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RASSEGNA STAMPA di martedì 5 luglio 2016 SOMMARIO “Io c’ero - ricorda padre Luigi Francesco Ruffato sulla Nuova di oggi -. Con molta probabilità, sono l’ultimo prete che ha sentito e visto, vivo, Giuseppe Taliercio, il direttore del Petrochimico di Porto Marghera sequestrato dalle Brigate Rosse il 20 maggio 1981 e assassinato dalle stesse 46 giorni dopo, il 5 luglio, in una mansarda di Tarcento (Udine). Gli hanno sparato 17 colpi di pistola e l’hanno abbandonato, a notte fonda, nel bagagliaio di un’auto, a pochi passi dal suo posto di lavoro. Era nato, ultimo di quattro figli, a Marina di Carrara l’8 agosto 1927. All’epoca degli anni di piombo viveva a Mestre con la famiglia: moglie e cinque figli. Riposa nel cimitero di Avenza (Marina di Carrara). Sulla sua tomba, una tra le tante, senza segni particolari, ho pregato per Gabriella, la madre dei figli, e per i figli: Elda, Lucia, Bianca, Cesare e Antonio. Ho raccomandato a Dio gli assassini del loro congiunto, associandomi ai sentimenti di perdono che hanno scosso la coscienza dei carnefici fino al punto di farli diventare ex brigatisti. «Se hanno meritato la libertà e si sono pentiti davvero, è giusto che sia così», disse Cesare alla notizia che erano usciti in libertà, perché pentiti, il brigatista friuliano Gianni Francescutti, il primo a entrare vestito da finanziere in casa Taliercio, e Antonio Savasta, l’esecutore materiale dell’assassinio. Come dire che anche il nemico ha dignità umana, anche il nemico è un fratello; e Cesare era presente al sequestro del padre! Cesare, come gli altri Taliercio, ha saputo perdonare perché i Taliercio credono nel ravvedimento di chi ha sbagliato e non si fermano sull’atrocità dell’errore. «Ho verificato, aggiunge Cesare, che la forza di perdonare è un dono grande del Signore alla mia famiglia, un dono che ci concede di vivere senza rancore e senza odio verso gli altri». Il killer di Taliercio, Antonio Savasta, il 27 febbraio 1985, scrive una lunga lettera in cui chiede perdono alla vedova e ai familiari, svelando il comportamento tenuto dal loro caro nel tempo di prigionia. «Suo marito, in quei giorni, è stato come lei lo descrive: pacato, pieno di fede, incapace di odiarci, e con una dignità altissima. È vissuto serenamente, anche se i suoi pensieri e le sue preoccupazioni andavano a voi. Era lui che tentava di spiegarci il senso della vita e io, in particolare, non capivo dove prendesse la forza per sentirsi sereno, quasi staccato dalla situazione drammatica che viveva. Ha lottato per affermare anche a noi, che parlavamo un linguaggio di morte, il diritto alla vita, suo e di tutti. Lo so, signora, che questo non le restituirà molto. Ma sappia che dentro di me ha vinto la parola che portava suo marito. (…) È stata un seme così potente che nemmeno io, che lottavo contro, sono riuscito ad estinguere in me. È stata un fiore che voglio coltivare per poter essere io, a mia volta, a donarlo. Se non ci foste stati voi, io sarei ancora perduto nel deserto». Due anni dopo, il 18 febbraio 1987, una brigatista informa di quanto è rimasta stupita di fronte alla calma orante del Taliercio prigioniero: «C’era nelle sue preghiere qualcosa che allora non capivo. I nostri processi, le nostre censure nulla potevano contro la sua fede. La certezza di essere giusto lo rendeva estremamente tranquillo. Non potrò più pensare a quei momenti senza morire ogni volta un po’, consapevole del tremendo sbaglio e di non aver scelto la strada dell’amore. Signora Taliercio, non potrò mai restituire ciò che le ho rubato e non mi basterà la vita intera a pagare un prezzo equo». Il ministro degli Interni nel 1982 consegnò alla vedova Gabriella la medaglia d’oro al Valor civile del marito e un ex leader di “Potere operaio”, un movimento di estrema sinistra che operava all’interno del Petrolchimico di Porto Marghera, mi ha scritto: «Era un grande tecnico, ma troppo leale e coerente con la sua fede cristiana per occupare il vertice di una multinazionale, fatto di furberie e fondato sulle bugie». Il Patriarca Marco Cè disse pubblicamente: «Non ebbi dubbi che il suo nome fosse degno di essere inserito nell’elenco dei martiri cristiani del Novecento, per iniziativa di Papa Giovanni Paolo II». Giuseppe Taliercio (detto Pino) soleva ricordare ai figli che «la vita è una cosa seria, bella ma molto seria». Lo disse anche a me, la domenica prima di essere

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RASSEGNA STAMPA di martedì 5 luglio 2016

SOMMARIO

“Io c’ero - ricorda padre Luigi Francesco Ruffato sulla Nuova di oggi -. Con molta probabilità, sono l’ultimo prete che ha sentito e visto, vivo, Giuseppe Taliercio, il direttore del Petrochimico di Porto Marghera sequestrato dalle Brigate Rosse il 20

maggio 1981 e assassinato dalle stesse 46 giorni dopo, il 5 luglio, in una mansarda di Tarcento (Udine). Gli hanno sparato 17 colpi di pistola e l’hanno abbandonato, a notte fonda, nel bagagliaio di un’auto, a pochi passi dal suo posto di lavoro. Era nato, ultimo

di quattro figli, a Marina di Carrara l’8 agosto 1927. All’epoca degli anni di piombo viveva a Mestre con la famiglia: moglie e cinque figli. Riposa nel cimitero di Avenza

(Marina di Carrara). Sulla sua tomba, una tra le tante, senza segni particolari, ho pregato per Gabriella, la madre dei figli, e per i figli: Elda, Lucia, Bianca, Cesare e Antonio. Ho raccomandato a Dio gli assassini del loro congiunto, associandomi ai

sentimenti di perdono che hanno scosso la coscienza dei carnefici fino al punto di farli diventare ex brigatisti. «Se hanno meritato la libertà e si sono pentiti davvero, è giusto che sia così», disse Cesare alla notizia che erano usciti in libertà, perché pentiti, il brigatista friuliano Gianni Francescutti, il primo a entrare vestito da

finanziere in casa Taliercio, e Antonio Savasta, l’esecutore materiale dell’assassinio. Come dire che anche il nemico ha dignità umana, anche il nemico è un fratello; e

Cesare era presente al sequestro del padre! Cesare, come gli altri Taliercio, ha saputo perdonare perché i Taliercio credono nel ravvedimento di chi ha sbagliato e non si fermano sull’atrocità dell’errore. «Ho verificato, aggiunge Cesare, che la forza di

perdonare è un dono grande del Signore alla mia famiglia, un dono che ci concede di vivere senza rancore e senza odio verso gli altri». Il killer di Taliercio, Antonio Savasta, il 27 febbraio 1985, scrive una lunga lettera in cui chiede perdono alla

vedova e ai familiari, svelando il comportamento tenuto dal loro caro nel tempo di prigionia. «Suo marito, in quei giorni, è stato come lei lo descrive: pacato, pieno di

fede, incapace di odiarci, e con una dignità altissima. È vissuto serenamente, anche se i suoi pensieri e le sue preoccupazioni andavano a voi. Era lui che tentava di spiegarci il senso della vita e io, in particolare, non capivo dove prendesse la forza per sentirsi

sereno, quasi staccato dalla situazione drammatica che viveva. Ha lottato per affermare anche a noi, che parlavamo un linguaggio di morte, il diritto alla vita, suo e di tutti. Lo so, signora, che questo non le restituirà molto. Ma sappia che dentro di me

ha vinto la parola che portava suo marito. (…) È stata un seme così potente che nemmeno io, che lottavo contro, sono riuscito ad estinguere in me. È stata un fiore che voglio coltivare per poter essere io, a mia volta, a donarlo. Se non ci foste stati voi, io sarei ancora perduto nel deserto». Due anni dopo, il 18 febbraio 1987, una

brigatista informa di quanto è rimasta stupita di fronte alla calma orante del Taliercio prigioniero: «C’era nelle sue preghiere qualcosa che allora non capivo. I nostri

processi, le nostre censure nulla potevano contro la sua fede. La certezza di essere giusto lo rendeva estremamente tranquillo. Non potrò più pensare a quei momenti

senza morire ogni volta un po’, consapevole del tremendo sbaglio e di non aver scelto la strada dell’amore. Signora Taliercio, non potrò mai restituire ciò che le ho rubato e

non mi basterà la vita intera a pagare un prezzo equo». Il ministro degli Interni nel 1982 consegnò alla vedova Gabriella la medaglia d’oro al Valor civile del marito e un

ex leader di “Potere operaio”, un movimento di estrema sinistra che operava all’interno del Petrolchimico di Porto Marghera, mi ha scritto: «Era un grande tecnico,

ma troppo leale e coerente con la sua fede cristiana per occupare il vertice di una multinazionale, fatto di furberie e fondato sulle bugie». Il Patriarca Marco Cè disse

pubblicamente: «Non ebbi dubbi che il suo nome fosse degno di essere inserito nell’elenco dei martiri cristiani del Novecento, per iniziativa di Papa Giovanni Paolo II». Giuseppe Taliercio (detto Pino) soleva ricordare ai figli che «la vita è una cosa

seria, bella ma molto seria». Lo disse anche a me, la domenica prima di essere

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sequestrato dalle Brigate Rosse. Non mettiamo in frigo la sua storia” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 27 Quarto d’Altino. Don German Montoya nuovo vicario parrocchiale di g.mon. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Non mi piacciono i conflitti di Joaquin Morales Sola Intervista di Papa Francesco al quotidiano «La Nación» Pag 8 Missione stupenda All’Angelus domenicale in piazza San Pietro il Papa parla della vocazione del cristiano. E indica Maria Goretti come modello per il giubileo della misericordia AVVENIRE Pag 17 Il Papa pellegrino di misericordia alla Porziuncola di Giacomo Gambassi Il 4 agosto visita privata in Umbria per gli 800 anni del Perdono di Assisi WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Pakistan, la vita dei cristiani nel ghetto di Paolo Affatato Viaggio a Lahore, nella «Joseph colony», un vero e proprio slum degradato dove sono costretti a vivere i credenti in Cristo, tra indifferenza e discriminazione 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 19 Io, figlia di madre difficile, non vorrei essere nata dalla gestazione per altri di Susanna Tamaro 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Tesserin: “Basta rifiuti in basilica” di Michele Fullin Il Primo procuratore chiede la collaborazione di tutti gli enti coinvolti. Veritas: “Da uno a due uomini al giorno sempre in piazza, ma in chiesa non vogliono i cestini” CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Prima la sicurezza o il decoro? Polemiche per i rifiuti davanti alla basilica di San Marco di Elisa Lorenzini Bottiglie vietate a chi entra e i turisti le abbandonano LA NUOVA Pag 18 La fede di Taliercio più forte dei terroristi di Luigi Francesco Ruffato Pag 19 Ultimatum del Comitato dell’Unesco di Enrico Tantucci Senza misure concrete su turismo, navi e ambiente, la città sarà inserita nell’elenco dei siti monumentali in pericolo. Il sottosegretario Borletti Buitoni: “Venezia ha bisogno di essere autonoma” Pag 24 Finito il Ramadan, si festeggia. Musulmani divisi sulla data Oggi o domani 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO

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Pag 2 “Isis, non c’è un luogo sicuro. Venezia come Roma e Firenze” di Andrea Priante Intervista al capo dell’antiterrorismo D’Ippolito Pag 3 Sermoni contro gli attentati nella festa di fine Ramadan: “Uniti per vincere il terrore” di Michela Nicolussi Moro Le comunità islamiche in Veneto IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Nordest, il dialetto resiste ed è la lingua di famiglia di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Sette persone su dieci lo parlano molto o abbastanza spesso in casa e con gli amici. Ulderico Bernardi: “La parlata locale è rinata dopo la crisi degli anni ‘60” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La roulette russa nelle democrazie di Antonio Polito A proposito di Brexit e non solo Pag 7 Londra, anno zero di Fabio Cavalera Governo allo sbando, conservatori senza leader, Labour al collasso e populisti in crisi: l’élite britannica è rottamata. E la crisi sarà lunga Pag 11 Il “problema saudita”. Quei 100 miliardi spesi a favore degli estremisti di Guido Olimpio LA STAMPA Il girotondo delle democrazie di Giovanni Orsina AVVENIRE Pag 1 Affrontare le due “W” di Giorgio Ferrari Wahhabismo e web Pag 2 Viene un tempo di audacia creativa di Ernesto Preziosi Riflessioni per una nuova stagione di impegno laicale Pag 3 I jihadisti delle scuole d’élite. Il contagio arrivato a Dacca di Stefano Vecchia La storia e la propaganda wahhabita dietro la strage Pag 3 Il peso elettorale della “perifericità” di Carla Collicelli Comunali e Brexit: c’è altro oltre il dato generazionale IL FOGLIO Pag 3 Grillo rivelato alla Cei Scola censura la puerile genuflessione di Avvenire per la Raggi IL GAZZETTINO Pag 1 La burocratica ottusità dei vigilanti europei di Osvaldo De Paolini LA NUOVA Pag 1 Dem in stallo ma senza alternative di Massimiliano Panarari

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE

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LA NUOVA Pag 27 Quarto d’Altino. Don German Montoya nuovo vicario parrocchiale di g.mon. Quarto d’Altino. Un nuovo vicario parrocchiale per la Collaborazione pastorale di Quarto d’Altino. Si tratta di don German Montoya, nominato nei giorni scorsi dal Patriarca Francesco Moraglia. Don Montoya è stato designato collaboratore, con le facoltà di vicario parrocchiale, della Collaborazione pastorale di Quarto, Altino e Portegrandi, che comprende le chiese di San Michele, Sant’Eliodoro e di San Magno Vescovo. Un nuovo ingresso, dunque, per la chiesa altinate, che potrà aiutare i sacerdoti già presenti nello svolgimento delle tante occupazioni parrocchiali. Novità anche nella vicina Collaborazione di Favaro-Dese, che comprende le chiese di San Leopoldo Mandic, San Pietro, Sant’Andrea e Natività di Maria. Don Massimiliano Causin è stato, infatti, designato collaborazione della Collaborazione pastorale, con le facoltà di vicario parrocchiale. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Non mi piacciono i conflitti di Joaquin Morales Sola Intervista di Papa Francesco al quotidiano «La Nación» Pubblichiamo, in una nostra traduzione, l’intervista a Papa Francesco rilasciata il 28 giugno al quotidiano argentino «La Nación» e pubblicata nell’edizione del 3 luglio. Il frastuono e l’agitazione del mondo sembrano cessare a Santa Marta. La vita lì trascorre in un ambiente di serenità e di silenzio. È la casa del Papa. Francesco entra nella ormai celebre sala della sua residenza. E dice, diretto e preciso: «Non ho nessun problema con il presidente Macri. Non mi piacciono i conflitti. Mi sono stancato di ripeterlo». Sa che le voci sulla presunta freddezza tra lui e il presidente argentino sono il pane quotidiano del micromondo politico del suo Paese. Alcuni officiali vaticani hanno cercato una spiegazione a questo insistente mormorio. Sono giunti alla conclusione che in Argentina è in atto una campagna sulla stampa e in rete per screditare il Papa. «È l’unica nazione al mondo dove il Papa è una figura tanto discussa. Ed è la nazione dove Francesco è nato» sottolineano. Il Papa non si sofferma sulle voci e neppure sulle spiegazioni. Si mostra vicino e affettuoso, come sempre da quando ci conosciamo, quasi vent’anni. È molto più magro dell’ultima volta che l’ho visto. Una dieta equilibrata, che non gli costa grandi sacrifici, gli ha consentito di perdere peso. È contento. Un checkup completo del suo stato di salute gli ha appena confermato che è eccellente. «I risultati sono quelli di una persona di quarant’anni» gli ha detto il suo medico. Conserva l’antico dono di far sentire al suo interlocutore che a lui è rivolta la sua attenzione esclusiva ed escludente. Non si dimentica mai, questo sì, di precisare il suo ruolo di capo di Stato quando parla di un altro capo di Stato. «Macri mi sembra una persona per bene, una persona nobile» aggiunge. Neanche una parola sulle sue politiche. È il limite che deve rispettare come capo di Stato. Ha mai avuto problemi con Macri? «Una sola volta, a Buenos Aires, negli oltre sei anni di convivenza. Lui come capo di governo della capitale e io come arcivescovo. Una sola volta in tanto tempo. La media è molto bassa». E aggiunge: «Di alcuni problemi abbiamo parlato in privato e li abbiamo risolti in privato. E tutti e due abbiamo sempre rispettato il patto di riservatezza. Non ne cerchi i motivi. Non c’è nessuna spiegazione nella storia perché si dica che sono in conflitto con Macri». Ha ricevuto tre ministri di Macri nelle ultime settimane. «Alcuni sono vecchi amici, che chiedono di vedermi e io li ricevo con molto piacere» racconta. Sono i ministri dell’Istruzione, Esteban Bullrich, del Lavoro, Jorge Triaca, della cui madre il Pontefice è amico, e il ministro degli Esteri, Susana Malcorra. «Non so come

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ha fatto un ingegnere elettronico ad avere una simile competenza politica» dice con tono sorpreso ma semplice, riferendosi a Malcorra. «Glielo ho chiesto scherzando» racconta. «Deve aver imparato nelle Nazioni Unite» conclude. Ci sono però due donne del governo Macri sulle quali il Papa si sofferma: la governatrice della provincia di Buenos Aires, María Eugenia Vidal, e il ministro dello Sviluppo sociale, Carolina Stanley. «Conosco la loro sensibilità sociale e so attraverso la Chiesa argentina che continuano a essere molto sensibili di fronte alla sofferenza di quanti hanno di meno» sottolinea. Sa che l’hanno criticata per aver ricevuto Hebe de Bonafini? «Persino un amico mi ha inviato una lettera per criticarmi. È stato un atto di perdono. Lei ha chiesto perdono e io non glielo ho negato. Non lo nego a nessuno. Non è vero che le Madri hanno sporcato la cattedrale di Buenos Aires. L’hanno occupata due volte. E tutte e due le volte ho dato l’ordine che non mancassero loro né l’acqua né un bagno. È una donna a cui hanno ucciso due figli. Io m’inchino, m’inginocchio di fronte a una simile sofferenza. Non importa che cosa hanno detto di me. E so che lei ha detto cose orribili in passato». Su di lui raccontano ogni tipo di aneddoti. L’intermediaria tra Francesco e Bonafini è stata Marta Cascales, moglie del polemico ex segretario del Commercio interno Guillermo Moreno. Il Papa conosce Cascales da oltre trent’anni, non attraverso Moreno, ma perché era amico del suo primo marito, che è morto. Moreno l’ha incontrato un paio di volte mentre era addetto commerciale in Italia e lo ha ricevuto per salutarlo prima della sua partenza. Niente di più. Cascales non ha partecipato all’incontro privato tra il Papa e Bonafini. È stata presente solo all’inizio per salutarlo. Poi Francesco e Bonafini sono rimasti soli. «Abbiamo parlato del perdono e lei mi ha detto quello che dice sempre del governo Macri e che poi ha ripetuto alla stampa. Sono cose sue, non mie. A me interessava lasciare alle spalle una storia di incomprensioni» spiega. Gli officiali del Vaticano, che hanno indagato sull’origine delle voci sui presunti dissapori tra il capo della Chiesa cattolica e il presidente argentino, ritengono di aver trovato l’ideologo della campagna contro il Papa. È Jaime Durán Barba. Forse lo aiuta qualche ministro importante, dicono (Marcos Peña?). Durán Barba coltiva un ostinato anticlericalismo. Non lo nasconde. È solito mostrarlo senza mezzi termini nelle riunioni del circolo politico più influente del macrismo. A Durán Barba non mancano gli oppositori quando espone le sue tesi. Il più tenace è la vicepresidente Gabriela Michetti, che a sua volta conosce il Papa da molto tempo. Durán Barba è solito esporre in pubblico le sue tesi anticlericali. Perché Macri non lo mette a tacere? «È impossibile lottare contro l’“egomania”» spiega un funzionario di Macri. Durán Barba non è neppure l’unico anticlericale che approfitta di un momento in cui la politica sta mettendo in discussione la figura del Papa. La campagna sulla stampa contro di lui - denunciano alcuni officiali vaticani, escludendo «La Nación» - si avvale di anticlericali che stavano nascosti. Il Pontefice è rimasto anche schiacciato tra due estremismi, il kirchnerismo e l’antikirchnerismo, quando ha deciso di compiere alcuni gesti pubblici, come ricevere Bonafini o mandare un rosario a Milagro Sala. «Non ho nessun rimprovero personale da fare al presidente Macri» ripete il Papa. Non dirà più nulla sulle voci che girano (rumorología). È Gustavo Vera il suo portavoce in Argentina? «C’è molta confusione sui miei portavoce in Argentina. Circa due mesi fa, la sala stampa del Vaticano ha chiarito ufficialmente di essere l’unico portavoce del Papa. Non ci sono altri portavoce, in Argentina e in nessun altro Paese, oltre a quelli ufficiali del Papa. C’è bisogno di ripeterlo? Allora lo ripeto: la sala stampa del Vaticano è l’unico portavoce del Papa». Quello che sì esiste è un rapporto di lunga data tra il Papa e Vera. «Ciò che Francesco riscatta di Vera è la storia della sua vita, che può essere stata marginale ma che la tenacia e il coraggio hanno reso interessante» aggiungono officiali molti vicini al Pontefice. Vera ha una storia come militante dell’estrema sinistra; il Papa lo ha portato pian piano verso posizioni più ragionevoli. «Non cercate altre spiegazioni oltre a questa, perché non ci sono» ribadiscono. Tuttavia Macri è molto preoccupato perché Vera lascia intendere di essere il portavoce del Papa in Argentina. Vera è per il macrismo quello che Durán Barba è per il Vaticano. Entrambi causa del fatto che girino voci su dissapori tra il Papa e il presidente argentino.

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Il rifiuto della donazione da parte del governo argentino a Scholas Occurrentes è stata una sua decisione contro il governo di Macri? «Per nulla. Questa interpretazione è assolutamente scorretta. Io ho detto ai due responsabili di Scholas, con tutto il mio affetto, che li stavo salvaguardando, li stavo tutelando da eventuali tentazioni o errori nella gestione della fondazione. Non mi riferivo in alcun modo al governo. Al presidente Macri ho detto quando l’ho incontrato qui che si tratta di una fondazione privata con il riconoscimento della Santa Sede. Il governo aveva accolto la richiesta di Scholas perché aveva questa informazione. Continuo a credere che non abbiamo diritto di chiedere un soldo al governo argentino quando ha tanti problemi sociali da risolvere». A rigore questa interpretazione è anche quella data dal governo Macri, che ha sempre apprezzato la spiegazione verace e precisa della questione scritta dal corrispondente della Nación a Roma, Elisabetta Piqué. In sintesi, non c’è mai stato, per questo sussidio rifiutato, un conflitto tra il Papa e il governo argentino. C’è stato uno scambio di idee tra il Pontefice e i suoi amici José María del Corral ed Enrique Palmeyro, responsabili della fondazione Scholas, che il Papa continua a considerare. Lei ha offerto un sostegno ai giudici argentini quando li ha ricevuti poco tempo fa? «Qui c’è stato un congresso mondiale dei giudici sulla mafia e la tratta di esseri umani, come c’era già stato un congresso dei sindaci di tutto il mondo sullo stesso tema. Vi hanno partecipato circa duecento giudici di tutto il mondo. Sei erano argentini. Alcuni di loro hanno chiesto di salutarmi in privato e io ho accettato. E questo è tutto. Non posso appoggiare né smettere di appoggiare, visto che non sono al corrente dei dettagli delle vicende giudiziarie argentine». Delle riunioni private ha ricordato quelle avute con il presidente della Corte Suprema, Ricardo Lorenzetti, e con il giudice María Servini de Cubría, perché conosce entrambi da molto tempo. «Nella lotta contro la corruzione bisogna andare fino in fondo» è solito dire Francesco. È un concetto globale. Nulla di più. Lui arriva fino al giusto limite consentitogli dalla sua condizione di capo di Stato. Nonostante questo, si nota che è informato sulle linee principali della politica del suo Paese. Piccoli dettagli lo rivelano. Sa anche che due sondaggi recenti (di Poliarquía e di Isonomía) lo definiscono il personaggio pubblico più stimato dalla società argentina. Gode della simpatia popolare del 75 per cento della popolazione. E solo un 6 per cento degli intervistati ha un’opinione negativa su di lui. Nessun politico argentino può contare su simili numeri a suo favore tra l’opinione pubblica. Qual è il suo rapporto con gli ultraconservatori della Chiesa? «Fanno il loro lavoro e io faccio il mio. Voglio una Chiesa aperta, comprensiva, che accompagni le famiglie ferite. Loro dicono di no a tutto. Io continuo il mio cammino senza guardare di lato. Non taglio teste. Non mi è mai piaciuto farlo. Glielo ripeto: rifiuto il conflitto». E conclude con un grande sorriso: «I chiodi si tolgono facendo pressione verso l’alto. O li si mette a riposare, di lato, quando arriva l’età della pensione». Genio e particolarità di Papa Bergoglio. Pag 8 Missione stupenda All’Angelus domenicale in piazza San Pietro il Papa parla della vocazione del cristiano. E indica Maria Goretti come modello per il giubileo della misericordia «Quella del cristiano nel mondo è una missione stupenda e destinata a tutti, è una missione di servizio»; e «questo significa abbandonare ogni motivo di vanto personale, di carrierismo o fame di potere». È quanto sottolineato da Francesco all’Angelus di domenica 3 luglio, recitato con i numerosi fedeli presenti in piazza San Pietro. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! L’odierna pagina evangelica, tratta dal capitolo decimo del Vangelo di Luca (vv. 1-12.17-20), ci fa capire quanto è necessario invocare Dio, «il signore della messe, perché mandi operai per la sua messe» (v. 2). Gli “operai” di cui parla Gesù sono i missionari del Regno di Dio, che Egli stesso chiamava e inviava «a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi (v. 1). Loro compito è annunciare un messaggio di salvezza rivolto a tutti. I missionari annunziano sempre un messaggio di salvezza a tutti; non solo i missionari che vanno lontano, anche noi, missionari cristiani che diciamo una buona parola di salvezza. E questo è il dono che ci

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dà Gesù con lo Spirito Santo. Questo annuncio è dire: «È vicino a voi il Regno di Dio» (v. 9), perché Gesù ha “avvicinato” Dio a noi; Dio si è fatto uno di noi; in Gesù, Dio regna in mezzo a noi, il suo amore misericordioso vince il peccato e la miseria umana. E questa è la Buona Notizia che gli “operai” devono portare a tutti: un messaggio di speranza e di consolazione, di pace e di carità. Gesù, quando manda i discepoli davanti a sé nei villaggi, raccomanda loro: «Prima dite: “Pace a questa casa!”. [...] Guarite i malati che vi si trovano» (vv. 5.9). Tutto questo significa che il Regno di Dio si costruisce giorno per giorno e offre già su questa terra i suoi frutti di conversione, di purificazione, di amore e di consolazione tra gli uomini. È una cosa bella! Costruire giorno per giorno questo Regno di Dio che si va facendo. Non distruggere, costruire! Con quale spirito il discepolo di Gesù dovrà svolgere questa missione? Anzitutto dovrà essere consapevole della realtà difficile e talvolta ostile che lo attende. Gesù non risparmia parole su questo! Gesù dice: «Vi mando come agnelli in mezzo a lupi» (v. 3). Chiarissimo. L’ostilità è sempre all’inizio delle persecuzioni dei cristiani; perché Gesù sa che la missione è ostacolata dall’opera del maligno. Per questo, l’operaio del Vangelo si sforzerà di essere libero da condizionamenti umani di ogni genere, non portando borsa, né sacca, né sandali (cfr. v. 4), come ha raccomandato Gesù, per fare affidamento soltanto sulla potenza della Croce di Cristo. Questo significa abbandonare ogni motivo di vanto personale, di carrierismo o fame di potere, e farsi umilmente strumenti della salvezza operata dal sacrificio di Gesù. Quella del cristiano nel mondo è una missione stupenda, è una missione destinata a tutti, è una missione di servizio, nessuno escluso; essa richiede tanta generosità e soprattutto lo sguardo e il cuore rivolti in alto, per invocare l’aiuto del Signore. C’è tanto bisogno di cristiani che testimoniano con gioia il Vangelo nella vita di ogni giorno. I discepoli, inviati da Gesù, «tornarono pieni di gioia» (v. 17). Quando noi facciamo questo, il cuore si riempie di gioia. E questa espressione mi fa pensare a quanto la Chiesa gioisce, si rallegra quando i suoi figli ricevono la Buona Notizia grazie alla dedizione di tanti uomini e donne che quotidianamente annunciano il Vangelo: sacerdoti - quei bravi parroci che tutti conosciamo -, suore, consacrate, missionarie, missionari... E mi domando - sentite la domanda -: quanti di voi giovani che adesso siete presenti oggi nella piazza, sentono la chiamata del Signore a seguirlo? Non abbiate paura! Siate coraggiosi e portare agli altri questa fiaccola dello zelo apostolico che ci è stata data da questi esemplari discepoli. Preghiamo il Signore, per intercessione della Vergine Maria, perché non manchino mai alla Chiesa cuori generosi, che lavorino per portare a tutti l’amore e la tenerezza del Padre celeste. Al termine della preghiera il Pontefice ha ricordato le vittime degli attentati di Dacca e di Baghdad, poi ha salutato i vari gruppi presenti, infine ha chiesto un applauso per Maria Goretti - la cui memoria liturgica ricorre mercoledì 6 - proponendola come modello per l’anno santo della misericordia. Cari fratelli e sorelle, esprimo la mia vicinanza ai famigliari delle vittime e dei feriti dell’attentato avvenuto ieri a Dacca, e anche di quello avvenuto a Baghdad. Preghiamo insieme. Preghiamo insieme per loro, per i defunti e chiediamo al Signore di convertire il cuore dei violenti accecati dall’odio. Ave Maria... Saluto tutti voi, fedeli di Roma e pellegrini venuti dall’Italia e da diversi Paesi. In particolare il gruppo di Bergamo guidato dal Vescovo - i bergamaschi non hanno risparmiato per il cartello! Si vede bene! -; quello di Bragança-Miranda (Portogallo); le Suore Missionarie del Sacro Cuore venute dalla Corea con alcuni fedeli; i giovani di Ibiza che si preparano alla Cresima; e il gruppo di pellegrini venezuelani. Vorrei anche salutare i miei connazionali de La Rioja, del Chilecito: si vede bene la bandiera lì! Saluto alcuni pellegrinaggi speciali, all’insegna della Misericordia: quello dei fedeli di Ascoli Piceno, venuti a piedi lungo l’antica via Salaria; quello dei soci della Federazione Italiana Turismo Equestre, venuti a cavallo, alcuni addirittura da Cracovia; e quello in bicicletta e motocicletta da Cardito (Napoli). Saluto infine l’Associazione “Briciole di speranza di Carla Zichetti”, la Famiglia Camilliana Laica, la Scuola materna di Verdellino, e i ragazzi di Albino e Desenzano, e quelli di Sassari. Nell’Anno Santo della Misericordia mi è caro ricordare che mercoledì prossimo celebreremo la memoria di santa Maria Goretti, la ragazza martire che prima di morire

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perdonò il suo uccisore. Questa ragazza coraggiosa merita un applauso di tutta la piazza! E a tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! AVVENIRE Pag 17 Il Papa pellegrino di misericordia alla Porziuncola di Giacomo Gambassi Il 4 agosto visita privata in Umbria per gli 800 anni del Perdono di Assisi Papa Bergoglio torna ad Assisi. O meglio sarà nella Basilica di Santa Maria degli Angeli che custodisce al suo interno la minuscola chiesa della Porziuncola. La visita è in programma nel pomeriggio del 4 agosto, a pochi giorni dalla festa del Perdono di Assisi che si celebra fra il 1° e il 2 agosto nella frazione ai piedi della cittadina umbra in cui si trova la tomba di san Francesco. Proprio l’anniversario degli 800 anni dell’indulgenza di Santa Maria degli Angeli è il “motivo” dell’arrivo del Papa. Una ricorrenza che «cade provvidenzialmente nell’Anno Santo straordinario della misericordia», spiegano il vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, l’arcivescovo Domenico Sorrentino, il ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori francescani, padre Michael A. Perry, il ministro provinciale dei Frati Minori dell’Umbria, padre Claudio Durighetto, e il custode della Porziuncola, padre Rosario Gugliotta, in una nota con cui ieri hanno annunciato il “regalo” di Bergoglio e «ringraziano papa Francesco». Il Pontefice «si farà pellegrino in forma semplice e privata nella Basi- lica papale dove si raccoglierà in preghiera e offrirà il dono della sua parola», chiarisce ancora la nota. La notizia è stata comunicata ad Assisi dal presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, l’arcivescovo Rino Fisichella. Segno che la tappa “papale” in terra umbra rientra – in senso lato – fra gli appuntamenti del Giubileo. «È un dono particolarmente prezioso per i tanti impegni che il Papa ha in questo Anno Santo », sottolinea il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza episcopale umbra. Riconciliazione e misericordia, conversione e indulgenza plenaria sono le “bussole” del Giubileo indetto da papa Bergoglio. E sono le colonne di quanto che il Signore concesse al Poverello quando nella chiesetta della Porziuncola san Francesco lo pregò «che tutti coloro che, pentiti e confessati, verranno a visitare questa chiesa, ottengano ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe». E, al papa Onorio III che gli chiese per quanti anni volesse l’indulgenza, Francesco rispose: «Padre Santo, non domando anni, ma anime». Era il 1216 quando, secondo la tradizione francescana, il Pontefice accordò questo “privilegio” alla Porziuncola. «Il perdono di Assisi – osserva Sorrentino – attira da otto secoli nella città serafica folle di pellegrini desiderosi di riconciliazione e pace profonda. Il primo Papa di nome Francesco verrà pellegrino fra i pellegrini nell’umile chiesa dove Francesco sviluppò il suo dialogo con Dio sotto lo sguardo della Vergine e dove volle formare i suoi compagni alla fraternità inviandoli nel mondo come testimoni del Vangelo». L’arcivescovo fa sapere che sarà pubblicata a breva la Lettera pastorale Perdono di Assisi, cammino di Chiesa che si propone di aiutare a valorizzare l’indulgenza di Santa Maria degli Angeli. Bergoglio è il 18° Papa che visita Assisi (il primo fu Gregorio IX nel 1228). E lo scorso 28 giugno, in occasione del 65° anniversario di ordinazione sacerdotale del Papa emerito Benedetto XVI, Francesco aveva fatto riferimento alla Porziuncola. «Il cammino spirituale di san Francesco – aveva spiegato davanti a Ratzinger – iniziò a San Damiano, ma il vero luogo amato, il cuore pulsante dell’Ordine, lì dove lo fondò e dove infine rese la sua vita a Dio fu la Porziuncola, la “piccola porzione”, l’angolino presso la Madre della Chiesa; presso Maria che, per la sua fede così salda e per il suo vivere così interamente dell’amore e nell’amore con il Signore, tutte le generazioni chiameranno beata ». Papa Francesco si era già inginocchiato in preghiera nella chiesetta: era il 4 ottobre 2013 e, a pochi mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, giungeva ad Assisi, nella città del santo di cui aveva scelto il nome. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Pakistan, la vita dei cristiani nel ghetto di Paolo Affatato Viaggio a Lahore, nella «Joseph colony», un vero e proprio slum degradato dove sono costretti a vivere i credenti in Cristo, tra indifferenza e discriminazione

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E’ un inferno dove nessuno vorrebbe vivere. Eppure nella «Joseph colony», a Lahore, ci sono tremila persone, ammassate in casupole di argilla, spesso un unico ambiente che ospita più nuclei familiari. Senz’acqua, elettricità, fognatura. Uno slum in piena regola, situato in una zona industriale e circondato interamente da fabbriche. Lahore è la capitale del Punjab pakistano ed è la città storicamente più importante del paese. Fiorente di cultura, culla dell’intelighentia, brillante dal punto di vista economico e politico. Come in tutte le megalopoli (oggi conta undici milioni di abitanti), a Lahore non mancano insediamenti abusivi e baraccopoli. Ma tra gli slum, la «Joseph colony» ha una peculiarità: ci vivono solo i cristiani. «Da 38 anni, cioè da quando la colonia è nata, sono in condizioni subumane, nel degrado assoluto. Ma nessuno si interessa di loro», racconta Philp John, parroco del quartiere. Un altro giovane prete, Asif Sardar, 28 anni, ogni domenica celebra messa nell’improvvisata cappella all’interno della colonia, per le cento famiglie cattoliche che vi risiedono. C’è anche una sala di culto protestante e una rudimentale scuola gestita da una Ong. «E’ tutta povera gente. Le donne fanno le domestiche, gli uomini sono lavoratori a giornata, addetti alle pulizie, operai edili, facchini, trasportatori. Sono qui perché non hanno alternative. E’ uno dei quartieri più poveri di Lahore», racconta Asif. La qualità dell’aria e del suolo è scadente, tra fumi e liquami. L’acqua arriva una volta al giorno, grazie a una cisterna. A quel punto l’ambiente si anima: le donne puliscono casa, sciacquano panni e stoviglie, mentre i bambini si lavano in strada, tra i vicoli. «Nessuno dovrebbe vivere in queste condizioni», osserva amaramente Asif, sognando un progetto di housing sociale. Le «colonie» sono ghetti monoreligiosi che raccolgono la maggior parte dei cristiani pakistani, il 3% della popolazione su 200 milioni abitanti. Furono avviate con tutt’altra intenzione dai missionari cappuccini belgi che, alla fine del 1800, portarono il Vangelo in quest’area del subcontinente indiano. I primi battezzati, allora, avevano bisogno di sviluppare un senso di solidarietà reciproca e di rafforzare la loro identità cristiana, in un ambiente musulmano, restando uniti. Oltre un secolo dopo, a quei motivi si aggiunge l’esigenza di sicurezza e protezione che le famiglie cristiane avvertono in Pakistan. Preferiscono avere accanto dei correligionari, soprattutto se hanno figlie adolescenti che possono diventare facile preda di uomini musulmani: i sequestri a scopo di nozze e conversioni forzate all’islam sono una diffusa realtà. Chi non è parte della umma può subire patenti abusi. Nella mentalità corrente, infatti, soprattutto tra la gente meno istruita, i membri delle minoranze religiose restano «esseri inferiori». Si tratta di un’eredità dell’antica concezione castale, dato che le comunità cristiane e indù rimaste in Pakistan – dopo la partizione dall’India nel 1947 – appartenevano alle fasce sociali più basse. Quello stigma si avverte ancora oggi e i non musulmani sono cittadini di seconda classe, anche perché le modifiche alla Costituzione, approvate negli anni, hanno istituzionalizzato la discriminazione. E’ stata un facile bersaglio, allora, la Joseph colony quando, nel marzo 2013, una folla di musulmani l’ha data alle fiamme, con l’intento di impartire una «punizione di massa» ai cristiani. Il tutto per un caso di «blasfemia» che, come spiega Parvez Paul, laico cattolico che abita nella colonia, «fu un pretesto dopo un diverbio tra due giovani ubriachi», il cristiano Sawan Masih e il musulmano Shahid Imran. Quest’ultimo andò alla vicina moschea per denunciare il presunto vilipendio all’islam. Da lì, grazie all’istigazione del clero islamico, il passo verso l’assalto fu breve. E’ vero che la polizia fece evacuare la colonia, evitando una strage, ma poi non impedì che l’area fosse saccheggiata e bruciata. Al danno si aggiunse la beffa: in capo a un anno, Sawan Masih è stato condannato a morte per l’offesa al Profeta. Gli autori dell’incendio doloso sono invece a piede libero. Emmanuel Yousaf, presidente della commissione «Giustizia e pace» dei vescovi cattolici, rileva che «la politica è rimasta sorda agli appelli sollevati della società civile. Ben pochi hanno avuto il coraggio di protestare contro questa parodia della giustizia». Povertà, discriminazione, ingiustizia, oggi alimentano un fenomeno nuovo: l’esodo. Secondo stime delle Ong, nell’ultimo anno 14mila cristiani pakistani hanno chiesto asilo in paesi dell’Asia orientale e nel Sudest asiatico. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

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CORRIERE DELLA SERA Pag 19 Io, figlia di madre difficile, non vorrei essere nata dalla gestazione per altri di Susanna Tamaro Appena ho terminato la lettura del coraggioso e attualissimo pamphlet di Marina Terragni, Temporary mother (VandA ePublishing), mi è sorta spontanea una riflessione: come mai è stato accolto da un siderale silenzio? E subito è seguita una domanda: quanti sono i fondamentalismi del nostro tempo? Ce ne è uno macroscopico - quello religioso - che per le sue tragiche conseguenze è purtroppo noto a tutti. Ma non se ne annidano forse altri intorno a noi, più miti, più benefici, apparentemente più innocui? In fondo la scomparsa delle ideologie del ‘900 e l’innegabile eclissi del cristianesimo hanno lasciato un grande vuoto di etica e di orizzonti, e il vuoto non è facile da reggere. O si accetta di attraversarlo - consapevoli che l’incertezza fa parte del destino dell’uomo - oppure ci si attacca a qualcosa, a un particolare, e si trasforma quel particolare nel metro della totalità; da quel momento in poi, tutto quello che non si conforma alla totalità che ci rappresenta va combattuto. E in che modo? Con l’invettiva, la ridicolizzazione, la derisione: tutte armi che il mondo della rete offre con democratica generosità. Per linciare una persona basta un click, in meno di un secondo si guadagna la certezza di essere dalla parte giusta del mondo, senza mai essere sfiorati dal dubbio che la parte in cui ci riconosciamo sia soltanto un microscopico spicchio della realtà totale. Questi fondamentalismi domestici - che potremmo chiamare identitari, perché ci si identifica completamente con un’identità parziale - sono particolarmente vivi e attivi nel campo della bioetica, campo a cui la Gpa appartiene di diritto. Gpa, gestazione per altri. Non occorre essere dei filosofi del linguaggio per capire che la prima e più grande manipolazione del pensiero avviene attraverso le parole. Parlare di «pulizia etnica», ad esempio, è molto diverso che dire «sterminio di massa» perché se c’è del pulito, il nostro inconscio automaticamente pensa che qualcosa in fondo di buono c’è. E così dire «gestazione per altri» e tutt’altra cosa che dire «utero in affitto». Il concetto di affitto porta con sé l’idea, infatti, dell’oggetto e del commercio - grazie al denaro, posso affittare una macchina, un appartamento - mentre la definizione «per altri» ci indirizza verso una positività buonista che rende questa condizione, non solo accettabile, ma anche desiderabile. Ne consegue che tutti coloro che si oppongono a questo progetto sono persone retrive, egoiste, prigioniere di un oscurantismo che non ha più senso di esistere, e - soprattutto - nemiche della Felicità e dell’Amore, i due grandi Totem all’ombra dei quali vive prostrato il nostro tempo. Come puoi pensare, infatti, di negare a qualcuno il diritto di essere felice, il diritto di amare? Non è forse con la stessa suadente strategia che i predatori di ovuli - quest’abominevole categoria di «benefattori» - si aggira tra le giovani ragazze? «Non vuoi rendere felice una coppia a cui il destino ha negato questo diritto? C’è gente che dona un rene e tu sei così egoista da non voler donare un misero ovetto? Ci guadagni anche due soldini di rimborso, che fanno sempre comodo...». Per delle bambine cresciute con gli ovetti Kinder, questo discorso sembra innocuo, convincente. In fondo che c’è di male? Tranne poi dire, come ho letto in un’intervista fatta a una ragazza donatrice: «Oddio, non è che poi da qualche parte ci saranno dei bambini che mi assomigliano?». Sempre per l’esercizio di chiamare le cose con il loro nome, gli ovetti - diciamolo allora, per chi zoppica in biologia - sono i nostri figli. Figli che prima iberniamo e poi lanciamo nel mondo come fossimo piante che si affidano alla fecondazione anemofila. Spargiamo semi senza sapere dove andranno a finire. Noi, le madri, non verremo mai a conoscere il loro destino. Può esistere qualcosa di più atroce di questo? La maternità - la condizione fondante del vivente - ridotta a livello delle piante, senza identità individuale. La genealogia ridotta a quella uniformante della specie. Ma forse è proprio qui, contemplando il punto più basso dell’abisso, che il bio business getta la maschera e fa vedere il suo vero volto, che non è quello di un salvatore bensì quello di un famelico generatore del nulla. Attaccare la maternità, distruggere le sue viscere misericordiose vuol dire attaccare e distruggere i fondamenti del mondo. Per capire questo non occorre essersi rimpinzati di opuscoli Pro Life, basta aver visto almeno una volta una gatta a cui siano stati sottratti i gattini, la trepida cova di una rondine, le povere donne che scendono dai barconi stringendo al petto i loro figli sopravvissuti all’orrore. Basta ricordare l’ultima telefonata di quel povero ragazzo morto nella strage di Orlando: «Mamma, sto per morire, ti voglio bene». O basta anche,

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semplicemente, ricordare la morte della propria madre. Con la Gpa tutto questo non potrà avvenire, perché la super donna, super generosa - la complementare della donatrice - la donna che tutte noi dovremmo ammirare, cede immediatamente ad altri il frutto del suo ventre. La verità scientifica - elevata nel nostro tempo a unica verità - a questo punto diventa afasica, muta, inessenziale. Tutti i meravigliosi e straordinari studi sugli intensissimi rapporti che intercorrono in quei nove mesi tra la madre e il suo bambino diventano carta straccia. Nel tempo della fattibilità, il piccolo è ridotto a cosa, viene assemblato in un luogo indifferente ma il suo esistere ridiviene reale soltanto nel momento in cui viene onorato il contratto e consegnato nelle mani dei felicissimi committenti. D’altronde, come dar loro torto? Ogni bambino è un miracolo davanti a cui rimaniamo tutti a bocca aperta! Però, questo miracolo ha un piccolo difetto. È un essere umano e, in quanto tale, probabilmente prima o poi comincerà a farsi domande. Già perché, assieme agli studi scientifici, sono finiti nel cassonetto decine di capolavori della letteratura con protagonisti giovani orfani o figli illegittimi alla ricerca perenne del volto della madre, un paio di secoli di studi psicologici, l’intera psicanalisi. Il bambino Gpa è un bambino tabula rasa, nasce senza alcun passato e vive - e sappiamo già che sarà felice perché è stato desideratissimo - in un mondo che gli promette un amore incondizionato. Ma quando, un giorno, si guarderà allo specchio e capirà che non potrà mai risalire all’origine di una parte del suo volto, l’amore basterà? E basterà quando si renderà conto che sua madre, per un compenso, ha venduto l’ovulo che l’ha generato, cioè la sua vita? Se penso alla mia famiglia, la parola «amore» è forse la trentesima che mi viene in mente e la maggior parte delle parole che la precedono non hanno certo una connotazione di positività, eppure io sono quella che sono perché ho avuto quei genitori. Genitori a loro volta generati da altri genitori. Il fondamento della vita umana dunque è la genealogia, non l’amore. Si può nascere anche da uno stupro, si può crescere in un lager. Ciò che fa di un essere umano una persona è prima di ogni altra cosa la storia di chi ci ha preceduto. In nome di che cosa mi chiedo allora, una persona, per esercitare il suo diritto alla felicità, può coscientemente privare un altro essere della sua genealogia? In nome dell’amore? Ma un amore che priva programmaticamente, per principio, qualcun altro di un ben più fondante diritto, che amore è? E qui va smascherato il secondo passo del bio business. Dato che non esiste la maternità, non esiste neppure il destino. Nessuna unicità appartiene all’uomo. Non è importante sognare, pensare, combattere, danzare. Il corpo a corpo karmico non ci riguarda più. L’esteso campo del mistero - quel campo che ci rende davvero umani - è stato conquistato dalla tecnica ed è lei a preparare per noi delle vite indolori, immerse dall’inizio alla fine nella rilassata piacevolezza del suo Amore. Le energia messe in moto per propagandare questa nuova visione dell’umano sono potenti, sempre pronte a esaltare con tutti i mezzi un singolo caso, capace di mettere in ombra, con la sua forza emotiva, i principi etici che da migliaia di anni governano la vita degli uomini. Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te stesso è il cardine principale su cui si fonda ogni civiltà degna di questo nome. Faccio outing: non vorrei mai essere nata da una Gpa. Nonostante mia madre non sia stata un esempio di amore materno, dalla sua morte in poi c’è un grande vuoto nella mia vita. Per difendersi da questa aberrante visione del mondo, si dovrebbe prima di tutto cominciare a smantellare il grande ombrello dell’Amore Incondizionato, riportando questo importantissimo sentimento a due categorie fondamentali - l’amore generativo e l’amore oblativo - per ricordarsi che non poter generare non vuol dire non potere amare, anzi l’amore oblativo è spesso più grande e più libero di quello generativo. E allora perché non lavorare strenuamente nel campo degli affidi e delle adozioni? I tre, quattro anni abituali di attesa, ad esempio, ridotti a nove mesi, il tempo di una gravidanza? Perché non pensare a Incentivi economici, apertura ai single e alle coppie omosessuali quando sia manifesta una stabilità affettiva? Togliere la maggior parte dei bambini dalle situazioni di anaffettività dell’abbandono dovrebbe essere il primo pensiero di una società umanamente degna. Perché, come dice il Talmud, «chi salva una vita salva il mondo intero», e questa salvezza - che nasce dall’amore oblativo - è l’unico vero e umile antidoto che possiamo opporre alla Gpa e allo strapotere del bio business sulla vita. Torna al sommario

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Tesserin: “Basta rifiuti in basilica” di Michele Fullin Il Primo procuratore chiede la collaborazione di tutti gli enti coinvolti. Veritas: “Da uno a due uomini al giorno sempre in piazza, ma in chiesa non vogliono i cestini” Se non è stato un miracolo, poco ci manca. Il giorno dopo l’inchiesta pubblicata sul Gazzettino, l’ingresso della Basilica di San Marco era pulitissimo: nonostante la fila di visitatori arrivasse fino a metà Piazzetta, non c’era nemmeno una bottiglietta d’acqua infilata tra le colonne del portale. Una situazione ben diversa da quella delle foto pubblicate sui social domenica dal gruppo "W San Marco" e che hanno fatto il giro d’Italia suscitando reazioni di sdegno per la scarsa pulizia in cui viene tenuta una delle aree più di pregio al mondo. «Non dipende da noi - dicono da Veritas - perché gli addetti al controllo della Basilica non ammettono visitatori con bottiglie d’acqua e altri liquidi, tuttavia non vogliono neppure cestini dove gettarle prima dell’ingresso. In ogni caso, noi abbiamo un addetto fisso, e in certi periodi e giorni della settimana a anche due, dedicato a svuotare i cento cestini posizionati in piazza. La gente è però così tanta che, una volta concluso il giro i cestini sono quasi sempre pieni». Nessun cestino è stato finora rimosso dalla piazza, sebbene un progetto approntato dalla gestione commissariale tra il 2014 e il 2015, ne avesse provveduta la rimozione anche per esigenze di sicurezza. E allora, come fare, per evitare che la Basilica e la piazza siano sepolte nuovamente dai rifiuti dei turisti di passaggio? La risposta più ovvia sarebbe quella di rafforzare i turni dei netturbini. «Possiamo anche mettere dei rinforzi - concludono dalla partecipata del Comune - ma tutto questo ha un costo e deve essere l’amministrazione comunale a deciderlo, dal momento che a pagare questo extra sarebbero tutti i cittadini con un incremento del contratto di servizio». «In effetti - replica il Primo procuratore di San Marco, Carlo Alberto Tesserin - la situazione ci preoccupa ed è necessario porre fine a questo andazzo. Le immagini che avete pubblicato mostrano che non c’è stata finora un’attenzione sufficiente a risolvere i problemi, e per questo vi ringrazio. La parte esterna della Basilica è di nostra competenza, ma i contenitori per i rifiuti fanno parte dell’arredo urbano e devono rispondere a diverse esigenze. Noi siamo pronti a collaborare - continua - con Comune, Veritas, Soprintendenza e l’Associazione piazza San Marco per risolvere il problema o almeno per ridurlo. Parliamone. Così non si può andare avanti». Tesserin coglie l’occasione per rispolverare un vecchio progetto per l’impermeabilizzazione della Basilica che, come è noto, anche con il Mose in funzione, sopra gli 80 centimetri di marea sarà comunque allagata nella parte del nartece. «In questo modo - conclude - potremmo togliere le passerelle per l’acqua alta che impediscono una piena fruizione dell’interno e, magari, recuperare spazio per posizionare i contenitori per i rifiuti». Il sindaco Luigi Brugnaro, dal canto suo, invita gli "ospiti" di Venezia a trattare la città con il rispetto che le è dovuto. Dall’altro lato, però, reclama nuovi poteri proprio per poter prevenire e reprimere questi gesti di maleducazione senza dover scomodare il Codice penale e con procedure molto più veloci. Bottigliette di plastica abbandonate all’ingresso della Basilica di San Marco per almeno 24 ore: lasciate dietro le transenne, appoggiate sugli antichi marmi, il giorno dopo erano ancora lì. La denuncia di questo nuovo scandalo del degrado della Piazza arriva direttamente da un fotoreport veneziano, Andrea Merola, una vita passata a raccontare la città con la sua macchina fotografica. Ebbene, sabato sera, attorno alle 18, passando per Piazza San Marco, Merola aveva notato per la prima volta quel cumulo vergognoso e lo aveva fotografato. Un’altra immagine sul degrado da archiviare, aveva pensato. Ma la cosa non finisce qui... Domenica, sempre attorno alle 18, Merola è di nuovo a San Marco e lo sguardo gli cade su quel cumolo di rifiuti che è ancora al suo posto, anzi si è arricchito di nuove "scoasse". Il fotoreporter non crede ai suoi occhi, si avvicina, controlla, ma la foto del giorno prima ancora in macchina gli conferma che i rifiuti sono gli stessi di sabato. A quel punto Merola segnala il fatto a un custode della Basilica, informa anche uno scopino di Veritas che, al lavoro poco distante, incomincia a far pulizia. Finalmente, un’ora dopo, la discarica è sparita. Resta la vergogna di una sistema

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che ieri il fotoreporter ha denunciato anche in una lettera aperta a Veritas. «Ma è possibile - scrive Merola - che, non dico su un lato qualsiasi della Piazza, ma addirittura davanti al portone di ingresso di San Marco, per 24 ore nessuno, dico nessuno, tra personale Veritas, guardiani della Basilica, polizia municipale, caschi blu o chi altri, non abbia visto tutta quell’immondizia, o non si sia sentito un pochino responsabile da avvisare chi di dovere per la pulizia?». CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Prima la sicurezza o il decoro? Polemiche per i rifiuti davanti alla basilica di San Marco di Elisa Lorenzini Bottiglie vietate a chi entra e i turisti le abbandonano Venezia. Bottigliette di acqua o di qualche soft drink, per lo più vuote, abbandonate fuori dall’ingresso principale del più prezioso monumento della città, la basilica di San Marco. Una piccola discarica si accumula ogni giorno ai lati delle porte, colpa della maleducazione dei turisti ma anche effetto dei controlli di sicurezza all’ingresso della chiesa: un inconsueto conflitto tra decoro e sicurezza che sta accendendo qualche polemica. All’indomani dell’attentato di Parigi dello scorso novembre sono stati introdotti divieti e controlli all’ingresso: non si può entrare con bottiglie e non si può visitare la basilica con zaini e borse voluminose. Peccato però che proprio in quella zona siano del tutto assenti i cestini e dunque i turisti, magari dopo aver fatto ore di coda sotto il sole estivo, pur di entrare dopo tanta fatica non si fanno troppi scrupoli e abbandonano le bottigliette dove capita. Una chiama l’altra e in breve tempo quell’angolo diventa una piccola discarica, semi nascosta dietro le sbarre che delimitano la basilica. «È stata la direzione della basilica a non permettere che vengano collocati cestini nei pressi dell’ingresso – spiega Veritas la multiutility che si occupa della raccolta dei rifiuti – fino a non molto tempo fa ce n’erano in piazzetta dei leoncini ma ci è stato chiesto di rimuoverli». La Curia però nega: «Non ci risulta nessuna richiesta da parte di Veritas, ma se ci fosse verrà valutata». Dalla Basilica però confermano che il problema esiste e non è solo cosa degli ultimi giorni: «Ogni mattina troviamo rifiuti davanti agli ingressi, il nostro personale appena arriva per prima cosa spazza ma non abbiamo mai trovato una quantità di rifiuti come in questi giorni». Di certo i cestini delle immondizie di fronte al monumento più bello della città non sono il massimo dal punto di vista estetico e soprattutto dal punto di vista della sicurezza tanto che in occasione dell’arrivo di capi di stato e di governo sono i primi ad essere passati al setaccio. L’ipotesi di sistemarne alcuni all’interno, nell’atrio della basilica, prima dei varchi d’accesso, un po’ come si fa in aeroporto, invece non piace. Dice Carlo Alberto Tesserin primo procuratore di San Marco: «L’immagine della basilica ci obbliga a pensare in modo diverso rispetto all’aeroporto, quanto ai cestini all’esterno certo non vorremmo averli ma se ci sono questi problemi siamo disponibili a esaminare con Veritas una soluzione». Le bottigliette abbandonate non sono solo questione d’immagine ma sono anche un onere per chi si occupa della raccolta dei rifiuti con il relativo costo economico. In zona sono sistemati circa cento cestini, un decimo del totale di quelli presenti in città e raccolgono 30 metri cubi al giorno di immondizie, un numero che cresce di pari passo con l’aumento dei turisti. Vengono vuotati più volte e uno o due netturbini a seconda delle giornate sono impegnati solo a raccogliere rifiuti. Secondo l’assessore al Turismo Paola Mar: «Il problema è ancora una volta la scarsa educazione delle persone che circolano per piazza San Marco e per la città, non si può trasformare la piazza in un ecocentro e se in basilica non si entra con le bottiglie il turista dovrebbe informarsi prima e comportarsi di conseguenza». LA NUOVA Pag 18 La fede di Taliercio più forte dei terroristi di Luigi Francesco Ruffato Io c’ero. Con molta probabilità, sono l’ultimo prete che ha sentito e visto, vivo, Giuseppe Taliercio, il direttore del Petrochimico di Porto Marghera sequestrato dalle Brigate Rosse il 20 maggio 1981 e assassinato dalle stesse 46 giorni dopo, il 5 luglio, in una mansarda di Tarcento (Udine). Gli hanno sparato 17 colpi di pistola e l’hanno abbandonato, a notte fonda, nel bagagliaio di un’auto, a pochi passi dal suo posto di lavoro. Era nato, ultimo di

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quattro figli, a Marina di Carrara l’8 agosto 1927. All’epoca degli anni di piombo viveva a Mestre con la famiglia: moglie e cinque figli. Riposa nel cimitero di Avenza (Marina di Carrara). Sulla sua tomba, una tra le tante, senza segni particolari, ho pregato per Gabriella, la madre dei figli, e per i figli: Elda, Lucia, Bianca, Cesare e Antonio. Ho raccomandato a Dio gli assassini del loro congiunto, associandomi ai sentimenti di perdono che hanno scosso la coscienza dei carnefici fino al punto di farli diventare ex brigatisti. «Se hanno meritato la libertà e si sono pentiti davvero, è giusto che sia così», disse Cesare alla notizia che erano usciti in libertà, perché pentiti, il brigatista friuliano Gianni Francescutti, il primo a entrare vestito da finanziere in casa Taliercio, e Antonio Savasta, l’esecutore materiale dell’assassinio. Come dire che anche il nemico ha dignità umana, anche il nemico è un fratello; e Cesare era presente al sequestro del padre! Cesare, come gli altri Taliercio, ha saputo perdonare perché i Taliercio credono nel ravvedimento di chi ha sbagliato e non si fermano sull’atrocità dell’errore. «Ho verificato, aggiunge Cesare, che la forza di perdonare è un dono grande del Signore alla mia famiglia, un dono che ci concede di vivere senza rancore e senza odio verso gli altri». Il killer di Taliercio, Antonio Savasta, il 27 febbraio 1985, scrive una lunga lettera in cui chiede perdono alla vedova e ai familiari, svelando il comportamento tenuto dal loro caro nel tempo di prigionia. «Suo marito, in quei giorni, è stato come lei lo descrive: pacato, pieno di fede, incapace di odiarci, e con una dignità altissima. È vissuto serenamente, anche se i suoi pensieri e le sue preoccupazioni andavano a voi. Era lui che tentava di spiegarci il senso della vita e io, in particolare, non capivo dove prendesse la forza per sentirsi sereno, quasi staccato dalla situazione drammatica che viveva. Ha lottato per affermare anche a noi, che parlavamo un linguaggio di morte, il diritto alla vita, suo e di tutti. Lo so, signora, che questo non le restituirà molto. Ma sappia che dentro di me ha vinto la parola che portava suo marito. (…) È stata un seme così potente che nemmeno io, che lottavo contro, sono riuscito ad estinguere in me. È stata un fiore che voglio coltivare per poter essere io, a mia volta, a donarlo. Se non ci foste stati voi, io sarei ancora perduto nel deserto». Due anni dopo, il 18 febbraio 1987, una brigatista informa di quanto è rimasta stupita di fronte alla calma orante del Taliercio prigioniero: «C’era nelle sue preghiere qualcosa che allora non capivo. I nostri processi, le nostre censure nulla potevano contro la sua fede. La certezza di essere giusto lo rendeva estremamente tranquillo. Non potrò più pensare a quei momenti senza morire ogni volta un po’, consapevole del tremendo sbaglio e di non aver scelto la strada dell’amore. Signora Taliercio, non potrò mai restituire ciò che le ho rubato e non mi basterà la vita intera a pagare un prezzo equo». Il ministro degli Interni nel 1982 consegnò alla vedova Gabriella la medaglia d’oro al Valor civile del marito e un ex leader di “Potere operaio”, un movimento di estrema sinistra che operava all’interno del Petrolchimico di Porto Marghera, mi ha scritto: «Era un grande tecnico, ma troppo leale e coerente con la sua fede cristiana per occupare il vertice di una multinazionale, fatto di furberie e fondato sulle bugie». Il Patriarca Marco Cè disse pubblicamente: «Non ebbi dubbi che il suo nome fosse degno di essere inserito nell’elenco dei martiri cristiani del Novecento, per iniziativa di Papa Giovanni Paolo II». Giuseppe Taliercio (detto Pino) soleva ricordare ai figli che «la vita è una cosa seria, bella ma molto seria». Lo disse anche a me, la domenica prima di essere sequestrato dalle Brigate Rosse. Non mettiamo in frigo la sua storia. Pag 19 Ultimatum del Comitato dell’Unesco di Enrico Tantucci Senza misure concrete su turismo, navi e ambiente, la città sarà inserita nell’elenco dei siti monumentali in pericolo. Il sottosegretario Borletti Buitoni: “Venezia ha bisogno di essere autonoma” Ultimatum dell’Unesco a Venezia. Se entro il primo febbraio del prossimo anno lo Stato italiano e la città non saranno in grado di presentare un rapporto dettagliato sulle misure urgenti prese per difenderla dall’eccessiva pressione turistica, dal passaggio delle Grandi Navi in Bacino San Marco, dal traffico acqueo eccessivo che sta minando la laguna, dalle minacce al suo patrimonio monumentale e al suo ecosistema, il Comitato dell’organismo delle Nazioni unite per la cultura potrebbe inserire il prossimo anno Venezia e la sua laguna nella lista dei siti del Patrimonio dell’umanità in pericolo. E si chiede nel frattempo di fermare tutti i nuovi progetti di trasformazione. È il risultato dell’atteso

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rapporto stilato dagli ispettori Unesco che lo scorso anno erano venuti in sopralluogo per una settimana a “misurare” lo stato di salute della città - su cui l’Unesco aveva già espresso nel 2014 serie preoccupazioni - e che diventerà tra pochi giorni una risoluzione approvata dal Comitato del Patrimonio mondiale, nella sua sessione annuale in programma a Istanbul, in Turchia. Perdità di identità della città. La bozza della risoluzione Unesco per Venezia che sarà approvata a Istanbul esprime «estrema preoccupazione» sul fatto che le trasformazioni in corso stiano minacciando l’ecosistema lagunare e il suo rapporto con la città, provocando cambiamenti irreversibili, ma anche la perdita di coerenza architettonica e urbanistica della città storica, minando la sua stessa identità. Strategia di turismo sostenibile. L’Unesco chiede anche al Governo italiano e al Comune di Venezia l’adozione di una strategia di turismo sostenibile per la città, con un piano di gestione aggiornato che salvaguardi dai flussi crescenti l’immagine della città. La missione degli ispettori Unesco infatti «ha notato che la relazione tra la capacità della città, il numero dei residenti e il numero dei turisti è completamente sbilanciato e causa un danno significativo, in particolare attraverso la conversione in appartamenti ad uso turistico. Si nota altresì una carenza di manutenzione degli immobili». Si chiede inoltre che il piano per un turismo sostenibile non sia frutto solo delle decisioni delle autorità - Stato e Comune - ma coinvolga anche i cosiddetti “portatori di interesse” e cioè categorie e associazioni, senza tagliarli fuori. Stop alle Grandi Navi e all’aumento del traffico acqueo. La bozza di risoluzione Unesco ribadisce la sua richiesta allo Stato italiano «di far rispettare i limiti di velocità e di regolare il numero e il tipo di barche in Laguna nei canali». E chiede con urgenza il divieto di ingresso delle Grandi Navi e delle navi petroliere in laguna, mettendo in atto la pianificazione e le misure necessarie a tal fine. Anche in questa chiave, chiede al Governo italiano di fermare tutti i nuovi progetti di sviluppo e di trasformazione proposti - compreso quindi lo scavo del canale Tresse Nuovo proposto dal sindaco Luigi Brugnaro e dal presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa - prima che l’Unesco valuti il pacchetto di misure urgenti per la tutela di Venezia che dovrà esserle presentato entro il primo febbraio 2017. Secondo il rapporto degli ispettori Unesco venuti in sopralluogo lo scorso anno, lo scavo di nuovi canali profondi per la navigazione e il nuovo terminal portuale, aggiunti alla trasformazione di edifici a scopo turistico potrebbe provocare danni irreversibili allo «straordinario valore universale del sito». Dubbi anche sull’impatto del Mose e sul fatto che il nuovo sistema di dighe mobili sia adeguato a fronteggiare il pronosticato innalzamento del livello del mare provocato dall’effetto serra. Associazioni soddisfatte. Soddisfatte le associazioni ambientaliste, a cominciare da Italia Nostra, che per prima aveva posto all’Unesco il tema del possibile inserimento di Venezia tra i siti a rischio. «Le preoccupazioni da noi espresse su ambiente e turismo per la città» osserva il presidente della sezione veneziana di Italia Nostra Lidia Fersuoch «sono quelle rilevate anche dagli ispettori Unesco e oggetto della nuova risoluzione su Venezia. È importante che per la prima volta l’Unesco chiarisca che un piano per il futuro per la città e per un turismo sostenibile non possa preso dalle Autorità da sole, ma anche consultando associazioni e cittadini». «L’Unesco chiede per Venezia su turismo e ambiente quelle cose di buon senso che tutti conoscono e condividono almeno a parole, ma su cui non si è fatto nulla. È arrivato il momento di agire». Il sottosegretario ai Beni Culturali Ilaria Borletti Buitoni, che ha la delega proprio alla gestione dei siti Unesco italiani, qual è Venezia, commenta così le anticipazioni sulla risoluzione relativa a Venezia che il Comitato dell’Unesco dovrebbe approvare tra pochi giorni a Istanbul. Se l’aspettava? «Era evidente che gli ispettori Unesco venuti in sopralluogo non avrebbero potuto che constatare la realtà: che a Venezia manca qualsiasi forma di gestione dei flussi turistici, che sulle Grandi Navi non si decide nulla - e anzi si cerca di reintrodurre surrettiziamente l’aumento del loro tonnellaggio in laguna - e che la città rischia sempre di più sul piano ambientale e monumentale». Cosa fare ora? «Quello che chiedo da tempo inascoltata e spesso anche insultata: convocare subito un tavolo tecnico a cui siedano il comune, il governo con il ministero dei Beni culturali, gli altri soggetti istituzionali interessati, categorie e associazioni, per varare le prime misure concrete che l’Unesco ci chiede all’interno del piano di gestione del sito di Venezia. È importante che anche i cittadini veneziani abbiano iniziato a far sentire la propria voce, con la bella manifestazione legata a

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Venezia e il suo futuro». Quali potrebbero essere le prime misure da prendere? «Innanzitutto tutelare Venezia anche sotto il profilo amministrativo, per evitare che sia solo il collettore di tutto il turismo dell’area metropolitana, senza alcuna difesa. Se si può fare dentro la Città Metropolitana, bene. Altrimenti anche il referendum sulla separazione tra Venezia e Mestre può essere una strada. D’altra parte qualsiasi sindaco del Comune di Venezia viene eletto soprattutto con i voti mestrini e là cercherà soprattutto il suo consenso. Venezia ha invece bisogno di qualcuno che pensi solo ai suoi problemi». E sul piano ambientale? «Dare finalmente attuazione al provvedimento che prevede che le Grandi Navi da crociera non passino più per il Bacino di San Marco, bloccando, come ci chiede l’Unesco, qualsiasi altra manomissione della laguna nel frattempo, come lo scavo di nuovi canali». Per quanto riguarda il turismo? «È indispensabile partire con qualche prima forme di gestione del controllo dei flussi in arrivo. Non è ad esempio possibile che al giorno d’oggi, con le tecnologie di cui disponiamo, non sia neppure possibile conoscere il numero reale di turisti che arrivano ogni anno a Venezia. Bisogna iniziare ad agire, anche a costo di scontentare qualcuno. E anche in questo caso l’Unesco fornisce indicazioni precise, quando parla di stop al cambio di destinazione d’uso degli alloggi a Venezia per farne bed & breakfast o appartamenti turistici. Infine, bisogna fare un piano serio di tutela del patrimonio monumentale e civile della città, che è sempre più in pericolo». Pag 24 Finito il Ramadan, si festeggia. Musulmani divisi sulla data Oggi o domani Finito il mese sacro del Ramadan i musulmani si preparano a celebrare la Id Al Fitr, la Festa dell'Interruzione che cade il primo giorno del mese di Shawwal, il decimo del calendario e che riunisce migliaia di persone ogni anno. Metà dei musulmani festeggerà questa sera, mentre gli altri domani. Questo perché ci sono due modi, entrambi ritenuti corretti, per calcolare il giorno in cui finisce il Ramadan. Chi festeggia oggi si basa sulle “direttive” del Consiglio Europeo della Fatwa e della ricerca, che ogni anno segue il calcolo astronomico per stabilire la data. Chi invece, più osservante, segue i sapienti dell’Arabia Saudita si basa sull’avvistamento della luna che segna la fine del Ramadan. I sapienti per vedere la luna giusta osservano il cielo intorno alle 18. Questo è il metodo ritenuto più sicuro. Comunque entrambi i dati sono corretti. Il calcolo astronomico facilita la vita a chi si trova in Occidente e deve chiedere un giorno di permesso al lavoro per la celebrazione. Con il calcolo il giorno della fine del Ramadan si conosce con anticipo e quindi crea meno problemi ottenere il giorno di permesso. La Comunità di Mestre e provincia quest’anno ha deciso di non chiedere, come avvenuto negli ultimi tempi, un parco pubblico, ma di pregare nella moschea della Misericordia di via Monzani. Per qualche anno la festa si era svolta al parco di San Giuliano, successivamente nel parco di Catene. Ma visto che la Id cade in un giorno lavorativo e il tempo è incerto, finché non c’è un luogo di preghiera che possa contenere tutti, è stato deciso in questo modo. I bengalesi, la comunità musulmana più numerosa, pregheranno a Mestre in via Fogazzaro, così come nella sede della Cita. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 2 “Isis, non c’è un luogo sicuro. Venezia come Roma e Firenze” di Andrea Priante Intervista al capo dell’antiterrorismo D’Ippolito Venezia «Nessuno può pensare che il Jihad non lo riguardi», avverte il capo dell’antiterrorismo del Veneto, Adelchi d’Ippolito. Dal suo ufficio a Venezia, guida il team di sostituti procuratori impegnato in tutte le inchieste che, anche in tempi recenti, hanno dimostrato diversi tentativi di infiltrazione dell’Isis nelle nostre città. Ieri il procuratore nazionale Franco Roberti ha confermato che «il rischio esiste». Dobbiamo preoccuparci?

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«Da noi i controlli funzionano molto bene, la polizia giudiziaria e la magistratura hanno una grandissima esperienza in tema di contrasto al terrorismo, seppur di diversa matrice, e una elevatissima professionalità. Ma oggi il terrorismo internazionale rappresenta il principale pericolo per tutto il mondo e nessuno, proprio nessuno, e quindi nemmeno il Veneto, può pensare che tale barbarie non possa arrivare a interessarlo da vicino. Ciò ovviamente non significa affatto che dobbiamo cadere in preda alla paura e modificare le nostre abitudini di vita. Ma occorre sapere che non esistono più luoghi sicuri dove l’Isis non colpisce. Nessuno può illudersi di restare fuori da questo circuito di morte e di terrore». Le vostre inchieste, come quella sui foreign fighters reclutati nel Bellunese, hanno dimostrato le mire degli estremisti sul nostro territorio. I terroristi puntano al Nordest? «Il Veneto non ha delle caratteristiche diverse rispetto ad altre parti d’Italia, ma è evidente che nel nostro territorio sono presenti obiettivi potenzialmente molto importanti. Venezia è alla pari di Roma e Firenze. In più, il Veneto ha la particolarità di essere una porta verso il Medio Oriente. È storicamente una terra di passaggio...». Pensa al fanatismo dilagante nei Balcani? «Non solo, ma quella balcanica è una terra molto importante per i mujaheddin dell’Isis. Per questo stiamo costruendo una fortissima collaborazione con le autorità di quei Paesi, che abbiamo incontrato già due volte a L’Aja. In questi giorni interrogheremo Rok Zavbi, lo sloveno estradato dalla Slovenia, e nei confronti delle autorità di Bosnia Erzegovina abbiamo già avanzato la richiesta di rogatoria per l’imam Bilal Hussein Bosnic, entrambi accusati di aver avuto un ruolo fondamentale nel reclutamento di foreign fighters a Nordest». Il premier Renzi ha rivelato che due attentati sono stati sventati nel nostro Paese… «Posso solo dire che ciò non è accaduto in Veneto». Come si prevengono possibili attentati? «L’intelligence serve moltissimo e io spero che l’Italia ci investa sempre di più, impegnando in questo delicatissimo settore dello Stato le nostre migliori risorse. Mi auguro vengano potenziate le forze direttamente impegnate al contrasto al terrorismo di carabinieri, polizia e guardia di finanza. Anche un uso intelligente e appropriato delle intercettazioni può costituire una barriera al dilagare del terrorismo nel mondo e nel nostro Paese. Ma più di tutto serve collaborazione». Sul fronte internazionale? «Certo. Oggi il terrorismo rappresenta un pericolo globale e quindi occorre un impegno incessante e una fortissima responsabilizzazione da parte di tutti i paesi del mondo, che devono essere uniti e compatti: solo una barriera senza crepe può fermare questi assassini massacratori». Prima la Siria e l’Iraq, poi l’Europa, ora il Bangladesh, le redazioni dei giornali, i locali pubblici. L’Isis sembra cambiare di continuo luoghi e metodi per colpire. E questo complica il vostro lavoro di prevenzione… «Scopo dei terroristi è creare paure e disorientamento tra la gente, e uno dei mezzi più agevoli per riuscirci è proprio quello di generare la sensazione che per loro ogni obiettivo sia possibile. Bisogna avere la capacità di analizzare le varie strategie di guerra dell’Isis e dal loro mutare saper opporre i più adeguati mezzi di contrasto. Dalle indagini fin qui fatte in tema di terrorismo internazionale emerge sempre più chiaramente che gran parte del reclutamento avviene tramite web, dobbiamo quindi riuscire a realizzare in tempi brevi una attività di penetrazione e di controllo dei messaggi scambiati attraverso alcune delle più importanti piattaforme internazionali, Facebook ma non solo. Inoltre dobbiamo avere la capacità di seguire i flussi di denaro: il terrorismo, per esistere ha bisogno di persone disposte a finanziarlo». Cosa possono fare le nostre comunità islamiche? «Per prima cosa devono, con nettezza e determinazione, prendere le distanze da questi attentati. E poi, naturalmente, collaborare segnalandoci subito eventuali casi sospetti». E tutti gli altri veneti, come devono comportarsi? «Mantenere la calma, continuare nelle proprie abitudini di vita. L’Isis si sconfigge anche così: dimostrando che non ci lasceremo schiacciare dalla paura». Pag 3 Sermoni contro gli attentati nella festa di fine Ramadan: “Uniti per vincere il terrore” di Michela Nicolussi Moro

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Le comunità islamiche in Veneto Venezia. Ha scosso anche la comunità musulmana in Veneto la strage di Dacca, costata la vita venerdì notte a venti persone, nove delle quali italiane. Alla luce dell’ennesimo attentato rivendicato dall’Isis, i presidenti dei centri islamici dedicheranno alla condanna di «questi folli atti criminali» un passaggio significativo del sermone che pronunceranno alla festa di chiusura del Ramadan. Prevista tra oggi e domani, a seconda che ci sia o meno la luna piena. «Ogni associazione la celebrerà nei propri spazi o eventualmente in quelli concessi dai Comuni - spiega Tanji Bouchaib, presidente della Federazione regionale islamica -. Per esempio a Verona il sindaco Flavio Tosi ha messo a disposizione per la preghiera e per tutto il mese del Ramadan una palestra a Borgo Roma, dove domenica sera abbiamo mangiato insieme e alla presenza del vescovo. Lo stesso ha fatto Sebastiano Giangravè, sindaco di Ormelle, nel Trevigiano, mentre a Padova il Comune ci ha negato spazi. Nelle celebrazioni che chiudono il digiuno osserveremo un minuto di silenzio per le vittime delle stragi, reciteremo un versetto del Corano dedicato ai morti e condanneremo la violenza». «Il mese del Ramadan è quello della purificazione, nel quale i fedeli islamici dovrebbero avvicinarsi a Dio facendo del bene - è un passaggio del testo ufficiale -. L’Islam è una religione di pace e non tollera la violenza. Un verso del Corano dice: chi toglie la vita a un essere umano è come se avesse tolto la vita all’intera umanità. Dio non si adora tramite l’ignoranza, ma attraverso l’amore, la saggezza e il rispetto». Particolarmente toccata la comunità di Venezia, che lo scorso novembre aveva partecipato al funerale di Valeria Solesin, la studentessa uccisa nell’attentato al teatro Bataclan di Parigi. «Abbiamo dedicato la preghiera del venerdì alle vittime del terrorismo - riferisce il presidente Amin Al Adhab - e torneremo a parlarne alla chiusura del Ramadan. Prenderemo le distanze da gesti che fanno quasi più male a noi musulmani, perché ci tirano in ballo, anche se non c’entriamo nulla. Come non c’entra la religione: se si uccide è per motivi politici e di potere. La nostra è una fede tollerante con le altre, non è contro Gesù e la Bibbia, coloro che ammazzano sono assassini senza ideali, a cui è stato fatto il lavaggio del cervello. Hanno promesso loro il paradiso ma Dio li punirà. Inviteremo poi i fratelli a tenere gli occhi aperti e a segnalare alla polizia qualsiasi movimento o tipo sospetto». Il presidente degli islamici di Venezia risponde infine ad Alberto Solesin, il papà di Valeria, che non andrà più nei Paesi musulmani: «Mi piacerebbe sentirlo, per dirgli che siamo addolorati quanto lui, ma boicottare nazioni già afflitte da dittature, guerre e fame non è la soluzione. Si aggiungerebbe sofferenza a sofferenza, allontanando ancora il traguardo della democrazia, a scapito di tutti». Anche il Consiglio musulmano di Vicenza si stringe alle famiglie delle vittime, «al di là di etnìe e religioni», e si dissocia «da chi sta scavando un fossato tra noi e il resto del mondo». «Assassini animati da una turpe e fanatica ideologia di morte - è la base del sermone che anticipa il presidente Darouich Hassan e che l’imam scandirà pure in italiano -. Non dobbiamo arrenderci al terrorismo, che va identificato e riconosciuto come nemico dell’umanità e non può più essere confuso con i musulmani. L’estremismo va isolato e combattuto in modo compatto, per difendere i valori democratici». Hassan ha chiamato il questore Gaetano Giampietro per chiedergli di incontrare tutti i responsabili delle associazioni islamiche vicentine. «Bisogna esortarli a selezionare attentamente gli imam che invitano dall’estero - spiega - e la polizia deve sapere chi sono, cosa fanno e dicono quando sono qui, dove dormono, chi incontrano. Non possiamo rischiare che qualcuno cerchi di reclutare nuove forze per l’Isis tra i nostri giovani». «Richiamerò in tal senso i fratelli - annuncia Kamel Layachi, imam di Treviso - e dirò che nel mese del Ramadan abbiamo recitato il Corano e meditato sulle parole di Dio, che invita alla misericordia, all’amore, al rispetto della vita e della libertà religiosa. E intanto un’esigua minoranza commetteva un’eresia da sempre condannata dai veri musulmani. Dirò anche che dobbiamo essere molto vigili nel selezionare gli imam di altri Paesi. I 15 ora in tour nel Veneto sono stati controllati alla partenza dal ministero del Culto marocchino, per esempio». IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Nordest, il dialetto resiste ed è la lingua di famiglia di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin

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Sette persone su dieci lo parlano molto o abbastanza spesso in casa e con gli amici. Ulderico Bernardi: “La parlata locale è rinata dopo la crisi degli anni ‘60” Il dialetto sembra resistere al tempo e si conferma come la lingua degli affetti dei nordestini. Queste sembrano essere le principali indicazioni che emergono dai dati analizzati da Demos per l’Osservatorio sul Nord Est del Gazzettino. Sette rispondenti su dieci, infatti, parlano molto o abbastanza spesso in dialetto in famiglia e una quota sostanzialmente analoga (69%) lo utilizza normalmente con gli amici. Meno diffuso, invece, è il suo uso al lavoro: è il 35%, infatti, a parlarlo abitualmente. In tutti i contesti proposti la serie storica mostra una sostanziale stabilità recente, mentre rispetto al 2002 la crisi appare più marcata per l’utilizzo della lingua locale in ambiente professionale. Chi deve insegnare il dialetto? La trasmissione viene affidata alla famiglia: è il 63% a ritenere che si possa imparare solo qui, mentre il 35% lo vorrebbe come materia di studio a scuola. Nonostante l’inglese e la globalizzazione; nonostante la crescita dell’istruzione e il suo minor impiego nella quotidianità lavorativa; nonostante sia stato persino brandito da una parte politica come bandiera (mai pienamente ceduta, in realtà): il dialetto resiste nel Nordest. Sette nordestini su dieci, infatti, parlano dialetto in famiglia o con gli amici, mentre è poco più di uno su tre (35%) ad utilizzarlo nel lavoro. La dinamica che ha interessato l’utilizzo dell’idioma locale sul lavoro appare quella che ha subito dei mutamenti più radicali: nel 2002, infatti, era il 55% ad utilizzarlo (-20 punti percentuali rispetto ad oggi). L’abitudine di parlare dialetto in famiglia o con gli amici, invece, appare sostanzialmente stabile rispetto al recente passato, mentre guardando al 2002 la diminuzione è più contenuta e si ferma intorno ai 5-7 punti percentuali. In famiglia. Al crescere dell’età cresce anche la quota di persone che lo parla tra le mura domestiche. Tra gli under-25, è il 55% a parlare dialetto molto o abbastanza spesso con mamma e papà, mentre tra i loro "fratelli maggiori" il valore sale al 59%. Il 65% delle persone di età centrale (35-44 anni), poi, lo utilizzano in famiglia e la percentuale sale al 72% tra quanti hanno tra i 45 e i 54 anni. È tra gli adulti tra i 55 e i 64 anni, però, che la percentuale va oltre la media dell’area (79%), anche se il valore massimo possiamo osservarlo tra gli over-65 (82%). La percentuale sale tra chi ha la licenza elementare (85%). Tra quanti hanno un livello di istruzione medio il valore si attesta intorno alla media dell’area (73%), mentre scende tra chi ha un diploma o una laurea (57%). Considerando la dimensione urbana, emerge che il dialetto in famiglia è più utilizzato nei comuni con meno di 50mila abitanti (72-75%). Professionalmente, infine, sono soprattutto gli operai (76%), oltre agli imprenditori, le casalinghe e i pensionati (83%) a parlare con maggior frequenza dialetto in famiglia. Il dialetto deve essere insegnato a scuola? Secondo il 35% la lingua locale dovrebbe trovare posto tra le materie curriculari, mentre il 63% pensa che il suo insegnamento sia possibile solo in famiglia. Ma sono proprio coloro che non lo parlano abitualmente in casa a sostenere maggiormente l’importanza della famiglia nella sua trasmissione (67%), mentre tra chi già lo parla tra le mura domestiche tende a crescere la quota di quanti vorrebbero un contributo della scuola (38%). «C’era un tempo in cui il dialetto era la lingua più diffusa e più praticata a Nordest. E quello era anche il tempo in cui il livello di scolarizzazione era piuttosto basso; allora la televisione aveva appena fatto il suo ingresso nel nostro Paese. Ma con il passare degli anni, iniziò a prendere forma una sorta di bilinguismo in cui la parlata locale tendeva ad essere ghettizzata in nome della "più nobile" lingua letteraria. Solo negli ultimi anni abbiamo raggiunto una convivenza pacifica tra dialetto ed italiano. Una nuova relazione in cui l’idioma nazionale non sembra ancora aver scalzato quello locale. E i dati sembrano darne conferma». Ulderico Bernardi, sociologo, profondo conoscitore del Nordest ed appassionato esploratore delle culture e degli idiomi del territorio affronta così il percorso interpretativo dei dati del sondaggio. Osservando, in particolare, la stabilità della linea dei dialoghi dialettali in famiglia e con gli amici. Se nella considerazione dei luoghi di lavoro la curva appare discendente, quando si parla di diffusione del dialetto, la percentuale di imprenditori che a Nordest lo utilizzano nella quotidianità è molto alta.

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«Sì e rappresenta anche un percorso di conoscenza, a quanto pare piuttosto praticato, nell’accoglienza degli stranieri nella nostra terra. Sono sempre più numerosi gli immigrati che, dal mondo dell’artigianato, a quello dei servizi e del commercio si avvicinano al nostro Paese, alla nostra cultura, anche attraverso l’uso del dialetto nella quotidianità lavorativa con il "capo" e con i colleghi. E si tratta di un itinerario di integrazione assolutamente efficiente». Così la parlata locale non è solo una questione di memoria, di uno sguardo al passato per fissare la storia, le tradizioni, ma anche una risorsa per i dialoghi del presente e del futuro. «Il fatto è che stiamo vivendo una vera e propria rinascita del dialetto. E questo accade dopo una sofferenza vissuta negli anni Sessanta, soprattutto in concomitanza con l’esplosione della televisione che ha certamente contribuito alla diffusione e all’insegnamento della lingua italiana, ma contemporaneamente, ha anche soffocato il dialetto quasi mettendolo a confino. Ora, invece, l’idioma locale sta risorgendo grazie al raggiungimento, come già detto, di un rapporto pacifico tra italiano e dialetto». Nella consapevolezza, probabilmente, dell’insostituibilità di un registro, come quello dialettale, che rende la conversazione più immediata, più empatica, che tende a ridurre le distanze tra gli interlocutori. «Infatti. Non dimentichiamo, del resto, che l’avvocato Gianni Agnelli quando parlava con i suoi operai utilizzava il dialetto piemontese. E non a caso. Era ben conscio del valore della variazione dei codici comunicativi in quel contesto». Il dialetto ha una forza di relazione impossibile da replicare per l’italiano. «Una potenza che connota soprattutto il dialetto veneto. Perché il dialetto è nella storia di questa regione, nel suo dna. Ed ha un un’energia che supera il tempo e i confini del Paese. Anche oggi. Basti pensare all’Istria. E alle iniziative che omaggiano ancora il dialetto. Come il Festival della parlata istroveneta a Buie che ha ottenuto anche il patrocinio della Regione Veneto». Un tesoro, dunque, e come tale va tutelato. «Ora ne siamo diffusamente consapevoli, in virtù di una multi-capacità linguistica che ha fatto placare le insicurezze». E la convivenza nel contesto europeo non rischia di penalizzare gli idiomi locali? «Convivere non significa frantumarsi, ma arricchirsi nell’unione». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La roulette russa nelle democrazie di Antonio Polito A proposito di Brexit e non solo A differenza di Jo Cox e dei suoi bambini, che sono stati davvero derubati della vita, le vittime politiche del referendum britannico hanno perso solo potere e gloria. Però è impressionante osservare come la falce del Leave abbia decapitato un’intera classe dirigente, in modo trasversale, senza fare distinzioni. È caduto chi ha perso, David Cameron; è caduto chi ha vinto, Boris Johnson; se ne è andato chi ha trionfato, Nigel Farage; sta per essere cacciato chi si è barcamenato, James Corbyn. I Conservatori si accoltellano alle spalle, i Laburisti si scazzottano in pubblico. Il caos politico è totale. Volevano ridare il potere al popolo, ma il potere di scegliere il primo ministro da domani è nelle mani di 330 deputati tories. Perfino quelli cui il popolo ha dato ragione non sanno ora indicargli la strada da seguire. Per quanto diretta possa diventare la democrazia, con i referendum o con i sondaggi o con la Rete, alla fine c’è sempre bisogno di qualcuno che la guidi. In inglese si dice «leader». Kenneth Rogoff ha segnalato sul Boston Globe che la maggior parte delle società «prevede per il divorzio di una coppia più passaggi, ostacoli e procedure di quante ne abbia previste il governo britannico per uscire dall’Unione Europea». Gli si può rispondere: è la democrazia, bellezza. Ma che dire dei diritti delle minoranze, che sulla Brexit non erano né piccole né irrilevanti(ha votato Leave solo il 36% degli aventidiritto, hanno votato Remain i giovani, lacittà-Stato di Londra, la Scozia, l’Irlanda del Nord)? Non sono le minoranze altrettanto care alla democrazia? O la

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democrazia è un gioco dei dadi, una roulette russa? Ha scritto Sabino Cassese sul Corriere che il referendum è un esempio di «single issue politics». Al popolo, con una domanda secca, puoi chiedere se vuole salvare Gesù o Barabba; e non è detto, tra l’altro, che avrai la risposta giusta. Ma non puoi chiedere di considerare le innumerevoli, complesse ed epocali conseguenze che può avere la scelta tra Gesù e Barabba, o tra Cameron e Johnson. E infatti nel caso inglese né l’uno né l’altro sono stati in grado di dire cosa fare, dopo aver chiesto al popolo di farlo. Il fatto è che in Gran Bretagna, dove non c’è una Costituzione scritta, non c’è nemmeno una legge che regolamenti i referendum. Li convoca il governo, quando gli pare e gli conviene (a quanto abbiamo visto, pure quando non gli conviene). E invece anche la democrazia diretta, di cui il referendum è la massima espressione, ha bisogno di regole per avere efficacia. E chi può scrivere le regole se non il Parlamento, massima espressione della democrazia delegata, cioè rappresentativa? Mettiamo che le prossime elezioni a Londra le vinca un leader pro Europa: chi avrebbe ragione? Il popolo sovrano che ha votato Leave o il popolo sovrano che ha eletto un governo per il Remain? Noi per fortuna abbiamo una Costituzione. La quale prescrive all’articolo 138 che se vuoi cambiare la Carta e non hai abbastanza voti in Parlamento devi chiedere il permesso al popolo con un referendum. È per questo, e non perché l’abbia indetto Renzi, che a ottobre o giù di lì voteremo sulla riforma costituzionale approvata a (scarsa) maggioranza nelle Camere. Ma anche da noi, come nel caso inglese, l’idea di spruzzare un po’ di democrazia diretta sulla democrazia parlamentare come se fosse un cocktail, soprattutto quando la seconda è un po’ giù e si pensa di alzarne la gradazione alcolica con l’appello al popolo sovrano, può essere molto azzardata. Usare il popolo per sistemare una partita politica, per risolvere un conflitto interno al proprio partito oppure come surrogato di una legittimazione elettorale, è sbagliato. Purtroppo anche in Italia questo corto circuito è già avvenuto. Già oggi la probabilità che al referendum si voti sul governo più che sulla Carta è elevatissima. Per giunta abbiamo da poco in vigore una legge elettorale che si è travestita anch’essa da referendum, e che nel ballottaggio ridurrà gli elettori a una scelta sì o no, pro o contro il governo. Il che raddoppia il rischio roulette russa appena visto all’opera in Gran Bretagna. Può darsi che i nostri pifferai magici, i nostri incantatori di consenso popolare, siano più acrobatici di quelli inglesi e riescano ad evitare la fine di chi andò per suonare e fu suonato. Certo che a scherzare col fuoco prima o poi ci si brucia. L’Economist di questa settimana ha in copertina «Anarchy in the Uk». Facciamo in modo da meritarcene una diversa in autunno. Pag 7 Londra, anno zero di Fabio Cavalera Governo allo sbando, conservatori senza leader, Labour al collasso e populisti in crisi: l’élite britannica è rottamata. E la crisi sarà lunga Londra. Chi perde se ne va. E chi vince pure. La spiegazione è paradossalmente semplice. Quelli che hanno voluto il referendum e ne sono usciti con le ossa rotte non possono restare in sella per una questione di dignità. Che credibilità hanno? Quelli che invece hanno cavalcato il referendum e portato a casa la Brexit, sotterrati da tradimenti e invidie, non sanno proprio che pesci pigliare e lasciano il campo. Londra anno zero. L’élite di Westminster è rottamata (usiamolo il tanto vituperato verbo) e paga il risultato del 23 giugno. In fin dei conti era ciò che desideravano gli elettori. L’Europa, per loro, era solo il pretesto di mandare al diavolo sia chi è maggioranza sia chi è all’opposizione, obbligandoli a mostrare la loro debole sostanza. Obiettivo centrato. Il re è nudo. La fotografia è una landa desolata di macerie: il governo ha i piedi fuori da Downing Street, i conservatori cercano un nuovo leader, i laburisti sono collassati se non moribondi, lo Ukip ingoia l’addio di Nigel Farage e deve riscrivere la sua agenda populista, estremista, demagogica ma, riconosciamolo, efficace. La consultazione è stata un fantastico esercizio di democrazia però se David Cameron avesse saputo all’inizio del 2013, quando decise di cavalcare l’onda euroscettica per superficiale calcolo di potere, probabilmente avrebbe preso altre strade. Passerà alla Storia per il primo ministro che, senza saperlo, ha scoperchiato il vaso di Pandora da cui è fuoriuscito di tutto. Westminster, dismesse le vestigia di grandezza e di fair play politico, è un covo di trame e di gossip in cui ogni colpo è consentito. I conservatori se le tirano addosso gli uni contro gli altri. I laburisti arrivano quasi alle mani. E l’unico rappresentante dello Ukip (nonostante tre milioni di

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voti nel 2015), l’ex tory Douglas Carswell, ha già il problema di respingere i veleni che gli piovono addosso dagli Ukip della prima ora. La classe dirigente politica è in braghe di tela. Le maschere sono cadute. Gli amici di Boris Johnson scaricano fango sugli amici di Michael Gove, il ministro della Giustizia che gli ha voltato le spalle. La sorella di Boris accusa Michael di essere «uno psicopatico». E Michael replica assoldando il papà di Boris nelle schiere dei suoi fan. Sciabolate feroci. Poi, entrambi cercano un appiglio per bloccare la scalata di Theresa May e di Andrea Leadsom, usando come clava contro le due signore il pettegolezzo dei giornali che la prima è malata di diabete (può essere primo ministro chi ha problemi del genere?) e che la seconda ha nell’armadio lo scheletro di alcune dichiarazioni dei redditi sospette. Naturalmente le due signore si scambiano «cortesie» da pub rivendicando l’eredità di Margaret Thatcher. «Non perdiamo la testa» strilla la copertina del settimanale conservatore di riferimento, The Spectator. Via Cameron, via Johnson, via Gove (forse). Crollano le certezze, emergono le vanità di un mondo tory che si deve curare in fretta. Ma attorno a chi? Non esiste una figura forte nel fronte Brexit, neppure nel fronte opposto. Chi si candida a Downing Street non è un fuoriclasse di idee e progetti. La favorita è Theresa May, lo diranno i 150 mila iscritti entro il 9 settembre. Se non altro il processo è cominciato. Penosa è l’agonia laburista. Il gruppo a Westminster ha sfiduciato Jeremy Corbyn che a dispetto dei santi non medita affatto di andarsene. Le vecchie correnti, amici e nemici di Blair, sono superate. Il variegato universo di movimenti che ha spinto Corbyn è esploso. C’è attorno al numero uno il cerchio magico dei duri e puri. Che lo tiene su, imponendogli le scuse pubbliche (adesso) per avere definito «nostri amici» gli Hezbollah e per avere equiparato Israele all’Isis. Poi satelliti impazziti. Per il centrosinistra britannico la Brexit è una catastrofe. E non è finita qui. In questo quadro si sta per abbattere la relazione Chilcot, domani, che racconterà fatti e misfatti del conflitto in Iraq, della scelta compiuta da Tony Blair nel 2003, delle sue promesse a Bush. C’è chi sussurra che fra i laburisti qualcuno avanzerà la proposta di accusare l’ex leader di crimini di guerra. Ultimo botto in una Westminster che è a pezzi. La ricostruzione sarà lunga. Pag 11 Il “problema saudita”. Quei 100 miliardi spesi a favore degli estremisti di Guido Olimpio Una dozzina di attacchi dell’Isis a partire dal 2014. Un seguito di quelli sferrati da Al Qaeda. Al punto da cercare di eliminare anche figure chiave usando ogni metodo, compreso un attentatore suicida. Gli ultimi episodi ieri, a Gedda, con un kamikaze vicino al consolato Usa e un’esplosione a Qatif vicino a una moschea sciita. Segnali evidenti di un problema sicurezza che i petro-principi hanno contribuito a creare. Nei famosi cablo di Wikileaks uno dei più citati risale al 30 dicembre 2009. Non lascia dubbi su cosa pensino al Dipartimento di Stato: i donatori sauditi sono la fonte principale di denaro del terrorismo sunnita a livello globale. Più chiaro di così. Il documento non fa altro che confermare molte certezze di diplomatici e agenti dell’intelligence sul ruolo dell’alleato prima in Medio Oriente, poi ovunque ci fosse uno spazio da sfruttare. La cifra che viene ripetuta quasi come un sigillo dice molto: 100 miliardi di dollari. Riad li avrebbe spesi in un lungo arco di tempo per sostenere il fondamentalismo. Ovviamente non tutto è finito in mano ai tagliatori di teste, ma certamente i mille rivoli di denaro hanno favorito l’estremismo. L’Occidente si è servito di questa connessione dopo l’invasione russa dell’Afghanistan. Per battere Mosca, gli americani hanno chiesto aiuto ai principi del Golfo. Loro hanno risposto staccando assegni per i mujaheddin afghani. Solo che finita la guerra, non sono svaniti. Una parte è confluita sotto l’ala di un saudita famoso, Osama Bin Laden, a sua volta sostenuto dalla celebre catena d’oro. Una serie di cittadini, associazioni, personaggi rimasti nell’ombra però disposti ad aiutare il loro «fratello». E questo è stato solo uno degli investimenti politico-religiosi. I soldi sono arrivati nel Caucaso, in Nord Africa, in Europa occidentale, in Bosnia. In mezzo ai cristiani e in stati musulmani. Risorse con le quali hanno aperto moschee e scuole coraniche, istituito corsi, sponsorizzato predicatori, alimentato grandi movimenti e piccoli gruppi. Tutti legati da una visione rigida quanto militante dell’Islam. L’ultimo a lamentarsi delle infiltrazioni è stato il Bangladesh, insanguinato in modo feroce da un terrorismo locale che con la strage di Dacca è entrato in un’agenda internazionale. I governi europei e quello Usa sanno e sapevano, ma hanno tollerato. Per necessità: l’Arabia (ma anche

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Qatar e Kuwait) sono dei partner regionali in un’area critica. Per interesse: le monarchie del Golfo sono dei buoni clienti. Questo ha portato a tacere sul ruolo avuto da figure saudite nel piano dell’11 settembre 2001. Al fine di evitare imbarazzi a Washington si dice che nulla prova un coinvolgimento a livello «ufficiale«. Intanto però tentennano sull’opportunità o meno di diffondere le 28 pagine del rapporto. Duro anche ignorare la posizione di numerosi ideologici, sempre del regno. Dopo l’invasione Usa in Iraq si sono schierati in favore della ribellione sunnita. Quella stessa insurrezione dove è nata l’ala irachena di al Qaeda trasformatisi poi in Isis. Per noi sono terroristi; a Riad e Gedda invece li considerano una pedina per contrastare gli sciiti. LA STAMPA Il girotondo delle democrazie di Giovanni Orsina Dalla vittoria di Trump nelle primarie repubblicane al Brexit, il «cigno nero», l’evento traumatico che nessuno credeva davvero possibile, si sta trasformando nella nostra quotidiana normalità democratica. Chi ha cercato di spiegare perché ciò stia accadendo si è concentrato per lo più sul bisogno insoddisfatto di protezione: di sicurezza economica per classi medie in declino; di incolumità fisica per cittadini atterriti da terroristi e migranti. È una spiegazione fondata, ma a mio avviso insufficiente. Migrazioni, terrorismo e difficoltà economiche sono le sfide esterne che le democrazie paiono incapaci di affrontare. Le ragioni di questa loro incapacità, però, devono essere cercate al loro interno. Ossia, per chiamare le cose col loro nome, in una crisi sempre più evidente della civiltà liberaldemocratica. Una crisi che non nasce oggi, e che negli ultimi decenni hanno denunciato in tanti. Ma che oggi sembra aver raggiunto il suo culmine. La natura dissonante e divergente del dibattito pubblico è un primo aspetto di questa crisi. Un secolo e mezzo fa, John Stuart Mill scriveva che «la libertà non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali». Con quel «migliorare» Mill intendeva due cose, mi sembra: che discutendo gli uomini si sarebbero avvicinati sia gli uni agli altri (pur restando differenti) sia alla verità (che pure rimaneva irraggiungibile). Nella formulazione del filosofo inglese, poi, la capacità di migliorare era irreversibile: una volta che fosse stata raggiunta, non la si sarebbe più smarrita. Ora, siamo davvero sicuri di non averla invece perduta, quella capacità? In relazione sia all’elezione di Trump, sia alla Brexit, è stata usata nel mondo anglosassone l’espressione «post-truth politics»: politica post-verità. Un gioco politico in cui le parti, quale più quale meno, mentono tutte; anche i dati più «duri» vengono contestati; gli esperti non sanno più fornire all’opinione pubblica alcuna certezza. E il progresso lineare verso la conoscenza e la convergenza, sognato da Mill, diventa un vano e frustrante girotondo in una babele di sofismi. Un secondo aspetto della crisi della liberaldemocrazia va cercato nella fragilità dei corpi intermedi: le organizzazioni politiche, economiche, culturali, religiose. Una fragilità che deriva dalle trasformazioni storiche degli ultimi cinquant’anni, ma alla quale hanno pure contribuito attivamente le forze politiche sia di destra sia di sinistra. Le forze di destra – spesso di destra liberale – hanno indebolito i corpi intermedi perché si sono affidate al mercato. Proprio mentre denunciavano le forze di sinistra perché li indebolivano con l’insistere sui diritti individuali. Le forze di sinistra – spesso di sinistra liberale – hanno contribuito a disarticolare i corpi intermedi con l’enfasi sui diritti individuali. E al contempo attaccavano la destra perché li corrodeva attraverso il mercato. Diritti individuali e mercato sono indispensabili a una democrazia, certo. Ma non le sono sufficienti. Nella tradizione liberale è sempre stata ben presente la consapevolezza che una società non può reggersi soltanto su pilastri economici e giuridici, ma ha bisogno di robuste fondamenta politiche. Ossia di ragioni che la tengano insieme – memorie, identità, senso civico, valori condivisi –, e di articolazioni interne che nutrano quelle ragioni. Si capisce allora perché mai la democrazia liberale più antica e solida del continente abbia votato contro un’Europa che è tanto attiva sul terreno economico e giuridico quanto inconsistente su quello politico. In una democrazia liberale priva di verità e corpi intermedi, le élite non possono trovare legittimità. Non gliela può dare la competenza tecnica, che si disintegra nella cacofonia del dibattito pubblico. Non gliela può dare la leadership sociale, perché non ci sono più luoghi nei quali esercitarla. Ma se agli occhi del cittadino qualunque le élite non hanno alcuna utilità, i privilegi dei

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quali esse godono diventano insopportabili – ce lo ha insegnato Tocqueville. Come meravigliarsi, allora, se il voto diventa soprattutto un modo per esprimere quell’esasperazione? Eppure, al contempo, quanto a lungo può sopravvivere una liberaldemocrazia in cui le élite – tutte le élite – sono così delegittimate? Possiamo naturalmente sperare che questa crisi sia congiunturale, e che prima o poi venga riassorbita. Che si riesca a rimettere un po’ d’ordine nel dibattito pubblico e a ricostruire dei corpi intermedi. O perfino che si trovi un modo per vivere senza classi dirigenti – è l’utopia del Movimento 5 stelle, un altro «cigno nero» fattosi normalità. Perché queste speranze abbiano un qualche fondamento, però, è necessario che sia le élite sia gli elettori riconoscano la crisi per quel che è. Si rendano conto dei pericoli che porta con sé. E prendano a comportarsi in maniera più responsabile di quel che hanno fatto negli ultimi anni. AVVENIRE Pag 1 Affrontare le due “W” di Giorgio Ferrari Wahhabismo e web La nuova fase della guerra del terrore scatenata dal Daesh non si può combattere sul terreno né si può vincere con i droni, i bombardamenti e gli obiettivi mirati. Perché il nocciolo, il core business del Califfato non sono, nonostante l’orrore di cui sono capaci, gli squadroni di macellai e di tagliagole che – con atti di suprema viltà – continuano a sequestrare e colpire inermi, schiavizzare donne, decapitare statue, disprezzare bellezza e armonia del creato. Il cuore nero del Daesh sopravvive grazie a un fiume di denaro e una capillare propaganda attraverso internet: un fiume che – come varie volte è stato documentato – proviene sia dal traffico clandestino di petrolio in quelle zone (poche, ormai) che il Daesh controlla a cavallo della linea di confine fra Siria e Iraq (e che ha inutilmente tentato di raddoppiare impossessandosi dei dotti petroliferi libici) sia dal 'pizzo' imposto ai trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo. A ciò si aggiungano le generose donazioni (armi, logistica e forse anche know how), forse ora finalmente interrotte, da parte della Turchia e i finanziamenti, praticamente alla luce del sole, della galassia del wahhabismo che fanno da collante finanziario e soprattutto ideologico. Soffermiamoci su questo dato di realtà, cogliendone almeno due aspetti. Com’è noto, il wahhabismo (dal nome del teologo Muhammad ibn Abd al-Wahhab) è una visione radicale dell’islam sunnita e conduce a un’interpretazione letterale del Corano che in buona sostanza considera kafir (infedeli) e «nemici dell’islam» tutti coloro che non si attengono alle sue rigide prescrizioni. Figure come Osama Benladen o come i taleban provengono da questo orientamento religioso, di cui è patria l’Arabia Saudita, assieme al Qatar e ad altri Stati del Golfo. Il primo aspetto da considerare è l’immane proselitismo attuato da questi Paesi – Riad in testa a tutti – per diffondere il credo wahhbita a scapito di ogni altra inclinazione all’interno dell’islam. Madrasse e moschee finanziate dai sauditi e dai loro alleati si contano a migliaia, non soltanto nel mondo a prevalenza sunnita, ma in Asia, in Africa e in tutto l’Occidente, di qua e di là dell’Atlantico. Il confine fra libertà di culto e libertà di incitare all’odio contro l’infedele è molto labile e troppe volte oltrepassato. Quasi mai si è sentita una protesta ufficiale, quasi mai si è vista una reazione. In compenso si è fatta capillare l’opera di reclutamento e di proselitismo grazie ai tanti siti web che consentono a migliaia di giovani (gli aspiranti jihadisti, ma anche e soprattutto i delusi e gli influenzabili) di abbeverarsi al fanatismo e apprendere le tecniche e le strategie per meglio colpire in Occidente e in quelle porzioni di islam che a giudizio degli intransigenti non sono conformi all’ortodossia. Si dirà: che possiamo fare? Dobbiamo oscurare sistematicamente internet privando noi stessi di un po’ della grande libertà a cui ci siamo abituati? Oppure, sopraffatti dalla nostra stessa irrinunciabile concezione dei diritti umani, non siamo in grado (non a caso il controverso scrittore Houellebecq l’ha definita Soumission, sottomissione) di opporci con i giusti mezzi a quella guerra ideologica e religiosa iniziata in sordina nei primi anni Settanta del secolo scorso a seguito dello choc petrolifero che ha reso improvvisamente ricche e straripanti di denaro famiglie e caste localizzate soprattutto nell’area del Golfo? Un fatto è certo: i ricchi e sazi giovanotti che hanno menato strage a Dacca con un tocco di crudele nichilismo forse sconosciuto prima d’ora sono tutti figli della propaganda persuasiva e radicalizzante promossa dai centri wahhabiti, da quell’oceano di denaro che rigurgita

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instancabile dai forzieri petroliferi dei soliti noti per suddividersi in tre differenti rivoli: l’acquisto di armamenti (la sola Arabia Saudita fra ricambi e nuovi modelli spende 85 miliardi di dollari all’anno), lo shopping internazionale di aziende, squadre di calcio e beni di lusso e – appunto – il marketing religioso. Un marketing che tuttavia ha oltrepassato – anche grazie a internet – i confini dell’ortodossia wahhabita per configurarsi come una vera e propria moda, un franchising fra sigle e aspiranti stragisti che come tutte le mode attira per prime le frange più colte ed elitarie della società: non più i poveri e gli oppressi sfruttati e umiliati dal cinico mondo occidentale (che pure in qualche modo nel Bangladesh ci sono, eccome), ma i 'figli di papà' con buoni studi alle spalle e probabilmente solo qualche tagliente precetto coranico nella testa, non di più. Penserete che sia un paradosso, ma proprio questa mutazione dell’universo semantico jihadista in un fatto imitativo- compulsivo – una moda, avrebbe detto Roland Barthes, e come tale oggetto di un perverso desiderio – può rappresentare l’inizio della fine del jihadismo fin qui praticato. Un processo ancora lungo, ma a nostro avviso già in qualche modo scritto. Che si potrebbe accorciare se provassimo seriamente a prosciugare lo stagno radicale facendo i conti con quelle due 'w' (wahhabismo e web) e tagliando all’origine le risorse del jihadismo. Scelte da operare con la fermezza, l’equilibrio e la lungimiranza necessarie. Pag 2 Viene un tempo di audacia creativa di Ernesto Preziosi Riflessioni per una nuova stagione di impegno laicale La lettera di papa Francesco al cardinale Ouellet, pur rivolta all’America Latina, contiene numerosi spunti di riflessione anche per l’impegno pubblico dei credenti nel nostro Paese. Essi muovono dalla visione di fondo del cristianesimo. Anzitutto la sottolineatura che «tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici»; il sacramento che suggella la nostra identità è il Battesimo: «Ci hanno battezzati laici». Francesco torna con forza all’insegnamento conciliare e alla chiave di lettura offerta da Paolo VI con la Evangelii Nuntiandi: al centro la dignità e la libertà dei figli di Dio (LG 9) e, di conseguenza, il giudizio sul clericalismo: esso rischia di «sminuire e sottovalutare» la presenza dello Spirito nel cuore dei credenti, controllare e di frenare l’unzione di Dio sui suoi, limitare iniziative e sforzi: «le audacie necessarie» per portare il Vangelo «a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica». La critica al clericalismo andrebbe accompagnata con una lettura storica della situazione italiana negli anni recenti. Il punto nevralgico sta però nel sentirsi sollecitati verso un rinnovato slancio di evangelizzazione e di inculturazione in questa nostra storia. Custodendo, come scrive Francesco, due memorie: Gesù Cristo e «i nostri antenati». La prima custodia ci mette davanti alla necessità che i credenti, i battezzati impegnati nella realtà terrena, debbano essere «convenientemente formati» e pertanto membra vive della Chiesa, partecipi della comunità cristiana. Insomma, chiamati a vivere non un cristianesimo «di nome» o di alcune pratiche, ma una fede vissuta responsabilmente, a tutto tondo. Il richiamo agli «antenati», sviluppato dal Papa in riferimento alla vita familiare e alla parrocchia, nel caso dell’impegno politico può essere esteso alla tradizione di un movimento cattolico che, in comunione con i pastori, ha costruito una presenza significativa nel nostro Paese, contribuendo a quel processo di inculturazione necessario in ogni tempo. Non a caso Francesco richiama il rischio di «perdere la memoria, sradicarci dal luogo da cui veniamo e quindi non sapere neanche dove andiamo». Francesco descrive il ruolo della gerarchia ecclesiale: essa non ha in esclusiva la «proprietà» dello Spirito, bensì è chiamata a servire il popolo «dal di dentro», a «guardare, proteggere, accompagnare, sostenere e servire» il popolo fedele di Dio. Cinque verbi che sono un programma. Non è «il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire. Lui lo sa tanto e meglio di noi», vivendo ogni giorno immerso nella città degli uomini. Si tocca un punto delicato e critico, ma è rilevante individuare il ruolo positivo che il Pontefice indica ai pastori, mettendosi anche lui tra questi: «uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la cari-tà e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori». Non indicazioni che piovono dall’alto, ma la disponibilità a camminare insieme nel difficile discernimento del tempo presente. Ciascuno con il suo compito. È un cambiamento di stile e di passo verso quella Chiesa comunionale già disegnata dal Concilio. Ciò chiede sempre una

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disponibilità e preparazione, da parte della gerarchia, a saper interpretare i segni dei tempi, offrendo un accompagnamento spirituale e morale circa l’inculturazione della dimensione sociale della fede (come Francesco illustra nel cap. IV della Evangelii gaudium). Vescovi e preti non possono rinunciare al loro munus docendi (cf EG, n. 182), ma esso va esercitato in sinergia con i christifideles laici, i quali con la loro competenza professionale e la loro esperienza delle cose temporali possono renderlo più pertinente, specie su temi in cui i pastori non sono esperti. Francesco tocca quindi il ruolo del laicato, i rischi della «élite laicale», impegnata nelle «cose dei preti» e lontana dalla vita del popolo. Qui sta una sollecitazione che, nella situazione italiana, ha carattere di urgenza. È un invito all’azione. Ai laici è chiesto di muovere con decisione i loro passi sul terreno dell’annuncio e dell’inculturazione, sapendo che si tratta di «un processo» che i pastori debbono stimolare «incoraggiando la gente a vivere la propria fede dove sta e con chi sta». Se, dice il Papa, come pastori abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato «nella vita pubblica quotidiana», la omologazione del laicato ha finito per limitare «le diverse iniziative e sforzi, e oserei dire, le audacie necessarie per portare la Buona Novella del Vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica». L’invito è ai tanti battezzati impegnati nella nuova stagione: prendano l’iniziativa confrontandosi in un discernimento comunitario. Un discernimento, dice ancora Francesco, da fare «con la nostra gente e mai per la nostra gente o senza la nostra gente», con strumenti, organizzazioni, «iniziative e sforzi audaci», come risposta creativa alle necessità delle persone e dei tempi. Su questa creatività è cresciuto nel nostro Paese un movimento laicale ricco di donne e uomini, di opere e di proposte: ad una nuova audacia creativa è affidata la costruzione di questo scorcio di storia. Pag 3 I jihadisti delle scuole d’élite. Il contagio arrivato a Dacca di Stefano Vecchia La storia e la propaganda wahhabita dietro la strage A tre giorni dalla terribile conclusione dell’attacco terrorista di Dacca, l’attenzione si concentra ora sull’identità dei militanti autori del massacro e sulle responsabilità. I primi sembrano infatti sfuggire alla tipologia abituale del militante locale, di povere origini e con motivazioni nell’incertezza delle prospettive oltre che nell’indottrinamento delle scuole coraniche. Si tratterebbe infatti di cinque o forse sette rampolli di famiglie note e di ampie possibilità economiche. Smentita ancora una volta dal governo di Dacca l’attribuzione di responsabilità del sedicente Stato islamico, Daesh. Il più ostinato nel negare la presenza nel Paese di miliziani riconducibili a Daesh è, non a caso, il ministro dell’Interno, Asaduzzaman Khan, che ieri ancora una volta ha attribuito la responsabilità dell’attacco ad un gruppo jihadista locale, il Jumatul Mujaheddin Bangladesh. U na teoria che non spiega però perché gli autori del massacro di venerdì notte, Akash, Badhon, Bikash, Don, Ripon, individuati dalle foto postate da Daesh sul suo sito propagandistico Amaq, (a cui si aggiungerebbero Nibras Islam e Rohan Imtiaz, non ancora ufficialmente identificati) provengano, come indicato dallo stesso ministro Khan, «da famiglie benestanti, sono andati all’università e nessuno di loro ha mai frequentato una madrasa». Alla domanda sul perché sarebbero diventati militanti islamici, Khan ha risposto bruscamente: «È diventata una moda». Non una visione esattamente condivisa, se anche il numero due del ministero degli Esteri bengalese, Shahidul Haque, offrendo ieri le condoglianze ufficiali all’ambasciatore d’Italia Mario Palma, ha sostenuto che «la gente è scioccata e sorpresa perché si chiede come mai dei giovani possano essersi radicalizzati così tanto». Ecco allora che dietro i giovani che le foto di Amaq mostrano con abiti neri e kalashnikov, sorridenti e rilassati come se stessero preparandosi a una festa goliardica e non a massacrare oltre 20 persone, in maggioranza stranieri ma anche alcuni coetanei, si affacciano 'cattivi maestri'. Come scritto ieri dal quotidiano bengalese The Daily Star, si tratterebbe predicatori quali Anjem Choudary, Shami Witness e Zakir Nayek, assai attivi nel Subcontinente indiano, elementi di collegamento con i network jihadisti internazionali. Almeno due degli attentatori, ancora ufficialmente 'dispersi' – Nibras Islam e Rohan Imtiaz – li seguivano sui social network, almeno da un anno prima di scomparire l’inverno scorso e far perdere le loro tracce. Shami Witness è il soprannome su Twitter del 24enne indiano Mehdi Biswas, arrestato nel dicembre 2014 e formalmente accusato lo scorso dalle autorità indiane di gestire su Twitter «il più

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influente account favorevole allo Stato Islamico». Secondo stime del Centro internazionale per lo studio della radicalizzazione e la violenza politica del King’s College di Londra, il suo seguito sociale avrebbe coinvolto i due terzi dei jihadisti globali. Ancora indiano di nascita è Zakir Naik, un predicatore che diffonde sul suo canale televisivo islamico Peace Tv, basato a Dubai, proclami in inglese di incitamento al terrorismo contro i non musulmani e i musulmani non sunniti. Fondatore della Islamic Research Foundation di Mumbay, è noto per gli attacchi contro tutte le altre religioni e i musulmani non sunniti. Per questo gli è vietato l’ingresso in Canada, Gran Bretagna e Malaysia, ma non in Bangladesh, dove si è recato lo scorso aprile provocando forti contestazioni. Infine, il pachistano Anjem Choudary, britannico di origine, a giudizio nel Regno Unito per le leggi antiterrorismo. Avvocato e presidente della Società degli avvocati musulmani, è sotto accusa per una serie di prediche diffuse su You Tube in cui esorta all’arruolamento in Siria sotto la bandiera del Califfato. Probabilmente, esempi e istigazioni hanno avuto un ruolo nella scelta dei giovani terroristi di Dacca, tuttavia, le mode, anche quella di adesione agli ideali del jihadismo nella versione insieme arcaica e globalizzata di Daesh, non nascono dal nulla e indubbiamente il territorio bengalese si presta per una serie di ragioni. Ragioni che vanno oltre quelle frequentemente proposte, di frustrazione per la povertà e le possibilità negate, e che chiamano in causa l’indottrinamento nelle decine di migliaia di madrase ispirate e finanziate dalle monarchie sunnite del Golfo. Non mancano nel Paese gruppi locali influenzati da idee jihadiste, come Jamatul Mujahdeen Bangladesh, bandito da un decennio, ma ancora attivo con l’obiettivo di fare del Bangladesh una realtà governata dalla legge religiosa in senso islamico, la sharia. Una spinta apparentemente retrograda rispetto alla politica laicista perseguita dal premier Hasina Wazed, operata però con l’appoggio di 10mila aderenti e infiltrazioni nelle élite. A dimostrarlo, l’adesione di Rohan Imtiaz, tra i presunti terroristi di Dacca, figlio di uno dei leader nella capitale della Lega Awami, partito di maggioranza governativa. Come sottolinea un missionario di lungo corso, in Bangladesh «le esigenze dei giovani estremisti crescono con la possibilità di soddisfarle». «Rampolli di famiglie ricche, che nulla negano ai figli, che li mandano in scuole prestigiose, possono meglio soddisfare le loro tendenze anche negative. A parte questo, ho visto gruppi politici attrarre giovani con somme di denaro, promesse di svago e vizi per farli sentire onnipotenti». Anche questo è parte del sostrato da cui è nata la violenza cieca di venerdì scorso e che si innesta su una tradizione di tolleranza, ma anche di militanza e di orgoglio dell’islam bengalese. È la tradizione delle rivolte contro gli abusi dei nababbi locali, quella della partecipazione alle guerre afghane contro i britannici, quella della nascita della Lega musulmana nel 1906 e del contributo dato alla formazione di uno Stato su basi islamiche, il Pakistan, separato dall’India indù il 15 agosto 1947. Quel Pakistan da cui il Bangladesh si è separato nel 1971 con una guerra di liberazione costata milioni di vittime. In sostanza, la pressione di al-Qaeda o di Daesh, se stimola alla conquista di un mondo oggi 'infedele', chiama anche per riflesso a ritrovare una centralità nell’islam asiatico che l’antico Bengala, oggi Bangladesh per la parte orientale, sembrava avere smarrito. Pag 3 Il peso elettorale della “perifericità” di Carla Collicelli Comunali e Brexit: c’è altro oltre il dato generazionale Il rapido succedersi di due risultati elettorali, quello segnato dal successo dei candidati del Movimento 5 Stelle nei ballottaggi delle recenti elezioni comunali italiane, in particolare a Roma e Torino, e quello della vittoria di misura del fronte della Brexit nel Regno Unito, si prestano ad alcune considerazioni per certi versi convergenti sul rapporto tra centro e periferia nei sistemi sociali e politici. Molti osservatori e commentatori si sono soffermati sulla interpretazione di tipo generazionale, anche se con valenze differenti. Il Movimento 5 Stelle si è presentato, ed è stato presentato, come un movimento di giovani contrapposto a schieramenti e candidati più anziani e legati a gestioni del passato. Nel voto d’Oltremanica si è insistito nell’evidenziare il prevalere dei favori per il remain da parte dei giovani britannici (in buona misura non votanti) e l’appoggio dei più anziani all’uscita dall’Europa. Ma più che l’aspetto generazionale sembra aver giocato in realtà la collocazione centrale o periferica degli elettori nel sistema sociale e politico di riferimento. Lo si può dire per i neosindaci 5

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Stelle, che hanno interpretato meglio di altri schieramenti le istanze delle periferie urbane e sociali (disoccupati, precari, ceti sociali svantaggiati, ecc.), anche indipendentemente dal fattore anagrafico. Lo si può sostenere per il fronte del Brexit, per il quale, stando alle informazioni per ora disponibili, sembrano aver votato non solo elettori delle classi di età più anziane, come sostenuto nell’ambito delle previsioni, ma anche – e forse soprattutto – i residenti in aree connotate da condizioni socioeconomiche più svantaggiate e anche più lontane, sia geograficamente sia idealmente, dal cuore pulsante della City di Londra. Se questo è vero, l’attenzione che occorre porre in chiave di ragioni dei vincitori, ma anche di analisi delle motivazioni della sconfitta per i perdenti e soprattutto di strategie per il futuro, va indirizzata verso le tematiche dell’integrazione, con tutti i suoi risvolti economici e sociali, da contrapporre alla polarizzazione. Il grande arcipelago culturale, sociale e politico dell’Europa degli ultimi decenni non ha evidentemente saputo trovare un terreno comune di incontro per le diverse anime del Vecchio Continente. Come annota Manlio Graziano, esperto di geopolitica italiano che vive in Francia, ci sono almeno 6 Europe storicamente distinte (la mediterranea, la bizantinoottomana, la carolingia, la prussiana, la asburgica e la britannica), che non hanno saputo intrecciare adeguatamente i propri interessi e le proprie tradizioni nel presente, e rischiano costantemente di scivolare verso il passato. Una situazione nella quale non meraviglia, quindi, che l’entità più divergente e più periferica rispetto alle dinamiche continentali, cioè quella britannica, sia la prima a dichiarare la propria insofferenza e a esprimere la volontà di staccarsi per recuperare la propria identità originaria. Ma anche in ambito italiano, si può dire che il fattore che ha giocato il ruolo più importante è stato la difficoltà a creare condizioni di maggiore integrazione, scambio e riequilibrio tra segmenti della società interni agli spazi del potere e del benessere acquisito e segmenti esterni e periferici, alla ricerca di maggiore sicurezza e benessere e di una propria e 'altra' rappresentanza nelle sfere del potere. La mobilità mostrata dall’elettorato e il 'coraggio' di certe scelte, come quella della Brexit, possono essere considerati segnali positivi in termini di voglia dei cittadini di rimettersi in gioco e di accettare le sfide di cambiamenti significativi, ma al tempo stesso è ben percepibile il rischio insito nel persistere di un ciclo di cambiamenti accelerati e senza vie d’uscita solide. Perché gli esiti del voto portino a un effettivo miglioramento della situazione, sia dal punto di vista generazionale sia soprattutto dal punto di vista della integrazione e della giustizia sociale, occorre che si punti in maniera convinta alla valorizzazione dei princìpi della inclusione sociale, del superamento di individualismi e particolarismi, della redistribuzione del potere e della ricchezza, della cooperazione e della costruzione di un capitale umano e sociale condiviso. Un programma forte e di mediolungo periodo da proporre in modo lineare e convincente a un elettorato fortemente e reattivamente concentrato sull’oggi. Una sfida tanto dura quanto inevitabile. IL FOGLIO Pag 3 Grillo rivelato alla Cei Scola censura la puerile genuflessione di Avvenire per la Raggi Avvenire, quotidiano della Conferenza episcopale, ha festeggiato la visita in Vaticano di Virginia Raggi con un editoriale (titolo, "Benedetta concorrenza") che promuove a priori le "opzioni che emergono in modo nitido" dal Movimento 5 stelle: dal reddito di cittadinanza "alternativo al sussidio di disoccupazione", alla "forte sensibilità ambientale, per le energie rinnovabili e l'abbandono delle fonti fossili", alla "coerente posizione contraria all'aumento del consumo del suolo". Tutto in conformità a Papa Francesco e all'enciclica Laudato si'. Come la grazia, la concorrenza benedetta si promanerebbe al Pd che ha votato il... Bes (Benessere equo-sostenibile) come metro di paragone del Def (Documento di economia e finanza), mentre Matteo Renzi, "che aveva a lungo sostenuto che le rinnovabili dovevano fare da sole", cioè non gravare sui contribuenti, ha messo in campo incentivi per 9 miliardi. Però niente figliol prodigo: "Caratteristica distintiva dei Cinque stelle dal Pd è una capacità di resistenza significativamente maggiore alle grandi lobby, ai poteri forti". Chissà se tra tante benedizioni impartite a cuor leggero Avvenire si è accorto che la capacità di resistenza della Raggi ai diktat della Casaleggio Associati è "significativamente inferiore", vedi le difficoltà nel nominare la giunta e quelle che prevedibilmente avrà come amministratrice pubblica (non esecutrice del M5s). A

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raffreddare gli entusiasmi c'è Angelo Scola, arcivescovo di Milano: "Per quanto ne capisco i Cinque stelle sono ancora un agglomerato che sfrutta la capacità unificante della rete per tenersi insieme. Cosa diventeranno lo vedremo col tempo". Parole sagge, anzi sante. IL GAZZETTINO Pag 1 La burocratica ottusità dei vigilanti europei di Osvaldo De Paolini «Contrariamente a quanto riportato dal Financial Times, il presidente del Consiglio Matteo Renzi è pronto a “sfidare” Bruxelles non sul fronte delle banche, ma sul futuro dell’Europa poiché non crede possibile ignorare il risultato della Brexit. Quanto alle banche, è noto che Renzi prediliga le soluzioni di mercato, nel rispetto delle regole vigenti in Europa». La secca smentita al quotidiano londinese, che ieri mattina dipingeva con titoli di scatola un Renzi pronto a scardinare le regole europee pur di mettere in sicurezza il sistema bancario italiano, dà la misura della grande tensione che nel dopo Brexit va crescendo attorno ai nostri istituti di credito. I quali, sebbene non hanno proprio nulla da invidiare a certe banche tedesche o francesi o spagnole quanto a solidità, per un malinteso senso del rigore che da mesi spira dalle parti della Vigilanza Bce guidata dalla signora Danièle Nouy, sono diventati bersaglio di una serie di iniziative che sconcertano per l’improntitudine e la totale assenza di tempismo. Con il risultato che invece di accelerare il processo di allineamento delle realtà aziendali non ancora adeguatamente patrimonializzate, offrono abbondante alimento alla speculazione più spregiudicata, che ne determina il crollo in Borsa rendendo sempre più problematica la ricerca di nuovi capitali. L’ultima trovata degli ispettori della Vigilanza Bce - che si cumula alla decisione di Bruxelles di pretendere da tutte le banche europee «adeguata copertura anche dei prestiti in bonis» - è una lettera inviata al cda del Montepaschi. Nella missiva della Bce si sollecita il management di Mps a liberarsi di ben 10 miliardi di sofferenze (in cambio di un quinto del loro valore) entro breve tempo e dunque creando le condizioni per un nuovo oneroso aumento di capitale. Ciò in piena Brexit e mentre a Bruxelles si sta discutendo di come consentire ad alcune nostre banche di risolvere più agevolmente e senza ulteriori danni il problema delle sofferenze e delle eventuali ricapitalizzazioni con l’intervento indiretto dello Stato. Perché dunque stupirsi se in un solo giorno il titolo Mps perde in Borsa il 14%, trascinando l’intera filiera delle banche nazionali e preparando il terreno per nuovi futuri crolli? Per non dire del fatto che entro fine luglio sono attesi gli esiti degli ultimi stress test pretesi dall’Autorità bancaria europea (Eba) e dalla Bce. Si resta sbigottiti di fronte a tanta ottusità (sempre che di sola ottusità si tratti). Anche negli Stati Uniti, a ridosso della grave crisi bancaria seguita al crack Lehman, gli istituti americani vennero sottoposti a severi esami, ma prima il governo si preoccupò di fare in modo che la gran parte di loro fosse dotata del patrimonio necessario a stabilizzare i loro bilanci attingendo dalle casse dello Stato. Esattamente il contrario di ciò che sta capitando in Europa, dove il cambio delle regole in corsa ha creato un’asimmetria per cui paesi come Spagna o Germania hanno potuto beneficiare di aiuti di Stato per decine o centinaia di miliardi mentre l’Italia, anche a causa di gravi errori compiuti dai governi Monti e Letta, oggi deve battersi a petto nudo per avere ciò cui avrebbe diritto in qualunque latitudine mentre subisce gli effetti di decisioni (il voto a favore del bail-in) assunte con una leggerezza che lascia sconcertati. Vero è che il sistema bancario italiano è gravido di 200 miliardi di sofferenze (sul totale di 900 miliardi che pesa sulle banche europee), ma è anche doveroso aggiungere che non meno del 60% è garantito da beni mobili e immobili. Proprio per questo a febbraio il presidente della Bce, Mario Draghi, alludendo all’Italia non esitò a dichiarare: «Non ci saranno nuove richieste di maggiori accantonamenti o di rafforzamento patrimoniale». Rilanciato di lì a qualche giorno dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: «Le banche italiane sono ben patrimonializzate, anche grazie all’azione della vigilanza mentre i crediti deteriorati sono ampiamente coperti da svalutazioni e garanzie». Per queste ragioni il governo italiano deve insistere nel pretendere un atteggiamento meno burocratico e non punitivo nella trattativa in corso a Bruxelles per risolvere una volta per tutte il problema dell’adeguamento patrimoniale delle nostre banche ricorrendo a tutti gli strumenti consentiti dall’emergenza europea. In considerazione soprattutto del fatto che l’idraulica di un’economia sono le sue banche: se cedono queste, cede l’economia.

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LA NUOVA Pag 1 Dem in stallo ma senza alternative di Massimiliano Panarari “Matteo il Temporeggiatore” nelle vicende di governo ha nuovamente cambiato registro. E, nelle cose di casa sua (il Partito democratico), è tornato a indossare gli abiti consueti, quelli del “principe postmoderno” e del leader “che non deve chiedere mai”. Memore anche, verosimilmente, della vecchia (e robusta) massima per cui la migliore difesa è l’attacco: motivo per cui non gli conveniva presentarsi nell’agone interno titubante, né fare aperture per evitare che si trasformasse in una corrida. Così, chi, pur non attendendosi una seduta di autocoscienza (tipica di una certa sinistra, ma che notoriamente non appartiene per niente al Dna del renzismo), sperava in una relazione autocritica e aperturista è rimasto a bocca asciutta. Il redde rationem definitivo tra le anime del Pd non arriva, ma la sostenibilità della convivenza appare ridotta al lumicino. Le poste in gioco, e le issues, principali della direzione di ieri erano quattro: il referendum costituzionale, l’Italicum, gli assetti interni (sia in termini di governance che di modello organizzativo) e l’interpretazione del recente voto amministrativo. E su nessuna di esse Renzi ha fatto il minimo dietrofront, arrivando a negare di avere mai posseduto un “tocco magico”, rigettando naturalmente l’accusa di avere trasformato il Pd in un partito personale come pure quella di avere personalizzato il referendum, e producendosi in un’autodifesa molto forte sulle questioni bancarie (che danno l’impressione, nelle prossime settimane, di riservare sorprese destinate a riverberarsi ulteriormente sul sistema politico). Dunque, la vittoria nel referendum quale passaggio indispensabile per il destino del Paese (e non per il suo); l’Italicum intoccabile; la rivendicazione del carattere progressista delle linee di politica economica e sociale (giudicate assai insufficienti dalle sinistre interne); nessuna concessione sulla riorganizzazione del partito (al cui riguardo ha chiamato alla corresponsabilità nelle situazioni problematiche le minoranze) né, men che meno, sull’abbandono del doppio incarico. E nell’esegesi delle amministrative Renzi ha insistito sul carattere frastagliato del voto, sulle specificità locali e sull’impossibilità, pertanto, di una lettura unitaria, mostrando nei fatti di non ritenere la “questione sociale” la motivazione fondamentale del risultato deludente. Da cui la riproposizione di uno dei suoi Leitmotiv: la vera criticità consiste nella carenza di innovazione (e nell’incapacità di comunicare all’elettorato la propria “aura innovatrice”). Lo scontro sulla linea politica è quindi apparso totale: l’idea di “innovazione” renziana (che nulla ha palesemente a che fare con la tradizione del filone postcomunista) è, in tutto e per tutto, riconducibile al format di una riedizione della Terza via, e risulta agli antipodi del richiamo a un’iniezione di «più sinistra» formulato dalle minoranze. Il presidente del Consiglio tiene la posizione, i suoi avversari non riescono ad affondare il colpo. Chiamatelo, se volete, un dialogo tra sordi. Renzi ha sfidato le minoranze a vincere il congresso, e Bersani ha minacciato un prossimo muro contro muro (che ha, però, tutta l’aria di essere l’ennesimo “penultimatum” di una già nutritissima lista). Lo stallo perdurerà, ma la “mossa del cavallo”, se vogliono riprendere un’agibilità politica perduta nella sostanza, spetta agli oppositori. Il premier-segretario può infatti ancora, per il momento, contare sulla frammentazione dei suoi avversari interni ed esterni, e sulla mancanza di alternative (e la sua relazione lo ha fatto capire perfettamente). In ogni caso, di fronte all’inarrestabile avanzata dei consensi dei 5 Stelle che i sondaggi continuano a indicare, l’impressione è che ieri il Pd si sia fatto scappare un’occasione importante di elaborazione e discussione (oltre che di chiarificazione). E la realtà potrebbe presto passare a chiedere di pagare il conto (in termini elettorali). Torna al sommario