quella propria di lettore einterprete dei fatti individuali (Varianti e altra Linguistica, Torino 1970[= VAL], p. 654): «Il senso complessivo della figura di Spitzer è di avere of-ferto un ponte dal fatto, appannaggio dei tecnici, all’interpretazione, ma lacondizione e la garanzia della sua legittimità sta nel poter richiudere il cir-cuito dall’interpretazione al fatto» (VAL, 653), grazie soprattutto a quella«ricognizione degli elementi individuali» fondata «su una base differenziale,anche se non importa sia resa esplicita», su cui si basa tutto il suo metodo(VAL, 656, ovvero quel «reticolato dei punti di riferimento» che sono il pre-cedente più immediato delle «curve di livello» teorizzate nell’analisi diffe-renziale di Contini stesso).

Base differenziale equivale a dire “comparatistica”, pur se il problemadel comparandum e della possibilità di garantirne un’“oggettività” costitui-sce motivo di riflessione, discussione e differenziazione, sino allo strutturali-smo e alla semiologia e sino ai giorni nostri. Quel che ci interessa rilevare inquesta sede, almeno in via preliminare, è come, alla crisi della Filologia ro-manza come scienza delle certezze storico-positivistiche e della grande cul-tura europea, una delle due grandi strade in cui si biforca la disciplina nel-l’impatto con la storia e con la grande Krisis della cultura europea, è intrin-secamente legata ad un’applicazione testuale di quel principio comparatisti-co che aveva presieduto alla sua fondazione, con determinazioni metodolo-giche che, come poi altri metodi più recenti, fuoriescono potenzialmente (espesso anche di fatto) dall’ambito disciplinare. Richiedono, quasi inevita-bilmente, di riversarsi ed essere applicate anche altrove, alla totalità del si-stema letterario, pretendendo una nuova concezione dello spazio romanzoche comprenda almeno quello complessivamente europeo, spesso anche ex-tra-europeo, ma non solo (è il caso sia di Spitzer che, soprattutto, di Contini,e del suo «espressionismo critico»). Con la stilistica “individuale” spitzeria-na (il famoso “clic”) e la stilistica plurilinguistica ed espressionistica conti-niana, la Filologia Romanza, mentre mantiene i legami colle proprie ragioni“genetiche”, costruisce le ragioni di un allargamento spaziale e temporale,sincronico e diacronico.

E se in effetti il Tombeau de Leo Spitzer, come ogni epicedio critico, èanche una grande auto-proiezione dell’autore Contini, un’analisi forse in

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parte inconscia delle proprie ragioni di filologo e critico, esso costituisce ancheun documento straordinario di una linea fondante la Filologia romanza daglianni Trenta ai Sessanta e oltre, ponte essa stessa, nelle applicazioni linguisti-che e critiche continiane, a quello strutturalismo critico e a quella critica se-miologica che, praticata dai suoi grandi allievi o vicinissimi, Avalle, Segre,Corti innanzi tutto, segnerà, non solo in Italia, i decenni successivi, il rinno-vamento della critica letteraria e la relazione tra Filologia e comparatismo.

Contini dunque non casualmente editore di De Lollis, pioniere della cri-tica stilistica, ma anche Contini editore e linguista: e viceversa, filologia deltesto come sistema linguistico, storico certamente, ma, in quanto testo poeti-co in lingua, portatore in sé di valore. Eversore e al tempo stesso costruttoree organizzatore del Novecento italiano, un secolo restituito alla grande lette-ratura e critica europea anche, e forse soprattutto, grazie alla sua attività dicritico militante e filologo (due aspetti congiunti in lui sin dalle prime pub-blicazioni). Il sodalizio fra Contini e Pasolini è qualcosa di più di un episo-dio: il plurilinguismo e l’espressionismo con cui Contini e Pasolini interpre-tano Dante e la letteratura italiana (ed europea) permettono la congiunzionedi filologia, critica e scrittura creativa, fornendo una chiave decisiva per larifondazione novecentesca della letteratura italiana. Linguista sincronico, fi-lologo romanzo per vocazione e convincimento ma innanzi tutto “contempo-raneo e contemporaneista”, in quanto attentissimo alla dimensione e “funzio-ne” contemporanea della filologia e della critica (di nuovo lo Zeitgeist), Con-tini lavora di fatto tematicamente. La base è costituita dalla lingua e dallalinguistica ma le chiavi sono il plurilinguismo e l’espressionismo, l’avan-guardia «madre di tutte le avanguardie», che permettono l’attraversamento eperfino il corto circuito fra epoche diverse, fra il Medio Evo e il grande Due-cento italiano e il “suo”, ora il “nostro” Novecento, come capirà assai preco-cemente il giovane e già plurilinguista, friulano, Pasolini. Il sistema linguisti-co del singolo testo, diranno poi i grandi semiologi come Lotman, del «siste-ma dei testi», del sistema culturale nel suo complesso, in quanto «sistema deisistemi», è nel fatto, in re, analisi comparata, che nei casi migliori unisce dinuovo filologia e senso dei testi e del sistema, “grammatica” e “poesia”:«Per uno strutturalista i fatti sono un limite perpetuamente vissuto, una tra-scendenza da smontare senza tregua; e se un fatto è naturalmente anche a luiun fatto solo quando abbia attraversato il bagno critico della mente, la suaistituzione è l’interpretazione, la sua meta è la pensabilità più economica deifatti (cioè implicante il minimo d’interpolazione), l’ottima collocazione egraduazione dei fatti nella struttura reticolare dei punti di memoria» (G.

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Contini, Memoria di Santorre Debenedetti, 1949). Punti di memoria e puntidi riferimento nel ricordo di Spitzer: in mezzo il sistema, la pensabilità «piùeconomica dei fatti», ovvero un nuovo comparatismo, strutturalistico e altempo stesso storico.

Una risposta, quella spitzeriana e continiana, alla crisi dello storicismopositivistico, come aspetto particolare della più generale Crisi della culturaeuropea agli inizi del Novecento e poi, drammaticamente, negli anni Trenta.

Sempre l’Europa al centro; romanza per oggetto, germanica, poi france-se, per metodo, anche in ecdotica, almeno dal 1912 e specialmente dall’ar-ticolo di Bédier su «Romania» del 1928, con l’esposizione più distesa e pro-fonda delle critiche al metodo lachmanniano; per Contini la riflessione sullecritiche bédieriane al sistema lachmanniano, comparatistico si badi (e razio-nalisticamente normativo, “grammaticale”), costituiranno poi un filo ininter-rotto di riflessione e di proposte, anche le più diverse, che fanno parte diquesta storia e che sarebbe importante rianalizzare ma che siamo costretti,almeno in questa sede, a tralasciare (si possono trovare, parzialmente, in In-terpretazione e critica del Testo, 1985).

Europa e crisi delle sue certezze si diceva, come e soprattutto nei grandiErich Auerbach e Ernst Robert Curtius, anch’essi interpretabili, per esplicitedichiarazioni, come critici della Krisis europea, ma sull’altra strada in cuipossiamo immaginare diviso il bivio che si presentava ai grandi romanistidegli anni Venti e Trenta.

Non tornerò su cose note e già dette altrove (nell’introduzione italiana,Filologia e Modernità, a Letteratura europea e Medio Evo latino di Curtius):mi basterà ricordare che per entrambi si poneva il problema di come salvareil “patrimonio” culturale europeo dalla crisi devastante connessa all’ingressodelle masse nella cittadella della cultura d’élite e di come entrambi, malgra-do le polemiche e le differenze, abbiano reagito in modo analogo, recupe-rando l’intera letteratura europea e occidentale su un piano diacronico lungo,lunghissimo, 2000/2600 anni, eccedente lo stesso Medio Evo latino e ro-manzo: il Medio Evo latino e romanzo è in realtà mantenuto come cernierastorica, materiale, culturale e ideologica indispensabile per comprendere ilsenso dell’intero arco storico; più in Curtius ma certo abbondamentementeanche in Auerbach. La tematizzazione, vuoi metodologico-critica in Curtius(la Topica e la Metaforica di Curtius, in realtà il Ri-uso continuo della Tra-dizione, fino all’odierna cultura di massa), vuoi ideologica, il “realismo”, inAuerbach, sono la chiave per proiettare, all’indietro ma soprattutto in avanti,la dimensione diacronica della Filologia Romanza: soprattutto in avanti, poi-

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ché la «longue durée», poi anche di Braudel e delle «Annales», nasce comestoria nieztscheanamente retrospettiva, in quanto Presente che si interroga suse stesso e proietta le proprie domande all’indietro, consapevolemente, perrileggere la Storia e trovare delle risposte al proprio Presente. Senza peraltromai abbandonare, anche da parte di un autore come Curtius, così avversatodai cultori del più rigido specialismo, la consapevolezza delle proprie radicie sostenendo semmai una corretta integrazione, che appare come la chiave diun serio rapporto fra Filologia specialistica e comparatismo:

L’archeologia contemporanea ha fatto scoperte sorprendenti tramite la fotografia aerea dagrande altezza. Attraverso questa tecnica si è riusciti ad esempio a riconoscere per la primavolta il sistema di difesa tardoromano in Africa del Nord. Chi si trova in basso davanti a uncumulo di macerie non può vedere l’insieme che la fotografia dall’aereo rende visibile. Maquesta fotografia deve essere ingrandita e comparata con la carta topografica. Una certaanalogia con questo metodo offre la tecnica di ricerca letteraria che ho qui impiegato. Se sitenta di abbracciare due millenni o due millenni e mezzo di letteratura occidentale, si pos-sono fare scoperte che non è possibile realizzare dalla cima di un campanile. Ma ciò si puòsoltanto fare quando il «parrocchialismo» degli specialisti ha prodotto accurati lavori didettaglio. Troppo spesso tali lavori mancano e da un punto di osservazione più elevato sivedono compiti che prometterebbero risultati preziosi per la ricerca individuale. Il progres-so delle scienze storiche si realizza compiutamente solo laddove specializzazione e visionecomplessiva si combinano e si compenetrano. Esse si esigono reciprocamente e stanno inrelazione di complementarietà. La specializzazione senza l’universalismo è cieca.L’universalismo senza la specializzazione è una bolla di sapone. Ma per ciò che concernela considerazione della visione d’insieme nel campo della letteratura vale l’assioma diSaintsbury: «Ancient without Modern is a stumbling-block. Modern without Ancient isfoolishness utter and irremediable» [‘L’antico senza il moderno è solo un ostacolo, il mo-derno senza l’antico è stoltezza assoluta e irrimediabile’] (E. R. Curtius, Europäische Lite-ratur und lateinisches Mittelalter, 1949).

Comparatismo diacronico dunque, «strutturale» e anticipatore del com-paratismo critico, strutturalistico e semiologico dei decenni successivi, comegià Contini, precoce e attento studioso dello strutturalismo linguistico: sareb-be assai interessante, ma eccedente questo lavoro e i suoi tempi, affrontare leragioni della nascita e dello sviluppo del comparatismo formalistico e strut-turalistico nell’«altra Europa», quella dell’Est, la non-Europa di Dante, sinoa ieri, prima degli oderni allargamenti politici, e necessariamente culturali,dell’Unione Europea. Forse ci si potrà per ora contentare di notare comebuona parte dei grandi semiologi e strutturalisti slavi, da Tinjanov a Trou-beckoj a Jakobson, etc., fossero, oltre che grandi linguisti, anche grandi fi-lologi, slavi, beninteso, e come il problema dell’eurocentrismo e della «loro»Europa fosse centrale nelle loro riflessioni, Troubeckoj in testa (ricordo il fe-

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roce e peraltro ben comprensibile L’Europa e l’umanità. La prima criticaall’eurocentrismo (1920), tr. it. 1982).

Comparatismo organico, dunque, sia in Curtius che Auerbach, in en-trambi i sensi su cui si sono confrontati, come sappiamo, i comparatisti: masempre comparatismo europeo, visto che da lì proviene la prima molla,esplicita in entrambi, per la scelta della “lunga durata”: uno dei meriti nonsecondari dello strutturalismo e della semiologia è di aver anticipato di de-cenni, in tempi ancora di guerra fredda, l’incontro fra le due Europe, il supe-ramento di un europeismo carolino, tanto organico storicamente alla Filolo-gia e alla linguistica romanza e ai suoi miti da soffocarla, a volte, anche nellacomprensione critica.

Sappiamo che è anche grazie ad Auerbach e a Curtius se, sul piano eu-ropeo ed internazionale, la Filologia Romanza è stata «salvata» dalla ridu-zione a mera scienza erudita, «antiquaria», se ha prodotto una forte immagi-ne di sé, modellizzante anche per altre discipline sul piano metodogico e te-matico; ma sappiamo anche che per gli stessi motivi si sono alimentate e sialimentano grandi diffidenze fra gli stessi filologi romanzi (quasi i due gran-di tedeschi e i loro continuatori fossero figli eretici) e anche degli altri versodi noi (per eccessiva ampiezza di ambito disciplinare e al contempo per ec-cessivo specialismo, per la forza delle istituzioni e delle strumentazioni fon-damentali e per un raffinamento metodologico a volte tanto incomprensibileda sembrare gratuito). Rigore e conseguente prestigio della disciplina, a tuttii livelli, perfino nella nuova Università europea di massa, così diversa dallaprecedente, sono innegabili ma si diffida proprio di ciò che peraltro costitui-sce il fascino della disciplina anche per i non-specialisti: l’essere organica-mente una disciplina comparatistica, che attraversa molteplici letterature elingue sul piano sincronico e che peraltro per essere la scienza posta alla ba-se delle moderne letterature europee (proprio nel momento in cui si tenta difondare un’Europa unita nelle sue diversità spazio-temporali) ambisce ancheistituzionalmente a non essere circoscritta cronologicamente (magari comedisciplina specialistica delle origini delle lingue romanze, ovvero dei suoipiù antichi documenti, come recitava appunto la declaratoria originale delC.U.N.): il rapporto tradizione-innovazione, fondativo di ogni letteratura, main particolare di quelle europee, ha inevitabilmente nella Filologia e lingui-stica romanza un punto di snodo essenziale, anche per le letterature europeenon romanze e moderne; la pratica con testi e autori medievali, spesso deltutto o in parte ignoti nei loro rapporti storico-contestuali, ha per di più «co-stretto» la disciplina a centrare la propria attività sul versante testuale: una

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«costrizione» del resto organicamente necessaria per una disciplina linguisti-ca. La centralità e l’autonomia del testo letterario si sono venute così a co-stituire progressivamente, quasi inavvertitamente ma perciò tanto più risolu-tamente, come un canone metodologico caratterizzante.

Diffidenze ingiustificate, dunque? No, ma potrebbero esserlo se la Filolo-gia romanza non fosse capace di porsi esplicitamente e serenamente, di frontea se stessa, al suo senso e alla sua funzione oggi, come guardandosi dall’ester-no. Una sola certezza: tutti i metodi, anche i più iperspecialistici, fino alle zonedi confine (come la “Filologia materiale”) possono entrare in questo gioco,servono, purché si affrontino al contempo le questioni strategiche della disci-plina e della sua funzione formativa, purché si sia capaci di pensare il Futuro,di cui tanti elementi sparsi sono ormai ben visibili intorno a noi.

Da questo punto di vista la competenza metodologica e linguistico-letteraria a più livelli (iniziando dall’italiano) ma al tempo stesso la multifo-calità e l’elasticità richieste ad un moderno insegnante, alle prese con unarealtà multiculturale e sociolinguistica molto stratificata e complessa, sonoun’indicazione preziosa per comprendere quanto e come una disciplina cheha studiato e studia gli stessi problemi sul piano storico-sincronico (si pensialla differenziazione socio- e multi-culturale da cui sono nate le moderne lin-gue romanze e alla loro dislocazione e sviluppo, analizzabili e controllabilisperimentalmente, «scientificamente», sul lungo periodo, sino a noi). Lastessa evoluzione e dialettica storica del Testo, da scritto a orale e visuale, ascritto, orale e visuale e di nuovo, oggi, a orale e visuale, con perdita del po-tere dello scritto, e gigantesca preponderanza di ciò che abbiamo definito«letteratura «diffusa», con la conseguente nascita e sviluppo di metodi plu-rimi, competenze e lingue plurime, disegnano un quadro in cui la riflessionesulla storia della disciplina e sulla sua attuale molteplicità interna di indirizzitrova naturale collocazione e capacità funzionale, anche nelle competenzenecessarie alle nuove professioni: sul piano metodologico e critico (si pensiad una nuova critica dei testi, anche mass-mediali) ma anche storico-lette-rario e interculturale. La diversità e il “vortice” (E. Morin) da cui è natal’Europa, che è riconoscibile forse come l’unica identità stabile dell’Europa,debbono trovare cittadinanza nella nuova cultura europea: lo studio interdi-sciplinare fondato su solide realtà e identità storico-culturali e metodologichene possono e forse debbono diventare le caratteristiche fondanti. Il modernocittadino europeo ha bisogno di sapere quanto è complessa la sua identità,anche nazionale, e come si è formato il canone europeo (vs quello alquantoimperiale dello statunitense H. Bloom). La preparazione letteraria di uno

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studente di Scienze Umanistiche dell’Europa in formazione richiede un per-corso lungo, dall’Antichità ai nostri giorni, consapevole di quanti affluentiabbiano contribuito e continuino a contribuire all’identità moderna, ed euro-pea in particolare, di quali siano i nodi fondamentali e di quali strumentimetodologici siano necessari per comprenderli, vista l’inevitabilità di dolo-rose e continue scelte:

La cultura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura euopea, com-prende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe [ventotto ormai se daOmero, e magari ancor più se da prima di Omero, dalle civiltà mediorientali che stannodietro Omero, ad Apocalypse now, a Derek Walcott e oltre]). Lo studioso che ne conoscedirettamente solo sei o sette, e si rimette per tutti gli altri secoli ai manuali di consulta-zione, somiglia a quel turista che visita l’Italia solo dalle Alpi all’Arno e impara tutto ilresto dal Baedeker [ancora Curtius].

Ho parlato soprattutto della Filologia romanza come comparatistica masarà opportuno ricordare che problematiche e movimenti analoghi a quelli spa-zio-temporali discussi al nostro interno sono stati vissuti e affrontati anche inambito propriamente, disciplinarmente comparatistico e che dunque è ineludi-bile un confronto continuo con tali esperienze, proprio da parte di una discipli-na che una volta si definiva di ‘Lingue letterature neolatine comparate’.

René Wellek ha raccontato molti anni fa (1970) le battaglie condotte dalui stesso e da altri per superare una concezione della letteratura comparatacome «scienza moderna che si accentra sulla ricerca dei rapporti connessicon gli influssi reciproci di varie letterature» (la definizione è di Anna SaittaRevignas nella serie Problemi e orientamenti di Momigliano, 1948, ma giàper Guyard, sulle orme di Van Tieghem – «L’oggetto della letteratura com-parata è essenzialmente lo studio di diverse letterature nei loro rapporti reci-proci» –, la letteratura comparata era la «storia delle relazioni letterarie in-ternazionali», mentre per J.-M. Carré, nella prefazione allo stesso Guyard,La littérature comparée (1951), era «un ramo della storia letteraria; […] lostudio delle relazioni spirituali e internazionali, di contatti effettivi che av-vennero fra Byron e Puskin, Goethe e Carlyle, […], fra le opere, l’ispirazio-ne e anche la vita di scrittori che appartengono a diverse letterature». Rap-porti diretti, dunque, filologicamente dimostrabili, sincronici: sono evidenti ilegami con lo storicismo e la scuola storica, con le basi metodologiche dellaFilologia romanza di G. Paris e di A. Jeanroy, di W. Meyer Lübke o di R.Menendez Pidal, di E. Monaci e finanche, in parte, di quella di C. De Lollis,per limitarsi soltanto ad alcuni nomi.

Wellek rifiutava la limitazione della letteratura comparata all’analisi dei

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rapporti diretti, partendo anche dalla situazione dell’insegnamento negli USA,una sana abitudine pragmatista su cui, proprio di questi tempi, dovremmomeditare ancor più di quanto non stiamo già facendo (la ricerca collettivasulla storia analitica degli Studi romanzi in Italia, appena iniziata, e sullacollocazione della disciplina nei nuovi curricula, credo vada vista anche inquesta prospettiva): «la letteratura comparata può essere meglio definita e di-fesa mediante la sua prospettiva e il suo spirito piuttosto che attraverso qual-siasi ripartizione circoscritta all’interno della letteratura. Essa studierà tuttala letteratura con una prospettiva internazionale, con la consapevolezza del-l’unità di tutte le creazioni ed esperienze letterarie»: dunque «[…] si identifi-ca con lo studio della letteratura indipendentemente dai limiti linguistici, et-nici e politici. Essa non può essere limitata a un solo metodo […]. Uno stu-dio dei metodi narrativi e delle forme liriche coreane, birmane o persiane ècertamente motivato quanto lo studio dei rapporti casuali con l’Orienteesemplificati nell’opera di Voltaire Orphelin de la Chine». Non solo peròrottura dei limiti spaziali storicamente determinati, ma anche di quelli cro-nologici: «La letteratura comparata non si deve neppure limitare alla storialetteraria escludendo la critica e la letteratura contemporanea. La critica […]non può essere separata dalla storia, poiché non esistono in letteratura fattineutrali. Il semplice atto di procedere a una scelta fra milioni di libri stam-pati costituisce un atto critico, e la scelta delle caratteristiche o degli aspettisotto i quali un libro può essere trattato è ugualmente un atto di giudizio. Iltentativo di erigere barriere precise fra lo studio della storia letteraria e dellaletteratura contemporanea è destinato a fallire […]. Le opere della letteraturasono monumenti e non documenti». Non sarà sfuggito il parallelismo con leposizioni esposte da Zumthor in Langue et technique poétiques à l’époqueromane (1963) e dunque la convergenza su problematiche largamente di-battute in quegli anni e di fatto, nei presupposti teorici, ancora attuali (comeanche è evidente l’eco della letterarietà di matrice idealistica e di B. Croce,uno degli auctores di Wellek e di parte della critica americana, nella rivendi-cazione prioritaria della «[…] comprensione del testo e della poesia» vs lacomparatistica storicistica, ed erudita).

Ma con quali premesse ideologiche avviene l’estensione della compara-tistica di Wellek su un piano extrastorico? Tutte uguali le letterature? O di-verse, anche profondamente? E perché, appunto, privilegiarne alcune e nonaltre: su che basi avviene la scelta? Ciò che Wellek lascia intuire è una ri-sposta appunto genericamente «letteraria», ovvero la rivendicazione dellaParola come valore in sé, sulle orme anche di un Croce rivisitato e correttooltreoceano (come, più recentemente, anche Harold Bloom). Ma non è que-

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sto piuttosto un presupposto che una risposta? Una vera risposta andrebbeforse cercata in una possibile autostoricizzazione, nell’esposizione o addirit-tura comprensione prospettica delle ragioni storico(-politiche) della propriaricerca e del proprio metodo, ciò che forse era possibile fare o proporre, perla Filologia romanza europea, almeno fino a ieri, e ciò che forse è possibileproporre oggi anche per la comparatistica legata alla tematica dei generi let-terari o alla stessa tematizzazione letteraria (come la Letteratura italiana Ei-naudi o, ora, Lo spazio letterario del Medio Evo di Boitani, Mancini e Var-varo e Il Romanzo di Franco Moretti pure per Einaudi).

Credo che si tornerebbe fatalmente a riflettere sulla Krisis e su noi qualisoggetti principali, e ormai post-moderni, della crisi dell’intellettuale umani-sta e di élite (si pensi a Curtius e Auerbach, solo in parte coscienti del sensodel proprio divenire e dell’essere soggetti e oggetti di un cambiamento epo-cale), da cui anche la prospettiva della “lunga durata”, che è cosa diversa dalcoltivare semplicemente il Moderno e la nostra Identità europea, la nostraidentità di Romanisti, lontani, si spera, da quella Fortezza “Europa” di hitle-riana memoria. Cos’è infatti la “lunga durata” se non una fotografia aereacompiuta per impadronirci, dal confine del tempo (noi, il nostro Presente),da un’altra periodizzazione, della Storia e del Tempo precedente?

Fra spazio e tempo anche rispetto a noi oggi: chi siamo e cosa vogliamo,nel bel mezzo di una profonda ristrutturazione degli studi umanistici europeie mondiali che, come che sia dei governi e delle guerre, andrà probabilmenteavanti. È altro tema, in parte, ma implicito nel precedente e a quello stretta-mente connesso. Mi limiterò, al riguardo, ad alcuni flash, ovvero ad alcuniproblemi che ancora si presentano “slegati” in quanto imposti dall’esploderedelle soggettività e delle particolarità socioculturali su un piano planetario: laletteratura è un fenomeno globale che agisce, e va perciò agito, anche local-mente, anche nei metodi e nella rivendicazione degli specialismi.

Oggi la situazione è caratterizzata appunto dall’esplosione dei soggetti,post-XX secolo. Questione identitaria, questioni di Gender, multiculturalismorendono più che mai necessaria una rivisitazione retrospettiva (Nieztsche),con la consapevolezza (già di Heidegger e Heisemberg) della nostra par-zialità, della nostra collocazione storica e dunque dell’inevitabile (ma relati-va, in quanto “misurabile”) “falsificazione” del nostro punto di vista. Comesi manifesta, per ciò che ci riguarda direttamente, questa vera e propria fram-mentazione, se guardiamo alla contemporaneità in un’ottica Passato-Presen-te; questa esplosiva e inevitabilmente ancora varia e magari confusa vitalità,se guardiamo alla contemporaneità in un’ottica Presente-Passato?

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Elencherò solo alcune problematiche che ritengo particolarmente interes-santi, senza pretendere di fornire un quadro unitario complessivo.

1. Edizione critica e «Chi ha veramente detto cosa»

Crisi dell’autorship (Walter Benjamin, ancora), crisi del lachmannismotradizionale ma anche del neolachmannismo e del translachmannismo, recu-pero delle ragioni più sostanziali del bédierismo (anche oltre Bédier: storicitàdel manoscritto e del documento materiale come verità fattuale del lettore,possibilità di più redazioni cristallizzate nella tradizione bipartita, variantisti-ca), pluralità dei punti di vista (mouvance) ma possibile recupero del puntodi vista lachmanniano e bédieriano grazie al supporto informatico. Nell’edi-zione ipertestuale, tecnologia e necessità «storica» si incontrano; non saràinutile ricordare di nuovo G. Contini, nel Ricordo di Joseph Bédier (1939):«Ogni problema è problema individuale, storico, con una soluzione origina-le. Ma questo, questa vittoria dell’iniziativa sopra la meccanica, è proprio ilcentro dell’iniziativa di Bédier! Le sue teorie non fanno che illustrare la li-bertà dello scriba romanzo, la sostanziale equivalenza di nuova copia a nuo-va edizione; ossia, in un altro aspetto, la definizione stessa di filologia ro-manza», ovvero la necessità, prima ancora della scoperta della possibilitàpratica fornita dall’informatica, di rivedere unitariamente ciò che va sotto ilnome di Lachmann e Bédier. Con la consapevolezza che l’edizione criticadei testi romanzi, “moderni”, si differenzia in un punto decisivo da quelliclassici: si occupa di una tradizione “attiva”, di autori, copisti, ed editori(compresi quelli contemporanei, le moderne case editrici), “attivi”, vivi, lad-dove la critica dei testi classica si occupa di una tradizione “quiescente”, perriprendere una famosa e intelligente distinzione di Alberto Varvaro. Dunquecon la necessità di distinguere e peraltro tener conto di almeno due distintipunti di vista, entrambi “attivi”. È una prospettiva aperta ormai da una tren-tina d’anni, sia a livello teorico (ricorderò la relazione di Aurelio Roncagliaal Congresso internazionale della Societé de Linguistique e philologie roma-ne tenutosi a Napoli nel 1974, il saggio di D’Arco Silvio Avalle nel Grun-driss der romanischen Phlilologie del 1972, gli interventi di Cesare Segredel 1976, Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema, e del 1977, Se-miotica filologica, al congresso di Rio de Janeiro, quello recentissimo di A.Varvaro sul n. 473-474, 2001, di «Romania»), sia a livello pratico (le nonpoche edizioni, da quella della Chanson de Roland curata da Cesare Segre,ad alcune in ambito trobadorico e antico-italiano che hanno affrontato in mo-

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do nuovo il problema stemmatico e la rappresentazione dei vari stadi dellatradizione, anche dal punto di vista del lettore, le Concordanze della Linguapoetica italiana delle Origini dello stesso Avalle). Anche in ecdotica l’«im-pero del lettore» di cui parlava Calvino ha indotto a considerare con occhinuovi, forse al di là delle stesse intenzioni del maestro, le proposizioni diBédier (almeno quelle del 1928), la problematica delle varianti d’autore edelle doppie o molteplici redazioni e lo statuto epistemologico dei mano-scritti: la «filologia materiale», oltre che una necessità vitale per la stemma-tica (in qualche modo già in Ernesto Monaci e poi in Giorgio Pasquali), èuna condizione preliminare e basilare per capire cosa hanno letto e capito gliautori e i lettori che ci hanno preceduto. E inoltre: la stessa etichetta di «fi-lologia materiale», sin dalla prima formulazione (1985), non rimanda allanecessità di una nuova interdisciplinarietà? Nasce dall’«archeologia mate-riale» di Andrea Carandini ed è qualcosa di più che una formula fortunata –certo più precisa ed estesa della non-concorrente ma complementare e preesi-stente «codicologia»- poiché allude alle problematiche che collegano unita-riamente la riflessione teorica e pratica sugli «scavi» dei documenti e deimonumenti, sul restauro, e l’interpretazione e il ri-uso nella contemporaneità.

2. Le due curiosità della critica moderna

Si è accennato alla variantistica. La critica del testo, da molti decenni,non è infatti e del resto soltanto «ecdotique»: «Una double curiosité anime lacritique moderne: elle veut savoir comment se font les textes, et elle veut sa-voir comment ils se défont», ovvero, direi, non soltanto come si “corrom-pono” ma anche e come si “disfano”, per comprenderne genesi e senso, fun-zione. È un terreno su cui la critica delle varianti, così come pensata filologi-camente e criticamente da Santorre Debenedetti, Gianfranco Contini e Giu-seppe De Robertis nel Novecento (con archetipi che affondano nella tradi-zione umanistica e filologica italiana sin da Federico Ubaldini), più ancorache la critica genetica franco-tedesca (troppo persa in una traversata esisten-zialmente infinita e puramente descrittiva dei segni, ovvero di ogni docu-mento pretestuale), ha molto da dire. Il passaggio dall’analisi del senso deltesto, tramite l’analisi del suo farsi, della sua perenne mobilità, certo infinitama anche costellata di punti fermi (se non altro le edizioni e il rapporto colpubblico), a quella della funzione stessa del testo, può segnare il punto in cuifilologia e critica, metodo e interpretazione del Testo in quanto forma gene-rale di comunicazione, Messaggio e Mezzo, si possono incontrare. Si tratte-

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rebbe, in altri termini, di pensare a forme di interdisciplinarietà nuova, cosìcome permette e impone il nuovo sistema delle comunicazioni di massa dicui anche la letteratura fa parte e in cui anche la Filologia e la Letteratura do-vrebbero ripensare la propria collocazione. In questo senso sia l’interpre-tazione del Testo-Messaggio in quanto elemento e problema generale del siste-ma culturale, sia l’identificazione del testo stesso e delle sue falsificazionipongono in termini nuovi il problema del restauro e dell’interpretazione dei te-sti (anche artistici, mass-mediali e tout court storici), sia le relazioni interdisci-plinari fra campi diversi, inclusi quelli più tradizionalmente «scientifici».

3. Spazio e tempo

Relazioni interdisciplinari nuove (cfr. 2 e 4) e dinamica della stessa fun-zione testuale sono anch’esse legate a quella problematica spazio-temporale sucui già si confrontavano in Europa e in Italia (a Roma, appunto e per esempio)i padri fondatori della disciplina. Con la «novità», che è divenuta ormai unacategoria metodologica e storiografica quasi ovvia, della ricerca e del «deside-rio» di un Tempo lungo, di una storia retrospettiva, anche medievale, comestratificazione di culture (non solo nel Mediterraneo ma anche nelle due Ame-riche), in uno spazio aperto multiculturale, compreso il «Gender», e post-colo-niale. Mi sembra evidente l’ambizione a com-prendere il proprio tempo, il suosenso, ricercandone la collocazione nel flusso e nelle strutture storiche di lungadurata: il telescopio accanto al microscopio (senza abbandonarlo, vedi giàCurtius, ma vedi anche la stessa metafora della «visione telescopica» che ri-spunta in settori anche distanti della disciplina, da Spitzer a Segre).

Sul piano spaziale ciò significa anche un’idea di Oriente e di Occidentenon incomunicanti e incomunicabili, ma già legati da una comune per quantomediata storia: la globalizzazione, pur se è ancora in discussione la relazionefra modelli locali e consapevolezza e direzione complessivi; questo sarà co-munque un terreno di riflessione fondamentale.

Diversità dunque e pluralismo identitario, ma anche positività e stimolidella ricerca di una risposta «unitaria», che anche nella Filologia romanza hainvestito le radici antropologiche del fatto letterario: ciò forse spiega anchela ricca fioritura di studi antropologici nella Filologia Romanza, tanto che sipotrebbe parlare quasi di una nuova disciplina, l’«Antropologia romanza»(penso alle ricerche di Avalle, a quelle di Varvaro e Segre, Pasero e Mancini,per fermarmi dinanzi ai tanti contributi dei più giovani). Non una novità, na-turalmente, poiché alle origini della disciplina Tradizioni popolari e ricerche

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antropologiche e linguistiche erano ben collegate, anche attraverso Istituzio-ni comuni (sin dal già ricordato Monaci). Ma oggi non siamo più in presenzadi sforzi generosi e pioneristici, pre-specialistici; oggi il tentativo sembraquello di collegare i punti alti della ricerca antropologica con quella filologi-ca, in dipendenza di comuni domande «generali», che probabilmentre richie-dono risposte interdisciplinari, a partire però dagli specialismi, dalla propriaidentità, per poter riconoscere, senza subalternità o egemonismi, quella al-trui. Il percorso di uno dei demiurghi riconosciuti di Curtius, Aby Warburg,è al riguardo esemplare, anche per il terreno d’incontro che ha offerto e offrea filologi, storici dell’arte, storici della letteratura, antropologi, filosofi emass-mediologi. Il problema è di conseguenza anche come ristabilire in ter-mini nuovi quel collegamento fra ricerca, formazione e scuola secondariache negli ultimi anni si è così visibilmente incrinato o addirittura spezzato.

4. Generi e temi. Anche come Macrostrutture e Microstrutture

Il problema della critica tematica è anch’esso costituito da una dimen-sione particolare, pur se con pretese a volte totalizzanti, dello spazio e deltempo, che ne costituiscono anzi le tematizzazioni fondamentali. Sono af-frontabili esse stesse su almeno due piani, quello macrostrutturale (i generi ei temi) e quello microstrutturale, ivi compreso l’attraversamento intertestua-le: non si escludono necessariamente, ma non sembra abbiano finora trovatosoluzioni unitarie o complementari. Non è dubbio peraltro che questo sia unterreno fondamentale per la com-prensione della letteratura sia come feno-meno storico sia come letteratura globale, sistema del letterario contempora-neo «diffuso». La stessa efficacia formativa delle discipline filologiche eletterarie credo che si giocherà su questo terreno. Anche nella critica temati-ca si ripresenta la stessa dialettica fra tematizzazione storicistica o storica(anche retrospettiva) e tematizzazione “analogica” o differenziale, con unadistinzione a volte molto netta fra l’atteggiamento (politico-)culturale euro-peo e quello statunitense: una riflessione in grado di farli incontrare, nellapratica e nella teoria sembra possa provenire, di nuovo, da una riflessionesulla storia e sulla funzione della critica tematica in relazione alle finalitàperseguite: come in ecdotica il problema è lo scopo e il pubblico cui si rivol-ge l’edizione, anche per la critica tematica dovrebbero valere gli stessi prin-cipi; è operazione che coinvolge necessariamente alcuni fondamenti episte-mologici della Filologia e linguistica romanza, e non solo. Sembra comun-que chiaro che il nuovo comparatismo passa ormai sempre più spesso attra-

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verso analisi di “lunga durata” e di spazialità più ampie di quella europeo-occidentale (cfr. 4).

Oltre la Krisis, dunque, assumendola ormai come un dato storico: quelche abbiamo di fronte è semmai un’altra cosa, il mondo intuito e interpretatoda Benjamin ai suoi inizi, l’opposto di quello autoritario e patriarcale su cuisi erano fondate le prime ragioni della Filologia, biblica, classica, germanica,romanza e slava, e così via:

L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, puòvenir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica. Poi-ché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottrattaall’uomo, vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltantoquesta: ma ciò che prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa. […] La tecni-ca della riproduzione […] sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicandola riproduzione essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. Epermettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua parti-colare situazione, attualizza il prodotto. Entrambi i processi portano a un violento rivol-gimento che investe ciò che viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione che èl’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sonostrettamente legati ai mutamenti di massa dei nostri giorni […] Ma nell’istante in cui ilcriterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma l’intera fun-zione dell’arte (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecni-ca (1936), Torino 1966).

Oggi l’intuizione di Benjamin, che mina alle basi le ragioni storiche dellaFilologia appunto “tradizionale”, ma anche di quella “moderna”, ci appareprofetica, dispiegata com’è colla sua potenza devastante nella nostra realtàquotidiana: pone in discussione perfino una concezione della Filologia (ro-manza) che da scienza dell’«autentico e del vero» sia capace di divenire dav-vero scienza del dubbio e della critica, ciò che pure appare il punto di giun-zione ancora forte tra ricerca e formazione, tra ricerca e funzione della ricerca.

In interiore homine (non) habitat veritas oggi, e dunque mentre si do-vrà, volenti o nolenti, assumere come valore positivo l’instabilità dei sogget-ti, il loro nomadismo, come ha fatto il pensiero femminile, insomma la famo-sa «pluralità dei punti di vista», occorrerà confrontarli, oltre la pura compa-razione classificatoria, dialogare culturalmente e dunque sapere «chi siamo ecosa vogliamo», oltre la stessa pluralità anche del nostro «punto di vista» difilologi e linguisti romanzi e di storici della letteratura e comparatisti, occor-rerà cioè rimettere in discussione la nostra collocazione in un orizzonte stori-co-politico determinato.

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Ricordo ancora W. Benjamin, in un’altra proposizione che abbiamo nona caso scelto a Premessa del primo numero di «Critica del testo» (1998), larivista del Dipartimento di Studi romanzi:

Ciò che distingue le immagini dalle “essenze” della fenomenologia è il loro indice stori-co. […] L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono adun’epoca determinata ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un’epocadeterminata. E precisamente questo giungere a leggibilità è un determinato punto criticodel loro intimo movimento. Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli so-no sincrone: ogni ora è l’ora di una determinata conoscibilità. In quest’ora la verità ècarica di tempo fino a frantumarsi. Non è che il passato getti la sua luce sul presente o ilpresente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce ful-mineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialetticanell’immobilità. Poiché mentre la relazione del presente con il passato è puramente tem-porale, quella tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non di natura temporale, ma imma-ginale. Solo le immagini dialettiche sono autenticamente storiche, cioè non arcaiche.L’immagine letta, vale a dire l’immagine nell’ora della leggibilità, porta in sommo gra-do l’impronta di questo momento critico e pericoloso che sta alla base di ogni lettura(Aufzeichnungen und Materialen, N 3, 1 [1928-1940; pubbl. nel 1982])

Ma intanto – e concludiamo – assumiamo quel che sembra apparire in-sieme come Dato e come Problema: l’esistenza di tante «Filologie e lingui-stiche romanze» la cui identità e la cui funzione dovremo misurare prossima-mente fra noi, in tutta Europa, e innanzitutto nella nuova e antica Facoltà diScienze Umanistiche, ma il cui primo filtro è, come insegnava Wellek, lastessa organizzazione universitaria degli studi e la nostra collocazione, il no-stro ruolo, anche nei processi formativi, dunque nei processi che coinvolgo-no l’intera società in cui viviamo, a cominciare da quella Europa malgradotutto ancora in costruzione e malgrado tutto non più soltanto «occidentale».

Scienze umanistiche, se non altro per il rifiuto della vecchia organizza-zione retorica e monodisciplinare degli studi e l’acquisizione di una dimen-sione neo-storicistica che nel metodo sperimentale e nella coscienza dellacollocazione del Soggetto riconosca la condizione preliminare e imprescin-dibile di ogni ricerca e di ogni intervento.

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Bibliografia essenziale (secondo l’ordine logico dell’articolo):

C. De Lollis, Scrittori d’Italia, a c. di G. Contini e V. Santoli, Milano-Napoli 1968L. Spitzer, Critica stilistica e storia del linguaggio, Bari 1954G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970D’A. S. Avalle, L’analisi letteraria in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia, Milano-

Napoli 1970E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), Torino 1956E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino (1948), a c. di R. Antonelli, Firenze

1992, «Paperbacks Classici» 1995A. Warburg, Mnemosyne. L’atlante della memoria di Aby Warburg, materiali a c. di I. Spi-

nelli e R. Venuti, Roma 1998G. Contini, Espressionismo letterario (1977), ora in Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino 1988,

pp. 41-105C. Segre, Testo letterario, interpretazione, storia: linee concettuali e interpretazioni critiche,

in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, IV. L’interpretazione, Torino 1985, pp.21-140

R. Antonelli, Interpretazione e critica del testo, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Ro-sa, IV. L’interpretazione, Torino 1985, pp. 141-243

R. Antonelli, I magazzini della memoria. Luoghi e tempi dell’Europa, Firenze 2000

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Italianistica

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Quando, alcuni anni orsono, si trattò di dare una denominazione alla nuo-va Facoltà umanistica, che nasceva per gemmazione dalla vecchia Facoltà diLettere della “Sapienza”, s’aperse, fra i suoi primi promotori, una discussione.A parte l’imbarazzo di adottare una banalissima classificazione numerica(Lettere 1 e Lettere 2) oppure alfabetica (Lettere A e Lettere B), come in altreconsimili occasioni s’è fatto, prevalse alla fine l’idea di darle un nome il piùpossibile corrispondente alla sostanza del progetto per il quale, dopo essercidivisi, tornavamo a costruire un organismo che si presumeva essere più com-patto e unitario di quello precedente. Dunque, Facoltà di Scienze Umanistiche:a significare un radicale ripensamento dei fondamenti culturali ed epistemolo-gici dell’Universo umanistico. La scelta fu fatta, consapevolmente sfidando,come si può capire, tutti gli inconvenienti e tutte le difficoltà derivanti daun’opzione come questa, così fortemente innovativa rispetto al passato, alletradizioni e al senso comune in materia (soprattutto in ambito italiano).

Prima di arrivare a parlare brevemente dell’area disciplinare di miacompetenza, ricorderò che il dibattito intorno alla natura della ricerca umani-stica (con particolare riguardo al campo storico), risale ai primi del Nove-cento: quando filosofi d’ispirazione kantiana come Wilhelm Windelband(1848-1915) e l’allievo di lui Heinrich Rickert (1863-1936) contribuirono astabilire una più netta e precisa distinzione fra “scienze naturali” (che studia-no le leggi universali) e “scienze dello spirito” (che studiano gli eventi parti-colari, dotati di una loro individualità), al tempo stesso sostenendo che anchei “valori”, pur non essendo realtà nel senso stretto del termine, sono passibilidi valutazione, se si prende a oggetto del proprio studio quella determinazio-ne del senso del valore, che è il significato. Si capisce che, applicando questiprincipi generali al vasto campo della attività umana che sogliamo denomi-nare cultura, si apre un orizzonte vastissimo, anzi pressoché illimitato diesplorazione e di “significazione” dell’oggetto studiato, il quale, per l’appun-

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to, pur essendo come s’è detto relativo e individuale, ciò nonostante può esserestudiato e definito con la stessa attitudine scientifica di un oggetto naturale (altempo stesso dando per scontato, naturalmente, che ogni metodologia discipli-nare, autoriformandosi, avrebbe dovuto trovare gli strumenti più adeguati allaconoscenza della propria determinata materia). Può servire di chiarimento alnostro discorso rammentare che da Rickert fu fortemente influenzata la teoriz-zazione socio-culturale di Max Weber, il quale, del resto, è per me da conside-rarsi uno dei capisaldi nel campo delle metodologie e delle procedure d’inda-gine riguardanti la cultura e più in generale i fenomeni storici umani.

Con queste brevi premesse, il problema potrebbe per me essere così po-sto. È decisivo rammentare che il ragionamento di Windelband e Rickert muo-ve da una dura critica al positivismo, diciamo così, volgare, quello che, appun-to, al contrario di loro assimilava semplicemente le scienze dello spirito aquelle della natura e, anche nel campo dei fenomeni storici e culturali, appli-cava le medesime leggi esatte ed universali, che valevano per l’osservazionenaturale. Una “scienza della cultura”, modernamente intesa, non può che parti-re dalla consapevolezza di questa distinzione radicale. Però, compiere tale pas-saggio non significa abbandonarsi felicemente nelle braccia della indetermina-zione più totale e dell’assenza di leggi: significa al contrario applicarsi più diprima a trovare le regole, che possano mettere ordine nell’universo delle iden-tità individuali, che è quello della storia e della cultura umana, individuandocontinuità e discontinuità, rapporti e conflitti, gerarchie e possibili classifica-zioni, nello specifico dell’oggetto o degli oggetti considerati.

Più semplicemente: le leggi ci sono, ma non discendono dall’alto, dal-l’universo della meccanicità e del determinismo naturali: esse sono intrinse-che al costituirsi dell’oggetto considerato, che d’altra parte si costituisce solose e in quanto la ricerca delle leggi (non le leggi in quanto tali, separatamen-te considerate) contribuisce a renderlo possibile. Non c’è oggetto senza leg-gi; ma le leggi sono a loro volta connesse alla (presunta) conformazione “na-turale” dell’oggetto (che, evidentemente, in questa visione è anch’essa unaconformazione “convenzionale”). [Del resto, anche nel campo delle scienzeesatte è progredita nel frattempo una concezione più relativistica e “conven-zionale” della conoscenza: le teorie quantistiche, ad esempio, introducono unalto quoziente di probabilismo negli assetti gnoseologici del sapere].

Se si dovesse trovare a tutti i costi una definizione per questo processologico (ed epistemologico) parlerei di “empirismo critico”. L’oggetto consi-derato viene studiato al di fuori di ogni filosofia della storia; le cause che lodeterminano non sono preordinate dai fini verso cui (presumibilmente) ten-

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de; se fini vi sono (e questo è tutt’altro da escludere, poiché nei prodotti del-l’ingegnosità umana è ovvio che fini vi siano), vengono esaminati, alla stre-gua delle cause, come “valori” portatori di “significati”; le connessioni, chepure anch’esse vi sono (fino al punto di arrivare a stabilire una vera e propriacatena di cause [vere, presunte o presumibili: questo fa parte di ogni ragio-namento culturale], che costituisce in genere la spina dorsale di ogni rico-struzione storica, ovviamente sempre revocabile); la documentazione e il da-to di fatto assumono un rilievo tutto speciale rispetto al passato, senza tutta-via presumere (la distinzione rispetto al positivismo è netta) di valere assolu-tamente e di per sé (la “datità” è un irrinunciabile punto di arrivo, non il pun-to di partenza dell’indagine); lo sguardo di colui che esamina fenomeni stori-ci e culturali con attitudine scientifica rigorosa, è più, non meno, critico eautocritico di quello di colui che si basa su di un universo di valori ricono-sciuto come tale una volta sola e per sempre; il risultato, che si vuol conse-guire, è di natura essenzialmente conoscitiva (un aumento delle conoscenzein materia), senza tuttavia escludere, in un campo com’è quello dei fenomeniculturali, che ricadute d’altra natura possano esserci, purché l’indagine nonsia ad esse finalizzata.

Il processo di costituzione delle nuove discipline scientifiche umanisticheattraversa tutto il Novecento. Direi che esso si presenta più accelerato e sicurodove l’oggetto studiato ha di per sé una costituzione più materiale: più vicina,cioè, e omogenea, per così dire, agli oggetti naturali intesi in senso stretto.L’archeologia e la storia dell’arte, ad esempio. Ma anche la linguistica, nellamisura in cui questa può considerare la lingua umana come un oggetto natu-rale (con tutte le avvertenze, com’è ovvio, sopra descritte), scientificamentedescrivibile e interpretabile (e per le molte connessioni che la linguistica hacon lo studio della letteratura, non c’è dubbio che essa abbia esercitato un po-tente impulso di natura scientifica sulle discipline più specificamente critiche estorico-letterarie). E le Annales non rappresentano forse una precisa tendenza amuoversi in questa direzione nel campo della ricerca storica?

Molto più lento e tortuoso il percorso nel campo della ricerca letteraria,e ciò a mio giudizio per vari motivi.

Innanzi tutto, per il peso innegabile su di essa esercitato da una tradizio-ne retorica talvolta millenaria. In secondo luogo, per la più facile tendenzaad attribuirle significati allotri (per esempio, frequentemente, una funzionenazionale o nazionalistica). In terzo luogo, per la scarsa mentalità scientificadei suoi cosiddetti “operatori” (critici o storici che siano). Infine – ed è ilmotivo più profondo ed essenziale – per la natura stessa del fenomeno lette-

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rario, difficilmente riducibile ad una unica valenza (in effetti, potremmo direche ne contiene al contrario infinite: storica, semantica, linguistica, sociolo-gica, affettiva, psicologica, psicanalitica, ecc. ecc.).

Poiché, alla fin fine, non esponiamo qui presuntuose velleità teorico-cul-turali di ordine generale, bensì esperienze personali fondate sul concreto, di-rò che per me sono state decisive da questo punto di vista le esperienze intel-lettuali compiute intorno alla progettazione, discussione, realizzazione e bi-lancio di un’opera come la Letteratura italiana Einaudi (diciannove volumi,1982-1996) (della quale, del resto, un importante protagonista è stato il filo-logo romanzo Roberto Antonelli, attuale Preside – per dire di quali e quantiincroci personali si costituisca una storia culturale complessiva –, propriodella Facoltà di Scienze Umanistiche, di cui stiamo ragionando). Nell’affron-tare un’impresa di così vasto respiro, la cui realizzazione non avrebbe potutonecessariamente essere affidata a un solo individuo (e questa è già una rifles-sione che può essere considerata utile per impostare questa nuova fase distudi), bisognava innanzi tutto lavorare su alcuni concetti di ordine generale,ovvero norme di comportamento: insomma le famose “regole”, al tempostesso circostanziate e convenzionali, di cui ho parlato in precedenza. Diquesto lavorio intellettuale ho parlato più volte a lungo. Ne riassumerò quigli elementi che mi appaiono più significativi per una comprensione “scien-tifica” (nel senso più volte richiamato) dai fenomeni letterari.

Essenziale mi sembra, per l’impostazione stessa del discorso, la nozionedi “sistema” (di origine strutturalistica). L’analisi letteraria è composta diuna miriade di strumenti (a parte subjecti) e di una miriade di oggetti diversi(a parte objecti). Ricondurre ad una unità assoluta gli uni e gli altri si può,solo se si ricorre ad una filosofia della storia oppure se si fa appello ancora unavolta a una riedizione (magari aggiornata) della tradizionale impostazione re-torica. Il sistema, invece, è l’armatura flessibile e non meccanica, anzi dotatadi senso e di antenne, che “tiene insieme” i vari strumenti e i vari oggetti, sen-za forzarli ad una inverosimile unità ma al tempo stesso consentendo di acco-starli e di illuminarli reciprocamente (mentre separati e considerati ognuno persé attenuerebbero di molto la loro carica semantica e significativa).

Dentro questo quadro complessivo (sistematico e “sistemico”, appunto)molte distinzioni e molti rapporti si possono individuare, ma una, e uno, misembrano particolarmente significativi: quella, e quello, fra storia letteraria ecritica letteraria. La storia letteraria, per così dire sta più “dalla parte” del siste-ma, la critica letteraria più “dalla parte” del singolo individuo, opera o autoreche sia. Vediamo prima singolarmente i due campi, e poi la loro intersezione.

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Torno a ripetere: gli oggetti che la storia letteraria maneggia sono dinatura diversa, appartengono a sfere diverse della storia umana, hanno origi-ni spesso molto lontane fra loro. La storia letteraria – sia che la si concepiscacome storia di frammenti letterari, sia che la si concepisca come storia diun’intera vicenda letteraria nazionale – è il più eterogeneo fra i grandi com-parti del sapere umanistico. Questo è particolarmente vero in Italia, dove allacomplessità dell’impianto metodologico complessivo si sovrappone la mi-riade di macro- e micro-fratture, di diversità linguistiche, culturali e letterarieregionali, ecc. delle quali soprattutto negli ultimi decenni molto e sapiente-mente s’è parlato (a partire soprattutto dalle intuizioni di Carlo Dionisotti inGeografia e storia della letteratura italiana, 1967). Infatti, come e più chealtrove, qui da noi la nozione di “storia letteraria nazionale” comporta pro-blemi teorici e applicativi di difficilissima soluzione. Sono trascorsi esatta-mente centotrentacinque anni, non solo dal momento del conseguimento del-la pressoché definitiva unità politica nazionale, ma anche (segnale simbolicoforte) dalla comparsa di quella splendida cosa che è la Storia della letteratu-ra italiana di Francesco De Sanctis, la quale, in parte per difetto di cono-scenze, in parte per scelta volontaria, sacrificava al disegno centrale la com-pletezza contraddittoria dell’insieme. Oggi i criteri di riferimento non posso-no più essere questi: sia perché di quella “nazione” e di quella “cultura na-zionale” non c’è più bisogno, sia perché, comunque, sulla prospettiva nazio-nale s’imporrebbe il comandamento della scienza, il quale c’impone di direle cose come sono andate, non come avremmo voluto che andassero. L’ete-rogeneità in ogni senso della nostra storia, e cioè la peculiare mancanza perun tempo tanto lungo d’un centro unificatore nazionale, non può dunque es-ser negata a favore di disegni unificanti, per quanto nobili.

Se tuttavia tanto ci si affanna a mettere insieme molte cose che più facil-mente andrebbero in altrettante serie separate, un motivo ci dev’essere. Questomotivo è che, se si accostano quelle cose fra loro e le si fa interagire (e qui altempo stesso si parla contestualmente sia degli oggetti sia degli strumenti del-l’indagine, come già s’è detto), se ne produce (o almeno si dovrebbe) un risul-tato di maggiore e migliore conoscenza. Se il disegno che tiene insieme il tes-suto unitario dell’insieme non è più ideologico e/o politico-culturale, ma scien-tifico, ne consegue logicamente che il problema della storia letteraria è un pro-blema eminentemente epistemologico, non retorico, non civile, non suasorio.

L’effetto civile che comunque ne può scaturire ai fini, per esempio, delconsolidamento dell’identità nazionale (obiettivo forse ancora oggi non deltutto da scartare) è, come in altri campi del sapere, il prodotto, non il presup-posto, di un’operazione scientifica. Lo storico della letteratura cerca di met-

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tere insieme gli oggetti eterogenei della propria ricerca al fine di cavarne uneffetto conoscitivo maggiore: il suo metodo sperimentale dovrebbe consiste-re nel trovare le associazioni più significative e nel “dimostrarle”. Forse re-gole più generali ci sono, ma non dovrebbero essere di molto dissimili daquelle che presiedono alla ricerca nell’ambito di qualsiasi scienza umanisti-ca: l’accumulo sistematico delle esperienze, ad esempio, produce negli in-telletti non stolidi quell’affinamento pressoché automatico dello sguardo checonsente di vedere cose che altri non vedono e di accantonare rapidamentequelle che non servono o servono meno.

Se si sommano la prima e la seconda ipotesi, com’è obbligato a farechiunque non si limiti a teorizzare, ma svolga concreta ricerca in questocampo, non è difficile accorgersi che ne consegue un terzo e importante ele-mento di riflessione e cioè che la costruzione di cui stiamo parlando – la“storia letteraria” –, proprio in quanto è scientifica, è eminentemente con-venzionale; cioè, è convenzionale di quella convenzionalità che è propria insé di tutti i procedimenti scientifici fuori e dentro la sfera umanistica (ma,certo, dentro la sfera umanistica con un’evidenza ancora maggiore). Cioè (dinuovo): non esiste nessuna possibilità di attribuire un valore oggettivo, percosì dire fotografico, alla costruzione che stiamo edificando mediante l’acco-stamento dei pezzi che la compongono. L’importante è che gli accostamentisiano ogni volta dotati di senso: e che la costruzione, totale o parziale, chealla fine ne risulta, ci consenta di leggere l’oggetto (“tutto” o “frammento”che sia) in una luce nuova, più illuminante o semplicemente diversa rispettoal passato.

Un ulteriore passo in avanti si potrebbe tentare, se nella congerie deglioggetti, che compongono i materiali sterminati della storia letteraria (biogra-fie, storia politica e sociale, storia dei costumi, tradizione letteraria e cultu-rale, gruppi intellettuali, fonti linguistiche, ecc.), se ne individuasse uno chein maniera più marcata ne esprimesse la peculiare vocazione e ne facesseemergere l’asse. A questa individuazione si potrebbe forse arrivare, meglioprecisando il contenuto stesso della nozione di cui stiamo parlando: “storiadella letteratura”. “Storia” suggerisce da subito l’idea che l’organizzazionedella materia lungo la serie diacronica rappresenti uno di quegli elementiconvenzionali, cui si deve se l’accostamento dei fenomeni sia dotato di sensoe se l’insieme si regga secondo una determinata coerenza (e ciò vale, ovvia-mente, per qualsiasi “storia”, compresa la Storia tout court). Questo non èsempre vero, anche perché la serie diacronica stessa è sottoposta necessaria-mente a fratture, ritorni all’indietro o improvvise accelerazioni in avanti,spesso dovuti al fatto che noi non possiamo non osservarla da lontano, siamo

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portati ad usarla più che a lasciarcene dominare, usiamo contemporaneamen-te tempi e fasi diversi e di conseguenza la costruiamo, invece di lasciarcenepassivamente condizionare, come del resto accade per qualsiasi altra opera-zione mentale umana.

Dire cos’è “letteratura” è un po’ più complicato. Se rispondiamo che“letteratura” è l’intersezione di tutti i fenomeni che compongono la “storialetteraria”, anche se la definizione in sé non sarebbe sbagliata, ci limiterem-mo a proporre una tautologia. È preferibile forse rovesciare il quesito, partiredagli oggetti che lo compongono piuttosto che dall’insieme. A cosa non sipotrebbe assolutamente rinunciare, scrivendo una storia letteraria? Toglietele biografie, la storia politica e sociale, la storia dei costumi, i gruppi intel-lettuali, persino le fonti linguistiche, ecc.: cosa resta? Restano i testi e, in-sieme con i testi, la tradizione, che dalle interconnessioni fra i testi, spessoneanch’esse neutrali, ma determinate da scelte, volontà consapevoli e con-flitti, a un certo punto si costituisce.

Si possono sopprimere i testi in una storia letteraria? Molti lo hannofatto, e alcuni continuano a farlo: ma si tratta evidentemente di un’operazio-ne suicida. Ora, il testo, che è nozione di carattere fondamentalmente semio-logico, presenta una varietà di usi che ne impone una più puntuale precisa-zione. In sede letteraria, storicamente e teoricamente, il testo si presenta co-me opera, ossia come un testo cui è stata specifica volontà dell’autore attri-buire una conformazione, una destinazione e un’intenzionalità di tipo lettera-rio. In genere la persuasione di compiere un’operazione di tipo letterariol’autore la ricava da alcuni fattori genetici (ovvero canonici) presenti nellatradizione (per esempio, la storia dei generi: da circa tre secoli a questa partesi scrivono libri, a grandi linee omogenei, che siamo soliti definire romanzi:per quanti mutamenti nel frattempo ci siano stati, questi oggetti letterari, co-struiti il più delle volte consapevolmente per esser dei romanzi, continuanoad essere riconosciuti come tali dal pubblico: ciò è potuto accadere ancheperché gli autori, di volta in volta con i mutamenti del caso, si son calati, piùo meno consapevolmente, nel canone di quel genere). Si potrebbe dunque ra-gionevolmente sostenere che la “storia letteraria” è fondamentalmente una“storia delle opere, che si autoconsiderano o vengono considerate letterarie”,con insieme tutto quello che contribuisce a determinare, influenzare, orienta-re la serie dei fenomeni storico-letterari, e cioè le biografie, la storia politicae sociale, la storia dei costumi, i gruppi intellettuali, le fonti linguistiche,ecc., e in primissimo e specialissimo luogo la tradizione, custode dei valori edelle regole, in base ai quali la letteratura, sia pure rinnovandosi, continua adorientarsi. Che la “storia letteraria” sia fondamentalmente una “storia delle

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opere letterarie” significa, nella storia letteraria, accentuare e valorizzarel’aspetto specificamente letterario, il quid più strettamente connesso con ilcarattere qualitativamente peculiare dell’operazione, trattando il resto del si-stema, pur nella sua innegabile utilità, in forma più strumentale e funzionalerispetto al nocciolo identificativo del sistema stesso. Se di una costellazionedi fenomeni si tratta, questa costellazione ha un centro, non si presenta né ècaotica: ciò consente di organizzare la materia secondo una coerenza meto-dica, che la rende più leggibile nei suoi esiti e più illuminante nei suoi effetti.

La storia letteraria mira alla costruzione di un sistema; la critica inve-stiga la natura letteraria delle opere o, eventualmente, dei singoli testi. Lacritica, nel senso qui usato, è nozione d’origine tardo-settecentesca, piùprecisamente kantiana, e sta a significare quell’operazione mentale con cuis’indaga mediante l’uso di appropriate “categorie” la costruzione di un attoo di un’attività o di un prodotto mentale umano in vista di una sua miglioreconoscenza o sistemazione concettuale. La critica che investiga la naturaletteraria delle opere, e cioè la critica letteraria, ha occupato un posto digrande rilievo nella costruzione della civiltà umanistica occidentale almenoda cinque secoli a questa parte. Siccome è difficile che una funzione cultu-rale nasca senza che se ne avverta il bisogno, dovremo pensare che la tradi-zione letteraria, nel costituirsi, ha sviluppato l’esigenza di un meccanismodi autovalutazione che ne accompagnasse il cammino, giudicando i risulta-ti, orientando la ricerca, suggerendo soluzioni. Ci sono stati momenti d’in-treccio, di separazione e persino di contrapposizione fra queste due spondedel letterario.

In taluni casi, la critica letteraria, staccandosi dall’originaria funzione dilettura e interpretazione delle opere, si è autonomizzata, è divenuta autorefe-renziale, si è trasformata in una riflessione sul letterario, che fa delle operealtrui un semplice pretesto, e ha creato un genere a sé: la saggistica letteraria.In altri casi (in un certo senso opposti), la critica letteraria ha incrementato adismisura la propria vocazione magisteriale, si è posta come coscienza criti-ca e talvolta come imperativo categorico della letteratura e della scrittura. Inaltri casi ancora, la critica letteraria, non di rado affondando le proprie radicinell’humus vivificatore di questa o quella grande ideologia, si è presentatacome un fenomeno di tendenza: critica classicista, critica romantica, criticarealista, critica naturalista, critica surrealista, ecc. o, anche, se si guarda inmaniera preferenziale ai punti di vista, critica idealista, critica positivista,critica marxista, ecc. In taluni casi e per alcuni periodi, anche piuttosto lun-ghi, ha persino prevaricato sulle tendenze letterarie creative, talvolta persino

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facendosi, più della stessa letteratura creativa, braccio secolare del potere(per esempio, nei paesi totalitari).

Oggi la situazione sembra essersi notevolmente raffreddata. Ciò si deve,mi pare, a due motivazioni di fondo. Viviamo in un mondo post-ideologico (oche si pensa tale): non solo la critica letteraria ma la letteratura stessa ha do-vuto imparare a far da sé. Cosa suggerisce la critica letteraria, in quali direzio-ni orienta e come, se neanche lei sa in nome di cosa lo fa? Il processo, sempli-ficandosi, è diventato più complesso. Cade qui la seconda motivazione.

Anche nella critica letteraria, come nella storia letteraria, agisce diver-samente dal passato più l’imperativo scientifico che quello categorico. Primadi chiedersi a qual fine si fa, si fa. L’elemento conoscitivo, ormai assoluta-mente predominante, è al tempo stesso, da parte della critica, l’unico ele-mento adjuvante positivo nei confronti della letteratura (e del letterario): sesi conosce meglio quel che si fa, è possibile che anche quel che si fa si facciameglio. Dunque, alla critica è assegnato come compito d’esplorare – nei li-miti in cui questo si rivela umanamente possibile – la verità del testo che cisi trova di fronte: sia che si tratti di un testo del passato, sia che si tratti di untesto del presente.

Di conseguenza, le differenze che a lungo sono state individuate e gelo-samente mantenute fra critica letteraria delle opere del passato, considerata piùdistaccata, impersonale e, appunto, più scientifica, e critica letteraria delle ope-re del presente, considerata più impegnata, di tendenza e, appunto, menoscientifica, tendono secondo me ad attenuarsi. La “distanza temporale” mag-giore o minore dell’interprete rispetto al testo o all’opera (“distanza tempora-le” che costituisce anche un diaframma logico e concettuale), a lungo avvertitacome un elemento fondativo del “punto di vista critico” (se sto più lontano,vedo con maggiore difficoltà ma con più precisione; se sto più vicino, vedopiù grande ma più sfocato: per secoli la critica letteraria è stata vissuta comeuna questione di miopia o di presbiopia) sembra divenuta meno decisiva. Au-menta invece a dismisura l’importanza degli strumenti analitici impiegati (ana-lisi linguistica, ricostruzione filologica, ermeneutica stilistica, indagine dellestrutture, ecc.) al fine di conseguire quel risultato di verità. In un certo senso, eparadossalmente (perché le motivazioni in realtà si sono perfettamente rove-sciate), si attua solo ora la tesi crociana, secondo cui ogni storia è contempora-nea: più esattamente potremmo dire che ogni storia, anche quella del presente,nel momento in cui la conosciamo e la “sistemiamo”, diviene storia del pas-sato (e perciò è più certa), come seriamente accade a ogni investigazione chesi proponga anzitutto e soprattutto un quadro esatto e circostanziato del feno-meno studiato (anche se esso sta svolgendosi esattamente sotto i nostri occhi).

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Naturalmente, quando si scrive una frase azzardata come “verità del te-sto”, non s’intende in nessun modo che sia possibile fotografare un’identitàautoriale unica e sola, passata indenne attraverso i mutamenti del tempo, e chespetterebbe a noi, per insolito e raro privilegio, riscoprire. Pensiamo inveceovviamente, anche in questo caso, ad un processo di perenne e inesauribile ap-prossimazione scientifica, ossia al tentativo più rigoroso e paziente che si pos-sa realizzare con i mezzi attualmente a disposizione (che possono anch’essicambiare) di accumulare elementi di conoscenza, legandoli di volta in volta inun quadro d’insieme che, per quanto piccolo (stiamo parlando magari del com-mento a un singolo verso, a una singola parola di un testo), tende anch’esso adassumere carattere di sistema. Qui s’inserisce l’ultima questione.

Fra la critica letteraria e la storia letteraria non c’è contrapposizione maun processo osmotico continuo. Risulta abbastanza evidente, infatti, che que-sti quadri d’insieme, frutto del lavoro del critico letterario, quand’anche mi-croscopici, necessariamente si legano con altri quadri d’insieme, che condi-zionano e da cui sono condizionati, perché non esistono letture puramentemonodiche. Persino la prima lettura di un testo assolutamente sconosciuto, dicui in prima battuta s’ignorino la provenienza e il contesto, è possibile soloin quanto nell’esperienza passata dell’interprete si sono sedimentati alcunicriteri: è solo da questi che si può sopperire all’eventuale mancanza di ognialtro possibile contesto.

D’altra parte, la costruzione della storia letteraria, e cioè di quel sistemaeterogeneo di oggetti, figure e relazioni che con essa s’identifica, può avve-nire efficacemente solo se la critica letteraria ha predisposto un certo numerodi quadri d’insieme che, relazionati fra loro, consentono di meglio apprezza-re e sistemare la peculiare componente letteraria del sistema.

Come si potrebbe fare a meno di questa inter-relazione e di questoscambio? Non solo non se ne può fare a meno, ma questa inter-relazione equesto scambio costituiscono uno degli argomenti più forti a sostegno dellatesi secondo cui la storia letteraria, in quanto sistema multidisciplinare, mul-tioggetto e multiforme, può aggiungere senso alla lettura e all’interpretazio-ne delle opere letterarie. Non c’è critica letteraria che non presupponga unatessitura storica e anticipatamente riconoscibile. Non c’è storia letteraria chepossa prescindere dal travaglio interpretativo e dall’accumulo di materialiconoscitivi prodotti dalla critica letteraria. Non sempre il buon critico è an-che un buon storico della letteratura; e non sempre il buon storico della lette-ratura è un buon critico. Ma la figura ideale è quella che somma insiemel’uno e l’altro.

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E su questa proiezione utopistica, che è anche un auspicio, chiudiamo ildiscorso, il quale è naturalmente anch’esso approssimativo e provvisorio. In-fatti le coordinate di questi ragionamenti teorici non sono né troppo rigide nédate una volta per tutte: come in ogni ricerca di carattere scientifico, l’espe-rienza ha un peso non meno rilevante della teoria. E con ciò, in un certo sen-so, torniamo al punto di partenza: all’esperienza che fa la teoria, come la teo-ria fa l’esperienza.

Ciò detto (e poiché parliamo di una Facoltà universitaria, e non di unasingola ricerca scientifica o di un’impresa editoriale), vorrei esprimere lapersuasione che esista anche un problema di didattica conseguente a quellifinora esaminati. Penso che da questo punto di vista molta strada debba an-cora essere percorsa. Eppure, se un compito andrebbe assunto da una Facoltàdi Scienze Umanistiche, al di là o al di sopra dei singoli comparti disciplinariche la compongono, dovrebbe essere quello di trasmettere ai propri studentila persuasione che anche le “materie umanistiche” possono essere studiate etrattate con criteri scientifici. Ciò è particolarmente importante per i settoriletterari e linguistici e in modo più rilevante ancora, poiché siamo in Italia,nei settori letterari e linguistici italiani. Il trattamento non retorico ma scien-tifico di tali testi apre infatti ad una migliore comprensione di qualsiasi altrouniverso fondato sulla costruzione letteraria e linguistica. Il vastissimo mon-do della comunicazione e dell’informazione, ad esempio – e so di dire una co-sa che dispiacerà a molti – è penetrabile più agevolmente da strumenti di que-sta natura (purché, ripeto, siano ispirati ad un autentico rigore scientifico), chenon ad altri di natura più limitatamente sociologica. D’altra parte, avere a chefare con l’immaginario di Dante o con quello di Leopardi resta per un giovaneuna delle esperienze più esaltanti che si possano umanamente concepire. Saperleggerlo, interpretarlo, descriverlo è un atto che non esclude ma prelude al-l’amore. E senza amore non c’è didattica che tenga.

Nota bibliografica

Mi limito a segnalare i saggi e gli articoli, nei quali, nel corso degli anni,ho ragionato sul medesimo argomento:

A. Asor Rosa, Ipotesi ed esperimenti per una nuova storiografia lettera-ria, in Problema e problemi della storia letteraria, Atti del Convegno Inter-nazionale (Roma, 25-27 novembre 1983), Accademia Nazionale dei Lincei,Roma 1990, pp. 13-33; Id., Letteratura, testo, società, in Letteratura italia-na, dir. da A. Asor Rosa, 1. Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982,

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pp. 3-29; Id., Il canone delle opere, in Letteratura italiana cit., Le opere, 1.Dalle origini al Cinquecento, Einaudi, Torino 1992, pp. XXIII-LV (ora inId., Genus italicum. Saggi sulla identità letteraria italiana nel corso deltempo, Einaudi, Torino 1997, pp. 3-31). Id., La nuova critica, in Id., Genusitalicum cit., pp. XIII-XXIX.

È da vedere anche il vol. miscellaneo La scrittura e la storia. Problemidi storiografia letteraria, a cura di A. Asor Rosa, La Nuova Italia, Firenze1995, con saggi di A. Asor Rosa (La storiografia letteraria come operazionedi conoscenza), Cesare Segre (I segni e la storia), Emilio Garroni (Estetica,letteratura e storia), Georges Duby (Scrivere storia), Mario Lavagetto (Bu-gia/storia/finzione/verità), Guglielmo Gorni (Il testo e la storia), IgnazioBaldelli (Lingua, letteratura e storia), Maria Corti (Il binomio intertestualitàe fonti: funzioni della storia sul sistema letterario), Alberto Varvaro (Storiadelle letterature medievali o della letteratura medievale? Considerazioni suspazi, tempi, ambiti della storiografia letteraria), Maurizio Bettini (Il rac-conto di Alcmena e Anfitrione: un’analisi antropologica), Roberto Antonelli(Tempo e spazio nella storiografia letteraria).

Di R. Antonelli va ricordato anche Storia e geografia, tempo e spazionell’indagine letteraria, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, Storiae geografia, I. L’età medievale, Einaudi, Torino 1989, pp. 5-26.

Importantissima per me è stata, come ho già detto nel testo la realizza-zione della Letteratura italiana Einaudi (che ho diretto tra il 1982 e il 2000),nelle sue varie articolazioni (storico-saggistica, storia della lingua, opere, di-zionari, ecc.).

A proposito di Letteratura italiana Einaudi mi richiamo ad un altro miosaggio, Metodo e non metodo (nella critica letteraria), prefazione al vol.. IV.L’interpretazione, Einaudi, Torino 1985, pp. 5-18, per sottolineare l’importanzadel dibattito ormai in corso da molti anni sul relativismo della conoscenzascientifica (Cfr. P.K. Feyerabend, Against Method: Outline of an AnarchisticTheory of Knowledge, 1975, trad. it., Feltrinelli, Milano 19842), che si richiamada una parte all’opera teorica di E. Mach, dall’altra a L. Wittgenstein (On Cer-tainty, 1969, trad. it., Einaudi, Torino 1978); testi e autori capitali per intendere ilpassaggio epocale dalle humanae litterae alle scienze umanistiche.

Sintesi ed epilogo, per ora, di questa lunga stagione di riflessioni è:A. Asor Rosa, Dieci tesi, un intermezzo e una conclusione sull’italianistica ela critica letteraria, in «Bollettino di italianistica», n. s., I, 1 (2004), pp. 13-31, da cui sono tratte alcune parti del presente saggio.

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Letterature moderne

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Esame oggettivo

Nell’accingermi a buttare giù questi pensieri per la nascente rivista diFacoltà, io veramente non so di che cosa dovrei parlare. Mi si chiede di par-lare da anglista, questo è ovvio, dato che in questa Facoltà io insegno, o al-meno ho insegnato per lungo tempo, una disciplina che si chiamava Lingua eletteratura inglese. Ma da tre o quattr’anni a questa parte questa disciplina èscomparsa dall’ordinamento universitario italiano. Di conseguenza io non sopiù cosa, in senso accademico, debba intendersi per “anglista”. Vale a direche non so più chi, o meglio che cosa, io sia, accademicamente parlando.Tanto poco lo so che, se sollecitata comunque a una risposta, non saprei fare dimeglio che rifugiarmi nella battuta del personaggio sterniano. «Don’t puzzleme»: non mi mettete in difficoltà.

Ma, qui giunti, il ragionamento si chiuderebbe prima di incominciare.Per evitare che questo accada, proverò a ricostruire i passaggi che mi hannoportato allo stato di indigenza dal quale al presente mi sento colpita. Si badi,indigenza in quanto al nome: e cosa c’è in un nome?

La riforma dell’università che ha istituito la laurea triennale, detta anchelaurea “breve”, propedeutica al biennio di specializzazione, ha cancellato ladisciplina Lingua e letteratura inglese dalla ratio studiorum nazionale. In Ita-lia infatti non si ritiene che i professori delle singole Facoltà siano autorizzatia giudicare da soli quali sono le scienze degne di essere insegnate nei lorocorsi: è sempre obbligatorio il sigillo deresponsabilizzante dall’alto, e per lematerie e per i corsi, e ora anche per il numero delle ore di lezione accre-ditate. Dall’unico ceppo Lingua e letteratura inglese la legge di riforma haenucleato due distinti “settori scientifico-disciplinari”: l’uno denominatoLingua inglese – Lingua e traduzione (L-LIN/12), l’altro Letteratura inglese(L-LIN/10). Tra i due settori è stata poi dichiarata l’“affinità”. In gergo ac-

Paola Colaiacomo

L-LIN/10 – L-LIN/12

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cademico-ministeriale questo significa che anche dopo l’opzione iniziale aidocenti già di Lingua e letteratura sono consentiti ripensamenti: previa auto-rizzazione, essi possono effettuare passaggi, definitivi o occasionali, dall’unoall’altro settore. Non so davvero quali altre discipline, oltre a quelle lingui-stiche moderne, siano state colpite da un processo di destabilizzazione altret-tanto radicale. Mi si potrebbe ricordare, a questo punto, che la stessa fratturail Ministero l’ha disegnata sul corpo di tutte le lingue e letterature stranierecosiddette “maggiori”, e dunque non vale la pena di farne un caso perl’inglese. È vero, comunque ognuno ha i suoi problemi.

Posta di fronte al dilemma: “lingua o letteratura”, ho scelto il secondocorno. Devo dire a onor del vero che sul momento la scelta mi apparve non so-lo non dilemmatica, ma anzi piuttosto scontata. Da una parte c’era il fatto chetutti senza eccezione i miei colleghi anglisti della Facoltà di Lettere e Filosofiadella “Sapienza”, e moltissimi anche di quelli di altre Università con i quali horapporti, si venivano regolando allo stesso modo. Dall’altra quello, ben piùcogente, che il mio lavoro di ricerca, e conseguentemente la mia didattica, era-no da sempre stati rivolti a nodi problematici – il novel settecentesco, il teatroshakespeariano, la poesia romantica – che assumevano a terreno d’indagineprivilegiato ed esclusivo il testo letterario. Perciò, nelle parole della celebrecanzone dei Beatles, «it seemed such an easy thing to play»: parve fin troppofacile, nel “gioco” accademico, attribuirmi la parte della Letteratura. Divennidunque, senza esitare, una L-LIN/10. Ma quello era appunto “ieri”. Yesterday.

Devo aggiungere che la mia prima impressione al momento dell’entratain vigore della riforma fu – né ho avuto motivo di ricredermi in seguito,perlomeno in linea teorica – che, rispetto al mondo dell’anglofonia, la divi-sione tra la lingua e la letteratura assumesse un peso del tutto specifico, forsenemmeno calcolato ai tavoli della contrattazione ministeriale. Pensai cheproprio quella divisione potesse aprire la strada a chiarificazioni lungamenteattese, e che l’apparente distrazione delle Autorità potesse addirittura tornarea vantaggio di docenti e studenti. Le tabelle che fissavano la struttura dellenuove classi delle lauree dimostravano in maniera inequivocabile come aifamosi tavoli avesse trovato espressione la tradizionale e io credo desideratapovertà della nostra cultura ufficiale in fatto di lingue e culture moderne.Non solo la distribuzione, ma persino la collocazione dei “crediti” linguisti-ci, in posizione marginale e quasi esornativa nelle tabelle, tradiva una conce-zione del tutto strumentale di quelle discipline, ciliegina sulla torta di un sa-pere umanistico ben più saldamente fondato altrove. E il bello era che poi,nelle linee programmatiche introduttive alle singole classi di laurea, non siresisteva alla tentazione di dichiarare, del tutto seriosamente, la necessità di

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una buona, e talvolta ottima, conoscenza scritta e parlata di una o anche didue lingue dell’Unione europea, a scelta dello studente, da verificarsi a finepercorso. Come questo obiettivo fosse raggiungibile con i pochi crediti asse-gnati alle lingue dagli esperti ministeriali resta un mistero, a meno che essinon immaginassero studenti già in possesso, al momento dell’immatrico-lazione, di valide competenze acquisite alla scuola superiore, e si sa quantoquesto capiti di rado. È vero che i singoli Corsi di laurea possono giocare suicosiddetti “crediti di sede”, e rafforzare così quelle discipline che sentonopiù carenti rispetto all’assetto che si vogliono dare, ma su quel piccolo pecu-lio di ore, già scarno in sé, si appuntano le brame di molti. E difficilmentequei molti sono disposti a riconoscere alla conoscenza della lingua stranieraun valore non meramente accessorio: specialmente se quella lingua è l’ingle-se, credo in omaggio al vecchio pregiudizio antialbionico. Si sa, oggi conl’inglese bisogna sbrogliarsela, ma che tanto basti.

Evidentemente, nonostante ogni volontà di riforma dell’assetto delle fa-coltà umanistiche, si dovevano proteggere ambiti disciplinari sentiti comepiù genuinamente nazional-accademici – i cosiddetti “di base” – rispetto aquelli linguistico-culturali stranieri. Si dovevano cioè rassicurare sulle lorosorti future settori accademici più classicamente “umanistici” e “filologici”,spesso gravati da apparati di docenti lungamente stratificati nel tempo e per-ciò numerosi. Settori, oltretutto, perlopiù in crisi di studenti; era dunque op-portuno tenere quelli che c’erano legati alla “galera” (riprendo l’espressioneda Guido Calogero) degli esami protetti1. Perciò, spolverate di crediti in tuttele direzioni. E fu così che nacquero quelle bizzarre fantasie ministeriali chesono la Laurea (specialistica) in “Editoria, comunicazione multimediale egiornalismo” del tutto sprovvista di crediti di letteratura straniera, o quellatriennale in “Scienze del turismo” con appena due sparuti crediti di una lin-gua quale che sia, e di letteratura nemmeno a parlarne. Ah, la gloriosa lette-ratura di viaggi, i giornali, le lettere dei romantici viaggiatori britannici inItalia, il Child Harold di Byron, vero best seller del momento, che insegnò aituristi di tutto il Nordeuropa, ormai pronti per la calata, gli incanti del pae-saggio mediterraneo punteggiato di rovine! Tutto materiale che oggi, nelmondo occidentale come in quello orientale, sta venendo rivisitato in piùchiavi, alla luce di storia, antropologia, cinema persino. Oltre che, ovviamen-te, degli studi critico-letterari sul romanticismo.

Si reduplicarono dunque – con qualche rara eccezione in università peri-feriche, forse perché meno vincolate dalla tradizione – le “storie”, le “ar-

1. G. Calogero, Gli schiavi della Facoltà di Lettere, «Il Mondo», 6 settembre 1955. Orain Id., Scuola sotto inchiesta, Torino 1965, p. 19.

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cheologie”, le “metodologie”. Addio triennio di base. E addio anche bienniospecialistico: si è visto ormai che là dove il triennio non fa scelte mirate, an-che le specialistiche stentano a partire. Mentre se il progetto c’è, gli studentilo percepiscono immediatamente e accorrono a frotte. Oppure dobbiamopensare, vista l’esiguità del numero degli specializzandi, che l’obiettivo difar terminare il triennio effettivamente in tre anni – uno dei punti più qualifi-canti della Riforma, a mio avviso – sia stato clamorosamente mancato, finqui, e che stiamo ricadendo nel vecchio disordine dei “fuori-corso”. Potremorendercene conto con precisione nei prossimi anni.

Ma torniamo alle specificità dell’anglistica. Ho detto che la separazione diLingua da Letteratura – separazione dalla quale il Ministero ha esoneratol’area delle lingue e letterature anglo-americane – poteva anche rappresentareun’apertura, e forse in taluni casi le cose saranno andate proprio così. Purtrop-po però, almeno a mio giudizio, questa straordinaria opportunità di ripensa-mento dei percorsi didattici finora non l’ha colta appieno né la Facoltà diScienze Umanistiche, alla quale appartengo, né per lei il Dipartimento di an-glistica, al quale ho appartenuto fino a poco tempo fa, quando esso esistevacon questo nome. Perlopiù i miei colleghi lamentavano l’inevitabile impoveri-mento dei corsi, ed esprimevano il timore della definitiva “licealizzazione” de-gli insegnamenti linguistico-letterari. D’altra parte, c’è da dire che un certo di-sorientamento in quel momento era inevitabile, considerato che stavamouscendo dalla più che trentennale fase del “quadriennio”, quando l’istituzionedei Corsi di laurea in Lingue e letterature straniere – non parlo qui delle Fa-coltà di Lingue giacché la “Sapienza” mai ne volle istituire una – aveva fattodella lingua e letteratura prescelta dallo studente come quadriennale il terrenodi una formazione umanistica e filologica a tutto campo, solidamente fondatasulla modernità. Su un concetto di Moderno finalmente capace di abbracciarel’Antico come sua filiazione, o emanazione, o invenzione. E questa era statadavvero un’innovazione, dentro la vecchia e gloriosa Facoltà di Lettere e Filo-sofia della “Sapienza”, visto che per quel pensiero del moderno passava tuttala grande cultura critica e filosofica – anche antichistica – del Novecento, sic-ché era stato del tutto corretto giudicare che, dopo tutto, i corsi di lingue stava-no già a casa loro, lì dentro. La loro presenza non era che un ulteriore arric-chimento epistemico di quella già ricca Facoltà.

È superfluo, credo, che a questo punto io sottolinei come molti, moltissi-mi, di quei quadrienni fossero in Anglistica e Americanistica. Vi ho lavoratodalla prima loro fondazione: ricordo i seminari di Agostino Lombardo; ricordol’entusiasmo che questo grande professore e letterato suscitò negli anni Settan-ta con un suo frequentatissimo seminario – assolutamente libero e “screditato”,

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come poi lui amò dire – sulla letteratura afro-americana. Il suo era il sogno diun moderno umanesimo che nascesse da un’università di massa, e credette dipoterlo realizzare.

Ma ora i tempi larghi del quadriennio finivano, si stringevano nel trien-nio, e i produttivi otia del corso monografico cedevano alla pressione deicrediti, delle “ore contate”. Per rimanere all’altezza del progetto “umani-stico”, evidenziato fin nel nome che la nuova Facoltà si era dato, il Diparti-mento di anglistica doveva assumersi responsabilità piuttosto pesanti: deci-dere di tagliare su un settore, di investire su un altro, nella speranza che pro-prio quella potatura potesse rappresentare l’occasione per un rafforzamento euna ridefinizione – diciamo una rimessa a modello – dei diversi ambiti disci-plinari che la nuova legge universitaria in parte ti obbligava, e in parte ticonsentiva, di far emergere. Giacché di fatto quegli ambiti esistevano già. Ilquadriennio di “lingua e letteratura” non era stato esautorato per malvagitàministeriale: c’era sicuramente, ormai, del nuovo da raccogliere; e nelle in-tenzioni la “riforma” – uso la parola nel senso in cui la si usa in viticoltura –doveva essere l’occasione per un ricco raccolto. Il lavoro sulla tradizione, edunque sul passato, poteva avvantaggiarsi di uno sguardo che nascesse dalpresente e mostrasse la necessità, per il presente, di quel passato. Dopo tutto,organizzare gli insegnamenti sulla misura breve del “modulo”, più agile esensibile al nuovo rispetto al tradizionale corso monografico – più “semina-riale”, idealmente – poteva essere un modo, o almeno così io pensai, per aiu-tare gli studenti a non cadere fuori corso. Una stranezza tutta italica, que-st’ultima, che fa sì che mediamente un nostro laureato si affacci alla profes-sione con parecchi anni di ritardo rispetto a suoi colleghi europei, con unagrave perdita quanto a creatività e produttività del lavoro italiano. Offrire nu-clei compatti di lezioni, con valutazioni in itinere ed esonero finale a conclu-sione del modulo, era un modo per incoraggiare la frequenza; o almeno unavicinanza ideale magari realizzata per e-mail, anche da parte dei non fre-quentanti, al lavoro fatto in classe. Si sa che la nostra è per tradizione unauniversità dove si contempla che lo studente non frequenti le lezioni, e nonmi dolgo di questo. Ci vuole però un’organizzazione capace di fronteggiaretutta la complessità – a diversi livelli – della non-frequenza. Ci possono esse-re degli ottimi motivi per non frequentare le lezioni: non ultimo la liberascelta, che personalmente rispetto, anche perché tra i non frequentanti hoavuto ottimi studenti, con i quali poi ci siamo frequentati nella vita.

Non restava dunque che mettersi all’opera: e il primo passo sarebbe con-sistito, immaginavo, nell’istituzione di una maggiore trasparenza – di fronte anoi stessi, in primo luogo – nella programmazione del lavoro futuro degli stu-

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denti, dei singoli docenti, del Dipartimento e del Corso di laurea. Quale occa-sione migliore per far tesoro anche della lì per lì sospetta separazione di Lin-gua da Letteratura, lavorando tutti assieme, linguisti e letterati, alla definizionedi un programma didattico e di ricerca che, partendo dalla ricognizionedell’esistente, si desse degli obiettivi il più possibile chiari quanto ai risultatiche si volevano raggiungere? Si cominciasse, come Robinson, da un bilanciodi ciò che c’era e di ciò che mancava; si cercasse di colmare, con la spesa mi-nima, i più eclatanti vuoti di docenze e attrezzature, e ci si mettesse al lavoro.Certo, fare questo voleva dire mettersi dal punto di vista della riforma, e inten-derne lo spirito; non difendersene come da un’aggressione alla propria personaaccademica, limitandosi a soddisfare i requisiti minimi segnati sulle tabelle.Pian piano però, cominciavo a capire quanto fare questo sarebbe stato faticoso.

Eravamo ai tempi dell’attentato alle Twin Towers, e in quei giorni si vi-veva attaccati alla televisione: una sera mi era capitato di fare attenzione aidiversi “inglesi”, di osservatori e uomini politici del mondo occidentale eorientale, che reti come la CNN e la BBC autorizzavano dal piccolo scher-mo. Una linea sottile li divideva da quelli giudicati invece bisognosi di tra-duzione. Avevo incominciato a seguire quella linea, nei diversi programmi,come un documento nel documento. Ricordo che ne feci cenno durante unConsiglio del Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, poiché misembrava che questo della identificazione degli “inglesi” autorizzati o non,fosse un bel tema di riflessione, per un organo di governo della didattica chesi apprestava a far nascere dal proprio seno, come disciplina autonoma, la“Lingua inglese”. Era un esempio di come non tutto fosse perduto, di comesi potesse far leva proprio sulla nuova e un po’ sibillina intitolazione “Lin-gua” – ministerialmente distinta anche dalla più familiare “Lingua e tradu-zione” – per pensare qualcosa di nuovo. Per dare avvio a una revisione pro-fonda degli ambiti disciplinari. Per immaginare nuovi possibili incroci deipunti di vista. Dopo tutto il mondo dell’anglofonia era il mondo della comu-nicazione mediatica globale. Racchiudeva in sé una ricchezza e una com-plessità che erano quelle della cultura moderna tutta. Possibile che non sitrovasse il modo di far cantare alle micidiali tabelle una canzone più allegra?

Anamnesi

Per spiegare meglio, anche a me stessa, i termini del problema, credo pos-sa essere utile a questo punto risalire un po’ più indietro dell’immediato ieri.

Una tensione testualmente “empirica” era ed era stata un tratto distintivodell’anglistica italiana, fin dai tempi della sua fondazione accademica ad

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opera di Mario Praz (con il quale ho avuto il privilegio di laurearmi). E di-fatti, non aveva Benedetto Croce rimproverato a quella geniale ricognizionedi motivi e figure presenti nei testi romantici che è La carne, la morte e ildiavolo (1930), di scendere troppo nei particolari, di addentrarsi persino concompiacimento nei vicoli più bui e maleodoranti delle letterature europee?“Praz si è assunto la fatica di svuotare le stalle di Augia”, aveva sentenziatoil filosofo. Volendo dire: ha letto troppi testi, alcuni dei quali decisamentesconvenienti, e li ha letti troppo da vicino. Era perfettamente vero: il Maestroaveva guardato alla letteratura romantica con il suo prezioso occhio strabico,dotato del potere di annullare distanze e gerarchie, ed era approdato alla ri-costruzione di una particolare “sensibilità”, che dal “romanticismo” – intesoin senso lato, va da sé – giungeva in linea diretta sino a noi, i “moderni”. Chea nostra volta gli abusati cliché fin-de-siècle del superuomo byronico e dellafemme fatale li rivivevamo ogni giorno come archetipi della nostra moder-nità2. Era la genealogia del nostro gusto di critici, letterati, o anche semplicilettori profondamente intrisi di cinema, fotografia, viaggi, e presto anche ditelevisione, a delinearsi in quelle dotte pagine. Perciò esse ci appassionavanocome una detective story.

E con alle spalle quel libro che era risuonato per l’Europa, Mario Prazera stato richiamato dall’università di Liverpool, dove aveva soggiornato peralcuni anni, alla “Sapienza” di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, per in-segnarvi Lingua e letteratura inglese. Dalla provincia portuale e manufattu-riera di quello che era stato, e negli anni Trenta ancora in buona misura era,l’Impero britannico, a Roma, cuore dell’umanesimo archeologico, imperialein spirito. A quei tempi alla “Sapienza” si arrivava solo per chiamata, nonper concorso: per trasferimento cioè da università periferiche, nelle quali sifosse già data prova positiva delle proprie qualità accademiche.

Da Roma, il suo gusto da bricoleur dei testi letterari Mario Praz, colle-zionista per natura, l’aveva trasmesso lezione dopo lezione, per decenni, agenerazioni di scolari. E anche se nel tempo questi, come era inevitabile,avevano diversificato e specializzato le proprie modalità d’approccio, unamore per il testo di un tipo che definirei genealogico, era rimasto nei genidell’anglistica italiana. Questo amore particolare si aggiungeva a quello –più statutario, ma non meno decisivo – dettato dalla coerenza con il prover-biale empirismo britannico: che procede come san Tommaso e vuole sempretoccare con mano prima di pronunciarsi, anche se si tratta di una cosa im-materiale come la poesia. E già qui si intravede, o almeno lo spero, come at-

2. M. McLuhan, From Cliché to Archetype, New York 1970.

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traverso quella pratica di bricolage testuale che aveva in Praz la sua matricealtamente filologica, fin dall’inizio si fosse insinuato negli studi italiani dianglistica un germe della cultura, del modo di vivere e di ragionare, del mon-do “British”. Si poteva cioè percepire in quegli studi come un tratto di inci-piente impurità, qualcosa come un cattivo gusto accademico – giusta l’osser-vazione crociana – rispetto a uno sguardo che si volesse tutto incontamina-tamente letterario. Non era del tutto incomprensibile, che nella Facoltà diLettere e Filosofia della “Sapienza” aleggiase un certo sospetto sugli anglisti.

Senonché, per quegli stessi piccoli grani di impurità passava a suo modoanche “la grande tradizione” leavisiana, e vi passava la scrittura critica che fa-ceva emergere quella tradizione. Vi passava la filologia shakespeariana svi-luppatasi a Cambridge anch’essa dagli anni Trenta: partita dalla rivendicazionedella qualità poetica dei drammi, del loro essere in prima istanza poemi fatti diparole, quella filologia approdava alla scoperta della imagery shakespearianacome congegno scenico-verbale attivo in ciascun play. I “grappoli di immagi-ni”, ci spiegavano quei critici e filologi, parlano oltre le parole, che pure, se-condo premessa, sono tutto quello che abbiamo. Sicché, vi erano già implicitequasi delle istruzioni di regia, in quelle pagine critiche. Del resto, uno fra i piùconosciuti di questi studiosi, George Wilson Knight, fu coinvolto in prima per-sona nel lavoro cinematografico. I suoi libri su Shakespeare furono letti congusto, quasi come sequel agli stessi drammi, da un pubblico di lettori colti, manon necessariamente accademici, la cui capacità percettiva veniva contempora-neamente lavorata in profondità dal cinema e dalla fotografia. E questo fattoapriva una bella distanza rispetto al tradizionale lettore “comune” di stampoottocentesco. Ma quel che più conta qui è che quella critica un po’ “impura” furecepita in profondità dai lettori accademici, che la trasferirono fin dentro lestudy guides studentesche, improntandone il gusto di generazioni di giovanilettori e spettatori universitariamente educati.

Del resto, anche presso i dipartimenti di anglistica delle nostre facoltàletterarie e linguistiche il modello della critica immaginativa aveva trovatofavore, e ad esso si erano ispirate molte pregevoli ricerche dei nostri studiosi.Con una differenza però: al contrario di quanto si verificava nel mondo dellacultura anglofona, da noi la riflessione e la sistematizzazione a sfondo filoso-fico prevalevano quasi sempre sulla pratica dell’inchiesta. Per un insieme dimotivi, alcuni dei quali oggettivi – per primo l’inadeguatezza delle bibliote-che – ma spesso anche soggettivi, di inclinazione personale, o che come taleera percepita, difficilmente la ricerca assumeva la forma del “case study”,sentita sempre come un po’ troppo contaminata con le cose materiali, ri-

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spetto alla pretesa purezza di un immaginario faccia a faccia diretto con il te-sto letterario, considerato nella sua astratta idealità.

Ma il tempo non passava invano. Lo sviluppo degli studi culturali (Cul-tural studies), nati nell’UK intorno agli anni Settanta dalle ricerche dell’Isti-tuto di Birmingham, sembrava autorizzare una diversa interrogazione dei te-sti, e dava soddisfazione a quel desiderio di territorialiazzazione della scrittu-ra critica che segna in profondità tutti gli anni Settanta e Ottanta occidentali,fino alla revisione neo-storicista. Nè quella “culturale” fu l’unica infiltrazio-ne di “materialismo” nella critica letteraria: pensiamo ad esempio all’impor-tanza della psicoanalisi, che all’inizio contraddistinse soprattutto gli studifrancesi ma poi entrò in forze nella macchina accademica anglosassone, enella nostra stessa anglistica; pensiamo al post-strutturalismo, al decostruzio-nismo ecc. Nell’insieme, quello che si poteva cogliere era un doppio deside-rio: far emergere, all’interno di un canone possibilmente allargato, l’ancora-mento della letteratura al territorio – ai territori – del vivere e dell’abitare; edessere, noi studiosi – o alcuni di noi – portatori di una scrittura critica an-ch’essa territorializzata, anch’essa compromessa con le cose del mondo.

Cominciavamo a capire che i testi ci chiamano in causa, e ci includononelle loro stesse contraddizioni: che in quanto studiosi noi non stiamo allafinestra, a guardare le immagini del mondo che i testi letterari ci presentano.Che attraverso quelle immagini entriamo in relazione col mondo, e con noistessi, in maniera fortemente immersiva. Cominciavamo a capire che il mon-do è “tutto intorno a noi”, come oggi ci dice la pubblicità. E noi volevamodirlo passando per il canone letterario. Nella tonalità che esso ci detta. Non èproprio questo che oggi vorremmo far capire ai nostri studenti: che, comecon il consueto gusto del calembour dice l’inglese, “text matters”: che il te-sto è importante, ma allo stesso tempo è anche “materia”, o “materie”? Chefra il testo e il mondo il rapporto non è strumentale ma costitutivo? A me, inquel momento, stava capitando di interrogare Londra in questo senso.L’orizzonte della mia interrogazione rimaneva testuale, ma ora era Londra ilmio testo, e ciò che mi conduceva ad esso – il Giornale dell’anno della pestedi Defoe, mettiamo – vi veniva inabissato. Ora leggevo direttamente la città:mi ancoravo ad essa con gli occhi che avevano letto quel libro.

Diagnosi

Eccomi dunque con l’anamnesi pressappoco ricongiunta al momento incui stavo facendo la mia piccola opzione “Letteratura”, convinta – illusa,penserà qualcuno – che alcunché dell’innata, perlomeno al mondo dell’an-

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glofonia, ibridazione tra critica e cultura si potesse far emergere proprio dauna programmazione più ampia e concertata, nei nostri corsi, della disciplina“Lingua”. Certo, ci voleva un ripensamento profondo e complessivo di tuttoil tema “Anglistica”. Ci voleva che mettessimo in chiaro con noi stessi doveci trovavamo e dove volevamo arrivare. Che “pubblicassimo” la nostra ratiostudiorum, e per Lingua e per Letteratura. Anzi, e per Lingue e per Lettera-ture, vista la complessità del quadro anglofono.

Dopo tutto potevamo fare leva su due punti d’appoggio importanti. Dauna parte, la certezza di un primato fondato sul lignaggio: se tutto, del mon-do, poteva essere trattato come testo, noi sul testo letterario eravamo forti diuna genealogia profondamente radicata nel tempo, e con tratti di marcataspecificità. “Non c’è niente su cui non si possa scrivere”, mi aveva detto unavolta il Maestro. Dall’altra, c’erano tutti quegli “inglesi”; c’era il problema,non solo pratico-strumentale ma teorico, della loro collocazione nel mondo.Non era da questi due punti che si doveva partire?

Se, come ormai sapevamo – e sarebbero bastati gli anni di esegesibenjaminiana che tutti avevamo attraversato per rendercene edotti – i testiadditano sempre qualcosa oltre loro stessi, qualcosa di debordante, chesfugge loro per interstizi incontrollabili proprio quando sembrano sul puntodi nominarla, non avrebbero offerto, proprio questi interstizi, un ottimopunto d’attacco per il nostro lavoro con gli studenti? Non potevano nascereda lì i nostri corsi, anzi i nostri “moduli”, come ormai si chiamavano? Danon intendersi come corsi monografici tronchi in cui stipare la vecchia se-quenzialità storiografica, ma come nuclei problematici ben definiti, chedessero voce a un’offerta didattica precisa, per quanto limitata. Un’offertache tenesse conto dalla vita stessa degli studenti, dal loro quotidiano im-mergersi, consapevole o no, nel mare magnum dell’anglistica, nel suo sen-so più globale: lingua, letteratura, cultura, mondo del digitale. Certo, unsimile riorientamento didattico avrebbe riguardato solo i docenti interessatia perseguirlo; chi non lo era avrebbe continuato a fare come prima, nessu-no poteva o voleva impedirlo loro; tuttavia resta il fatto – per me deludente– che su questi punti non ci fu mai una discussione aperta, a tutto campo,che non si limitasse alla cosiddetta “periodizzazione”. Che poi discussionenon fu, ma una specie di arzigogolata istituzione di propedeuticità fondatesulla cronologia delle opere e degli autori e sulla imprescindibilità di alcunigeneri: il vecchio positivismo mai superato. Il principio, così, non si rive-deva; mentre era proprio quella revisione che era passata, e da lungo tem-po, nelle università anglo-sassoni, delle quali si invocava il “modello”. Eanche per “Lingua”, ciò che di nuovo si fece – pur non poco – interessò so-

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prattutto la parte “Traduzione”, dal profilo disciplinare molto importante, especifico, ma certamente non esaustivo del tema.

In fondo, cos’è che chiediamo, almeno nella maggior parte dei casi, a unostudioso del romanzo dell’Ottocento, se non di farci capire in che modo GeorgeEliot, in The Mill on the Floss mettiamo, ci insegna qualcosa su noi stessi, sucome siamo fatti, e su come è successo che siamo fatti proprio in questo modo enon in un altro? E tutto ciò è “Lingua” o è “Letteratura”? O è “Cultura”, secondol’etichettatura che le nuove declaratorie ministeriali ci consentono di adottare?Capisco che le domande potrebbero essere anche altre, e sicuramente più sofisti-cate, ma capisco pure che da questo tipo di domande è difficile prescindere, constudenti del triennio, se si vuole farli partecipi di un processo di alfabetizzazionerispetto al mondo in cui vivono. E ai fini di questa alfabetizzazione una certafamiliarità con il mondo dell’anglofonia è indispensabile.

È qui, a mio avviso, che si coglie la specificità del problema “Inglese”, ri-spetto a quello delle altre discipline pur intitolate “Lingua”: che ne avranno al-tre, di specificità – non ne dubito – ma io non so parlarne. Voglio dire che tuttisappiamo, e lo abbiamo sempre sostenuto, che non ci può essere una buonaconoscenza della letteratura senza la conoscenza della lingua, e che questa, daun certo livello in su, è conditio sine qua non per lo studio di qualsivoglia let-teratura o cultura. Antica o moderna. Viva o morta. Ma voglio dire anche chenel caso dell’inglese vale in maniera più che mai cogente (ripeto: non sto par-lando per le altre discipline linguistiche) anche il punto di vista inverso: ossiache non può esservi conoscenza della lingua, o delle lingue inglesi, senza quel-la delle letterature inglesi, o in inglese. Senza cioè che venga posto, prelimi-narmente o in corso d’opera, il problema di cosa siano e di che cosa siano fattequelle “letterature”. Orientali e occidentali. Del Nord e del Sud del mondo.

Ma se, per quanto riguarda il mondo anglofono, non si dà lingua senza let-teratura, allora è chiaro che dentro la neoistituita disciplina “Lingua inglese” cisono molte più cose di quante non ne possa immaginare la teoria e la praticadella traduzione, che pure di quella disciplina rappresenta una diramazione im-portante. Che esiste tutto un aspetto cognitivo della lingua inglese, come linguadi mediazione globale, di cui tenere conto: che passa per la letteratura, ma guar-da anche oltre la letteratura, verso quei punti di fuoriuscita testuale, dove il testotocca le cose, la materia del mondo – qui penso alle Culture della moda, non lonego, ma potrei riferirmi all’Abitare in genere – e la letterarizza, secondo moda-lità che ci fanno toccare con mano che il testo, come dicevo, “matters”.

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Prognosi

Per natura non sono pessimista. Al contrario: sono un’illusa. E qui l’illu-sione è quella della cura. Che intravedo possibile attraverso un’intensifi-cazione forte, almeno nell’offerta per i trienni, dei contenuti culturali dellalingua – dei suoi aspetti cioè cognitivi – all’interno dei moduli di “Lingua”,“Letteratura”, “Cultura” inglese e anglo-americana, secondo le diverse in-flessioni richieste dai diversi Corsi di laurea. Certo, qui la parte di titolari di“Lingua inglese” che siano anche parlanti nativi di quella lingua è insostitui-bile, e va fatto ogni sforzo per rafforzare questo ruolo, anche vincendo pos-sibili resistenze interne. Corporative intendo. Una Facoltà di Scienze Umani-stiche che guardi a una formazione umanistica moderna, dovrebbe darsi co-me obiettivo prioritario proprio questo rafforzamento. Ma in ogni caso cia-scuno di noi ha una parte da sostenere, come meglio sa e può. Anche il puntodi vista del non nativo può rivelarsi prezioso, se informato.

Tutti i linguaggi dell’abitare metropolitano o nato dalla metropoli –giornalismo, cinema, televisione, pubblicità, moda, cibo, sport, vita quoti-diana: insomma il nostro essere su questa terra – guardano oggi alla lettera-tura come a un giacimento profondo, praticamente vergine, e da essa attingo-no senza sosta, in modi che per gli studenti – e non solo per loro – è utile im-parare a riconoscere. E qui l’informatore non nativo ha molto da dire: puòinsegnare cioè la lingua attraverso i linguaggi. So per esperienza diretta diquesti ultimi tre o quattr’anni che quest’approccio esercita un grande richia-mo sugli studenti, che di solito affollano le mie aule: certo, poi gli esami avolte sono deludenti, ma non credo che questo sia un buon motivo per getta-re la spugna, e sbattere la porta in faccia a chi, magari ingenuamente ma conconvinzione, chiede di essere alfabetizzato rispetto al mondo che lo circon-da. E quanta di quella alfabetizzazione passa per le lingue, culture e lettera-ture dell’anglofonia! Nel dialogo critico tra immagini del mondo, o worldpictures, e valori della letteratura e dell’arte, l’uso della lingua inglese trava-lica di molto la pratica delle nazionalità. Nel mondo del flow, dei grandi flus-si migratori inter- e intra- nazionali, da stato a stato, da periferie a centri cit-tadini, esistono non uno o due, ma cento, mille “inglesi”, che rimandano alpost-colonialismo, certo, ma anche all’internazionalismo; alla frammenta-zione, ma anche alla globalizzazione della nostra cultura. Della nostra civiltàmoderna, segnata dalla vocazione alla globalità fin dall’epoca delle scopertegeografiche, dal Rinascimento in poi. Perché non potrebbe essere l’idea stes-sa di questa molteplicità simultanea e spesso conflittuale di localizzazioni e

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L-LIN/10 – L-LIN/12

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di coscienze, di strumenti e di linguaggi, a offrire un filtro attraverso il qualefar passare il nostro sapere letterario, nei nostri piccoli moduli?

Sarebbe fin troppo facile, a questo punto, concludere appellandomi aimedia, o visual, o cultural, o fashion studies. Ma non lo faccio, perchéquello che ho in mente è un tipo di studio culturale della letteratura che nonsi risolva in indagini psicologistiche o documentaristiche di drammi, poemi eromanzi: tutte modalità d’indagine che tradiscono un’irresistibile pulsioneverso forme vecchie di contenutismo, per quanto riveduto e corretto nellaterminologia. Più spesso di quanto non si vorrebbe il testo viene svuotato, inqueste indagini, per estrarne dei “temi”: d’accordo, meglio parlare con glistudenti di gender, che dell’astratto “valore” delle opere; meglio parlare dimoda, che stabilire discendenze e graduatorie di merito. Ma meglio ancorainsegnare come e perché quei valori siano sempre instabili, non fissati unavolta per tutte. Meglio provare a spiegare, agli studenti e a noi stessi, in chemodo dai testi emerga, più che una conoscenza fatta e finita, una volta pertutte, il desiderio che una cultura ha di prendere atto di se stessa, nel mo-mento presente.

In fondo quello che serve – naturalmente a chi ne senta il bisogno: danoi di obbligatorio non c’è che il numero delle ore e dei crediti – è solo unosforzo dell’immaginazione. Solo una revisione e una riconsiderazione degliambiti di ricerca statutari: che da una parte sappia dare pieno riconoscimentoai valori e ai piaceri dell’immaginazione – forza poetica ed estetica che pernoi è e deve restare un primum – e dall’altra voglia misurare i saperi acqui-siti sulla sempre maggiore importanza, e il ruolo sempre più ampio che – lamoderna antropologia insegna – proprio l’immaginazione, in quanto facoltàdella mente umana, oggi assume nella vita delle persone comuni. Di milionie milioni di esseri umani sparsi su tutto il globo. E – come ha scritto ArjunAppadurai – «in questa fusione postfusiva è essenziale notare che il campocentrale è stato occupato dalla letteratura inglese (come disciplina) in parti-colare e dagli studi letterari in generale»3.

Concludo spiegandomi forse meglio con un “caso”, che derivo dal-l’amata Jane Austen. Certo, niente può sostituire la lettura diretta dei suoiromanzi, in edizione originale. Ma come provocare questa esperienza nei no-stri studenti? Questo è il problema. E non mi si dica che chi non vuole peg-gio per lui, o per lei. Meglio partire dal dato di fatto secondo cui, oggi che la

3. A. Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minnea-polis-London 1996 (Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione , Roma2001). La citazione è a p. 75 dell’edizione italiana. Si veda anche B. Anderson, ImaginedCommunities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, London 1983 (Comunitàimmaginate, Roma 1996)

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pratica della lettura conosce un salto evolutivo senza precedenti, la zitella diBath è, tra i classici, quello che conosce forse la maggiore gloria mediatica,eccezion fatta naturalmente per Shakespeare: così che non si contano i film,gli sceneggiati televisivi le riscritture e i “seguiti” dei suoi romanzi. Adesempio Bridget Jones, personaggio della cultura popolare dei nostri giorni,è interamente fatta di Jane Austen. Anche il sito www.austenblog.com puòessere istruttivo: non solo vi si trovano tutte le notizie, aggiornate quotidia-namente, sulle ormai infinite riprese spettacolari austeniane in Europa, Ame-rica e Asia, ma anche una così ricca selezione di schegge e frammenti di sa-pere critico-letterario-pubblicitario su questa scrittrice, da superare di granlunga il materiale mediamente padroneggiato dai nostri studenti. Un sapereda vagliare criticamente, come è ovvio: ma non potrebbe essere proprio que-sta attività di vaglio un’utile via d’accesso e un incentivo alla lettura, magaricondotta simultaneamente, passo passo? E questo lavoro di accompagna-mento alla lettura sarebbe “Lingua” o sarebbe “Letteratura”, visto che il blogè scritto tutto rigorosamente in inglese? Ovviamente nell’inglese della pub-blicità, ma si dà il caso che per una volta il materiale pubblicizzato sia pro-prio la letteratura. E questo per noi è interessante, anche teoricamente. Certo,ci vorrebbe un’aula di lezione dalla quale ci si possa connettere con Internet;ci vorebbero comunque aule meglio attrezzate, e attrezzature in ordine; civorrebbero classi meno numerose; ci vorebbe … ci vorrebbe … ecc. ecc. Manon è escluso che col tempo questi “ci vorrebbe” si sanino. Sicuramente pe-rò, questo aspetto pratico-organizzativo attiene a un ordine di problemi di-versi da quelli che ci siamo posti qui.

Qui mi premeva ragionare sul tipo di alfabetizzazione che l’approccio almondo dell’anglofonia può promuovere: alfabetizzazione che io vedo rag-giungibile attraverso una forma d’attenzione alla contemporaneità, che sitraduca in un’attitudine comparatistica con i linguaggi espressivi della tradi-zione. E questa secondo me sarebbe una forma non spregevole di modernafilologia. Non è da sottovalutare il fatto che gli apparati comunicativi, peruna volta, sono dalla nostra parte, e ci danno un certo aiuto. La vita, diceBridget Jones, è “piena di possibilità”.

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«Intesa come studio del patrimonio linguistico-scrittorio di tutti gli Slavi edelle forme di cultura che ne hanno condizionato lo sviluppo storico», la slavi-stica davvero «potrebbe essere considerata un campo di ricerca troppo vasto»1.È però un fatto che fino ad oggi – e pur fra scossoni geopolitici, teorico-meto-dologici, accademico-ministeriali e quant’altro – gli studi slavistici, in Italiacome altrove, abbiano mantenuto una loro unitarietà (o piuttosto complessità)di fondo, della quale prese atto anche il legislatore italiano nella pur farragino-sa e incompleta declaratoria2 dei contenuti del relativo settore scientifico-disci-plinare (L-LIN 21), denominato appunto “Slavistica”, che recita:

Comprende gli studi sulle opere letterarie in lingua russa, bulgara, ceca, slovacca, mace-done, polacca, serbo-croata, slovena, ucraina e sui relativi autori, condotti con le meto-dologie della ricerca filologica, paleografica, linguistica e critico-letteraria, con partico-lare riguardo alla comprensione critica, attraverso l’analisi dei testi originali, delle di-mensioni tematiche, figurative e formali, nonché quelli necessari ad acquisire una solidacompetenza ed un’analisi metalinguistica delle lingue stesse nelle loro dimensioni sin-croniche e diacroniche, nelle loro strutture fonetiche, morfologiche, sintattiche, lessicali,testuali e pragmatiche, come pure nei diversi livelli e registri di comunicazione orale escritta. Include inoltre gli studi relativi alle problematiche della didattica e quelli finaliz-zati alla pratica e alla riflessione sull’attività traduttiva, scritta e orale, nelle sue molte-plici articolazioni, non letteraria, generica e specialistica e nelle applicazioni multime-diali e quelli sulla traduzione e l’interpretariato dall’italiano al russo, al serbo-croato,allo sloveno e da queste lingue all’italiano (di cui all’art.1 della L.478/84)3.

1. Ai lettori, in «AION. Slavistica», 1 (1993), p. 9 (articolo redazionale non firmato, mapiuttosto ben attribuibile a Riccardo Picchio allora direttore della rivista).

2. Mancano almeno lo slavo ecclesiastico e il bielorusso, se proprio si vuol tacere su lin-gue “minori” quali il serbo lusaziano, il casciubo, lo slovinzo, il rusino – lingua paterna ematerna di Andy Warhol, ecc.

3. D.M. 4 ottobre 2000, concernente la declaratoria dei contenuti dei settori scientifico-disciplinari come determinati dai DD. MM. 23 dicembre 1999 e 26 giugno 2000.

Luigi Marinelli

Specializzazione e nuove integrazioni: qualche riflessionesugli studi slavistici (in Italia e a Roma) dopo il 1989

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Come si vede, un ambito, o meglio, più ambiti di competenze anche as-sai distanti fra loro e disparati quanto a oggetto, metodo e finalità di studio.Ma, come notava giustamente Giuseppe Dell’Agata, «in campo umanisticonon è detto che uno statuto scientifico “debole” sia esclusivamente un fattorenegativo. Il carattere complesso, sincretico e multidisciplinare ha sempre ac-compagnato»4 la slavistica fin dalle sue origini ottocentesche. D’altro canto,dopo la fase eroica e pionieristica dei “padri fondatori” (Giovanni Maver,Ettore Lo Gatto) e della slavistica interbellica, eclettica e “totale” (Wolf Giu-sti, Enrico Damiani, Luigi Salvini, Evel Gasparini, Arturo Cronia), e poi deiloro allievi, ancora slavisti “completi” (oltre a Bruno Meriggi e Angelo Ma-ria Ripellino, prematuramente scomparsi nel 1970 e 1978, soprattutto SanteGraciotti, Nullo Minissi e Riccardo Picchio), «grazie all’accentuata caratte-rizzazione degli studi di slavistica in senso linguistico-filologico-letterario [enon storico-politologico, come invece avvenuto in altri paesi, specie anglo-foni, L.M.], ci si è sempre più orientati verso la formula di “lingue e lettera-ture nazionali” […] Alla figura dello slavista indagatore della “Slavia”, si èandata sempre più spesso sostituendo quella del “russista”, del “polonista”,del “boemista” ecc.»5. Sebbene questo della settorializzazione e, in certi casi,iperspecializzazione degli studi slavistici fosse un fenomeno in atto già da al-cuni decenni, in Italia e altrove, le vicende del post-1989 (il definitivo crollodell’egemonia russo-sovietica su quasi tutta l’Europa centrale e orientale;l’insorgere di nuovi stati e lo spostamento delle frontiere; le nuove aggrega-zioni politiche e l’ingresso nell’Unione Europea, già avvenuto o imminente,di stati slavi e non dell’Europa centrale e balcanica; e ancora, per quanto ri-guarda più da vicino gli studi e la vita culturale in quei paesi, «le revisionistoriografiche importanti che si realizzano in molti settori, la ricerca di nuo-ve identità nazionali a seguito dell’indipendenza raggiunta, l’attenzione aiproblemi dei rapporti con l’Europa occidentale e in particolare con l’UnioneEuropea, le tendenze della nuova letteratura, le nuove relazioni fra intellet-tuali, società, “mercato”, istituzioni, ed altre analoghe manifestazioni»6) han-no inevitabilmente favorito questa tendenza, contribuendo a un ripensamentoche – come ho detto – in gran parte era in atto già da tempo, e soprattutto

4. G. Dell’Agata, Filologia slava e slavistica, in La slavistica in Italia. Cinquant’anni distudi (1940-1990), a cura di G. Brogi Bercoff, G. Dell’Agata, P. Marchesani e R. Picchio,Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (supplemento al n. 523-526 di “Libri e rivisted’Italia”), Roma 1994, pp. 11-29, p. 12.

5. R. Picchio, La slavistica italiana negli anni dell’Europa bipartita, in La slavistica inItalia, pp. 1-10, pp. 8-9.

6. G. Brogi Bercoff, S. Garzonio, Premessa, in «Studi Slavistici», rivista on-line dell’As-sociazione Italiana Slavisti (A.I.S.), 1 (2004), p. 8: http://epress.unifi.it/studiSlavistici/I-2004.htm.

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portando progressivamente a un auspicabile ridimensionamento anche nelnostro settore dell’“egemonia russa” (e non parlo certo di una slavisticaorientata russisticamente!), sempre meno spiegabile, e quindi sempre più in-tollerabile7. L’orientamento e la formazione della più giovane generazionenei dottorati di ricerca d’interesse slavistico (in Italia – cinque, di cui, finora,due a Roma) gioca qui ovviamente una sua parte importante, ma si potrebbe– e a mio avviso si dovrebbe – fare qualcosa anche a livello più basso, a par-tire almeno dalle attuali lauree specialistiche (a Udine peraltro è nato e pro-spera un corso di laurea triennale in Mediazione culturale. Lingue del-l’Europa centrale e orientale). Nella situazione romana, ad esempio, nonparrebbe davvero impossibile un consorzio e un’integrazione della docenza(nelle varie materie umanistiche: filologiche, linguistiche, storiche, filosofi-che, sociali ecc.) fra le tre università pubbliche della capitale, che, con pocodispendio di energie e di risorse, potrebbero dar vita a corsi specialistici di ca-rattere slavistico e areale, riguardanti le culture nel senso più lato dell’Europacentrale, dell’Europa slava, dell’Europa balcanica, insomma di quella che ta-luni di recente, e soprattutto in America, hanno, con una certa dose di arrogan-za, denominato la “nuova Europa”, e che in modo forse più corretto, ma nonmeno problematico, è anche invalso chiamare “l’altra Europa”, con un termineinizialmente derivato dalla traduzione francese del bel libro di Czesław Miłosz(il polacco premio Nobel per la letteratura 1981) intitolato Rodzinna Europa[“Europa familiare”, 1959], ma che nelle versioni in altre lingue ha subìto piùo meno significative distorsioni: franc. Une autre Europe; spagn. Otra Euro-pa; ingl. Native realm. A Search for Self-Definition; ted. West- und ÖstlichesGelände; ital. La mia Europa8.

7. Si tratta peraltro di un fenomeno già ampiamente in atto nei paesi dell’Europa centro-orientale: in Polonia, dove si segnala ad esempio l’attività del prestigioso “Istituto dell’EuropaCentro-Orientale” di Lublino, fondato nel 1991 e diretto da Jerzy Kłoczowski, che, escludendola Russia, incentra la propria attività di ricerca su Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia, Litua-nia, Bielorussia, Ucraina); come pure all’Università Statale di Budapest, dove – come riferisceGiovanna Brogi Bercoff – il vecchio Istituto di Slavistica «che era in realtà un centro russistico,si è trasformato in un Istituto di studi centro-orientali con centro di gravità attorno all’eredità delGranducato di Lituania» (G. Brogi Bercoff, Aspetti areali negli studi di slavistica: Polonia edintorni, in La scienza letteraria e filologica negli anni del postcomunismo Atti del ConvegnoA.I.S. (Forlì, 7-9 giugno 2002), «Studi Slavistici», 1 (2004), pp. 69-91, p. 76).

8. Si deve precisare che nella prima traduzione italiana di Riccardo Landau, uscita nel 1961presso la benemerita Casa Editrice Silva di Milano, il libro portava il corretto titolo di Europafamiliare, mentre nelle più recenti edizioni Adelphi e UTET (Milano 1985, Torino 1986) latraduzione di F. Bovoli (alias Pietro Marchesani) compariva sotto il titolo un po’ fuorviante diLa mia Europa (deciso, credo, più dall’Editore Adelphi che dallo stesso traduttore).

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Quanto a quella che ho scherzosamente (ma non troppo) definito l’ege-monia della russistica, si tratta infatti di una dominanza numerica ormai ab-bastanza anacronistica, sia dal punto di vista del suo attuale “fondamentogeopolitico”, sia dal punto di vista della tradizione, della qualità e delle pro-spettive degli studi, che in Italia vantano risultati internazionalmente ricono-sciuti anche in altri settori della slavistica: nella filologia slava, intesa nelsenso ristretto della medievistica e degli studi cirillometodiani, nella compa-ratistica (specie interslava e slavo-romanza), nella linguistica slava, nellaboemistica, nella croatistica e – last but not least – nella polonistica9. Per Te-resa Michałowska, illustre medievista e comparatista polacca, «l’Italia è unodei pochi paesi europei in cui si pratichino gli studi polonistici a livello pro-fessionale»10. Non v’è dubbio che, oltre alla Cattedra romana (fondata nel1929 per Giovanni Maver), abbiano contribuito a questo stato di cose la vi-talità di altri importanti centri di studio della lingua e letteratura polacca (To-rino, Genova, Firenze, Napoli), nonché la presenza nella capitale di istituzio-ni culturali di fondamentale importanza per gli scambi scientifico-culturali,quali la Biblioteca e Sede Romana dell’Accademia Polacca delle Scienze(fondata nel 1927) e l’Istituto Polacco (fondato nel 1991). Fatto sta che, seormai più di quaranta anni fa Riccardo Picchio sottolineava come nel magi-stero romano di Giovanni Maver «tanto la generale tradizione culturale po-lacca quanto lo specifico patrimonio polacco nell’ambito degli studi slavisti-ci […] apparivano sempre in posizione centrale»11, ben più di recente in unbreve Profilo della slavistica italiana destinato al pubblico internazionale,Giovanna Brogi Bercoff, fra i pochi slavisti italiani (ancora) “completi” eche, forse proprio per questo, più di altri si è posta il problema dell’identità edelle prospettive dei nostri studi oggi, ha voluto ribadire:

Per la sua qualità e anche per il gradimento degli studenti e del vasto pubblico, la cultura ela letteratura polacca occupano nella slavistica italiana – in particolare nell’ultimo ven-tennio – un posto di rilievo, comparabile a quello della russistica per quantità e qualità. Ciò

9. Basti dire che di nove libri fin qui usciti nella prestigiosa collana degli “Studi polo-nistici all’estero”, diretta a Varsavia da Alina Nowicka-Jeżowa per l’editore Świat Literacki,tre sono di autore italiano (L. Marinelli, G. Brogi Bercoff, A. Ceccherelli), mentre nel decen-nio precedente erano stati pubblicati in volume presso altri editori gli studi polonistici diGiovanni Maver, Sante Graciotti e Riccardo Picchio.

10. T. Michałowska, Od Redakcji, ind Lamentu świętokrzyskiego do Adona. Włoskiestudia o literaturze staropolskiej, Warszawa 1995, pp. 5-7, p. 5.

11. R. Picchio, Quaranta anni di slavistica italiana nell’opera di E. Lo Gatto e di G. Maver,in Studi in onore di Ettore Lo Gatto e Giovanni Maver, Roma 1962 (Collana di «RicercheSlavistiche», I), pp. 1-21, p. 15.

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è dovuto a vari fattori, sia interni che esterni. Fra i primi sono fondamentali il perduraredella ben nota tradizione secolare di rapporti intensissimi fra Polonia e Italia, la levaturaintellettuale e culturale dei docenti e cultori di letteratura polacca, l’esistenza di una “massacritica” costante e regolare di studi (e di studiosi) che garantisce la formazione e lo svilup-po ininterrotto di giovani specialisti. Fra i fattori concomitanti vanno ricordati – per gli ul-timi dieci anni – lo spettacolare sviluppo economico e politico della Polonia stessa, la pre-senza costante di istituzioni culturali polacche, la possibilità di scambi e accordi bilateralifra varie università italiane e polacche (con relative borse di studio), la costante, intensacollaborazione fra tradizione accademica e scientifica italiana e polacca12.

Continua la Bercoff

Naturalmente la diffusione della polonistica (come di tutte le discipline slavistiche) restainfinitamente inferiore a quella delle lingue europee occidentali, e non possiamo cherammaricarci del fatto che in Italia (a differenza di altri paesi europei occidentali) l’inse-gnamento delle lingue slave è praticamente assente nelle scuole. Purtroppo tutto lasciaprevedere che ci vorrà molto tempo prima che le istituzioni italiane si rendano conto cheil polacco o il ceco (e naturalmente anche le altre lingue slave) dovrebbero avere unadiffusione ben maggiore nell’Europa “allargata”13.

In questo stesso contesto, proprio oggi che quella parte del Vecchio Con-tinente sembra via via perdere la sua esotica “alterità” e diventare sempre piùnostra comune, lo studio delle lingue slave – un folto gruppo di lingue del ra-mo indoeuropeo, generalmente classificate in tre sottogruppi secondo i criterigeografici: orientale (russo, ucraino, bielorusso); occidentale (polacco, ceco,slovacco, serbo lusaziano); meridionale (sloveno, serbo, croato, bulgaro, ma-cedone) – è reso sempre più necessario dall’incessante moltiplicarsi delle rela-zioni con i paesi dove queste lingue vengono parlate. Riporto qui di seguito al-cune interessanti considerazioni di Lucyna Gebert, studiosa di linguistica slavadi fama internazionale e una dei (due!) professori ordinari in questa disciplinain Italia, che da una trentina d’anni svolge il suo servizio presso l’Università“La Sapienza” di Roma. Vale la pena di riportarle per intero, considerato il lo-ro immediato interesse pratico circa l’auspicato sviluppo dello studio delle lin-gue slave (e ovviamente anche delle altre lingue non-slave dell’Europa centro-orientale) nell’Università, e non solo nell’Università, italiana:

Come noto, le vicende politico-sociali di questa parte dell’Europa sono diventate di grandeattualità, in seguito agli eventi del 1989 attribuiti simbolicamente al crollo del muro diBerlino. Così l’Europa “Orientale” (termine che dopo gli accordi di Jalta aveva sostituito

12. G. Brogi Bercoff, Die Slawistik in Italien: 1920-2000, in Beiträge zur Geschichteder Slawistik in Nichtslawischen Ländern, Paris-Wien (in corso di stampa); cito dall’ineditaversione italiana dello stesso articolo, gentilmente fornitami dall’Autrice che ringrazio.

13. Ibidem.

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quello dell’Europa Centrale) ha iniziato il proprio avvicinamento politico, economico eculturale all’Occidente. Era dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso che scrittori eintellettuali provenienti da quella parte del continente auspicavano la riappropriazione delconcetto di Europa Centrale come spazio culturale e spirituale, più che geografico dell’im-maginario collettivo. I protagonisti della cultura di quella vasta regione dell’Europa, aquell’epoca zona d’influenza sovietica, rivendicavano con il rilancio di quel concetto, la lo-ro appartenenza alla cultura occidentale. La fine ultima del “Ratto d’Europa”, secondol’espressione dello scrittore ceco, Milan Kundera (The tragedy of Central Europe, «NewYork Review of Books», 1984), è stata sancita nel maggio scorso, dall’ingresso nell’Unio-ne Europea dei nuovi stati membri. Tra loro diversi paesi le cui popolazioni parlano unalingua slava: la Repubblica ceca, la Slovacchia, la Polonia, la Slovenia, paese confinantecon l’Italia la cui lingua è una delle lingue ufficiali della Repubblica Italiana. Altri paesi lecui popolazioni parlano le lingue slave meridionali si apprestano ad entrare nell’UnioneEuropea nel prossimo futuro. Di conseguenza, la conoscenza delle lingue di questi Paesisarà sempre più apprezzata sul mercato del lavoro per fare fronte alle nuove esigenze. Se inquesta Europa unita vogliamo batterci per la salvaguardia dell’identità dei suoi membri an-che attraverso le lingue, e non per una omologazione che sicuramente porta ad un impove-rimento reciproco, lo studio delle lingue slave è destinato ad un sicuro futuro. La cono-scenza di queste lingue rappresenterà una qualifica ricercata per lavorare non solo nellestrutture comunitarie, ma in generale nell’Europa Unita. La mobilità delle persone, già ini-ziata, ma destinata a crescere, costituisce un valido incentivo a chi si affaccia allo studiodelle lingue slave e non-slave dell’Europa centro-orientale. Questa dovrebbe essere affian-cata dalla mobilità delle idee e dei patrimoni culturali delle varie realtà nazionali che potràessere garantita da chi conosce le rispettive lingue, dai “mediatori culturali” in grado disvolgere l’opera di traduzione, di avvicinamento di una cultura diversa alla propria. Si au-spica che la conoscenza delle lingue dei vari stati membri sia possibile anche attraversol’apprendimento a livello delle scuole medie, oltre che a quello universitario. Così, studiarele lingue slave e dell’Europa centro-orientale significa prepararsi alla vita nell'Europa delfuturo, essere pronti a fronteggiare le nuove esigenze di questa convivenza, partecipare allacreazione della nuova identità europea ed alla sua concreta integrazione economica. Unamenzione particolare deve essere fatta alle relazioni culturali e commerciali con la Russia econ l’Ucraina destinate a moltiplicarsi negli anni a venire.

Le lingue slave sono lingue indoeuropee e quindi molte delle loro caratteristiche struttu-rali dovrebbero essere familiari ai parlanti di altre lingue di questa famiglia. Esse mani-festano tuttavia una serie di tratti grammaticali che le distinguono dalle lingue europeeoccidentali, il loro studio quindi può essere illuminante non solo a chi è interessato allateoria e tipologia linguistica (da questo punto di vista particolare interesse è rappresen-tato dalla lega linguistica balcanica di cui fanno parte due lingue slave: il bulgaro ed ilmacedone). Infatti, riflettere sulla lingua studiata vuol dire estendere alcuni aspetti ditale riflessione alla propria lingua madre, e il confronto tra i due sistemi, soprattutto sediversi, comporta una maggiore consapevolezza linguistica in generale. Non si può in-fatti prescindere dalla riflessione sul linguaggio per affrontare molte professioni; daquella più tradizionale dell´insegnante o del traduttore ai nuovi mestieri legati alla glo-balizzazione, che richiedono una buona conoscenza delle lingue straniere14.

14. Ringrazio cordialmente la Collega prof. L. Gebert per avermi messo a parte, ai fini

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Non c’è forse bisogno di sottolineare a questo punto come, a fronte ditutto questo, cioè della tradizione, della qualità e varietà dell’offerta didatti-co-scientifica, del carattere anche professionalizzante degli studi slavi e del-l’Europa centro-orientale oggi in Italia, anch’essi si trovino a subire forte-mente (e da parenti poveri!) i contraccolpi della crisi della nostra universitàpubblica e delle facoltà umanistiche in particolare. Ma proprio in quest’otticasarebbe un grave errore da parte dei vari consessi politici e accademici con-trarre maggiormente risorse e personale in un campo di studi ancora relativa-mente giovane, e tanto più vivace e aperto a istante teoriche e metodologichein continuo rinnovamento: ricordo che, se in passato gli studi slavistici sonostati la prima “base” per lo sviluppo del formalismo, dello strutturalismo,della semiotica linguistico-letteraria e della cultura, oggi – e anche qui da noiin Italia – essi manifestano una spiccata “simpatia” verso certe tendenze più“democratiche” del post-strutturalismo, quali cultural studies, studi femmi-nili, gender e queer studies, critica post-coloniale ecc.; nonché coltivano,rinnovandolo, il tradizionale interesse (basti pensare a Roman Jakobson e JiříLevý) per le varie problematiche – linguistico-letterarie, culturali, filosofi-che, antropologiche – della traduzione e della traduttologia. Non è un casoallora che, fra i più apprezzati specialisti della giovane generazione, autori didue fra i migliori manuali italiani di teoria e pratica della traduzione, LauraSalmon e Bruno Osimo, siano entrambi slavisti15.

La slavistica italiana si va rinnovando anche nei modi di diffusione deisuoi saperi. Oltre ai portali e ai numerosi siti italiani, universitari e non, d’in-teresse slavistico16, si segnala in particolare la nascita recente di riviste slavi-stiche on-line. Oltre alla citata «Studi Slavistici», diretta da Stefano Garzonio eGiovanna Brogi Bercoff ed espressione “scientifico-divulgativa” dell’Associa-zione Italiana Slavisti, una vera e piacevole novità nel panorama italiano è sta-ta la pubblicazione in rete (e ora anche in cartaceo) del quadrimestrale della“giovane slavistica italiana” «eSamizdat» (http://www.esamizdat.it), nato nel2003 dalla passione e dalle brillanti menti di Alessandro Catalano (boemista)

del presente articolo, di queste sue brevi riflessioni sullo stato e il senso dello studio delle lin-gue slave oggi in Italia.

15. Oltre ai loro numerosi interventi in questo campo, anche a carattere e su materialespecificamente slavistico, mi riferisco in particolare ai due manuali: L. Salmon, Teoria dellatraduzione. Storia, scienza, professione, Milano 2003; B. Osimo, Manuale del traduttore.Guida pratica con glossario, II ediz., Milano 2004.

16. Una raccolta (non proprio completa) di links specialistici, si può trovare nel sitodell’A.I.S.: http://www.humnet.unipi.it/~presais.

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Luigi Marinelli130

e Simone Guagnelli (russista), entrambi formatisi alla fucina del dottoratoromano in “Slavistica”.

A fronte di tanto fervore, e proprio ora che sembra definitivamente crol-lato l’impero russo-sovietico (la vittoria della “rivoluzione arancione” inUcraina nel dicembre 2004 ne è stato uno degli ultimi, macroscopici segna-li), ora che nel panorama europeo e internazionale il mondo slavo e dell’Eu-ropa centro-orientale è riemerso agli occhi di tutti nella straordinaria ricchez-za e varietà delle sue lingue, etnie, tradizioni, culture, religioni, letterature,sarebbe una vera contraddizione e – lo ripeto – un grave errore storico sel’Occidente (europeo e non), e nella fattispecie le Università occidentali, sirichiudessero in una sorta di rinnovata autoreferenzialità, fondata su una ba-se, peraltro sempre contingente, “di mercato”, cieca e sorda al dialogo scien-tifico e umano con l’Altro, nel nostro caso con quell’altra Europa che permotivi storici – troppo spesso indipendenti dalle stesse volontà di quelle po-polazioni – è stata tenuta fin qui ai margini della nostra Europa. Sarannopossibili, e anzi auspicabili, nuovi tipi di “integrazione” scientifica, tematicae metodologica negli studi storico-filologico-letterari riguardanti l’area slavae dell’Europa centro-orientale. La parte del leone la dovranno ovviamentefare (e si sta già iniziando) gli studi comparatistici bi- e multilaterali: in unarecente intervista, quali campi ancora bisognosi d’indagine, Riccardo Pic-chio indicava in particolare «i rapporti slavo-latini, slavo-greci, slavo-germa-nici o slavo-turchi»17, ai quali aggiungerei ancora – e nonostante il grandesviluppo di questi studi nell’ultimo quindicennio – quelli slavo-ebraici. Im-portanti prospettive per il prossimo futuro si avvertono – come già accennato –anche negli studi areali, specie quelli storico-culturali relativi all’Europacentro-orientale e/o balcanica, a prescindere dal ceppo linguistico di apparte-nenza dei soggetti e degli oggetti d’indagine.

Pur nell’inevitabile specializzazione di questi studi futuri, nuovi tipi di“integrazione” sono possibili e, a guardar bene, già in atto: per i primi giornidi marzo 2005 la Facoltà di Scienze Umanistiche della “Sapienza” ha coor-ganizzato un Convegno internazionale di studi dedicato al tema della Hei-matlosigkeit, «una riflessione sul senso o non senso dei confini che oggi è alcentro del dibattito su quello che Homi K. Bhabha, nei suoi studi su Nazionee narrazione e Luoghi della cultura, definisce come il “post”», recitava ilProgramma del Convegno, il cui Comitato Scientifico è stato composto da

17. «Le cose che non sappiamo sono tante, tantissime». Dialogo con Riccardo Picchiosu passato, presente e futuro della slavistica, a cura di N. Marcialis, in «eSamizdat», 2(2004), pp. 9-13, p. 13.

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Specializzazione e nuove integrazioni

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due germanisti, una rumenista e un polonista, e al quale hanno partecipatostudiosi di antropologia, filosofia e di letteratura e cultura tedesca, francese,yiddish, rumena, polacca. È stata questa, credo, un’ottima occasione per mo-strare come anche nei nostri studi resti “scientificamente” valido l’assuntodelle parole di Ugo da San Vittore (Didascalicon III, 20) citate da Auerbachin calce al suo folgorante scritto sulla Filologia della Weltliteratur18: «Deli-catus ille est adhuc cui patria dulcis est, fortis autem cui omne solum patriaest, perfectus vero cui mundus totus exilium est»…

Ma a proposito di “esilio”, sia detto ancora e in ultima battuta: la ricercae l’opportunità di nuove integrazioni scientifiche non possono e non debbo-no implicare per gli studi slavi e dell’Europa centro-orientale – in quanto di-scipline cosiddette “minori” – l’essere sempre più marginalizzati e alla finebanditi dall’odierna (e futura?) università dei grandi numeri, a Roma, in Ita-lia, e in tutta quella che non molti anni addietro (o nel secolo scorso, a secon-da della visuale) taluno, dall’Est, chiamò «la comune casa europea». Ché al-l’idea antiumanistica di una ragionieresca quantificazione della produttivitànumerica delle ricerche e della didattica in tutti i campi – e sempre che si ab-biano ancora occhi per vedere, orecchie per intendere, cuore e intelletto perappassionarsi e per comprendere – val davvero la pena di rispondere con leparole di Wisława Szymborska, la polacca premio Nobel per la letteraturanel 1996:

Quattro miliardi di uomini su questa terra,ma la mia immaginazione è uguale a prima.Se la cava male con i grandi numeri.Continua a commuoverla la singolarità19.

18. E. Auerbach, Filologia della Weltliteratur, in Id., S. Francesco, Dante, Vico ed altrisaggi di filologia romanza, Bari 1970, pp. 177-191, a p. 191.

19. W. Szymborska, Grande numero (dall’omonima raccolta, 1976), in Ead., Vista congranello di sabbia. Poesie 1957-1993, a cura di P. Marchesani, Milano 1998, p. 111.

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Come ameremmo se non avessimo imparatonei libri come si ama? Come soffriremmo? In-dubbiamente soffriremmo di meno.Manuel Vázquez Montalbán

Come i militi nella Fortezza de Il deserto dei tartari scruto l’orizzonte.Là c’è la linea di confine. Di là potrebbero spuntare gli altri. Quelli che par-lano una lingua diversa. Quelli che, anche se magari mi somigliano, pensanoin modo diverso. Talmente diverso forse da essere una fonte perenne di in-quietudine, se non costituire una minaccia. Al di là dell’orizzonte visibile c’èinsomma l’ignoto, l’Altrove, l’Altro.

Certo, potrei voltarmi dall’altra parte, là dove molto mi è noto, e, prefe-rendo la quiete, ignorare che vi sia una frontiera, o ritenere che essa costitui-sca un limite invalicabile per altri, per l’Altro. Il mio piccolo mondo mi pro-tegge dai mondi esterni. Per un po’ e fino ad un certo punto.

Guardiamolo allora il confine. Esistono ancora confini o “estremi confini”in un mondo sorvolato dai satelliti che, a richiesta, ci forniscono immagini mi-nuziose, persino indiscrete, spiando per conto nostro ciò che fanno gli altri?L’idea dell’alto che i satelliti mi rammentano mi fa pensare che basta spostaregli “estremi confini”. Per ora al di là dell’orbita della luna. Ma questo è uncambiamento di scala che, nonostante la moda del termine “globalizzazione”,è ancora agli inizi, almeno per quanto riguarda i fenomeni culturali.

Torno quindi con i piedi per terra. Il confine, se ci penso, significa ancheuna scelta. Sconfinare o restare confinato? È anche una scelta di cartografiadel sapere. A me la figura del viaggiatore, reale o immaginario, appare piùconsona sia ad una generale ansia umana di mobilità intellettuale, sia alladomanda di accrescimento del sapere che dovrebbe essere il fondamento diogni studio universitario, ivi comprese le specifiche tecniche che consentonodi esercitare, si spera in modo proficuo, una attività remunerata.

Norbert von Prellwitz

Sconfinamenti

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Norbert von Prellwitz134

Sconfinare significa allora anche corrispondere al desiderio di superareil confinamento culturale rappresentato dal conoscere una sola lingua e unasola letteratura, per quanto essa possa essere ricca e varia nel tempo.

La lingua e la letteratura straniera possono produrre un salutare effettodi straniamento. Gli altri mondi, con la loro diversa articolazione interpreta-tiva, mi fanno di riflesso riflettere sul mio mondo, sulla mia lingua, sulla mialetteratura, costringendomi a sconfinare in quello che ritenevo uno spazio dailimiti certi, rendendo strano ciò che mi era familiare: se ho un po’ di curio-sità, dovrò ripensarlo, fino a ri-conoscerlo, in termini diversi e comunquecon una diversa consapevolezza.

Una forma semplice e tutto sommato comoda di attuare tale sconfina-mento è il viaggiare mentre si è in una stanza, attraverso le traduzioni di testistranieri, sempre che possa fidarmi del fatto che il traduttore mi offra undialogo tra sistemi, non solo linguistici, ma culturali, diversi. Il testo tradottomi offre la facilità di accedere all’altra cultura con la sicurezza di possedereattraverso la mia lingua gli strumenti per una comprensione non superficialeo approssimativa di ciò che mi viene comunicato.

Posso cercare anche di imparare la lingua altrui, di approfondire la co-noscenza fino a poter accedere senza mediazioni traduttive a diverse formedi testo, da quello più pragmatico fino alla forma letteraria più sofisticata,attraversando modalità via via più complesse.

Comunque, vuoi nella forma mediata di traduzione, vuoi in quella di-retta di lettura nell’altra lingua, perché dovrei occuparmi della letteratura de-gli altri per comprenderne la cultura?

Una tra le risposte possibili è che, attraverso l’uso complesso del propriostrumento linguistico come veicolo di espressione dei propri miti normativi(e di ciò che contravviene a tali miti), gli altri popoli esprimono, senza biso-gno di dichiarazioni, la propria identità culturale e, a ben guardare, quelloche hanno in comune con altre culture. La esprimono innanzitutto a se stessi,perché si può dubitare che la vita collettiva in una cultura possa avere luogose non c’è una forma che comunichi e organizzi l’esperienza, anche quelladei sentimenti, della comunità.

Le forme letterarie forniscono modelli del mondo. Conoscere modellinati altrove, confrontarli tra di loro o con il nostro, ci può dotare di una vi-sione caleidoscopica. Come in ogni sconfinamento un rischio c’è in questaforma di percezione plurima: quello di apprendere la vertiginosa mutevolez-za di tali modelli nel momento stesso in cui cerco di fissare alcuni punti fer-mi, che mi consentano di osservare ciò che sto ercando di comprendere sen-za sentirmelo sfuggire tra le mani. Alcuni fenomeni del mondo letterario

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Sconfinamenti

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hanno per fortuna una durata lunga, consentendoci di fare raffronti e di rico-struire rapporti reciproci tra letterature diverse attraverso l’esplorazione deiterritori comuni.

Nel confronto delle forme che ci sono consuete con l’ampio ventaglioche riscontriamo nello sconfinare, riconosciamo problemi che sono anchenostri, ma illuminati da una prospettiva diversa. Non che la letteratura ci for-nisca soluzioni, non è il suo compito, ma ci aiuta anche ad avere, o ad am-pliare, la consapevolezza critica di questioni che riguardano tutti noi, comeesseri umani, in tutte le latitudini.

I media ci promettono un incremento nello scambio di comunicazioni,intendendo in realtà quantità di informazioni e una ampia reperibililità dispazi che le contengono, luoghi apparentemente neutrali nella loro formaelettronica. Il che non significa affatto un sicuro incremento di qualità dellacomunicazione e tantomeno un incontro di culture, che può fare uso delle in-formazioni ma non basarsi su di esse. Né un incontro tra culture si fonda sudati scontati, spesso pregiudiziali, ma sulla disponibiltà al dialogo interpre-tativo e all’approfondimento. In questo senso la forma complessa di comuni-cazione che è la comunicazione letteraria risulta privilegiata nel richiedereper propria essenza tale disponibilità; il frequentarla costituisce di per sé unaprassi quanto mai valida per affrontare – innanzitutto nelle modalità che sirichiamano al testo– forme meno complesse di comunicazione,. Ne consegueche il confronto tra modi di comunicazione letteraria che propongonol’esperienza di altre culture non può che arricchire una competenza propizianei settori che in misura maggiore o minore hanno a che fare con la comuni-cazione e con la interpretazione, nel senso più ampio della parola.

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Perché si dedicano anni di tempo (e, per quanti vi si consacrino profes-sionalmente, un’intera vita) allo studio di una letteratura (e di una cultura)straniera? Una scelta del genere sembra di rado oggetto di riflessione appo-sita, nel senso che non ci s’interroga sulle sue motivazioni. Sarebbe inveceinteressante porre direttamente questa domanda agli studiosi del ramo. Alcu-ni percorsi potrebbero rivelarsi più fortuiti, altri maggiormente generalizza-bili e riconducibili a orientamenti di fondo, anche generazionali.

Ciò che è sicuro è che coltivare un interesse di questo genere porta consé varie implicazioni, sia pratiche che intellettuali. A un primo livello, appa-re subito chiaro che l’incontro con una letteratura di un paese diverso dalproprio comporta delle fasi di avvicinamento, prima fra le quali l’apprendi-mento di una lingua che non è quella materna. Si sa bene che un tale approc-cio esige per compiersi un certo arco di tempo, che per certi versi non pre-vede neppure un termine nettamente delimitabile: la padronanza di un idio-ma è indefinitamente perfettibile, e rischia di arretrare se non sistematica-mente coltivata. Alla dilazione temporale fa poi riscontro la distanza spa-ziale: i parlanti e gli scriventi della lingua studiata sono altrove, e quindi peristituire un contatto diretto bilaterale, durevole e consistente, complementoindispensabile anche del miglior metodo di apprendimento, bisogna spostar-si, più o meno lontano. Il conseguimento della padronanza, insomma, com-porta un processo di durata ed estensione rilevanti, ancorché variabili. Vero èche si attende e si corteggia l’essere che si ama: se l’approccio alla lingua edi conseguenza alla letteratura straniera non è immediato, è pur vero che ilpercorso acuisce il desiderio da cui è alimentato. Alle volte la lingua, nellaspecificità dei suoi funzionamenti, assurge a esclusivo oggetto d’indagine,non subordinato alla comprensione di altri fenomeni; in altri casi, costituisceil tramite caratterizzante di un interesse rivolto in modo prioritario alla frui-zione e alla comprensione del patrimonio letterario o culturale.

Gianfranco Rubino

Studiare francesistica

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Quando si conclude un ciclo di studi che assume come obiettivo fon-damentale la conoscenza per così dire pura e non strumentale di una lin-gua, una letteratura e/o una cultura straniera, si pone evidentemente il pro-blema dell’uso e della destinazione delle competenze così acquisite. Senzaqui entrare nel novero dei possibili sbocchi pratici di un tale bagaglio co-noscitivo, soffermiamoci sul caso in cui si miri a divenire definitivamentedegli “specialisti” del fenomeno prescelto. Questo può comportare scelteprofessionali orientate a vari livelli, soprattutto verso l’insegnamento, tan-to per fare un esempio (ed è il caso dell’attività nelle scuole di vario ordi-ne e grado) oppure verso ricerca e insegnamento in simbiosi (ed è quel cheaccade, o dovrebbe accadere, in ambito universitario). Da un’opzione diquest’ultimo tipo scaturiscono alcune implicazioni, che impongono lineedi comportamento.

La fecondità di una ricerca nasce, certo, dalla qualità delle intuizioni edalla fondatezza del progetto, ma si alimenta anche della ricchezza dei datisu cui si basa. Da questo punto di vista, chi si occupa della letteratura altruisi trova in una posizione sensibilmente più scomoda rispetto a quella di chistudia la propria. Tanto l’impregnazione culturale in senso lato, quanto l’ag-giornamento sulla produzione critica e sulle sue tendenze rappresentano unprivilegio quotidiano sempre a disposizione, almeno potenzialmente, per lospecialista di ambito nazionale. Al contrario, lo studioso straniero deve de-dicare un’attenzione costante a mantenersi documentato ai livelli adeguati.Benché l’informazione addirittura in tempo reale sia ormai capillarmente ac-cessibile, un ritardo intrinseco rispetto ai fenomeni è sempre da mettere inconto. La gamma delle argomentazioni di un’indagine può patire di questasfasatura, che d’altronde rischia d’insidiare anche l’originalità della ricercaove si ricalchino inconsapevolmente piste già battute, magari di recente. E iltasso d’originalità va misurato in assoluto, in comparazione con gli speciali-sti nazionali e, beninteso, con quelli di altri paesi.

Naturalmente, si può ragionare in modo opposto e considerare che la di-stanza sia propiziatrice di un beneficio di lucidità. In tal caso lo studioso cheopera più o meno da lontano vede quello che l’omologo abitante non per-cepisce, perché troppo vicino. Addirittura può vedere da fuori come un “si-stema” quella cultura/letteratura che dall’interno non si riesce ad abbracciareoggettivamente nelle sue linee complessive. È un vantaggio da non sotto-valutare, che da solo non bilancia tuttavia altri inconvenienti.

Fatte queste premesse, è doveroso uscire dal generico e presentarel’esempio concreto della disciplina più familiare a chi scrive queste note,ovvero la Francesistica. Rispetto ad altri paesi, la Francia è geograficamente

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e culturalmente più vicina. Di conseguenza, per lo specialista che se ne oc-cupa non sono giustificabili troppe lacune conoscitive. Nel contempo, una taleprossimità può comportare interferenze molteplici, e altrettante reazioni possi-bili: tentazioni di mimetismo oppure rivendicazioni di differenza e di autono-mia. All’inverso, la civiltà d’oltralpe resta sufficientemente diversa da quellaitaliana per richiedere, sia pure in misura più ridotta che per altri paesi, quellosforzo d’informazione e di adattamento ottico di cui era questione poco sopra.

Per meglio illustrare queste considerazioni, è utile ricordare somma-riamente le origini degli studi francesi in Italia come ambito accademicospecifico ed autonomo. Si tratta di una materia relativamente giovane,come d’altronde lo sono tutte quelle relative alle letterature straniere mo-derne. Fino al 1895, data in cui s’istituzionalizzò un insegnamento di te-desco, non esisteva infatti alcuna cattedra stabile di tali discipline a livellouniversitario. Ancora più grama era in quegli anni la sorte delle lingueromanze: fu necessario aspettare il 1905 perché Cesare de Lollis divenisseprofessore a Roma di letteratura francese e spagnola. Quanto alla lettera-tura francese, le cose andarono ancora peggio, in quanto fu soltanto nel1909 a Torino che assurse a oggetto esclusivo dell’attività di un docenteufficiale, Pietro Toldo. In seguito furono piuttosto le cattedre di filologianeolatina (Storia comparata delle letterature – o lingue e letterature – neo-latine) ad affermarsi, il che comportò inizialmente una forte subordinazio-ne degli studi francesi all’impostazione filologica e a limiti cronologicicoincidenti con il medioevo. Per di più, l’assunto comparatista già insitoin quest’ottica doveva coinvolgere anche le ricerche attinenti all’epocamoderna, perché l’ambito francese, piuttosto che costituire l’oggetto diun’attenzione specifica, fungeva da componente di operazioni che indaga-vano la fortuna di italiani in Francia o di francesi in Italia. Più spesso, au-tori e orientamenti francesi venivano visti come debitori di fonti e influen-ze nostrane, e quindi collocati implicitamente in una posizione d’imitatorio di epigoni. Donde la tendenza duratura a privilegiare le ricerche su pe-riodi caratterizzati da forti influssi italiani, quali il cinquecento o la primametà del seicento. E in questa direzione si spiega anche il credito di scrit-tori come il “milanese” Stendhal.

Grazie all’impulso e all’esempio di studiosi come lo stesso Croce e DeLollis, l’approccio alla letteratura francese ha potuto poi affrancarsi da ipote-che positivistiche, erudite o nazionalistiche, per acquisire una libertà di de-scrizione e interpretazione critica feconda di risultati conoscitivi. Il resto èstoria meno lontana, che ha visto il consolidarsi della disciplina grazie allacosiddetta generazione della «Cultura», ai Neri, Lugli, Foscolo Benedetto,

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Trompeo, e più vicini a noi Bo e naturalmente Macchia1. Al di là delle gran-di differenze individuali, e anche delle disparità qualitative, quel che acco-muna quasi tutti questi nomi illustri, molti dei quali comunque sensibili aistanze comparatiste, è una sottile distanza rispetto al mondo francese: esti-matori, cultori, ammiratori, ma mai simpatetici.

Le generazioni più recenti si sono trovate di fronte a una Francia ridi-mensionata politicamente ed economicamente a livello mondiale, ma ancoracapace, sul piano culturale, di ispirare tendenze e diffondere suggestioniestetiche e intellettuali, almeno fino agli anni Settanta. Chi si è avvicinatoalle lettere francesi dalla fine degli anni Cinquanta ai primi anni Settanta hacomunque fatto i conti con la formidabile gamma di strumenti esegetici che iteorici e i critici d’oltralpe elaboravano con vistoso successo. La cosiddetta“nouvelle critique” (in parte ginevrina) e lo strutturalismo dominante di-schiudevano anche agli studiosi di altri paesi la prospettiva di attingere chia-vi analitiche e interpretative in apparenza suscettibili di aprire tutte le serra-ture letterarie. La poetica e la narratologia davano l’impressione di fornireschemi euristici rigorosi e in qualche modo scientifici, perché verificabili,restando all’interno del discorso letterario, grazie anche al supporto di disci-pline del linguaggio come linguistica e semiotica. Più decentrate rispetto allospecifico letterario, le scienze umane proponevano ulteriori modelli esplica-tivi e terreni di riflessione. Non soltanto i francesisti (anche italiani) ma an-che i cultori di altre discipline letterarie o artistiche si servivano volentieri diun repertorio così funzionale.

Ne usciva rinnovata e non di rado arricchita anche la lettura dei classici.La letteratura francese veniva riesplorata capillarmente alla luce dei nuovimetodi, che generavano un’inesauribile fioritura di monografie e articoli suautori, tendenze, temi, problemi teorici. Si affacciava allora negli specialististranieri la tentazione di studiare i francesi con i loro stessi strumenti, equindi una propensione all’identificazione totale. Per un altro verso, risultavaestenuante entrare in concorrenza con loro, dediti a un’inesauribile produtti-vità critica, d’altronde ben comprensibile trattandosi della letteratura nazio-nale. Per di più, sia detto tra parentesi, la scelta esasperata di specializzazio-ne da parte dei francesi, non soltanto su un secolo ma alle volte su un soloautore o movimento, comportava e comporta tuttora difficoltà di reggere allo

1. Per una panoramica molto documentata e incisiva delle origini della francesisticaitaliana rimando all’articolo, qui largamente utilizzato, di Anna Maria Raugei in Gli studifrancesi in Italia fra le due guerre, Atti del XIV convegno della società universitaria per glistudi di lingua e letteratura francese (Urbino, 15-17 maggio 1986), Urbino 1987, pp. 29-38.

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Studiare francesistica

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stesso livello di approfondimento da parte degli studiosi stranieri, meno le-gittimati a troppo circoscrivere le loro competenze perché tenuti a filtrare nelloro paese il quadro complessivo, o almeno alcuni momenti salienti, dellaletteratura prescelta.

Alcuni francesisti italiani si sono cimentati a sperimentare schemi criticiprovenienti dalla Francia, e hanno quindi decisamente ridotto quella “distan-za” tenace che divideva i loro predecessori dalla civiltà letteraria d’elezione.Ma per la verità il margine di differenza rimaneva. O per saggio riconosci-mento di un debito con la ricerca critica nazionale (si pensi al reiteratoomaggio a Contini di Stefano Agosti) o, altre volte, per conservatorismo so-spettoso e vago nazionalismo autopromozionale. Quali che ne siano i motivi,può essere certo prudente non sbilanciarsi troppo, e conservare degli equili-bri. In effetti molte delle tendenze un tempo in auge si sono attenuate, quan-do non sono tramontate. Tuttavia quello che è caratteristico è che la crisi diuno di quegli orientamenti egemoni, lo strutturalismo, trova spazio proprio làdove il fenomeno era stato valorizzato, cioè in Francia; e già verso la finedegli anni Sessanta l’influenza di Jacques Derrida inaugura quell’ondata de-costruzionista che scardinerà (estendendosi perfino agli Stati Uniti) le ferreee geometriche griglie interpretative appena sperimentate.

La cultura francese, insomma, elabora orientamenti conoscitivi e creatividi ampia risonanza, e propizia ugualmente quelle posizioni che li ribalterannoo li integreranno. Non si tratta di una rotazione capricciosa di mode (pur se inparte c’è anche questo) ma della transitorietà di ogni Zeitgeist, in Francia e al-trove. Valore permanente, purché non compiaciuto e fine a se stesso, restal’allenamento intellettuale che consente di affrontare criticamente i fenomeni.Chi è più vicino alla civiltà d’oltralpe, come il francesista, è più direttamentein grado, se vuole, di beneficiare di queste suggestioni, e di cogliere il tenore,anche se non necessariamente le soluzioni, di svariati problemi.

A titolo di esemplificazione, si possono citare alcune questioni emble-matiche per quanto riguarda l’investigazione del fatto letterario. L’ambizionedella poetica letteraria ad assurgere a scienza fu alimentata al culminedell’euforia strutturalista, tra gli altri, da Roland Barthes e Tzvetan Todorov.Ma furono gli stessi fautori di una simile prospettiva a ridimensionarne la le-gittimità. Barthes, in particolare, smentì la validità di modelli elementari ge-neralizzabili, del tipo di quelli che egli stesso aveva proposto per la strutturadel racconto. E constatava come l’istanza scientifica rischiasse di mancare lacomprensione dell’individuale e soprattutto di quei fenomeni “impuri” chesfuggono ai codici e agli schemi. Si spingeva fino ad auspicare una scienzadel singolare, una mathesis singularis.

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Si tratta di un punto importante se si vuole inquadrare con consapevolezzaepistemologica lo statuto delle cosiddette scienze umanistiche. L’espressione“scienze umanistiche” è del tutto condivisibile se segnala l’intento di sottrar-re le discipline così designate ad approcci impressionistici, fortemente sog-gettivi, frammentari, ed anche esclusivamente qualitativi. Più rischiosa sa-rebbe l’illusione di mutuare dalle scienze “dure” un traguardo di “esattezza”o di “oggettività” che non è neppure da loro perseguito, nella misura in cuil’atteggiamento scientifico ammette da tempo la provvisorietà e la transito-rietà dei fondamenti come dei risultati, sempre parziali e ribaltabili.

Un altro nodo importante è quello del rapporto fra critica e storia lette-raria, che fu al centro di intensi dibattiti negli anni Sessanta e Settanta, gra-zie agli interventi di Barthes, Todorov e Gérard Genette. Questo rapportoera allora valutato in termini di eterogeneità se non d’incompatibilità. Nederivavano alternative sofferte anche sul piano dell’insegnamento e del-l’elaborazione di programmi e di manuali. Salvaguardare la centralità deltesto, e operare in sede didattica solo su quello lasciando alla cura indivi-duale dello studente l’approfondimento della diacronia, o tentare un raccor-do fra le due dimensioni (lo si fece poco, relegando in una coesistenza em-pirica entrambe le istanze)? Oggi, nel vortice dei nuovi ordinamenti didat-tici, il problema si ripropone drammaticamente, in termini se non inversicerto mutati rispetto a quegli anni. L’impostazione del triennio, con l’esi-guità degli spazi riservati alla letteratura (e non solo ad essa), sembra com-portare proprio il privilegio dei panorami generali, a suo tempo sospetti dinon pertinenza estetica. Quale posto, se ce n’è ancora uno, riservare ai te-sti? Come definirne l’esemplarità e i raccordi con il contesto? D’altronde,vale la pena osservare come proprio in area francese si sia verificato negliultimi anni un ritorno (certo, non pedissequo) alla storia letteraria. Nonmeno rilevante è il recupero della figura dell’autore, con il conseguente di-lagare delle biografie, in passato proscritte dallo strutturalismo come fattoriesplicativi delle opere. Quale peso riservare a questi orientamenti? Difronte a tutti questi problemi, di antica data ma riproponibili in proporzionidiverse con gli stessi fattori, gli studiosi di cose francesi dovrebbero essereavvantaggiati da una consuetudine sedimentata. Fermo restando, natural-mente, che anche in altre aree letterarie e culturali, come quelle inglesi,americane e tedesche, questioni del genere sono state e sono investigatecon dispiegamento d’ingegno e acutezza di proposte.

Un’ulteriore questione da dirimere, sempre nel quadro dei nuovi pro-grammi didattici del 3+2, è quella del rapporto tra letteratura e cultura, les-sema il secondo che nelle tabelle ministeriali ricorre sempre più spesso al

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Studiare francesistica

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posto del primo. Molti docenti ritengono gli studi letterari minacciati nellaloro identità da un’immersione in calderoni generici, come appunto quellodella “cultura”. E si sa quanto la problematica aperta da una tale tendenza siastata al centro dei dibattiti suscitati dai cultural studies d’impronta anglo-sassone. Ma anche a prescindere da quest’ultima direzione di ricerca, si poneoggi più che mai l’interrogativo di fondo: a partire da quale concezione dellaletteratura si basa la difesa gelosa della sua specificità? Ancora una volta, ladefinizione non della letteratura ma della letterarietà, già impostata a suotempo in area slava, polarizzò svariate riflessioni e prese di posizione nelquadro del rinnovamento teorico e critico nella Francia degli anni Sessanta eSettanta. Da quelle discussioni chi abbia seguito le vicende francesi di queglianni può trarre utile memoria e non pochi stimoli dialettici, fatta la tara deltempo trascorso e delle rettifiche di prospettiva da apportare. Anche in que-sto caso, naturalmente, molte formulazioni di altra provenienza geograficahanno contribuito a focalizzare il rapporto fra la cultura e i sistemi di segni,prima fra tutte l’affascinante tipologia di Lotman.

Fin qui è stata questione più di cultura e di critica che di letteratura fran-cese in senso stretto, me ne rendo conto. Ma si trattava di parlare più dellafrancesistica che del francese. Per di più, è difficile separare lo studio di uncorpus dal quadro speculativo che lo compenetra e lo avvolge, specie quandoquesto quadro è particolarmente ricco e suggestivo: tante suggestioni deipensatori d’oltralpe dell’ultimo trentennio vengono recepite e sviluppate avari livelli e in ambiti di ricerca svariati, in nessun modo limitati (anzi!)all’ambito professionale della francesistica. I gruppi autogestiti degli studentidella facoltà di filosofia in questa università dedicano giornate a Foucault,Deleuze, Derrida, Lyotard…

D’altronde, sarebbe stato intento velleitario e non pertinente pretenderedi presentare l’insieme del patrimonio letterario francese. La sua estensione ecomplessità è ben nota, e costituisce fonte d’impegno permanente per i rela-tivi cultori, che hanno di fronte secoli e secoli densi di opere, autori, movi-menti. I volti sono molteplici, spesso antitetici, come mostrò in particolareGiovanni Macchia in uno dei suoi più bei libri: ordine e disordine, razionali-smo e irrazionalismo, misura ed eccesso, luce e tenebre, esprit de géométrieed esprit de finesse, entusiasmo e scetticismo, progressismo e conservatori-smo, universalismo e nazionalismo, e si potrebbe continuare. Si tratta fral’altro di percorsi tuttora in fieri. Gli orizzonti si sono ulteriormente allargatie diversificati, con la creatività degli scrittori francofoni del Quebec,dell’Africa, dell’Europa. E come non pensare anche, se non a un melting pot,ai delicati, sofferti ma fecondi processi di coesistenza (e gradualmente, si

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spera d’integrazione) fra etnie, tradizioni, culture diverse nella società fran-cese contemporanea?

In quest’ottica bisogna ricordare che lo studio di una civiltà, e anche diuna letteratura, come sistema autonomo è senz’altro legittimo e produttivo, apatto però che lo sguardo si estenda anche solo implicitamente ad orizzonti piùampi. Non basta neppure volersi europei, perché il mondo d’oggi comportaconfronti continui, e si avvia probabilmente a un meticciato generalizzato. Daquesto punto di vista non bisogna temere di essere mai troppo vicini o troppolontani, in uno spazio che è quello della simultaneità e dell’interferenza.

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Linguistica

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La riflessione sul linguaggio, sulle parole e frasi che ascoltiamo e di-ciamo, scriviamo e leggiamo, fa parte del nostro stesso linguaggio. Ovvia-mente molte altre attività di cui noi esseri umani siamo capaci sono oggettodi una riflessione che le accompagna in modo ora più ora meno consape-vole. Questo vale per attività del tutto naturali, come camminare o toccare,mangiare o bere, e vale ancora di più per attività meno naturali, legate allosviluppo delle culture, dalle tecniche artigianali ai giochi, dalla progetta-zione e costruzione di edifici all’esercizio delle arti, alle ricerche dellescienze. Il caso della riflessione sul linguaggio ha tuttavia una particolarità.La riflessione prende corpo e si manifesta entro il linguaggio stesso, entroe con le parole stesse, le frasi stesse e i discorsi stessi in cui l’attività siconcreta. È la forma stessa delle frasi che ospita sue parti che si riferisconoa se stesse, che sono “auto-onimiche” («Attenti: tubo si scrive con una solab») o si riferiscono a parti dell’enunziato che si sta realizzando («La parolache ho detto più su non è delle più popolari»). Inoltre, mentre parliamo oleggiamo ci capita di continuo di imbatterci in parole che non capiamo be-ne e ne cerchiamo spiegazioni oppure spiegazioni di ciò che diciamo civengono chieste da altri o altri pretendono di correggere un nostro modo dipronunziare, di dire. Succede allora che con le parole della stessa linguache parliamo ci vengono spiegate o spieghiamo le parole non ben note ediciamo o sentiamo dire per esempio: «burnout vuole dire più o meno de-pressione, depressione in senso psicologico», «meneghino vuole dire lostesso che milanese», «scaleno vuole dire asimmetrico, irregolare», «è sba-gliato dire rùbrica, bisogna dire rubrìca», «il passato remoto di crescere ècrebbi, non crescetti», «friccicare in napoletano vuole dire tremolare», ecc.Usiamo le parole della nostra lingua per parlare delle parole della nostralingua, del loro significato, della loro forma, del loro uso. Questo è abitualee ci pare ed è del tutto normale.

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Il topo che non mangiava formaggio:qualche ragione per studiare linguistica

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Questa proprietà è così ovvia, così connaturata al nostro parlare che, danormali utilizzatori della lingua, da semplici “locutori” (con questo termineindichiamo chi parla, capisce, scrive e, insomma, sa usare una lingua), non cifacciamo caso. E a volte anche i linguisti, che studiano scientificamente lelingue e la capacità umana del linguaggio, l’hanno trascurata, anche se pro-prio le loro discipline, l’antica e tradizionale grammatica, la linguistica stori-ca, la descrittiva ecc. possono considerarsi una diretta filiazione proprio diquesta proprietà. La sua esistenza non sfuggì invece agli studiosi di logicaformale sia dell’antichità greca e latina sia del Medio Evo. I greci, per spie-garla e ragionarci, avevano inventato il paradosso del mentitore. Se diciamo«quel tale mente», tutto bene (salvo querele): è una frase come tante altre,vera se risponde alla realtà e quel tale sta effettivamente dicendo una bugia,o falsa se quel tale è un onest’uomo. Ma se dico «io mento», e cioè se conuna parola di una lingua mi riferisco al mio stesso parlare, secondo i logicimi caccio in guai inestricabili: se dico che mento, allora, se mento, se non stodicendo la verità, allora, dato che non dico la verità, effettivamente mento,ma, allora, non è vero che mento, sicchè, però, di conseguenza è allora veroche, dicendo di mentire, mento, ma se davvero mento dicendo che mentoallora non sto dicendo la verità ecc. all’infinito. Si narra che un logico del-l’età alessandrina, alla ricerca di un’uscita da queste spirali, smise di mangia-re, bere, dormire e finì col morire di inedia.

Anche i logici del Medio Evo capirono che questa proprietà delle linguepuò provocare equivoci e guasti per esempio nel concatenare frasi. Per darneconto inventarono un sillogismo scherzoso, ovviamente nella lingua internazio-nale di quei secoli, il latino: Mus est syllaba, cioè «mus è una sillaba», syllabanon rodit caseum «una sillaba non mangia formaggio», ergo mus non rodit ca-seum «dunque il mus, il topo, non mangia il formaggio». Molti anni fa l’allievadi un corso di linguistica generale ne tentò un adattamento in italiano: Topo èun bisillabo, i bisillabi non mangiano formaggio, dunque topo non mangiaformaggio. Conclusione falsa, evidentemente, dovuta al fatto che con mus (otopo) una prima volta indichiamo il suono o la grafia d’una parola nella sua ma-terialità (cioè, dicevano quei logici, assumiamo mus o topo per denotare la ma-terialità fonica o grafica) e la seconda volta indichiamo invece il piccolo rodito-re che in italiano chiamiamo oggi topo (cioè assumiamo mus o topo come unaforma significativa della lingua latina o, rispettivamente, italiana). Tra i due usi,tra la suppositio materialis e la suppositio formalis, c’è un salto. I due tipi di to-po non vanno mescolati, se vogliamo evitare sofismi o errori.

Soltanto molti secoli dopo, nella prima metà del Novecento, i due tipi diuso hanno nuovamente attratto la riflessione scientifica degli studiosi di lo-

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gica e di matematica, da Giuseppe Peano e Bertrand Russell a Rudolf Carnape altri. Essi introdussero anzitutto una distinzione. Quando un linguaggio A èoggetto dell’analisi e descrizione con le parole e i simboli di un altro lin-guaggio B, il linguaggio A viene detto “linguaggio oggetto” e il secondoviene detto “metalinguaggio”. Per esempio, quando con le parole italianespieghiamo i simboli e le regole dell’aritmetica, che ci servono per rappre-sentare e effettuare le quattro operazioni, l’italiano è adoperato come meta-linguaggio e l’aritmetica è il linguaggio oggetto. Se invece ci serviamo delcinese o dell’inglese per spiegare parole e regole dell’italiano allora l’italia-no ha il ruolo di linguaggio oggetto e il cinese o l’inglese hanno il ruolo dimetalinguaggio. Per tornare al sillogismo dei logici medievali, mus è adope-rato la prima volta come simbolo di metalinguaggio, in funzione “metalin-guistica”, la seconda volta, nella conclusione, come una qualsiasi altra paro-la, in funzione “linguistica”. Se poi l’oggetto di un’espressione metalingui-stica è la lingua stessa o una parte della lingua stessa cui l’espressione ap-partiene diciamo che essa è una espressione “metalinguistica riflessiva”:

La distinzione tra linguistico e metalinguistico servì ai logici della primametà del Novecento per acquisire diverse conseguenze. La prima e per loropiù importante fu stabilire che un buon linguaggio matematico o scientificonon deve mai confondere le funzioni linguistica e metalinguistica dei suoisimboli. Essi stabilirono anzi che un buon linguaggio matematico o scientifi-co, un linguaggio “formale” (in cui la pura forma d’una sequenza dei simbolideve veicolare per intero il suo significato), non può né deve mai essere me-talinguaggio di se stesso, non deve ammettere mai espressioni metalinguisti-che riflessive, pena inevitabili contraddizioni o sofismi. Se vogliamo parlaredei simboli e delle regole di un linguaggio matematico o scientifico A dob-biamo ricorrere a un altro secondo linguaggio B, rigorosamente distinto dalprimo, e tra i simboli di B possiamo introdurre simboli adatti a riferirsi asimboli e regole di A. Per esempio, con i simboli e le regole dell’algebrapossiamo descrivere con una semplice formula tutte le infinite addizioni adue addendi dell’aritmetica e i rapporti tra addendi e risultato: a + b = c e,ciò posto, c – a = b, c – b = a. In questo caso l’algebra fa da metalinguaggioe l’aritmetica da linguaggio oggetto. Con i simboli dell’algebra ci si può rife-rire all’aritmetica, ma anche a cose e calcoli diversi dall’aritmetica: per que-sta maggiore capacità di significare l’algebra è più “potente” dell’aritmetica.

Nello stesso tempo negli studi logici vi fu un’altra novità. Per indicare irapporti tra un simbolo, una frase, un intero linguaggio e i loro sensi e signi-ficati (ciò di cui simbolo, frase o lingua parlano, ciò che designano) gli stessilogici di cui abbiamo detto presero in prestito dai linguisti la parola semantica.

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La parola era stata introdotta nel 1883 dal linguista francese Michel Bréal,che la trasse dall’aggettivo greco semantikòs «indicativo, significativo», perbattezzare, diceva Bréal, la «science des significations des mots», lo studiodi come cambiano i significati delle parole attraverso il tempo e la storia del-le culture. Dopo qualche tempo i logici si impadronirono della parola dando-le un senso più generale e astratto: lo studio del modo e, anche, il modo stes-so in cui un qualsiasi linguaggio, comprese le lingue, con i suoi simboli or-ganizza e rappresenta i suoi possibili significati, il “piano del contenuto” cuiil linguaggio si riferisce. Un metalinguaggio ha una “potenza” maggiore delsuo linguaggio oggetto: lo contiene, può parlarne, ma può avere anche altricontenuti significativi.

La preoccupazione maggiore dei logici era definire e capire le regoledi buon funzionamento dei linguaggi matematici e scientifici. Dai tempi diun loro grande predecessore, il filosofo Gottfried Wilhelm von Leibniz(1646-1716), i logici sapevano che i significati delle parole e frasi dellelingue che parliamo ogni giorno sono poco stabili, parum constitutae dice-va Leibniz, che ancora scriveva di preferenza in latino le cose che volevafar circolare nel mondo scientifico internazionale. Di conseguenza le for-mulazioni logiche, matematiche, scientifiche che vogliano essere rigorosedevono sforzarsi di darsi un loro linguaggio stabile e rigoroso. Le scienzese lo possono e devono dare, spiegava genialmente Leibniz, pur semprepartendo da una qualunque lingua d’uso comune, ma, come aveva fattoEuclide nel mondo greco per la geometria, scegliendo all’inizio con curaalcune poche parole più semplici e trasparenti e definendone esplicitamenteil significato e le regole con cui inderogabilmente usarle nel discorsoscientifico: così le parole diventano “termini” o postulati primitivi. Con talitermini primi una scienza può costruire le definizioni degli altri termini piùcomplessi che a mano a mano le occorrano nel suo procedere. Ma bando aogni scolasticismo: questo rigore non è fine a se stesso, come erano state inparte le sottigliezze dei logici medievali, deve servire a parlare e studiare inmodo rigoroso il mondo della natura e la vita umana. Inconsapevolmentema profondamente democratico (forse perché, come ha supposto Hans Ma-gnus Enzensberger in Mausolaeum, veniva da un altro pianeta), Leibniz sispinse a sostenere che la prova ultima di validità delle costruzioni anchepiù sottili e complesse di una scienza è la loro ritraducibilità nel linguaggiodella quotidianità, nelle ambigue, umane, correnti parole di una linguaqualsiasi. Ma ben pochi lo hanno voluto seguire in quest’ultimo tratto, inquesto tratto profondamente socratico e, ripeto, radicalmente democraticodella sua strada: una scienza è tale se, alla fine dei più impervi percorsi,

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sbocca infine sulla piazza del mercato e sa rispondere alle domande imper-tinenti di Socrate sul senso dei suoi termini.

Un paio di secoli dopo Leibniz, la preoccupazione dominante dei logicicontinuava a essere quella di una rigorosa fondazione dei linguaggi formali.Tuttavia due logici polacchi, Alfred Tarski e Kazimir Ajdukievicz, si soffer-marono a considerare anche le lingue dal punto di vista delle nuove acquisi-zioni. Essi videro che, diversamente da un buon linguaggio matematico, unaqualsiasi lingua ha la proprietà di essere sempre metalinguaggio di se stessa.Con le parole italiane possiamo parlare dell’italiano, del latino con le parolelatine. In più essi videro e dissero che (come del resto sapevano i retori antichigreci e latini) in una lingua funzionano bene e possono essere piene di sensoanche frasi smozzicate, sgrammaticate, mal formate. Inoltre, mentre col lin-guaggio chimico non possiamo parlare di aritmetica, col linguaggio della fisicanon possiamo costruire un teorema di geometria e via esemplificando, con unaqualunque lingua possiamo riuscire a descrivere qualsiasi altra lingua. Grazie aciò ogni lingua può includere contenuti d’ogni genere. Questo, per i logici, eraun difetto. Un buon linguaggio scientifico deve invece definire rigorosamentela propria semantica, cioè definire quale è precisamente il piano del contenutocui si riferisce e attenersi a questo. Una lingua, invece, è una specie di passe-partout, la sua semantica è indefinita, anzi, osservò Tarski, non c’è limite alcampo delle cose che si possono dire con e in una lingua storico-naturale.

Verso i linguisti i logici erano debitori della nozione di semantica e sal-darono il conto restituendo ai linguisti più avvertiti i risultati dei loro ragio-namenti. Se ne appropriò per primo un linguista danese, Louis Hjelmslev.Contaminando termini e concetti di un filosofo americano, Charles SandersPeirce (1839-1914), e di un linguista svizzero, Ferdinand de Saussure (1857-1913), Hjelmslev, in un libro apparso in danese nel 1943 e poi tradotto inmolte lingue del mondo, spiegò che una lingua è in linea di principio unaqualunque “semiotica”, cioè un sistema che regola e descrive la produzione ela comprensione dei segni. Attraverso concatenazioni rigorose, «impietoseverso il lettore» ha detto una volta il linguista francese André Martinet,Hjelmslev cerca di circoscrivere ciò che è caratteristico e specifico delle lin-gue rispetto a ogni altro linguaggio scientifico, rispetto a ogni altra semioti-ca: e lo addita proprio in quella proprietà individuata dai logici. Le frasi po-tenzialmente infinite dicibili in una lingua hanno contenuti potenzialmenteillimitati. Contenuti individuati nei segni di ogni altra semiotica e, quindi diogni altra lingua possono essere assunti nelle frasi di una certa lingua. La tra-ducibilità di ogni semiotica e di ogni lingua in ogni lingua: questo è il trattospecifico della lingua rispetto alle altre semiotiche.

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A questo punto la linguistica teorica si è trovata e continua a trovarsi, aquanto pare, dinanzi a un bivio. Hjelmslev era giunto alle sue conclusioni co-struendo un apparato formale rigoroso e procedendo con altrettanto rigore,more geometrico, verso la sua conclusione. È possibile procedere nell’analisidelle lingue con altrettanto rigore? È possibile matematizzare l’intera linguisti-ca? Nel 1956 la tesi di laurea di un allora giovane linguista americano, NoamChomsky, ha aperto la via a cercare e costruire risposte positive a queste do-mande almeno parzialmente, e cioè limitatamente alla sintassi. Questo indiriz-zo di ricerca vede le strutture sintattiche delle infinite frasi di una lingua comededucibili da un limitato pacchetto di principi e di regole iterabili, ricorsive,che soggiacciono nel profondo alle forme diversificate delle frasi che diciamoo troviamo. Le regole individuano e descrivono la struttura di tutte le frasi pos-sibili, le “generano” nel senso matematico del termine, cioè assegnano a esseuna ordinata descrizione strutturale. Le regole sono molto astratte e complesse,in un saggio del 1963 sulle proprietà formali delle grammatiche Chomskystesso spiegò che la loro complessità è di gran lunga superiore a quella dellealgebre più complesse. Di qui, poiché i bimbetti del mondo a pochi anni, di-giuni di ogni matematica e con poca esperienza degli usi della loro lingua, so-no però in grado di produrre e capire frasi grammaticali della loro lingua e dievitare o rifiutare le non grammaticali, l’ipotesi del carattere innato dei princi-pi fondamentali delle grammatiche delle lingue. Sotto la variopinta moltepli-cità delle grammatiche delle migliaia di diverse lingue del mondo si cela, in-nato, un meccanismo grammaticale universale.

La definizione analitica di tale meccanismo è andata variando nel tem-po. Ciò, unito all’impianto formale, matematizzante, delle descrizioni gene-rative ha indotto perplessità in molti linguisti di formazione umanistico-letteraria. Ma anche il più diffidente verso il generativismo deve ammettereche l’impulso di questo indirizzo di studi, il suo carattere marcatamente ana-litico e, quindi, la coerenza e falsificabilità delle asserzioni, sulla via della ri-cerca, sia pure con successivi aggiustamenti, di principi universali, ha datoluogo alla più imponente serie di descrizioni grammaticali e sintattiche dellelingue del mondo. È un patrimonio conoscitivo di cui, chi vuole studiare ilfunzionamento delle lingue, non può fare a meno.

L’esperienza teorica di Hjelmslev poteva però portare in tutt’altra dire-zione. Essa era fondata su una somma di constatazioni empiriche della natu-ra variabile, ampliabile, deformabile, plastica delle lingue, della loro seman-tica. Hjelmslev, ammiratore e felice interprete di Saussure, sapeva che il lin-guista svizzero lo aveva preceduto (e ha preceduto Chomsky) nell’asserire lanatura potenzialmente infinita dei “segni”, cioè delle parole e frasi di una lin-

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gua. Non poteva sapere invece che questo linguista svizzero aveva anche ri-flettuto sulla proprietà della indefinita illimitatezza del campo di cose dicibiliin e con una lingua: una sua lezione su questo punto era parsa incomprensi-bile agli editori del testo dei suoi corsi, apparso postumo nel 1916, col titoloCours de linguistique générale. Soltanto quarant’anni dopo, proprio mentreChomsky inaugurava il cammino della linguistica generativa, gli appunti diquella lezione sono stati recuperati e resi noti. Ma la riflessione di Saussureera andata anche oltre. Egli si era chiesto come e perché le lingue fossero ca-ratterizzate da quella proprietà. E aveva cercato una risposta nella direzionedel significato di parole e frasi. A suo avviso, il significato di ciascuna parolaè, sia storicamente, in diacronia, sia sincronicamente, dilatabile in modo im-prevedibile e incalcolabile sotto la spinta dei bisogni comunicativi dei locu-tori e in funzione della coesistenza con i significati di altre parole e della ne-cessità che ciascuna lingua ha di rispondere alle esigenze di significazione diciascuna società umana. Se una lingua avesse solo due parole, pensava e in-segnava Saussure, tutti possibili sensi del mondo si addenserebbero e riparti-rebbero su quelle due parole: poichè questo è il compito di una lingua, darecorpo, con ciò di cui dispone, a tutto ciò che i partecipi di una comunità ecultura hanno bisogno di esprimere. Più di mezzo secolo prima Søren Kier-kegård aveva affermato in modo molto suggestivo che la «lingua del merca-to», la «lingua di casa» ci offre sempre mezzi per lottare contro l’inesprimi-bile. Per questa mobilità dei significati di ciascuna parola (e quindi di cia-scuna frase) i confini del dicibile in e con una lingua sono illimitati e ognilingua può essere portata dai locutori a trasportare in sé e a tradurre i conte-nuti di frasi e tesi di qualunque altra lingua.

Nel corso del Novecento anche Ludwig Wittgenstein ha affermato conaltrettanta forza nelle sue Philosophische Untersuchungen, la natura plasticae dilatabile dei significati delle parole sotto la spinta dell’uso sociale. Matracce e anticipazioni di questa idea si trovano risalendo indietro nel tempo,nell’idea aristotelica e vichiana di metafora, nell’Ottocento nei testi di Wil-helm von Humboldt e, come ho già accennato, di Søren Kierkegård, nel No-vecento nella teoria della natura generica, plurideterminabile del significatolessicale elaborata fin dagli anni trenta da Antonino Pagliaro. Sviluppata agliestremi quest’idea potrebbe far credere che sia possibile che i locutori parli-no apparentemente una stessa lingua ciascuno riempiendo di suoi personalisensi parole e frasi. L’idea di dilatabilità incalcolabile del significato portacon sé la conseguenza di una potenziale schizofasia. Wittgenstein ha visto ilproblema e ha additato una soluzione nel fatto che i locutori, diversamenteda quel che può accadere ai filosofi, non parlano a vuoto e nel vuoto, ma

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usano le parole nel contesto di pratiche sociali e tecniche ben determinateche aiutano a concordare sul senso delle parole. Ma è la lingua stessa chefornisce argini contro il rischio della schizofasia e l’argine se non unico piùrobusto è la possibilità di uso metalinguistico riflessivo che accompagna ilnostro parlare: la possibilità di mutuo colloquio, di intrecciarsi di domande erisposte sul senso delle parole che si vengono usando. Il vecchio topo degliscolastici si rivela utile, in questa prospettiva, a delineare buone ipotesi sullemodalità della mutua comprensione. E aiuta a capire anche le modalità concui, a partire dal malcerto uso delle parole, le scienze possono procedere ascegliere e determinare il valore dei loro termini primitivi e, grazie a questi,a edificare i loro costrutti simbolici ed esplicativi.

Questa seconda prospettiva non nega la possibilità e utilità di analisiformali delle lingue, al più ne nega la esaustività. Le analisi formali, mate-matizzanti non possono restituirci la imprevedibile mobilità dei significati enon danno conto della mutevolezza storica delle lingue, anche se, a onor delvero, ci hanno costretto a constatare mobilità e mutevolezza. La semantica diparole, frasi, lingue va studiata storicamente e empiricamente, caso per caso,volta a volta sul campo, con cure filologiche, per testi e lingue del passato, econ cure filologiche e accertamenti sperimentali per il presente. Questo nonesime la linguistica dal darsi un apparato di termini da usare in modo rigoro-so. Anzi, proprio la sua evidente contiguità col comune parlare di lingue conla stessa lingua, rafforza la necessità di costruire un metalinguaggio fatto ditermini precisi e rigorosi e sottoponibile alle procedure di verifica o «falsifi-cazione» come ogni linguaggio scientifico. A questa conclusione arriviamoanche osservando un altro aspetto del linguaggio e, quindi, della linguistica.Il linguaggio fatto di parole e manifesto nelle lingue non solo è frutto dellalunga storia biologica e culturale della specie umana e dei gruppi umani, et-nie e popoli, in cui si articola: a ogni passo è condizionato dalle capacità enecessità biologiche, neurologiche, psicologiche degli individui e della spe-cie e, anche, da leggi generali studiate dalla teoria dei sistemi e dell’informa-zione; e nelle sue manifestazioni, le lingue e gli usi che ne facciamo, fa cor-po con le abitudini e tradizioni delle genti che parlano una data lingua. Inciascuna delle settemila lingue oggi usate nel mondo si sedimenta e vive eriopera uno specifico patrimonio di storia e di cultura. Così la linguistica è dinecessità portata a stabilire contatti con le scienze appartenenti agli ambitipiù diversi, dalla teoria dei calcoli e dei sistemi alle filologie, agli studi ar-cheologici, letterari, storici. Di qui, anche, la necessità di darsi una strutturaterminologica e concettuale tale da consentire di affrontare problemi etero-genei, collegati a campi di sapere assai diversi, senza perdere, come si dice,

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Il topo che non mangiava formaggio

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il filo del discorso: il filo del suo discorso dedicato a capire come è fatta efunziona ciascuna lingua.

Sia nella prospettiva generativa sia nella seconda, filologica e semanti-ca, saussuriana e wittgensteiniana, sembra chiaro che l’analisi delle linguecostringe l’indagine a addentrarsi, sulla base dei fatti linguistici di lingue bendeterminate, nella riflessione su meccanismi generali con cui le intelligenzeumane, la mente o lo spirito, aiutano gli umani a orientarsi insieme nel mon-do e nelle esperienze. Pensava ciò un grande biologo del Novecento comeErnst Mayr quando affermava che nella lunga storia della specie umana ilfatto decisivo è stato l’emergere del linguaggio, delle parole con il loro cari-co di indeterminatezza e, perciò, di plurideterminabilità. E traeva da ciò unagiusta conseguenza Albert Einstein quando diceva che, a dispetto di falsi or-gogli, quasi tutto ciò che noi crediamo, sappiamo e pensiamo lo dobbiamoalla lingua che abbiamo appreso, cominciato ad apprendere da bambini, allalocutio prima di cui parla Dante all’inizio del De vulgari eloquentia, quellache tutti gli umani imparano nutrices imitantes. Anche degli spesso umili equotidiani fatti di lingua, studiati col concorso di tutti gli strumenti pluridi-sciplinari necessari, dalle matematiche alla psicologia, dalla storia alla fisio-logia, può dirsi e può ripetere il linguista: kaì enthaûta theoí, et hic dii sunt.

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Storia dell’arte

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Nel 2002, con il primo numero di una nuova serie, riprendeva la suapubblicazione a cadenza semestrale la rivista Arte Medievale, fondata nel1983 per iniziativa di Angiola Maria Romanini, dal 1972 al 2002 docentenella Facoltà di Lettere della “Sapienza”.

La vecchia Arte Medievale aveva terminato le sue pubblicazioni con ilnumero 1-2 dell’anno 2000, il ventiseiesimo della serie. La sua vita non lungaha però rappresentato un periodo per molti aspetti significativo, nel quale essasi è imposta, anzitutto, come autorevole foro internazionale per il confronto diidee e metodi e lo scambio di informazioni su ogni aspetto e problema dellastoria dell’arte medievale. Impegnarsi in una rivista interamente dedicata allastoria e critica dell’arte prodotta nell’Occidente europeo e sul Mediterraneoentro i limiti più largamente accettati per l’età medievale, convenzionalmentesegnati dal pontificato di Gregorio Magno e dal rinnovamento culturale delXV secolo, costituiva un fatto davvero innovativo in Italia al principio deglianni Ottanta del secolo scorso; anzi – non suoni eccessivo il termine – era unatto dirompente nei confronti di una tradizione nazionale relativamente recen-te, ma consolidata e certo illustre, che col suo relegare il medioevo in una sortadi premessa tutto sommato poco significativa dell’arte introdotta dalle novitàculturali del XV secolo, nel conseguente centrare e puntare tutto su quelle no-vità e riconsiderare episodi del millennio che le precede solo per quello che siriteneva avessero saputo anticiparle, rischiava l’isolamento, la ghettizzazionepersino rispetto ad una visuale basata su una cronologia analiticamente struttu-rata e uno spettro disciplinare analogamente articolato, dalla archeologia, allacultura materiale sino all’iconologia e alla storia delle idee, che del medioevoproponevano da tempo gli studi anglosassoni, francesi, tedeschi e, a dire il ve-ro, anche singoli studiosi e scuole in Italia.

Il gran numero delle partecipazioni non italiane che contrassegnò fin daprincipio comitato promotore e comitato direttivo di Arte Medievale era unmezzo, anzi la via obbligata per colmare la distanza tra la situazione italiana

Antonio Cadei

Arte Medievale

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e lo standard internazionale degli studi in materia. Ma era un fatto chel’iniziativa partisse dall’Italia, dove aveva sede la redazione di Arte Medievalee dove si reperivano, non senza fatica, i pur modesti fondi per la sua pubblica-zione. E, a ben vedere, Arte Medievale, nel suo originario proposito di studio atutto campo del medioevo artistico occidentale, nell’aspirazione a costituireterreno di confronto anche e soprattutto metodologico, senza scelte o esclusio-ni pregiudiziali non aveva e non ha a tutt’oggi un vero e proprio omologo inun’altra nazione o madrelingua se non, forse, nella statunitense Gesta.

A posteriori, nella prospettiva di oltre un ventennio, è tanto più evidenteche la nascita di Arte Medievale fu anche manifestazione di dinamiche checominciavano ad investire il settore umanistico dell’Università italiana, lesue Facoltà di Lettere. È significativo che essa sia nata nell’ambito dell’Uni-versità di Roma, la prima e per parecchio tempo la sola, se non vado errato,ad avere avuto una cattedra di Storia dell’arte medievale, illustrata dall’inse-gnamento di maestri quali Pietro Toesca, Mario Salmi, Geza de Francovich.Fu Angiola Maria Romanini che concepì Arte Medievale come un “convegnodi studi permanente” come lei stessa scrive nella “Lettera agli storici dell’arteMedievale”, che faceva seguito all’editoriale del primo numero, trasferendoidealmente alla rivista il testimone di memorabili convegni da lei già organiz-zati presso la stessa Università e dedicati al Medioevo artistico romano e me-ridionale, dall’età carolingia alla Roma del primo Giubileo nel 1300.

Ma altrettanto significativo è che i tempi della nascita di Arte Medievalesiano coincisi con la separazione nell’insegnamento delle Università italianedella Storia dell’Arte Medievale dalla Storia dell’Arte Moderna anche nel re-clutamento della docenza; con l’istituzione, in altre parole, di un raggruppa-mento concorsuale specifico per i professori di Storia dell’arte Medievale, se-parazione prima introdotta appunto negli anni Ottanta, poi revocata, poi dinuovo ammessa e a tutt’oggi vigente. Tale coincidenza era un’indicazioneeloquente della presa di coscienza da parte degli storici dell’arte in Italia, oalmeno dei più attenti e consapevoli tra loro che la storia dell’arte del medioe-vo è un campo disciplinare che si isola entro il più generale contesto della sto-ria dell’arte, non certo nei fini, ma sicuramente nei metodi e nelle modalità,per la peculiarità delle testimonianze, opere, monumenti, materiali con cui ha ache fare, per la natura e qualità delle fonti, tanto più rade e meno dirette diquelle disponibili per l’età moderna, per tangenze ed affinità disciplinari sueproprie e distintive e – non da ultimo – per la non assimilabilità della concet-tualizzazione delle arti formatasi nei secoli che chiamiamo medioevo a quellache si è imposta in conseguenza delle novità culturali del XV secolo, dallaquale discende in linea diretta la nozione di arte ancora oggi in vigore.

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In questo senso possiamo leggere la nascita e l’affermazione di ArteMedievale come risposta tempestiva e adeguata al mutare dei tempi e dellesensibilità. Per questa ragione ha trovato, non solo a livello di fruitori e letto-ri, ma anche di autori un’attenzione mai venuta meno presso un pubblicolargamente internazionale.

Con l’annata del 1987 il passaggio della testata dall’editrice Viella, cheaveva curato i primi due numeri, all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana non fuuna semplice transazione tra editori, ma segnò la ricollocazione della condu-zione della rivista in un ambito ad essa specificamente congeniale che si eranel frattempo determinato. Era infatti in fase avanzata di progettazione nel-l’ambito dell’Istituto la Enciclopedia dell’Arte Medievale ad opera di uno staffredazionale che comprendeva per intero i curatori della rivista. Questa si af-fiancava così alla grande impresa enciclopedica quale strumento aperto di ri-cerca e discussione anche dei problemi posti dalla ideazione e organizzazionedel lemmario prima e poi dalla traduzione nel sistema chiuso di testi ed imma-gini nel quale la Enciclopedia dell’arte medievale si è concretizzata. È stataper Arte Medievale una eccezionale occasione di crescita in termini anzituttoquantitativi. Si ampliavano così enormemente la cerchia dei possibili autori elo spettro degli argomenti, mentre aumentavano di pari passo le opportunitàdella diffusione. L’apertura della rivista a contributi provenienti da tutto ilmondo ne ha arricchito e articolato l’impostazione di fondo, reso più agile etempestivo l’intervento nel dibattito sul medioevo occidentale latino, ma spes-so anche su temi di arte bizantina e arte islamica contemporanee. E ciò ha si-gnificato anche un vistoso intensificarsi dell’internazionalizzazione di ArteMedievale, il suo imporsi come ambita sede di pubblicazione per studiosi diogni nazione d’Europa, ma, in modo del tutto particolare, per studiosi statuni-tensi. Arte Medievale trovava così la strada per affermarsi davvero come la ri-vista internazionalmente riconosciuta dalla storiografia artistica sul medioevo.

Ciò non toglie che Arte Medievale abbia assunto col passare degli anniuna sua connotazione di scuola quasi per processo spontaneo, fortementepotenziato, anche questo dal connubio con la Enciclopedia dell’Arte Medie-vale verificatosi nel 1987. La redazione dell’Enciclopedia è stata, infatti, an-che un’irripetibile opportunità per trattenere e addestrare al lavoro di storicidell’arte un numero considerevole di giovani laureati; quei giovani sono statianche una formidabile piattaforma di autori per la rivista, fattore determi-nante della sua vitalità. Credo che l’indice più chiaro di scuola di Arte Me-dievale sia riconoscibile nel favore che essa ha sempre riservato a studi distoria dell’architettura medievale e, più ancora, nella capacità di provocarli,di produrli – per così dire – in proprio. E stata certo, questa una riaffermazio-

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ne metodologica e confessionale, se vogliamo, dell’idea dell’unità delle arti,tema dibattuto da posizioni spesso contrastanti sin dall’età dell’Alberti e delVasari. Ancora più è stata il riconoscimento di una dimensione propria e pe-culiare delle arti del medioevo, che hanno saputo produrre alcune delle piùgrandiose operazioni di sintesi tra le arti, persino tra le arti maggiori e le co-siddette arti minori. Ma non si trattava solo di questo. L’integrazione dell’ar-chitettura alla visuale complessiva delle arti si è coniugata con la riqualifica-zione a livello epistemologico del prodotto d’arte non più solo come cosabella, ma come insostituibile documento storico. Non abbiamo studiato solograndi chiese e cattedrali, né lo abbiamo fatto solo perché sono belle. Abbia-mo dedicato alla stessa stregua attenzione all’architettura ‘minore’ dellegrange, le fattorie e opifici del medioevo, le sue strutture di cultura del terri-torio, oppure a castelli e fortificazioni, le strutture che lo difendevano e am-ministravano, o, ancora, all’architettura civile e urbana, pubblica e privata; aquell’architettura, insomma, spesso trascurata, deprezzata, abbandonata allarovina proprio perché, per lo più, sconosciuta. Eppure è proprio questa archi-tettura, accanto a monumenti maggiori, a rendere così fascinose le nostre cit-tà, a rendere irripetibile altrove se non in Italia e in poche altre parti d’Eu-ropa lo spettacolo di un paesaggio che coniuga la forza di seduzione dellanatura con quei segni di un’antropizzazione più che millenaria. È quel pae-saggio che tanto amiamo e sentiamo parte della nostra storia e che già co-minciavano a ritrarre, con animo oscillante tra razionalità e commozione, ipittori del primo rinascimento toscano e fiammingo. È dunque un’architettu-ra studiata non più solo come serie evolutive di forme più o meno belle, maanche e soprattutto come prodotto di fenomeni e congiunture e personaggidella storia, memoria e documento essa stessa per ricostruirne la fisionomia.

Mancata al principio del 2002 Angiola Maria Romanini, che di ArteMedievale era stata sino allora instancabile animatrice, conclusa pochi mesidopo la Enciclopedia dell’Arte medievale e chiusa la sua redazione, la rivistaè stata in grado di sopravvivere con le proprie forze. La rinomanza raggiuntaha fatto sì che un prestigioso editore italiano specializzato nelle edizionid’arte, la Silvana Editoriale, si assumesse l’onere della sua pubblicazione,facendone una sorta di emblema della propria attività. Coloro che si ricono-scono nell’insegnamento della Romanini si sono costituiti in associazione fi-nalizzata a mantener viva la testata. Vi sono tra essi tutti i docenti di Storiadell’Arte Medievale e Storia dell’Arte Bizantina di questa Facoltà, presso laquale si svolge la cura editoriale e redazionale della sua pubblicazione. Sinoad oggi le uscite di Arte Medievale sono regolari.

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Poiché nel sapere come nella riflessione non si può mettere insieme un tutto, in quanto aquello manca l’interno, a questa l’esterno, noi dobbiamo di necessità pensare la scienzacome un’arte se da essa ci aspettiamo un genere qualsiasi di totalità. E questa non dob-biamo cercarla nel generale, nel ridondante, bensì come l’arte si rappresenta sempretutta in ogni singola opera d’arte, così la scienza dovrebbe pure ogni volta dimostrarsi inogni singolo oggetto trattato.

Il passaggio tratto dai Materialen zur Geschichte der Farbenlehre diJ. W. Goethe venne inserito da Walter Benjamin in epigrafe alla sua premes-sa gnoseologica al Dramma barocco tedesco che introduceva il problemadella rappresentazione. È su tale problema che vorrei fare una breve rifles-sione che concerne la disciplina della storia e della critica d’arte come disci-plina storica che non può prescindere dalla discussione e dalla elaborazioneteorica che riguarda l’arte come valore, la storia come tradizione, la filologiacome documentazione, la semiotica per i linguaggi iconici e testuali e l’ico-nologia per l’interpretazione e la conoscenza storica.

Il rapporto fra arte e critica era già stato posto da Lionello Venturi nelsuo libro, pubblicato negli Stati Uniti nel 1936, History of Art Criticism, unlibro che oltre ad avere una attuale sopravvivenza nelle numerose riedizioniin Italia della Storia della Critica d’arte – grazie anche alla mancanza di stu-di contemporanei sistematici sul dibattito critico sulla storia e la teoria del-l’arte in Italia – metteva a fuoco una posizione critica precisa nell’identifi-cazione della storia dell’arte con la critica d’arte. Tale posizione informerà latradizione degli studi di storia dell’arte in Italia anche attraverso gli allievi diVenturi, primo fra tutti Giulio Carlo Argan; entrambi torinesi, i due studiosihanno segnato l’impostazione della storia e della critica d’arte nella anticaFacoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza” dovesono stati docenti dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del Novecento. Manon bisogna sottovalutare la storia del libro di Lionello Venturi che vede la

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luce nel pieno del suo periodo di esilio politico, prima in Francia e poi negliStati Uniti, proprio negli anni della grande diaspora degli intellettuali europeiin particolare tedeschi o dell’Europa orientale; fra questi Erwin Panofsky chesolo due anni dopo, nel 1939, pubblicherà Studies in Iconology, un libro an-ch’esso di grande successo a lunga distanza, per aver portato la tradizione delpensiero del grande storico di Amburgo, Aby Warburg, in America e dunquedi quel concetto di Kulturwissenschaft che caratterizzava l’Istituto ambur-ghese in stretto rapporto con la giovane Università di Amburgo che, attraver-so eminenti studiosi come Ernst Cassirer, aveva dato un contributo fonda-mentale alla cultura teorica e filosofica della “Vecchia Germania”. Non saràcasuale dunque che al ritorno in Italia Lionello Venturi, che aveva dedicatoal libro del collega tedesco una sorta di recensione, nel suo saggio Art Criti-cism Now pubblicato a Baltimora nel 1941, andrà trasformando il suo con-cetto di gusto, attraverso il quale rivendicava all’arte quell’autonomia dimarca crociana, a contatto con una sorta di storia della cultura o di scienzadella cultura di marca anglosassone, come si evince anche programmatica-mente dalle stesse affermazioni di Lionello Venturi in occasione di un con-vegno tenutosi a Roma all’Accademia dei Lincei: «Nel 1951 tenni una con-ferenza ai Lincei sulle Premesse teoriche dell’arte moderna ed esposi ap-punto le idee di Bergson, del Freud, dello Husserl, del Dewey che hannocondizionato le varie tendenze dell’arte moderna. Il Croce si arrabbiò e disseche quelle idee erano tutte sciocchezze. Ora non si vede come la concezionespaziale dell’Alberti sia una verità e la concezione spaziale di Bergson siauna sciocchezza» (Lionello Venturi, La mia prospettiva estetica, 1953).

In conclusione di quella conferenza infatti Venturi, dopo aver fatto rife-rimento all’opera di John Dewey, Art as Experience, afferma «[…] dopo es-sere risalito dall’opera al pensiero non ho preteso di ritornare all’opera pergiudicarla. Ma una pretesa nella mia ricerca c’è ed è di dimostrare che l’artemoderna è strettamente connessa con tutta la nostra civiltà e possiede quellaindiscutibile necessità che è della storia». Il distacco da Croce era dunque unfatto compiuto o almeno così fu recepito dal suo allievo Giulio Carlo Arganche più tardi affermerà: «Ed è passando da quella incrinatura del crocianesi-mo che cominciai a considerare la “Kunstgeschichte als Kulturgeschichte”,ossia quale cultura si fosse costruita attraverso l’arte».

Già alla metà del secolo dunque andavano delineandosi le distanze fra lascuola “romana” e il formalismo estetizzante; quest’ultimo fin dalla tradizio-ne di fine Ottocento e di primo Novecento era caratterizzato dall’opera e dal-l’attività critica di Bernard Berenson, che in Italia troverà il suo geniale eraffinato epigono in Roberto Longhi prima e poi nel conoscitore Federico

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Zeri (del quale solo in ultimo si registra una sorta di conversione). Infatti al-l’indiscutibile e autoctono trionfo del formalismo in Italia si contrapponevauna disponibilità da parte di altri studiosi, in particolare della scuola romana, aldialogo con altre posizioni teoriche che andavano emergendo negli anni Cin-quanta e Sessanta del Novecento. Infatti in Italia, nonostante l’importazioneanglosassone, si registravano interessanti rielaborazioni originali sia sul frontedella storia sociale dell’arte, soprattutto da parte di Giulio Carlo Argan prima epoi di Enrico Castelnuovo approdato alla Scuola Normale di Pisa, sia su quellodello strutturalismo, in particolare attraverso gli studi e le ricerche di CesareBrandi, sia dell’iconologia nelle geniali ricerche di Eugenio Battisti, nei nume-rosi studi di Maurizio Calvesi e poi nell’impostazione dei più recenti studiosiitaliani che hanno cercato di coniugare la tradizione storica con le ricerchesulle immagini di tradizione anglosassone e più recentemente con una nuovariflessione sul valore significante ed espressivo della forma e dello stile che èstato vitalizzato dalla rilettura degli scritti editi e degli originali inediti di AbyWarburg, ma non solo, in un’indagine comparata con altre discipline comel’archeologia, la cultura materiale l’antropologia, nel confronto fra linguaggiiconici e linguaggi verbali. Questa situazione già si intravedeva fra le righe delsaggio di Giulio Carlo Argan, in realtà una sorta di editoriale programmaticodella rivista «Storia dell’arte» nel numero di fondazione del 1969, fra tradizio-ne crociana, che comportava ancora una divisione fra storia e arte, e innova-zione, come rivela sia la dedica oltre che a Lionello Venturi ad Erwin Pa-nofsky e le pagine dedicate allo strutturalismo attraverso le posizioni critichedi Cesare Brandi. Ma la sensibilità della cultura italiana negli anni Sessantaverso una maggiore mobilità della cultura nordeuropea e americana, in parti-colare sul versante degli studi teorici e critici con un’apertura dei confini di-sciplinari, è tangibilmente provata dalla politica editoriale con la pubblicazionedi opere di autori, esponenti delle nuove tendenze metodologiche nel campopiù strettamente storico-artistico, come i volumi sulla storia sociale dell’arte diArnold Hauser, ma anche gli studi di Friedrich Antal, di Millard Meiss e so-prattutto di Erwin Panofsky e di Aby Warburg, la cui edizione italiana di saggirimarrà per decenni la sola pubblicazione in lingua non originale dello studio-so di Amburgo, dopo la prima edizione postuma in lingua originale del 1932,che peraltro aveva avuto una straordinaria recensione da parte di uno studiosoitaliano atipico, anglista e docente anch’egli a “La Sapienza”, Mario Praz. Fragli studi di Erwin Panofsky pubblicati in Italia, dopo la precoce edizione delpiccolo saggio Idea. Contributo alla storia dell’estetica (1952), la pubblicazio-ne de Il significato nelle arti visive nel 1962 poneva in maniera prorompente ilproblema dell’interpretazione delle opere d’arte, con una nuova attenzione e

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considerazione dell’opera d’arte – sulla quale Giulio Carlo Argan spendevanel frattempo molte riflessioni a proposito del valore e della qualità artisticarispetto al manufatto artigianale – in termini di immagine e del suo signifi-cato in rapporto al contesto. Al problema della rappresentazione della realtànaturale nei diversi periodi storici Panofsky aveva dedicato il suo studioall’inizio degli anni Venti, dove una impostazione storicistica veniva inno-vativamente vitalizzata dal ruolo delle categorie trascendentali kantiane allaluce e sotto l’egida della filosofia di Ernest Cassirer, come rivela il titolostesso del saggio che mutua quello della trilogia cassireriana, La filosofiadelle forme simboliche, pubblicata negli stessi anni. Fu proprio Marisa DalaiEmiliani che, dedicando la propria tesi di laurea alla prospettiva, introduceval’edizione italiana de La prospettiva come forma simbolica nel 1966, corre-data e arricchita da ben quattro saggi giovanili dello studioso tedesco, asso-lutamente teorici in cui il dibattito verteva sui temi fondanti la storia dell’arteall’inizio del secolo fra il problema della forma estetica, delle strutture visi-ve, che avevano trovato un padre fondatore nel grande studioso HeinrichWölfflin e la forma espressiva di un contenuto, di un “contenuto sedimenta-to”, per usare la terminologia concettuale di Theodor W. Adorno, in rapportoalla storia, al contesto. Già le riflessioni in proposito di Aby Warburg che ri-salgono al 1912 sono illuminanti; in un saggio su «La posizione dell’artistanordico e dell’artista meridionale nei confronti dei soggetti delle opered’arte» Aby Warburg nel mettere a fuoco il ruolo del contesto nella varia-zione delle opere «il difforme orientamento delle forze artistiche citra et ul-tra montae» scriveva: «La formula arte come forma e arte come espressionenon è sufficiente, poiché ogni forma ha il suo contenuto e un contenuto iso-lato dalla forma non esiste». Tale posizione troverà un ulteriore contributonel saggio giovanile di Erwin Panofsky del 1915 che opponeva alle pure for-me visive di Heinrich Wölfflin una «volontà di forma che in un certo senso èimmanente a tutta un’epoca e che si fonda su un atteggiamento fondamentaleidentico dello Spirito e non dell’occhio».

Una esigenza scientifica dell’arte contro un formalismo estetizzante emer-geva con forza dagli scritti warburghiani che nel 1923 scriveva: «mi era su-bentrato un vero e proprio disgusto per la storia dell’arte estetizzante. La con-siderazione formale dell’immagine, incapace di comprendere la sua necessitàbiologica come prodotto intermedio fra la religione e l’arte mi sembrava con-durre solo ad uno sterile chiacchiericcio». Chiarificatore delle posizioni teori-che di Aby Warburg è il saggio di Edgar Wind, Il concetto di ‘Kulturwissen-schaft’ in Warburg e il suo significato per l’estetica (1931). L’origine dell’in-teresse di Warburg per la nozione di Kulturwissenschaft va ricercata nella let-

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tura degli scritti di Dilthey in particolare sul rapporto fra storia e scienze natu-rali, nel tentativo di ristabilire una connessione fra storia dell’arte e della cultu-ra. «Con ciò – concludeva Wind – lo studio critico delle singole opere d’arte sifonda in una triade indissolubile con la teoria estetica e la ricostruzione dellesituazioni storiche». Proprio con riferimento alle posizioni intellettuali di AbyWarburg, il quale affermava «il buon Dio sta nei dettagli», lo studio più com-plesso e completo delle opere d’arte diventa il punto di convergenza fra i di-versi indirizzi teorici che fino alla metà del secolo avevano messo in irriduci-bile contrapposizione i formalisti e gli storici interessati al contesto in rapportoai contenuti delle opere d’arte, al loro carattere materico, iconografico e mate-riale in particolare a contatto con la storia sociale, l’antropologia e lo studiodei comportamenti e delle mentalità. Così mentre il formalismo estetizzante ditradizione longhiana si connoterà fortemente in termini filologici e documenta-ri, l’innesto su questa stessa tradizione del marxismo e della storia sociale hasviluppato quegli interessi per la scienza della cultura con una attenzione dinuovo alle singole opere d’arte. Scriveva in proposito Giovanni Previtali nel-l’Introduzione all’edizione italiana del 1975 degli Studi di Iconologia di ErwinPanofsky, con un piglio fortemente critico nei riguardi dello storicismo e del-l’iconologia delle forme simboliche dello studioso di Hannover:

Ciò che a Panofsky sfuggiva è che la connessione non può essere cercata fra le “formesimboliche” e le “epoche”o le Weltanschaungen, ma solo fra le opere dell’uomo e l’uo-mo-artista, tra questi e gli altri uomini, fra di loro solidali o contrapposti, risalendo attra-verso di esse e di essi alla differenziata, ma logica e unitariamente comprensibile struttu-ra economica della società divisa in classi. Ma essere convinti di questo implica anche amio modo di vedere, accettare che ogni volta per ogni momento di ogni singola serie, allimite per ogni singolo artista o opera d’arte, i modi di questa connessione vadano ritro-vati in concreto secondo la logica specifica dell’oggetto specifico e che quindi non unteorico o un metodologo ma una folta schiera di storici bene addestrati è destinata a ri-mettere anche la storia dell’arte sui suoi piedi.

È proprio quest’ultima affermazione che tradisce ancora una volta lamatrice crociana dell’autonomia artistica, come già emergeva in quella “sto-ria speciale dell’arte” che anche nel saggio di Argan rivelava un legame conla tradizione che non permetteva un reale approccio scientifico all’arte resoinvece possibile attraverso quell’«ampliamento dei confini disciplinari» cheAby Warburg auspicava nella sua relazione sugli affreschi di Schifanoia, te-nutasi a Roma al congresso di internazionale di storia dell’arte nel 1912.

Ciò non toglie che l’Italia da un punto di vista editoriale è stata fra gli an-ni Sessanta e gli anni Ottanta il paese più aperto alla traduzione dei testi di tra-dizione anglosassone con particolare attenzione per gli autori che avevano

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fatto capo all’Istituto Warburg. In rapporto a questa tradizione di studi, unnuovo interesse per la forma negli ultimi decenni, che nei paesi anglosassoni silegava alle ricerche antropologiche e a quella straordinaria formulazione diGeorge Kubler di “forma del tempo”, ma anche alla sperimentazione artisticacontemporanea, ha trovato il proprio mentore in Aby Warburg attraverso ilquale l’antropologia, la religione, la biologia, la semantica e la semiotica rien-trano non come indirizzi metodologici autonomi ma come aspetti che concorro-no allo studio e alla comprensione delle opere d’arte nelle loro proprietà espres-sive e nel loro spessore storico-documentario e culturale in termini scientificilontani da un’accezione idealistica di Weltanschaung. Tale posizione presuppo-ne una nuova concezione del visivo dell’immagine in ordine ad una attenta escientifica osservazione, non estranea ai parametri percettivi, al fine di evincereil senso (Sinn), il significato dell’immagine, dell’opera d’arte nel contesto.

Si spiega così l’interesse da parte della cultura italiana per le ricerche diFrancis Haskell, molto vicino all’Italia e agli studiosi italiani nel potenziareil settore degli studi sul collezionismo fino alla rivisitazione del concetto digusto e del rapporto fra immagini e documenti nel suo ultimo libro Le imma-gini della storia. L’arte e l’interpretazione del passato (1993), che anche neltitolo sembra rieccheggiare gli studi di Fritz Saxl pubblicati da Laterza nel1965 con il titolo La storia delle immagini.

A questa rielaborazione negli anni Ottanta delle fonti teoriche e storio-grafiche di inizio secolo non è estraneo l’interesse, di nuovo editoriale, inItalia per le opere di Meyer Schapiro, grazie alla molteplicità dei suoi in-dirizzi di ricerca: dall’iconografia alla psicanalisi alla semiotica alla iconolo-gia, ma anche di autori contemporanei come Victor Stoichita, il quale, for-matosi alla scuola di Cesare Brandi all’Università di Roma “La Sapienza”,ha saputo brillantemente coniugare l’insegnamento strutturalista dell’“astan-za” brandiana con le ricerche legate alla storia e alla scienza della cultura dimarca anglosassone e alle più recenti tendenze teoriche sul visivo che Stoi-chita lega tanto alla struttura materiale dell’opera che alla sua visibilità, conun’apertura interdisciplinare che va oltre l’opera, per approdare all’immagi-ne e al contesto storico ed antropologico.

Su questo percorso hanno segnato pietre miliari le ricerche di MichaelBaxandall che nel passaggio dall’Europa all’America ha spostato il suo inte-resse dal contesto sociale all’oggetto materiale, alle strutture linguistiche e fi-nalmente a quelle visive, attivando un processo di percezione scientifica attra-verso un’ottica storica ed intellettuale; nel corso di tale processo di ricerca lostudioso ha sentito la necessità di formulare degli assunti teorici che si possonoriassumere in quella critica inferenziale che riconduce all’opera, in quanto fe-

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nomeno storico- artistico, l’indagine scientifica in rapporto ad un contesto sto-rico e culturale in un procedimento intertestuale che pone su uno stesso pianogli oggetti e i fenomeni. In un’ottica non troppo diversa si possono considerarele ricerche di Hans Belting, originariamente bizantinista, attento alle immagininel loro rapporto col pubblico a livello percettivo, storico e funzionale, in par-ticolare per aver sottolineato nel suo saggio del 1986 che la fine dell’arte va in-tesa come libertà dagli schemi e dai metodi astratti calati sulle opere, affer-mando la priorità dell’opera al di là di una concezione storico-evolutiva che in-tende la storia come progresso, con riferimento in primis alla strutturazione“evoluzionistica-biologica” delle Vite di Giorgio Vasari.

È in questa direzione che Gombrich nel suo saggio La storia dell’arte ele scienze sociali scriveva:

Ahimé appartengo alla scuola di pensiero che non crede abbia molto senso chiedersi sesia più essenziale l’ordito della trama o viceversa. La trama corrisponde qui ai fili dellatradizione, a ciò che i linguisti ora definiscono studio diacronico […]. L’esistenza diqueste tradizioni non può esimerci dallo studiare quella che si dice la struttura sincronicadi uno stile, cioè il modo in cui il progetto ha risposto alle sollecitazioni del momento.Entrambi questi elementi sono attinenti alla nostra descrizione, ma né l’uno né l’altrocostituiscono una spiegazione nel senso in cui la scienza usa questo termine.

Se gli studi della seconda metà del Novecento hanno più solidamente raf-forzato la ricerca storica e documentaria attraverso scientifiche indagini d’ar-chivio, condotte in maniera sistematica dai giovani studiosi che possono at-tingere a fondi inesplorati e a mezzi informatici di catalogazione straordinari, lostudio dei contesti e delle modalità di produzione è divenuto sempre più puntua-le. Alla luce dell’insegnamento di grandi maestri come Michael Baxandall l’at-tenzione è sempre più rivolta alla genesi dell’opera d’arte nelle cause chel’hanno prodotta, nell’intenzionalità del suo autore e nelle condizioni storico-culturali specifiche, in un superamento della tradizione della storia sociale del-l’arte, per un attraversamento dei diversi ambiti disciplinari con un’onestà nelvedere e nell’osservare l’opera nella sua struttura di immagine e di manufattoartistico, al fine di coglierne le strutture linguistiche significanti e narrative, maanche la storia materiale. L’attuale prospettiva degli studi storico-artistici nelladirezione delle scienze ed in particolare delle neuroscienze risponde oggi, so-prattutto negli Stati Uniti, ad un’esigenza analitica che, nel denunciare i limitidella ricerca storica, attualmente messa in discussione, con la presa di coscien-za di una prospettiva critica attuale, ha scardinato un impianto storico-evoluti-vo per introdurre un’impostazione anacronistica nello studio delle opere d’arteche si lega alla sperimentazione artistica contemporanea nella ricerca dellestrutture primarie originarie, attraverso un progressivo avvicinamento dellosguardo alla superficie, ai confini dell’immagine, al fine di entrare nel proces-

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so creativo. Questo processo, nel rispondere alla naturale mobilità del pensieronon-sequenziale, comporta il superamento di un evoluzionismo biologico, dicodificazioni accademiche e di scuole, oltre sovrastrutture sia storiche chemetodologiche e consente di accedere ad una nuova libertà di ricerca fra pas-sato e futuro per un approccio al presente onestamente scientifico, che mi pia-ce ricondurre a quella straordinaria definizione di Aby Warburg di «iconologiadell’intervallo», con la quale lo studioso intendeva quello spazio del pensiero(Zwischenraum) che rivendica all’uomo e dunque alle scienze umane la capa-cità di orientarsi nel mondo.

Raccogliendo questa eredità il rapporto fra discipline umanistiche e scien-ze umane si apre alla ricerca interdisciplinare con un forte interesse per gli og-getti, anche in quanto fenomeni, per la loro memoria nello spazio e nel tempo.

In questa direzione Gombrich concludeva il suo saggio sul rapporto fradiscipline umanistiche e scienze:

Sono infatti sicuro che sia razionale per un uomo riconoscere i valori umani e parlarne intermini umani. Quali che ne siano le vere origini, l’espressione “discipline umanistiche”può servire a ricordarci che stiamo solo impoverendo noi stessi quando parliamo di uominicome se fossero insetti o computer. Eppure è proprio quanto siamo costretti a fare se rinun-ciamo all’unico metro che abbiamo, il metro della nostra civiltà convalidata dalla nostraesperienza.

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BibliografiaG. C. Argan, La storia dell’arte, in «Storia dell’arte», 1 (1969), pp. 5-36M. Baxandall, Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Einaudi,

Torino 2000M. Baxandall, Ombre e lumi, Einaudi, Torino 2003H. Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, Einaudi, Torino 1990—, Bild-Anthropologie:Entwürfe für eine Bildwissenschaft, München 2001—, The invisible Masterpiece, Reaktion Book, London 2001—, Art History after Modernism, The University of Chicago, London 2003E. Castelnuovo, Arte, industria, Rivoluzioni. Temi di Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino

1985E. H. Gombrich, Arte e progresso(1971), Editori Laterza, Roma-Bari 2002—, La Storia dell’arte e le Scienze sociali, in Ideali e idoli. I valori nella storia dell’arte, Ei-

naudi, Torino 1986F. Haskell, Le immagini della storia. L’arte e l’interpretazione del passato, Einaudi, Torino

1997G. Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, (1972), Einaudi, To-

rino 1976E. Panofsky, Il significato nelle arti visive (1955), Einaudi, Torino 1962 e 1996F. Saxl, La Storia delle immagini (1952), Laterza, Bari 1982V. Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte, artefici ed artifici nella pittura europea, Il Sag-

giatore, Milano 1998—, Cieli in cornice. Mistica e pittura nel secolo d’oro dell’arte spagnola, Meltemi, Roma

2002V. Stoichita – A. M. Coderch, L’ultimo Carnevale. Goya, De Sade e il mondo alla rovescia, Il

Saggiatore, Milano 2002A. Warburg, Opere I. La Rinascita del paganesimo antico e altri scritti, a cura di M. Ghe-

lardi, Aragno, Torino 2004E. Wind, Il concetto di Kulturwissenschaft in Warburg e il suo significato per l’estetica (ed.

or. 1931), in L’Eloquenza dei simboli, Adelphi, Milano 1992, pp. 37-56

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Più che il bilancio di un’esperienza tuttora in corso, o una profezia sulfuturo, con queste brevi note vorrei proporre una riflessione sul progetto cheha guidato il settore degli studi storico-artistici nel dare vita alla nuova Fa-coltà di Scienze Umanistiche, sottolineandone tuttavia la coincidenza vinco-lante con l’avvio della più generale riforma universitaria, proprio dallo stessoanno accademico 2001-2002.

Quali sono dunque le potenzialità, i caratteri, quali i limiti di un sistemaformativo che, nel nostro campo specifico, non è certo cambiato d’improv-viso, ma dopo un sofferto processo di trasformazione durato almeno un quar-to di secolo? A conclusione del percorso, ci sorprendiamo a misurare quantoci siamo allontanati dal modello tradizionale di un settore dell’istruzioneuniversitaria che avevamo condiviso, pur con pesi diversi, con la maggiorparte dei paesi di cultura occidentale per tutto il XX secolo, mentre nellascuola secondaria italiana gli indirizzi della riforma Gentile, sia pure in parteridisegnati fin dagli anni settanta dalle sperimentazioni con e per i beni cul-turali, continuavano ad assicurare una presenza dell’insegnamento di storiad’arte che era rimasta unica in Europa, fino alla recentissima previsione diun ingresso nella scuola francese.

Si può forse ricordare che a lanciare l’allarme su una mutazione gene-tica in corso per le discipline storico-artistiche era stato, tra gli altri, versola metà degli anni Ottanta sir Ernst Gombrich, in particolare in occasionedi un intervento alla North of England Education Conference, poi pubbli-cato in edizione italiana nella raccolta degli scritti Argomenti del nostrotempo. Cultura e arte nel XX secolo. Il titolo di quel contributo era inequi-vocabile: Discipline umanistiche sotto assedio. La crisi delle università.Tra i saperi minacciati, secondo l’analisi sviluppata da Gombrich, natural-mente anche la storia dell’arte, per un privilegio di appartenenza conqui-stato tra Otto e Novecento con il passaggio dell’insegnamento dalle ac-

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cademie di belle arti, quindi da un contesto prevalentemente operativo, al-l’istituzione universitaria dell’area umanistica.

Non si può certo sospettare il grande studioso di pregiudizi nei confrontidelle discipline scientifiche, di cui si era alimentata tanta parte della sua ri-cerca intellettuale (basti pensare, tra le altre, all’incidenza della psicologiadella percezione sul suo metodo di lavoro). Eppure, egli denunciava uno sta-to di cose che vedeva riflesso nelle linee direttrici della riforma universitaria,proprio allora sul punto di essere approvata dal governo conservatore inglesee caratterizzata, a suo giudizio, dall’erosione drastica dell’area della storia edelle humanae litterae a favore di insegnamenti scientifici e tecnologici im-mediatamente finalizzati all’esercizio delle professioni.

Sono gli stessi temi che hanno animato, in questi anni, la discussione in-torno alle riforme anche in Italia: la riforma della tutela – che comprende an-che la questione delle scuole d’alta qualificazione per il restauro –, la riformadella scuola, la riforma delle accademie di belle arti e quella universitaria.Quest’ultima è ormai avviata, con il suo portato radicale d’innovazioni cheancora stentiamo a misurare nei loro effetti, primo tra i quali la prevista pro-fessionalizzazione precoce, fin dalla laurea triennale.

Un dato è certo comunque: la figura tradizionale dello storico dell’arte,la sua formazione radicata nella cultura umanistica escono dal lungo e con-trastato processo di cambiamento, iniziato in Italia alla fine degli anni Set-tanta con l’attivazione sperimentale del primo corso di laurea in conservazio-ne dei beni culturali, a Udine, completamente trasformate. Con la riformauniversitaria varata attraverso i decreti del 1999 e 2000, la scelta dell’aspi-rante storico d’arte è ormai soltanto tra due percorsi, l’uno – prefigurato daiDAMS – per un tecnico dell’immagine nei network della comunicazione, in-clusa quella turistica, l’altro, precocemente interdisciplinare per l’introdu-zione, sin dal primo triennio, di insegnamenti come la chimica e la fisica ap-plicate ai beni culturali accanto alle discipline caratterizzanti di impianto sto-rico e metodologico, indirizzato piuttosto a formare un tecnico della conser-vazione, capace di porre domande sensate e di ricevere risposte intelligibili,ci si augura, dai suoi diretti interlocutori: il restauratore e il conservationscientist. Anche per queste due figure, che hanno assunto un rilievo emer-gente nelle strategie conservative non soltanto italiane, nelle facoltà scienti-fiche o in corsi di laurea interfacoltà da progettare nell’ambito del nuovo re-gime di autonomia delle sedi, d’altra parte, sono previsti inediti e, per moltiversi, problematici curricula, che dovrebbero intrecciare ai prevalenti saperitecnico-scientifici anche quelli storico-umanistici.

A fronte di innovazioni istituzionali di questa portata, che non si esita a

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proporre-imporre agli iscritti sempre più numerosi e impreparati di un’uni-versità di massa, con il miraggio di sbocchi immediati nel mondo del lavoro(non verificati né tanto meno concertati), qual è stato e qual è l’impegno diriflessione critica? E tentando di seguire, ad esempio, il filo rosso della pro-duzione editoriale di manuali per l’insegnamento della storia dell’arte, è pos-sibile cogliere in questi strumenti didattici così tipicamente italiani, che ri-mangono tuttora senza alternative per l’insegnamento e per l’apprendimentodello sviluppo storico delle arti in un arco temporale di duemila anni, un ri-flesso dei mutamenti che hanno investito in misura sempre più evidente la fi-gura sociale dello storico dell’arte, prima ancora di un modo di pensare la di-sciplina storico-artistica all’interno del nostro sistema culturale?

Se mi è stato sollecitato un tentativo di lettura di quanto è accaduto du-rante gli ultimi anni, nella continuità solo apparente di funzioni e di ruoli, difatto sempre meno rilevanti socialmente, sempre più indefiniti e contesi dauna folla di apprendisti e lavoratori precari – e questo è vero per l’insegnantedi storia dell’arte nei diversi ordini e gradi della scuola come per il ricercato-re e docente universitario, per il conservatore di museo e il funzionario dellatutela, per il conoscitore libero professionista e lo specialista della comuni-cazione (dai quotidiani ai palinsesti televisivi), – vorrei provare a fissare nel-la complessità del flusso continuo degli avvenimenti pochi punti di snodo,che, ai miei occhi, hanno concorso a cambiare progressivamente il nostroquadro di riferimento, fino agli esiti di oggi.

Per introdurre un primo tema inviterei a tornare ad un classico della di-sciplina, a quella Storia dell’arte italiana di Giulio Carlo Argan, docente perlunghi anni alla “Sapienza”, in cui si è voluto riconoscere, sull’evidenza del-la data d’edizione del primo volume (aprile 1968) e dello straordinario suc-cesso editoriale degli anni seguenti, il “manuale del Sessantotto”. A ben ve-dere l’opera dello studioso, nel suo saldo impianto idealistico e formalisticoe nonostante tutti gli intelligenti aggiornamenti metodologici, concludeva illungo ciclo disciplinare fondato da Adolfo Venturi all’inizio del secolo, piùdi quanto non ne aprisse uno nuovo. E il drammatico editoriale del primonumero di «Storia dell’Arte», la rivista fondata dallo stesso Argan l’annosuccessivo, proprio mentre riverificava tutte le ragioni teoriche per la costru-zione di una storia dell’arte come storia speciale – «la storia dell’arte è infattila sola, tra le storie speciali, che si faccia in presenza degli eventi e quindinon debba evocarli né ricostruirli né narrarli, ma soltanto interpretarli […]Quale che sia la sua antichità, l’opera d’arte si dà sempre come qualcosa cheaccade nel presente. Quelli che chiamiamo giudizi, positivi o negativi chesiano, in realtà sono atti di scelta, prese di posizione» –, si configurava come

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un estremo, nobile e argomentato plaidoyer pour l’histoire (per una storiaintesa come critica storica, come rappresentazione giudicante, come pensieroe come azione, con le parole di Benedetto Croce), in una congiuntura politi-ca e culturale che andava abbattendo i confini disciplinari tradizionali e so-stituendo i modelli di riferimento.

In questo senso appare molto significativo che proprio al termine dellostesso 1969, sulla spinta egualitaria del movimento degli studenti, si liberaliz-zassero per decreto gli accessi all’università, con la conseguente liberalizza-zione anche dei piani di studio. Il sistema consolidato dei valori culturali na-zionali, affidato fino ad allora alla rigida gerarchia tra le discipline delle sin-gole facoltà, di colpo veniva scardinato in nome del principio di libertà di au-todeterminazione dello studente nella scelta del proprio curriculum formativo.Nel precedente sistema, giudicato ormai ideologicamente obsoleto, anche lastoria dell’arte aveva rivendicato e ottenuto da tempo il proprio diritto di pre-senza; e il suo prestigio-potere di materia fondamentale nelle Facoltà di Lette-re italiane era stato sancito formalmente dalla riforma degli ordinamenti didat-tici nel 1938, poi ribadito nel 1956. Come per tutte le altre materie fondamen-tali, equiparate ormai alle complementari e divenute facoltative – si pensi allaletteratura latina, o alla storia della filosofia, alla pedagogia –, la liberalizza-zione avrebbe segnato di fatto la sua progressiva, inarrestabile espulsione dallescelte di percorso della maggior parte degli studenti delle facoltà umanistiche,come dire della maggioranza dei futuri insegnanti di lettere. Si apriva invece,ma con efficacia reale soltanto nelle poche sedi dove la tradizione degli studiera più fortemente radicata, la possibilità di seguire indirizzi coerentementeorientati alla tesi in storia dell’arte per una laurea che restava comunque inlettere e filosofia. L’era dei saperi specialistici separati e del parallelo declinodella cultura umanistica generale, fino al rischio di estinzione di non poche di-scipline prima considerate essenziali, era cominciata.

Ma, come Argan avvertiva lucidamente nel suo editoriale in difesa dellastoria «in un frangente di gravissima crisi», diventava urgente anche ridefini-re l’identità epistemologica della disciplina, le sue tecniche conoscitive e di-dattiche, la sua organizzazione e i suoi strumenti, i suoi fini. Le sue note po-lemiche tuttavia si appuntavano precisamente su quelle aperture metodologi-che che, nei fatti, avrebbero guidato il rinnovamento e gli sviluppi più avan-zati della ricerca negli anni successivi: la catalogazione, promossa dagli or-gani di tutela e da chi lavorava alla costruzione dei corpora, in quanto pro-cedimento che sostituiva ai nessi significanti delle serie storiche quelli ana-logici (cioè tipologici, iconografici, tecnici) delle classi di oggetti artistici,determinandone la destoricizzazione; e, su un altro piano, la scienza dell’ar-

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te, troppo esposta agli scambi interdisciplinari e al dialogo strettissimo con lenuove tecnologie, inevitabilmente «controllate dal potere».

Una risposta a quei timori sarebbe venuta dall’impressionante susseguirsidi progetti e di esperienze-pilota in diverse aree della penisola, basati propriosu un uso inedito e straordinariamente innovativo dello strumento catalografi-co, sul modello degli studi di geografia linguistica. Una fervida e generosa sta-gione si apriva con lo sperimentalismo pionieristico delle campagne di rileva-mento dei beni artistici e culturali dell’Appennino, promosse dalla Soprinten-denza alle Gallerie di Bologna per iniziativa di Andrea Emiliani tra il 1968 e il1972, e illustrate dalle fotografie contestuali di Paolo Monti nei puntuali rap-porti e diari di lavoro, per toccare infine il momento più alto della riflessioneteorico-metodologica nei convegni organizzati dalla Scuola Normale Superio-re di Pisa: la First international Conference on automatical Processing of ArtHistory Data and Documents, nel 1978, e i memorabili incontri al Palazzone diCortona, a partire dal 1979, sui problemi dei lessici tecnici e storici delle arti edei mestieri in rapporto alla normalizzazione dei tracciati informatici, conve-gni non a caso progettati da Paola Barocchi in collaborazione con diverse isti-tuzioni, tra le quali l’Accademia della Crusca e l’appena riformato IstitutoCentrale del Catalogo e della Documentazione.

Può risultare arduo capire oggi il successo e la forza trainante di quelleiniziative – l’operazione “giacimenti culturali” lanciata dal governo con lafinanziaria del 1986, ne avrebbe oscurato e stravolto il senso –, se non sitiene conto della pregnanza e della centralità che la nozione di territorio,nel quadro più ampio delle problematiche ecologiche e ambientali, andavaintanto assumendo sul piano politico e su quello del dibattito culturale. Nel1970 erano state istituite le Regioni e i trasferimenti e le deleghe in materiadi pianificazione urbanistica e di amministrazione del patrimonio artisticolocale, all’interno del quale i beni demo-etno-antropologici acquistavanoun rilievo senza precedenti in quanto “beni culturali” allo stesso titolo, ave-vano acceso le speranze in un possibile cambiamento delle politiche di tu-tela, finalmente avviata al decentramento e affidata alla gestione democra-tica delle comunità locali con l’obiettivo di una conservazione globale delpatrimonio. Il 28 agosto 1974 nasceva l’Istituto per i beni artistici, culturalie naturali della Regione Emilia-Romagna, a pochi mesi dalla promulgazio-ne della prima legge fortemente propulsiva per il recupero e la valorizza-zione dei centri storici della stessa regione, ispirata da Pierluigi Cervellati.Alla direzione dell’Istituto tra 1975 e 1976, veniva designato un geografo:Lucio Gambi, autore del volume einaudiano Una geografia per la storia(1973), vero e proprio viatico per il rinnovamento di una disciplina depres-

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sa, ma insieme linfa sotterranea e vitale dei programmi di indagine cono-scitiva, di salvaguardia e sviluppo del territorio della regione, nei quali imetodi di catalogazione sul campo, integrata e “globale”, assumevano unruolo strategico.

Non diverse erano le procedure e le finalità che guidavano Bruno To-scano e i suoi collaboratori alla realizzazione di una collana di Manuali per ilterritorio in Umbria (i primi due volumi di quelle “guide interdisciplinari peri residenti” sarebbero stati pubblicati rispettivamente nel 1977 e 1978). E perl’Umbria Italo Insolera aveva coordinato le ricerche di censimento territo-riale alla base del Progetto pilota per la conservazione e vitalizzazione deicentri storici della dorsale appenninica, promosso daL CRURES nel 1976,mentre Giovanni Urbani, alla guida dell’Istituo Centrale per il Restauro, ela-borava il suo rivoluzionario programma di manutenzione preventiva e con-servazione programmata a scala comprensoriale.

In Piemonte, le campagne di censimento dei beni culturali in aree perife-riche e centri minori, e alcune mostre di rottura, promosse con ritmo incal-zante dalla Soprintendenza torinese per i beni artistici e storici tra 1976 e il1980, con l’attiva partecipazione di forze intellettuali, associazioni e istitu-zioni locali, si proponevano come «scommessa conoscitiva nei confronti diun passato che scompare con una precipitosità troppo provocatoria per nonessere anche sospetta». Ma all’urgenza della salvaguardia univano l’obiet-tivo senza precedenti di un’azione educativa che riconosceva nella scuolal’interlocutore privilegiato.

A ben vedere, il dialogo sperimentale che iniziava allora tra organi ditutela e istituzioni scolastiche (dalle elementari alla media unica recente-mente riformata, fino ai licei e agli istituti di istruzione professionale) fu unodei fattori dinamici della trasformazione che investì anche l’insegnamentodella storia dell’arte nella scuola, invitando al superamento di una didatticanozionistica, storicistica e formalistica appoggiata ai manuali vecchi e nuovi.La scuola si apriva alla conoscenza dell’ambiente e trovava nei valori natu-ralistici, antropologici, archeologici, storici oltre che artistici, del territoriocircostante il proprio oggetto di studio, da indagare in modo non più setto-riale ma multidisciplinare. Per la prima volta, d’altra parte, dopo le pocheiniziative pionieristiche di didattica museale condotte nel secondo dopoguer-ra, il mondo della tutela italiana, affiancato dagli enti locali, rivendicava an-che a sé il diritto-dovere di contribuire all’educazione civica dei cittadini,rendendoli partecipi delle responsabilità della salvaguardia del patrimonio(come la Commissione d’indagine Franceschini aveva indicato fin dal 1967,con la Raccomandazione IX del rapporto conclusivo).

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Si inscriveva in quella tendenza, tra molte altre, l’iniziativa dei «Settoriscuola-museo-ambiente», sostenuta dall’ANISA (Associazione NazionaleInsegnanti di Storia dell’Arte) e da Italia Nostra. Ma altri esempi si possonoricordare, come l’esperimento di una scuola media di campagna coinvolta daAntonio Paolucci, allora giovane ispettore responsabile dell’ufficio catalogoagli Uffizi, in un progetto di censimento territoriale, poi commentato in unpiccolo libro di ragionamento sul metodo: I ragazzi di Montespertoli (1975).

Persino un terremoto devastante come quello del Friuli, tra maggio esettembre del 1976, pur nel caotico contrapporsi di competenze centrali edecentrate, poté trasformarsi in un banco di prova per le tecniche di rileva-mento dei beni culturali danneggiati, per coraggiosi e inediti interventi cono-scitivi e di recupero, in vista di un processo di ricostruzione dei centri storiciatterrati che non ne cancellasse l’identità culturale e sociale. Il primo corsodi laurea in conservazione dei beni culturali, non lo si dimentichi, fu istituitoa Udine nel cuore di quegli avvenimenti, insieme alla prima università dellapiccola patria friulana.

Che l’impresa editoriale più ambiziosa e qualificata di quegli anni, laStoria dell’arte italiana coordinata da Giovanni Previtali e Federico Zeri perEinaudi, proponesse un rilancio degli studi storico-artistici che, in prospet-tiva, ci appare oggi in larga parte conseguente agli stessi orientamenti eistanze di cambiamento, non può stupire. Basti pensare al significato para-digmatico che assumeva, nel primo volume apparso nel 1979, il saggio diEnrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg, Centro e periferia: un invito a rileg-gere la stratificata geografia artistica italiana attraverso il filtro delle Vitevasariane e della Storia pittorica dell’abate Lanzi, ma a confronto con og-gettive griglie territoriali e secondo un modello dinamico di relazioni traopere, artisti, committenti, contesti culturali e sociali. Sulla stessa lunghezzad’onda gli Studi sul paesaggio di Giovanni Romano (1978), una ricerca percampioni sul rapporto tra evidenza fisica del paesaggio e la sua storia perimmagini (inclusa quella cartografica). Se si deve segnalare un manuale perla scuola – ma sarebbero stati soprattutto molti corsi universitari ad adot-tarlo – che provò a tradurre molte di quelle novità di contenuto e di metodoin uno strumento didattico aggiornato, non si può che indicare la Storia del-l’arte in Italia pubblicata da Loescher nel 1984. Nella prima edizione (poimodificata perché in contrasto con i programmi ministeriali e “disorien-tante” per gli insegnanti), Eleonora Bairati e Anna Finocchi avevano spintola coerenza all’impostazione territoriale fino ad escludere dalla trattazionel’arte greca. Ma accanto ai lineamenti di storia offrivano efficaci materialidi studio, che invitavano a rompere le gerarchie tradizionali dei generi, de-

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gli artisti e delle scuole per imparare a scoprire i valori dei contesti culturaliesperibili e a portata di sguardo.

Intanto il modello formativo che si andava sempre più affermando nel-l’università, con il moltiplicarsi dei corsi di laurea in conservazione dei beniculturali all’interno delle Facoltà di Lettere e di ex-magistero, fino all’azzardo(o alle estreme conseguenze?) della trasformazione, in alcuni casi, in facoltàautonome – era orientato in modo sempre più evidente verso altre alleanze di-sciplinari, individuate di preferenza nei settori scientifici e tecnologici legati invaria misura ai complessi sviluppi del restauro. Sarebbe troppo lungo esami-narne qui le ragioni anche di ordine teorico e concettuale, che pure ci furono,prima di ogni forma di strumentalizzazione e fraintendimento. E basterà ricor-dare, sul piano internazionale la serrata discussione che seguì all’intervento diHenri Zerner, The Crisis in the Discipline (dalle pagine di «Art Journal», 4[1982]); in Italia invece, l’impegno di Corrado Maltese, le sue inchieste di na-tura filosofica e scientifica sulla genesi dell’opera d’arte, sulla certificazionedella sua autografia, sulla materia e sulle tecniche costitutive in particolare deimanufatti pittorici, sulle cause del degrado e le procedure del recupero, mentrenon cessava di interrogarsi sulla natura dei processi di comunicazione visiva,dalla produzione del messaggio oggettuale alla sua ricezione, fino al funzio-namento delle Ultraimmagini elettroniche e numeriche.

Il I Congresso Nazionale di Storia dell’Arte, convocato da lui nel 1978al C.N.R, aveva messo la nostra comunità scientifica di fronte all’urgenza diuna messa in questione non soltanto dei codici deontologici, ma dello stessostatuto disciplinare della storia dell’arte, per la ricerca, per l’insegnamento,per tutte le pratiche fattuali della conservazione.

È invece nello scenario di oggi, abbozzato da riforme istituzionali di cuinon riusciamo a prevedere la tenuta, che dobbiamo intervenire. La vecchia lau-rea quadriennale in lettere con tesi in storia dell’arie è stata sostituita dall’indi-rizzo storico-artistico di una laurea triennale in «Scienze dei beni culturali acui può seguire una laurea specialistica biennale in «Storia dell’arte». Dopoaverle inizialmente abolite, sembra si sia capito che scuole di alta qualificazio-ne di un terzo livello formativo (che costituiscono peraltro una peculiare tradi-zione italiana da oltre un secolo), siano indispensabili alla preparazione davve-ro specialistica dei quadri direttivi di tutti i settori della tutela. E una commis-sione mista MIUR- MBAC (il che costituisce una grande novità e dovrebbe fi-nalmente garantire la fattibilità di progetti comuni) ha lavorato a definirne gliordinamenti didattici, dopo il quinquennio della laurea specialistica.

In questo panorama non c’è dubbio che l’ambito più denso di incogniterimanga quello della formazione iniziale dei futuri insegnanti di storia del-

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Quale Storia dell’arte?

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l’arte, nell’incertezza attuale sul grado di presenza della disciplina nellascuola riformata e sulla stessa sopravvivenza delle SSIS (scuole di specializ-zazione per l’insegnamento secondario), istituite soltanto nel 1998 e per orasolo parzialmente attivate a scala regionale.

Ma gli interrogativi riguardano prima ancora la specificità dell’insegna-mento della storia dell’arte, le metodologie didattiche (finora territorio diser-tato dalla ricerca), il rapporto con le altre discipline nell’approccio alla com-plessità del patrimonio culturale, infine lo statuto di una disciplina che, dal-l’elaborazione dei modelli di Vasari e di Lanzi, si vuole storica: ma storiaspeciale, in quanto tale fondata sulla filologia attributiva, o storia totale, co-me suggeriva Enrico Castelnuovo nei suoi ben noti contributi su una possi-bile storia sociale dell’arte?

A ben vedere, è a queste due diverse istanze che si è voluto dare rispostanel disegnare per la Facoltà di Scienze Umanistiche il progetto dei nuoviprofili richiesti dalla riforma universitaria nell’ambito della laurea triennalein Scienze storico-artistiche (Classe 13 L) e della laurea specialistica in Sto-ria dell’arte (Classe 95 LS), spostando specialmente l’asse formativo dal“sapere” al “saper fare”, dalle tradizionali tecniche conoscitive alle più ag-giornate tecniche professionali. Da un lato, nei percorsi dei cinque curriculaprevisti – in Storia dell’arte medievale, Storia dell’arte moderna, Storia del-l’arte contemporanea, in Storia e valorizzazione del museo e del territorio einfine per Curatore di eventi artistici e culturali –, si è rafforzata trasversal-mente l’area delle metodologie, con la scienza delle fonti, cioè la Letteraturaartistica e la Storia della Critica d’arte, integrate dall’Estetica. Altrettantotrasversalmente, si è insistito sull’intreccio delle discipline di impianto stori-co con quelle più legate alla tutela e conservazione, dalla Legislazione deibeni storico-artistici alla Storia delle tecniche artistiche e alla Storia e teoriadel restauro, con il supporto della Chimica dei materiali e della Diagnosticaartistica. Ben differenziate invece, se non addirittura contrapposte, le opzionidi fondo sottese ai cinque indirizzi curriculari: strettamente disciplinari, fin daltriennio, quelli riservati a ciascuna delle tre fasce cronologiche della produzio-ne e della storiografia artistica; programmaticamente professionalizzante quel-lo destinato alla formazione del curatore di eventi contemporanei; al contrario,rispondente a un approccio globale al patrimonio artistico nelle sue sedimenta-zioni contestuali e nei luoghi della sua conoscenza e fruizione – il museo, ilterritorio – il percorso indirizzato alla storia e valorizzazione dei beni storico-artistici, con una centralità inedita affidata a discipline come Museologia e Di-dattica del museo e del territorio. Le esperienze di tirocinio condotte finora inconvenzione con il Polo museale romano, ma soprattutto con vari musei locali

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del Lazio, disegnando una rete di rapporti molto vitale, che arricchirà in pro-spettiva le istituzioni e le comunità in cui operano, sembrano confermare lepotenzialità innovative di questo indirizzo coraggiosamente multidisciplina-re.

Nota bibliografica

Questo contributo riprende, integrandolo e modificandolo, il mio saggio Attualità e futu-ro dell’insegnamento della Storia dell’arte. Una riflessione tra orientamenti metodologicidella ricerca e riforme istituzionali, in «Ricerche di Storia dell’arte», 79 (2003), pp. 87-92.

Mi limito a segnalare in questa nota alcuni testi di riferimento per il dibattito sulla for-mazione dell’area storico-artistica all’interno delle recenti riforme istituzionali. In particolareArteinformazione. L’identità italiana per l’Europa, atti del Forum (Roma, Complesso Monu-mentale del San Michele , 11-12 maggio 2000), a cura di L. Branchesi, E. Crispolti, M. DalaiEmiliani, Roma 2001, con ampia appendice legislativa e normativa su scuola, università, ac-cademie di belle arti, tutela e restauro. Ancora, Le Scuole di Specializzazione nel settore deibeni culturali tra storia e progetto, atti del Convegno (Roma, Università “La Sapienza”, Odeiondel Museo dell’arte classica, 9-10 ottobre 1997), a cura di M. Dalai Emiliani, Roma 1998;University Postgraduate Curricula for Conservation Scientists, atti del Seminario Internazio-nale (Bologna, 26-27 novembre 1999), ICCROM, Roma 2000; CONBEFOR Conservatori-restauratori di beni culturali in Europa: Centri ed Istituti di formazione. Ricerca comparata,Associazione Giovanni Secco Suardo, Lurano (BG) 2000; Verso un sistema italiano dei servi-zi educativi per il museo e il territorio, Materiali di lavoro della Commissione ministeriale, acura di M. Dalai Emiliani, Roma 1999; Formazione professionale e prospettive occupazionaliin Atti del Primo Seminario Nazionale sulla Catalogazione (Roma, Complesso Monumentaledel San Michele, 24-26 novembre 1999), ICCD, Roma 2000; La formazione per la tutela deibeni culturali, atti del Convegno Internazionale di studi promosso dal Consiglio Nazionaleper i Beni Culturali e Ambientali e patrocinato dalla CRUI (Roma, Accademia Nazionale deiLincei, 25-26 maggio 2000), a cura di W.Vaccaro, in «Annali dell’Associazione RanuccioBianchi Bandinelli», 10 (2001); Storico dell’arte: formazione e professioni. Scuola, Univer-sità, tutela e mondo del lavoro, Introduzione di Giuseppe Chiarante, in «Annali dell’Associa-zione Ranuccio Bianchi Bandinelli», 16 (2005).

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Tra i quadri che Pietro Barcellona1 dipinge, c’è il quadro di un gatto, cheio chiamo “il gatto di Isidore”, perché proprio in questi giorni sto rileggendoil mitico Blade Runner di Philip Dick insieme agli affascinanti scritti Le pas-sioni negate. Globalismo e diritti umani e La strategia dell’anima di Bar-cellona stesso che prima di tutto è filosofo del diritto, e da filosofo del dirittosi è fatto artista (vedremo se e perché).

Il gatto in Blade Runner è un gatto che lo handicappato mentale (tale nelsistema mercenaristico in cui vive, dove viene detto “cervello di gallina”) dinome John Isidore va a ritirare con la sua traballante astronave da lavorovolando di tetto in tetto, per condurlo alla clinica per animali sia vivi sia ro-botizzati in cui lavora. Non mi dilungo: certo è che è stato ad un certo puntoautomatico e poi sempre più sorprendente passare e giocare da un libroall’altro, da Dick a Barcellona.

La descrizione del tentativo di interpretazione di Isidore se il gatto ran-tolante consegnatogli fosse veramente un gatto robot (come aveva dettopiangente la padrona) o un gatto vero, il suo fermarsi a un certo punto deltragitto – in una stazioncina spaziale – per tentare di ricaricare le batterie delpresunto gatto robot, il suo palparne accuratamente prima il dorso tra i pelimorbidi poi il ventre onde scoprirvi la borchia di accesso, il suo agitarsi peril persistere del rantolo quasi vero di dolore della bestia, il non trovare laborchia, il ripartire col gatto sull’astronave ed il suo sollievo quando il gattosmette ogni segno di vita e di rantolare, l’arrivo al negozio di riparazionegatti e la scoperta da parte del capo che il gatto era effettivamente vero, l’ob-bligo subito dopo dato al timido “cervello di gallina” Isidore di avvertire la

1. Pietro Barcellona, è filosofo del diritto e dipinge. Ma i suoi scritti sono borderline(come la nostra critica d’arte). Attraversa i confini tra filosofia, economia politica e diritto,parla della possibilità del privato di istituire uno spazio pubblico: sembra che parli della con-dizione e del ruolo dell’arte contemporanea a venire, che nel suo farsi si allei a una futuraumanistica critica.

Simonetta Lux

Il gatto di Isidore: lo stato delle coseprima del rilancio di una scienza umanistica

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padrona, lo scoprire che la padrona sapeva benissimo che era vero e che tut-tavia accettava una sostituzione con un nuovo gatto, anche robotizzato, te-nendo però il fatto nascosto al marito che adorava tanto il gatto da non toc-carlo mai(!): tutto questo – pagina per pagina – mi appariva l’equivalenteletterario del sottile ed irrisolubile interrogarsi di Pietro Barcellona nei suoiscritti «su ciò che stiamo sperimentando in questa fase che chiamiamo dellaglobalizzazione».

Nulla lì manca di quella fenomenologia che Barcellona analizza cosìbene: negazione degli affetti, singolarizzazione dell’individuo ed occulta-mento della sofferenza, manipolazione tecnologica del dolore, della vita edella morte, impercepibilità dunque dell’uomo come essere concreto, comecorpo/bestia, progetto progressivo affidato alla manipolazione degli affetti ealla manipolazione del reale (divieto di interferire nella sfera altrui, monetiz-zazione dello scambio e dei processi di socializzazione, clonarizzazione).

Ma il gatto di Pietro Barcellona non è il gatto di Isidore (o almeno luinon vorrebbe che lo fosse).

Se l’arte – procedimento concettuale e non artigianale – è oggi ormail’evento sintetico e simbolico di una percezione/azione sul reale; se l’arte èproduzione (con mezzi e media indifferentemente scelti) del fenomeno attra-verso il procedimento costruttivo delle inseparabili nostre facoltà immagina-tiva e percettiva; se l’arte è tutto questo, l’arte di Barcellona non cominciacon la pittura, ma con la filosofia del diritto, nel momento in cui individuacome nuovo ordine (implicato nella mobilitazione globale non basata suirapporti tra stati nazionali) l’ordine del cosmopolitismo giuridico.

È l’indicazione di questo nuovo ordine – che Barcellona condivide conaltri saggisti contemporanei, da Galli alla Spinelli, a Castoriadis – a renderepossibile la conoscenza della nostra condizione nell’epoca della globalizza-zione, cioè il realizzarsi di quella «estrema singolarizzazione, dove l’auto-rappresentazione che corrisponde al globale è il singolare».

Dove individuale è sostituito da singolare, gruppo da singole unità se-parate.

È la fine di ogni mediazione giuridico/politica (l’universalismo giuridi-co impone di difendere gli individui dallo Stato e dai governi che minaccia-no i loro diritti) è l’immediatezza delle mediazioni universali (mediazionicioè che sono senza riferimento a culture, appartenenze, patrie, particolarità:è – temiamo col Barcellona de Le passioni negate – fine del politico, è finedel sociale).

«L’universale-singolare non passa attraverso mediazioni», scrive Bar-cellona, «se non quella “diretta” della riconducibilità all’unico parametrodella merce e del denaro o all’astrazione del diritto cosmopolita».

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Il gatto di Isidore

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E non a caso siamo al centro del dibattito sui “diritti umani” e sul “nuo-vo governo mondiale”.

È il pieno affermarsi del dispositivo della modernità, è la sua estenua-zione, è la potenza dissolutiva integrale di ogni vincolo/limite alla libertàdell’individuo.

È la corrispettiva caduta di regole della socialità e dello scambio.Nella pittura tutto ciò appare come teatralizzazione di pezzi di codici

preesistenti della creazione di immagine: fotografia, still da video, immaginipubblicitarie, creazione attraverso procedure classiche e scelte cromatichesingolaristiche, espressionistiche dissonanti.

Le icone della sua pittura sono figure dell’ipermodernità, concetto chePietro Barcellona avanza, intendendo, il riproporsi del «nucleo profondo deldispositivo della modernità nella sua versione a-spaziale e a-temporale».

Uomini e donne freddamente desideranti, non denotati psicologicamente,incomunicanti, non infelici, interni di bar, caffè e strade di notte, prostitute.

Bellezze giovani, forme araldiche e poco corporee, accoppiamenti giu-diziosi, direbbe Manganelli, splendore pittorico della solitudine. Dunqueun’arte concettuale e corporea nello stesso tempo, che sarebbe tuttavia im-possibile senza la sua nascosta nostalgia di quell’eccesso del desiderio, dallaconnotazione erotico/ideologica.

Molla dell’immaginazione filosofica.

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Studi storici

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Come le lontane province dei grandi imperi, la storia contemporanea èzona liminale, dagli incerti confini, senza accertata sovranità. A lungo le èstata negata la piena dignità disciplinare, trattandosi di età non conchiusa,soggetta alle passioni dell’epoca, non percorribile con la serena gravezzadell’erudizione. Per parecchio tempo la storia recente è stata di pertinenzadella “storia dei partiti”, dizione volutamente riduttiva, e volta a consegnarele vicende contemporanee alla loro politicità. La preclusione è poi caduta,ma il contagio dell’attualità si è ripresentato quando, imposto per decretonelle scuole lo studio del Novecento, è stato proposto che almeno ci si fer-masse a qualche decennio addietro. Prudenza goffa, perché è il presente inquanto tale ad essere fuori della storia, quali che ne siano le coordinate cro-nologiche. È questo il rovescio del celebre aforisma crociano, che il sensocomune ha largamente acquisito: «il bisogno pratico, che è nel fondo di ognigiudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contempora-nea” perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fattiche vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situa-zione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni»1.

Ogni storia, sia pur remotissima, è dunque contemporanea. Al tempo pre-sente non si addebiti perciò la contemporaneità; gli si addebiti semmai di esse-re la negazione della storia. Il tempo presente è infatti politica e letteratura, so-ciologia e antropologia e linguistica. È insomma la Babele dei linguaggi.

Cominciamo col ricordare che le discipline storiche avrebbero l’ambi-zione di organizzare l’intero corso dell’esperienza umana entro il quadrantedella vicenda europea moderna. Come accade con la rosa dei venti, che evo-cando la provenienza dei venti che colpiscono l’isola di Candia nomina gre-cale, maestrale, libeccio e scirocco per poi riprodurre la medesima dizione in

1. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari 1938.

Raffaele Romanelli

Quale storia contemporanea, oggi?

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ogni parte del globo, fosse anche nell’oceano Pacifico, dove non v’ha Greciané Roma, né Libia né Siria, così succede alle nostre ripartizioni disciplinari,che disegnano una architettura semplice e solida, pensata nel cuore d’Europadurante il secolo XV e da lì fatta universale. Fu allora che l’umanesimo si di-chiarò moderno ricollegandosi all’“antico”, all’età classica, e chiamò evomedio, il lungo, lunghissimo spazio che stava “in mezzo” tra l’età classica ela modernità. Da allora siamo moderni perché ci pensiamo classici, laici erazionali, illuminati e aperti al progresso dell’umanità in ogni campo del sa-pere. Solo così si può avere un atteggiamento storico verso il passato. Unatteggiamento, come è ben noto, che conferma la vocazione teleologica dellenostre matrici cristiane anche se il nostro finalismo ora è immanente, legatoallo spirito critico e laico. Sarà così che ogni parte del globo potrà avere unasua modernità, e magari anche un medioevo.

Ben più difficile sarà trovare una comune età contemporanea. L’ogginon è un’epoca storica, è un punto di vista. Si può dire che si tratta di unpunto di vista che non tanto “sente le vibrazioni” di epoche lontane, comedice storicisticamente Croce, ma che di volta in volta stabilisce le sue pre-messe e i suoi antecedenti più o meno lontano nel tempo e a seconda dellenecessità del discorso. Di contro a un unico sapere storico storicisticamenteorientato – una serie di dati già organizzati nella realtà che gli studenti do-vrebbero conoscere – ci si presenta un archivio inerte, un database silenzio-so, da riattivare a seconda delle necessità. Così pare del resto che funzioni lamemoria dell’uomo, e senz’altro così funziona la memoria elettronica, dove idati non hanno un ordine proprio. Quando Osama Bin Laden lancia proclamicontro l’Europa parla ad un tempo delle crociate, di Israele, o del crollo del-l’Impero Ottomano. Può esserci utile attrezzarci per ridare un ordine nostroai dati così riattivati. I sorprendenti cortocircuiti cronologici di cui sono ca-paci gli studenti di oggi mi sembrano rivelatori di linguaggi diversi dai miei,che sulle prime non riesco a decifrare. Probabilmente si tratta soltanto dimateriali malriattivati. Lo studente intuisce che quei materiali devono avereun ordine, ma non ne conosce la chiave e non ne sa proporre una sua propria.

Abbiamo detto che nello schema disciplinare che struttura la storia (an-tica, medievale, moderna), la storia contemporanea non ha spazi propri. Sia-mo abituati alle date convenzionali che concludono un’epoca e ne apronoun’altra (la caduta dell’impero romano, la scoperta dell’America, la presadella Bastiglia …) ma non ne abbiamo una per indicare il passaggio dall’etàmoderna alla contemporanea. Nei programmi universitari la storia contem-poranea può essere fatta iniziare nel 1848 o nel 1870, ma anche nel 1989 op-pure nel 1789. In altri sistemi accademici questa varietà di tempi e di temi ha

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Quale storia contemporanea, oggi?

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suggerito denominazioni e distinzioni diverse dalle nostre. Nella cultura an-glosassone ad esempio ciò che noi chiamiamo storia contemporanea è detto“Modern history”, distinguendola da un periodo precedente, protomoderno(la disciplina, corrispondente alla nostra storia moderna, è detta infatti “EarlyModern history”), mentre in molti paesi le questioni più attuali e recenti ap-partengono alla “storia del tempo presente” (“Histoire du temps présent”,“Zeitgeschiche”, o anche “Current affairs”). In questi casi, le vicende con-temporanee si distendono tra il tempo lungo della modernità otto-novecen-tesca e il tempo breve dell’attualità (anch’essa peraltro non ben definita).

Il sistema italiano non ha operato simili partizioni. Dapprima negandoautonomia alla storia contemporanea ha sofferto di una sorta di bulimia cur-riculare, semplicemente affermando che la storia moderna “comprende” lacontemporanea, e mentre ha mantenuto uno spazio speciale per la vicendadella formazione nazionale con le cattedre di Storia del Risorgimento, ha poilasciato che si accrescesse il numero degli insegnamenti, delle ricerche, del-l’interesse d’opinione per le vicende novecentesche senza porsi grandi pro-blemi di metodo. Le grosse questioni storiografiche dell’età contemporanea(che riguardano il nazionalismo, i cicli rivoluzionari, i regimi di massa, iconflitti mondiali, la diffusione della democrazia, e così via) si sono imposteall’attenzione direttamente, nel pragmatismo della ricerca e semmai per im-pulso delle ideologie, ma fuori dalla griglia storicistica di cui si diceva. Forseanche per questo si assiste oggi a un forte ritorno della storia politica, degliavvenimenti e delle singole personalità politiche (del resto, dopo la cadutadel muro e l’11 settembre è difficile pensare alla storia nei termini delle lun-ghe durate…).

Tanta vivacità e tanto dinamismo peraltro non risolvono il problemadella collocazione della contemporaneità nel lungo ciclo della storia, e dun-que della storicità del contemporaneo, o, se si preferisce, il problema del suorapporto con il moderno. Legare le due epoche in un unico ciclo “moderno”è senz’altro corretto, ma apre più questioni di quante non ne risolva. Primaancora di definire il contemporaneo occorrerebbe infatti limitare il moderno,indicarne gli sbocchi. Ma è proprio questo il punto: il concetto di modernonon contiene le sue conclusioni (anche il marxismo, la più storicistica dellefilosofie della storia, che ha tanto lavorato sulla transizione dal feudalesimoal capitalismo, ha poi molto balbettato o taciuto sulla transizione successiva,dal capitalismo al socialismo). Non a caso l’aggettivo “moderno” è adopratonell’uso comune non certo per indicare i secoli che vanno dal 1500 al 1900,bensì per indicare una attualità protesa al futuro, non dominata dal passato ecapace di innovazione. Siamo allora tentati di dire che il moderno, lungi

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dallo sfociare nel contemporaneo semmai lascia il posto al “postmoderno”2.Un concetto, quello di postmoderno, che ha già un pedigree robusto e unaforte densità di significati, ma che per ciò che qui ci interessa vale a evocareuna decostruzione/frantumazione del moderno e dei suoi soggetti non preci-samente orientata e che pur rimanendo all’interno al moderno, lo fa implode-re e lo cristallizza, sottraendolo alla storia. Ed è questo, a nostro avviso, lospazio controverso della storia contemporanea su cui più conviene riflettere.

Ma possiamo capire cosa si è venuto frantumando nell’età contempora-nea solo se delineiamo ciò che era stato precedentemente costruito. La storiadell’Europa moderna – dunque la storia moderna tout court –, è fatta di unaserie possente di “manufatti”: lo stato, la nazione e la moderna politica, l’in-dividuo, la società civile e il mercato, l’industria e l’intervento massiccio sul-l’ambiente naturale, e così via. Si tratta, per inciso, degli oggetti privilegiatidella disciplina storica e delle sue specializzazioni come la storia politica, lastoria economica, la storia della cultura, dell’arte, della società e così via, vi-cende interdipendenti e tra loro inestricabili. La storia parla ad esempio dellaformazione di vaste unità territoriali rette da poteri monocratici sempre piùconcentrati che sotto il nome di “stati” pretendono il monopolio della forzalegittima, mantengono l’ordine al loro interno e muovono guerra all’esterno,dominano la tecnologia e l’economia, controllano la circolazione dei beni enon riconoscono altri poteri sovraordinati. Sono questi “stati” che sanzio-nando diritti e imponendo doveri costituiscono e garantiscono l’individuo,facendone il protagonista della modernità, l’attore che muove i mercati, leistituzioni politiche e le sfere della società civile e della pubblica opinione,tutte attività che grazie all’enorme aumento della produzione e della ricchez-za conseguente a innovazioni, progressi tecnici e conquiste territoriali acqui-stano una magnitudo che non ha precedenti. Della costruzione del poteremoderno-europeo sono poi elementi essenziali non solo quegli istituti che lorafforzano e lo elevano a potenza, ma anche quelli che gli conferiscono dut-tilità e capacità d’agire limitandone l’assolutezza: l’autonomia del corpo po-litico dalla società, la distinzione tra religione e potere mondano, nonché ilcomplesso meccanismo che regge un ordinamento costituzionale, con la rap-presentanza politica, la separazione dei poteri, lo stato di diritto, e così via.Così perfezionato, questo stato si fa nazionale, cioè si radica e si diffonde inun costrutto nuovo, la “nazione”, vasta comunità territoriale che tende acomporsi omogenea e a personificarsi. L’articolo 3 della dichiarazione dei

2. Così ad esempio conclude Paolo Viola in L’Europa moderna. Storia di una identità,Torino 2004.

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diritti del 1789 sancisce che «il principio di ogni sovranità risiede essenzial-mente nella nazione». Solo così gli stati possono decretare la leva in massa,costruire eserciti, occupare continenti interi con le loro armate, le loro bandie-re, le loro burocrazie e le loro ideologie. Non c’è dubbio: dalla sintesi dei duelemmi (stato e nazione), dalla sinergia dei due processi storici corrispondentinasce la più dirompente innovazione che caratterizza l’età contemporanea.

La storia contemporanea è tutto ciò, e non può essere scissa dalla storiamoderna. Tutte le vicende delle quali abbiamo ora suggerito l’intreccio (indi-viduo, stato, nazione, mercato…) hanno radici nel XV e nel XVI secolo e daallora non hanno mai cessato di avere forza espansiva, anche se in particolarenel corso dell’Ottocento si sono concentrate tante e tali innovazioni e si sonosusseguite con una tale velocità e con una tale apparente necessità da rendereogni generazione profondamente diversa dalla precedente, e quasi disponen-dole lungo una linea evolutiva. Inevitabilmente, l’idea di modernità ha assuntol’aspetto del progresso e in queste forme ha incarnato la storia stessa.

È però un fatto che durante questo percorso, mentre i processi di esten-sione dello stato e dei diritti, del mercato e della produzione industriale han-no continuato ad accentuarsi e a crescere esponenzialmente, così conferman-do il senso dell’intero processo storico, già alla fine dell’Ottocento questatrionfale affermazione è entrata in sofferenza, ha rivelato aporie e contraddi-zioni insanabili che quasi hanno minacciato di negare, con il progresso, lastoria stessa. Si pensi alla costituzione del soggetto individuo nella costitu-zione borghese, l’individuo eguale ai suoi pari, con i suoi diritti, la sua li-bertà, la sua sovranità, la sua indipendenza e la sua creatività. Nessuno ne-gherebbe che egli/ella sia tutt’ora il protagonista della modernità. E tuttaviail soggetto ha da tempo perso la sua unità, la sua identità (ovvero il suo esse-re eguale-universale, unico e identico) travolto da identità molteplici (che ègià un bell’ossimoro) o collettive – i gruppi, le classi, le nazioni, la “massa”,la “folla” –, oppure scomposto nei suoi profili interiori, psichici, biologici edi genere. La distinzione di genere, che ha relativizzato il soggetto borghesemaschio adulto, riarticola a sua volta la storia degli ordinamenti giuridici esociali mentre egualmente le libertà e le cittadinanze tornano a stratificarsi.Dal soggetto collettivo folla al protagonismo dell’embrione o dell’inconscio,i nuovi profili dell’identità storica sono a tutti gli effetti prodotti della mo-dernità e allo stesso tempo la sua massima negazione. È una contraddizioneche rischia di rendere incomprensibili gli eventi, così come fuori dalla ragio-ne storica può apparire ed è apparso l’olocausto.

Percorsi non molto diversi hanno segnato le vicende di altri soggetti del-la modernità, come il mercato, lo stato, o la nazione. Nella prima metà del

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Novecento, mentre la produzione industriale e i mercati non cessavano diespandersi, l’antropologia economica ha inteso opporre al concetto razionaledi economia e di mercato un concetto sostanziale lavorando sui circuiti eco-nomici concreti, relativizzando le nozioni di “economia di mercato”, di “so-cietà di mercato” e di “comportamento razionale”. Razionalità economica,sistemi capitalistici e circuiti mercantili sono stati rimodellati in mille formedall’analisi storica. Sorte non diversa ha subito l’organizzazione che sotto ilnome di “stato” esercita il massimo dominio sui processi sociali, economici,tecnici e militari. Il suo consolidamento non ha avuto soste nell’età contem-poranea, e la forza che si era delineata nel corso dell’Ottocento è nulla difronte alla potenza acquistata nel secolo successivo attraverso due guerremondiali, i grandi totalitarismi del Novecento e fino ad oggi. Anche in que-sto caso, i totalitarismi della prima metà del Novecento segnano un acme fi-no ad allora impensabile e che peraltro la seconda metà del secolo ha mutatodi segno, ma non ridimensionato. Pur entro il ciclo “deregulativo” che stia-mo vivendo, lo stato si conferma strumento irrinunciabile dell’azione collet-tiva, sia che si tratti di vincere una guerra, sia che si vogliano garantire dirittio contrastare gli effetti di una catastrofe naturale. In particolare dopo l’11settembre, un nuovo state-building si impone: «per le singole società comeper la comunità globale l’evanescenza dello stato prelude non all’utopia maal disastro»3.

E tuttavia già da un secolo si è cominciato a parlare di “crisi dello sta-to”, sottolineando il supermento del monismo che caratterizzava il modellodi riferimento (e per certi versi almeno anche la concreta realtà istituzionale):i pubblici poteri appaiono non più gerarchicamente ordinati, ma dispersi inuna pluralità di ordinamenti concorrenti, a base territoriale – super o substa-tuale – di natura diversa, che variamente attraversa le opposizioni classichedi pubblico e privato, di stato e società civile4. È da notare che una similefrantumazione del monismo statuale (o quantomeno della ordinata raziona-lità degli ordinamenti pubblici), già in atto agli inizi del XX secolo e accen-tuata in mille forme dalla diffusione dell’intervento pubblico in guerra e inpace e dall’emergenza di poteri variamente “corporati” si intreccia – in ma-niere tutte da analizzare – con le tendenze intrinseche ai regimi forti del No-vecento, la cui «feroce volontà totalitaria»5 finisce presto col rivelare una

3. F. Fukuyama, State building. Governance and World Order in the 21st Century,Ithaka, N.Y., 2004.

4. Cfr. S. Cassese, La crisi dello stato, Roma-Bari 2002.5. Così Benito Mussolini nel 1925, citato in A. Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa

1905-1956, Bologna, 2001, p. 53.

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caotica e disordinata molteplicità di poteri che a volte ne mitiga, ma a voltene accentua la ferocia6. Come che sia, nella successiva età democratica la di-slocazione mista dell’attività di governo è di tale ampiezza da far addiritturaadottare un termine nuovo, il termine governance, inteso proprio a confonde-re le norme, le politiche e le pratiche dell’attività di governo e la sua naturapubblico/privata e che espressamente assume questa indeterminatezza comevalore e come indirizzo, per cui governance è in sostanza good governance.Nel luglio 2001 la commissione europea ha approvato un apposito Librobianco che così chiarisce: «Il concetto di governance designa le norme, iprocessi e i comportamenti che influiscono sul modo in cui le competenzesono esercitate a livello europeo, soprattutto con riferimento ai principi diapertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza»7.

Sono forse sufficienti questi cenni per capire in che senso le trasforma-zioni dell’ultimo secolo hanno messo in discussione i capisaldi attorno aiquali si è costituita la vicenda moderna e quindi hanno costituito anche unapotente revisione delle premesse concettuali della disciplina. Non a caso losguardo alle vicende del passato è divenuto multidisciplinare. È difficile faredella storia senza sperimentare un continuo meticciato (o intedisciplinarità)con altre discipline (dalla sociologia all’antropologia, dalla critica letterariaalla linguistica alla psicologia all’analisi di genere) che non tanto si occupa-no di altri oggetti quanto hanno approcci diversi, rispondono ad altri criterinormativi (ad esempio creano le loro fonti, come succede in sociologia conle inchieste, o nell’uso delle fonti orali, oppure prediligono le tassonomie ole analisi testuali ai contesti e agli accadimenti, come accade di preferenzaall’analisi storica) e quindi sovvertono la gerarchia delle rilevanze.

La storia contemporanea è dunque il luogo di sofferenza, di esplosione edi implosione del moderno. In questo senso ne abbiamo parlato come di unalontana provincia dell’impero, una zona liminale, abbiamo detto, dagli incer-ti confini e senza accertata sovranità. Dicevamo anche che, appartenendo perinterno al moderno, la storia contemporanea è stata a volte semplicementeinglobata nella storia moderna anche come disciplina. Ma in un mondo senzacentro le province di confine, i luoghi meticci, acquistano una inattesa cen-tralità. La nostra impressione è che un rapporto si sia invertito, e che le ten-sioni dell’età contemporanea abbiano finito coll’investire gli studi di storia

6. Ma sulla complessità del termine “totalitarismo” vd. S. Forti, Il totalitarismo, Roma-Bari 2001; E. Traverso, Il totalitarismo, Milano 2002).

7. Per il testo, i riferimenti, e il primo rapporto 2003-2004 cfr. http://europa.eu.int/comm/governance/index_en.htm [20 giugno 2005].

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moderna, dettandone l’agenda. Se ieri la storia contemporanea – limine quasiinesistente e negato – era una appendice un po’ banale del grande ciclo mo-derno, oggi la storia moderna è divenuta terreno privilegiato di sperimenta-zione al servizio delle inquietudini dell’età contemporanea.

Vediamo dunque per quali vie l’incertezza sulla dinamica attuale dei pro-cessi storici ha portato a riesaminare la veridicità dei concetti-base dell’etàmoderna (stato, mercato…). In particolare, segnaliamo due diversi percorsi diricerca. Alcuni hanno proceduto radicando l’analisi nel vivo dei singoli conte-sti, nei livelli “bassi” della vita collettiva, prestando attenzione alle varie alter-native e configurazioni di casi, per vedere insomma come realmente sono an-date le cose. Altri invece hanno proceduto ipotizzando la artificiosità discorsi-va dei principali lemmi in uso (ma sono davvero esistiti il mercato, lo stato,l’individuo, o la nazione, o non sono piuttosto grandi manufatti retorici?). Inentrambi i casi, viene in sostanza ripercorsa e decostruita la serie di tipi idealiche hanno presieduto alla costruzione del moderno. Si tratta però di due strademolto diverse. La prima, quella che mira a verificare la validità dei percorsi“alti”, risponde alla migliore vocazione della storia economico-sociale e delleistituzioni, la seconda piuttosto alla storia culturale. Così dicendo, emergeràanche a un terzo campo di tensione della ricerca storica. Si è detto che i granditipi in discussione sono costrutti tipicamente europei. La loro revisione inte-ressa dunque principalmente la cultura storica europea, o “occidentale”, madeve molto all’incontro di quella cultura con l’“altro”, un incontro che è di persé un ulteriore e clamoroso aspetto della contemporaneità da considerare comeoggetto di studio e fonte di revisione.

Seguiamo dunque per un breve tratto almeno questi percorsi di ricerca.La definizione di tipi ideali (lo stato, il mercato…) è propria del pensierogiuridico, o sociologico. Gli storici ne hanno sempre fatto uso, anche se avolte – come osservò Max Weber nel 19048 – senza tenere presente che sitratta di tipi ideali, non di realtà storiche. Ora appunto la prima riconsidera-zione che abbiamo elencato prova a verificare in contesti dati, documentialla mano, se beni e prodotti si sono scambiati secondo le “leggi del merca-to”, se i poteri centralizzati dello stato abbiano realmente esercitato un do-minio assoluto, e così via. Come è prevedibile, si scopre che tale mercatoperfetto, o tale stato efficiente e forte, non è dato trovarli, e che la realtà sipresenta piuttosto come una configurazione di casi diversi, come una lungateoria di eccezioni senza regola. Così lavorano gli storici, trafficando attorno

8. M. Weber, L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale,tr. it. in Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1958.

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al difficile nesso tra norma e pratica, tra modelli e dati, e mettendo in discus-sione, assieme ai loro modelli, molte certezze sul carattere normativo dei tipiideali e su ciò che è normale e ciò che è eccezionale, o peculiare. È peraltrodifficile dire, nel caso di una specifica ricerca, se ci si trova di fronte a unaeccezione, oppure alla riprova che ogni norma è una eccezione quando è vi-sta nel suo concreto funzionamento. La questione ha avuto notevole rilievo,anche politico, nella storia del capitalismo e dell’industria, del movimentooperaio, della borghesia, del sistema parlamentare, e così via, e soprattuttodelle loro configurazioni nazionali. Si può dire che la rivoluzione borghesein Italia sia monca, tardiva? La peculiarità dei tedeschi, il Sonderweg, puòaiutare a spiegare il nazismo? Il parlamentarismo nei paesi latini si scostadavvero dalla norma per le sue componenti clientelari, o corrotte? Si può di-re che il liberalismo inglese è la norma e il fascismo l’eccezione? Questioninon da poco, come si vede, che finiscono col restituirci un quadro storicomolto variegato e aperto, e se si preferisce, incerto.

Come in alcuni modelli analitici, nei quali alla linea ascendente si è so-stituito un percorso a zig-zag, o “ramificato”, la ricerca esplora le configura-zioni di casi, le flessibilità e dunque le alternative possibili, le possibili stra-tegie. In questo senso qualcuno ha creduto di vedere nei dati del passato lapossibilità di forme di sviluppo industriale alternative al modello della gran-de industria e della produzione di massa che è storicamente prevalso. Propriol’Italia, con la sua antica borghesia, e poi oggi con la sua piccola e media in-dustria, fornirebbe occasioni a questo ripensamento9. È difficile non pensareche in questi casi sia l’attuale incertezza del futuro a proiettarsi sul passato, arenderlo incerto, riproblematizzando percorsi apparentemente acclarati, a ri-mettere in discussione il senso dello sviluppo. Incidenza politico-ideologicaevidente e dichiarata, a proposito di alterative, è quella del vasto campo dellastoria ambientale/ambientalista, settore storiografico intrinsecamente “anta-gonista”. Comunque sia, la varietà possibile di forme di modernità ha datonuovo impulso a studi su argomenti apparentemente risolti. Come è stato os-servato di recente a proposito degli studi sul Risorgimento e l’unità italiana,«lo Stato nazionale non appare più come un dogma indiscusso di modernità,ed è anzi percepito in misura crescente come una delle forme possibili di or-ganizzazione statuale. Stretto fra processi di globalizzazione e revival di neo-regionalismi di diverso segno, lo Stato nazionale si trova obbligato, in Italiacome altrove, a rimotivare di continuo la sua esistenza, e dunque anche a ri-

9. Ch. F. Sabel, J. Zeitlin, ora in A che servono i padroni?. Le alternative storiche all’in-dustrializzazione, a cura di D. L. Landes, Torino 1987.

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accendere le luci sulle ragioni della sua nascita, della sua fortuna, e delle suericorrenti fragilità»10.

Sono qui rivelatori i concetti di alternativa e di strategia perché rinvia-no ad un tempo ad alternative possibili nel passato – il ricercatore si proponedi capire quali diverse opzioni si presentassero ai protagonisti delle sue storiein un contesto dato, quali fossero i vincoli e quali gli spazi di autonomia,quali le soluzioni possibili non solo individuali ma anche strutturali – e allostesso tempo si riferiscono a strategie e alternative analitiche, che indicanola possibilità di ricerche diversamente orientate e di diverso significatoideale: lo spettro delle ricerche si amplia, lo stato dell’arte si misura in unalunga lista di esplorazioni in campi sempre più variati che poi complessiva-mente alludono alla possibilità di percorsi culturali e politici alternativi. Unmondo privo di percorsi predeterminati è un mondo dagli esiti incerti, ma èanche un mondo di libertà. Non stupirà se questo approccio fa i suoi esperi-menti più appassionati nel clima del Sessantotto, quando tra l’altro vieneavanzata la proposta microanalitica, che ha l’ambizione di scomporre ulte-riormente le categorie “alte” – ancora una volta il mercato, lo stato, la politi-ca – fino a cogliere la disposizione del più gran numero di attori sociali nellereti complesse delle loro relazioni interpersonali. Per questo tipo di studi, chespesso dialoga con l’analisi “densa” dell’antropologia e dei suoi studi di co-munità, la piccola scala non è tanto una opzione ideale (anche se finisce coldiventarlo), quanto una dimensione di ricerca imposta dal metodo introspet-tivo e dalla varietà delle fonti che ci si propone di incrociare.

Proprio la scuola italiana è antesignana degli studi di microstoria, forsegrazie alla vivacità intellettuale della tradizione materialista locale e alla ric-chezza senza pari di un patrimonio archivistico diffuso che il policentrismoistituzionale ha preservato nel corso dei secoli. Accade perciò che gli storicidi questa scuola lavorino molto sui secoli dell’età moderna e sulle comunitàdi antico regime, con strumenti e acribia archivistica ben radicati nella tradi-zione storiografica medievale-modernistica. Ma l’animus, fortemente revi-sionistico, è civilmente impegnato, e dunque spesso dirige la microstoriaverso i grandi temi della contemporaneità – la formazione del mercato e del-l’industria, delle classi o del sistema politico contemporaneo. Accanto all’an-tropologia sociale, viene allora in soccorso la sociologia, o la politologia, espesso la scala d’analisi deve ampliarsi, il contesto diviene meno denso e le

10. S. Soldani Revisioni e rivisitazioni del Risorgimento, panel presentato al convegnoSISSCO, Urbino 20-22 settembre 2001, http://www.sissco.it/attivita/sem-set-2001/program-ma-scientifico.html#revisioni [20 giugno 2005].

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opzioni più selettive (non solo comunità, ma città, quartieri, fabbriche: sistudiano le dinamiche politiche e sociali di grandi città industriali, di interisettori produttivi, o di vasti comuni del Mezzogiorno11. È qui, per inciso, chesi offrono risposte indirette all’interrogativo di cui si parlava sul caratterenormale o eccezionale delle forme politiche clientelari, o fazionali e trasfor-mistiche – lemma tutto italiano, come è noto – che caratterizzerebbero i si-stemi parlamentari “latini”.

Con l’eccezione di quest’ultimo settore di studi – riguardante la micro-politica, che peraltro ha minore originalità metodologica e minor fortuna – larevisione fin qui descritta, per quanto interdisciplinare, ha un forte ancorag-gio materialistico, ed anzi può considerarsi l’estremo approdo al quale giun-ge un paradigma materialistico di matrice latamente marxista. Non a caso inquella stagione non erano lo stato o la nazione a costituire il terreno speri-mentale più avanzato, ma semmai il mercato e la formazione dei gruppi so-ciali, in particolare delle borghesie, e lungo questa via sono proseguite le ri-cerche, con crescente capacità investigativa12.

Del tutto diversa l’altra prospettiva alla quale facevamo riferimento, quel-la che mira non tanto a descrivere l’articolazione effettiva del soggetto, quantoa demistificarne l’originaria costituzione concettuale e retorica. Se il primo ti-po di revisione è l’estremo approdo di una problematica materialistica, comeora si è detto, il secondo riflette la centralità guadagnata da un approccio cultu-ralistico anche sotto l’influenza della cosiddetta “svolta linguistica”.

Ovviamente la storiografia arriva all’appuntamento con il linguistic turngià carica di una esperienza di indagine che, sia pure nel campo di una piùtradizionale storia culturale, aveva sottratto alla mitografia tardottocentesca iprincipali lemmi del discorso che abbiamo sotto gli occhi (lo stato, la nazio-ne, il mercato…), smontandoli e rimontandoli per mostrarne la genesi e lafunzione retorica. Del resto, anche chi mantiene per fermo che lo stato, lungidall’essere un artificio discorsivo, è uno dei protagonisti della gigantescaimpresa che ha rimodellato la società e costruito nazioni, anch’egli sa che diquella impresa è parte integrante la propria legittimazione storica, la costru-zione di una immagine forte e coesa e di una speciale teleologia. A questo

11. Il riferimento è a R. Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e menifattura nelBiellese dell’Ottocento, Torino 1984; M. Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi epercorsi sociali a Torino nel primo novecento, Torino 1987 e G. Gribaudi, A Eboli. Il mondomeridionale in cent’anni di trasformazioni, Venezia 1990.

12. R. Romanelli, Political Debate, Social History, and the Italian Borghesia: Changingperspectives in Historical Research, in «The Journal of Modern History», 63, 4 (1991), pp.717-739.

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compito hanno lavorato gli storici, economisti, giuristi e letterati che lungotutto l’Ottocento hanno dato corpo e messo su robusti piedistalli appunto lanazione, il mercato o lo “stato moderno”. Erano creazioni necessarie a fortiprogetti politico-culturali che infatti si ripresentano con riformulazioni e ri-concettualizzazioni varie nelle più intense fasi progettuali. Di “teorie dellosviluppo” e dei suoi “stadi”, di “nation-building” e di “state-building” nellungo periodo europeo si è ad esempio parlato molto dopo la seconda guerramondiale, in relazione al progetto di espansione dei modelli capitalistici estatal-nazionali a tutta l’area decolonizzata13, quando si affermò anche il con-cetto di “modernizzazione” (da intendersi appunto come il processo di diffu-sione politica della modernità)14.

La storicizzazione dei concetti, la rilettura dei loro processi formativi edella loro reificazione politica alimentano insomma la revisione in atto nellaricerca storica contemporanea, certo ricollegandola a illustri tradizioni diBegriffgeschichte, di storia intellettuale e dei concetti ma dandole una torsio-ne del tutto inedita. Di particolare interesse è a questo proposito la vicendadell’idea di nazione e dei processi di nazionalizzazione a partire da alcunifortunatissimi studi degli anni Ottanta. Sia pure in prospettive diverse, piùantropologica la prima e più storica la seconda, Ernest Gellner15 e Eric Hob-sbawm16 hanno sottolineato il carattere artificiale, costruito, dei fondamentistorico-naturalistici della nazione, a partire dalla comunanza linguistica, edunque la funzione creativa delle élites modernizzanti. Molte lingue e tradi-zioni nazionali e storie patrie, è arrivato a dire Hobsbawm, sono “invenzio-ni”, anche nel senso di deliberata falsificazione. In questa via, che finisce colridicolizzare le retoriche nazionali romantiche, si muoveranno numerosi altriautori17. Benedict Anderson18, a sua volta, ha affermato che i legami naziona-

13. Cfr. , Building states and nations, a cura di S.N. Eisenstadt e S. Rokkan, I, BeverlyHills-London 1973; La formazione degli stati nazionali nell’Europa occidentale, a cura di Ch.Tilly, Bologna 1984 [ed. or. 1975].

14. Cfr. C. Black, La dinamica della modernizzazione. Studio di storia comparata, Mi-lano 1971 [ed. or. 1966]; S. Scamuzzi, Teoria della modernizzazione ed eredità weberiana, inLa storia comparata. Approcci e prospettive, a cura di P. Rossi, Milano 1990.

15. E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma 1985 [ed. or. 1983].16. L’invenzione della tradizione, a cura di E. Hobsbawm e T. Ranger, Torino 1987 [ed.

or. 1983]; E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780, Torino 1991 [ed. or. 1990].17. Ad es. G. Hermet, Nazioni e nazionalismi in Europa, Bologna 1997 [ed. or. 1996] o

A.M. Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Bologna 2001 [ed. or. 1999].Per una sintesi della questione A.D. Smith, Nationalism and Modernism. A Critical survey ofrecent Theories of Nations and Nationalism, London-New York 1998.

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li hanno luogo nell’immaginario, che le nazioni sono esperienze essenzial-mente culturali radicate nei fatti linguistici. È questa la prospettiva analiticache accompagna la svolta linguistica: il fatto discorsivo e immaginario, lungidall’essere un artificio, o un riflesso, è elemento costitutivo dei fatti sociali epolitici, perfino dei legami di classe (è questo lo shock inferto alla storia delmovimento operaio inglese da un linea interpretativa che unisce E.P. Thomp-son19 a G. Steadman Jones20 fino ai numerosi lavori di Patrick Joyce sull’ar-gomento).

Benché gli autori ora citati non se ne occupino espressamente, il casoitaliano sembra prestarsi particolarmente bene a questa riconsiderazione,date le funzioni direttive, “maieutiche”, dello stato liberale e delle sue élitesnel nazionalizzare il paese dopo raggiunta l’unità politica. Se negli anni Cin-quanta e Sessanta gli storici italiani hanno discusso a lungo e vivacementedegli effetti dell’intervento pubblico nell’economia del paese e nella forma-zione di una sua base industriale, ora si interessano maggiormente ai feno-meni di acculturazione. La frase attribuita a Massimo d’Azeglio (con un er-rore filologico, ma con sostanziale verità storica), ovvero che «fatta l’Italiaoccorre[va] fare gli italiani», offre lo spunto a più di un volume che appuntostudia le politiche culturali, scolastiche, celebrative e monumentali d’età li-berale21. Parallelamente a questi studi – ma senza grande interesse reciproconé prestiti metodologici – si svolge nel frattempo una battaglia d’opinioneattorno ai miti e convenzioni storiche fondanti l’identità repubblicana italia-na, e in questa prospettiva di revisione politica sovente si rileggono anche al-cune vicende storiche22. Molto più vicini al nucleo del discorso culturalistasono invece coloro che trovano nei linguaggi, nei richiami letterari e artistici,

18. B. Anderson, Comunità immaginate: origini e diffusione dei nazionalismi, Roma1996 [ed. or. 1983].

19. E.P. Thompson, The Making of the English Working Class, London 1963.20. G. Steadman Jones, Languages of Class: Studies in Working Class History, 1832-

1982, New York 1983.21. U. Levra, Fare gli Italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino 1992;

S. Soldani, G. Turi, Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, I. La nascitadello Stato nazionale; II, Una società di massa, Bologna 1993; cfr. anche B. Tobia, Una pa-tria per gli Italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870-1900), Bari-Roma1991; I. Porciani, La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell’Ita-lia unita, Bologna 1997; M. Isnenghi, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita,Roma-Bari 1996.

22. G. Belardelli, L. Cafagna, E. Galli della Loggia, G. Sabbatucci, Miti e storia dell’Ita-lia unita, Bologna 1999; Le due Nazioni; Legittimazione e delegittimazione nella storia del-l’Italia contemporanea, a cura di L. Di Nucci e E. Galli della Loggia, Bologna 2003.

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nelle retoriche colte, l’elemento costitutivo dell’opinione risorgimentale edella sua concreta capacità di mobilitazione23.

L’11 settembre 2001 un gruppo di militanti islamici al comando di unricco saudita installato in un luogo sconosciuto tra Afganistan e Pakistan hadiretto tre aerei di linea americani contro il Pentagono, la Casa Bianca e ilWorld Trade Center di New York. La guerra che da allora scuote il mondoha modalità, tempi e caratteri del tutto nuovi che hanno accelerato, e forsereindirizzato, le linee di tendenza che fin qui abbiamo creduto di intravederenella storia contemporanea.

In un mondo non più ideologicamente ordinato da una bipolarità preva-lente, dove mille altre bussole e rose dei venti segnano cammini divergenti,locali/globali, nazionali/imperiali, avanzati/arretrati, in un mondo abitato dauna crescente miriade di stati post-nazionali dediti a purificarsi etnicamente,da colossi capitalistico-comunisti come la Cina o da formazioni post-statualiaperte come l’Unione Europea, in questo mondo si profila di colpo uno scon-tro tra due civiltà che certamente competono attorno a risorse e interessi eco-nomici, ma che si definiscono principalmente sul terreno dei valori, dellerappresentazioni, delle fedi religiose.

Da Guantanamo a Bagdad, con prepotente attualità, si combatte attornoai tratti fondanti dell’Occidente moderno, continuamente evocandoli e ne-gandoli, da un parte e dall’altra. Ma le linee dell’attacco alle Torri e del con-trattacco americano collegano direttamente l’Islam mediorientale con gliStati Uniti, senza mediazioni. Lo spostamento del fulcro storico fuori delcontinente europeo, compiutosi con le due guerre mondiali del Novecento, èdefinitivo. L’Europa è perciò ad un tempo il cuore della vicenda e una lonta-na e periferica provincia. L’Europa è il nucleo storico, il fronte secolare del-lo scontro tra Islam e Occidente cristiano che la guerra ha riattivato, ma è al-lo stesso tempo una retrovia semiabbandonata, dove sia Osama Bin Ladenche gli Stati Uniti hanno soltanto basi militari e alleati occasionali, le une egli altri non più essenziali, né tecnologicamente, né finanziariamente, né

23. Principalmente A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità ed ono-re alle origini dell’Italia unita, Torino 2000, ma vedi anche i saggi in Immagini della nazionenell’Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti e R. Bizzochi Roma 2002. Nel 2004 ho poiascoltato con molto gusto per bocca di Lucy Riall una descrizione dell’impresa dei Mille co-me una operazione tanto più efficace e popolare in quanto sapientemente prefigurata da Gari-baldi con cadenze teatrali e letterarie.

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Quale storia contemporanea, oggi?

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ideologicamente. Per la cristianità come per l’Islam, l’Europa è al massimoterra di missione.

Stiamo parlando di Europa, e chi ci legge sa di cosa si tratta, almeno fin-ché non glie lo si chiede con precisione. Lo ha scritto Walter Bagehot a pro-posito dell’idea di nazione, e noi lo possiamo dire oggi parlando dell’Europa.Come accadeva a suo tempo per le nazioni europee, così oggi politici, pub-blicisti e conferenzieri si chiedono fin dove si estenda l’Europa, quali siano isuoi caratteri fondamentali, le matrici e le potenzialità espansive. Così do-mandandosi, e senza mai rispondere, contribuiscono a “inventare” l’oggetto,che probabilmente sta depositando una sua nebulosa presenza nella nostra te-sta. Il discorso di oggi sull’Europa ha infatti molto in comune con quello diieri sulle nazioni. La Comunità europea si è costituita pragmaticamente sulterreno degli accordi economici allorché il potere mondiale si è spostato fuo-ri dai suoi confini continentali. È quindi necessario darle un’anima, costituireun demos, e per farlo si cercano e si immaginano nella storia ascendenzecomuni, comuni fedi e valori politi condivisi. Funziona, quella ricerca, comeutensile retorico, come genere discorsivo che ha la virtù di rendere rassicu-rante la vaghezza del testo. Parlando di Europa si hanno semmai minori cer-tezze normative di quante se ne avessero all’epoca del nation-building, e chine parla tende a concludere che il primato dell’Europa, e la sua stessa iden-tità, consistono proprio nella indeterminatezza dei suoi confini, nella molte-plicità delle sue articolazioni istituzionali, nella pluralità delle culture, nellesue opposizioni e nei conflitti interni che dopo secoli di sangue si sono ri-composti ad unità. Insomma nella sua pacifica inafferrabilità. Di questo ma-teriale è del resto fatta in gran parte anche la costituzione europea votata nel2004, originale costrutto per una entità non statuale, non federale, non terri-toriale. L’Europa, lo si diceva addietro, ha scelto l’ambiguità semantica a ci-fra del suo buon governo, della sua governance.

Ma nell’esaltare la labilità dei suoi confini – le trattative in corso perl’accesso della Turchia mostrano quanto sia arduo distinguere ciò che è e chepuò essere Europa da ciò che non è e non può esserlo – l’Europa deve conti-nuamente rielaborare il suo rapporto con l’altro. Il rapporto tra Europa ed al-tri mondi è un altro dei campi di tensione che agitano la storia contempora-nea, forse il più stimolante. Vi abbiamo accennato. Della spinta all’appro-priazione/evangelizzazione si può dire tutto ciò che abbiamo detto per altrigrandi pilastri della storicità: è elemento costitutivo della modernità che sen-za interrompersi nell’età contemporanea si ripiega però su se stesso, si negaed implode. Questo è stato il colonialismo otto-novecentesco: l’esportazionedei valori universali del moderno e la loro negazione, la costruzione di un

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mondo e il suo doppio. E di questa duplicità sono fatte le culture, le società egli stati nati da e in opposizione al dominio europeo, da una negazione e dauna introiezione, nella più colossale e inesplorata manifestazione di sincreti-smo che la storia abbia conosciuto. Il campo delle indagini e delle riflessioniè sterminato. Un’Europa definitivamente provincializzata è irrinunciabiletermine di paragone e di confronto. «Per fare parte di un corpo parlamentareindiano non è necessario conoscere approfonditamente la storia del “parla-mento”. E tuttavia un libro di testo che volesse spiegare ai bambini indiani lefunzioni del “parlamento” troverebbe impossibile portare a termine il suocompito senza fare riferimento alla storia europea»24.

La “provincializzazione” dell’Europa è anche in questo. L’Europa sem-bra oggi stretta tra la riaffermazione bellicosa dell’occidente cristiano – agitaperò dalle sponde americane – e la deferente manifestazione di una subalter-nità antropologica. Fu Lévi Strauss a parlare di antropologia come simbolodell’espiazione. Ma oggi ci si può domandare se vi sia segnale più clamorosodi rovesciamento antropologico del fatto che le giovani generazioni europeerecano incise nelle carni prima ancora che nell’abbigliamento o nei costumi divita gli ideogrammi di civiltà altre, non conosciute. Le preferenze per il mul-ticulturalismo sono spesso anche molto ideologiche – come mi pare che mostriil modo con cui un illustre antropologo da tempo attento al tema tornasull’argomento dopo l’11 settembre25 –, ma riflettono anche un comparativi-smo alto26. L’11 settembre ha dunque fatto retrocedere ai suoi enunciati prima-ri lo scontro di civiltà e allo stesso tempo ha imposto una attenzione nuova perla varietà dei casi, i meticciati culturali e istituzionali, gli scambi e i prestiti.

24. D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Roma 2004 [ed. or. 2000], p. 16.25. J. Goody, L’Oriente in Occidente. Una riscoperta delle civiltà orientali, Bologna

1999 e Id., Islam ed Europa, Milano 2004.26. Per il tipo di argomenti da noi toccati, si veda il ripensamento di una categoria fon-

damentale del moderno occidente come lo “stato di diritto” alla luce della comparazione in Lostato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa e D. Zolo, Milano 2002.

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È dal 1979, data della Rivoluzione khomeinista in Iran, che l’Islam è alcentro dell’attenzione dei mass-media. L’attacco alle Torri gemelle con i con-seguenti conflitti in Afghanistan e in Iraq, insieme alla “seconda” Intifada inPalestina, ha ulteriormente aumentato la mole di analisi sul tema, radicaliz-zando, nella maggior parte dei casi in senso negativo, il giudizio in proposito.

Lo scopo di queste righe è proporre, soprattutto all’attenzione degli stu-denti, una riflessione sul senso degli studi islamistici oggi in relazione a treordini di problemi. Il primo è metodologico e riguarda la plausibilità o menodi considerare l’islamistica una disciplina a sé, che non rientra necessaria-mente in una delle molte articolazioni della “storia” – economica, sociale,medievale e quant’altro mai. Al fattore distintivo, quello di avere come suooggetto privilegiato di studio e di ricerca l’Islam e le società che ad esso ade-riscono, verrebbe, infatti, attribuita una valenza assolutamente caratteriz-zante e incisiva. Il secondo ordine di problemi è, in apparenza, più banal-mente funzionale e risponde alla domanda, quanto mai lecita, se ci sia, neglistudi islamistici, un aspetto professionalizzante, non appiattito automatica-mente sulle competenze che una qualunque preparazione storica garantisce.Il terzo, infine, difficile da definire, ha una dimensione più intima ed esisten-ziale. Partirei da qui.

Nell’attuale contesto politico e socio-culturale, occuparsi di Islam ha unimpatto cui, almeno a parer mio, è difficile sottrarsi: al coinvolgimento per-sonale, certamente non eccezionale, in cui la visione del mondo dello studio-so si intreccia con il mestiere, si accompagna la scomoda percezione di do-ver rispondere in termini ideologici, oltre che delle proprie idee – cosa scon-tata – dei risultati delle proprie ricerche, anche quando queste non sono innessun modo funzionali a un eventuale impegno politico e ideologico. Lapercezione cui alludo nasce da un atteggiamento diffuso nei confronti degli“islamisti”. Non penso che sia capitato solo a chi scrive di sentirsi chiamato

Biancamaria Scarcia Amoretti

Ripensare gli studi sull’Islam?

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a “rappresentare” l’Islam, senza nessuna buona motivazione se non il fattoche egli non crede che si sia di fronte a uno “scontro di civiltà” o che ci siauna strutturale corrispondenza tra Islam e terrorismo e che, viceversa, egli ri-vendica, non solo in termini di ipotesi, il “fattore Islam”, diversamente co-niugato a seconda del momento storico, come una delle componenti del-l’identità occidentale. Naturalmente una simile chiamata in causa può veniresia da chi condivide la necessità di verificare gli slogans su cui spesso si alli-neano le analisi sull’Islam sia da chi sta sul versante opposto: dove la diffe-renza di atteggiamento si colloca nei risultati auspicati e non nell’approccio.Ho letto recentemente da qualche parte – non ricordo la fonte precisa, manon era una sede accademica – che negli Stati Uniti è in corso una sorta di“processo” alla conduzione degli studi islamistici in ambito universitario: sene rilevava la subalternità attribuita all’abbassamento del livello scientifico,dimostrato, tra l’altro, dalla “simpatia” verso il proprio oggetto di studio.L’osservazione non ha bisogno di una particolare esegesi.

Ora, restando nel contesto italiano che conosco un po’ di più, è abba-stanza vero che, a prescindere dalle appartenenze politiche o ideologiche, glistudiosi che, pur non provenendo dalla medesima “scuola”, hanno seguito uncurriculum studiorum volto a farne degli “islamisti”, condividono un baga-glio di conoscenze tale da determinare un orizzonte comune di valutazione,per esempio sul problema palestinese o sull’inopportunità dell’invasione del-l’Afghanistan e dell’Iraq. Le diversità emergono non tanto nell’analisi deifatti – in quanto adeguatamente indagati – ma eventualmente nella prefigu-razione dei rimedi e nelle attribuzioni di responsabilità della mancata messain atto dei medesimi. Non mi pare cosa di poco conto, se non fosse per la“chiamata in campo” di cui sopra. Tra le molte implicazioni che ciò com-porta, vorrei soffermarmi brevemente su quelle relative all’eventuale aspettoprofessionalizzante degli studi islamistici. È indubbio che servono speciali-sti. Sarei tentata di dire che, se ce ne fossero stati di più e se si fosse realiz-zato tra accademia e società un corretto travaso di sapere, qualche tragediaavrebbe potuto essere, se non evitata, almeno contenuta. È ovvio che ciò nonriguarda solo il rapporto tra “noi” e il mondo musulmano, nonostante questosia attualmente il rapporto che ci tocca più da vicino, che è più conflittuale,che ci chiama in causa e dove i pregiudizi, basati su ignoranza e incompren-sioni reciproche, si traducono in comportamenti e azioni la cui ricaduta èsotto gli occhi di tutti, non solo degli addetti alla politica o all’economia. Mal’anomalia del rapporto di cui è qui questione mi fa auspicare che si manten-ga agli studi islamistici una “identità” distinta, fino a quando lo stato attualedelle cose non muti. La scelta, che va controcorrente rispetto sia alle più mo-

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Ripensare gli studi sull’Islam?

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derne tendenze in fatto di articolazione dei campi del sapere sia ai miei stessiassunti culturali e ideali (questione, certo, meno significativa, ma che deside-ro menzionare) ha un suo prezzo. Distinguere un “settore islamistico” impli-ca accettare l’ambigua etichetta dell’orientalismo che a sua volta comporta,per esempio, essere considerati, da “noi”, probabili conniventi con il “nemi-co” Islam e da “loro” epigoni impenitenti della tradizione coloniale.

Tornerò sul problema, dopo aver cercato di sgombrare il campo da unaltro possibile equivoco. Aver denunciato le carenze nella conoscenza reci-proca e i danni che ne derivano potrebbe far supporre che si perori un impul-so per questi studi strumentale alla situazione attuale, mentre, dal mio puntodi vista almeno, andrebbe evitato il rischio insito nella tentazione di dare vi-sibilità a questi studi con una posta in gioco che sia quella di formare e im-mettere sul mercato “islamisti” funzionali a cavalcare la contingenza neitermini prefigurati dalla chiamata in campo di cui sopra. Detto in altre paro-le, accettare una simile tentazione non solo darebbe ragione alla visione diE. Said nel suo famoso Orientalism (1978) – visione troppo parziale per es-sere accettata senza qualche correttivo – ma snaturerebbe il contributo diquesti studi, riconducendoli a una dimensione “ancillare”, e/o “specialistica”e, dunque elitaria: un’incongruenza e uno spreco culturali, considerate le di-namiche sociali in atto a livello planetario.

Ciò non significa negare che la contingenza apra oggettivamente spazifinora impensati per chi si occupi di Islam, e rinunciare al tentativo di col-marli nel migliore dei modi. Nel contesto italiano, la presenza di musulmanitra noi rende necessarie mediazioni di varia natura, qualunque sia il progettopolitico vincente. Così, magari peccando d’ottimismo, si può ipotizzare che,in tempi ragionevoli, ci si accorga che la mole, relativamente consistente, dimateriali – libri, siti, reportages di ogni genere – che da qualche anno è pre-sente sul mercato italiano è spesso opera di “esperti” accreditati non si sa be-ne secondo quali parametri, e che essa ben poco serve a fornire quell’infor-mazione che può permettere al lettore comune di capire che cosa succede, emunire chi intenda operare e cooperare con una qualche controparte musul-mana di quell’indispensabile bagaglio di nozioni che il suo interlocutore, pri-ma o poi, potrebbe pretendere. Un vuoto oggettivo da colmare qui, con forzenostre e mezzi nostri. Infatti, non basta ricorrere alle traduzioni. È prassi,quest’ultima, di cui non si può che essere soddisfatti, dal momento che sem-bra smentire l’abitudine della nostra editoria di non sentirsi in dovere di pro-porre al pubblico italiano, in tempi accettabili, quanto viene pubblicato al-l’estero e lì fa scuola o accende dibattiti tutt’altro che chiusi nelle stanze del-l’accademia, giustificando la cosa con la mancanza, da noi, di sensibilità dif-

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fusa, dunque di mercato. Bisogna però anche che il saggio, il manuale, l’ope-ra di divulgazione risponda alle esigenze del nostro pubblico, si costruiscasui referenti culturali che la scuola trasmette, faccia appello al nostro vissuto.Un esempio, questo dell’editoria, tra i molti possibili, e neanche particolar-mente significativo.

Ma proviamo a planare un po’ più in alto. Con pochi distinguo, vorreifar mia la frase che apre la presentazione di un libro di Chambers Iain dalsuggestivo titolo, Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente (Roma,2003): «Mentre la modernità è un’epoca segnata dall’umanesimo occidentale– e dunque dall’ideologia del progresso e dell’universalismo, dalla storia chesi accompagna alla ragione – quella attuale è segnata da un postumanesimoche non declama la morte del soggetto, l’avvicendarsi di un’epoca anti-umana o un rassicurante multiculturalismo, ma più radicalmente scardina laposizione egemonica dell’io e interroga la presenza dell’altro in noi».

È un’affermazione che apre un dibattito immenso. L’islamista non puònon sentirsi chiamato in causa, soprattutto se si parte dal presupposto chel’umanesimo occidentale si struttura su una pluralità di componenti, tra cuil’Islam: un Islam, si badi bene, non da relegare nella funzione, svolta nelMedioevo, di tramite con il mondo antico o di esotico incentivo artistico etecnologico, bensì da concepire come elemento fondante nella formazionedell’humus culturale, mediterraneo ed europeo, che darà vita all’umanesimodi cui è questione. Con il che dovremmo tornare al discorso sull’identità oc-cidentale che non è però l’obiettivo di queste righe. Mi limiterò a ricordare, atitolo d’esempio, che l’identità culturale della Germania si è costruita anchesulla persuasione dei suoi intellettuali, tra cui Goethe, che la cultura tedescafosse aperta in maniera disinteressata, almeno in prima battuta, alle culturenon europee, con particolare ma non esclusivo riferimento all’India, tanto davolersi caratterizzare come dotata di una “ricettività universale” che potevain qualche modo controbilanciare l’arretratezza politica ed economica delpaese e destinarlo al ruolo di ponte tra l’Europa moderna e ogni alterità cul-turale, espressa nel tempo e nello spazio1.

Vorrei cogliere qui una sola sollecitazione che mi viene dalla frase ri-portata poco sopra. Essa esprime in sintesi il compito degli studi postcolo-niali cui il libro di Iain è dedicato. Io vorrei spostare l’attenzione sull’avve-

1. Prendo a prestito alcune espressione contenute in un intervento, rimasto purtroppoinedito, del dott. Saverio Marchignoli a un Convegno, tenutosi ad Alessandria d’Egittonell’aprile 2003, sul tema Traces de l’autre. Mythes de l’antiquité et Peuples du Livre dans laconstruction des nations méditerranéennes.

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Ripensare gli studi sull’Islam?

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nuta, o meno, “decolonizzazione” degli studi islamistici, in quanto questionetrasversale a tutte le problematiche cui ho accennato finora, dalle finalità ditali studi all’approccio metodologico e alla loro eventuale/possibile/plausibi-le identità.

È incontestabile che gli studi islamistici nascano con dignità di “discipli-na” in epoca coloniale, ma ciò per ragioni contraddittorie. Da un lato, il mo-mento di modernizzazione dell’Europa fa emergere esigenze di conoscenzasu un mondo verso cui si guarda ormai con superiorità e nei confronti delquale si elabora un progetto destinato a sancire un’incontestata egemonia.Dall’altro lato, i ricercatori del XIX secolo e, ancor più, della prima metà delXX secolo prospettano una specificità degli studi sull’Islam che implica, nelcontempo, una presa di distanza da una loro possibile strumentalizzazioneesclusivamente politica, sulla base di una conclamata “dignità” dell’oggettodi studio, tanto da rifiutare che esso possa essere degnamente esaurito nel-l’ambito sia della “storia delle religioni” sia della “storia” tout court, una sto-ria inevitabilmente e pervicacemente incentrata su una riduttiva accezione di“Occidente”. Su questa ipotesi metodologica si innesta la revisione del sensoda dare a questo tipo di studi.

Prendiamo, come mi sembra doveroso, qualche caso che riguarda la no-stra Università, i cui islamisti hanno aperto in merito una riflessione, conti-nuata nel tempo, e lo hanno fatto con un certo anticipo rispetto ad altre ana-loghe istituzioni europee. Giorgio Levi Della Vida, di ritorno dall’esilio ne-gli Stati Uniti, cui si era volontariamente piegato per sottrarsi all’obbligo digiurare fedeltà al fascismo, è chiamato a coprire la cattedra di Storia e istitu-zioni musulmane. La dicitura non lo convince. Probabilmente, gli ricordatroppo da vicino analoghe diciture di esplicita matrice coloniale. Tra il 1952e il 1954, egli suggerisce di titolare la cattedra Islamistica. Il suo approccio èstorico e filologico insieme. L’interazione tra “storia” e “filologia” costitui-sce, nel suo pensiero, lo zoccolo duro di una “specificità” che si esplica, nonsolo a monte ma anche nei risultati, in una garanzia di obiettività scientificache dovrebbe trovarsi al di sopra e al di fuori delle pur sempre possibili spe-culazioni ideologiche. Quando la cattedra passa ad Alessandro Bausani, lasituazione è cambiata, ma non per questo si sente la necessità di abbandonarela titolatura. Anzi, per dirla con le parole di Bausani, il termine “islamistica”,voluto da Levi Della Vida, presuppone «in primo luogo che il fenomenoIslàm sia qualcosa di autonomo da studiare globalmente nei suoi vari aspettinon solo stricto sensu religiosi ma anche culturali; in secondo luogo implicaanche una globalità sia cronologica (le culture islamiche non solo più antichema anche moderne) sia geografica (non solo Arabia o Persia o Turchia ma

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anche Indonesia e Cina»2. Siamo negli anni Settanta del secolo scorso. I piùclamorosi processi di decolonizzazione riguardanti il mondo musulmano –esemplare quello algerino – possono considerarsi conclusi con la vistosa ec-cezione della questione palestinese e, sull’onda dell’entusiasmo che di lì apoco i fatti provvederanno a spegnere, non pare utopica l’ipotesi che le so-cietà musulmane si avviino a superare in tempi brevi il ritardo socio-econo-mico di cui sono solo parzialmente responsabili, permettendo loro, la cosa,di ripensare in piena autonomia il proprio destino politico. Emblematico inproposito l’entusiasmo di Alessandro Bausani per il Pakistan, che egli ha vi-sto a lungo come un esperimento, forse esportabile, di coniugare Islam e mo-dernità, o meglio di proporre al mondo un esempio di modernità che avesseradici nella visione razionale e scientifica che egli considerava propria del-l’Islam, inteso nella doppia accezione di religione e di cultura3.

La novità della rivisitazione dell’Islamistica anche da parte di Bausaniriguarda l’approccio metodologico. Egli privilegia in maniera inequivocabi-le, e contrariamente alla tradizione fino ad allora più accreditata, la dimen-sione storica su quella filologica. Tuttavia, per lui, ciò non si traduce nellaconfluenza di tale settore di studi nel grande contenitore “storia”, se non sisiano preliminarmente date le premesse per articolare la materia in modosoddisfacente, individuando e differenziando in senso cronologico, geografi-co e tematico, l’immenso campo di indagine sotteso alla parola islamistica.Al di là del discorso accademico, Bausani rileva un aspetto, peraltro condivi-so dalla maggior parte degli islamisti, a motivare la sua posizione: l’assuntodi fondo, secondo il quale il fattore Islam funziona da sovrastruttura omolo-gante nelle società che ad esso fanno riferimento, tanto da incidere sullaformazione delle loro identità, anche moderne, sul piano linguistico4, socialee ovviamente culturale, in senso sia transnazionale sia interclassista.

Ecco la nostra eredità recente, che incide sul piano concettuale, la de-colonizzazione della disciplina appunto, così come su quello metodologico.Quest’ultimo è stato, negli ultimi decenni, rimesso in discussione. Il rapportoquasi dicotomico tra filologia e storia non ha più ragion d’essere, grazie auna rivisitazione sostanziale dell’articolazione del campo dei saperi. Ancor

2. A. Bausani, Cinquant’anni di Islamistica in Gli studi sul Vicino oriente in Italia dal1921 al 1970, II, Roma 1971, p. 1.

3. Cfr. D. Bredi, La visione di Alessandro Bausani del rapporto tra Islam e identitàpakistana, in «Oriente Moderno», XVII (LXXVIII), 3 (1998), pp. 443-452.

4. Sua, infatti, la formulazione del concetto, peraltro anomalo, di “lingue islamiche”, percui cfr. A. Bausani, Le lingue islamiche: interazioni e acculturazioni, in Il mondo islamico trainterazione e acculturazione, a cura di A. Bausani e B. Scarcia Amoretti, Roma 1981, pp. 3-19.

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più incisiva la scelta dell’inter e multidisciplinarità che oggi connota semprepiù gli studi islamistici, soprattutto se intesi nell’onnicomprensiva accezionebausaniana. Al singolo studioso scegliere se “islamista” è l’aggettivo chequalifica il suo essere “sociologo”, “antropologo”, “storico” o, viceversa, se“sociologo” o “antropologo”, “storico” qualifichi il suo essere “islamista”.Certo non è prerogativa che riguardi in esclusiva il nostro settore di studi, mava sottolineato che l’adeguamento è avvenuto in tempi relativamente rapidi.A tanto siamo. Si tratta non solo di prendere la staffetta di chi ci ha prece-duto ma di ripensare l’intera materia in modo tale da operare un ulterioresalto qualitativo, forse doveroso, se non altro perché non possiamo dire cheil momento storico che viviamo ci ha proprio colto di sorpresa.

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Studi storico-religiosi

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Questo contributo nasce da una significativa serie di “occasionalità”: il co-stituirsi di una nuova Facoltà umanistica, la nascita di una rivista che si apreagli studenti e il ripensamento di un metodo di ricerca (il comparativismo stori-co) nato di fatto all’università “La Sapienza”. Quanto al metodo suddetto, risul-ta essere – come vedremo – uno strumento di lettura delle attuali emergenze in-terculturali (ispirate dai contrapposti integralismi ideologico-confessionali).

Introduzione al concetto di religione

Quali sono stati i presupposti ideologici che – tra XIX e XX secolo –hanno ispirato in Occidente gli studiosi delle varie religioni?

Partiremo da questo quesito sia perché proprio nella seconda metà del-l’Ottocento nascono ufficialmente in Europa le discipline etno-storico-reli-giose, sia perché quei presupposti ideologici sono ancora presenti nel comu-ne sentire dei non “specialisti”.

La ricerca ottocentesca delle origini della Civiltà (e dunque anche di unreligioso originario) si fondava sull’opinione diffusa che “alle origini” (edunque in una realtà culturale estremamente semplice) l’uomo vivesse in unadimensione religiosa totalizzante, e che il “sacro” improntasse ogni istanzavitale. Questa dimensione dell’umano vivere risulterebbe contrapposta al“nostro” presente, evoluto e complesso: un presente culturale in cui la reli-gione sarebbe una sorta di sopravvivenza subordinata e ridimensionata dal-l’imperante orientamento razional-scientista.

Questa lettura riduttiva delle tante realtà lontane (nel tempo e nello spa-zio) comportava la convinzione che sempre e dovunque si sarebbe verificatolo stesso processo lineare che avrebbe portato dal religioso al laico. Ma poi,a seconda dell’orientamento del singolo studioso, questo processo poteva es-

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sere valutato come un’evoluzione positiva (che consentiva il lucido espleta-mento delle potenzialità operative dell’uomo), oppure essere valutato comemortificante processo di “desacralizzazione” (per chi era confessionalmenteorientato).

In ogni caso questi orientamenti – evolutivi o involutivi che fossero –portarono all’ovvia convinzione che nell’antica Grecia, ad esempio, dovesserisultare ineluttabile il passaggio da un’età arcaica e preclassica dominata dalmito e dal rito a un’età classica caratterizzata da una raffinata produzione ar-tistica e filosofica. Ma poi, solo per formulare uno spunto di riflessione,quanto erano alieni i Platone ed i Plotino da una visione allegorico-misticadel “reale”?

Ora il nostro compito di storici della cultura e delle mentalità non èquello di schierarci emotivamente con i mistici sopraffatti dalla nostalgia(come Leo Frobenius, Wilhelm Schmidt e lo stesso Mircea Eliade), né con irazionalisti ammalati di progressismo (come Edward B. Tylor o HerbertSpencer). In quanto storici che hanno fatto tesoro dell’insegnamento e delmetodo della scuola storico-religiosa di Roma (su cui tornerò in seguito) noidobbiamo piuttosto definire le ragioni che sono alla base delle predilezioniideologiche dei vari studiosi. Predilezioni che hanno influito, nel corso deisecoli, sulla stessa definizione del significante religione.

Il termine religione, così come è comunemente usato in Occidente, sifonda sulla convinzione che questo significante possa delimitare con rigoreciò che il cristiano intende, appunto, per religione.

Ma con questo concetto dobbiamo ancora oggi fare i conti: in Occiden-te, infatti, il concetto di religione sta ad indicare tutto ciò che, nei diversiorizzonti culturali, trovi una soddisfacente corrispondenza analogica con ilcristianesimo. A causa di questa costante e implicita sovrapposizione derivala distinzione che gli studiosi spesso fanno tra religione e magia, credenza esuperstizione, fede e malafede. Da ciò deriva anche la “nostra” difficoltà arecuperare come religione le pratiche divinatorie ed estatiche1.

Lo sviluppo della dialettica cristiano-pagano (ancora oggi in auge pressoambienti determinati) si è fondato su una contrapposizione irriducibile traverità/divino/fede e falsità/diabolico/superstizione. Ne è conseguito che nonsoltanto il “politeismo” greco-romano, ma tutti gli orizzonti “religiosi” concui l’Occidente cristiano è venuto in contatto sono stati tarati e riletti secon-do un rigido parametro unitario. Lo stesso recupero erudito dell’antichitàclassica – avviato dalla cultura umanistica – ha comportato una netta separa-

1. D. Sabbatucci, Sommario di storia delle religioni, Roma 1991, pp. 52-58.

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zione tra cultura (greco-romana) e religione (pagana), cosicché il patrimoniomitico degli antichi è potuto diventare oggetto di fruizione estetico-letterariae di ludica allegoria.

Le conseguenze di questa defunzionalizzazione del politeismo greco-romano sono ancora avvertibili, in quanto la mitologia del mondo classico –decontestualizzata e rivisitata – è diventata oggi oggetto d’insegnamentoscolastico negli istituti a indirizzo umanistico.

Le origini di una denominazione “scientifica” delle religioni

Proprio alla tensione evangelizzatrice del Cristianesimo, che determinauna propulsione espansiva degli ordini missionari, dobbiamo i primi bozzettietnografici dell’età moderna: e sebbene non mirino ad essere descrizioni finia se stesse, costituiscono un bagaglio di dati di un certo interesse documenta-rio. Tra il Sei e il Settecento, in particolare, si segnalano – a livello descritti-vo e interpretativo – le relazioni dei padri gesuiti: ricordo le analisi che deicostumi cinesi fa padre Matteo Ricci e quelle che ha elaborato padre Jean-François Lafitau dopo il suo lungo soggiorno in Nord-America2.

Con la nascita in Europa di nuove discipline accademiche – dalla Etno-logia alla Storia delle religioni, dall’Antropologia sociale e culturale allaDemologia – volte a conferire veste “scientifica” allo studio delle cultureumane, si è venuto progressivamente a dilatare il concetto di religione.

Fu così che, nel corso della seconda metà del XIX secolo, si moltiplica-rono i tentativi di classificare e denominare i vari orizzonti religiosi secondonuovi criteri: ora recuperando criticamente vecchi significanti (ad esempio ilfeticismo, proposto già un secolo prima da Charles De Brosses), ora conian-done di nuovi: animismo, totemismo, manismo, ecc. Non tutte le denomina-zioni proposte, scaturite da una cultura “positiva” (impegnata a classificare ifatti umani secondo un ordine evolutivo) ebbero un successo duraturo.

Più fortunata delle altre doveva risultare la denominazione “animismo”proposta dall’inglese Tylor (1832-1917), padre riconosciuto dell’antropolo-gia culturale. L’autorevolezza scientifica di Tylor e la potenziale elasticitàdella denominazione da lui proposta (in quanto nel suo “animismo” era com-preso, ad esempio, anche il culto dei morti) fecero sì che questa etichettaavesse un successo di lunga durata. Ancora oggi, nel linguaggio corrente, si

2. Su Matteo Ricci si veda: G. Mazzoleni, L’Asia “pensata” dall’Occidente, Roma2001; quanto a J.F. Lafitau cfr. G. Mazzoleni, Verso il diverso, Roma 1999.

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definiscono animiste quelle religioni che chiamano in causa una pluralità diesseri extra-umani: entità che animerebbero le cose che cadono sotto la no-stra esperienza sensibile.

Anche il “totemismo” ebbe durevole fortuna, perché sembrava fondarsisu una concreta documentazione etnografica. E in effetti questa denomina-zione deriva – con una certa approssimazione3 – da una lingua “primitiva”(quella Algonchina degli Ojibwa del Nord-America). Proposto dall’america-no Lewis H. Morgan (1818-1881) e dallo scozzese John F. McLennan(1827-1881) – entrambi giuristi passati allo studio dell’antropologia – il ter-mine totemismo è stato ripreso da James G. Frazer (1854-1941), professoredi Antropologia Sociale all’Università di Cambridge. Così Frazer definisce iltotem, ossia l’oggetto di questa religione: «Un totem è una classe di oggettimateriali che il selvaggio considera con rispetto superstizioso, credendo cheesista tra la propria persona e ogni membro di quella classe un’intima e par-ticolarissima relazione…»4. Questa e altre simili perentorie schematizzazionierano comunque proprie dello spirito del tempo.

Nel corso del XX secolo la portata del termine totemismo è stata ridi-mensionata. Tra coloro che hanno compiuto una severa disamina di questotermine-contenitore merita una menzione particolare Claude Lévi-Strauss (inparticolare con il suo agile saggio Le totémisme aujourd’hui del 1962). Ep-pure, per vari decenni, il totemismo aveva costituito una categoria utile peraggregare “fatti” mitico-rituali appartenenti alle più diverse culture: dal te-riomorfismo delle divinità egiziane al mito di Romolo e Remo allattati dallalupa e alla comunione cristiana.

In concorrenza con il totemismo troviamo assai per tempo un altro si-gnificante: lo “sciamanismo”. Con questo termine si voleva indicare un tipodi religione che aveva a protagonista un particolare operatore rituale, lo scia-mano (dal tunguso saman). Questo operatore, presente in molte società tra-dizionali, agisce in stato di transe indotta: svincolandosi in questo modo dalpiano umano/terreno, lo sciamano entra in contatto con entità extra-umane,impetrando per i suoi committenti umani guarigioni e utili previsioni5.

Allo sciamanismo ha conferito lo status di autonomia religiosa “primiti-va” John Lubbok (1834-1913): questi, un naturalista inglese orientato in sensoevoluzionista, ha inteso proporre una precisa scala evolutiva delle religioni.

3. Cfr. Sabbatucci, Sommario di storia delle religioni cit., p. 81.4. Vedi in proposito la voce totemism, da lui stesso redatta, nell’Enciclopedia Britannica

del 1886.5. In proposito cfr. Definizione e sviluppo dell’istituto sciamanico, in G. Mazzoleni,

Identità, Roma 2002.

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Distingueva pertanto sei differenti livelli: 1. ateismo: quando non vi è ancorauna concezione del divino, e dunque nessun rapporto con le “divinità”;2. feticismo: quando l’uomo crede di poter costringere le “divinità” attraversola magia; 3. totemismo: quando si “divinizza” la natura, che pertanto divieneoggetto di culto; 4. sciamanismo: allorché soltanto lo sciamano può interferirecon l’extra-umano, consultando le varie entità; 5. idolatria: quando esseri po-tenti, più o meno antropomorfi, si rivelano accessibili agli umani (come nelcaso del politeismo classico); 6. monoteismo: a questo livello la divinità, crea-trice unica del cosmo, si fa – al tempo stesso – ubiqua e soprannaturale.

I contributi di Tylor, Frazer, Lubbok (e di altri famosi “maestri”) inparte coincidono cronologicamente con i primi anni della formazione scienti-fica di uno studioso che, pochi anni dopo, avrebbe riportato le analisi mitico-rituali su un più cauto piano di considerazione storica: questo studioso eraRaffaele Pettazzoni (1883-1959).

Raffaele Pettazzoni e la comparazione storica

Nel corso del centenario della nascita di Pettazzoni, Dario Sabbatucciricordava che l’anno 1924 ha segnato il riconoscimento in Italia della Storiadelle Religioni come disciplina accademica: veniva infatti assegnata la primacattedra di ruolo al quarantenne Raffaele Pettazzoni.

Nella sua lezione inaugurale (tenuta all’Università “La Sapienza” di Ro-ma) Pettazzoni dichiarava che nella prospettiva storica vedeva «il puntod’incontro, l’unico possibile, anzi il necessario delle due originarie scuole distudi religiosi, l’antropologica che aveva preso l’avvio da Tylor e la filologi-ca che muoveva da Max Müller…». E la stessa comparazione dei dati nondoveva livellare o forzare i dati comparati, bensì – dopo aver verificato lacomparabilità – saper coglierne le differenze significative ed il loro specificosviluppo nel tempo: giacchè «la storia non può farsi se non distinguendo, os-sia individuando»6.

Nello stesso numero della rivista «Studi e Materiali di Storia delle Reli-gioni», dedicato alla memoria del grande caposcuola, un altro eminente al-lievo – Angelo Brelich – aggiungeva a proposito del metodo del comunemaestro: quello di Pettazzoni non è stato un metodo di ricerca elaborato pre-cocemente ed automaticamente applicato. Vero è, però, che Pettazzoni si è

6. D. Sabbatucci, La lezione inaugurale, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni»,1 (1983), pp. 17-18.

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mosso con determinazione e senza ripensamenti, «verso un sempre più co-sciente orientamento storico…»7.

Che Pettazzoni fosse inizialmente partito da principî dottrinari assuntidogmaticamente, ebbe a dichiararlo lui stesso nella piena maturità: i puntifermi della «mia ricerca si vennero chiarendo e svolgendo gradualmente nelcorso stesso del lavoro. E di questo progressivo farsi di un pensiero speri-mentato e vissuto sono visibili i segni nel complesso dei miei scritti, fino aquest’ultimo, che vede ora la luce come coronamento di una ricerca iniziatamolti anni or sono». Così scriveva il Maestro nella Prefazione al saggioL’Onniscienza di Dio8.

Il Pettazzoni maturo, dunque, riconosce esplicitamente di aver saputoelaborare nel tempo una strategia di lettura dei fatti culturali scevra da dog-matismi e da concezioni precostituite; il suo era infatti – come ben osservaMarcello Massenzio – «un metodo di ricerca che ha come saliente prerogati-va quella peculiare libertà che stimola alla continua sperimentazione»9.

Ma quanto il suo metodo storico-comparato risultasse controcorrentedovette apparire chiaro a Pettazzoni assai per tempo; giacché pluridecennalirisultano le sue polemiche scientifiche nei confronti di quegli orientamentiche, tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del XX secolo, sembrarono gio-varsi della caduta delle certezze proprie della cultura positivistica: ricordoqui in particolare i rilievi storico-culturali mossi da Pettazzoni sia alla teoriadel cosiddetto “monoteismo primordiale” di Wilhelm Schmidt (1868-1954) esia alle categorie fenomenologiche proposte da Gerardus van der Leeuw(1890-1950).

Ciò che manca alla fenomelogia religiosa – annota Pettazzoni in quelloche doveva essere il suo ultimo contributo significativo –, ciò che essa im-plicitamente ripudia, è l’idea di svolgimento. Intendendo il fenomeno religio-so come “apparizione” o “rivelazione” del “sacro”, la fenomenologia ignoradeliberatamente che ogni apparizione presuppone una formazione, «ed ognievento ha dietro di sé un processo di sviluppo». Quanto alle comparazionidei «fenomeni religiosi – precisa anche Pettazzoni – si tratta di verificare at-tentamente se questa comparazione deve essere una semplice e meccanicaregistrazione di somiglianze e di differenze, o se non si dia – invece – unacomparazione che, superando il momento descrittivo e classificatorio, valga

7. A. Brelich, La consistenza di un’eredità, in «Studi e Materiali di Storia delle Religio-ni», 1 (1983), p.15.

8. R. Petazzoni, L’Onniscienza di Dio, Torino 1955, pp. X-XI.9. M. Massenzio, La storia delle religioni in Italia, in Manuale di storia delle religioni,

Bari 1998, p. 519.

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a stimolare il pensiero alla scoperta di nuovi rapporti e all’approfondimentodella coscienza storica»10.

Anche Angelo Brelich, che succedeva nel 1959 al Maestro presso l’Uni-versità “La Sapienza”, metteva in guardia i fenomenologi da un uso estensi-vo e acritico della comparazione, cioè mirante solo a definire dei pretesi ar-chetipi universali che, in quanto tali, sottraevano «la religione alla storia econtemporaneamente alla sfera umana»11.

Non si può dire che Pettazzoni non abbia avuto, in Italia e all’estero, rico-noscimenti autorevoli: fu per anni membro dell’Accademia d’Italia (poi nuo-vamente denominata Accademia dei Lincei) e presidente della InternationalAssociation for the History of Religion (I.A.H.R.); e naturalmente fu in corri-spondenza non occasionale con i più importanti studiosi suoi contemporaneiper circa un cinquantennio. Ma il suo temperamento schivo ed il suo caratterefreddamente riflessivo lo portarono sia ad essere in ragionata polemica con iprotagonisti del mondo culturale e politico italiano (da Benedetto Croce a Al-cide De Gasperi) e sia con gli esponenti di quegli indirizzi scientifici (preva-lenti al suo tempo) che non intendevano riconoscere come oggetto di analisistorica i fatti religiosi. E così, pur potendo contare su un gruppo di eminentiallievi – da Brelich a Sabbatucci, da Lanternari a Seppilli, da Bianchi a Tentori(solo per citarne alcuni fra i più autorevoli) – dopo la sua scomparsa Pettazzo-ni non è risultato così rappresentativo come avrebbe meritato. Il suo metodostorico-comparato, tra l’altro, non è sembrato tornare utile a chi, per esempio,intendeva proporre il “sacro” come esperienza mistico-ontologica.

Si può allora capire perché Angelo Brelich, nel lontano 1960, ebbe a di-chiarare: «Per strano che possa sembrare ad alcuni di noi, c’è da chiedersi sel’utilizzo scientifico di Pettazzoni sia stato sufficientemente compreso in Ita-lia e nel mondo»12. Mentre nel secondo numero della rivista Culture DarioSabbatucci curava una nota redazionale dal titolo eloquente: Pettazzoni, chiera costui? Per Sabbatucci le ragioni di un relativo oblio del Maestro eranodovute alla coerenza controcorrente dello studioso: Pettazzoni si era mobili-tato contro «i nuovi profeti dell’irrazionalismo» con un impegno che fuscambiato per un attardato contributo al positivismo. Nello stesso tempo il

10. R. Pettazzoni, Il metodo comparativo, in «Numen», 6 (1959), pp. 1-14.11. Brelich, La consistenza di un’eredità cit., p.16.12. A. Brelich, Commemorazione di R. Pettazzoni, in «Studi e Materiali di Storia delle

Religioni», 31 (1960), p.191. Per un’esemplificazione schematica vedi la voce Pettazzoni R.in Dizionario di Antropologia, a cura di U. Fabietti e F. Remotti, Bologna 1997, p. 569.

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suo proporre una metodica storicizzazione dei fatti religiosi toglieva a questocampo di studio tante allettanti suggestioni13.

Di fatto proprio tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso,L’Italia si coprì di nuove cattedre e nuovi insegnamenti accademici, spessosollecitati da una generosa esterofilia: esterofilia che – se favorì la conoscen-za di autorevoli maestri (da Mircea Eliade a Claude Lévi-Strauss) – suscitòcomunque un credito sproporzionato a favore di vari autori minori: non ulti-mi John Beattie, John Middleton e altri epigoni dell’antropologia socialebritannica14.

Un contributo alla “interculturalità”

Nel già citato articolo Il metodo comparativo Pettazzoni sostiene che lacomparazione è un approccio conoscitivo che viene da lontano: e tra gli altriricorda Erodoto, Lafitau, De Brosses. Ma, aggiunge, si è trattato di una com-parazione di tipo formale, in quanto applicata con scarsa sistematicità e to-talmente avulsa da una visione in divenire dei fatti culturali. Si è trattato, in-somma, di una comparazione “non storica”. Eppure, insiste Pettazzoni, lacomparazione non può che essere storica, almeno se vuole individuare i pro-cessi culturali, lo spessore delle congruenze e le corrispondenze significative.

Ora, che si condivida o meno l’opinione che l’approccio storico debbaessere il criterio privilegiato di studio delle credenze religiose, resta il fattoche forse mai, prima di Pettazzoni, sia stato affermato con pari determina-zione critica il carattere diacronico dei fatti religiosi e la pertinenza del“religioso” con il “culturale”: e dunque la piena competenza dello storicodelle religioni nel leggere i vari orizzonti culturali senza condizionamentiideologici e confessionali.

E questo messaggio pettazzoniano – in un’epoca travagliata per l’intran-sigenza di certi etnicismi e l’invasività delle omologazioni (più o meno fidei-sticamente orientate) – va comunque coltivato: per un indilazionabile inte-resse comune delle tanti parti in gioco.

13. «Culture», 2, 1997, p. 50. In proposito vorrei consigliare la lettura del mio contributoEliade e l’etnografia argentina, in Confronto con Eliade, a cura di L. Arcella, P. Pisi e R.Scagno, Milano 1998.

14. Cfr. G. Mazzoleni, Tradurre, perché?, in «Culture», 3 (1978).

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Ricerche

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CONFERENZE «G. Sinopoli»Alle origini dell’identità europea

Facoltà di Scienze Umanistiche P.le Aldo Moro, 5Odeion del Museo dell’arte classica

Colin Renfrew Archaeology and Language:New Perspectives on theIndo-European Question

Mercoledì 17 nov. 2004 ore 16.00

Paolo Matthiae Ebla e le origini delleciviltà urbane

Lunedì 20 dic. 2004 ore 17.00

Andrea Carandini Alle origini di Roma, pensando all’Europa

Lunedì 17 gen. 2005 ore 17.00

Andrea Giardina L’Europa dei Romani Lunedì 14 feb. 2005 ore 17.00

Ludovico Gatto Le origini dell’idead’Europa

Lunedì 14 mar. 2005 ore 17.00

Tullio De Mauro L’Europa delle lingue Lunedì 18 apr. 2005 ore 17.00

Francesco Gui Unione Europea e identitàculturale

Lunedì 30 mag. 2005 ore 17.00

Luigi Marinelli Due Slavie e due Europe? Lunedì 3 ott. 2005 ore 17.00

Maria L. Dalai Emiliani Rinascimento: l’uomo e ilmondo in prospettiva

Lunedì 24 ott. 2005 ore 17.00

Silvia Berti “Ubi libertas, ibi patria”:l’Europa cosmopolita deiLumi

Lunedì 7 nov. 2005 ore 17.00

Alessandro Portelli La dimensione europea delcanto narrativo popolare: iltestamento dell’avvelenato

Lunedì 14 nov. 2005 ore 17.00

Biancamaria Scarcia Islam e identità europea Lunedì 5 dic. 2005 ore 17.00

Alberto Asor Rosa L’Europa e/o l’Occidente.Considerazioni inattualisu di una crisi di civiltà

Lunedì 12 dic. 2005 ore 17.00

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FSU, 1, 2005

Elenchiamo le ricerche finanziate dal Ministero (COFIN) e dall’Ateneo,suddivise per aree disciplinari, oltre a quelle finanziate da Enti pubblici osulla base di accordi internazionali.

Per le ricerche finanziate dalla Facoltà, come per i convegni e le confe-renze, si rimanda al sito web della Facoltà di Scienze Umanistiche(www.scienzeumanistiche.uniroma1.it).

Per le riviste specialistiche, collane ed Atti di convegno si rimanda aisiti web dei singoli Dipartimenti, reperibili presso il sito Web dell’Università“La Sapienza” (http://cisadu2.let.uniroma1.it).

AREE DISCIPLINARI

Antropologia culturale

Non solo parole: contesto culturale e negoziazione di significati. Il casodi “utente”Coordinatore locale: prof. M.D. Combi

ArcheologiaGrandi scavi

Scavo alle pendici settentrionali del Palatino a RomaCoordinatore: prof. Andrea Carandini

Scavi nel santuario etrusco di PyrgiCoordinatore: prof. Giovanni Colonna

Progetto VeioCoordinatori: prof. Giovanni Colonna, Gilda Bartoloni, Andrea Caran-dini, Maria Fenelli

Missione archeologica italo-libica nell’Acasus e MessakCoordinatore: prof. Savino Di Lernia

Scavi e ricerche a Elaiussa Sebaste (Turchia)Coordinatore: prof. Eugenia Equini Schneider

Progetto “Antica Lavinium”Coordinatore: prof. Maria Fenelli

Scavi ad Arslantepe-Malatya (Turchia)Coordinatore: prof. Marcella Frangipane

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Ricerche226

Missione archeologica italiana in Siria-EblaCoordinatore: prof. Paolo Matthiae

FIRB 2003ArcheoMedSat. Progetto e sperimentazione di rilevamento satellitare eweb gis per la valorizzazione di monumenti e siti archeologici del Me-ditterraneo tre Oriente e OccidenteCoordinatori: prof. Eugenia Equini Schneider (unità di ricerca), Cle-mentina Panella, Marcella Frangipane

Nuove metodologie relative a progetti integrati di parchi archeologicidell’area mediterranea. Elaborazione, sperimentazione, verifica di tec-nologie avanzate e trasferibilità dei risultati nella valorizzazione di areea rilevante interesse culturale, ambientale e turistico. Selezione di casistudio in Siria settentrionale e Turchia meridionaleCoordinatore: prof. Paolo Matthiae

Ricerche COFIN

Progetto archeologico di una città: PopuloniaCoordinatore: prof. Gilda Bartoloni

Un luogo di culto al centro del Mediterraneo: il santuario di Tas Silg aMalta dalla preistoria all’età bizantinaCoordinatore: prof. Alberto Cazzella

Architettura e società: processi di sviluppo e trasformazione delle strut-ture abitative e commerciali nel Mediterraneo Orientale (Grecia, Tur-chia, Libano) fra l’età classica e il tardo anticoCoordinatore: prof. Eugenia Equini Schneider

Cartografìa archeologica per la pianificazione territoriale e urbanaCoordinatore: prof. Maria Fenelli

Edizione del codice epigrafico di Pirro Ligorio Neap. XIII, B, 8.Coordinatore: prof. Gianluca Gregori

Nomadi e sedentari. Variazioni climatiche, dinamiche popolazionistiche etraiettorie culturali nelle terre aride di Africa e Asia durante l’OloceneCoordinatore: prof. Mario Liverani

Realizzazione di una banca dati generale (testi, monumenti) e di un ar-chivio fotografico informatico e a stampa dell’epigrafìa latina in ItaliaCoordinatore: prof. Silvio Panciera

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Ricerche

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Roma: prototipo di web-site per l’esplorazione congiunta di cartografìe(sistema informativo territoriale) e ricostruzioni tridimensionali di areee complessi archeologici urbaniCoordinatore: prof. Clementina Panella

Studio delle collezioni di antichità Caetani, Colonna, Pallavicini Ro-spigliosi, Verospi e VitelleschiCoordinatore: prof. Maria Grazia Picozzi

Analisi archeologiche e archeometriche per la, definizione della geo-morfologia e dell’antropizzazione del territorio compreso tra la costatirrenica e i Monti della Tolfa nel medioevoCoordinatori: prof. Francesca Romana Stasolla, Letizia Ermini Pani

Ricerche di Ateneo

Missione archeologica italiana nell’oasi di FarafraCoordinatore: prof. Barbara Barich

Missione archeologica congiunta libico-italiana nel Jebel GharbiCoordinatore: prof. Barbara Barich

Ricerche sull’Etruria settentrionaleCoordinatore: prof. Gilda Bartoloni

L’organizzazione dello spazio nell’abitato dell’età del bronzo di CoppaNevigata (Manfredonia)Coordinatore: prof. Alberto Gazzella

Percorsi, contatti, scambi nell’età del rame dell’Italia centrale: il casostudio del villaggio di Maccarese (Lazio)Coordinatore: prof. Alessandra Manfredini

Corpora epigrafici greci e latini d’ItaliaCoordinatore: prof. Silvio Panciera

Roma-Piazza del Colosseo, area della Meta Sudans; pendici nord-orientali del PalatinoCoordinatore: prof. Clementina Panella

Broglio di Trebisacce (CS), scavo del sito protostoricoCoordinatore: prof. Renato Peroni

Ricerche archeologiche a Kom el-Ghoraf nel Delta occidentale (Egitto)Coordinatore: prof. Loredana Sist

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Ricerche228

Leopoli-Cencelle, una città altomedievale di fondazione papale e i can-tieri delle strutture di assistenza a Roma dal VI al IX secoloCoordinatori: prof. Francesca Romana Stasolla, Letizia Ermini Pani

Un capitolo di storia urbana. Le Domus di Privernum: architettura eprogrammi decorativiCoordinatore: prof. Stefano Tortorella

Progetto ARCUSMuseo universitario virtuale della città e del territorio di RomaCoordinatore: prof. Andrea Carandini

Arti e scienze dello spettacolo

Ricerche COFIN

Figure del performer in età moderna: iconografia, memorialistica, let-teratura, teoria e tecniche. Database e materiali audiovisiviCoordinatore: prof. Silvia Carandini

Ricerche avanzate sul lavoro drammaturgico dell’attore/autore/ registain Italia, analizzate mediante le nuove tecnologie digitali audiovisivemultimedial2Coordinatore: prof. Ferruccio Marotti

Filologia romanza

Ricerche COFIN

Lessico europeo dell’affettivitàCoordinatore: prof. Roberto Antonelli

Ricerche di AteneoIl canone letterario europeoCoordinatore: prof. Roberto Antonelli

Letteratura italiana

Ricerche COFIN

Dante e la memoria classicaCoordinatore: prof. Roberto Mercuri

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Ricerche

FSU, 1, 2005

229

Ricerche di AteneoRicerca, acquisizione, inventariazione e pubblicazione di documentiinediti del Novecento italianoCoordinatore: prof. Francesca Bernardini

Letterature moderneFrancesistica

Ricerche COFIN

Recupero della memoria e scrittura della memoria nella narrativadell’extreme contemporain, nell’ambito della ricerca nazionale Statuti epratiche della letteratura francese dell’extreme contemporainCoordinatore: prof. Gianfranco Rubino

Il dibattito sulla funzione della letteratura fra Otto e Novecento: corpuscompleto e interpretazioneCoordinatori locali: prof. Anna Maria Scaiola e Gianfranco Rubino

Permanenza e sviluppo della forma-commedia da Molière a Marivaux.Studi sulle pratiche di riuso ed innovazione di tipi, funzioni, schemi ge-nerativi e strutture drammaturgiche della CommediaCoordinatore locale: Delia Gambelli

Ricerche di Ateneo

L’immagine della città nella cultura francese dal Cinquecento al 2000:creazione di un sito WebCoordinatore: prof. Gabriella Violato

Germanistica

Ricerche in collaborazione con Università straniere

Università di Dusseldorf e Università di Roma “La Sapienza”

Topografia dell’estraneo. Confini e passaggiCoordinatore: prof. Mauro Ponzi

Teologia e politicaCoordinatore: prof. Mauro Ponzi in collaborazione con il prof. BerndWitte

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Ricerche230

Lusitanistica e ispanistica

Il Mediterraneo atlantico e l’Europa del mare e dei mercantiCoordinatore: prof. Silvano Peloso

Paleografia e Storia medievaleRicerche d’Ateneo

Epigrafi medievali del Lazio settentrionale: Viterbo e territorioCoordinatore: prof. Emma Condello

Storia dell’arteRicerche COFIN

Censimento e studio dei castelli normanni e svevi nel Meridione dellapenisolaCoordinatore: prof. Antonio Cadei

La via Appia nel Medioevo. Vie e modalità di diffusione dell’arte e dellatecnologia bizantina nel MediterraneoCoordinatore: prof. Marina Righetti

La cultura del restauro in Italia dalla fine del XVIII secolo ai nostrigiorni: un archivio informatizzatoCoordinatore: prof. Orietta Rossi Pinelli, in collaborazione con l’Uni-versità di Torino, con l’Università di Udine e con l’Università di Pisa.

Beni artistici e culturali: nuovi modelli reticolari di accesso, fruizione edisseminazioneCoordinatore: prof. Simonetta Lux

Archivio delle riviste d’arte in Italia tra Ottocento ed età contemporaneaUnità Università di Roma “La Sapienza”: Le riviste «Data» e «Marcatré»Coordinatore: prof. Silvia Bordini

Ricerche di AteneoL’immagine del Santo Sepolcro nell’arte e nell’architettura del mondobizantinoCoordinatore locale: prof. Marina Righetti

Arte e scienza nella Roma di Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585)Coordinatore: prof. Claudia Cieri Via, in collaborazione con l’Accade-mia Americana e con l’Università di Berkeley (California)

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Ricerche

FSU, 1, 2005

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Storia dell’arte e storia della cultura: Aby Warburg fra passato e futuroCoordinatore: prof. Claudia Cieri Via (in collaborazione con la Facoltàdi Filosofia: prof. Pietro Montani)

Il design per il beni culturali brief di prodotti e sistemi di prodotti per learee archeologiche e musealiCoordinatore: prof. Simonetta Lux

Adeguamento tecnico ed ambientale per struttura didattico-laboratorioMuseo LaboratorioCoordinatore: prof. Simonetta Lux

Ricerche e Convenzioni con altre istituzioni italiane e straniere

Convenzione con la Regione Lazio

Nuove tecnologie applicate all’arte contemporanea, 2000-2004Coordinatore: prof. Simonetta Lux

Convenzione con il Comune di Guardiagrele (Chieti)

L’orafo Nicola da GuardiagreleCoordinatore: prof. Antonio Cadei

Ricerche in collaborazione con l’Institut National du Patrimoine di ParigiArchivio informatizzato dei manoscritti miniati non-finiti: tecniche e ma-teriali del libro illustrato tra Medioevo e Rinascimento (Italia-Francia-Me-diterraneo) / Inventaire informatisé des manuscrits enluminés inachevés:techniques et matériaux du livre à peintures entre Moyen-Âge et Renais-sance (France-Italie-Méditerranée), in collaborazione tra l’Università diRoma “La Sapienza”, l’Institut National du Patrimoine di Parigi e l’IstitutoCentrale per la Patologia del Libro del Ministero per i Beni e le AttivitàCulturali di Roma.Coordinatore: prof. Antonio Cadei

Storia romana

La crisi del III secoloCoordinatore: prof. Andrea Giardina

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Ricerche232

GRANDI PROGETTI

Scavo dei Fori Imperiali a Roma: completamento dei lavoriProgetto di Eugenio la Rocca

Imago Urbis. Per un laboratorio e museo virtuale della città e del suburbiodi RomaProgetto di Andrea Carandini

MOSTRE

Gli Omayyadi – Roma, Palazzo delle Esposizioni 2006a cura di Paolo Matthiae

I trionfi. Vincitori e vinti – Roma, Palazzo Venezia, Campidoglio 2007a cura di Roberto Antonelli e Claudia Cieri Via

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Scienze Umanistiche

Scienze Um

anistiche

Andrea Carandini, Archeologia oggiLetizia Pani Ermini, Trentacinque anni di Archeologia medievaleAlberto Cazzella, La paletnologia nell’ambito delle scienze dell’uomoMario Liverani, Elogio del LevantePaolo Matthiae, Archeologia: scuola di tolleranzaFerruccio Marotti, Ragioni e storia di un progettoRoberto Antonelli, Filologia (romanza) e letterature comparate, oggiAlberto Asor Rosa, Gli studi letterari dalla retorica alla scienzaPaola Colaiacomo, L-LIN/10 – L-LIN/12Luigi Marinelli, Gli studi slavistici dopo il

Norbert von Prellwitz, SconfinamentiGianfranco Rubino, Studiare francesisticaTullio De Mauro, Il topo che non mangiava formaggioAntonio Cadei, Arte MedievaleClaudia Cieri Via, Storia dell’arte e scienze umanisticheMarisa Dalai Emiliani, Quale Storia dell’arte?Simonetta Lux, Il gatto di IsidoreRaffaele Romanelli, Quale storia contemporanea oggi?Biancamaria Scarcia Amoretti, Ripensare gli studi sull’Islam?Gilberto Mazzoleni, La storia delle religioni