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RASSEGNA STAMPA di lunedì 6 febbraio 2017 SOMMARIO “Se sua madre quella sera non fosse andata al cinema, o se in cartellone ci fosse stato un qualsiasi altro film, Luca Mattei oggi non sarebbe vivo – racconta Lucia Bellaspiga su Avvenire di ieri -. E nessuno (eccetto forse lei) lo piangerebbe morto: non sarebbe neanche nato. Venuto al mondo per il rotto della cuffia, Luca era già pronto in rampa di lancio per essere abortito, uno dei 100mila desaparecidos che ogni anno in Italia spariscono in silenzio. La storia è sempre quella: un uomo che volta le spalle, una donna sola, la maternità vista come un peso impossibile, l’illegalità di chi per legge (la 194) dovrebbe garantirle ogni supporto e invece emette un frettoloso certificato di morte. «Mio padre se ne andò di casa appena seppe che mia madre mi aspettava – racconta Luca, nato in Piemonte 35 anni fa –, così io crebbi senza di lui e a 7/8 anni cominciai a sentirne forte la mancanza. Notavo che con mia sorella maggiore, che lo aveva avuto in casa fino a 5 anni, per lo meno aveva un rapporto, con me nulla, il che mi rendeva un bambino molto triste, anche se mia madre invece mi ricolmava di attenzioni. Con l’adolescenza la mancanza del padre fece crescere in me una rabbia ingestibile, che scaricavo contro l’innocente mia madre, non le parlavo, ero aggressivo. Il motivo era che non sapevo più chi fossi io, senza quel punto di riferimento...». A preservarlo da droga e alcol sono stati lo sport e il desiderio di non veder piangere sua madre: «Giocavo a calcio e questo mi ha salvato, sfogavo tutto lì, e poi vedevo l’estrema sofferenza con cui mia mamma discuteva con mia sorella quando lei difendeva in lacrime quel padre che tanto le mancava, e io non volevo aggiungere strazio a strazio». Finché un giorno di 20 anni fa lei non seppe più trattenere quella verità covata a lungo: «Fosse stato per tuo padre tu oggi non saresti qui!», gli sbatté in faccia in un momento di disperazione. Parole capaci di mordere il cuore. Che Luca ormai perdona ma che allora rischiarono di ucciderlo. «Sbagliò, non puoi scaricare su un ragazzino un rancore trattenuto per anni, ma oggi che vivo accanto ai bisognosi ho imparato a guardare tutto con gli occhi della misericordia e la comprendo. Certo fu atroce...». Quel giorno Luca apprese tutto d’un fiato che «nemmeno per un secondo ero stato desiderato», di tutto era frutto fuorché dell’amore: nato da un rapporto occasionale e distratto, quando i genitori si stavano già lasciando, era pure figlio di un errore, «il preservativo si è rotto, così sei nato», gli disse la madre. Poi il rifiuto del padre, «abortiscilo, cara mia, tanto io me ne vado». Per paradosso azzerare quel bambino per cancellare ogni traccia di un amore mutato in odio diventava l’unico punto di accordo tra i due. Se non che la sera prima di abortire (è il 1980) Anna entra in un cinema. «Adoro questa cosa», si illumina il giovane a questo punto del racconto. Proiettavano un film che in Italia s’intitolava Luca bambino mio e nell’originale spagnolo Il Cristo nell’oceano, la storia di un bimbo che perde entrambi i genitori e vive con uno zio alcolista. «Un giorno nel mare trova un crocifisso portato dalle onde e lo nasconde in cantina – riassume Luca – e questo Cristo gli parla di amore, gli fa scoprire che la vita è bella. È lì che mia madre ha avuto l’intuizione: se un bambino può essere felice senza genitori, io che almeno una mamma l’avrei avuta perché non potevo nascere? È uscita da quel cinema determinata a salvarmi e a chiamarmi come lui». Luca è nato la Domenica delle Palme ed è stato la resurrezione di Anna. Dieci anni fa ha cercato quel film e se lo è divorato scena per scena, ma da solo, «mi vergognavo di vederlo con lei e mostrarle i miei sentimenti...». A dissipare pian piano quella rabbia che dentro lo divorava sono stato i suoi amici, i disabili, quelli con cui oggi vive in una struttura in cui accoglie settanta persone: «Grazie a mia madre, che pure agnostica aveva uno spiccato senso del sociale, ho iniziato a frequentarli a 16 anni e sono cresciuto alla loro scuola, non mi stancherò mai di dirlo – spiega –. Mi direte: cos’hai da imparare da un disabile? Sei tu che lo lavi, che lo vesti... Mi hanno insegnato uno sguardo di stupore sulla vita. Io a 16 anni già non mi meravigliavo più di niente, invece li osservavo e loro erano felici con poco. Quanto erano fortunati!». Se

Rassegna stampa 6 febbraio 2017 - patriarcatovenezia.it fileCon l’adolescenza la mancanza del padre fece crescere in me una rabbia ingestibile, che scaricavo contro l’innocente

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 6 febbraio 2017

SOMMARIO

“Se sua madre quella sera non fosse andata al cinema, o se in cartellone ci fosse stato un qualsiasi altro film, Luca Mattei oggi non sarebbe vivo – racconta Lucia Bellaspiga

su Avvenire di ieri -. E nessuno (eccetto forse lei) lo piangerebbe morto: non sarebbe neanche nato. Venuto al mondo per il rotto della cuffia, Luca era già pronto in rampa di lancio per essere abortito, uno dei 100mila desaparecidos che ogni anno in Italia spariscono in silenzio. La storia è sempre quella: un uomo che volta le spalle, una

donna sola, la maternità vista come un peso impossibile, l’illegalità di chi per legge (la 194) dovrebbe garantirle ogni supporto e invece emette un frettoloso certificato di morte. «Mio padre se ne andò di casa appena seppe che mia madre mi aspettava –

racconta Luca, nato in Piemonte 35 anni fa –, così io crebbi senza di lui e a 7/8 anni cominciai a sentirne forte la mancanza. Notavo che con mia sorella maggiore, che lo

aveva avuto in casa fino a 5 anni, per lo meno aveva un rapporto, con me nulla, il che mi rendeva un bambino molto triste, anche se mia madre invece mi ricolmava di

attenzioni. Con l’adolescenza la mancanza del padre fece crescere in me una rabbia ingestibile, che scaricavo contro l’innocente mia madre, non le parlavo, ero aggressivo. Il motivo era che non sapevo più chi fossi io, senza quel punto di

riferimento...». A preservarlo da droga e alcol sono stati lo sport e il desiderio di non veder piangere sua madre: «Giocavo a calcio e questo mi ha salvato, sfogavo tutto lì, e poi vedevo l’estrema sofferenza con cui mia mamma discuteva con mia sorella quando lei difendeva in lacrime quel padre che tanto le mancava, e io non volevo aggiungere strazio a strazio». Finché un giorno di 20 anni fa lei non seppe più trattenere quella verità covata a lungo: «Fosse stato per tuo padre tu oggi non saresti qui!», gli sbatté in faccia in un momento di disperazione. Parole capaci di mordere il cuore. Che Luca ormai perdona ma che allora rischiarono di ucciderlo. «Sbagliò, non puoi scaricare su un ragazzino un rancore trattenuto per anni, ma oggi che vivo accanto ai bisognosi ho

imparato a guardare tutto con gli occhi della misericordia e la comprendo. Certo fu atroce...». Quel giorno Luca apprese tutto d’un fiato che «nemmeno per un secondo

ero stato desiderato», di tutto era frutto fuorché dell’amore: nato da un rapporto occasionale e distratto, quando i genitori si stavano già lasciando, era pure figlio di un errore, «il preservativo si è rotto, così sei nato», gli disse la madre. Poi il rifiuto del

padre, «abortiscilo, cara mia, tanto io me ne vado». Per paradosso azzerare quel bambino per cancellare ogni traccia di un amore mutato in odio diventava l’unico

punto di accordo tra i due. Se non che la sera prima di abortire (è il 1980) Anna entra in un cinema. «Adoro questa cosa», si illumina il giovane a questo punto del racconto.

Proiettavano un film che in Italia s’intitolava Luca bambino mio e nell’originale spagnolo Il Cristo nell’oceano, la storia di un bimbo che perde entrambi i genitori e

vive con uno zio alcolista. «Un giorno nel mare trova un crocifisso portato dalle onde e lo nasconde in cantina – riassume Luca – e questo Cristo gli parla di amore, gli fa

scoprire che la vita è bella. È lì che mia madre ha avuto l’intuizione: se un bambino può essere felice senza genitori, io che almeno una mamma l’avrei avuta perché non potevo nascere? È uscita da quel cinema determinata a salvarmi e a chiamarmi come lui». Luca è nato la Domenica delle Palme ed è stato la resurrezione di Anna. Dieci

anni fa ha cercato quel film e se lo è divorato scena per scena, ma da solo, «mi vergognavo di vederlo con lei e mostrarle i miei sentimenti...». A dissipare pian piano quella rabbia che dentro lo divorava sono stato i suoi amici, i disabili, quelli con cui oggi vive in una struttura in cui accoglie settanta persone: «Grazie a mia madre, che pure agnostica aveva uno spiccato senso del sociale, ho iniziato a frequentarli a 16 anni e sono cresciuto alla loro scuola, non mi stancherò mai di dirlo – spiega –. Mi

direte: cos’hai da imparare da un disabile? Sei tu che lo lavi, che lo vesti... Mi hanno insegnato uno sguardo di stupore sulla vita. Io a 16 anni già non mi meravigliavo più di niente, invece li osservavo e loro erano felici con poco. Quanto erano fortunati!». Se

fino a quel momento la consapevolezza di essere un aborto sopravvissuto gli scorreva sottopelle, adesso tutto cambiava: «Finché ero centrato su me stesso la mia vita non mi piaceva e che io fossi nato oppure no mi pareva ininfluente, ma con gli amici ho trovato il sale nella mia vita e ho capito che esserci, al mondo, o non esserci non

sarebbe stata la stessa cosa. Ho un debito con loro, mi hanno donato lo stupore senza bisogno di stupefacenti ». In dieci anni nella sua struttura sono passate anche 32

donne incinte, soprattutto ex schiave prostitute, convinte di dover abortire. Invece sono nati 32 bambini”.

“Il governo giapponese - racconta l’Osservatore Romano in un servizio di Cristian Martini Grimaldi - ha recentemente annunciato misure per ridurre la quantità di

straordinari che i dipendenti possono fare, nel tentativo di contrastare il fenomeno delle morti da super lavoro (karoshi). In Giappone la morte da superlavoro non è

affatto un evento raro. Nel 2015 il governo ha ufficialmente riconosciuto circa 2000 casi e si stima un numero ancora maggiore per il 2016. Ma se karoshi è diventata una

parola ricorrente nei discorsi dei giapponesi lo si deve al caso di una ragazza ventiquattrenne che si è tolta la vita prima di Natale. La giovane si era gettata dal

terzo piano della stanza del dormitorio nel quale viveva. I media internazionali non hanno evidenziato abbastanza questo particolare. Il luogo del suicidio la dice lunga,

infatti, sul reale significato del lavoro per un giovane giapponese: mangiare e dormire nello stesso posto dove si lavora (soprattutto nei primi anni dopo l’assunzione) è una prassi quasi scontata. Il suicidio della ragazza è avvenuto in un’azienda tra l’altro già

tristemente famosa per il trattamento disumano a cui sottoponeva da anni i propri dipendenti. Il grande clamore suscitato, e non solo in Giappone, da questo caso è

dovuto ad alcuni messaggi diventati virali sui social media. La giovane, che totalizzava una media di 105 ore di straordinari al mese, aveva infatti condiviso su Twitter, senza giri di parole ed eufemismi, il proprio stato d’animo: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo di farla finita». Si

leggeva in uno dei suoi tweet poco prima di compiere il gesto estremo. Un sondaggio del governo giapponese ha rivelato che un quinto dei dipendenti del paese deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro. Il 22,7 per cento delle imprese

impiegano personale che produce più di 80 ore di straordinario al mese. Queste 80 ore - circa quattro ore al giorno da aggiungere ai normali orari di ufficio - sono

ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio di morte si moltiplica in modo drammatico. Ma nel 12 per cento delle aziende i dipendenti producono ben oltre le 100 ore mensili di straordinarie. Quasi il 30 per cento di questi dipendenti oberati di lavoro sono impiegati nel settore dell’It e delle comunicazioni, come in

quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto. Il governo sta cercando di attuare un cambiamento di mentalità all’interno delle aziende per

incoraggiare maggiore flessibilità e, conseguentemente, ridurre lo stress. «Il Giappone ha bisogno di ridurre le ore dedicate al lavoro allo scopo di indirizzare il tempo alla

famiglia, ai figli e anche alla cura degli anziani», ha ribadito recentemente un portavoce dell’esecutivo. Il primo ministro, Shinzo Abe, e il suo governo alla ricerca di

un metodo efficace per imporre un limite allo straordinario stanno per varare un sistema chiamato «Premium Venerdì». La campagna, guidata dalla Japan Business Federation, permetterà ai lavoratori di lasciare presto l’ufficio l’ultimo venerdì di

ogni mese. Ma i critici di questa iniziativa non hanno tardato a farsi sentire, mettendo in evidenza come con questa misura non si stabilisce in alcun modo un migliore

equilibrio tra ore dedicate alla propria vita privata e quelle destinate al lavoro, tanto più che la Japan Business Federation ha relativamente pochi membri: 1300 aziende su

oltre 2,5 milioni di imprese registrate. Allo stesso tempo il Giappone si ritrova a essere uno dei paesi al mondo meno generosi per quanto riguarda le ferie. I

dipendenti hanno mediamente diritto a dieci giorni di ferie pagate, ma a zero festività nazionali retribuite (l’Australia, in confronto, offre 20 giorni di ferie pagate e otto

giorni di festività pubbliche pagate). Non solo. Molti lavoratori non utilizzano nemmeno la metà dei giorni di ferie che hanno a disposizione. Allo stato attuale il

governo giapponese punta a ridurre la percentuale di dipendenti che lavorano più di 60 ore alla settimana a meno del cinque per cento della forza lavoro totale, ed entro il 2020 (data non certo casuale, in quanto è l’anno delle Olimpiadi che si svolgeranno a Tokyo, ovvero quando gli occhi di tutto il mondo saranno puntati sul paese) intende convincere i lavoratori a prendersi almeno il 70 per cento delle vacanze a cui hanno diritto. Ma il problema delle morti da superlavoro difficilmente potrà essere risolto

dall’alto: attraverso una legislazione tra l’altro già sperimentata in anni passati e con scarsi risultati. Il karoshi è un problema che nasce innanzitutto dalle dinamiche sociali

all’interno della società giapponese: la pressione sociale in combinazione con il desiderio di non deludere le aspettative da parte di familiari, colleghi e superiori

rende difficile convincere i lavoratori a compiere scelte più “salutari”. E lo è ancor di più quando per tutta la vita è stato loro insegnato che ciò che conta non è il proprio

stato d’animo - di un progetto di vita vagamente felice neppure si parla - ma la sicurezza materiale, ovvero ottenere un buon posto di lavoro e mantenerlo a tutti i

costi, anche i più estremi” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Borbiago, associazioni a caccia di sponsor per i lavori di restauro della torre campanaria di r.pas. LA NUOVA Pag 12 Giubileo, centinaia di religiosi in Basilica di n.d.l. Celebrazione del Patriarca a San Marco LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 19 Giubileo con il patriarca per suor Margherita di Nadia De Lazzari La religiosa, 70 anni di professione, vive a Cannaregio: “Sveglia alle 5.15, prego e lavoro, così sono utile al prossimo” 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Manifesti antipapali, tra pasquinate e attacchi a Paolo VI di Marco Roncalli Quanto accaduto nei giorni scorsi non è una prima volta: nel 1978, dopo la morte di Montini, apparvero cartelli firmati «Civiltà Cristiana» che chiedevano un «Papa cattolico» SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) Ricambio in vista a Ferrara. Le nomine dei vescovi nell'era di Francesco CORRIERE DELLA SERA Pag 6 Il Papa: la maldicenza rovina la Chiesa di Gian Guido Vecchi Ruini si schiera con Francesco: “Quei manifesti lontani dai sentimenti della gente”. Rimossi da Roma i poster contro di lui. I sospetti della Santa Sede sui gruppi di destra Pag 26 E’ il “fronte del silenzio” che preoccupa il Papa di Massimo Franco Il caso dei manifesti anonimi LA REPUBBLICA Pag 7 Il Papa al Super Bowl in spagnolo sfida Donald con un videomessaggio di Vittorio Zucconi Pag 15 “Coprì gli abusi del prete pedofilo”, denuncia al Papa contro il cardinale di Elena Affinito e Giorgio Ragnoli L’arcivescovo di Napoli Sepe al centro dell’esposto di una vittima AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016

Pag 4 L’economia di comunione contro la cultura dello scarto Il Papa: il profitto fine a se stesso è idolatria Pag 12 Manifesti anonimi contro il Papa a Roma, ma i passanti li strappano via di Mimmo Muolo Pag 19 Ordine di Malta, Becciu nominato delegato del Papa di Andrea Galli Aiuterà il cammino verso il Capitolo: “Curerà il rinnovamento spirituale” Pag 19 Ora di religione, materia per crescere Il Messaggio della presidenza Cei: è chiave di lettura per la nostra realtà CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 15 “N’do sta la tua misericordia?”. I poster dei conservatori. E il Papa: serenità e distacco di Luigi Accattoli Decine di manifesti nella Capitale. John Allen jr.: “Ricorda i volantini contro Wojtyla. In Vaticano il coraggio divide”. Ordine di Malta, il vescovo Becciu nominato delegato papale LA REPUBBLICA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 17 Il giallo dei manifesti che attaccano il Papa: “E’ la destra cattolica” di Paolo Rodari e Alberto Melloni A chi fa paura la svolta di Bergoglio L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 7 Padri di speranza non professionisti del sacro Il Papa chiede ai religiosi e alle religiose di mettere Cristo in mezzo al popolo AVVENIRE di sabato 4 febbraio 2016 Pag 2 La speranza immensa (risorgeremo e vedremo) di Marina Corradi Il Papa e “l’attesa di qualcosa che è stato già compiuto” Pag 3 La Chiesa e il Mezzogiorno, storia di impegno e vicinanza di Angelo Scelzo Dal 1948 ad oggi un cammino di attenzione mai interrotto Pag 17 Padrini, ruolo da rivedere. Ma ora bisogna fare presto di Luciano Moia, Francesco Dal Mas, Filippo Rizzi e Alessandra Turrisi Le diocesi in capo con proposte di rinnovamento. E continuano le polemiche scatenate dal caso Riina CORRIERE DELLA SERA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 19 “Racconto il cardinale Martini. Un dono che non va disperso” di Giangiacomo Schiavi Ermanno Olmi: è stato uno spirito profetico che invitava gli uomini a essere inquieti Pag 20 La Chiesa resterà unita nell’epoca di Trump di Andrea Riccardi Casa Bianca e Vaticano LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 16 Preti e disprezzo per le donne, andiamo oltre lo sconcerto di Sandro G. Franchini Pag 37 Così parlano i papi e nella parola è il loro vero potere di Alessandro Barbero Il rapporto tra la Chiesa e il mondo nei secoli 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 5 febbraio 2016 Pag VI Azione Cattolica, il patriarca nomina Alessandro Molaro nuovo

presidente Pag XII Nuovo laboratorio e giovani diplomati. Doppia festa per l’Istituto Salesiano LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 17 Molaro presidente dell’Azione cattolica di n.d.l. Succede a Teresa Scantamburlo IL FOGLIO di sabato 4 febbraio 2016 Pag II O Malta o morte di Matteo Matzuzzi Non solo polemiche. Dall’assistenza ai profughi al lavoro negli ospedali. Cosa fa il più antico Ordine religioso laicale della chiesa 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 25 La rivincita degli antipatici di Elvira Serra Spesso impopolari tra i colleghi perché troppo esigenti e poco inclini ai compromessi. Ma portano efficienza e meritocrazia LA NUOVA Pag 1 Servono dati e proposte, non appelli di Michele A. Cortelazzo Lingua italiana CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 17 Seicento docenti universitari: i ragazzi non sanno l’italiano di Orsola Riva L’appello al governo: vediamo errori da terza elementare Pag 21 “Vi spiego chi sono i vostri figli. Mai fatto sesso senza amore. E nemmeno le mie amiche” di Aldo Cazzullo Sofia Viscardi ha 18 anni e 2 milioni di follower: “In Rete siamo più sinceri” AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016 Pag 12 Scuola, teatro gender: l’altolà del ministro di Paolo Ferrario “Le famiglie devono essere informate” L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 5 febbraio 2016 Pag 3 Vittime del karoshi di Cristian Martini Grimaldi Il fenomeno del superlavoro tra i giovani giapponesi 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 19 Ca’ Fornera: recapito a singhiozzo, il don scrive alle Poste di g.ca. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 5 febbraio 2016 Pag IV Famiglie povere, soldi in cambio dell’impegno a uscire dal disagio di Vettor Maria Corsetti Servizi sociali, i nuovi criteri più “mirati” per l’assegnazione dei contributi LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 35 Jesolo, divieto assoluto di burqa di Giovanni Cagnassi Il sindaco Zoggia sta studiando un’ordinanza per la prossima estate CORRIERE DEL VENETO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 8 Il sindaco abbatte i cubi del parco: “I cittadini diventino protagonisti” di Gloria Bertasi Polemica sulla decisione della giunta. Ruspe in azione all’alba. Più luci contro lo spaccio

Pag 9 “Mazzacurati ancora lucido nel 2013”. E le accuse restano nel processo Mose di Alberto Zorzi Acquisiti i verbali: la malattia era imprevedibile. Ma sarà guerra sull’attendibilità IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 4 febbraio 2016 Pag VIII Da convento ad albergo, il Comune nega il cambio di Lorenzo Mayer Lido. Nuova tegola per l’imprenditore calabrese Antonio De Martino nella realizzazione dell’hotel 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 9 Falso profilo su Facebook. Don Contin: faccio causa Padova, preso di mira l’ex parroco indagato per favoreggiamento della prostituzione LA NUOVA Pag 1 Il referendum e i voti non usati di Francesco Jori CORRIERE DEL VENETO di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 Luce nelle notti della Repubblica di Alessandro Russello Schio e la riconciliazione Pag 5 Il partigiano Teppa e la figlia del podestà, l’abbraccio divide i parenti delle vittime di Michela Nicolussi Moro e Elfrida Ragazzo L’eccidio di Schio: l’eredità della storia. Su perdono e riconciliazione non c’è ancora accordo CORRIERE DEL VENETO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 La “religione” della mafia di Massimiliano Melilli Salvuccio cresimato Pag 6 Riina jr.: “Alla mia nipotina insegnerò cos’è l’amore” di Andrea Priante Cresimato a Padova, padrino a Corleone. La Chiesa: “C’è il perdono, ma doveva evitare” LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 15 Nordest bloccato, la mobilità sociale non funziona più di Daniele Marini Con la crisi sono aumentati l’indice di povertà l’esclusione … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Illusioni elettorali a sinistra di Paolo Mieli Le leggi e il voto LA REPUBBLICA Pag 1 Il rischio dell’Italia a due velocità di Massimo Giannini LA STAMPA Costi e benefici del dialogo con Donald di Marta Dassù IL GAZZETTINO Pag 1 Roma e G7, occasioni per una nuova Ue di Marco Gervasoni Pag 12 L’agenda di Trump: ecco le altre mine pronte ad esplodere di Flavio Pompetti CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 Le rimozioni pericolose sull’Europa di Ferruccio de Bortoli

Maastricht 25 anni fa Pag 4 Non tutti i Trump vengono per nuocere di Paolo Valentino LA REPUBBLICA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 L’Europa sta sotto i piedi di Angela ma nel cuore di Draghi di Eugenio Scalfari AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 Perché no alla tortura di Francesco D’Agostino La risposta cristiana al male Pag 2 Donare senza scandalo di Massimo Calvi Solidarietà, quando la fiducia è tradita Pag 3 Perché l’aborto non è un “diritto” di Pier Giorgio Lignani Una tesi giuridicamente sbagliata Pag 7 “Stavo già per essere abortito… Invece sono qui grazie a un film” di Lucia Bellaspiga L’incredibile storia di un ragazzo “nato per il rotto della cuffia” Pag 11 I doveri di un sindaco, la giustizia dei cittadini di Eugenio Fatigante IL GAZZETTINO di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 L’occasione di riportare la Russia nel G8 di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 Delegittimati dal ritorno al passato di Fabio Bordignon Pag 1 America, lo spauracchio della “tigre di carta” di Giancesare Flesca CORRIERE DELLA SERA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 L’equivoco della classe dirigente di Sergio Rizzo Pag 1 Berlusconi e i due ministri di Francesco Verderami Pag 6 La “cosa” di D’Alema può superare l’8%. Ma la sfida al leader è in salita dentro il Pd di Nando Pagnoncelli L’ex premier eroderebbe il 3% dei voti ai dem Pag 7 Salvini in Vaticano dal cardinale filo-Trump di Gian Guido Vecchi L’incontro di un’ora e mezza con l’ultratradizionalista Burke Pag 10 La locomotiva tedesca ha il motore arrugginito (e Schultz è in rimonta) di Federico Fubini LA REPUBBLICA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 Il post-renzismo al tempo di Renzi di Ilvo Diamanti IL FOGLIO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 Giudici, decreti, orazioni. La ricompensa di Trump alla destra religiosa di Mattia Ferraresi Pag 1 Muri mediterranei di Matteo Matzuzzi IL GAZZETTINO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 Renzi e il labirinto della selva oscura di Bruno Vespa

Pag 16 Carosello 60 anni dopo, quando nacque la réclame di Paolo Navarro Dina LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 Raggi story, fallimento per il M5S di Claudio Giua Pag 1 Il radicalismo e la fragilità della Libia di Renzo Guolo

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Borbiago, associazioni a caccia di sponsor per i lavori di restauro della torre campanaria di r.pas. Mira - Cerchiamo sponsor per salvare il campanile di Borbiago. Questo l'appello di tutte le associazioni di Borbiago che, accogliendo la necessità del paese e del parroco don Carlo Gusso, si sono mobilitate per cercare uno o più o sponsor per restaurare il campanile. Il costo del restauro dovrebbe aggirarsi intorno ai 12-13 mila euro, una somma troppo alta per la parrocchia. Una prima iniziativa si è tenuta a dicembre con il posizionamento, vicino al santuario di Borbiago, della scultura di acciaio che riproduce il campanile di San Marco con all'interno una torre di New York, opera del maestro Giorgio Bortoli. Sono state avviate le pratiche per donare la scultura alla città di New York, tramite un contatto diretto delle associazioni con la polizia italo-americana. Venerdì 2 febbraio, il ristorante Colombo di Venezia ha accolto l'iniziativa delle associazioni e ha deciso di esporre per due mesi, fuori del suo locale, una gigantografia che riproduce la scultura. Le associazioni hanno per questo deciso di aiutare il parroco don Carlo, sempre attivo per aiutare il prossimo. Per trovare degli sponsor sono stati organizzati una serie di appuntanti con personalità note e che hanno dei rapporti diretti con la grande mela. LA NUOVA Pag 12 Giubileo, centinaia di religiosi in Basilica di n.d.l. Celebrazione del Patriarca a San Marco Giornata della cerimonia dei "giubilei" dei religiosi. Ieri alle 16 in centinaia si sono riuniti nella Basilica di San Marco con il Patriarca Francesco Moraglia. La processione si è avviata preceduta da due suore che tra le mani sostenevano i simboli scelti per ricordare la vita contemplativa o attiva: una lampada accesa e una scritta "Una vita consacrata che non si lascia rubare la speranza, la giovinezza, l'entusiasmo, la forza missionaria e la gioia di evangelizzare". All'inizio è intervenuto don Lucio Cilia, delegato patriarcale per la cura pastorale degli Istituti di vita consacrata, che ai religiosi ha ricordato: «Per il mondo siete luce e sale. Siate fedeli al carisma ricevuto e al servizio quotidiano. Diffondete speranza, siete un dono di Dio». Nell'omelia il presule si rivolge ai «carissimi fratelli e sorelle» con una lunga riflessione teologica. «La giornata della vita consacrata» sottolinea il Patriarca «non riguarda solo voi ma tutta la Chiesa che oggi guardando a voi è chiamata a riflettere. Arricchite la Chiesa anche se siete anziani. È il tempo in cui i numeri si contraggono e la qualità viene meno, è il tempo della qualità e della santità. La Chiesa ha bisogno di voi e il mondo della vostra testimonianza». Il Patriarca ricorda la loro vita casta, povera, obbediente e ringraziandoli definisce i religiosi «segni viventi di libertà cristiana». A conclusione una suora scandisce i nomi dei "giubilati": don Raimondo Lass, salesiano della comunità di Mestre, festeggia i 75 anni di professione religiosa e suor Margherita Vedovato delle Domenicane Santa Caterina da Siena di Cannaregio ne festeggia 70. Poi gli religiosi che quest'anno raggiungono il 60esimo, 50esimo e 25esimo anniversario. Numerosi gli ordini religiosi presenti nella Cattedrale marciana: i salesiani, i carmelitani, i francescani, le domenicane di Santa Caterina da Siena, le Piccole Suore della Sacra Famiglia, le Suore di San Francesco di Sales, le Sorelle Minime della Carità di Maria Addolorata "Istituto Campostrini", le Mantellate

Serve di Maria di Pistoia - Villa Salus, le Suore Imeldine, le Figlie di San Giuseppe del Beato Caburlotto, le Suore di Maria Bambina. LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 19 Giubileo con il patriarca per suor Margherita di Nadia De Lazzari La religiosa, 70 anni di professione, vive a Cannaregio: “Sveglia alle 5.15, prego e lavoro, così sono utile al prossimo” Venezia. Oggi per suor Margherita Vedovato dell’Ordine delle Domenicane Santa Caterina da Siena è un giorno speciale: festeggia i 70 anni di professione religiosa. Per lei, per tre consorelle - suor Maria Caterina Miele e suor Gilda Toscani con il 60esimo anniversario, suor Maria Grazia Doveri con il 50esimo - e per altri religiosi il patriarca Moraglia presiede in Basilica alle 16 la cerimonia dei “giubilei”. Suor Margherita, nata a Trebaseleghe (Padova) il 2 luglio 1929, vive a Cannaregio. Si alza alle 5.15, prega, lavora in portineria, ricama e di domenica fa corone. Le piace leggere, soprattutto le vite dei santi e La Nuova Venezia. La sua vita - è infermiera - è un’instancabile testimonianza di fede vissuta per aiutare il prossimo. Dopo la morte della madre Margherita, inferma per oltre dieci anni, entrò in convento a Roma. A sedici anni lasciò la famiglia, i cinque fratelli e il padre. «Mi salutò con due sberle. Questa casa non è più per te», ricorda la religiosa che ha un carattere allegro, mite, socievole. Suor Margherita ricorda il giorno dei voti perpetui: era a Bologna, da lì raggiunse la Casa di Roma. La superiora le consegnò i vestiti e le scarpe. «Erano da uomo», dice, «Le indossai senza battere ciglio. C’era severità e povertà. Là trovai mio padre, pianse tutto il giorno e voleva portarmi a casa. Avevo un abito bianco da sposa con una corona in testa. Ero felice e non ho mai tradito la mia scelta». A Bologna per ricostruire la scuola bombardata quasi ogni notte andava a vegliare le salme nelle case, nelle chiese, nelle celle mortuarie. «È una bella missione, si prega sempre. Una volta mi trovarono addormentata. Ero giovane: di giorno lavoravo e mi dividevo tra il servizio di portineria e di lavanderia», spiega suor Margherita. Poi andò a Modena, a Bergamo, a Pordenone in un asilo frequentato da 900 bambini, a Casale Monferrrato. Di giorno lavorava in cucina e in guardaroba, di notte pregava e ricamava. «Nella nostra Casa e tra la gente ho visto tanta povertà. Talvolta mi rivolgevo al Signore: dove sei?». Da un anno e mezzo è a Venezia. In questi giorni segue con dolore la storia del sacerdote padovano e della sua canonica a luci rosse: «Oggi interessa quello che soddisfa per sé e non per gli altri. Quando i preti sbagliano, ai laici sorgono dubbi e le chiese si svuotano. L’esempio è tutto. A me dà vita il sentirmi utile al prossimo». Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Manifesti antipapali, tra pasquinate e attacchi a Paolo VI di Marco Roncalli Quanto accaduto nei giorni scorsi non è una prima volta: nel 1978, dopo la morte di Montini, apparvero cartelli firmati «Civiltà Cristiana» che chiedevano un «Papa cattolico» Ragionando sull’esiguità del “caso”, la tentazione sarebbe di ignorare tutto. E tuttavia resta valida la raccomandazione cantimoriana per la quale anche i quadri generali ricevono un po' di luce se visti “di scorcio”. E allora cominciamo con i fatti. Sabato 4 febbraio in alcune zone della capitale, anche centrali e vicine al Vaticano, sono apparsi qua e là negli spazi pubblicitari, due o trecento manifesti per così dire singolari. Tutti uguali. Con una scritta, sovrastata da un grande volto un po' imbronciato di Papa Bergoglio, e queste parole ad apostrofarlo così in romanesco: “A France', hai commissariato Congregazioni, rimosso sacerdoti, decapitato l'Ordine di Malta e i Francescani dell'Immacolata, ignorato Cardinali... ma n'do sta la tua misericordia?”. Scelte di governo contestate - Chiaro l'intento di contestare scelte di governo - dove la misericordia pare un po' tirata per i capelli - a partire da vicende recenti. E cioè il terremoto tra i Cavalieri di Malta con le dimissioni del Gran Maestro cui è seguita la nomina del Sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu,

come “delegato speciale“ del Papa presso il Sovrano Militare Ordine (comunicata dalla Sala Stampa proprio sabato); il commissariamento con intenti disciplinari di una congregazione lacerata al suo interno (il minimo che possa dirsi circa un'inchiesta cominciata ai tempi di Benedetto XVI); la mancata risposta ai quattro porporati del fronte dei cosiddetti “dubia”(i dubbi sul capitolo ottavo dell' “Amoris Laetitia” circa l' “apertura” verso i divorziati risposati). Dunque fatti specifici, che, enfatizzati, rimbalzano da un po' in rete e per qualcuno sono diventati quasi un'ossessione: bisognosa di maggior visibilità e condivisione, senza però metterci la faccia, la firma, la sigla, restando anonimi. Un'idea goliardica? - Da qui l'idea (tra l’adolescenziale e il goliardico?), di ricorrere ad una tipografia, far stampare una provocazione e affidarla a solerti attacchini (chissà se estranei o simpatizzanti) che nottetempo hanno fatto tutto. Il resto è noto: passanti che hanno subito strappati i manifesti, addetti del Comune che li hanno coperti con la toppa solita “affissione abusiva”, solidarietà e sdegno, amarezza e deplorazione, ma anche, al momento in cui scriviamo, qualche silenzio di troppo. E, per cosi dire, il “diretto interessato”? Informato ha fatto sapere di andare avanti per la sua strada con «serenità e distacco», più o meno come ogni volta in cui gli sono stati chiesti giudizi sulle contestazioni che l'hanno visto al centro del bersaglio: «Non ci perdo il sonno» o «Fanno il loro lavoro e io faccio il mio». Così come ha continuato a farlo domenica: all'Angelus («La cultura della vita» sia la risposta «alla logica dello scarto e del calo demografico»); poi ricevendo i partecipanti all'incontro «Economia di Comunione», promosso dai Focolari («Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto...»), ecc. Satira antipapale - Ma torniamo subito all'attacco alla persona del Pontefice, attacco protetto, almeno al momento, dall'anonimato, un colpo basso che, per qualche osservatore, potrebbe segnare un innalzamento della tensione, legittimando nuove espressioni di dissenso di piazza. Come leggere questo gesto? A chi attribuirlo? Vanno evocate, come si sta facendo, lobby potenti o è stata un’azione isolata? Quali fattori può innescare? Premesso che espressioni di satira antipapale ci sono sempre state nella storia, senza dimenticare con Pasquino, pur nelle loro diversità, le critiche dei liberali cattolici contro Pio IX, quelle dei modernisti contro papa Sarto, e quelle, più o meno palesi, continuate con i papi del Concilio e tutti i loro successori (vengono in mente i volantini anti Wojtyla per la giornata di Assisi), e premesso che nel caso in esame ci sembra esserci una distanza, nelle forme e nella sostanza, dalla stessa “Chiesa dell'anticoncilio” raccontata dallo storico Giovanni Miccoli nel suo volume laterziano, di ormai sei anni fa, sui tradizionalisti alla riconquista di Roma, ecco cosa pensano alcuni storici con cui ci siamo confrontati. Il parere degli storici - Per Fulvio De Giorgi, ordinario di Storia dell'Educazione e della Pedagogia all'Università di Modena e Reggio, «la satira anticlericale e antipapale presente in passato nell'età contemporanea è diminuita, anche per lo spessore di vera santità di tutti i papi contemporanei, Francesco incluso. Il popolo ama Francesco. I cattolici di parrocchia sono entusiasti di lui: della sua umanità, del suo calore, del suo linguaggio comprensibile. Dunque queste - costose e falsamente 'popolari'- forme di critica anonima rappresentano un'esigua minoranza di persone». Già ma a chi attribuirne la paternità? «Non credo i lefebvriani in senso stretto. Direi quella corrente di laici e di prelati che si ricollega alle vecchie opposizioni al Concilio Vaticano II (a Giovanni XXIII e a Paolo VI): ormai pochissimi, ma violentissimi sul web e con qualche entratura nella burocrazia ecclesiastica. Quest'ultimo aspetto è l'unico che deve far riflettere. Sì, ci possono essere anche frange politiche di destra in questo antipapismo: ma sono storicamente trascurabili. Invece ciò che mi colpisce, nel manifesto, è la citazione dei Cardinali (cioè i quattro cardinali dei dubia)». «Ecco - conclude de Giorgi - questo manifesto è una spia del disordine divisivo che quelle posizioni hanno provocato o possono provocare. Ma i processi storici sono più forti delle pasquinate reazionarie e degli intrighi prelatizi». "Pasquinate" del terzo millennio? - Più prudente Francesco Mores, che insegna storia della Chiesa all'Università degli studi di Milano: «Credo sapremo qualcosa di più sui manifesti nei prossimi giorni». E continua: «Mi pare però si possa dire che sono una contaminazione tra la tradizione delle pasquinate (con l'uso del romanesco in apertura e in chiusura) e un riferimento ad ambiti precisi del cattolicesimo reazionario che si

oppone all'esercizio di autorità di questo papa (che di autorità, come abbiamo visto, sa far uso). Se, infatti, i riferimenti ai Cardinali, alle Congregazioni e all'Ordine di Malta seguono la grafia per dir così gerarchica (non per caso, sacerdoti è minuscolo), l'accenno ai Francescani dell'Immacolata denota una conoscenza un po' più approfondita della situazione....». «Circoli ristretti» - Piuttosto articolata l'analisi di Enrico Galavotti, che insegna storia del cristianesimo presso l’Università «G. d’Annunzio» di Chieti-Pescara. Convinto che le pasquinate non c'entrino («quelle mettevano alla berlina il potere del papa come monarca, mentre oggi il ruolo del papa rispetto a Roma è fondamentalmente rovesciato: la Porta Santa alla sede della Caritas alla Stazione Termini è emblematica), convinto - come noi - che i lefebvriani non c'entrino («escluderei il loro coinvolgimento dei lefebvriani: hanno ottenuto da Francesco - e sembra che otterranno - molto più di quello che hanno avuto dai predecessori, da Paolo VI a Benedetto XVI»), Galavotti osserva che i riferimenti del manifesto sono precisi e intelligibili a un circuito molto ristretto, dato che «per intenderci, il riferimento ai francescani dell’Immacolata non mi pare precisamente una cosa afferrabile all’uomo comune della strada che passa e legge il manifesto». Ma al di là di tutto, precisa lo storico, «io non darei troppo peso alla cosa: mi pare anzi una iniziativa disperata. È certamente furba perché è chiaro che in questo modo gli autori hanno avuto una visibilità e un’attenzione che non avrebbero mai avuto pubblicandola su uno dei tanti siti internet che compongono il microcosmo antibergogliano. Ma resta una iniziativa disperata, di qualcuno che cioè sta disperatamente cercando di spingere Francesco a un gesto di forza o di censura nei suoi confronti per poi iniziare una fase di vittimismo in vista della successiva elezione papale». E conclude: «Mi pare ad ogni modo che Francesco sino a questo momento abbia agito con grande intelligenza: mi sembra davvero di rivedere quella pagina del diario Tucci dove Giovanni XXIII replicava a chi gli chiedeva di dare un calcio nel sedere a quei curiali che gli continuavano a creare problemi che lui doveva agire con prudenza per evitare che il conclave dopo di lui non fosse contro di lui e smontasse quello che aveva pazientemente messo in piedi». I precedenti degli anni Settanta - Insomma, una partita aperta, che non finirà presto, tra supposizioni e certezze, ma pure solidarietà al vescovo di Roma in quello che in apparenza è solo una piccola incrinatura nel rapporto con l'opinione pubblica a quattro anni dall'elezione.. Più o meno come avvenne a Paolo VI che, eletto nel '63, pure quattro anni dopo, nel '67, visse il punto di rottura dell'equilibrio del suo pontificato. Dopo il risveglio post-conciliare per lui la contestazione arrivò prima da sinistra, poi da destra. Stretto tra dom Franzoni e Lefebvre, Montini reagì con fermezza evitando strappi. Ma fu egualmente contestato duramente dentro la Chiesa e talora bersagliato dalla satira in Tv (Dario Fo) e sui giornali (si vadano a rivedere le copertine del settimanale “Tempo” del 4 e 11 aprile 1976 , o certe vignette di Giorgio Forattini su “Repubblica”, dove comunque, alla morte di papa Montini, Eugenio Scalfari l’8 agosto scrisse: «Ereditò una Chiesa richiamata a nuova vita ma esposta a tutti i venti; lascia una Chiesa più sicura di sé in un mondo che ha visto invece la propria crisi aggravarsi ed estendersi. Noi laici dobbiamo qui dirlo: la società religiosa si è in questi anni assai meno imbarbarita della società laica»). Non era scontato. «Vogliamo un Papa cattolico» - Alla morte fu resa giustizia a Papa Montini? Di fatto, giudizi aspri e quasi polemici si ebbero solo in due ristrette zone d'opinione, qualche cattolico del dissenso passato all'estrema sinistra o intellettuale marxista fuori dai partiti politici. «A non voler tener conto, naturalmente, del tradizionalismo cattolico, che in Italia ha scarsa consistenza», ha scritto Luigi Accattoli in un saggio edito nella raccolta “Paul VI et la Modernité dans l'Église” dall' École française di Roma (nel 1984). Dove ricordava che «il movimento, più nominale che reale, di "Civiltà cristiana", composto di simpatizzanti del MSI-DN, fece affiggere, nell'agosto 1978, dopo la morte di Paolo VI, un manifesto in cui il giudizio sul pontificato montiniano era espresso, per contrasto, in questo slogan: "Vogliamo un Papa cattolico"». SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) Ricambio in vista a Ferrara. Le nomine dei vescovi nell'era di Francesco Le nomine dei vescovi sono il principale strumento con cui papa Francesco rimodella la gerarchia della Chiesa. Alcune nomine gli stanno talmente a cuore che non esita a

saltare tutti i passaggi procedurali e fare lui tutto da solo. Per l'Argentina, ad esempio, avviene quasi sempre così. Da quando è papa, Jorge Mario Bergoglio ha deciso lui di persona praticamente tutte le nuove nomine vescovili in quella nazione. Ma anche in Italia Francesco ama riservare a sé le scelte chiave. Non solo per grandi diocesi come Roma, Palermo, Bologna o Milano, ma anche per talune sedi di media grandezza. Una di queste è la diocesi di Ferrara, dove la nomina del nuovo vescovo è data per vicina. Il vescovo in carica, infatti, Luigi Negri, ha compiuto i 75 anni canonici lo scorso 26 novembre e, come di norma, ha rimesso il mandato nelle mani del papa. Il quale in tutti i casi del genere può prorogare la sua permanenza in sede, oppure procedere subito al ricambio. A Ferrara la proroga non c'è stata. E lo si può capire. Negri, da una vita in Comunione e liberazione e vicinissimo al fondatore don Luigi Giussani, è uno dei vescovi meno assimilabili allo stile di papa Bergoglio. Per la scelta del suo successore le procedure sono quasi ultimate. A fine gennaio il nunzio in Italia Adriano Bernardini ha concluso le consultazioni di rito, in particolare quelle di tutti gli altri vescovi, anche emeriti, dell'Emilia Romagna, la regione in cui ricade Ferrara, e ora si appresta a inoltrare una terna di candidati alla congregazione vaticana per i vescovi, che la vaglierà e darà infine la sua indicazione al papa. Tra i vescovi consultati ve ne sono alcuni in sintonia con Negri, come quello di Reggio Emilia Massimo Camisasca, anche lui di Comunione e liberazione e pupillo di don Giussani, o come l'arcivescovo emerito di Bologna Carlo Caffarra, uno dei quattro cardinali che hanno sottoposto al papa i famosi "dubia" sull'interpretazione di "Amoris laetitia". Ma ve ne sono anche altri allineati in pieno a Bergoglio, come l'arcivescovo di Bologna da lui stesso insediato, Matteo Zuppi, e i vescovi di Ravenna Lorenzo Ghizzoni e di Modena Erio Castellucci. Una simile varietà di orientamenti potrebbe quindi suggerire candidature d'equilibrio, non troppo sbilanciate in un senso o nell'altro. Ma se papa Francesco volesse scegliere lui il nuovo vescovo di suo gradimento? O addirittura l'avesse già scelto? L'ipotesi non è affatto da escludere. Nella congregazione per i vescovi papa Francesco ha una squadra di suoi esecutori molto agguerrita, che mette facilmente fuori gioco – forte del mandato di Santa Marta – la congregazione e il suo cardinale prefetto, il canadese Marc Ouellet. Compongono questa squadra il segretario del dicastero, il brasiliano Ilson de Jesus Montanari, fatto arcivescovo e chiamato a questo ruolo nevralgico dallo stesso Bergoglio, l'argentino Fabián Pedacchio Leaniz, poco visibile ma potente segretario personale del papa, e l'italiano Fabio Dal Cin, legatissimo soprattutto al secondo. Non solo. Proprio monsignor Dal Cin, 52 anni, della diocesi di Vittorio Veneto, potrebbe essere il candidato che papa Francesco ha in mente per la successione nella diocesi di Ferrara. Forse più ancora di monsignor Giancarlo Perego, attuale direttore della pastorale per i migranti nella conferenza episcopale italiana, caldeggiato sia dal segretario generale e referente di Bergoglio per la CEI Nunzio Galantino, sia dall'ex direttore della Caritas di Bologna Giovanni Nicolini. Nicolini è fondatore e superiore delle Famiglie della Visitazione, una comunità che si ispira a don Giuseppe Dossetti. Ed è legato a quell'influente think tank cattolico progressista, noto come "scuola di Bologna", che ha avuto nello stesso Dossetti il suo fondatore e ha nello storico della Chiesa Alberto Melloni e nel fondatore del monastero di Bose Enzo Bianchi i suoi attuali reggitori e guru, entrambi ultrabergogliani. Corre appunto voce, tra costoro, che "l'Emilia Romagna è ormai nostra", proprio grazie alle nomine che papa Francesco si appresterebbe a fare non solo a Ravenna, ma anche nella vicina diocesi di Rimini, il cui attuale titolare, il vescovo Francesco Lambiasi, è alle prese con una esposizione debitoria talmente grave da esigere una sua sostituzione, non necessariamente punitiva visti i suoi appoggi romani e visto il precedente della diocesi di Terni, per il cui debito si svenò lo IOR e per il cui vescovo, Vincenzo Paglia, si dischiusero le praterie di alte cariche curiali. Una postilla. Tra i cardinali e i vescovi membri della congregazione vaticana che vaglia le nomine, Bergoglio ha incluso – tra i primi atti del suo pontificato – proprio il predecessore di Negri a Ferrara, Paolo Rabitti. Il quale aveva consegnato a Negri, al momento della successione, alla fine del 2012, una diocesi in stato disastroso, con i conti in disordine e – come non bastasse – con un nugolo di seminaristi inaffidabili, rastrellati qua e là da altre diocesi che li avevano respinti. CORRIERE DELLA SERA Pag 6 Il Papa: la maldicenza rovina la Chiesa di Gian Guido Vecchi

Ruini si schiera con Francesco: “Quei manifesti lontani dai sentimenti della gente”. Rimossi da Roma i poster contro di lui. I sospetti della Santa Sede sui gruppi di destra Città del Vaticano. «La missione dei cristiani nella società è quella di dare “sapore” alla vita con la fede e l’amore che Cristo ci ha donato, e nello stesso tempo di tenere lontani i germi inquinanti dell’egoismo, dell’invidia, della maldicenza e così via...». All’indomani dei manifesti anonimi apparsi a Roma contro il Papa («Ma n’do sta la tua misericordia?»), Francesco non fa menzione della vicenda. È tuttavia significativa la sua riflessione intorno al Discorso della Montagna, l’invito di Gesù ad essere la «luce» e il «sale» della terra. Egoismo, invidia e maldicenza «rovinano il tessuto delle nostre comunità, che devono risplendere come luoghi di accoglienza, solidarietà e riconciliazione», spiega. Prima di sillabare: «Per adempiere a questa missione, bisogna che noi stessi per primi siamo liberati dalla degenerazione corruttrice degli influssi mondani, contrari a Cristo e al Vangelo». Dopo la catechesi, Francesco si sofferma piuttosto sulla Giornata per la vita, parla di aborto e eutanasia, «ogni vita è sacra!». E invia un videomessaggio in spagnolo per il Super Bowl, la finale di football americano: «Possa l’evento di quest’anno essere un segno di pace, amicizia e solidarietà per il mondo». A Roma, intanto, i manifesti già coperti sabato sono stati quasi tutti rimossi. La polizia ha recuperato alcuni filmati nei quali si vedono gli attacchini agire nottetempo e sono in corso accertamenti su qualche targa. Di «tristezza e deplorazione» parla il cardinale vicario, Agostino Vallini: «I fedeli della comunità cristiana, insieme a tutti gli abitanti della città, non si riconoscono in queste insinuazioni ingiuste e rinnovano i loro sentimenti di stima, di rispetto filiale e di gratitudine al vescovo di Roma, successore di Pietro, per la sua personale testimonianza evangelica e la sua opera di evangelizzazione e di vicinanza agli uomini, particolarmente ai poveri». Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica , gesuita vicino al Papa, commenta su Facebook i «manifesti anonimi finto-popolari e ben pagati contro Francesco» e scrive: «È il segno che sta agendo bene e sta dando molto fastidio. Quei manifesti sono minacce e intimidazioni. In finto romanesco per tentare di far credere che siano popolari. Ma la gente vera non discetta sull’ordine di Malta o canonistici “dubia” cardinalizi. Dietro c’è gente corrotta e poteri forti che montano strategie per staccare il Papa dal cuore della gente, la sua grande forza. E il risultato è l’effetto opposto». Pag 26 E’ il “fronte del silenzio” che preoccupa il Papa di Massimo Franco Il caso dei manifesti anonimi Città del Vaticano. «Guardi, ho sentito oggi in televisione le dichiarazioni del cardinale Vicario, Agostino Vallini, e mi pare abbia parlato molto bene. L’essenziale è che quei manifesti non rispecchiano per nulla il sentire comune dei romani, della gente». Il cardinale Camillo Ruini ha una lunga esperienza e ne ha viste tante, la voce al telefono suona serena. «È una cosa piccola che rischiamo di ingrandire per niente», spiega al Corriere. Chi guarda al sottobosco di estrema destra romana, chi alla fronda conservatrice vaticana. «Non lo posso dire perché non lo so, ma non credo che in Vaticano ci siano poi tutte queste tensioni». Insomma, il cardinale Ruini ne è convinto: «Non credo che convenga farne un caso. Non ce n’è bisogno. Del resto non ne sappiamo nulla. Credo che ormai sia una faccenda finita, da quanto ho sentito il Comune li ha coperti e fatti togliere. Si rischia soltanto di fare un favore a chi li ha voluto mettere». È interessante notare come sul fronte più conservatore, o nella «vecchia guardia» che dir si voglia, ritornino le stesse considerazioni: «Penso che non si debba fare pubblicità a questi anonimi che escono così, e credo che le persone coinvolte non debbano essere molto felici di essere usate per attaccare il Papa», dice il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi, parlando a Tgcom24. Per Ouellet «questi metodi non si devono usare nella Chiesa, sono piuttosto opera del diavolo che vuole dividerci». Chi ha voluto quei manifesti, comunque, ha messo insieme casi diversi sui quali il Papa è dovuto intervenire, lo scontro interno all’Ordine di Malta, scandali e abusi nella piccola congregazione tradizionalista dei francescani dell’Immacolata sulla quale aveva già cominciato ad indagare Benedetto XVI (e la magistratura), e la questione dei «dubbi» resi pubblici da quattro cardinali (l’americano ultraconservatore Burke e altri tre porporati in pensione) contro le aperture ai divorziati e risposati udite dal Sinodo e

contenute nell’esortazione di Francesco Amoris Laetitia. Ad accomunarli è il fatto di essere diventati gli argomenti prediletti da una galassia piccola ma rumorosa di siti e blog tradizionalisti che in Rete attacca ogni giorno Francesco. Ai piani alti del Vaticano si sperava che la cosa passasse sotto silenzio. C’è chi riflette che a Roma, dalla stazione Tiburtina a Termini, ci sono tantissimi giovani - cattolici e non - che da anni passano le loro serate a portare pasti caldi e coperte a migranti e clochard, e non sono mai andati sui tg né in prima pagina. Si ripete che il Papa è tranquillo. Soprattutto si aspetta di capire meglio. «Certo, saremmo più sereni se si riuscisse a scoprire da quali gruppi vengono queste iniziative». Il sospetto è che si tratti di una questione politica, romana o italiana, legata a gruppuscoli presenti in città. «Per noi è difficile accettare che venga dai nostri ambienti, non si era mai fatta una cosa del genere, ci sembra troppo. Può darsi che della gente fuori dalla nostra cerchia voglia strumentalizzare», si spiega Oltretevere. La linea del Papa, ad esempio nei confronti dei migranti, non è solo materia di dibattito nella Chiesa. «La situazione italiana è confusa, tanti possono volersi immischiare per trarne vantaggio». LA REPUBBLICA Pag 7 Il Papa al Super Bowl in spagnolo sfida Donald con un videomessaggio di Vittorio Zucconi Washington. Nella lingua di quelli che dovrebbero restare chiusi oltre i Muro, nell'occasione sportiva che dovrebbe celebrare il Te Deum della Religione Americana a Houston, il Papa punge il Presidente con un augurio in spagnolo, per ricordare alla boria anglo-sciovinista di Trump che l'America non gli appartiene in esclusiva. Mai, nelle 51 edizioni della finale del campionato professionistico di football, come indica la numerazione romana - LI - utilizzata per dare un tono imperial-gladiatorio a una semplice partita di palla ovale, un Pontefice di Santa Romana Chiesa aveva riconosciuto l'esistenza di un evento commercial-sportivo che resta ancora oggi largamente destinato a tifosi e consumatori statunitensi. Immaginare che nel 1967, quando fu disputata la prima finalissima, il Papa del tempo, Paolo VI cardinal Montini, potesse occuparsi di campionati di football in Usa, misura la distanza del tempo e le ansie del Pontefice romano. E se già il riconoscimento del SuperBowl, della Super Coppa di football, sarebbe in sè fuori dall'ordinario, l'avere scelto lo spagnolo per celebrarlo tradisce l'intenzione benevolmente, ma pugnacemente polemica di Bergoglio. Quando augura, nella propria lingua materna che è la stessa ormai di quasi la metà degli abitanti del Texas e della città che ha ospitato la partita, Houston, che il Super Bowl sia un «simbol de la cultura de encuentro, de paz e de amistad para toto el mundo» , incontro, pace e amicizia, mentre Trump prospera e coltiva la cultura dello scontro, dell' esclusione e della discriminazione, il Papa va ovviamente ben oltre l'auspicio di una bella giornata di sport. Essendo il football americano molto lontano dalle passioni sportive di Bergoglio, dichiarato tifoso di calcio, lui pensa alle folle degli "altri americani" affollati oltre il muro. E minacciati di nuovo impoverimento da sanzioni commerciali. La parola chiave nel brevissimo saluto è «incontro». I due club che si sono disputati il "Trofeo Lombardi", la supercoppa intitolata a un leggendario "coach" italo-americano, sono i Falcons di Atlanta e i Patriots di Boston: ma non era a loro che Beroglio si indirizzava. Parlava a quei 13 milioni di texani nati o emigrati oltre il Rio Grande, il fiume che segna l'incerto confine fra il Sud e il Nord. A quei 700mila houstoniani, su due milioni di residenti che parlano, come loro prima lingua, lo spagnolo. Quegli «stupratori e assassini» che il candidato Trump aveva attaccato nella campagna elettorale. «La partecipazione allo sport è il superamento del proprio interesse egoistico verso il sacrificio, la solidarietà e il rispetto delle regole», dice il Papa nei 50 secondi del suo discorso. E ogni parola, soprattutto per la lingua scelta, può essere letta come l'esatto rovescio dell'egolatria, della faciloneria, del suprematismo e della indifferenza alle regole di questa nuova Amministrazione americana. Bergoglio sa sicuramente che il voto dei cattolici è andato in maggioranza a Trump, per il 52% contro il 45% secondo le ricerche post-elettorali, e molti disapproveranno questo suo intento. Ma altrettanto bene il Papa sa che il voto "ispanico", dunque messicano e centroamericano, ha bocciato in massa il Candidato del Muro, per 66 a 28, e gli ispanici sono, fra tutti i gruppi etnici, quelli con il più rapido tasso di crescita. Il Texas, ancora monopolio repubblicano, ma insidiato dall'aumento

degli immigrati dal Grande Sud, è la "Frontera" del futuro politico americano ed è lo Stato che dovrà accettare, o subire, il completamento di quella Grande Muraglia che Clinton e Bush cominciarono a innalzare dal Pacifico verso il Golfo del Messico, fermandosi proprio al Texas. Il SuperBowl, che è il massimo esempio di commercializzazione e di egoismo dello sport dove 30 secondi di spot pubblicitario hanno superato il costo di 5 milioni di dollari e i giocatori incassano milioni ogni anno per fracassarsi ossa e crani, è stato soltanto un pretesto, per Papa Francesco, un'occasione per esprimere l'angoscia di un Papa che vuole parlare contro ogni muro. E soprattutto contro un muro che vuole dividere l'America dei miliardari ipocriti del Nord dalla "sua" America. Quella che parla, come lui, spagnolo. Pag 15 “Coprì gli abusi del prete pedofilo”, denuncia al Papa contro il cardinale di Elena Affinito e Giorgio Ragnoli L’arcivescovo di Napoli Sepe al centro dell’esposto di una vittima Roma. «Con la presente lettera intendo denunciare il cardinale Crescenzio Sepe, per grave negligenza nell'esercizio del proprio ufficio». Inizia così l'esposto di Diego Esposito (il nome è di fantasia), inviato al Papa e al prefetto della Congregazione per i vescovi, cardinale Marc Ouellet, lo scorso 11 ottobre. Si tratta della prima denuncia che si appella alla lettera apostolica motu proprio "Come una madre amorevole", scritta dal Pontefice e diventata legge canonica il 5 settembre 2016, che stabilisce la rimozione dei vescovi colpevoli di grave negligenza nella gestione dei casi di abusi sessuali da parte di sacerdoti. Per mesi una commissione di giuristi nominati da Bergoglio si è riunita in segreto per studiare i termini della nuova norma. L'intenzione era quella di rendere più trasparente la gestione dei casi, limitando il potere dei vescovi e permettendo alle vittime, nel caso di colpevolezza delle diocesi, di ottenere il giusto risarcimento. LE VIOLENZE - Nella lettera Diego racconta la sua storia che comincia in un sobborgo di Napoli nel 1989: «Fui abusato all'età di 13 anni dal mio insegnante di religione, don S. M.». Vent'anni dopo, nel 2010, Diego è un uomo sposato con figli che fa la guardia giurata; mentre sta scortando un furgone portavalori, ha un malore e viene portato d'urgenza al pronto soccorso. I medici non trovano la causa del suo malessere. Mentre è ricoverato, confessa alla madre e alla moglie, incredule, il suo segreto. IL REATO PRESCRITTO - Inizia una terapia con uno psichiatra, il dottor Alfonso Rossi, che per anni ha diretto l' unità malattie mentali dell'ospedale di S. Maria Capua Vetere. I test psicologici confermano un vissuto di abusi sessuali. Il reato penale è ormai prescritto, non rimane che appellarsi alla giustizia canonica. Diego chiede un colloquio con il Cardinale Sepe per denunciare i fatti, ma non ottiene risposta. Dopo un anno, nel 2011, incontra il vescovo ausiliare Lucio Lemmo, ma non viene aperto nessun procedimento. Quando nel 2013 Diego scopre che il prete continua ad insegnare, decide di raccontare tutto alla stampa rilasciando un' intervista a "RE le Inchieste" di Repubblica.it. La sua storia diventa un caso internazionale arrivando sulla prima pagina dell' edizione domenicale del Washington Post diretto da Martin Baron, l'ex direttore del Boston Globe ai tempi del caso "Spotlight". LA LETTERA DEL PONTEFICE - Nel marzo 2014, dopo quattro anni di battaglie contro i mulini a vento, scrive a Papa Francesco che gli risponde promettendo di occuparsi del caso. Sei mesi dopo la curia di Napoli è costretta ad aprire un'indagine. A novembre Diego viene convocato dal vicario giudiziale della diocesi, padre Luigi Ortagli, per una deposizione, ma non ci sono altri sviluppi. Nel luglio 2015, sull'orlo dell'esaurimento, invia una mail a don Ortagli nella quale minaccia di spararsi con l'arma di ordinanza davanti alla curia se non avrà una notizie della sua denuncia. Viene segnalato all'autorità giudiziaria che gli ritira il porto d'armi. Diego perde il lavoro. Nel maggio 2016 Diego accetta di sottoporsi ad una visita psichiatrica presso un perito nominato dalla diocesi. Dopo uno sciopero della fame, ottiene di essere accompagnato dal suo psichiatra. «Non si è trattato di una perizia medico legale, ma di un interrogatorio in stile Gestapo», racconta Alfonso Rossi. «Le stesse domande venivano ripetute fino allo sfinimento con l'intenzione di dare il carico delle responsabilità delle violenze subite al ragazzo. Io stesso ho lavorato per il tribunale, ma ho sempre condotto le visite con il massimo rispetto per le presunte vittime».

LA CURIA E LE VITTIME - Un monsignore, esperto di diritto canonico, che preferisce rimanere anonimo, conferma che la Curia romana è perfettamente consapevole delle tattiche usate dalle diocesi per sabotare le denunce. «È raro che le curie si schierino sinceramente dalla parte delle vittime. La preoccupazione principale non è la giustizia, ma tutelare la Chiesa, in particolare dal punto di vista economico. La prassi di portare allo sfinimento una vittima non è nuova», continua la fonte, «fino a logorare la richiesta di giustizia. Inoltre non è raro che i periti nominati siano collusi con le curie. Sulle indagini il Papa di fatto non ha alcun potere, tutto viene gestito dai vescovi, senza alcuna garanzia di imparzialità. Nel caso in questione, la cosa strana è che il denunciante dopo sei anni non ha ancora ricevuto nessuna comunicazione, né una conclusione istruttoria, né un giudizio di archiviazione da parte dell' autorità ecclesiastica. Gli indizi di negligenza sembrano seri, ci sono tutti i presupposti per iniziare l'indagine». Qualora il Papa giudicasse verosimili le prove presentate, nominerà una commissione ad hoc per svolgere l'indagine. E poiché si tratta di un procedimento a carico di un cardinale, sarà Bergoglio stesso, a pronunciarsi dopo la conclusione delle indagini. Sepe rischia la rimozione dall' ufficio di arcivescovo, mentre la vittima potrà chiedere alla diocesi e alla Santa Sede un risarcimento per i danni materiali e psicologici subiti. Solo la soluzione di questo, come di altri casi, rivelerà se gli intenti del motu proprio saranno effettivamente efficaci. AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016 Pag 4 L’economia di comunione contro la cultura dello scarto Il Papa: il profitto fine a se stesso è idolatria Pubblichiamo il testo integrale del discorso del Papa ai partecipanti all’Incontro «Economia di Comunione», promosso dal Movimento dei Focolari. Di seguito le parole del Papa. Cari fratelli e sorelle, sono lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore, professor Luigino Bruni, per le sue cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze. Economia e comunione. Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo questo. L’imprenditore da voi è visto come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti. Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose. La prima riguarda il denaro. È molto importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr 2,1321). Non si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non scaccia? Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire. È stato Gesù, proprio Lui, a dare categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo. Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la

nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte. Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo! La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale nel vostro movimento. Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la povertà. E tutto ciò, da una parte, è una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società restavano molti. Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso. Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti. Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia! L’economia di comunione, se vuole essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena. Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande. Infine, la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino, l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo. Non occorre essere in

molti per cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo. Come fare per non perdere il principio attivo, l’“enzima” della comunione? Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro denaro. Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza. Queste cose voi le fate già. Ma potete condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione. Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo ancora di più. Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie. Francesco Pag 12 Manifesti anonimi contro il Papa a Roma, ma i passanti li strappano via di Mimmo Muolo Roma. Manifesti anonimi contro il Papa in diverse vie della capitale. Ieri mattina decine di poster con la foto del Pontefice, colto in un’espressione non sorridente, sono stati affissi sui muri di Roma – in zone anche centrali come in Prati, Piazza Risorgimento, l’Aracoeli, il Colosseo - nel chiaro intento di contestare il suo operato. Sotto la foto, infatti, compare una scritta che a partire da recenti vicende (come quelle che hanno portato alle dimissioni del gran maestro dell’Ordine di Malta e alla nomina, proprio ieri, del sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu a delegato pontificio per affiancare i cavalieri nell’elezione del nuovo gran maestro) apostrofa Francesco in un romanesco maccheronico. I manifesti non riportano sigle o simboli, come già era avvenuto nel mese di dicembre all’indirizzo del ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli. E la polizia municipale ha provveduto a 'oscurarli' coprendoli con un foglio bianco recante la scritta che indica come si tratti di affissione abusiva. Più di 200 i manifesti rimossi. Ma già in precedenza molti poster erano stati strappati in tutto o in parte dai passanti, in chiaro segno di rifiuto di quanto vi è sostenuto. Sulla vicenda sono in corso anche indagini della Digos di Roma, che sta passando in rassegna le registrazioni delle telecamere nelle zone interessate, per cercare di risalire agli autori

della singolare e deprecabile presa di posizione (anche se le prime verifiche non hanno dato esito). Non è difficile comunque ipotizzare che si tratti di una iniziativa nata negli ambienti fortemente minoritari contrari all’insegnamento del Papa, alla sua vigorosa azione di riforma e alla linea di trasparenza seguita da Francesco. Numerose le attestazioni di affetto per il Papa, anche sui social. Secondo il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, «questi attacchi non toglieranno serenità a Francesco». In un tweet il gesuita scrive: «A Roma sono apparsi manifesti anonimi finto popolari e ben pagati contro #PapaFrancesco. Segno che sta agendo bene e sta dando molto fastidio». Sempre su twitter, c’è chi definisce la cosa una «miseria umana»; chi parla di «fascisti» o di «demoni in trasferta a Roma». Per altri si tratta di una «gran cafonata». «Scritti in dialetto a sottolineare che anche la gente semplice la pensa così? Illusi! Forza #Papa-Francesco», si legge in un altro tweet, mentre c’è chi non manca di rilevare che quel manifesto è in realtà come «una medaglia per il suo impegno contro muri e razzismo». Pag 19 Ordine di Malta, Becciu nominato delegato del Papa di Andrea Galli Aiuterà il cammino verso il Capitolo: “Curerà il rinnovamento spirituale” Considerando una storia lunga mille anni, passata per le Crociate e la Battaglia di Lepanto, la tempesta in cui l’Ordine di Malta si è venuto a trovare può apparire poca cosa. Da un punto di vista più contingente, di settimane come le ultime – a partire dallo scorso 6 dicembre, data della destituzione del Gran Cancelliere Albrecht von Boeselager che ha segnato lo scoppio della crisi – non se ne vedevano da un bel po’ in una realtà caratterizzata da una presenza discreta e dal passo felpato. Ieri un nuovo capitolo della vicenda. Con una lettera divulgata dalla Sala Stampa vaticana, firmata giovedì scorso, il Papa ha nominato l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, attuale Sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, suo delegato speciale presso – così recita il nome ufficiale – il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta. Nella missiva Francesco spiega allo stesso Becciu che è chiamato ad agire «in stretta collaborazione» con fra’ Ludwig Hoffmann von Rumerstein, il «Luogotenente interinale», colui che ha preso il posto del Gran Maestro dimissionario fra’ Matthew Festing, e a farlo «per il maggior bene dell’Ordine e la riconciliazione tra tutte le sue componenti, religiose e laicali». In particolare, scrive sempre Bergoglio, «Ella affiancherà e sosterrà il Luogotenente nella preparazione del Capitolo straordinario, e insieme deciderete le modalità di uno studio in vista dell’opportuno aggiornamento della Carta costituzionale dell’Ordine e dello Statuto melitense». Capitolo straordinario in cui dovrà essere eletto appunto il nuovo Gran Maestro, ma anche una Costituzione che verrà quindi revisionata: quella attuale fu promulgata nel giugno del 1961 e riformata appena 20 anni fa, dal Capitolo generale straordinario dell’aprile 1997. «Lei in particolare – continua il Pontefice rivolto al Sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato – curerà tutto ciò che attiene al rinnovamento spirituale e morale dell’Ordine, specialmente dei membri professi, affinché sia pienamente realizzato il fine “di promuovere la gloria di Dio mediante la santificazione dei membri, il servizio alla fede e al Santo Padre e l’aiuto al prossimo”, come recita la Carta costituzionale». Il Papa ha già un suo rappresentante presso i Cavalieri di Malta con il compito, recitano le Costituzioni, «di promuovere gli interessi spirituali dell’Ordine e dei suoi membri ed i rapporti fra la Santa Sede e l’Ordine», un cardinale patrono che è attualmente Raymund Leo Burke. Tuttavia, scrive Bergoglio a Becciu, «fino al termine del suo mandato, cioè fino alla conclusione del Capitolo straordinario che eleggerà il Gran Maestro, Lei sarà il mio esclusivo portavoce in tutto ciò che attiene alle relazioni tra questa Sede apostolica e l’Ordine. Le delego, pertanto, tutti i poteri necessari per decidere le eventuali questioni che dovessero sorgere in ordine all’attuazione del mandato a Lei affidato». Questa investitura del Delegato pontificio quale «unico portavoce» del Papa all’interno dell’Ordine, era già stata annunciata giovedì scorso dal Gran Cancelliere Boeselager, pienamente reintegrato nelle sue funzioni, nella conferenza stampa tenuta insieme ad altri rappresentanti dell’Ordine. Boeselager che aveva ribadito la piena «lealtà e fedeltà» al Pontefice, il cui intervento «non ha violato la sovranità dell’Ordine». Pag 19 Ora di religione, materia per crescere

Il Messaggio della presidenza Cei: è chiave di lettura per la nostra realtà Pubblichiamo il testo integrale del Messaggio che la presidenza della Conferenza episcopale italiana invia alle famiglie impegnate nell’iscrizione dei propri figli alla prima classe di ogni ordine e grado della scuola, affinché scelgano per i propri figli di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. Cari studenti e cari genitori, in occasione dell’iscrizione al prossimo anno scolastico, siete chiamati anche a scegliere se avvalervi o non avvalervi dell’insegnamento della religione cattolica. Da più di trent’anni si ripete questa richiesta che consente di mantenere o di escludere una parte significativa del curricolo di studio. È infatti ben chiaro a tutti che questa scelta non è una dichiarazione di appartenenza ad una religione, né è un modo per influenzare la coscienza di qualcuno, ma vuole esprimere solo la richiesta alla scuola di voler essere istruiti anche su quei contenuti religiosi previsti dalle Indicazioni didattiche e che costituiscono una chiave di lettura fondamentale della realtà in cui noi tutti oggi viviamo. Papa Francesco ripete spesso che stiamo vivendo non solo un’epoca di cambiamenti e trasformazioni, ma proprio un “cambiamento di epoca” e anche la società italiana può ormai definirsi plurale e multiculturale, ma la storia da cui veniamo è un dato immodificabile e le tracce che in essa ha lasciato e continua ad offrire la Chiesa cattolica costituiscono un contributo alla crescita della società di tutti. In queste settimane, poi, è stato pubblicato il volume Una disciplina alla prova. Quarta indagine nazionale sull’insegnamento della religione nella scuola italiana a trent’anni dalla revisione del Concordato, che presenta la si-tuazione dell’Irc a partire dalle risposte a dei questionari molto articolati fornite da circa 3.000 insegnanti di religione e da oltre 20.000 studenti di ogni ordine e grado di scuola. Il volto attuale dell’Irc è assai diverso da quello delineato dalla situazione sociale e culturale dell’Italia del 1985, quando fu firmata la Prima Intesa sull’Irc dopo la Revisione del Concordato. L’indagine si colloca, infatti, a trent’anni da quel nuovo modo di insegnare la religione cattolica e misura quanto si sia realizzato il dettato concordatario di collocare questa disciplina “nel quadro delle finalità della scuola”. La “prova” di cui parla il titolo del volume, infatti, è quella della scolarizzazione della disciplina, cioè della compatibilità dell’Irc con finalità e metodi della scuola, e gli autori della ricerca ritengono che si tratti di una prova superata in maniera egregia. All’epoca della firma del nuovo Concordato pochi avreb-bero scommesso sulla tenuta di questo insegnamento, che oggi invece mostra di essere ancora vitale, con un tasso di adesione globale di poco inferiore al 90% di tutti gli studenti italiani. La ricerca ha anche verificato il sapere religioso degli studenti, rilevando che le cose vanno meno peggio di quanto si possa immaginare: le conoscenze bibliche, almeno sui contenuti fondamentali, sono buone; la consapevolezza etica degli studenti cresce col crescere dell’età; alcune conoscenze sulle altre religioni appaiono discrete. Vi invitiamo, perciò, a compiere questa vostra scelta non solo a partire dalle vostre posizioni religiose e dalla consape-volezza del valore dell’Irc, ma anche e soprattutto sulla base di una reale conoscenza dei contenuti propri di questa disciplina scolastica. Avvalersi delle opportunità offerte dall’insegnamento della religione cattolica a scuola permette inoltre di trovare negli insegnanti delle persone professionalmente molto quali-ficate, ma anche testimoni credibili di un impegno educativo autentico, pronti a cogliere gli interrogativi più sinceri di ogni persona e ad accompagnare ciascuno nel suo personale ed autonomo percorso di crescita. Ci auguriamo che possiate cogliere con generosità questa occasione di crescita, così da poter iniziare o continuare tra voi e con i vostri docenti un proficuo dialogo educativo. La presidenza della Conferenza episcopale italiana CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 15 “N’do sta la tua misericordia?”. I poster dei conservatori. E il Papa: serenità e distacco di Luigi Accattoli Decine di manifesti nella Capitale. John Allen jr.: “Ricorda i volantini contro Wojtyla. In Vaticano il coraggio divide”. Ordine di Malta, il vescovo Becciu nominato delegato papale

Città del Vaticano. Il fatto è senza precedenti, seppure solo romano, anzi romanesco: decine di manifesti con l’immagine di papa Francesco e una scritta di contestazione in dialetto sono apparsi ieri mattina in vari punti della Capitale. «A France’, ma n’do sta la tua misericordia?» dice la scritta dopo aver elencato alcune decisioni del Papa che gli anonimi accusatori segnalano come autoritarie e dunque - a loro giudizio - in contrasto con la predicazione della misericordia che caratterizza il pontificato. In Vaticano minimizzano e fanno sapere che Francesco, informato della comparsa della scritta, avrebbe reagito alla notizia «con serenità e distacco». Questo ragguaglio sul suo atteggiamento è verosimile, stante il fatto che quando gli viene chiesto - nelle interviste - come valuta le contestazioni che riceve da varie fonti, compresa una parte della Curia e compresi alcuni cardinali, usa rispondere: «Non ci perdo il sonno». O anche: «Fanno il loro lavoro e io faccio il mio». Potrebbe essere un atteggiamento minimizzante che nasconde una vera preoccupazione, ma a renderlo credibile c’è l’ininterrotto flusso delle iniziative bergogliane di segno innovatore: se fosse spaventato si può immaginare che ne rallenterebbe il ritmo. Il manifesto non è firmato, non riporta sigle o simboli, ma solo la foto del Papa ripreso durante un’udienza nella piazza, incappottato e con l’aria scura, quasi adirata. Questa la scritta: «A France’, hai commissariato Congregazioni, rimosso sacerdoti, decapitato l’Ordine di Malta e i Francescani dell’Immacolata, ignorato Cardinali... ma n’do sta la tua misericordia?». Il fatto più recente a cui allude la scritta è l’intervento del Papa tra dicembre e gennaio per un cambio al vertice dell’Ordine di Malta: Francesco - dopo un’inchiesta di cui non sono note le risultanze - ha imposto al Gran Maestro di dare le dimissioni e ha rimesso nella vecchia carica il Gran Cancelliere che il Maestro aveva dimissionato. I Francescani dell’Immacolata sono una congregazione religiosa nata recentemente, con venature tradizionaliste e forti divisioni interne, che Francesco ha commissariato poco dopo la sua elezione, dando seguito a un’inchiesta che era stata avviata già da Papa Benedetto XVI. Quando il manifesto dice che Francesco ha «ignorato Cardinali» fa riferimento al fatto che non ha dato risposta pubblica - fino a ora - ai «dubbi» sull’esortazione Amoris laetitia che gli sono stati sottoposti da quattro cardinali (Brandmüller, Burke, Caffarra, Meisner) che la ritengono pericolosa per l’apertura verso i divorziati risposati. La scritta fa riferimento a questioni che vengono spesso agitate dagli ambienti cattolici che resistono alle riforme e alle decisioni di papa Bergoglio. L’iniziativa può dunque essere venuta da un piccolo gruppo di quell’area. L’uso del dialetto fa pensare a una caratterizzazione e anche a una mira localistica di chi ha composto la scritta. È la prima volta che appaiono in Roma manifesti contro un Papa da quando fu risolta nel 1929 la «Questione Romana» (in precedenza erano abituali), ma non è la prima volta che un‘immagine di papa Bergoglio appare sui muri della Città eterna. Le cronache hanno parlato di due murales simpatizzanti, autore Mauro Pallotta, comparsi nella zona di Borgo, vicinissima al Vaticano, nel 2014 e nel 2016. Ma prima ancora era comparso un altro murale - ancora visibile - su un muro di cinta nelle vicinanze della stazione Cipro della Metro A, anch’essa vicina al Vaticano, che rappresentava papa Bergoglio con un riflesso di sangue negli occhi e la scritta «Petrus Romanus», che nella cosiddetta «Profezia di Malachia» è il motto dell’ultimo Papa dopo il quale verrebbe la fine del mondo. Di sicuro questo non era un messaggio amichevole. Roma. «L’apparizione di manifesti antipapali in Roma non mi meraviglia: siamo in un mondo polarizzato e in una società della comunicazione che permette di esprimere per intero la polarizzazione e anche la stimola. Potrebbe capitare che domani appaiano altri manifesti contro questo Papa o contro il prossimo»: è l’opinione di John Allen che è stato per sedici anni corrispondente da Roma e ora dirige Crux , il maggior portale statunitense di informazione cattolica. Però il fatto dei manifesti è senza precedenti... «Non del tutto. Quando Papa Wojtyla fece la prima Giornata interreligiosa di Assisi, nel 1986, furono distribuiti per Roma volantini che l’accusavano di eresia e prima dell’ultimo Conclave vedemmo anche, intorno al Vaticano, manifesti murali che dicevano “Vota Turkson” (cardinale del Ghana, ndr). Dobbiamo abituarci all’irrompere delle novità multimediali anche in ambito ecclesiastico». Che dice dell’opposizione montante al Pontefice? «Ci sono cattolici scandalizzati dalle novità portate da Francesco ma il fenomeno non va né minimizzato né esagerato. Vedo che il favore dell’opinione pubblica sia cattolica sia

generale verso questo Papa è molto alto: in America è dell’80%, simile a quello di cui godeva Giovanni Paolo II e leggermente superiore a quello che aveva Benedetto XVI». Oggi negli Stati Uniti gli scontenti di papa Francesco sono di più che in Italia? «Quelli che sono scontenti per ragioni di Chiesa sono forse pari, ma da noi sono più numerosi che da voi gli scontenti per l’atteggiamento anticapitalista di Bergoglio e per il suo favore alla cultura ecologica». Se gli oppositori del Papa oggi non sono più numerosi che in passato, però sono più attivi... «Le differenze sono due. La prima è che i Papi generalmente erano contestati da sinistra mentre questo lo è da destra e ciò rende la contestazione più interessante per i media. La seconda è che oggi ogni contestazione, di un Papa o di un politico, ha più canali per esprimersi, e così capita che sia più visibile anche quando non è maggiore». È azzardabile un paragone tra la contestazione a Bergoglio e quella a Trump? «Paragone istruttivo. Sono ambedue leader forti, ambedue hanno un sostegno quasi fanatico in alcuni settori dell’opinione pubblica e un’opposizione altrettanto accesa in altri. Ambedue sono polarizzanti così che non ci sono verso di loro molte opinioni fredde: o sono amati, o sono odiati». Forse ambedue cavalcano la polarizzazione? «Ovviamente seguono regole diverse, l’uno è un pastore e l’altro un politico, ma al fondo sono due populisti: non si rivolgono alle élites ma al popolo. E non si impressionano se non raccolgono il consenso delle élites ». Papa Francesco ha nominato l’arcivescovo Angelo Becciu, attuale sostituto per gli Affari delegati alla Segreteria di Stato, suo delegato speciale presso il Sovrano Militare Ordine di Malta. È stato lo stesso Bergoglio a comunicarlo con una lettera inviata al monsignore, all’inizio del cammino di preparazione «in vista del Capitolo straordinario che dovrà eleggere il nuovo Gran Maestro del Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta». Becciu «agirà in stretta collaborazione» con Ludwig Hoffmann von Rumerstein, Luogotenente Interinale, «per il maggior bene dell’Ordine e la riconciliazione tra tutte le sue componenti, religiose e laicali». Becciu e Hoffmann decideranno insieme, scrive ancora papa Francesco, «le modalità di uno studio in vista dell’opportuno aggiornamento della Carta Costituzionale dell’Ordine e dello Statuto Melitense». Monsignor Becciu, nato in provincia di Sassari nel 1948, per volere di Francesco «curerà tutto ciò che attiene al rinnovamento spirituale e morale dell’Ordine», fino «al termine del Suo mandato». In questo modo Bergoglio ha voluto metter fine, senza farne menzione nella lettera, ai dissidi interni all’Ordine. LA REPUBBLICA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 17 Il giallo dei manifesti che attaccano il Papa: “E’ la destra cattolica” di Paolo Rodari e Alberto Melloni A chi fa paura la svolta di Bergoglio Testo non disponibile Torna al sommario L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 7 Padri di speranza non professionisti del sacro Il Papa chiede ai religiosi e alle religiose di mettere Cristo in mezzo al popolo Vincere «la tentazione della sopravvivenza» che inaridisce i cuori e e li priva della capacità di sognare: è l’impegno che il Papa ha chiesto ai consacrati e alle consacrate durante la messa celebrata nella basilica vaticana venerdì pomeriggio, 2 febbraio, festa della presentazione di Gesù al tempio. Quando i genitori di Gesù portarono il Bambino per adempiere le prescrizioni della legge, Simeone, «mosso dallo Spirito» (Lc 2, 27), prende in braccio il Bambino e comincia un canto di benedizione e di lode: «Perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo

popolo, Israele» (Lc 2, 30-32). Simeone non solo ha potuto vedere, ma ha avuto anche il privilegio di abbracciare la speranza sospirata, e questo lo fa esultare di gioia. Il suo cuore gioisce perché Dio abita in mezzo al suo popolo; lo sente carne della sua carne. La liturgia di oggi ci dice che con quel rito, quaranta giorni dopo la nascita, «il Signore si assoggettava alle prescrizioni della legge antica, ma in realtà veniva incontro al suo popolo che l’attendeva nella fede» (Messale Romano, 2 febbraio, Monizione alla processione di ingresso). L’incontro di Dio col suo popolo suscita la gioia e rinnova la speranza. Il canto di Simeone è il canto dell’uomo credente che, alla fine dei suoi giorni, può affermare: è vero, la speranza in Dio non delude mai (cfr. Rm 5, 5), Egli non inganna. Simeone e Anna, nella vecchiaia, sono capaci di una nuova fecondità, e lo testimoniano cantando: la vita merita di essere vissuta con speranza perché il Signore mantiene la sua promessa; e in seguito sarà lo stesso Gesù a spiegare questa promessa nella sinagoga di Nazaret: i malati, i carcerati, quelli che sono soli, i poveri, gli anziani, i peccatori sono anch’essi invitati a intonare lo stesso canto di speranza. Gesù è con loro, è con noi (cfr. Lc 4, 18-19). Questo canto di speranza lo abbiamo ricevuto in eredità dai nostri padri. Essi ci hanno introdotto in questa “dinamica”. Nei loro volti, nelle loro vite, nella loro dedizione quotidiana e costante abbiamo potuto vedere come questa lode si è fatta carne. Siamo eredi dei sogni dei nostri padri, eredi della speranza che non ha deluso le nostre madri e i nostri padri fondatori, i nostri fratelli maggiori. Siamo eredi dei nostri anziani che hanno avuto il coraggio di sognare; e, come loro, oggi vogliamo anche noi cantare: Dio non inganna, la speranza in Lui non delude. Dio viene incontro al suo popolo. E vogliamo cantare addentrandoci nella profezia di Gioele: «Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3, 1). Ci fa bene accogliere il sogno dei nostri padri per poter profetizzare oggi e ritrovare nuovamente ciò che un giorno ha infiammato il nostro cuore. Sogno e profezia insieme. Memoria di come sognarono i nostri anziani, i nostri padri e madri e coraggio per portare avanti, profeticamente, questo sogno. Questo atteggiamento renderà fecondi noi consacrati, ma soprattutto ci preserverà da una tentazione che può rendere sterile la nostra vita consacrata: la tentazione della sopravvivenza. Un male che può installarsi a poco a poco dentro di noi, in seno alle nostre comunità. L’atteggiamento di sopravvivenza ci fa diventare reazionari, paurosi, ci fa rinchiudere lentamente e silenziosamente nelle nostre case e nei nostri schemi. Ci proietta all’indietro, verso le gesta gloriose - ma passate - che, invece di suscitare la creatività profetica nata dai sogni dei nostri fondatori, cerca scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle nostre porte. La psicologia della sopravvivenza toglie forza ai nostri carismi perché ci porta ad addomesticarli, a renderli “a portata di mano” ma privandoli di quella forza creativa che essi inaugurarono; fa sì che vogliamo proteggere spazi, edifici o strutture più che rendere possibili nuovi processi. La tentazione della sopravvivenza ci fa dimenticare la grazia, ci rende professionisti del sacro ma non padri, madri o fratelli della speranza che siamo stati chiamati a profetizzare. Questo clima di sopravvivenza inaridisce il cuore dei nostri anziani privandoli della capacità di sognare e, in tal modo, sterilizza la profezia che i più giovani sono chiamati ad annunciare e realizzare. In poche parole, la tentazione della sopravvivenza trasforma in pericolo, in minaccia, in tragedia ciò che il Signore ci presenta come un’opportunità per la missione. Questo atteggiamento non è proprio soltanto della vita consacrata, ma in modo particolare siamo invitati a guardarci dal cadere in essa. Torniamo al brano evangelico e contempliamo nuovamente la scena. Ciò che ha suscitato il canto di lode in Simeone e Anna non è stato di certo il guardare a sé stessi, l’analizzare e rivedere la propria situazione personale. Non è stato il rimanere chiusi per paura che potesse capitare loro qualcosa di male. A suscitare il canto è stata la speranza, quella speranza che li sosteneva nell’anzianità. Quella speranza si è vista realizzata nell’incontro con Gesù. Quando Maria mette in braccio a Simeone il Figlio della Promessa, l’anziano incomincia a cantare, fa una propria “liturgia”, canta i suoi sogni. Quando mette Gesù in mezzo al suo popolo, questo trova la gioia. Sì, solo questo potrà restituirci la gioia e la speranza, solo questo ci salverà dal vivere in un atteggiamento di sopravvivenza. Solo questo renderà feconda la nostra vita e manterrà vivo il nostro cuore. Mettere Gesù là dove deve stare: in mezzo al suo popolo. Tutti siamo consapevoli della trasformazione multiculturale che stiamo attraversando, nessuno lo mette in dubbio. Da qui l’importanza che il consacrato e la consacrata siano inseriti con Gesù

nella vita, nel cuore di queste grandi trasformazioni. La missione - in conformità ad ogni carisma particolare - è quella che ci ricorda che siamo stati invitati ad essere lievito di questa massa concreta. Certamente potranno esserci “farine” migliori, ma il Signore ci ha invitato a lievitare qui e ora, con le sfide che ci si presentano. Non con atteggiamento difensivo, non mossi dalle nostre paure, ma con le mani all’aratro cercando di far crescere il grano tante volte seminato in mezzo alla zizzania. Mettere Gesù in mezzo al suo popolo significa avere un cuore contemplativo, capace di riconoscere come Dio cammina per le strade delle nostre città, dei nostri paesi, dei nostri quartieri. Mettere Gesù in mezzo al suo popolo significa farsi carico e voler aiutare a portare la croce dei nostri fratelli. È voler toccare le piaghe di Gesù nelle piaghe del mondo, che è ferito e brama e supplica di risuscitare. Metterci con Gesù in mezzo al suo popolo! Non come attivisti della fede, ma come uomini e donne che sono continuamente perdonati, uomini e donne uniti nel battesimo per condividere questa unzione e la consolazione di Dio con gli altri. Metterci con Gesù in mezzo al suo popolo, perché «sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che [con il Signore] può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. [...] Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da se stessi per unirsi agli altri» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 87) non solo fa bene, ma trasforma la nostra vita e la nostra speranza in un canto di lode. Ma questo possiamo farlo solamente se facciamo nostri i sogni dei nostri anziani e li trasformiamo in profezia. Accompagniamo Gesù ad incontrarsi con il suo popolo, ad essere in mezzo al suo popolo, non nel lamento o nell’ansietà di chi si è dimenticato di profetizzare perché non si fa carico dei sogni dei suoi padri, ma nella lode e nella serenità; non nell’agitazione ma nella pazienza di chi confida nello Spirito, Signore dei sogni e della profezia. E così condividiamo ciò che ci appartiene: il canto che nasce dalla speranza. AVVENIRE di sabato 4 febbraio 2016 Pag 2 La speranza immensa (risorgeremo e vedremo) di Marina Corradi Il Papa e “l’attesa di qualcosa che è stato già compiuto” Nelle ultime Udienze generali il Papa insegna la speranza cristiana. Mercoledì scorso ha parlato della comunità dei Tessalonicesi, fondata nella fede, con cui Paolo si rallegrava. La Resurrezione di Cristo per i Tessalonicesi era ancora memoria viva, e nessuno ne dubitava. Ma già l’ombra di un dubbio sorgeva in quella giovane cristianità: la difficoltà, ha spiegato il Papa, era credere che i morti risorgano. Già allora dunque, e pure nella certezza di Cristo vivo, l’impatto devastante della morte di una persona amata era tale che anche una fede viva poteva tremare. Ogni volta, del resto, che ci troviamo di fronte alla nostra morte, o a quella di una persona cara, veniamo messi alla prova, dice Francesco. Quell’urto, il grido delle madri e dei padri e dei figli, continua nella storia, e ogni volta ne sorge una cocente domanda. Poi magari, quando il tempo mitiga le ferite – e non sempre ci riesce – la domanda si fa meno bruciante, ma resta latente. Mio padre, mia madre, li rivedrò davvero? Quanti, anche cristiani, tremano nella certezza che pure vogliono avere, davanti alla immensità di questa promessa. Ai fratelli di Tessalonica, Paolo parlava della speranza della salvezza come di un «elmo». Immagine guerresca: un elmo di acciaio, che protegga da ogni freccia o colpo del nemico. La speranza della salvezza, ha detto con nettezza papa Francesco, «è l’attesa di qualcosa che è stato già compiuto»; «è certezza che io sto in cammino verso qualcosa che c’è, non che io voglio che sia». E quanto è bella questa parola perentoria, quanto fa bene a chi, dentro al rumore e alla smemoratezza delle giornate, è toccato dal tarlo di quel dubbio antico: li rivedrò? Davvero? Non pare a volte impossibile, davanti a una lapide muta, trovare la certezza testimoniata dal Papa, e sentirsi addosso l’elmo di Paolo? Il fatto è, che bisogna imparare a sperare. Francesco dice che bisogna imparare dalle donne incinte: quando una donna sa di esserlo, «impara a vivere nella attesa di vedere lo sguardo di quel bambino che verrà». Sperare, dunque, significa «vivere nell’attesa». Certi che incontreremo il volto di Cristo, e con Lui ritroveremo tutti coloro che abbiamo amato, come una gestante lo è di vedere gli occhi del figlio che ha nel ventre. Una sola cosa impedisce questa speranza, avverte Francesco: chi è già pieno di sé e dei suoi averi, non

sa riporre la sua fiducia in nessun altro se non in se stesso. E anche questa è una provocazione, come di uno che ti porga uno specchio e ti dica: guardati. Guardati veramente. In che cosa speri? Non sei forse già sazio? Ma, ha confidato infine il Papa, c’è una parola «che a me riempie della sicurezza della speranza». Ancora Paolo, ai Tessalonicesi: «E così per sempre saremo con il Signore». Al che, sorridendo, benevolo ma insistente, ha domandato alla folla: «E così per sempre saremo con il Signore. Voi credete questo? Vi domando: voi credete questo?». Credere che incontreremo lo sguardo di Cristo, così come una donna è certa di vedere quello del bambino che aspetta, di quel «già e non ancora» che è in lei. Ci crediamo noi? Ci crediamo, davanti allo schiaffo della morte di chi ci è caro? Che grazia, che armatura sarebbe una tale incrollabile speranza – in questo mondo di fatica e di dolore, di cui leggiamo ogni mattina sui giornali. Pag 3 La Chiesa e il Mezzogiorno, storia di impegno e vicinanza di Angelo Scelzo Dal 1948 ad oggi un cammino di attenzione mai interrotto «In quest’ora di gravi trepidazioni, di violenti contrasti e di decisive battaglie, mentre uomini di tutte le tendenze puntano il loro sguardo sul Mezzogiorno d’Italia (...) noi arcivescovi e vescovi dell’Italia meridionale...». L’incipit tradisce gli anni, ma la solennità del tono lascia capire quale e quanta urgenza vi fosse dietro un testo che, pagando il poco dazio richiesto allora alla cronaca, passava subito alla storia; e non solo per l’importanza e lo spessore del contenuto, ma per quelle firme, 73 vescovi, due prelati e tre abati, poste a garanzia di un documento finalmente collettivo, affidato sì nella stesura, a un leader del tempo, l’arcivescovo di Reggio Calabria, Antonio Lanza, ma segno di una volontà e di un sentire comune. Qualcosa di molto vicino a un’unità che sul versante Chiesa-società, nel Mezzogiorno non è stata mai scontata. Datata 25 gennaio 1948, la 'Lettera collettiva dell’episcopato dell’Italia meridionale su: i problemi del Mezzogiorno' aprì il lungo corso degli interventi della Chiesa sulla realtà della parte più povera del Paese. Nello stesso anno l’Italia si dava la Carta costituzionale. I cantieri della ricostruzione, con la guerra appena alle spalle, si aprivano sulle strade ma anche nelle aule e in tutti quei luoghi della cultura e del sapere dove i segni del progresso davano alla ricostruzione la forma più nobile di rinascita. Una distinzione sottile che non riguardava però una metà del Paese al quale non era certamente bastato il tratto unitario, iniziato quasi novant’anni anni prima, per liberarsi almeno di qualcuno dei suoi mali antichi: la miseria, la corruzione, in tutte le sue forme, la criminalità, l’analfabetismo; e con il lavoro e le infrastrutture visti come traguardi di mondi lontani. I termini della «questione meridionale», erano quindi già tutti presenti e ognuno di essi minava a fondo, fino talvolta a distorcerla verso elementi di superstizione e vera e propria magia – come testimoniato largamente dagli studi di Gabriele De Rosa – la religiosità di un popolo sul quale la Chiesa, invece, faceva largo affidamento. Un segno furono anche i molti vescovi provenienti dal Nord messi a capo di diocesi meridionali. Vista dalla parte della Chiesa, l’arretratezza finiva per tarpare le ali anche a una crescita più armonica della propria comunità. La 'lettera', in uno dei suoi passaggi più innovativi, metteva su carta una condizione che creava innanzitutto inquietudini 'ad intra' sulla purezza del sentimento religioso, tant’è – si affermava – che, di fronte a «forme parassitarie e superstiziose, lo stesso vizio, osa, a volte, porsi sotto le ali della religione e del culto». Spianato il terreno dagli equivoci di una contaminazione, restava la visione spettrale di un Mezzogiorno cosparso di una povertà che arrivava ad uniformare e quasi omologare il panorama complessivo. Terreni e ancora terreni, coltivabili e no, dai quali si ricavava ricchezza per pochi e vite di stenti, e miseria in abbondanza per i più. Erano stati proprio i problemi della terra, e la vita grama di coloni, braccianti, i feudi del latifondo, a scuotere in maniera 'collettiva' i vescovi del mezzogiorno. La spinta decisiva venne dalla « XXI Settimana sociale dei cattolici», tenuta l’anno prima a Napoli e su un tema che non lasciava scorciatoie: «I problemi della terra e del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa». A nche questa era stata una strada a lungo preparata, e alla quale aveva dato un contributo forte e originale don Luigi Sturzo. Al prete di Caltagirone riuscì di mettere al servizio della «questione meridionale», due – apparentemente – opposte direttive del magistero papale sull’impegno sociale dei cattolici: il «Non expedit» di Pio IX e le indicazioni della «Rerum novarum» di Leone XIII che, all’inizio del nuovo secolo,

diedero forma e nuova sostanza alla dottrina sociale della Chiesa. Il divieto imposto ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche fu visto da don Sturzo (ma non solo) come un’opportunità favorevole anche per il clero locale, per sottrarsi a forme di vecchio clientelismo. Sul terreno parzialmente bonificato dal disimpegno finì per avere maggior presa il clima della 'Rerum novarum'. La 'Lettera collettiva' fu in questo senso un punto di arrivo, anche perché rendeva ragione dell’impegno isolato, ma di grande prospettiva, di vescovi – come per esempio Nicola Monterisi – per i quali i problemi sociali non erano una cosa a parte dell’azione pastorale delle chiese locali. Nel quarantotto il Concilio Vaticano II era ancora lontano ma il timbro pastorale di quella 'Lettera' ne anticipava quantomeno i toni. A richiamarli fortemente, anche nella forma di un linguaggio nuovo («la questione meridionale è questione di Chiesa e posta anche alla Chiesa») e nel nesso tra evangelizzazione e promozione umana, fu il commento ufficiale che i vescovi italiani, nel ventennale del documento e dunque negli anni immediatamente successivi alla chiusura del Vaticano II, affidarono all’arcivescovo di Lecce, Michele Mincuzzi. Si voltava pagina, nel senso di una più forte compromissione e vicinanza della Chiesa con il suo popolo e, nel caso del Mezzogiorno, con un popolo vessato da molti problemi e tenuto fuori, anche per qualche precedente silenzio della Chiesa, dai circuiti di sviluppo e di progresso già innescati nel resto del Paese. Neppure negli anni del boom economico, i mitici Sessanta, il divario tra le due Italie si è fatto più leggero. Anzi. Al Mezzogiorno è toccato di pagare larghe quote di un benessere che non lo riguardava da vicino. La 'Questione', col tempo, ha cambiato l’ordine dei fattori, ma non il risultato: niente più 'patti agrari' e lotte per le terre, ma uno dopo l’altro, pur con la nascita di organismi di sostegno – primo fra tutte la Cassa per il Mezzogiorno – i fallimenti di industrie che, in cambio delle molte illusioni, hanno poi lasciato la realtà di una devastazione e di un impoverimento del suolo. Aggiungendosi ad altre 'calamità' come la disoccupazione, la malavita organizzata e le forme di corruzione, tuttora di ogni tipo; senza contare la cronica carenza di infrastrutture e di servizi, a partire da una sanità che incoraggia sempre più i 'viaggi della speranza' altrove per l’Italia o per il mondo. E la Chiesa? Il Mezzogiorno aveva cambiato pelle sotto i suoi occhi; e una formula più di ogni altra metteva a fuoco la nuova condizione: quella della 'modernità senza sviluppo' che rivestiva il Sud della patina falsa di un benessere di facciata, privo del fondamento di un’economia salda e che quindi esponeva tutta l’area alle insidie nuove di un consumismo esasperato. La corsa ai consumi, mentre contribuiva a dilapidare le residue risorse, erodeva anche i pilastri di una cultura di vita modellata largamente dall’aspetto religioso. Veniva meno, in questo campo, la trasmissione naturale della fede e si apriva, per gli operatori pastorali, la difficile prospettiva di un Mezzogiorno come terra di nuova evangelizzazione e di vera e propria missione. Pur cambiando volto e riferimenti, l’antica 'questione' non scompariva certo dall’orizzonte della Chiesa meridionale; e anzi ne diventava il tema più dibattuto, mobilitando Pastori e studiosi, diocesi e centri universitari e, in prima linea, i numerosi istituti teologici dell’Italia meridionale. Anche tra i vescovi, dopo gli anni dei Lanza, dei Monterisi, dello stesso Mincuzzi, padre spirituale di don Tonino Bello, si formò un nuovo nucleo di pastori particolarmente attenti al tema Mezzogiorno, come Nicodemo e Motolese, i cardinali Ursi a Napoli e Pappalardo a Palermo, l’arcivescovo Sorrentino a Reggio Calabria. Tutti vescovi meridionali ma ognuno di essi al centro di un’opera di largo respiro: era l’intera Chiesa italiana, ora, a prendersi carico, nel suo insieme, di una questione che non riguardava solo più un’area ma tutto il Paese. A sancire significativamente questo cambio di passo, un altro documento dei vescovi italiani dell’ottobre ottantanove: 'Sviluppo nella solidarietà: Chiesa italiana e mezzogiorno'. Per la prima volta si rendeva esplicito, ponendo l’affermazione quasi a titolo di tutto il documento, che «Il Paese non crescerà se non insieme». Si esprimeva l’intera Chiesa italiana e solenne era anche il mandato per quel documento, sollecitato già dal larghissimo spazio che i problemi del Mezzogiorno conquistarono all’interno del primo Convegno ecclesiale nazionale su «Evangelizzazione e promozione umana» nel 76, e 'rafforzato' nel clima del successivo Convegno di Loreto nell’ottantacinque su 'Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini', quando alla Chiesa italiana venne chiesto un impegno deciso e visibile nella realtà sociale del Paese. Non più quindi solo un impegno collettivo ma corale, di tutta la Chiesa sulla spinta dell’incessante magistero di Giovanni Paolo II, sia attraverso i suoi numerosi e prolungati viaggi pastorali nelle regioni e nelle città meridionali che nei discorsi per le «Visite ad

limina» degli episcopati meridionali. E con la memoria di quel drammatico e solenne 'Basta!' gridato in faccia ai mafiosi nel viaggio in Sicilia, ad Agrigento, a sottolineare la forza dei gesti: come quello che, con non minore efficacia, replicò Papa Francesco a Cassano Jonio, nel giugno di tre anni fa, e poi a Napoli nella memorabile visita in cui si scagliò a suo modo (la «corruzione spuzza») contro il malaffare e ogni forma di violenza organizzata. I pastori e accanto ad essi, a rafforzarne la voce, i papi, Wojtyla e Bergoglio, ma anche Benedetto il quale si recò a Bari, per il Congresso eucaristico nazionale, appena quaranta giorni dopo la sua elezione, prima di visitare poi Lametia Terme, Il brindisino, Cagliari, Napoli e Pompei. E proprio da Napoli, nei giorni prossimi, la Chiesa italiana riprenderà il discorso mai interrotto del suo impegno per il Mezzogiorno. Come a dire, e a ribadire, che il Sud non può essere, tantomeno per la Chiesa, un problema a sé. Pag 17 Padrini, ruolo da rivedere. Ma ora bisogna fare presto di Luciano Moia, Francesco Dal Mas, Filippo Rizzi e Alessandra Turrisi Le diocesi in capo con proposte di rinnovamento. E continuano le polemiche scatenate dal caso Riina Padrini, un ruolo da rivedere. E senza perdere tempo. Il caso di Giuseppe Salvatore Riina, figlio del boss pluri ergastolano, ammesso a fare il padrino di Battesimo alla nipotina, a Corleone – per una serie di equivoci e “nulla osta” forse concessi in modo affrettato – impone di avviare urgentemente il ripensamento di una funzione a cui la fede e la tradizione assegnano grande rilievo. Occorre fare presto, sia perché i percorsi di educazione alla fede dei bambini e dei ragazzi dovrebbero risultare tra le prime preoccupazioni di una comunità, sia perché il rapporto di fiducia con le famiglie non può essere scalfito da situazioni sgradevoli come quella verificatasi appunto tra Veneto e Sicilia. Ecco perché da almeno un ventennio la Chiesa italiana riflette sulla necessità di attualizzare la funzione del padrino, tra auspici di nuovo impegno e di maggior coinvolgimento dei candidati nei percorsi di formazione – andava in questa direzione per esempio il documento dei vescovi piemontesi del 2004 – e di ridefinizione più profonda della figura di padrini e madrine come indicato negli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, Incontriamo Gesù (2014), della Commissione episcopale Cei per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi. In quel testo si raccomandava si scegliere con grande cura le persone che avrebbero affiancato i genitori nella preparazione del Battesimo e della Cresima, per accompagnarli a riflettere «sull’assunzione di responsabilità connessa con questo ruolo e con la testimonianza di fede». Ma non solo. Di fronte ai troppi casi di inadeguatezza dei candidati e alle situazioni in cui i parroci non possono fare altro che constatare la distanza tra stili di vita ed esigenze di coerenza, i vescovi ipotizzavano la creazione di due figure distinte, quella dei padrini di cui investire però «operatori pastorali o altre figure significative dei gruppi familiari che operano in parrocchia e conoscono i ragazzi», e quella dei “testimoni del rito sacramentale”, indicati dalle famiglie, «che pur non avendo i requisiti richiesti, esprimono pur sempre una positiva vicinanza parentale, affettiva ed educativa». Ipotesi lasciata alla valutazione delle diverse Conferenze episcopali regionali che, a quasi tre anni, stenta ancora a decollare. Prendono corpo invece – come già riferito su Avvenire di mercoledì scorso – decisioni più radicali da parte di singole diocesi. Il vescovo di Melfi-Rapolla-Venosa, Gianfranco Todisco, ha firmato un decreto con cui ha abolito per tre anni le figure di padrini e madrine per Battesimo e Cresima, avviando allo stesso tempo «un urgente rinnovamento della pastorale». Nel frattempo, la funzione di paternità e di maternità nella fede, in occasione di Battesimi e Cresime, sarà assunta dall’intera comunità. Decisione simile a quella che sta per essere varata dall’arcivescovo di Rossano-Cariati, Giuseppe Satriano. Una scelta che non prevede la cancellazione dei padrini ma punta a privilegiare chi, come educatori e catechisti, ha già avuto un ruolo significativo nel cammino di preparazione. Anche nel Nordest ci si chiede se i padrini o le madrine siano un’opportunità piuttosto che un problema. Se lo sta domandando, ad esempio, don Paolo Cester, parroco di Santa Lucia di Piave, provincia di Treviso r diocesi di Vittorio Veneto, con la Basilica del beato fra’ Claudio, e di Sarano. «Il tempo che, come parroco, dedico a questo

argomento non è certo perso, ma è sempre più sproporzionato rispetto a questioni essenziali – è la preoccupazione che don Paolo ha affidato in questi giorni al settimanale diocesano L’Azione –. Infatti quasi la metà delle persone che chiedono l’idoneità a svolgere questo ruolo si trova nella situazione di non poterlo fare, a norma del Diritto canonico, e le chiacchierate che ne seguono sono spesso complesse». Una preoccupazione, quella di don Paolo, condivisa da altri parroci. «Innanzitutto mi pare che abbiamo smarrito il senso del ruolo dei padrini – ammette don Cester –. Non c’è quasi più traccia, nella coscienza delle persone, che essi sono espressione della comunità che accompagna i genitori nel difficile compito di educare alla fede. Invece sono percepiti come persone che godono della stima dei genitori. E così è opinione consolidata che debbano essere i criteri dei genitori quelli che contano, non quelli della Chiesa». Questa opinione, poi, ha reso ormai prive di significato – secondo don Paolo – le indicazioni della Chiesa su chi è idoneo al compito. Disposizioni che non provocano più una riflessione sulla propria vita, sul valore del sacramento, sulla capacità di accogliere i limiti e le ferite della propria storia personale, «ma sono percepite semplicemente come una bigotta ingerenza sulle scelte delle famiglie». Conclusione? Piuttosto amara quella del parroco di Santa Lucia di Piave. «Un po’ per provocazione, un po’ per convinzione, mi chiedo se oggi la figura del padrino dica davvero qualcosa di buono alla nostra gente. Non mi pare si esprima più il desiderio della comunità di stare a fianco ai genitori. Forse siamo noi preti incapaci di trasmetterne il senso… o forse si tratta di una figura che ormai ha smarrito il suo significato. Se così fosse, non credo sarebbe un tradimento sopprimerla». «Porre la famiglia come soggetto evangelizzante, perché le famiglie cristiane ci sono e rappresentano testimonianze importanti». Don Alerio Montalbano è parroco di San Michele Arcangelo, una chiesa nella zona centrale di Palermo, ma da anni ricopre anche l’incarico di direttore dell’Ufficio diocesano di Pastorale familiare assieme ai coniugi Lia e Giuseppe Re. La questione della scelta dei padrini e del ruolo che queste figure devono svolgere è, dunque, il suo pane quotidiano. Ma don Alerio non è un catastrofista. In base alla sua esperienza, si sente di dire che «il ruolo dei padrini, in questi ultimi anni, sta assumendo sfaccettature diverse. Mentre prima si coinvolgevano persone più per tradizione, per rapporto di amicizia o di parentela, negli ultimi anni noto una presa di coscienza maggiore di ciò che questo compito significa. Prova ne è che alcuni ragazzini, che hanno ricevuto la Cresima, hanno preferito avere lo stesso padrino o la stessa madrina del Battesimo, perché hanno visto in quella persona un punto di riferimento dal Battesimo appunto e durante tutta la loro crescita». Don Montalbano non nega che ci siano tante storie negative, «di persone con cui, dopo il Battesimo, non ci sono state più relazioni, ma non sono la maggior parte». In teoria, il padrino assume un ruolo che viene conferito dalla stessa comunità, ma quando, invece, questa relazione con la comunità non c’è «ci può essere sempre la possibilità di cogliere l’intenzione iniziale. L’avvicinarsi per chiedere il Battesimo per il proprio figlio o per fare da padrino può essere l’inizio per un’accoglienza, per intraprendere un cammino di frequentazione della stessa comunità. È davvero importante oggi che queste figure siano veramente inserite nella loro parrocchia, che facciano un cammino di fede, che abbiano fatto nella loro vita scelte conformi a quel ruolo». E il parroco osserva che il vero errore, forse, è che «i sacramenti vengono vissuti a intervalli nella vita e manca un cammino progressivo nella fede, non c’è una continuità, un inserimento in una comunità che diventi soggetto. Ma non si può delegare tutto al parroco. Se qualcuno non ha nessuna persona da scegliere come padrino, la comunità può essere responsabile davanti a questo bisogno ed esprimere la persona giusta, che può essere un catechista, per esempio. Ma bisogna porre la famiglia come soggetto evangelizzante. Le famiglie si facciano angeli che accompagnano altre famiglie». «Credo che per accompagnare a Sacramenti così importanti come il Battesimo e ancor di più la Cresima sia necessario in particolare per i bambini ma anche per gli adolescenti individuare dei testimoni credibili di unVangelo vissuto e non di comodo». È il suggerimento che arriva dal sacerdote abruzzese dell’arcidiocesi di Chieti-Vasto, don Emiliano Straccini, su come individuare e rintracciare la miglior figura di padrino o madrina per accompagnare «nel modo più degno» i bambini e gli adolescenti a Sacramenti che li vedono protagonisti. Da anni don Emiliano, classe 1978, ha in cura

due importanti realtà ecclesiali, incastonate nelle montagne d’Abruzzo, come le parrocchie di Fara San Martino e di Civitella Messer Raimondo. «Cerco sempre di confrontarmi con i genitori – è l’argomentazione – per scegliere i candidati migliori dove soprattutto nel caso del Battesimo devono farsi “custodi” della fede futura e dell’educazione cristiana di questi bambini». E aggiunge: «Quando è possibile io stesso invito non solo i genitori ma anche i padrini a partecipare ai corsi che preparano al Battesimo per far capire la simbologia di questo rito e “preparare” in questo modo anche loro a questo importante Sacramento». Il giovane sacerdote individua in virtù come la pratica frequente dei Sacramenti, come l’Eucaristia, la Confessione ma anche in «uno stile e un modello di vita simile a quello impresso dai papà e dalle mamme al battezzando » la via più sicura per rintracciare i candidati più appropriati a questo delicato ruolo. «Frequentemente noi parroci – è la confidenza – ci troviamo di fronte a scelte imposte dai genitori: alcune volte vengono individuate persone che non hanno una coscienza sacramentale adeguata per accompagnare questi piccoli nel difficile cammino di educazione cristiana ». Una scelta – quella dei padrini e delle madrine – che deve corrispondere anche a un modello educativo per i bambini. «Spesso insisto con i genitori ma anche con i candidati a questo importante ruolo – è l’argomentazione – a capire il valore quasi “vicario” che hanno per i bambini proprio per far scoprire loro i tesori nascosti che ci sono nella vita cristiana e di come proprio con il loro esempio possano instillare nei piccoli l’importanza di essere dei veri “discepoli di Gesù” ». Una scelta che – a giudizio del sacerdote abruzzese – deve rispettare alcuni criteri minimi. «Credo che la strada più indicata – è l’annotazione – sia sempre quella di trovare persone che vivano con coerenza la loro vita di cattolici e che soprattutto assieme ai genitori possano rappresentare modelli credibili nell’accompagnamento dei bambini che hanno bisogno di riferimenti forti in una società complessa come la nostra». Don Emiliano è convinto che questa sia la via da imboccare per cercare i candidati adatti. «Ritengo che questo sia un criterio utile – è la riflessione finale – anche perché così i nostri stessi ragazzi riconosceranno in queste figure delle persone non solo adeguate e degne ma anche in ascolto delle tante domande di senso sulla fede e sulla vita che spesso crescendo rivolgono al cosiddetto mondo degli adulti. La soluzione? Puntare su persone serie e credibili – che siano anche buoni conoscitori del Catechismo della Chiesa cattolica – ma soprattutto innamorate del Vangelo e in sintonia con le nostre realtà parrocchiali». CORRIERE DELLA SERA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 19 “Racconto il cardinale Martini. Un dono che non va disperso” di Giangiacomo Schiavi Ermanno Olmi: è stato uno spirito profetico che invitava gli uomini a essere inquieti Comincia dall’umanità di una sofferenza ingigantita dal vuoto della cameretta, all’Aloisianum di Gallarate, la dedica cinematografica di Ermanno Olmi al cardinal Martini. In un luogo che non è un luogo ma uno stato dello spirito, con la flebo che sgocciola, il tic tac di una sveglia, il crocifisso sul muro e una finestra aperta sul bosco che evoca libertà e misteri, silenzi e addii. La prima sequenza evoca quasi una trascendenza, con la voce del regista che sembra quella affaticata e lenta del cardinale malato, e si sovrappone a essa per diventare l’io narrante di un testamento etico nel quale la forza della parola, fin dall’inizio, supera e salva ciò che muore. «La sua esistenza profetica è un dono che non va disperso», dice il regista finalmente libero da un impegno preso quattro anni fa. La scelta di essere lui stesso interprete e lettore dei messaggi del cardinale, mette subito in chiaro il significato del titolo dato al film documentario che sarà presentato venerdì 10 febbraio nel Duomo di Milano, Vedete, sono uno di voi , prodotto da Istituto Luce Cinecittà con Rai Cinema. Olmi racconta il cardinale come una parabola del Novecento, la sua umanità illuminata dalla fede, il lungo ministero a Milano attraversato da dubbi e inquietudini, la figura alta e carismatica del biblista capace di ascoltare e interpretare le ansie del presente, cercando una risposta nel Vangelo e nelle Sacre scritture. «Dalla prima intervista ci siamo intesi, abbiamo capito che coltivavamo da ambiti diversi lo stesso orticello. Il suo Vangelo è anche il mio, la sua capacità di interrogare le coscienze, di mettersi in ascolto, di guardare agli umili con lo stesso rispetto che si deve dare a ogni figlio di Dio, è una

grande lezione, lascia un’eredita pesante alla Chiesa e a tutti noi». C’è voluto molto tempo, tanta fatica, un grande entusiasmo per completare il film. Scrutando nel passato e cercando il filo di una vocazione che ha sorpreso prima di tutto una famiglia della borghesia piemontese, il regista ha ritrovato l’Italia, con i suoi demoni e i suoi squarci di luce: dietro il futuro cardinale c’è la Torino tra le due guerre, il liceo D’Azeglio, l’educazione nel rigore che scandisce i tempi dello studio e delle vacanze, il benessere non ancora stravolto dagli orrori del conflitto. Foto d’epoca e immagini da cinegiornale documentano le domeniche al Valentino, i tuffi in riva al Po, la vastità sinistra delle adunate in camicia nera, l’annuncio del Duce che irrompe via radio nel salotto di casa, deserto, come un presagio di morte. La vocazione e la famiglia stupita - E poi c’è la lettera di Leonardo Martini, ingegnere, padre del futuro arcivescovo, che ricorda lo straniamento suo e della moglie, annunciando al fratello Pippo «una grande ma non troppo lieta novità»: l’intenzione del figlio Carlo Maria di votarsi alla vita religiosa. «I Martini erano un nucleo molto unito, con quel pudore sabaudo che invitava a dirsi per iscritto ciò che coinvolgeva la casa», ricorda Marco Garzonio, biografo del cardinale e coautore della sceneggiatura. Un figlio che sta per farsi prete induce a raccontare quanto di più profondo la persona ha nel cuore, magari di inconfessabile. «Il pensiero di staccarmi per sempre da un ragazzo così buono e così caro mi rattrista profondamente», scrive il papà. Il 25 settembre 1944, a 17 anni, Carlo Maria Martini entra nel collegio della Compagnia di Gesù a Cuneo. Sul portone, a salutarlo, c’è solo la madre. Olmi indugia sugli studi e sulla formazione teologica del futuro cardinale che giganteggia con le lauree, le edizioni in greco e latino del Nuovo Testamento, le scritture ebraiche che lo avvicinano sempre più a Gerusalemme e lo portano a diventare rettore della Pontificia università Gregoriana. Fissa con lo sguardo le immagini di una Milano irriconoscibile, livida, impaurita, dove si spara e si muore in solitudine nell’auto per un’overdose, una città alle prese con i miti perduti, avvelenata dal terrorismo e dal banditismo economico. Fa vedere un vescovo polacco che entra nel destino di Martini con l’invito a esporre, nei Paesi europei ancora divisi dal Muro, le tesi sul dialogo interreligioso. Vescovo negli anni Ottanta - Sarà lui, Karol Wojtyla, diventato Papa, a chiamarlo alla cattedra di Ambrogio il 29 dicembre ‘79, vincendo le resistenze del gesuita che mai e poi mai pensava di fare il vescovo senza apprendistato. Appena insediato Martini deve inginocchiarsi sul corpo crivellato di colpi del giudice Galli e trovare le parole per lenire il dolore alla messa funebre di Walter Tobagi, il giornalista assassinato dai folli epigoni del brigatismo. È li che la sua parola scuote, rovescia rassegnazione e indifferenza, diventa il grido di una città ferita. «Mi ricordo quella Milano degli anni 80 - aggiunge Olmi -. Uscivi di casa e ti bollivano i piedi, c’era disagio e smarrimento, la ricchezza navigava solo nella categoria dei ricchi». Con le sue lettere pastorali il cardinale diventa seminatore di speranze, vescovo del dialogo, sollecita l’attenzione verso gli altri, gli umili, le persone dimenticate o ferite nella dignità, invita i giovani a comunicare con il silenzio e spiazza tutti quando chiama chi non crede in Duomo, per interrogare e interrogarsi. «La Cattedra dei non credenti diventa una nuova agorà e Martini è il defensor civitatis», scriverà Claudio Magris: esce dal buio dei tempi con la forza della parola. Quando dice «l’uomo è più di quanto possiede», «la politica sta rubando la speranza ai giovani», « Milano è una citta che sa risorgere, orgogliosa di sentirsi comunità», «l’Europa non può essere solo quella dei mercati», «chi ha responsabilità pubbliche deve anche saper sognare», non anticipa i temi di oggi? Le aperture sui temi etici - Vedete, sono uno di voi, è un film manifesto che tiene accesa la fiaccola della speranza impugnata da Martini davanti alle ingiustizie del mondo, alle sopraffazioni, all’umiliazione dei diritti, alla corruzione, alla carenza di linguaggi. Flash che segnano un’epoca: la visita a San Vittore, l’incontro con i detenuti, il battesimo per la figlia di una brigatista e le armi che i terroristi gli fanno avere in tre grosse borse, all’Arcivescovado, in segno di resa. Racconta Olmi: «Nulla lo spiazzava, lo sorprendeva. Immediatamente trovava una risposta nella Bibbia». Anni intensi, vissuti, sofferti. Con le gerarchie di Roma in aperta ostilità per le aperture sui temi etici, dalla comunione ai divorziati al testamento biologico. «Un giorno mi ha detto: la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Condivido. Prima di papa Francesco si stava dimenticando di Gesù». Martini, Olmi, Milano, la ragione, l’anima, il cuore. Il cardinale dialoga con il mondo ma la città resta metafora di un impegno che sollecita l’attenzione verso gli altri. C’è Tangentopoli.

Passano le immagini del crollo morale di un sistema, politici e imprenditori in manette, il lancio di monetine a Bettino Craxi. Olmi fa sentire un audio con la voce di Silvio Berlusconi: è crollata la Prima Repubblica e il nuovo corso inizia con la filosofia immobiliare di Milano Due… Tira un grosso sospiro il regista che in questi mesi non si è risparmiato. «Era un atto dovuto per il cardinale che ha predicato il risorgimento morale e ci ha invitato a essere inquieti». Si ritorna nella cameretta, «a quell’istante in cui c’è ancora un futuro ma appena dopo è passato», dice Olmi. La sua voce si interrompe. La staffetta è finita. Ma l’addio non è triste. «Martini se n’è andato con eleganza». C’è il sentimento dell’uomo nelle ultime parole del cardinale davanti al rabbino Laras. Sembra davvero dire: vedete, sono uno di voi. Pag 20 La Chiesa resterà unita nell’epoca di Trump di Andrea Riccardi Casa Bianca e Vaticano Il confronto verrà presto fra Trump e papa Bergoglio, solo altro leader in Occidente: lo si pensa anche negli ambienti vicini alla Casa Bianca. Ma papa Francesco è prudente, come si vede nell’intervista a El País : non polemizza con il presidente, aspetta, perché non farà da contraltare a Trump. Il confronto tra i due si potrebbe spiegare - alcuni lo fanno - come scontro tra un presidente di destra (anche con la ripresa di temi cari ai cattolici, come la lotta all’aborto, fatta nella lettera del vicepresidente Pence alla marcia anti-aborto) e un papa di sinistra. Trump, in uno scontro, potrebbe aggregare settori di cattolici e vescovi americani, legati alle battaglie culturali sui valori non negoziabili. Così s’incuneerebbe all’interno della Chiesa cattolica, indebolendo il Papa e allargando il consenso. Ma le categorie destra/sinistra non spiegano molto. Anche perché, il Papa sta facendo i conti in modo rispettoso con i tradizionalisti, cioè la «destra» nella Chiesa. Sono sorprendenti le dichiarazioni del superiore dei lefebvriani, mons. Fellay, secondo cui sarebbe vicino un accordo con il Papa. Roma formerebbe una prelatura personale tradizionalista, rispettandone l’identità e il rito preconciliare. I lefebvriani dichiarerebbero la sottomissione al papa. Questi ha già dato loro il potere di confessare in modo valido per la Chiesa. L’operazione, non riuscita a Giovanni Paolo II (vincitore del comunismo) e a Benedetto XVI (il teologo della tradizione), sarebbe invece condotta in porto da Francesco, che ha meno credenziali dei predecessori. Ma il Papa è aperto al pluralismo di posizioni nella Chiesa, quindi anche ai lefebvriani. Inoltre questi ultimi subiscono l’estremizzazione di alcuni loro segmenti e il logorio tipico di un movimento privo di un riferimento autorevole. L’unione con il Papa rafforzerebbe l’autorità di Fellay sulla galassia tradizionalista, anche se ci sarà qualche rottura. È un fatto su cui dovrebbero riflettere le personalità ecclesiastiche critiche su Francesco: come sia possibile per un cattolico invocare la tradizione ed essere in contraddizione con il Papa. Pio IX disse polemicamente ad alcuni vescovi orientali al Vaticano I: «La tradizione sono io». L’assenza di legame con il papa genera una posizione difficile da tenere e provoca derive settarie e rotture. Un papa, considerato «di sinistra», si riconcilierebbe con la «destra» tradizionalista. È un primo paradosso. Però i provvedimenti di Bergoglio nei confronti dell’ordine di Malta, il cui patrono è il cardinal Burke, espressione forte dell’opposizione curiale e americana, mostrano che egli non intende lasciare questa istituzione (attiva e ricca) preda di possibili sbandamenti o nelle mani dei tradizionalisti. Francesco, che ha tollerato la permanenza delle opposizioni ai vertici curiali, è capace di decisioni ferme, quando si tratta del futuro di parti della Chiesa. È vero che l’opposizione nella Chiesa, nostalgica di Wojtyla e Ratzinger, guarda ormai con distacco al Papa; tuttavia forse dovrebbe riflettere sulla grande partita che oggi si gioca nella tenuta interna della Chiesa e a livello internazionale e – direi - di scelta di civiltà. È in gioco, in questi momenti, l’eredità dei due predecessori di Bergoglio. Il confronto con il presidente americano non è solo su scelte politiche, ma su cultura e ideologia, che saranno riprese ovunque a seguito dell’effetto Trump. Il nazionalismo «eccessivo» - avrebbe detto Pio XI tra le due guerre - di Trump va in altro senso rispetto all’universalismo e alla teologia delle nazioni di Wojtyla, ma anche alla visione di Ratzinger. Questi, nel 2008, in piena crisi georgiana, disse: «Occorre approfondire la consapevolezza di essere accomunati da uno stesso destino, che in ultima istanza è un destino trascendente, per scongiurare il ritorno a contrapposizioni nazionalistiche…». Tale è stato il sentire dei papi del Novecento: l’affermazione della «famiglia delle nazioni» contro l’esasperazione della supremazia

dell’uno o l’altro popolo. Francesco è l’erede di questa storia. Sarebbe un’ingenuità, strana per un realista come Trump, sopravvalutare le opposizioni al Papa da parte di vescovi americani e pensare di dividere la Chiesa con un’azione anti Francesco. Una voce, circolata alcuni giorni fa, parlava d’incontri diretti tra Trump e qualche cardinale americano non filoBergoglio. Non sembra però fondata. Invece i cardinali statunitensi vicini a Francesco fanno sentire la loro voce con sistematicità sui provvedimenti di Trump. Quello di Chicago, Cupich, ha parlato di «un momento oscuro per la storia degli Stati Uniti». Con lui, i cardinali O’ Malley e Tobin. Quest’ultimo ha stigmatizzato il «rigurgito di massa di fronte a una sorta d’isolazionismo etnico di matrice razziale-bianca…». Si è aggiunto il nuovo presidente dei vescovi americani il card. DiNardo (non un bergogliano, anzi al sinodo sul matrimonio firmò la lettera dei tredici, preoccupati delle procedure e dei cedimenti). DiNardo rivendica il valore dell’accoglienza allo straniero e il legame tra cristiani e musulmani. Il Papa testimonia, a fronte di Trump, una concezione «cattolica» condivisa. Si legge nell’appello, firmato ad Assisi da Francesco con i leader religiosi nel settembre scorso e ripreso nel discorso papale ai diplomatici, quasi una base per un’alleanza tra le religioni: «Si apra finalmente un nuovo tempo, in cui il mondo globalizzato diventi una famiglia di popoli. Si attui la responsabilità di costruire una pace vera… attenta ai bisogni autentici delle persone e dei popoli, che prevenga i conflitti con la collaborazione, che vinca gli odi e superi le barriere con l’incontro e il dialogo. Nulla è perso, praticando effettivamente il dialogo». Per il Papa, first è il bene comune della famiglia delle nazioni, non l’interesse o la supremazia di una nazione, fosse la più potente e civile. Qui si sentono pulsare le fibre profonde della visione cattolica, che ha resistito a crisi anche in periodi tempestosi. LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 16 Preti e disprezzo per le donne, andiamo oltre lo sconcerto di Sandro G. Franchini La faccenda dei due preti padovani dovrebbe essere dimenticata e rinchiusa nella penombra del confessionale e non si vuole qui riprenderla se non per farne pretesto per compiere un passo successivo: andando oltre allo sconcerto dell’opinione pubblica, che ha reagito in modo diverso passando da parole di ferma condanna all’indifferenza, dalla minimizzazione al giudizio sommario, e prendendo atto della reazione della gerarchia, ora penitente e riflessiva, ora sicura nella ferma condanna di fatti giudicati aberranti il cui argine va trovato nella fermezza e nella severità della selezione dei candidati. Quanto ai preti, pare di poter registrare un generale silenzio, a parte alcune appassionate e dichiarazioni di amore e fedeltà alla Chiesa. Del resto che potrebbero dire? La maggior parte di loro compie un duro lavoro senza suscitare mai l’attenzione dei media, nella personale difficile ricerca di dare risposte adeguate alla vocazione e al mandato ricevuto. Eppure in alcuni lontani e pur distratti e distaccati lettori di queste vicende, sono sorti pensieri che è difficile ignorare. Molti di quelli che hanno avuto una pur minima esperienza di parrocchia e di catechismo sono cresciuti assorbendo il modello ideale del sacerdote come persona sacra per antonomasia, angelicata, “alter Christus”, che consacra e benedice ex opere operato, in virtù di un sacramento specifico che lo separa dal mondo e in qualche mondo lo separa anche da se stesso, un modello che però scricchiola da tutte le parti e dal quale deriva quasi immediatamente l’obbligo e l’esaltazione del celibato. Le tradizionali sicurezze che sostenevano il prete (un prestigio sociale che implicava un isolamento, la ben nota “solitudine dei preti”, tema caro a tanta letteratura del Novecento, di cui solo qui si ricordano le pagine del cattolico Bernanos) e il modello sacerdotale definitivamente impostosi nell’Ottocento, oggi vacillano nella coscienza dei preti stessi e soprattutto non è più esportabile: la cultura occidentale, con i suoi parametri, poteva essere mostrata ad esempio e paradigma in ogni parte del mondo, ma oggi non è più così e anche la figura del prete deve fare i conti con modelli e sensibilità nuove. In alcuni seminari si sta cercando di reagire riproponendo pari pari il modello sacerdotale ottocentesco: tonache, colletti inamidati, mani giunte, liturgie attentissime alle genuflessioni e agli inchini, riproposizione di esempi di castità angelica come quella di San Luigi Gonzaga, esaltazione del culto mariano (materno e rassicurante), ritorno al rosario con rinnovate e a volte fantasiose formule devozionali. Ma tutto ciò non porterà lontano. Non è tanto e non è solo il problema del celibato

(cartina di tornasole di uno “stato della fede”), ma è un “problema prete” in generale. Sarà difficile per la Chiesa e per le comunità dei fedeli anche solo affrontarlo, non parliamo di accennare a una soluzione. Bisognerebbe passare per una nuova generazione di vescovi, che educati alla collegialità siano più colti e coraggiosi, meno yes men di una Santa Sede che sembra sempre meno propensa a dettare ricette precostituite per tutti e già pronte; bisognerebbe passare per un clero capace di farsi sentire. Se il concilio Vaticano I nell’Ottocento ha innalzato alle stelle la figura del papa, il concilio Vaticano II ha ridato voce e rilievo ai vescovi, in precedenza schiacciati in un ruolo di funzionari esecutori. Forse un Vaticano III saprà, stemperando la visione rigidamente gerarchica della Chiesa, valorizzare i preti? Quei preti che oggi già, spinti da zelo ammirevole, cercano di rinnovare le loro comunità pur tra le mille difficoltà poste da una struttura ecclesiale spesso rigida e spaventata. Ma poi, alla fine, pesa il silenzio inspiegabile sulla questione del posto delle donne nella chiesa. Quello che più ha colpito dei fatti padovani, non sono tanto le relazioni affettive e sessuali, quanto il disprezzo dimostrato per le donne, tipico degli ambienti maschilisti più esasperati. Il tema del sacerdozio alle donne prima o poi verrà affrontato seriamente, non c’è dubbio, ma se ne deve fare di strada! Se pensiamo che solo fino a pochi anni fa le suore, se non erano chiuse nei conventi di clausura, erano considerate capaci solo, e nelle migliori ipotesi, di fare da infermiere o da maestre per i bambini, quando non erano altro che le cuoche e le lavandaie dei preti. Il ministero del prete è uno dei punti dolenti e al tempo stesso una delle glorie più pure e quindi uno dei momenti più problematici della nostra storia religiosa e i fatti padovani non possono essere considerati soltanto un fatto di lenzuola (e in quanto tali andrebbero dimenticati e taciuti dopo l’iniziale can can). La realtà è molto più complessa. Niente di ciò che appartiene alla storia degli uomini è solo volgare: nelle pieghe c’è sempre qualcosa di alto e profondo e, anche nelle colpe più apparentemente basse, vi è qualcosa di nobile perché generato dalla sofferenza. Pag 37 Così parlano i papi e nella parola è il loro vero potere di Alessandro Barbero Il rapporto tra la Chiesa e il mondo nei secoli In principio era il Verbo, dice il Vangelo di Giovanni. Io sono l’Alfa e l’Omega, dichiara il Signore nell’Apocalisse. Come dire: Dio è l’alfabeto, dall’A alla Z. Il Verbo, ovvero il logos, che è Dio e il figlio di Dio, vuol dire il discorso e il ragionamento. La parola regna sovrana nella religione cristiana, come nelle altre fedi monoteiste, che non per niente i musulmani chiamano religioni del Libro. Certo, la Chiesa medievale, che regnava su una maggioranza di analfabeti, li istruiva anche con le immagini, raffigurando le storie della Bibbia sulle pareti delle chiese. Ancora ai nostri tempi il papa che i giornalisti amavano definire il Grande Comunicatore, Giovanni Paolo II, comunicava col gesto e col viso ancor più che con la parola. Di lui ricordiamo qualche frase, magari proprio riferita con umorismo ai problemi del linguaggio («se sbalio mi corigerete!»), ma soprattutto le espressioni del volto: radiose nei primi anni, poi, verso la fine, tramutate in una maschera di sofferenza, un’icona del sacrificio. E ancora: c’è stata un’epoca in cui i papi mobilitavano eserciti e proclamavano guerre, anzi è un’epoca vicina a noi, finita solo nel 1870: solo nel contesto del Novecento si può capire la battuta di Stalin, «Quante divisioni ha il papa?». Ma anche quando sconfiggevano imperatori e bruciavano eretici, l’arma più forte dei papi non è mai stata la cavalleria del re di Francia, l’oro dei Medici o le spie dell’Inquisizione. I papi si sono sempre presentati al mondo attraverso la parola: per comandare, maledire, argomentare, consigliare, sedurre. E dunque il linguaggio dei pontefici è un indicatore sensibilissimo del loro atteggiamento nei confronti del mondo, e del rapporto fra la Chiesa e l’epoca in cui vive. Lungi dall’essere immutabile, come si potrebbe ingenuamente credere giacché proviene da un’istituzione millenaria, il linguaggio del papa cambia con i secoli ed è ogni volta testimone di un’epoca. Ecco perché Sorrentino può stupire il pubblico attribuendo al suo young Pope un linguaggio d’una durezza che non è più del nostro tempo, e papa Francesco può far discutere minacciando di tirare un pugno a chi offende sua mamma. Nel Medioevo i papi dicevano ben altro, e nessuno si scandalizzava; ma oggi non possono più farlo. E d’altra parte, se i papi del Novecento avessero usato verso Hitler il linguaggio con cui i loro predecessori schiacciavano Federico di Svevia sarebbe stato un miracolo, e forse avrebbe cambiato la

storia. Un viaggio attraverso le parole dei papi è dunque un modo per scoprire come si è trasformato nei secoli l’atteggiamento della Chiesa verso il mondo. I papi del Medioevo erano sicuri di aver ricevuto da Dio il mandato di governare non solo la Chiesa, ma l’umanità, e di brandire non solo la spada spirituale, ma anche quella temporale. Dopo tutto, argomenta papa Bonifacio VIII, quando Pietro tagliò l’orecchio a Malco Gesù gli intimò «metti via la tua spada». Tua, disse: e dunque anche la spada temporale, con cui si tagliano le orecchie e le teste, appartiene al successore di Pietro. I papi del Medioevo davano ordini a re e imperatori, e quando costoro disubbidivano li fulminavano con poderosi anatemi biblici; ma si preoccupavano anche di spiegare e dimostrare ai fedeli che avevano il diritto di farlo. Poi, comandare diventò un’abitudine, e la supremazia terrena del papa un dogma, che non c’era più bisogno di dimostrare. I papi del Rinascimento sanno ancora mobilitare una sontuosa retorica biblica, ma hanno perso l’abitudine di argomentare: quando Leone X scomunica Lutero, non si prende la briga di dimostrare che le sue tesi sono sbagliate, si limita a ricordare ai fedeli che devono obbedire a lui, il papa, così ciecamente che non dovrebbero credere neanche al Vangelo se non ci fosse la Chiesa a ordinarlo. Non era l’atteggiamento migliore per affrontare la modernità, la riforma protestante, l’illuminismo: per secoli i papi sono schiacciati sulla difensiva, e all’inizio dell’Ottocento la loro parola è ridotta a un piagnisteo. I papi piangono i velenosissimi errori che si sono diffusi nel mondo per colpa del diavolo: la libertà di pensiero, di coscienza, di stampa, il liberalismo e la democrazia... Sembrava che la Chiesa non avesse più un posto nel mondo moderno, e invece non sarà così: verrà Leone XIII con la Rerum Novarum a parlare di capitale e lavoro, scioperi e lotta di classe; verrà papa Giovanni con la Pacem in terris a parlare di diritti e di libertà. Fin qui arriva lo storico: dove porterà la Chiesa la parola di Francesco, è ancora tutto da scoprire. Torna al sommario 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 5 febbraio 2016 Pag VI Azione Cattolica, il patriarca nomina Alessandro Molaro nuovo presidente Il nuovo presidente dell'Azione cattolica veneziana è Alessandro Molaro, 55 anni, che prende così il posto di Teresa Scantamburlo al termine del mandato triennale. La nomina è giunta oggi dal Patriarca Francesco Moraglia dopo aver raccolto, come previsto da Statuto, il parere del Consiglio diocesano rinnovato di recente nella XVI Assemblea Elettiva e convocato il 2 febbraio scorso. Molaro è sposato, padre di due figli, lavora in banca e proviene dalla parrocchia di San Giorgio di Chirignago. E' aderente all'Azione cattolica veneziana dal 1980. «Sono contento della fiducia che mi è stata dimostrata - le prime parole del neopresidente - e intendo così confermare il mio impegno e il mio servizio in Azione cattolica. Ci metterò, come sempre, grande passione. Quella passione per il Signore e per il servizio nella sua Chiesa che vorrei appartenesse sempre di più a tutti noi». L'assistente unitario dell'Ac veneziana, don Danilo Barlese, ha così commentato la nomina: «Ringraziamo il Signore per questo dono e continuiamo ad accompagnare con la preghiera e la testimonianza l'Azione cattolica, la vita della nostra Chiesa e del nostro Paese». L'Azione cattolica veneziana (che conta 1040 iscritti ed è una presenza stabile in 21 parrocchie del territorio diocesano) esprime con una nota grande gioia «Per la scelta del suo Pastore e ringrazia Alessandro Molaro per la generosa disponibilità. Il Consiglio Diocesano attende di essere presto riconvocato per dare volto ai componenti della presidenza che affiancheranno Alessandro nello svolgimento del suo servizio. Con i propri percorsi formativi e la sua passione per il mondo, l'Azione Cattolica non mancherà di offrire il necessario contributo laicale». Pag XII Nuovo laboratorio e giovani diplomati. Doppia festa per l’Istituto Salesiano É stato un grande giorno per gli studenti dell'Istituto Salesiano San Marco. I giovani professionisti del domani hanno ora a disposizione un nuovo Laboratorio Energie, un'aula

didattica donata e allestita con prodotti dell'azienda Vaillant a energia rinnovabile. L'inaugurazione è avvenuta nei giorni scorsi nel contesto della celebrazione che l'Istituto organizza in occasione della consegna degli attestati di qualifica e delle borse di studio per gli studenti del Centro formazione professionale e dell'Istituto tecnico tecnologico a indirizzo grafico e meccatronico San Marco. Sono stati premiati 22 studenti con la borsa di studio di 500 euro, 11000 euro distribuiti grazie al supporto di aziende, associazioni di categoria, amici dell'Opera Salesiana che credono nella missione educativa. Presenti autorità e aziende che da sempre collaborano con il San Marco. Nel corso della manifestazione la preside dell'Itt Claudia Cellini ha tagliato il nastro del nuovo laboratorio di Energie, allestito con sistemi di alimentazione ad energie rinnovabili e laboratorio metrologico per l'analisi degli impianti in ambiente controllato grazie a termotelecamere, sonde e datalogger. L'aula didattica è stata donata dall'azienda Vaillant come investimento per i futuri tecnici del settore. «Il San Marco è arrivato ad accogliere quasi 700 studenti e i numeri sono in aumento. C'è bisogno della nostra esperienza e passione educativa, ma anche del supporto di istituzioni, aziende, associazioni e singoli cittadini» ha affermato don Enrico Gaetan, direttore dell'Istituto. LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 17 Molaro presidente dell’Azione cattolica di n.d.l. Succede a Teresa Scantamburlo Cambio ai vertici dell'Azione cattolica veneziana. Il neo presidente è Alessandro Molaro e succede a Teresa Scantamburlo che aveva appena concluso il suo mandato triennale. È stato nominato ad triennium dal patriarca Francesco Moraglia dopo aver raccolto il parere del Consiglio diocesano, rinnovato di recente nella XVI assemblea elettiva dello scorso 15 gennaio e convocato il 2 febbraio, che ha scelto come espressione guida per il documento triennale "Fare nuove tutte le cose. Radicati nel futuro, custodi dell'essenziale". Il neo presidente Molaro ha 55 anni; sposato con due figli lavora in banca e proviene dalla parrocchia di San Giorgio di Chirignago; è aderente all'Azione cattolica veneziana sin dal 1980. Il primo commento del neo presidente: «Sono contento della fiducia che mi è stata dimostrata e intendo così confermare il mio impegno e il mio servizio in Azione cattolica. Ci metterò, come sempre, grande passione. Quella passione per il Signore e per il servizio nella sua chiesa che vorrei appartenesse sempre di più a tutti noi». In una nota l'Azione cattolica veneziana - l'assistente unitario è don Danilo Barlese - esprime grande gioia «per la scelta del suo pastore e ringrazia Alessandro Molaro per la generosa disponibilità con la quale accoglie tale chiamata del Signore. Il Consiglio diocesano attende di essere presto riconvocato per dare volto ai componenti della presidenza che affiancheranno Alessandro nello svolgimento del suo servizio. Con i propri percorsi formativi e la sua passione per il mondo, l'Azione Cattolica non mancherà di offrire il necessario contributo laicale per annunciare la gioia del Vangelo». Nella diocesi lagunare conta 1040 iscritti e una presenza stabile organizzata in 21 parrocchie. In Italia è attiva da 150 anni. IL FOGLIO di sabato 4 febbraio 2016 Pag II O Malta o morte di Matteo Matzuzzi Non solo polemiche. Dall’assistenza ai profughi al lavoro negli ospedali. Cosa fa il più antico Ordine religioso laicale della chiesa La povertà, il bisogno e la malattia non sono solo privazione. Sono isolamento. Un giorno senza cibo è spesso sufficiente per spezzare l'unità di una famiglia. Il continuo doversi occupare di un malato che si ha in casa - e il più delle volte con pochi mezzi finanziari a disposizione - è sì un esercizio di pazienza e amore, ma a volte distrugge quel minimo di gioia di vivere, trasformando anche i gesti d'amore in un esercizio che può guastare l'anima". Parte da questa considerazione Riccardo Paternò di Montecupo, presidente dell'Associazione dei Cavalieri italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta per spiegare in cosa sia impegnato, oggi, il più antico Ordine religioso laicale della chiesa cattolica, essendo stato fondato nel lontano 1113. "A queste innumerevoli situazioni di disagio sociale che quotidianamente ci circondano - aggiunge Paternò, appartenente a un'antichissima millenaria principesca famiglia siciliana da sempre legata all' Ordine di

Malta - si aggiunge ormai il drammatico tema dei rifugiati. Guerre, povertà, persecuzioni e cambiamenti climatici hanno indotto milioni di persone ad abbandonare le loro case. E' bene che si sappia che sono circa 180 milioni le persone colpite da conflitti e calamità varie, cosa che si traduce in sessanta milioni di sfollati al mondo, venti dei quali sono rifugiati, trentotto sono sfollati e circa due milioni sono richiedenti asilo". I numeri, dopotutto, spiegano più d'ogni saggio la situazione sul terreno, drammatica e spesso ignorata: "Solo i rifugiati siriani registrati in Libano agli inizi del 2016 erano più di un milione. Tutti accolti in villaggi costruiti per duecento persone e che ora accolgono spesso più di duemila rifugiati", spiega Paternò. "E situazioni simili le troviamo in Mali, Sud Sudan e Pakistan. Nella Repubblica Democratica del Congo, migliaia di donne fuggono dalle violenze sessuali e circa tre milioni di sfollati cercano di sopravvivere". E, ancora, la Repubblica Centrafricana, visitata poco più d'un anno fa dal Papa, con l'apertura della Porta Santa nella cattedrale di Bangui. Un paese che è al penultimo posto al mondo quanto ad aspettativa di vita. Attraverso l'ambasciata a Bangui, l'Ordine sostiene quattordici centri sanitari aiutando centomila persone. Ogni anno, Ordre de Malte France fornisce cibo a tremila bambini malnutriti ed esegue novantamila esami medici nelle strutture sanitarie che esso finanzia. Ma non serve andare così lontano per comprendere la portata del problema: si guardi al numero dei migranti sbarcati sulle nostre coste nel 2015, quasi 154 mila. "Tutto ciò crea problemi umanitari senza precedenti per coloro che fuggono e per coloro che accolgono: cibo, riparo, sostegno medico e psicologico, inserimento". Ebbene, aggiunge il nostro interlocutore, "in questo contesto così drammatico, fatto di quotidiani fenomeni di bisogno e di straordinari eventi che comprendono anche quelli causati dai nostri recenti disastri naturali, l'Ordine di Malta, con le sue innumerevoli attività sparse in tutto il mondo, dà un aiuto che credo sia inimmaginabile ai più. La maggior parte della gente probabilmente non sa cosa sia in realtà il nostro Ordine, cosa esso rappresenti a livello globale, come sia strutturato e quante e quali energie metta quotidianamente in campo all'ombra di un principio che è scolpito nelle sue carte, ma ancor prima nelle coscienze dei suoi membri: tuitio fidei et obsequium pauperum". Ma che cos'è l'Ordine? Chi ne fa parte? Nell'immaginario collettivo, si tratta di una sorta di club elitario, aristocratico e poco sintonizzato con la quotidiana realtà che affligge questo mondo. Per molti, un gruppo fuori dal tempo, residuo di un'epoca finita e che non può tornare. A scorrere le cifre dell'attività (anch'essa quotidiana) dei Cavalieri, le cose stanno in maniera ben diversa. E' sempre Paternò a spiegare che i membri dell' Ordine sono poco più di tredicimila, di cui tremila solo in Italia. Allargando l'orizzonte, nei cinque continenti si aggiungono oltre centomila volontari permanenti, divisi in vari corpi, "fra i quali uno è di soccorso internazionale che interviene a seguito di catastrofi naturali o di conflitti". L'Ordine gestisce in tutto il mondo venti ospedali, 1.500 centri medici e posti di pronto soccorso, molti dei quali in zone di crisi umanitarie, centodieci case per anziani. Ha, in tutto, 25 mila dipendenti: medici, paramedici, assistenti sociali, esperti di soccorso in situazioni d'emergenza". E' fondamentale ricordare, spiega Paternò, "che il nostro Ordine, in virtù di quanto sancito nella nostra Costituzione all'articolo 2.2, aiuta tutti senza distinzione di religione, razza, origine ed età e mette in piedi circa cento progetti speciali all'anno in circa venticinque paesi". La storia è antichissima, affonda le radici in epoche di crociate, di difesa dei luoghi santi, di Mediterraneo teatro di guerre (anche se non soprattutto su base religiosa). La nascita dell'Ordine (allora di San Giovanni di Gerusalemme) risale al 1048, quando alcuni mercanti di Amalfi ottennero dal califfo egiziano il permesso di edificare a Gerusalemme una chiesa, un convento e un ospedale. Fine dell'opera: assistere i pellegrini di ogni fede. Più tardi, con la bolla del 15 febbraio 1113 di Papa Pasquale II, l'ospedale viene posto sotto la tutela della chiesa, con diritto di eleggere liberamente i suoi superiori, senza interferenza da parte di altre autorità laiche o religiose. Tradotto: l'ospedale diventa un Ordine religioso laicale. Tutti i cavalieri erano religiosi. La costituzione del Regno di Gerusalemme, poi, costrinse l'Ordine ad assumere la difesa militare dei malati e dei pellegrini e a proteggere i propri centri medici e le strade principali. Passaggio fondamentale: alla missione ospedaliera, l'Ordine aggiunge la difesa della fede. E poi gli anni delle grandi traversie, il trasferimento a Cipro, quindi a Rodi e nel 1530 - dopo aver abbandonato Limassol in seguito alla battaglia contro l'esercito di Solimano il Magnifico - a Malta. Qui i cavalieri, nel 1565, furono impegnati nella difesa dell'isola dall'assedio ottomano. Vinsero e costruirono la città e il porto della Valletta,

che prese il nome del Gran Maestro dell'epoca, fra' Philippe de Villiers de l'Isle-Adam. Furono costruiti palazzi, giardini, bastioni; fu avviata la facoltà di Medicina nonché uno dei più grandi e avanzati ospedali del mondo. Nel 1578 la Sacra Infermeria era l'ospedale più grande e attrezzato del Mediterraneo, nel 1912 la nave ospedale Regina Margherita gestita dall' Ordine trasportò dodicimila feriti durante la guerra di Libia. "Nel corso della Prima guerra mondiale, i nostri treni ospedale, sui vari fronti e in modo imparziale, hanno assistito 800 mila feriti", sottolinea Paternò, e le immagini in bianco e nero tratte dalla storia, mentre in Europa infuriava il guerrone profetizzato da Pio X, sono a testimoniarlo. Come l'istantanea che ritrae un treno ospedale del Gran Priorato di Austria e Boemia, uno dei tanti che percorse in lungo e in largo il continente per portare soccorso. O come la foto dell'ospedale ausiliare di Verdun, teatro di uno dei più sanguinosi massacri del Primo conflitto mondiale. Bombardato, spostato più volte, divenuto trappola per decine di pazienti e medici. Venendo ad anni più recenti, dove la storia si mescola con l'attualità, c'è una data che è ben impressa nella memoria dei Cavalieri: il 1990, quando nacque "il primo bambino nell'ospedale dell'Ordine a Betlemme. A oggi, lì sono nati oltre 65 mila bambini, per lo più palestinesi", aggiunge il presidente dell' Associazione dei Cavalieri italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta. Un'attività continua a ogni latitudine, il che spiega bene perché, pur non avendo né territorio né popolazione (e cioè due delle tre condizioni che uno stato deve soddisfare per essere considerato soggetto di diritto internazionale), l'Ordine di Malta intrattiene relazioni diplomatiche con 106 stati, con l'Unione europea (attraverso lo scambio di ambasciatori) e relazioni ufficiali con altri sei stati. Ha osservatori permanenti presso le Nazioni Unite e le sue agenzie specializzate, nonché presso le principali organizzazioni internazionali. "La nostra sovranità è riconosciuta per le attività grazie alle quali abbiamo guadagnato l'ammirazione di 106 stati sovrani che intrattengono con noi regolari relazioni diplomatiche. Il rispetto che il mondo ci dà costituisce perciò la nostra maggiore forza e il miglior viatico per guardare al futuro". Ma non c'è solo l'assistenza in terre piagate da guerre senza fine, quasi eterne, la cui soluzione non si intravede. L'elenco di questi casi è lunghissimo, è noto nella sua triste costanza. In Italia, ad esempio, tra le numerose attività di volontariato ci sono la mensa serale due giorni a settimana per i senzatetto a Roma, presso le stazioni Termini e Tiburtina. Ventiduemila pasti serviti in media ogni anno. Poi c'è la gestione della mensa sociale nel Santuario di Pompei, che ogni giorno serve cento pasti agli indigenti. "Le attività ospedaliere gestite dall'Associazione dei Cavalieri italiani sono costituite da dodici centri medici specializzati che operano in diverse città italiane e dall'ospedale San Giovanni Battista a Roma". Vi è poi l'attività ambulatoriale, con le tredici strutture distribuite tra Lazio, Campania, Liguria e Puglia che erogano complessivamente circa due milioni di prestazioni all'anno. Impegno anche sul fronte migranti. "Nel 2015 sono stati 153 mila i migranti sbarcati sulle coste dell'Italia meridionale. A prestare soccorso ai superstiti c'erano in prima linea i medici e gli infermieri del Corpo italiano di Soccorso dell' Ordine di Malta, con squadre permanenti a bordo delle navi della Guardia costiera e della Guardia di finanza italiane". "Attualmente - aggiunge Paternò - il nostro personale sanitario è attivo nelle operazioni di soccorso con cinque team sanitari, formati da un medico e da un infermiere, tre dei quali a Lampedusa a disposizione della Guardia costiera e della Guardia di finanza, e due a bordo delle unità navali maggiori della Guardia costiera". Inoltre, "da gennaio 2016 a oggi sono stati tratti in salvo dalla Guardia costiera più di 28 mila migranti, 13 mila dei quali hanno necessitato di cure mediche da parte del nostro personale sanitario". Dal 2008 a oggi, i volontari impiegati sono 1.109, con una media di circa 123 l'anno. C'è, meno conosciuta, l'opera che viene compiuta negli Stati Uniti, dove quasi due milioni e mezzo di individui affollano le locali prigioni. L'assistenza e il sostegno psicologico ai detenuti sono una delle principali attività dell'Associazione americana dell'Ordine di Malta. Si tratta d'un progetto su cui converge da anni l'impegno delle altre associazioni dell'Ordine nel nord America, da quella federale a quella occidentale, fino a quella canadese. A oggi sono trentuno gli stati che vedono membri e volontari dell'Ordine operare con programmi di sostegno ai detenuti e ai loro familiari. A fronte di un tasso di recidività molto alto - il 65 per cento degli ex carcerati finisce prima o poi di nuovo in prigione - l'Ordine di Malta è particolarmente impegnato nell'agevolare il reinserimento degli ex detenuti nella società con un percorso di sostegno alla formazione professionale e per la ricerca di un alloggio, immediatamente dopo il rilascio. Basta poi andare in

Libano per vedere che lo stereotipo del club elitario per nobili non corrisponde alla realtà. Qui l'Ordine realizza campi estivi per ragazzi disabili. Strutture che sono un laboratorio di creatività, socializzazione e ascolto per centinaia di ragazzi e ragazze, assistiti da un gruppo internazionale di giovani (sempre dell' Ordine) provenienti da Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia, Austria, Svizzera, Spagna, assieme ai loro coetanei libanesi. "La religione non è un problema nei nostri centri, né per le persone che servono né per i pazienti che qui vengono: la domanda su quale Dio preghino non viene neanche formulata", dice suor Maria Josepha, responsabile del centro d'assistenza dell'Ordine a Kefraya, nel nord del Libano. Un villaggio a maggioranza musulmana sunnita, dove gli ambulatori socio-sanitari dell'Ordine di Malta si prendono cura di pazienti provenienti da oltre quaranta villaggi circostanti. Qui, l'Ordine gestisce una rete di ventotto diverse iniziative umanitarie che raggiungono cristiani e musulmani in egual misura, gestite in collaborazione con congregazioni o fondazioni religiose di fedi diverse. "L'atmosfera è di profondo rispetto", dice infatti l'ospedaliere dell'associazione libanese, Paul Saghbini. "I visitatori ci chiedono sempre con entusiasmo come possono diventare membri o volontari dell' Ordine di Malta, spiegano Monica Lais e Valérie Guillot, curatrici del Visitors Centre, nella sede del Palazzo Magistrale di via Condotti, a Roma: questa, osservano, "è la prima indicazione del successo del Centro. Italiani, americani, spagnoli, tedeschi, francesi, giapponesi, taiwanesi, russi: ci confrontiamo con nazionalità diverse, e già centinaia di persone hanno visitato il Centro dalla sua apertura". I visitatori, appena vedono le foto dell' opera quotidiana dell'organizzazione, chiedono cosa essa faccia oggi. "La finalità dell'Ordine di Malta può solo essere quella di aiutare chi soffre, pertanto esso non ha bisogno né di frontiere né di territorio". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 25 La rivincita degli antipatici di Elvira Serra Spesso impopolari tra i colleghi perché troppo esigenti e poco inclini ai compromessi. Ma portano efficienza e meritocrazia Sono quelli più esigenti, non fanno mai sconti, a cominciare da se stessi. Pretendono, non si accontentano, talvolta sono così testardi e poco malleabili da risultare «impossibili». Antipatici, insomma. Come Lucy Kellaway, ancora per pochi mesi columnist del Financial Times (lo lascerà d’estate per insegnare matematica nelle scuole più disagiate di Londra con la sua nuova Fondazione). Sul quotidiano economico qualche giorno fa ha scritto un commento dal titolo eloquente: «Sono una persona difficile al lavoro e felice di esserlo». Lei puntualizza che - guarda caso - sono solo i colleghi maschi a giudicarla così «faticosa». Ma si è dovuta arrendere all’evidenza, facendone però un bandiera, quando sua figlia le ha detto: «Mamma, tu non ti rendi conto di quanto puoi essere difficile». Eppure, oltre che per una questione di autostima, essere esigenti, soprattutto in posizioni di comando, è l’unico modo per raggiungere determinati risultati. «Gli studi sulla leadership fin dagli anni Cinquanta hanno dimostrato che un modello troppo democratico non sempre è funzionale: quando si hanno poco tempo e scarse risorse, la guida autoritaria risulta quella più efficace», spiega Vincenzo Russo, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni allo Iulm di Milano. «Gli antipatici, se vogliamo chiamarli così, sono quelli che adottano sì una logica molto autoritaria, ma anche molto meritocratica. L’ideale, come teorizzarono Robert Blake e Jane Mouton nel 1964, sarebbe un mix tra il leader socio-affettivo più attento alla dimensione relazionale e quello più orientato all’obiettivo». Essere poco inclini al compromesso, per esempio, è servito all’imprenditore bolzanino Patrizio Podini a realizzare l’impossibile: 711 punti vendita in tutta Italia, più di due miliardi di fatturato nel 2015 e 5.900 dipendenti con MD Spa, terzo gruppo dell’hard discount in Italia. «Ho fondato l’azienda a Napoli nel 1994. Riesce a immaginare che cosa vuol dire esportare nel Mezzogiorno la cultura austroungarica precisa e rigorosa con la quale mi sono formato?». Podini non si considera antipatico nell’accezione caratteriale: «Sono simpaticissimo». Però ammette che le cose che chiede «non devono essere discusse», semmai «fatte». «Nel 1997 di

fronte alla divergenza di punti di vista con i miei soci ho acquistato tutte le loro quote e sono diventato l’unico proprietario». E invece non ha nessuna difficoltà ad ammettere di essere proprio «rompiscatole» Angela Formaggia, titolare milanese della ormai trentenne Sartoria Angela Alta Moda, sei dipendenti a Milano oltre alle collaboratrici e a uno svariato numero di fornitori con i quali litiga senza problemi arrivando alle minacce: «Di non pagare, funziona sempre...». «Mi rendo conto di apparire molto antipatica in certi momenti, magari vicino a una consegna o a un evento. Lì non ammetto scuse, le parole “non è possibile” o “non ce la faccio” non esistono nel mio vocabolario, sono cancellate». Anche lei, come Lucy Kellaway, ha una figlia, Michela, che glielo ricorda piuttosto spesso. «Diciamo pure ogni giorno: “Mamma sei impossibile”. Però credo sia questo il segreto del passaparola che ci fa arrivare clienti da Londra, Zurigo, Sudafrica». «L’importante è che il rigore venga applicato in maniera funzionale, e non per creare un clima di terrore», avverte Caterina Gozzoli, docente di Psicologia del conflitto e della convivenza organizzativa alla Cattolica. «Essere “difficili” in contesti di lavoro che tendono all’omologazione è una buona cosa, consente di avere idee nuove. Poi ci sono i top manager, che possono permettersi di osare di più, di essere innovativi e così stimolare anche gli altri. L’importante è che il capo detti la linea e non detti legge. Perché in questo caso sarebbe “antipatico” e basta. Senza attenuanti». LA NUOVA Pag 1 Servono dati e proposte, non appelli di Michele A. Cortelazzo Lingua italiana Ha fatto rumore l’appello «contro il declino dell’italiano a scuola», firmato da 600 professori (più o meno l’1% dei professori delle Università italiane; tra questi, 34 dell’Università di Padova, sei dell’Università di Venezia, tre dei quali emeriti, uno dello Iuav). Io non l’ho firmato, anche se me l’hanno chiesto più volte (tra l’altro citando l’auctoritas di un reputatissmo collega, che però non figura tra i firmatari). Ho ritenuto debole la base di partenza (sull’incapacità di molti studenti a usare l’italiano esistono impressioni, aneddoti, leggende, ma non dati testati) e ancor più deboli le proposte di soluzione, che non dicono nulla su come si possono potenziare le competenze linguistiche dei giovani. Il punto di partenza esplicito del documento è che gli studenti universitari di oggi non conoscono bene l’italiano, non sanno scrivere, non sanno neppure parlare correttamente. Quello implicito è che una volta non era così e che la colpa è, quindi, dell’involuzione della scuola che non prepara, perché non verifica, e quindi non seleziona. Non abbiamo dati sulle capacità linguistiche dei giovani universitari (la vituperatissima Anvur, però, negli anni scorsi ha promosso il Teco, un’indagine valutativa delle capacità trasversali degli universitari: se elaborasse e pubblicasse i dati che ha così raccolto, avremmo un quadro preciso della situazione, come in pochi altri Paesi). In mancanza di dati, ognuno può portare la sua esperienza. La mia non è così drammatica. Certo, gli studenti non sanno scrivere testi complessi, adeguati alla complessità delle competenze che acquisiscono negli studi universitari. Ma questa abilità di scrittura dovrebbe essere conseguita all’università, non prima. Uno dei miei insegnamenti è proprio un corso di Tecniche di scrittura: riscontro grandi debolezze nel focalizzare il testo sulle informazioni importanti, l’incapacità ad adeguare la scrittura alle caratteristiche dei tipi di testo e a dominare con proprietà il lessico più elaborato. Ma errori da terza elementare proprio non li vedo. Sono un privilegiato? Molti colleghi mi raccontano le nefandezze scritte dai loro studenti, lamentandosi che quando frequentavano loro l’università non succedeva nulla del genere. Ne sono sicuri? Ricordo che nel 1979 Leonardo Benevolo aveva pubblicato un libro, “La laurea dell’obbligo”, che riportava gli svarioni estratti dai compiti dei suoi allievi: nulla di diverso da quello che mi raccontano oggi i colleghi scandalizzati. Possiamo immaginare che chi partiva da una situazione sociale svantaggiata, poteva arrivare all’università, ma l’istituzione scolastica non era in grado di portarlo allo stesso livello di competenze del “figlio del dottore”. Oggi accade la stessa cosa, in una Università che, grazie al cielo, ha aumentato il numero di iscritti. Non mi pare che le proposte del documento dei 600 aiutino a superare questo insuccesso dell’istituzione scolastica. Dal documento traspare una vera e propria ansia di controllo: si chiede di fare test severi e uguali in tutta Italia (ma non c’è già l’Invalsi?), di far giudicare i ragazzi del ciclo inferiore dai docenti del ciclo superiore. Ma tutto

questo ci permetterà di certificare meglio l’insuccesso. Non ci potrà portare al successo. L’altra proposta è: cambiamo le Indicazioni nazionali, cioè i programmi. Su questa linea si è posto anche Francesco Sabatini, il quale, intervistato da Rainews24, ha lamentato la scarsa attenzione prestata dai programmi della scuola primaria ai problemi concreti dell’apprendimento linguistico. Ho riletto i programmi, e a me pare che queste indicazioni ci siano, sia pure scritte in “ministeriese”. Quando i programmi dicono che “l’acquisizione della competenza strumentale della scrittura, entro i primi due anni di scuola, comporta una costante attenzione alle abilità grafico-manuali e alla correttezza ortografica” vuol dire che i bambini, entro la seconda elementare, devono imparare a scrivere a mano (uno dei temi sollevati da Sabatini) e senza errori di ortografia. Cosa c’è da cambiare? Forse il modo di scrivere i programmi, ma non i contenuti. In sintesi: i meno capaci, da sempre, scrivono in maniera selvaggia, anche all’università; i programmi dicono cose giuste, ma le dicono malissimo; le proposte avanzate portano solo a misurare lo sfacelo, non a migliorarlo. Cosa se ne conclude? Innanzi tutto, che l’appello del gruppo di Firenze è una magnifica mossa comunicativa, ma sul piano propositivo non serve a nulla. Poi, che la questione è tutta politica: tra le “i” che negli scorsi anni costituivano il fulcro dell’insegnamento non c’era l’italiano; ma se manca una buona competenza della lingua nativa, come può esserci una buona competenza delle altre “i”, a cominciare dall'inglese? Infine, che un buon insegnamento si fonda su buoni insegnanti. Ma gli insegnanti devono essere formati e selezionati bene (negli ultimi concorsi, dei candidati alle cattedre di italiano si è testato il dominio dei principi letterari, non quello dei principi linguistici; e per assumere professori di altre materie, si è verificato se sanno l’inglese, non se sanno l’italiano); devono essere messi nelle condizioni di insegnare bene (per insegnare a scrivere sono necessari tempi dilatati e classi con pochi studenti); e, non ultima cosa, occorre dare loro un forte riconoscimento del ruolo sociale che ricoprono. Nel documento dei 600 non ho letto nessuna parola su tutto questo. Ecco perché io, tra quei 600, non ci sono. Le firme da Padova e da Venezia Università di Padova: Daniela Andreatta, Guido Baldassarri, Caterina Barone, Anna Laura Bellina, Mario Bertolissi,Luciano Bossina, Alessandro Calegari, Giorgio Carnevali, Alessandra Coppola, Sergio Durante, Ambrogio Fassina, Filippo Focardi, Roberto E. Kostoris, Alba Lazzaretto, Andrea Maccarini, Manuela Mantovani, Costanza Margiotta, Marco Mascia, Mirco Melanco, Michele Moretto, Ivano Paccagnella, Bruno Maria Parigi, Elena Pariotti, Alessandra Petrina, Cecilia Poletto, Anna Pontani, Federica Ricceri, Mario Andrea Rigoni, Silvio Riondato, Vittoria Romani, Stefano Solari, Carlotta Sorba, Fabrizio Tonello Giovanni Zanzotto. Di Padova sono anche Guido Galesso, insegnante di arte, e Anna Fabriziani, professoressa in pensione. Università di Venezia: Francesco Casarin, Giovannella Cresci Paolo Pagani. Hanno firmato anche Francesco Bruni, Mario Isnenghi, Carmelo Vigna , emeriti. Dallo Iuav ha firmato il professor Guido Vittorio Zucconi. CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 17 Seicento docenti universitari: i ragazzi non sanno l’italiano di Orsola Riva L’appello al governo: vediamo errori da terza elementare Possibile ritrovarsi a correggere una tesi di laurea dovendo usare la matita rossa e blu come in un temino della scuola elementare? Purtroppo sì. Basta leggere alcune delle testimonianze dei 600 professori universitari che hanno sottoscritto un accorato appello al governo e al Parlamento per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie. Ripartendo dai fondamentali: «Dettato, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva». Può sembrare un ritorno indietro ma, come spiega Giorgio Ragazzini, uno dei quattro docenti di scuola media e superiore del Gruppo di Firenze che hanno promosso la lettera, «forse stiamo risentendo anche di una svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni 70». E invece, come già si diceva in un film diventato di culto dopo gli anni del riflusso, «chi parla male pensa male». O, come preferisce ricordare Ragazzini citando Sciascia, «l’italiano non è l’italiano, è il ragionare». «Alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male

in italiano e faticano a esprimersi - si legge nella lettera -. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». Anche dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa che misura le competenze dei quindicenni di mezzo mondo i nostri ragazzi sono usciti con le ossa rotte. E, a sorpresa, è soprattutto in italiano che andiamo male. Con buona pace della stanca retorica anti-crociana. Dal 2000 a oggi non abbiamo recuperato mezza posizione, mentre in matematica, dove pure eravamo molto più indietro, abbiamo fatto enormi passi avanti. Tra i firmatari della lettera si contano otto accademici della Crusca, quattro rettori, il pedagogista Benedetto Vertecchi, gli storici Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora e Mario Isnenghi, e poi filosofi (Massimo Cacciari), sociologi (Ilvo Diamanti), la scrittrice e insegnante Paola Mastrocola, da sempre in prima linea per una scuola severa e giusta (giusta anche perché severa). Tutti uniti nel denunciare la condizione di semi-analfabetismo di una parte degli studenti. Come racconta bene questa testimonianza: «Mi è capitato di incontrare in treno una studentessa che non sapeva quale fosse la “penultima” lettera del codice di prenotazione del suo biglietto». Ecco alcune testimonianze dei docenti che hanno firmato l’appello: «Circa tre quarti degli studenti delle lauree triennali sono di fatto semianalfabeti». «Ahimè, ho potuto constatare anch’io i guasti che segnalate, dal momento che il mio esame è scritto e ne vengono fuori delle belle...». «È francamente avvilente trovarsi di fronte ragazzi che scrivono come se stessero redigendo un sms o inciampano sui congiuntivi». «Dedico ormai buona parte della mia attività di docente a correggere l’italiano delle tesi di laurea». «Nelle tesi non usano il congiuntivo o lo confondono col condizionale, sbagliano la “consecutio temporum”, ignorano i periodi ipotetici». Pag 21 “Vi spiego chi sono i vostri figli. Mai fatto sesso senza amore. E nemmeno le mie amiche” di Aldo Cazzullo Sofia Viscardi ha 18 anni e 2 milioni di follower: “In Rete siamo più sinceri” Sofia Viscardi, lei non ha ancora 19 anni e ha un milione e mezzo di follower su Instagram, 500 mila su Twitter, 200 mila amici su Facebook. Giampiero Mughini ha scritto che questi numeri non significano assolutamente nulla, e ha ricordato le 80 copie in cui Giuseppe Ungaretti stampò la prima edizione del Porto sepolto . «Chi è Mughini?». Un giornalista molto bravo. Non ce l’ha con lei, intendeva dire che l’era Internet è effimera. «Ma non sono numeri; sono persone. Conquisto la loro attenzione, mica la loro anima. Comunque, dovete aggiungere le centomila copie del mio primo romanzo, Succede . Ora ne faranno un film, sto scrivendo la sceneggiatura». Alla Mondadori raccontano che un giorno a Roma lei ha firmato libri dalle 3 del pomeriggio a mezzanotte. «È vero. Molti erano per genitori che attraverso di me vogliono conoscere i loro figli». Appunto: chi sono i nostri figli? Chi siete? «Ragazzi che hanno bisogno di essere incoraggiati, rincuorati, divertiti». Come mai tanti suoi coetanei si sono riconosciuti in lei? «Per la mia semplicità e la mia sincerità. Sono un po’ matta, ma non mi nascondo, non mento; per questo mi trovano empatica. La rete non è il luogo della post-verità. Nel mondo virtuale a volte siamo più sinceri che in quello reale». È vero pure che ha dovuto rinunciare ai meet-up perché veniva troppa gente? «Purtroppo sì. L’ultima volta a Roma in piazza del Popolo mi hanno portata via i carabinieri. Ero con Michele Bravi e sono arrivati un sacco di ragazzi infoiati. Gli agenti mi hanno protetta, ma mi hanno anche detto di non farlo più». Michele Bravi il vincitore di X Factor? «Lui. Ora va a Sanremo. Cercherò di dargli una mano, anche se non ne ha bisogno: è bravissimo».

Chi altri conosce della sua generazione? «Bebe Vio. Una tipa super. Incredibile. Anche se, come molte mie amiche, non sa nulla dei social». E Chiara Ferragni, la fashion blogger? «Lei ha dieci anni in più. Ha lavorato con mia mamma, che si occupa di comunicazione, però non la conosco». Com’è cominciato tutto? «Alle elementari avevo già il telefonino. Prima ancora, a nove anni, con mia cugina abbiamo fatto un video con un computer portatile. Ho uno zio fotografo che mi ha dato lezioni. Poi, quand’è nato Youtube, guardavo gli sketch di Zelig con mio fratello Giuseppe e la mia sorellina Maria, e mi sono detta: perché non provarci?». Qual è stato il suo primo video? «Sui regali di Natale, tra cui un biglietto per gli One Direction. Poi un altro su San Valentino. Le insicurezze, le sconfitte, le paure, le goffaggini». A scuola come va? «Ora bene. Ma fin dalle medie ho sempre avuto 6 in condotta». Perché? «Rispondevo; e questo ai professori non piace. Poi ogni tanto scappavo per sentire un concerto». Quali concerti? «Sono andata in treno a Bologna per Justin Bieber, senza biglietto e senza dirlo a mia madre: ho scavalcato e raggiunto la prima fila. Ma sono cose che non si fanno, lo so. Per gli One Direction ho scalato il Principe di Savoia…». Scalato? «C’è un punto in cui è facile. Così abbiamo evitato la sorveglianza. Li aspettavo al bar con una mia amica, quando è arrivata una signora delle pulizie, ma forse era una fata, a dirci: gli One Direction stanno facendo ginnastica con mio figlio, alla palestra del decimo piano. Così siamo salite. Stava già piombando la sicurezza a portarci via, quando è uscito Harry Styles. Abbiamo parlato due minuti, ci siamo anche fatti una foto». E lei l’ha postata. «Qualcuno ha detto che è un fotomontaggio, ma non è vero! Per raccontare la storia ho girato un video, che ha avuto più di un milione di visualizzazioni. Poi ho fatto un’intervista a Saviano, che si è fermata a centomila». Che rapporto ha con gli haters, gli odiatori? «Mi divertono. Ho la pelle dura e sono cocciuta, come mio padre. Siamo nati entrambi sotto il segno del toro». La protagonista del suo romanzo, Margherita, è timida, goffa, insicura. Non pare il suo ritratto. «Infatti non è il mio alter ego. Mi assomiglia fisicamente. E poi anch’io agli inizi ero un po’ impacciata, in particolare con gli adulti». Alle superiori cos’ha studiato? «Mi sono iscritta al Berchet e mi hanno bocciata. Mi sarebbe piaciuto finire il Classico, però non amo concentrarmi troppo su una cosa sola; così l’ho lasciato per le scienze umane. I professori non hanno mai cercato di capirmi, non volevano che mi prendessi un tempo per le mie attività sui social. Ho fatto un anno al Besta, un altro al Virgilio, prima di approdare finalmente al Voltaire». Quest’anno ha la maturità? «Da privatista. Sono terrorizzata». Farà l’università? «Sì, ma non so ancora cosa. Vorrei studiare comunicazione, oppure filosofia». Quali filosofi la affascinano? «Kierkegaard, Feuerbach. Quelli convinti che l’amore sia la chiave di tutto. Mi fa paura Schopenhauer: un depresso che vede l’amore come sofferenza perpetua». Chi sono stati i suoi maestri su Youtube? «Ho guardato molto Tyler Oakley: vivace, divertente; gay dichiarato. Anche Jack&Finn sono gay secondo me, ma non lo dicono, ora hanno pure la fidanzata… di sicuro sono belli e bravi. Connor Franta è profondo, riflessivo». E tra gli italiani?

«Guglielmo Scilla, in arte Willwoosh, fa morir dal ridere. E poi Claudio Di Biagio e Cane Secco, che si chiama in realtà Matteo Bruno». Lei sa che per noi padri o nonni questi sono puri nomi, vero? «Certo. Ma per noi figli sono importanti». Manca il suo ex fidanzato, Lorenzo Paggi. «È stata una bella storia. Ci siamo conosciuti in metropolitana, scontrandoci con le nostre sacche piene di regali…». Regali di chi? «I fan mi portano sempre qualcosa. Io chiedo le foto da appendere in camera, ma loro mi donano anche cartelloni, poesie, pupazzetti». Pupazzetti? «Soprattutto orsi, ma pure coniglietti, gattini, cagnolini, elefanti, opossum. A Napoli mi hanno regalato due giganteschi unicorni rosa e un ippopotamo. E poi specialità gastronomiche: mozzarelle, cannelloni, salumi, guacamole, caramelle…». Come mai è finita con Lorenzo? «Siamo giovani, è normale. Abbiamo litigato tutto il tempo. Però ci siamo lasciati di comune accordo. Ora siamo amici». Ha un nuovo fidanzato? «Sì. Uno scrittore: Francesco Sole. L’autore di Stati d’animo su fogli di carta e Mollato cronico ». In «Succede» non ci sono scene di sesso. «Non ne ho paura. Ma non è vero che le ragazze lo facciano senza pensarci. Io non concepisco il sesso slegato dai sentimenti, e anche per la maggioranza delle mie amiche è così. So che esiste il sesso occasionale, però non mi è mai capitato. Non è una cosa che mi appartiene». Legge i giornali? «No. Leggo i siti dei giornali». Conosce i cantautori? «La musica italiana non mi dice molto, a parte Vasco e Tiziano Ferro. Preferisco The Chainsmokers, due dj molto in gamba». Va al cinema? «Per anni non ci sono andata, ora ho preso l’abitudine». Quali sono i film della sua vita? «Tutta la serie di Star Wars : volevo essere Padmé Amidala; e il mio grande amore è Luke Skywalker, quando ha i capelli lunghi. Riguardo spesso Forrest Gump . E la regia di La La Land è pazzesca». I libri? «Il mondo di Sofia. L’erba cattiva di Ago Panini, un amico di mio padre che ha raccontato la storia della band dove papà faceva il manager e mio zio cantava. I romanzi di Bianca Pitzorno, che ho conosciuto ad Alghero: una grande donna. E le favole, quelle con il disco che cominciava: “A mille ce n’è, nel mio cuore di fiabe da narrar…”». I viaggi? «Adoro il Marocco: Essaouira, Marrakech. Le Cicladi: Paros, Antiparos, Naxos, Mykonos, Sifnos. Le spiagge ventose della Spagna e del Portogallo, per fare kitesurf. E Amsterdam». Compresi i coffee-shop? «La droga non mi interessa. E il vino mi disgusta. Al massimo, una birra». Cosa pensa di Trump? «Non mi piace particolarmente, ma sono troppo ignorante per parlare di politica». Al referendum ha votato? «Ho votato. Il professore di diritto ci ha spiegato come sarebbe cambiato il Parlamento, in caso di vittoria del Sì». E lei ha votato No, come quasi tutti i suoi coetanei? «Mi hanno insegnato anche che il voto è segreto». Ha ancora tutti e quattro i nonni? «Un nonno è mancato. È stato il mio primo impatto con la morte, e anche se ero preparata si è rivelato molto peggio di quanto pensassi. Non abbiamo fatto il funerale, ma un aperitivo con un po’ di musica: lui aveva voluto così. Il giorno dopo un vicino è

venuto a scusarsi: “Pensavo fosse una festa, così ho mangiato e bevuto senza neppure farvi le condoglianze”». Crede nella vita dopo la morte? «Credo che ci sono cose che non possiamo sapere». E in Dio? «No. Non sono religiosa». Le piace la storia? «Mi affascina ma mi annoia studiarla: troppe date, troppi luoghi». E Ungaretti? «Ungaretti non l’abbiamo ancora fatto. Siamo arrivati a Pirandello». AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016 Pag 12 Scuola, teatro gender: l’altolà del ministro di Paolo Ferrario “Le famiglie devono essere informate” Milano. Continua la mobilitazione delle famiglie contrarie alla visione scolastica di “Fa’afafine Mi chiamo Alex e sono un dinosauro”, spettacolo teatrale che racconta la storia di un bambino che nei giorni pari si sente maschio e in quelli dispari femmina. In due settimane, una petizione su citizengo.org, promossa da Generazione Famiglia - La Manif Italia, ha raccolto oltre 102mila firme di genitori e nonni preoccupati che i propri figli e nipoti siano portati dagli insegnanti a vedere questa rappresentazione che sta girando l’Italia. «Chiedo che il Ministero dell’Istruzione emani immediatamente un decreto urgente per impedire che le scuole portino gli alunni a vedere lo spettacolo “Fa’afafine” sul bambino-bambina transgender”, si legge nella petizione al ministro Valeria Fedeli. Che, nei giorni scorsi, ha, indirettamente, risposto attraverso una lettera all’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donazzan, che si era fatta portavoce delle preoccupazioni dei genitori scrivendo, a sua volta, una lettera al ministro. In sintesi, Fedeli ribadisce che il Miur non è coinvolto «nella realizzazione dello spettacolo, né nella sua promozione» nelle scuole e che «le istituzioni scolastiche sono le uniche che, nel rispetto delle norme dell’autonomia scolastica, possono stabilire l’opportunità di partecipare agli spettacoli teatrali». Ribadendo la validità delle norme e procedure già a conoscenza delle scuole, il ministro Fedeli ricorda che il Miur «ha più volte ribadito alle istituzioni scolastiche che la partecipazione a tutte le iniziative extracurricolari, inserite nel Ptof, è per sua natura facoltativa e prevede la richiesta del consenso dei genitori per gli studenti minorenni o degli stessi se maggiorenni». E non solo. Se la proposta fosse considerata irricevibile dalle famiglie, come nel caso dello spettacolo Fa’afafine, che, ovunque vada, raccoglie le proteste dei genitori (vedi anche articolo sotto), è sempre possibile «astenersi dalla frequenza ». Non esiste, insomma, alcun obbligo di presenza, mentre le scuole devono sempre avvertire le famiglie con congruo anticipo. Cosa che non sempre avviene, come denunciato dai promotori della raccolta firme, che suggeriscono di contattare il dirigente della scuola dei propri figli, per sapere se ha aderito a questa iniziativa. Da parte sua, conclude la lettera del ministro Fedeli, il Miur, per prevenire «ogni azione che possa essere stata attivata in maniera illegittima e in contravvenzione alle leggi dello Stato e alle norme del sistema di istruzione e formazione nazionale», continuerà «con costanza a monitorare qualsiasi situazione che possa essere oggetto di specifiche violazioni». «Soddisfazione» per il chiarimento del ministro, è espressa dal Movimento per la vita italiano. «Per fortuna – si legge in una nota – in Italia resiste ancora la consapevolezza del ruolo e delle prerogative di mamma e papà. Ci auguriamo – prosegue il Mpv – che in futuro nessuno dimentichi più che la responsabilità educativa dei figli appartiene alle famiglie e non allo Stato, specialmente su temi così delicati». L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 5 febbraio 2016 Pag 3 Vittime del karoshi di Cristian Martini Grimaldi Il fenomeno del superlavoro tra i giovani giapponesi Il governo giapponese ha recentemente annunciato misure per ridurre la quantità di straordinari che i dipendenti possono fare, nel tentativo di contrastare il fenomeno delle morti da super lavoro (karoshi). In Giappone la morte da superlavoro non è affatto un

evento raro. Nel 2015 il governo ha ufficialmente riconosciuto circa 2000 casi e si stima un numero ancora maggiore per il 2016. Ma se karoshi è diventata una parola ricorrente nei discorsi dei giapponesi lo si deve al caso di una ragazza ventiquattrenne che si è tolta la vita prima di Natale. La giovane si era gettata dal terzo piano della stanza del dormitorio nel quale viveva. I media internazionali non hanno evidenziato abbastanza questo particolare. Il luogo del suicidio la dice lunga, infatti, sul reale significato del lavoro per un giovane giapponese: mangiare e dormire nello stesso posto dove si lavora (soprattutto nei primi anni dopo l’assunzione) è una prassi quasi scontata. Il suicidio della ragazza è avvenuto in un’azienda tra l’altro già tristemente famosa per il trattamento disumano a cui sottoponeva da anni i propri dipendenti. Il grande clamore suscitato, e non solo in Giappone, da questo caso è dovuto ad alcuni messaggi diventati virali sui social media. La giovane, che totalizzava una media di 105 ore di straordinari al mese, aveva infatti condiviso su Twitter, senza giri di parole ed eufemismi, il proprio stato d’animo: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo di farla finita». Si leggeva in uno dei suoi tweet poco prima di compiere il gesto estremo. Un sondaggio del governo giapponese ha rivelato che un quinto dei dipendenti del paese deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro. Il 22,7 per cento delle imprese impiegano personale che produce più di 80 ore di straordinario al mese. Queste 80 ore - circa quattro ore al giorno da aggiungere ai normali orari di ufficio - sono ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio di morte si moltiplica in modo drammatico. Ma nel 12 per cento delle aziende i dipendenti producono ben oltre le 100 ore mensili di straordinarie. Quasi il 30 per cento di questi dipendenti oberati di lavoro sono impiegati nel settore dell’It e delle comunicazioni, come in quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto. Il governo sta cercando di attuare un cambiamento di mentalità all’interno delle aziende per incoraggiare maggiore flessibilità e, conseguentemente, ridurre lo stress. «Il Giappone ha bisogno di ridurre le ore dedicate al lavoro allo scopo di indirizzare il tempo alla famiglia, ai figli e anche alla cura degli anziani», ha ribadito recentemente un portavoce dell’esecutivo. Il primo ministro, Shinzo Abe, e il suo governo alla ricerca di un metodo efficace per imporre un limite allo straordinario stanno per varare un sistema chiamato «Premium Venerdì». La campagna, guidata dalla Japan Business Federation, permetterà ai lavoratori di lasciare presto l’ufficio l’ultimo venerdì di ogni mese. Ma i critici di questa iniziativa non hanno tardato a farsi sentire, mettendo in evidenza come con questa misura non si stabilisce in alcun modo un migliore equilibrio tra ore dedicate alla propria vita privata e quelle destinate al lavoro, tanto più che la Japan Business Federation ha relativamente pochi membri: 1300 aziende su oltre 2,5 milioni di imprese registrate. Allo stesso tempo il Giappone si ritrova a essere uno dei paesi al mondo meno generosi per quanto riguarda le ferie. I dipendenti hanno mediamente diritto a dieci giorni di ferie pagate, ma a zero festività nazionali retribuite (l’Australia, in confronto, offre 20 giorni di ferie pagate e otto giorni di festività pubbliche pagate). Non solo. Molti lavoratori non utilizzano nemmeno la metà dei giorni di ferie che hanno a disposizione. Allo stato attuale il governo giapponese punta a ridurre la percentuale di dipendenti che lavorano più di 60 ore alla settimana a meno del cinque per cento della forza lavoro totale, ed entro il 2020 (data non certo casuale, in quanto è l’anno delle Olimpiadi che si svolgeranno a Tokyo, ovvero quando gli occhi di tutto il mondo saranno puntati sul paese) intende convincere i lavoratori a prendersi almeno il 70 per cento delle vacanze a cui hanno diritto. Ma il problema delle morti da superlavoro difficilmente potrà essere risolto dall’alto: attraverso una legislazione tra l’altro già sperimentata in anni passati e con scarsi risultati. Il karoshi è un problema che nasce innanzitutto dalle dinamiche sociali all’interno della società giapponese: la pressione sociale in combinazione con il desiderio di non deludere le aspettative da parte di familiari, colleghi e superiori rende difficile convincere i lavoratori a compiere scelte più “salutari”. E lo è ancor di più quando per tutta la vita è stato loro insegnato che ciò che conta non è il proprio stato d’animo - di un progetto di vita vagamente felice neppure si parla - ma la sicurezza materiale, ovvero ottenere un buon posto di lavoro e mantenerlo a tutti i costi, anche i più estremi. Torna al sommario

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 19 Ca’ Fornera: recapito a singhiozzo, il don scrive alle Poste di g.ca. Jesolo. Corrispondenza in ritardo, il parroco scrive alle Poste. Anche “Avvenire”, il quotidiano dei vescovi, arriva solo 2 o 3 volte la settimana. Speriamo che almeno la lettera di don Mario Porcù, parroco della vivace frazione di Ca’ Fornera, sia stata recapitata in tempo. Il don si dice «indignato nei confronti delle Poste Italiane, il cui servizio è addirittura scandaloso». Il sacerdote non perdona questi disservizi: «Sono indignato al punto che mi viene un travaso di bile ogni volta che vedo in tivù la loro pubblicità», spiega il prete, «La chiesa di cui ho la responsabilità si trova a Ca’ Fornera, frazione di Jesolo che dista tre chilometri, e non trecento, dal centro città e dove la posta viene consegnata con questa scadenza: una settimana tre volte e la settimana dopo due volte. Aggiungo che il sottoscritto è abbonato al quotidiano “Avvenire” che mi viene consegnato “a pacchi” con la scadenza di cui sopra. Sono anche abbonato a un settimanale che mi arriva quando capita e sempre in ritardo rispetto alle notizie e alle riflessioni che vengono pubblicate». «Come se ciò non bastasse, da un po’ di tempo la mia corrispondenza viene consegnata a un vicino che ha naturalmente un civico diverso dal mio. So che è un’abitudine diffusa almeno in questa frazione», continua il don, «Non posso neanche prendermela con i portalettere che vengono cambiati spesso e mi dicono essere sotto organico». Don Mario Porcù si è già rivolto alle Poste di Jesolo per esternare il suo malumore. Gli è stato risposto che il problema non dipende da Jesolo e che il personale a disposizione è ridotto. «A causa di questi ritardi, arrivano anche fatture abbondantemente oltre la scadenza», conclude il prete, «Io stesso ho sperimentato disagi non da poco con le bollette della luce. In questo modo gli utenti vengono costretti a usare per forza la domiciliazione bancaria». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 5 febbraio 2016 Pag IV Famiglie povere, soldi in cambio dell’impegno a uscire dal disagio di Vettor Maria Corsetti Servizi sociali, i nuovi criteri più “mirati” per l’assegnazione dei contributi Ammonta complessivamente a 280mila euro l'impegno di spesa riconosciuto dal Comune per il 2017 in materia di interventi diversi di natura economica per persone e famiglie disagiate. A chiarirlo è la relativa determina firmata da Alessandra Vettori, responsabile della direzione Coesione sociale, servizi alla persona e benessere di comunità. Come si può evincere dalla lettura del documento, la cifra iscritta nel bilancio di Ca' Farsetti si riferisce specificamente all'erogazione dei minimi vitali, dei contributi economici straordinari, dei minimi economici di inserimento e alla terza annualità del programma statale Ria (Reddito di inclusione attiva), finalizzato al reinserimento sociale e/o lavorativo delle fasce deboli. Per l'assessore alle Politiche sociali, Simone Venturini, «un quadro preciso sul numero di assistiti lo avremo tra qualche giorno: i conti li stiamo facendo ora, e fornire in anticipo cifre non aggiornate sarebbe scorretto. Mentre la determina dirigenziale si configura come un atto dovuto, limitandosi a precisare l'impegno di spesa senza spendere una parola in più sulle metodologie d'intervento e le caratteristiche tecniche di assegni sociali e altri contributi economici già competenza delle Municipalità, e ora in carico a una sola direzione comunale. Nel merito, molto altro ci sarebbe da dire. Ad esempio, sulla volontà dell'Amministrazione Brugnaro di rendere più efficiente e rapido il servizio mediante un referente unico, e sul nuovo software che a breve consentirà all'assessorato di avere per ogni soggetto o gruppo familiare un quadro preciso della situazione e delle prestazioni erogate. Il tutto, con l'intenzione di trasformare dove possibile il mero assistenzialismo in solidarietà attiva. Cosa, d'altro canto, che è stata richiesta con forza dal ministero a tutte le amministrazioni comunali». Da qui la particolare attenzione rivolta dall'assessore e dai suoi collaboratori «al nuovo regolamento per l'assegnazione dei minimi vitali, affinché il riconoscimento di un particolare status e le modalità di erogazione facciano riferimento a criteri omogenei per tutto il territorio del Comune. Oltre alla creazione di un ufficio specificamente dedicato ai progetti d'inserimento o reinserimento lavorativo e alle iniziative a livello formativo. In

altre parole, e ovviamente solo con i soggetti idonei per età anagrafica e condizioni di salute, vogliamo superare la logica del sostegno economico a fondo perduto ai più bisognosi. Stringendo una sorta di patto con il maggior numero possibile di richiedenti aiuto, affinché dimostrino con i fatti la volontà di uscire dalla condizione di disagio economico e d'isolamento sociale in cui loro malgrado sono caduti. Da soli o insieme ai propri cari». A tale proposito, grande fiducia è riposta da Venturini sulla carta Sostegno inclusione attiva, collegata all'omonimo programma ministeriale: «Si tratta di una carta acquisti per generi di prima necessità, attualmente utilizzata da circa quattrocento famiglie e introdotta in via sperimentale solo nella nostra città conclude l'assessore Il progetto vale per Venezia la bellezza di un milione e mezzo di euro: soldi che ci fanno comodo, considerato che anno dopo anno il settore necessita di un'attenzione sempre maggiore. E come previsto dagli ideatori di Ria e Sia, rigorosamente subordinato all'accettazione di un lavoro o di un percorso formativo, ritagliato su misura dai servizi sociali in base alle caratteristiche dei singoli soggetti». Sono quattro le tipologie d'intervento in essere anche a Venezia per le famiglie e persone in condizioni economiche disagiate. La più nota è l'erogazione del minimo vitale, un assegno sociale riconosciuto a soggetti in comprovata difficoltà e spesso non autosufficienti, per il diritto a un'esistenza fisica, economica, culturale e sociale rispettosa della persona umana. In secondo e in terzo luogo, i contributi economici straordinari e il minimo economico d'inserimento, previsto per i titolari di un reddito al di sotto della soglia di povertà e da interpretare come contributo per uscire da tale condizione: a tal fine è legato a un percorso di reinserimento sociale, che prevede da parte dell'interessato l'accettazione di un lavoro o la frequentazione di un percorso formativo. Infine, il reddito d'inclusione attiva, dove il rilascio di un beneficio economico è subordinato all'adesione di un progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa individuato dai servizi sociali. LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 35 Jesolo, divieto assoluto di burqa di Giovanni Cagnassi Il sindaco Zoggia sta studiando un’ordinanza per la prossima estate Jesolo. Burqa vietato a Jesolo, per la prossima estate il sindaco sta già pensando all’ordinanza che vieti tassativamente di circolare con il volto coperto. Valerio Zoggia non ha aspettato le iniziative della Regione Veneto dopo che la maggioranza leghista ha proposto un progetto di legge nazionale per allargare anche al burqa, o al velo integrale, il divieto nei luoghi pubblici, come per caschi o passamontagna. La questione burqa al Lido era esplosa fragorosamente la scorsa estate dopo che il consigliere comunale della Civica Jesolo, Daniele Bison, aveva segnalato una famiglia di origini arabe con donne, mature e adolescenti, al seguito rigorosamente con il volto coperto. E aveva trovato anche una foto di un’altra donna in burqa all’interno di un negozio. Si era così acceso il dibattito, rilevando come ad esempio, all’Outlet di Noventa, burqa o velo integrale avessero diritto di cittadinanza, magari accompagnati da portafogli belli pieni per gli acquisti. Non a Jesolo, dove invece i cittadini e politici si sono dimostrati assai meno elastici e liberali in materia di usi e soprattutto costumi. Così, mentre nel mondo, e anche a Jesolo, torna di moda la tolleranza zero e la nuova ondata trumpiana si sta abbattendo in tanti Paesi, ecco che il viso coperto sta per essere davvero vietato con tanto di sanzione della polizia locale. Parola di Zoggia che, infatti, non nega assolutamente: «Se dovesse ripresentarsi il problema prima della stagione, con la presenza di donne in burqa, scatterebbe l’ordinanza specifica. La legge è chiara e il volto coperto non è consentito, come vale per passamontagna o caschi. Non vogliamo certo diventare censori severi e intolleranti, è una questione di sicurezza. I burkini saranno consentiti, ad esempio, purché il viso sia scoperto. Quindi le donne mussulmane potranno tranquillamente prendere il sole, se così si può dire, con l’abito completo che coprirà tutto il corpo e la testa, ma con il viso sempre scoperto. E non ci saranno divieti per il velo, purché non integrale. Mi sembrano concetti semplici e regole che tutti potranno condividere per motivi di sicurezza perché oggi dobbiamo fare i conti», conclude il primo cittadino di Jesolo, «con situazioni di costante pericolo in cui anche un volto nascosto può celare qualsiasi persona». La scorsa estate erano già iniziate le

proteste e Salvatore Esposito di Sinistra Italiana che aveva parlato di «incoscienza politica» del sindaco, ricordando che mai sono stati perpetrati attentati in burqa. CORRIERE DEL VENETO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 8 Il sindaco abbatte i cubi del parco: “I cittadini diventino protagonisti” di Gloria Bertasi Polemica sulla decisione della giunta. Ruspe in azione all’alba. Più luci contro lo spaccio Mestre. Non ci abbatterete mai, hanno scritto in uno dei cubi di parco Bissuola. Il sindaco sorride, poi la ruspa dà il primo colpo di piccone. Poi arriva il secondo, il terzo... E il cubo non c’è più. Ieri mattina c’era ancora la nebbia quando poco dopo le 8 è iniziata la demolizione dei cubi e in poche ore la struttura centrale, tra la gradinata e il secondo parallelepipedo, è stata abbattuta. «Non c’è niente da festeggiare - ha detto Luigi Brugnaro -. I cubi sono il simbolo del fallimento di una certa ideologia che pensava bastasse costruire spazi per creare socialità ma non è così, bisogna costruire contenuti ed è questa la cosa più difficile da fare, ora noi li togliamo e riportiamo le persone, se ci riusciamo». Il parco è stato realizzato tra il 1975 e il 1980: i cubi, il teatro e il centro civico erano stati pensati per realizzare una piazza pubblica dove ospitare anche un mercato. In quell’area sono state ospitate manifestazioni ma da anni i residenti e chi frequenta il parco denuncia la presenza di spacciatori. Così, in parallelo a blitz anti-droga della polizia municipale e delle forze dell’ordine, la giunta ha deciso di demolirli. L’intervento durerà quaranta giorni (il costo è di 62 mila euro), ma non sarà demolita l’intera struttura, rimarrà lo scheletro svuotato degli spazi dove è facile nascondersi per spacciare. Nei giorni scorsi vedendo gli operai recintare il cantiere qualche ragazzo ha storto il naso: «Si poteva pensare di riutilizzarli con iniziative culturali, gli spazi per la cultura non sono mai abbastanza». Martedì hanno manifestato contro la scelta della giunta anche i centri sociali. «Sono sempre stato contrario - interviene il presidente della Municipalità di Mestre Vincenzo Conte -. I problemi non si risolvono così, lo abbiamo già visto altrove, tolte le panchine in via Dante e in via Sernaglia non è cambiato nulla». Molti però sono d’accordo, vedendo in quelle strutture solo una forma di degrado. I vigili dall’inizio del 2016 ad oggi hanno effettuato 114 servizi, sequestrando quattro chili e mezzo di droga e fermato quattordici spacciatori. Finite le demolizioni, saranno anche sistemati otto nuovi punti luce per aumentare l’illuminazione all’ingresso. «Togliamo per ricominciare, dobbiamo avere umiltà e sapere riconoscere ciò che funziona e ciò che non funziona - ha spiegato il sindaco -. Chiediamo a tutti i cittadini di essere protagonisti, di riappropriarsi degli spazi riempiendo i parchi, le strade, le piazze, di partecipare in modo costruttivo e propositivo alla rinascita della città». Aggiunge l’assessore ai Lavori pubblici Francesca Zaccariotto: «Abbiamo dato una risposta ad una situazione di degrado che creava grossi problemi sia ai residenti che ai frequentatori del parco. È inoltre una dimostrazione della capacità operativa di questa amministrazione, che ha fatto proprie le esigenze espresse dai cittadini dando loro risposte concrete per garantirne la sicurezza». Il Comune non ha abbandonato l’idea di recintare tutto il parco ma vanno trovati i soldi (l’intervento costa 300 mila euro) e va capito come fare. «Se il sindaco voleva togliere lo spaccio poteva accogliere le richieste di Auser regionale e provinciale che chiedeva di usare un cubo come ufficio aperto otto ore al giorno e dell’associazione dei carabinieri in congedo che cercava una sede», commenta Conte. Oltre ai cantieri dei cubi, gli operai sono al lavoro negli altri 33 ettari. «Ci sono dieci interventi di manutenzione ordinaria in corso», ha spiegato il presidente dell’Istituzione Boschi e grandi parchi Giovanni Caprioglio. E nel bilancio di previsione del 2017, ci sono altri 145 mila euro. Pag 9 “Mazzacurati ancora lucido nel 2013”. E le accuse restano nel processo Mose di Alberto Zorzi Acquisiti i verbali: la malattia era imprevedibile. Ma sarà guerra sull’attendibilità Venezia. «Noi abbiamo sostenuto Orsoni sulla campagna elettorale e abbiamo speso quella cifra (poco prima aveva parlato di 400-500 mila euro, ndr )». E poi: «Abbiamo avuto un presidente del Magistrato alle Acque, Piva, che ci ha dimostrato subito una pesante ostilità e quella noi l’abbiamo corretta con... portandole dei soldi». E ancora: «La Lia Sartori mi aveva detto che aveva bisogno di fondi. Mi ha incontrato per quello

(...) le portai 50 mila euro». Le dichiarazioni che l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, ha reso ai pm lagunari Paola Tonini e Stefano Ancilotto, in 5 interrogatori tra il 25 e il 31 luglio e il 9 ottobre del 2013 restano nel processo Mose. Così ha deciso il tribunale di Venezia sulle centinaia di pagine di verbali, che portarono alla grande retata del 2014 con l’arresto, tra gli altri, dell’ex governatore Giancarlo Galan e dell’assessore Renato Chisso. Verranno acquisite anche nel processo in corso, dove tra gli 8 imputati ci sono l’ex sindaco Giorgio Orsoni e l’ex eurodeputata Lia Sartori (finanziamento illecito), l’ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva e l’ex ministro Altero Matteoli (corruzione). I giudici hanno bocciate tutte le richieste delle difese. Gli avvocati degli imputati, preso atto – sulla base dell’approfondita perizia del dottor Carlo Schenardi – che Mazzacurati non poteva più essere interrogato in aula perché affetto da una demenza senile che gli impedisce di ricordare con precisione i fatti del passato, avevano chiesto di non acquisire i verbali dal fascicolo, appigliandosi a una norma del codice secondo cui questo può avvenire solo nel caso in cui il motivo di salute sia «imprevedibile». Nell’udienza di una settimana fa c’è stato uno scontro pesante sulle cartelle cliniche del 2013, per dimostrare che la procura non poteva non aver capito che il teste era «a rischio» e che quindi, per garantire anche alle difese di poterlo interrogare, doveva chiedere l’incidente probatorio subito dopo gli arresti. «Non vi erano elementi oggettivi che potessero fondatamente indurre a ritenere impossibile la ripetizione delle stesse, ma solo modeste evidenze», scrivono però i giudici, che ricordano le difficoltà nel camminare, le cadute, i deficit di memoria, ma anche il fatto che i ricoveri del 2013 avvennero tutti per motivi cardiologici. Ci sono poi i numerosi testi (dipendenti del Cvn e altri grandi accusatori, tra cui Piergiorgio Baita e Pio Savioli) che hanno parlato di un Mazzacurati «lucido e padrone del Consorzio» anche in quelle settimane dell’arresto e delle confessioni. Quanto all’incidente probatorio, ricorda il collegio, lo stesso fu disposto successivamente, ma fu negativo proprio per i problemi di salute di Mazzacurati. Respinte anche le richieste di una perizia per stimare l’inizio della malattia e dell’ascolto in aula delle bobine degli interrogatori, che saranno però messe a disposizione delle difese. «Ora la guerra si sposta sull’attendibilità dei verbali e sui riscontri», commenta uno dei legali più agguerriti, Alessandro Moscatelli, difensore di Sartori, colui che era riuscito a ottenere dall’Usl tutte le cartelle cliniche dell’ex presidente degli ultimi dieci anni. «Sarebbe stato clamoroso il contrario - dice il collega Carlo Tremolada, difensore di Orsoni - Non condividiamo soprattutto la parte sull’incidente probatorio, perché noi lo chiedemmo pochi giorni dopo l’”interrogatorio americano” del 17 settembre 2014, ma fu fissato solo a marzo e concluso a maggio». D’altra parte il tribunale stesso ricorda che la Cassazione impone di valutare con tutte le cautele del caso le dichiarazioni assunte in assenza del contraddittorio. «Anche l’accusa è privata della possibilità di assicurare al processo dichiarazioni dallo stesso rese nella pienezza della prova dichiarativa», osservano i giudici: ma senza verbali per i pm sarebbe stato più difficile. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 4 febbraio 2016 Pag VIII Da convento ad albergo, il Comune nega il cambio di Lorenzo Mayer Lido. Nuova tegola per l’imprenditore calabrese Antonio De Martino nella realizzazione dell’hotel Il Comune dice no alla realizzazione di un hotel superlusso al posto dell'ex convento delle suore Elisabettine a Città Giardino. Gli uffici dell'assessorato all'Urbanistica hanno fermato il progetto già in fase di realizzazione, in quanto il Piano regolatore per il Lido non prevede, in quella zona, la possibilità di strutture ricettive. E così si dovrà ripartire da zero. A questo punto, tramontata l'ipotesi albergo, potrebbe essere rilanciata la proposta iniziale: quella di farne una Casa di riposo. Intanto, però, l'edificio è stato interessato, nei mesi scorsi, da interventi di manutenzione straordinaria, in vista di un'apertura come hotel di alto livello che avrebbe dovuto essere classificato quattro stelle superiore. Invece, ben prima dell'apertura della nuova attività, è stata ritirata dal Comune la Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) in quanto la destinazione non sarebbe conforme al piano urbanistico e tutto si è bloccato. A rimanere con il cerino in mano è l'impresa De Martino Srl che ha acquistato l'edificio, situato in via Sandro Gallo 92, rilevando in toto il progetto di trasformazione presentato, a suo tempo, dalla

Congregazione religiosa delle suore elisabettiane. Un Piano elaborato su progettazione della Tecnostudio srl di Padova, con la direzione Lavori e progettazione dell'architetto Danilo Turato, il progettista della Nave de Vero a Marghera e coordinatore della Conferenza dei servizi del Lido ai tempi del commissario governativo, Vincenzo Spaziante. Quando le suore elisabettiane hanno deciso che non potevano più stare al Lido hanno fatto fare un progetto di riconversione dell'edificio per poter mettere sul mercato la loro casa che non serviva più. Interpellati sulla questione i privati non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione in merito, e sono assistiti dall'avvocato Pier Vettor Grimani che segue la vicenda. Un addio, quello della Congregazione religiosa dell'ordine terziarie francescane di Padova, avvenuto a malincuore, nell'estate 2015, a causa della carenza di nuove vocazioni. Le religiose erano arrivate al Lido nel novembre del 1929, stabilendosi a fianco della chiesa di Sant'Antonio, quando la attuale chiesa in muratura ancora non c'era e rimanendo al Lido per quasi novant'anni di onorato servizio. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 9 Falso profilo su Facebook. Don Contin: faccio causa Padova, preso di mira l’ex parroco indagato per favoreggiamento della prostituzione Padova - Qualcuno ha creato in rete un falso profilo Facebook di don Andrea Contin, l'ex parroco di San Lazzaro a Padova indagato per favoreggiamento della prostituzione e violenza privata. Trovarlo è semplicissimo: basta accedere a Facebook e digitare don Andrea Contin, compare una pagina con la foto del prete e l'immagine di una statuetta di donna nuda con le ali. Sotto la scritta don Andrea Contin è riportata la parola motivatore. Il falso sacerdote ha già iniziato a chattare con gli internauti che lo credono veramente don Contin. Risponde a tutti, scrivendo che è umano peccare e desiderare il sesso. Sul profilo, il falso don Contin, ha postato video di fiction i cui protagonisti sono preti e suore, e copertine di libri sulla Santa inquisizione e sui segreti del Vaticano. Ma il falso don Contin ha postato anche due foto di altri due preti invischiati in vicende compromesse dal sesso. C'è don Roberto Cavazzana, l'ex parroco della chiesa di Carbonara di Rovolon che, interrogato per oltre sei ore dal sostituto procuratore Roberto Piccione, ha ammesso di avere partecipato alle orge organizzate dal vero don Contin. Ma nel falso profilo Facebook c'è anche l'immagine di don Sante Sguotti, l'ex parroco della chiesa di Monterosso ad Abano Terme, che ha svestito l'abito talare per sposarsi e diventare papà. Ora è un camionista attivo in provincia di Vicenza. Il finto profilo Facebook è stato comunque intercettato dal vero don Andrea Contin. Il sacerdote, attraverso il suo legale Gianni Morrone, ha assicurato che a breve presenterà denuncia per il reato di furto d'identità. Insomma, il falso don Contin rischia di beccarsi una querela. L'unico passaggio dove l'internauta può capire che si tratta di una bufala, è nell'aver postato la frase «ha diffuso il seme divino. Ha fatto penare i suoi parrocchiani. Più siamo e più ci divertiamo. Il simpatico motto». In Facebook è presente anche un altro profilo dedicato a don Contin, dal nome molto volgare, mentre un secondo che invitava gli internauti a unirsi per partecipare a un'orgia nella parrocchia di San Lazzaro è stato rimosso. Ieri la parrocchia di Carbonara di Rovolon, orfana da tre settimane di don Roberto Cavazzana, ha ricevuto la visita del vescovo, monsignor Claudio Cipolla, che ha celebrato la santa messa festiva. «Siamo insieme - queste le sue parole ai fedeli - anche io non cambio la mia fiducia e la mia certezza in quello che il Signore ci ha insegnato. Sono venuto oggi proprio per dire che siamo nei banchi insieme a pregare. Quindi andiamo in mezzo a tutte le bufere, teniamo dritta la prossima rotta che conosciamo e davvero la pace sia con voi». Il vescovo ha voluto essere tra la gente, in modo discreto, senza tanto clamore. «Anche io mi sento qualche mal di schiena per i colpi che abbiamo ricevuto. Più grossi di quelli che meritavamo, molto più grandi - ha detto nell'omelia - non so dare spiegazioni, so soltanto dire che le abbiamo prese insieme. Questo sì Volevo farvi un grande augurio, una grande benedizione perché possiate trovare la pace».

LA NUOVA Pag 1 Il referendum e i voti non usati di Francesco Jori Repetita iuvant? Sarà, ma il rischio è di perdere tempo. Il parere che Luca Zaia intende chiedere ai veneti sull’autonomia della regione, ce l’ha già in tasca da due anni: da quando cioè, nella primavera del 2015, è stato trionfalmente eletto, anzi rieletto, alla presidenza dalla maggioranza assoluta dei votanti, relegando gli avversari a distanze abissali. E con una campagna giocata in modo massiccio proprio sul tema dell’autonomia, pur cavalcato da altre forze che nelle urne hanno raccolto solo le briciole. Che un voto politico conti almeno quanto uno referendario, se non di più, è indiscutibile: certo, andava speso da subito sul piano politico. Cosa che invece il governatore intende fare solo dopo la prossima consultazione, come ha spiegato nell’affollato confronto con il ministro Enrico Costa promosso da questo giornale a Padova. C’è un rischio, oltretutto, in questa scelta. Sull’esito del referendum, vista la domanda formulata sulla scheda, la previsione non può che ispirarsi alla filosofia enunciata trent’anni fa con probanti esempi da Massimo Catalano in “Quelli della notte”: è meglio avere più autonomia che averne di meno o non averla del tutto. Il punto sta nella quantità dei consensi: se l’afflusso alle urne non fosse così massiccio come Zaia confida, e i sì pur ampiamente maggioritari risultassero meno della metà del totale dei veneti, la sua battaglia non ne uscirebbe forse indebolita in partenza? Come ricordato, il governatore ha in tasca da due anni il disco verde di oltre un milione di persone su due milioni di votanti per aprire il tavolo con Roma da una posizione di forza. Cosa che non ha mai fatto non solo egli stesso (già in carica dal 2010), ma neppure il suo predecessore Giancarlo Galan, che in quindici anni ha dedicato alla questione una quantità di proclami inversamente proporzionale alle azioni concrete. Certo, per trattare bisogna essere in due; e la controparte è sicuramente la più coriacea, refrattaria, antiautonomista che ci sia. Ma sarà pure il caso di ricordare che nei vent’anni e passa di forzaleghismo incontrastato in Veneto, per oltre metà del periodo in quella Roma c’erano governi amici; oltretutto con autorevolissimi leader leghisti in ruoli-chiave. Da cui ci si poteva aspettare oggettivamente di meglio. Il referendum comunque ci sarà, e la partita vera si aprirà dal giorno dopo. Nel giocarla, i partiti veneti (si spera uniti, almeno su questo punto-chiave) non dovranno tuttavia farsi mancare una riflessione autocritica su un nodo strategico: perché questa regione si batte per ottenere autonomia dal momento stesso in cui è entrata a far parte dell’Italia, vale a dire da 150 anni, senza mai essere riuscita a portarne a casa se non qualche irrisoria briciola? Ci sono stati e ci sono anche degli errori o dei limiti in casa, o si pensa di cavarsela scaricando tutta la colpa su Roma? In particolare nel secondo dopoguerra, dalla Dc al Pci, da Forza Italia alla Lega al Pd, gli esponenti veneti dei vari partiti non hanno avuto forse in tasca la stessa tessera dei loro compagni romani? O il loro ruolo era ed è solo quello di portare voti alle casse elettorali comuni? E come mai due piccole regioni confinanti, oggi guardate con invidia, sono riuscite invece a incassare un’autonomia robusta, grazie a politici di grande spessore, da Alcide De Gasperi a Tiziano Tessitori, e ad una sapiente, tenace, concreta battaglia condotta anche dai loro successori non per anni, ma per decenni? È recente, non preistorico, l’esempio di Riccardo Illy, che da presidente del Friuli-Venezia Giulia una decina di anni fa ha portato a casa un risultato di tutto rispetto sul piano dell’autonomia, inclusa la materia fiscale. Più di un secolo fa un’esemplare quanto sconosciuta figura di vero autonomista, il trevigiano Piergiovanni Mozzetti, criticava aspramente le “barufe in famegia” dei veneti, che toglievano loro ogni autentico peso contrattuale nei confronti dello Stato. Nel post-referendum, sarà fondamentale evitare che a Roma il Veneto sia confuso con Chioggia. CORRIERE DEL VENETO di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 Luce nelle notti della Repubblica di Alessandro Russello Schio e la riconciliazione C’è una foto, di loro due, che spiega già tutto. La mano di lui, mano di novantaquattrenne ex operaio fatta di sentieri e increspature, di nodi stretti sulla pelle e nodi stretti in gola, mano grande che ha fatto il bene e ha fatto il male e che ora si posa con dolcezza sul viso di lei, quasi a proteggerlo quel viso che lo guarda e gli sorride. E la

mano di lei, mano di settantaquattrenne psicoterapeuta che si alza verso il braccio di lui e lo sta per abbracciare, e sembra l’abbraccio di una figlia a un padre nel giorno del suo ritorno, inghiottito dal tempo e riemerso da un’altra vita. Solo che non è suo padre. La mano di quest’uomo è quella che si alzò per impugnare un’arma e uccidere il suo padre vero, trucidato assieme ad altre decine di uomini e donne che stavano «dalla parte sbagliata» o pagavano la colpa di trovarsi semplicemente lì. Perche lui è Teppa, il partigiano Teppa, nome di battaglia che ha oscurato l’identità di Valentino Bortoloso, che fra il 6 e il 7 luglio del 1945, due mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale, assieme ad altri partigiani fece irruzione nel carcere di Schio per compiere l’eccidio in cui un morirono in 54 tra fascisti e criminali comuni. Fra questi, Giulio Vescovi, l’allora trentacinquenne podestà di Schio e padre della piccola Anna. Anna Vescovi. Tutti uccisi «fuori tempo massimo», con la rabbia e i fucili ancora caldi, la rabbia di chi nelle guerre si nasconde dietro la «parte giusta» anche quando fa cose sbagliate. Anche orrende. Teppa, assieme ad altri quattro compagni, fu condannato all’ergastolo ma gli fu commutata la pena in dieci anni. Che scontò. Ciò che invece non ha mani finito di scontare è il peso della condanna autoinflitta, la ragione che in qualche modo si fa torto, il sangue dei «vinti» che non si lava mai anche se quei vinti, quand’erano dalla parte dei vincitori, seminarono ingiustizia, morte, terrore. Così la pensa il partigiano Teppa, che non si è mai apertamente pentito perché a guidare la sua mano - dice lui - è stata la Storia. Chi non c’era e non ha visto certe cose non può capire, ha sempre sostenuto. Pur vivendo settant’anni con dentro un macigno. La vera «grazia» per ciò che fece - al di là dei torti e delle ragioni - al partigiano Teppa l’ha concessa alla fine la figlia del podestà che lui uccise. Anna lo ha «liberato» e si è «liberata» offrendogli un personale patto di pace scritto a due mani. Con quelle due mani. «Noi Valentino Bortoloso e Anna Vescovi, consapevoli che è giunto il momento di pacificare le tragiche contraddizioni della stessa storia di 70 anni orsono (...) con grande atto di coraggio da entrambe le parti, ci siamo incontrati in un commosso abbraccio di grazia e di perdono». Molti altri parenti delle vittime dell’eccidio di Schio non riescono a parlare di perdono, invocando al massimo la «misericordia» (concetto molto caro a papa Francesco) rivendicando la loro di Storia. Ma ognuno ha diritto di metabolizzare (o meno) il male ricevuto con i propri tempi e i propri percorsi. Serve un profondo rispetto pure per loro che chiedono «almeno» un pentimento mai pronunciato. A noi piace sottolineare la forza e il valore «politico» oltre che umano del gesto di Anna Vescovi e Valentino Bortoloso, gesto fuori da ogni retorica e da ogni compiacimento «buonista» che può provare chi non conosce la convivenza col profondo dolore del male. Oltre alla carica religiosa e spirituale, la pacificazione di Valentino e Anna è una luce nella lunghe notti della repubblica di un Paese dove dopo settant’anni certe ferite sono ancora aperte e dove non c’è ancora (ci sarà mai?) condivisione di memoria. Un gesto, il loro, «politico» anche nel mettere nelle mani dell’altro la propria storia, il proprio pudore, la propria fragilità, la propria paura, le proprie ragioni, il proprio dolore e il suo superamento. È la forza carsica e interiore che tra dolore provocato e ricevuto dice quanto possa essere infinita la nostra umanità. E quanto possibile - pur tra difficoltà e contraddizioni - la ricongiunzione fra vittime e carnefici. È successo anche con il terrorismo rosso e nero, l’altra notte buia della nostra repubblica, i cui segreti resistono alla storicizzazione dei fatti riemergendo ogni tanto come risvolti di cronaca (che dire dell’infinito e semi fallimentare processo di Piazza Fontana?). Perdono e pacificazione sono parole pronunciate negli ultimi tempi anche fra le vittime e i carnefici degli «anni di piombo». Con contrapposizioni all’interno delle stesse famiglie: fratelli e sorelle degli uomini (politici, giornalisti, manager) trucidati dalle Br su opposti fronti. Ognuno con le proprie ragioni. A dimostrazione del difficile passaggio dal percorso individuale a quello condiviso e collettivo. Ma se vittime e carnefici (e i loro parenti) hanno il diritto di far decantare le loro tragedie e su di esse dividersi, è la politica che ha il compito di fare sintesi di questi sentimenti favorendo il processo di pacificazione e ricomposizione di questo Paese. Che spesso galleggia, ancora, tra nuovo odio e strumentali divisioni. Da quell’eccidio e da quella Storia, fatta di nazionalismi e di baratri che hanno fatto toccare il fondo all’umanità, sono passati 70 anni e sembra che poco si sia imparato. Anzi, magari con armi diverse - oggi più economiche che militari - spira forte il vento di un neo-nazionalismo la cui facciata è la demolizione della globalizzazione e la cui anima porta l’incognita di un mondo che rischia di riedificare una nuova memoria di dolore.

Pag 5 Il partigiano Teppa e la figlia del podestà, l’abbraccio divide i parenti delle vittime di Michela Nicolussi Moro e Elfrida Ragazzo L’eccidio di Schio: l’eredità della storia. Su perdono e riconciliazione non c’è ancora accordo Schio. La porta al perdono l’aveva aperta nel 2011 la figlia di Guido Rossa, il sindacalista della Cgil ucciso nel 1979 dalle Br. Sei anni fa i suoi assassini, Vincenzo Guagliardo e la moglie Nadia Ponti, ottennero la libertà condizionale e Sabina Rossa commentò: «Un gesto di civiltà. Nel nostro Paese nessuna pena può essere a vita, è un principio di democrazia». Quella mano tesa e stretta sei anni dopo dalla vicentina Anna Vescovi con l’abbraccio «di grazia e misericordia» a Valentino Bortoloso, il partigiano «Teppa» che le ammazzò il padre Giulio, il podestà, nell’eccidio di Schio del 6 luglio 1945, continua a suscitare voglia di emulazione ma anche fastidio e rabbia in altri familiari delle vittime «dei giustizieri rossi». Anche se parliamo di momenti storici e protagonisti totalmente diversi. «Tanta gente non smette di odiare ed esprime commenti feroci nei miei confronti, che non capisco - rivela Anna, psicoterapeuta -. La sera dell’abbraccio pubblico ho ricevuto la telefonata di un anziano che mi ha insultata e mi ha detto: non sai a chi hai stretto la mano, quello era uno stupratore e un assassino. Ma io vado dritta per la mia strada, non mi pento di ciò che ho fatto. La mia famiglia non mi ha cresciuta nel rancore, nonostante il grande dolore e quando, per mia volontà, ho conosciuto Bortoloso, ci siamo abbracciati e abbiamo pianto insieme. Io gli ho sconvolto la vita, come lui aveva sconvolto la mia 72 anni fa, quando ne avevo solo 2. Non ha dormito per mesi. Capisco che il suo possa essere stato un colpo di testa dei 20 anni, però il mio non è perdono, non ho mai pronunciato questa parola, che implica una rabbia e un odio a me sconosciuti. E’ un atto di misericordia - precisa Vescovi - che tocca il cuore e il cervello. Lui vuole essere giustificato, dice: i tempi erano quelli e l’eccidio è stata una conseguenza di altri gravissimi episodi. Io lo comprendo, benché più di qualcuno mi ritenga una sconsiderata». Oggi i due si sentono regolarmente, venerdì è andata a prenderlo lei per accompagnarlo in Curia a Vicenza, teatro dell’«abbraccio», e lui ha voluto conoscerne i figli. «Ci ha invitati a casa e ha fatto i gnocchi - racconta Anna -. Gli ho liberato il cuore da un macigno e non sa come ricambiare». Oggi Bortoloso, che nel 1985 ha ricevuto un diploma dall’allora presidente della Repubblica Pertini per «aver combattuto per la libertà d’Italia» ma che la scorsa estate su richiesta del sindaco di Schio, Valter Orsi, si è visto revocare la medaglia al valor partigiano concessa dallo Stato, ha 94 anni. Inizialmente condannato a morte dal governo militare, dopo tre processi ha goduto dell’amnistia concessa nel 1946 da Palmiro Togliatti per i crimini di guerra commessi da entrambe le parti in causa. Ne beneficiarono anche gli autori dell’eccidio e così «Teppa» finì per scontare 10 anni di carcere. Ha definito la sommaria esecuzione di 54 presunti fascisti (lo erano solo 27), compiuta nel carcere di Schio dalla brigata garibaldina comandata da «Romero» e «Teppa», «un atto inutile e doloroso». «Come può liquidare così una strage? - s’infervora Silvana Capozzo, che all’epoca aveva 2 anni e vide il padre Dario, vicecommissario prefettizio, salvarsi per miracolo — Ma stiamo scherzando? E’ stato un momento storico devastante, d’accordo, ma la vigliaccheria di entrare in una prigione e far fuori gente inerme non può essere giustificata. E atti come l’abbraccio non fanno che fomentare la rabbia. Mio padre era in cella sotto copertura, con una falsa denuncia, per trattare la tregua coi partigiani. Si è salvato saltando su una finestra. Quando è morto, 15 anni fa, ho trovato lettere a lui indirizzate da partigiani che lo ringraziavano per averli salvati dai fascisti». «Bortoloso non dovrebbe chiedere perdono nell’anno della misericordia?», incalza Matilde Sella, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime. Quel 7 luglio perse il nonno Antonio, farmacista e podestà a Valli e a Magrè: «Se Teppa avesse detto: mi dispiace, mi pento di quell’atto inutile e doloroso, avrei potuto perdonare. Così faccio fatica». Il dramma maturò a nove settimane dalla Liberazione, in una Schio che aveva pagato a caro prezzo lo spirito antifascista: negli occhi di tutti c’era ancora la mattanza di Pedescala, con gli 82 innocenti massacrati dai tedeschi in ritirata nel maggio 1945. «Chi non ha vissuto allora non può capire - dice Bortoloso -. Io ricordo tutto lucidamente, come ricordo i vent’anni nella steppa russa, ma non riesco più a parlarne. C’è sempre un prima e un dopo. Ho perso il sonno in questi mesi di discussioni, ma la notte

dell’abbraccio per la prima volta ho dormito dieci ore filate. Questo finale poteva essere vissuto molti anni prima, per quanto mi riguarda. Quei tempi sono ormai lontani ed è assurdo continuare a odiarsi». Concorda Meri Bernardi, che perse le zie Quinta e Settima, di 28 e 21 anni, mentre una terza zia, Caterina Sartori, si salvò. «Finì sotto gli altri cadaveri, che le fecero da scudo - rivela la nipote -. Raccontò del fiume di sangue che dal secondo piano, dov’erano le celle, colava fino in strada. Ognuno elabora il lutto a modo suo, è un percorso intimo e lento, che per me sta evolvendo verso il perdono. Dopo 72 anni non può più esistere rancore, c’è bisogno di messaggi positivi. Non è stato facile: anche il nonno fu ucciso dai partigiani. Una sera lo prelevarono da casa, dicendo che aveva parlato male di loro, e il suo corpo venne trovato solo un anno dopo la fine della guerra». La prossima settimana l’associazione farà il punto. «Abbiamo sofferto abbastanza - dice Dario, il cui padre Pietro scampò alle raffiche di mitra gettandosi a terra e fingendosi morto - bisogna voltare pagina e ricostruire. Il perdono reciproco è la via per trovare la serenità del cuore». Schio (Vicenza). «Non potrò mai perdonarlo». Giorgio Ghezzo, ristoratore scledense di 71 anni, si riferisce al partigiano «Teppa». Il padre Emilio, camicia nera, coperto dai cadaveri, rimase ferito gravemente la notte dell’eccidio e morì qualche anno dopo. Signor Ghezzo, cosa nel pensa dell’atto di pacificazione tra Anna Vescovi e Valentino Bortoloso? «L’abbraccio tra Anna Vescovi e Valentino Bortoloso è umanamente comprensibile e lo rispetto, ma non posso condividerlo - dice Ghezzo -. Lo considero un gesto non solo inutile ma anche dannoso. La riappacificazione c’era già stata nel 2005, con la firma dell’atto di concordia civica (favorito dall’amministrazione comunale, ndr) , non ne serviva un’altra». Firmò anche lei quell’accordo? «Sì, era l’unico modo per riuscire a ottenere dall’allora giunta di centrosinistra una lapide che ricordasse le vittime. Deposta la stele, prima nelle ex carceri e ora nella biblioteca civica, sono uscito dall’associazione dei familiari e ho creato un comitato, che poi si è sciolto. Non vado nemmeno alla messa ufficiale che celebrano al duomo ad ogni anniversario». Potrebbe mai perdonare e abbracciare «Teppa?» «No, non perdonerò mai un massacro avvenuto in tempo di pace. Se Anna voleva riconciliarsi con Bortoloso avrebbe dovuto tenerlo per sé, farlo in forma privata, non renderlo pubblico. L’eccidio è della gente di Schio, tutta. La città, prima che per l’industria laniera, è conosciuta nel mondo per quell’atto infame». Bortoloso e Vescovi hanno reso pubblica la loro riconciliazione perché, come hanno sottolineato in una lettera, sia da «monito ed esempio per tutti, soprattutto per le nuove generazioni». «Io spero invece che i ragazzi possano ricordarsi di quello che è successo, ciò che è stato è stato». Ha mai incontrato Bortoloso? «L’ho visto ma non gli ho mai parlato, è più forte di me». CORRIERE DEL VENETO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 La “religione” della mafia di Massimiliano Melilli Salvuccio cresimato Può un mafioso fare il padrino di battesimo? Giuseppe Salvatore Riina, condannato a otto anni e otto mesi per associazione mafiosa - pena interamente scontata - corleonese di nascita e padovano d’adozione, figlio dell’ex capo dei capi di Cosa Nostra Totò, ha ottenuto tutti i permessi necessari dalla Chiesa per battezzare la nipotina, figlia della sorella Lucia. Come ex membro di Cosa Nostra, per la Chiesa il rampollo Riina è da considerarsi scomunicato e quel battesimo non si sarebbe dovuto fare. La vicenda rimanda ad una storia più drammatica: il rapporto (pagano) tra mafia e cattolicesimo. Fin dalle origini, la mafia ha attinto alla simbologia cattolica per rinsaldare i legami tra i suoi associati e attribuire dignità alle proprie azioni attraverso una religione a propria misura, cercando compiacenza tra i ministri del culto. In dialetto siciliano «parrinu» significa prete ma anche padrino, inteso come capo del clan. I mafiosi devoti adorano

sopra ogni cosa le processioni, idolatrico è il loro culto di certe Sante: ecco i riti di iniziazione con le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato sopra il proprio sangue. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita battesimale a nuova vita. Il 6 giugno 1997 le forze dell’ordine fanno irruzione nel covo del boss di Cosa Nostra Pietro Aglieri, soprannominato «u signurinu», uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio: trovano una cappella privata. Aglieri, poi condannato all’ergastolo, è uno degli esempi di religiosità mafiosa. Come gli affiliati alla ‘ndrangheta e la storica devozione alla Madonna di Polsi, il cui santuario sorge nel comune di San Luca. Si deve a Nicola Gratteri, coraggioso magistrato calabrese, un’analisi che fa riflettere: «Di fronte ai capimafia, ci sono preti che chiudono un occhio e preti che li chiudono tutti e due. Nel santuario di Polsi i capimafia si riuniscono ogni anno a settembre per discutere le strategie criminali. E’ accertato che i killer della ‘ndrine calabresi prima di uccidere preghino la Madonna di Polsi». «Ho ucciso io Giovani Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo: «aveva 13 anni quando fu rapito e 15 quando fu ammazzato (sciolto nell’acido n.d.r.). Ho commesso e ordinato personalmente oltre 150 delitti». L’autore di questa agghiacciante confessione è Giovanni Brusca, killer dei corleonesi, soprannominato ‘u scannacristiani’ per la sua ferocia, collaboratore di giustizia che sta scontando diversi ergastoli. Nel suo covo furono trovati crocifissi, il Vangelo, immagini di Santi e Madonne. Resiste ancora oggi una Chiesa dalle molte anime, in cui l’opera dei sacerdoti impegnati a diffondere una pastorale antimafiosa si scontra spesso con l’atteggiamento di condiscendenza che altri religiosi mostrano per le ragioni del popolo di Cosa Nostra. Contro l’idolatria è insorto Papa Francesco. Il 21 marzo 2014 gridò tre volte «Convertitevi»” ai mafiosi. Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio ’93, richiamò alla conversione i mafiosi, prospettandogli l’inferno. Di contro, Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1965, gli anni cosidetti della Chiesa del silenzio, dichiarò: «La mafia è un’invenzione dei comunisti per ostacolare la Dc». Non esiste una sola mafia come non esiste una sola Chiesa. Pag 6 Riina jr.: “Alla mia nipotina insegnerò cos’è l’amore” di Andrea Priante Cresimato a Padova, padrino a Corleone. La Chiesa: “C’è il perdono, ma doveva evitare” Padova. «Ho sofferto», assicura Giuseppe Salvatore Riina. Il figlio di Totò u Curtu per la prima volta parla della decisione di fare da padrino al battesimo della nipotina, ma anche delle polemiche che ne sono seguite, della sfuriata del vescovo di Monreale e di come sia possibile coniugare la fede con un cognome che ormai è diventato sinonimo di mafia. A 39 anni, Riina Jr l’ha messo in conto: qualsiasi cosa faccia viene analizzata, alla ricerca della prova definitiva di come nessuno possa sfuggire al proprio destino. E il suo, di destino, pareva segnato fin da bambino: nato a Corleone, in quella che fu la roccaforte del potere mafioso, è il figlio terzogenito del «capo dei capi», condannato a sedici ergastoli. E quando, poco più che ventenne, «Salvuccio» fu arrestato per associazione mafiosa, sembrò chiaro chi sarebbe stato il prossimo boss di Cosa nostra. Invece, scontata la condanna a 8 anni di carcere, Riina jr spiazzò tutti scegliendo di andare a vivere a Padova. «Voglio costruirmi un futuro lontano dalla Sicilia», disse. Da allora sono passati quattro anni. Ha scritto un libro sulla sua famiglia, continua a lavorare per una Onlus di Padova che aiuta gli emarginati e a dover rispettare i legacci previsti dal regime di sorveglianza speciale al quale è sottoposto. Sempre inseguito dai riflettori e dalle polemiche. L’ultima è quella innescata da monsignor Michele Pennisi, il vescovo antimafia di Monreale, andato su tutte le furie alla notizia che al rampollo di casa Riina è stato concesso di fare da padrino alla nipotina. Nel mirino sono finiti il parroco di Corleone, che il 29 dicembre ha celebrato il battesimo della piccola, e don Daniele Marangon, che guida la parrocchia del Sacro Cuore di Padova e ha «certificato» che Riina aveva le carte in regola per partecipare al rito. Monsignor Pennisi ha definito il via libera a fare da padrino a sua nipote una scelta «censurabile e quantomeno inopportuna». Se l’aspettava? «È una polemica senza fondamento: le scelte religiose di ciascuno dovrebbero meritare riservatezza, sono decisioni troppo personali per essere date in pasto all’opinione pubblica. Ho sofferto perché la critica, ancora una volta, è arrivata da una persona che

non mi conosce e non sa nulla del percorso, anche spirituale, che ho fatto in questi anni». Quale percorso? «Mi riconosco nei principi cristiani. Con il mio parroco di Padova ho seguito un percorso di riflessione che ha comportato lo studio della Bibbia e del catechismo, e che soprattutto mi ha portato a ricevere il sacramento della cresima. Con questo sacerdote credo di aver instaurato un bel rapporto, tra noi c’è fiducia. Anche per questo mi dispiace moltissimo che pure lui sia finito in mezzo alle polemiche». Ammetterà che un conto è la sua personale scoperta della fede, un altro è presentarsi a Corleone - in quello che fu il feudo di Totò Riina - come padrino di sua nipote… «È stata mia sorella Lucia a chiedermelo. Tra me e lei c’è un legame fortissimo, pensi che rinviò le nozze perché voleva che fossi io ad accompagnarla all’altare, visto che nostro padre non poteva farlo. Nel 2008, quando uscii dal carcere e tornai a Corleone per un periodo, organizzò in tutta fretta il matrimonio in modo tale che potessi esserle accanto. Anche all’epoca si sprecarono le critiche. Quando lo scorso anno mi disse che aspettava una bimba, e poi quando mi ha annunciato che la mia nipotina era nata, ho provato una gioia immensa». E suo padre, come ha reagito? «Era felice, è ovvio. Ma anche consapevole che non potrà vedere crescere la sua nipotina». Di recente l’ha incontrato, su autorizzazione del tribunale di Venezia. Come è andata? «Ho rivisto mio padre per la prima volta dopo 14 anni e mezzo, era ricoverato in ospedale. E’ stato un incontro molto emozionante». Monsignor Pennisi lamenta il fatto che lei «non ha mai espresso parole di ravvedimento». «Ripeto: il vescovo sa solo quello che legge sui giornali, non mi conosce. Ad ogni modo ho pagato fino in fondo il conto con la giustizia italiana, e in parte lo sto ancora facendo visto che sono sottoposto a delle limitazioni». Ma un padrino dev’essere anche un esempio. Che valori cristiani può insegnare a sua nipote? «Il valore dell’amore, perché io le vorrò bene per sempre». Venezia. La Chiesa veneta si divide sul caso Riina. «E’ molto difficile commentarlo - riflette monsignor Adriano Tessarollo, vescovo di Chioggia - da una parte c’è l’opportunità di redenzione concessa dalla nostra religione, dall’altra l’impatto sull’opinione pubblica del passato di questa persona. Se il suo percorso di conversione è autentico e non di facciata, Salvatore Riina avrebbe potuto evitare di fare il padrino, magari considerando questo sacrificio la penitenza finale del suo percorso interiore». «Il perdono e la possibilità di pentirsi non si possono negare a nessuno - conviene don Marino Callegari, responsabile di Caritas Triveneto - però è opportuno che alcune redenzioni rimangano private. Troppa visibilità rende faticoso all’opinione pubblica comprenderle, quindi Riina doveva essere più accorto nel gestire la vicenda. Il sacerdote padovano che lo ha cresimato non ha nessuna colpa». Ha una posizione diversa don Albino Bizzotto, presidente dell’associazione padovana Beati i costruttori di pace: «Mi sembra inutile alzare un polverone sul nulla. Le figure del padrino e della madrina hanno perso totalmente la loro valenza storica, che era quella di sostituire i genitori in caso di morte prematura. Oggi non è più così perciò, pur non entrando nel merito della vita di una persona che non mi sento di giudicare col codice di diritto canonico o penale in mano, invito tutti a fare i conti con la realtà». Prudente don Dino Pistolato, numero due del Patriarcato di Venezia: «Va considerato l’elemento del perdono e della misericordia, che fa parte della storia della Chiesa - spiega -. Però bisogna appurare che la redenzione sia autentica e non solo di facciata, casuale o di natura opportunistica. Se Riina ha dimostrato il suo reale cambiamento spirituale, senza sminuire la gravità dei reati che ha commesso, nulla avrebbe potuto impedirgli di fare il padrino al battesimo della nipote. Del resto - chiude don Dino - anche San Paolo cacciava i cristiani e poi si è convertito ed è diventato uno degli apostoli». LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 15 Nordest bloccato, la mobilità sociale non funziona più di Daniele Marini

Con la crisi sono aumentati l’indice di povertà l’esclusione Il fenomeno della polarizzazione delle condizioni è uno dei lasciti della crisi finanziaria ed economica avviata nel 2008. Quello più evidente ha investito il sistema produttivo: le imprese si sono divise in modo sempre più netto fra chi ha ottenuto performance positive e chi ha manifestato difficoltà sempre più marcate. Generalmente, le prime sono quelle che hanno investito nei processi di innovazione e si sono aperte alle relazioni con i mercati esteri. Le seconde, invece, sono quante non hanno saputo/potuto innovare e hanno operato sul mercato domestico. Fra questi due poli, lo spazio di manovra ispirato a un'attesa passiva in vista di un miglioramento, ha prodotto solo esiti negativi e fatto scivolare fuori dal mercato. Ora questo processo di divaricazione si sta spostando dal piano del sistema produttivo a quello delle famiglie e degli individui. E tutto fa pensare che avrà una velocità relativamente elevata, di cui già oggi avvertiamo i segnali. È sufficiente consultare gli ultimi dati per verificare l'accentuarsi di un fenomeno di recrudescenza della povertà e di polarizzazione nelle condizioni economiche delle famiglie. Secondo l'Istat, nel 2015 l'incidenza della povertà assoluta aumenta al Nord sia in termini di famiglie (da 4,2 del 2014 a 5,0%) sia di persone (da 5,7 a 6,7%). Questi dati ci collocano lontano dalla soglia individuata dalla strategia Europea 2020 che ha indicato per l'Italia una quota poco inferiore ai 13 milioni di individui, e oggi superiamo i 17 milioni. E mentre in Europa mediamente si assiste a un calo della povertà, noi scaliamo verso l'alto la classifica, purtroppo unico caso in cui saliamo nelle graduatorie internazionali. E non solo aumenta l'esclusione sociale, ma anche la distanza fra ricchi e poveri. L'Istat evidenzia come fra il 2009 e il 2014 il reddito in termini reali cali in misura maggiore per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando così la distanza da quelle più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte rispetto alle più povere. La polarizzazione delle condizioni economiche, investe anche le famiglie nordestine e, come sottolinea l'ultimo rapporto Caritas del Nordest, scardina le tradizionali categorie sociali che - in precedenza - erano quelle più a rischio di esclusione. Il 50,3% delle persone accolte nelle strutture residenziali delle 15 Caritas sono italiani, gli stranieri comunitari sono il 5,6%, gli extracomunitari il 44,1%. Non è un caso che dopo il voto in Gran Bretagna (Brexit), l'elezione di Trump e il diffondersi di movimenti populisti che intercettano parti significative di elettorato appartenente al ceto medio, l'attenzione delle istituzioni e della politica verso il tema della coesione sociale stia rientrando nell'agenda politica. Come sia modificata l'appartenenza ai diversi gruppi sociali da parte della popolazione è l'oggetto dell'ultima rilevazione di Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo - Cassa Risparmio del Veneto. L'esito rimarca la polarizzazione nelle condizioni economiche percepite. Se nel 2011 poco più della metà dei nordestini (54,3%) si ascriveva al ceto medio-alto e alto, oggi solo il 26,4% si colloca nei medesimi ceti sociali. Viceversa, se aumenta la quota di quanti si identificano nel ceto basso (9,0%, era il 2,7% nel 2011), accrescono quanti vanno a ingrossare le fila del ceto medio-basso che dal 43% (2011) passano al 64,6% (2016). Dunque, è soprattutto una parte consistente del ceto medio a subire una divaricazione nelle condizioni economiche percepite, sospinte a una mobilità verso il basso. È un fenomeno che investe l'intero Nordest, ma che presenta esiti diversi nelle tre regioni. I trentini e gli alto atesini detengono il record del Pil pro capite più elevato d'Italia con 34.856 euro, in leggero calo fra il 2008 e il 2014 (-3,5%), mentre i veneti si collocano all'8° posto (-9,4%) della classifica nazionale e i friul-giuliani al 13° (-11,9%). Pur tuttavia, molto meno degli altri ritengono di appartenere ai ceto medio-alti e alti, sia nel 2011 (29,8%), che nel 2016 (12,0%). A segnalare come la percezione e l'immaginario si costruiscano in modo disancorato dalla realtà oggettiva. Confrontando le auto-collocazioni nei due periodi è possibile definire la mobilità sociale percepita dei nordestini, ovvero come e se funziona l'ascensore sociale. L'esito ci consegna un Paese in gran parte bloccato. Per quasi i due terzi (67,6%) l'ascensore sociale rimane sempre allo stesso piano: nel periodo esaminato (2011-16) non hanno conosciuto scostamenti significativi, al più hanno avuto una mobilità orizzontale. Ciò è avvenuto, in particolare, in Trentino Alto Adige (80,8%), per i più giovani (68,2% fino a 34 anni), i laureati (69,4%), chi appartiene ai ceti medio-alto e alto (86,6%). Invece, per un terzo (31,5%) l'ascensore sociale è sceso verso il basso, in particolare in Friuli Venezia Giulia (39,4%). Tale discesa coinvolge le persone al crescere dell'età (41,% oltre 65 anni), chi ha un titolo di studio

medio-basso (35,8%) ed è disoccupato (49,6%). Soprattutto, interessa chi appartiene al ceto medio-basso (41,7%) e basso (67,4%). Sono molto pochi (0,9%) coloro che hanno conosciuto una mobilità sociale ascendente e in modo pressoché esclusivo fra chi apparteneva al ceto medio-alto (11,1%). Dunque, per la maggioranza dei nordestini l'ascensore sociale è bloccato. Ma se in Trentino Alto Adige (80,8%) rimane per lo più fermo, in Veneto (31,9%) e Friuli Venezia Giulia (39,4%) diversi sono coinvolti in una discesa. Così, non solo siamo di fronte a una polarizzazione delle condizioni economiche, ma è evidente come - in assenza di possibilità di mobilitazione sociale ascendente - si palesi anche un "effetto spirale" che sospinge verso una marginalità ulteriore chi già si trovava in difficoltà, da un lato. E, dall'altro, risucchi verso l'alto solo quanti occupavano già posizioni elevate. Parafrasando il compianto sociologo Bauman, più che "liquido", viviamo in un paese "vischioso", dove l'ascensore sociale funziona poco o, quando funziona, è altamente selettivo. Ripresa economica lenta e mobilità sociale bloccata sono due ostacoli da rimuovere velocemente per costruire il futuro del Nordest. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Illusioni elettorali a sinistra di Paolo Mieli Le leggi e il voto Colpisce che entrambi gli schieramenti, centrodestra e centrosinistra, ritengano sia venuto il momento per riproporre le primarie. Quelli di destra non le hanno mai fatte e, per loro, potrebbe essere una bella esperienza, pur se realizzata fuori tempo massimo. Ma a sinistra sanno di cosa si tratta. Qui l’Ulivo si presentò nel 1996 come un soggetto unitario contrapposto al Polo delle Libertà e le primarie, dieci anni dopo, servivano ad indicare il candidato della coalizione alla guida del governo. Adesso, in assenza del ballottaggio, è ben difficile che un qualsiasi sistema elettorale possa produrre una maggioranza parlamentare autosufficiente. E quindi avrà un senso solo simbolico designare in anticipo il capo del governo. Anche se tutti quelli del Pd restassero nel partito madre e riuscissero a portare dalla loro qualche gruppo confinante, appare assai ambizioso ritenere che quel partito o coalizione possa ambire a conquistare il 40%. Potrebbe legittimamente provarci e forse tra due o tre tornate elettorali anche riuscirci. Ma al momento quelli usciti dalle primarie sarebbero solo candidati di bandiera. Stesso discorso vale per il centrodestra, per la Destra da sola e per i Cinque Stelle. Diversa, dicevamo, sarebbe stata la situazione con una qualunque forma di ballottaggio, un sistema che però, prima ancora che dalla Corte costituzionale, è stato abbandonato per strada da tutti coloro che per un trentennio ne avevano fatto la loro bandiera. È stato sufficiente che i pentastellati prevalessero nei ballottaggi alle elezioni comunali perché schiere di politici e studiosi che fino al giorno prima unanimi ne avevano esaltato le virtù, smettessero anche di parlarne. E non è stato, ammettiamolo, uno spettacolo edificante. Senza ballottaggio, i sistemi elettorali più o meno si equivarranno dal momento che, nell’Italia tripolare, finiranno per avere, più o meno tutti, effetti proporzionali. La trattativa per produrre un sistema nuovo di zecca o per armonizzare ciò che è passato attraverso il setaccio della Consulta rischia così di essere (o di apparire, che in politica è la stessa cosa) un espediente volto esclusivamente a guadagnare tempo. Ed è difficile immaginare che per dieci mesi si resti a fischiettare discutendo di vantaggi e svantaggi di questo o quel metodo d’elezione dei parlamentari (cosa che del resto si sta facendo da un’abbondante trentina d’anni). Perciò se si desidera che la legislatura duri fino all’inizio del 2018, le si devono dare traguardi realistici, credibili e ambiziosi in campi diversi da quello delle tecniche di voto. Altrimenti la vittoria delle forze antisistema, già probabile se si votasse a giugno, potrebbe, tra un anno, essere travolgente. Quanto alle alleanze preelettorali, ne verranno escogitate di stravaganti per allargare ognuno il proprio bacino e trainare piccoli partiti che rischierebbero altrimenti di infrangersi sulla soglia di sbarramento: «coalizioni» tattiche, oltremodo friabili, destinate a dissolversi un attimo dopo l’ingresso in Parlamento come accadde per il patto tra Veltroni e Di Pietro nel 2008 e poi nuovamente, nel 2013, per

quello tra Bersani e Vendola. Per non parlare dell’altro - altrettanto caduco, nello stesso 2013 - tra Pdl, Lega e Fratelli d’Italia. È andata così nell’ultimo decennio e adesso probabilmente andrà peggio dal momento che le alleanze vere, quelle destinate a dar vita al governo non verranno sottoposte agli elettori e si potranno fare solo in Parlamento, sulla base di alchimie in partenza inimmaginabili. Per giungere infine a qualcosa che con molta buona volontà ribattezzeremo Grande Coalizione ma che, lo si può stabilire fin d’ora, tale non sarà. Grandi Coalizioni possono dirsi solo quelle imperniate sui due più consistenti partiti rivali che stabiliscono tra loro una tregua in vista di un successivo ritorno alla competizione. Non possono essere definite tali (e non è solo questione di nomi) quelle che danno vita ad un governo che si regge su poco più del 50% dei parlamentari e che, per giunta, potrebbe essere costretto a lasciare all’opposizione il partito di maggioranza relativa: esperimento inedito e, si presume, tutt’altro che stabilizzante. Oggi sembra che si sia dimenticato cosa accadeva prima degli anni Novanta, quando non erano gli elettori a decidere chi dovesse governare. Le maggioranze si facevano e si disfacevano in Parlamento ricorrendo a modalità che, con il passar del tempo, produssero nell’elettorato un effetto straniante. Ma quello era ciò che da noi era sempre capitato fin dal 1861 quando nacque lo Stato italiano. L’Italia è stato l’ultimo Paese democratico in cui si è data l’alternanza per via elettorale, senza passaggi parlamentari intermedi (come quello che si ebbe a metà anni Novanta con il governo presieduto da Lamberto Dini). L’ultimo. Qui, a partire dal 1861 fu solo nel 2001 che una maggioranza (in quel caso di centrosinistra) venuta fuori cinque anni prima dalle urne, cedette il passo ad una (di centrodestra), in seguito al responso delle stesse urne. Poi la cosa si ripeté nel 2006 e nel 2008 ma già nel 2013 il sistema entrò in crisi e i governi ripresero ad esser fatti in Parlamento senza un decisivo contributo degli elettori. Probabilmente questo accadde perché avevamo scelto di non andare al voto nel 2011 quando la legislatura era già in evidente agonia e conseguenza di questa scelta fu nel 2013 la valanga per il movimento Cinque Stelle. Adesso, indipendentemente da quando si andrà al voto, è probabile che la prossima legislatura non sarà tra le più stabili nella storia dell’Italia repubblicana. E non è da escludere che successivamente saremo chiamati a tornare alle urne in tempi brevi, come è accaduto recentemente in Grecia e in Spagna. In questa prospettiva è bizzarro che, a sinistra, sia stato resuscitato l’Ulivo. Forse lo si è fatto perché l’immagine della creatura di Romano Prodi evoca successi e unità. Già, l’unità. Nel Novecento i gruppi che venivano espulsi o si scindevano dal Partito socialista presero l’abitudine di inserire nella loro denominazione il termine «unità» ad occultare il fatto che la loro comparsa sulla scena annunciava la divisione della sinistra in ulteriori tronconi. Per primi, nell’ottobre del ’22, si definirono Partito socialista «unitario» i compagni di Filippo Turati e Giacomo Matteotti espulsi dal Psi nei giorni della marcia su Roma. Nel ’48 si chiamarono «Unità socialista» le due formazioni ex Psi - guidate da Giuseppe Saragat e da Ivan Matteo Lombardo - che avevano rifiutato la scelta frontista alle elezioni del 18 aprile. Nel ’49, pretesero di darsi nuovamente il nome di Partito socialista «unitario» i seguaci di Giuseppe Romita e Giuseppe Faravelli fuorusciti dal Psi. Si autoproclamarono invece Partito socialista di «unità» proletaria coloro che, nel ’64, con Tullio Vecchietti e Lucio Libertini, abbandonarono il Psi al momento dell’ ingresso nel primo governo di centrosinistra organico. E per la terza volta vollero denominarsi Partito socialista «unitario» quelli che, guidati da Mauro Ferri (ma regista dell’operazione fu Giuseppe Saragat, all’epoca Presidente della Repubblica) nel luglio del 1969 ruppero con il Partito socialista unificato e provocarono la caduta del governo guidato da Mariano Rumor. Unità, unità, unità: ogni volta che lasciavano il partito madre quei grandi della sinistra storica si definivano «unitari». Ed è un segnale interessante che queste nuove formazioni della sinistra prendano l’abitudine di proclamarsi «uliviste». Pur se è improbabile che, in virtù di questo cambio di denominazione, gli scissionisti del nuovo millennio abbiano prospettive di successo maggiori di quelli che nel secolo scorso si dicevano «unitari». LA REPUBBLICA Pag 1 Il rischio dell’Italia a due velocità di Massimo Giannini Il ministro del Tesoro Padoan che a Palazzo Madama parla di Europa a un'aula mestamente vuota, dove bivaccano annoiati tredici senatori, fotografa la miserabile

ipocrisia della politica tricolore. Sempre pronta allo strepito usa-e-getta da studio televisivo, mai capace di elaborare un pensiero lungo in una sede istituzionale. Il futuro dell'Ue sarà il tema dominante delle prossime campagne elettorali. In Olanda, in Francia, in Germania e anche in Italia (che si voti a giugno o nel 2018). Dall'Europa che verrà dipenderanno le vite di noi cittadini che la abitiamo. La crescita e il lavoro, il welfare e le tasse. Ma nel Paese, al di là delle schermaglie tattiche e delle sparate strumentali, manca la percezione della posta in gioco. Il Fronte Popolare anti-sistema ha un programma drammaticamente chiaro. Truppe grilliste e destre "sovraniste" gridano sì alle piccole patrie, no alla moneta unica. Come Grillo e Salvini, ora anche Marine Le Pen infiamma il suo "popolo" evocando Trump, e propone una pericolosa saldatura culturale tra la deriva nazionalista europea e la pretesa anti-globalista americana. Cosa rispondono le forze progressiste e riformiste? Poche idee, molto confuse. Angela Merkel ha finalmente capito che l'attendismo non è una politica. La proposta di un'Europa "a due velocità" apre uno scenario inedito, ma tutt'altro che irrealistico. Le due velocità esistono da sempre, nei fatti e nei numeri. Dai tempi di Maastricht (febbraio 1992) l'Europa del Nord, trainata dalla Germania, viagga in business class, mentre l'Europa del Sud, il famoso Club Med, viaggia low-cost. Il modello esplicitato dalla Cancelliera di ferro rende strutturale questa differenza. L'Europa va avanti con le geometrie variabili, con chi ci sta e soprattutto con chi ce la fa. E qui si apre la grande questione, che ci riguarda più da vicino. L'entusiasmo con il quale il premier Gentiloni è salito sul carro della Merkel è comprensibile. L'Italia, Paese fondatore, vuole restare nel gruppo di testa. Ma la proposta della Cancelliera implica un cambio di passo politico, istituzionale ed economico, che l'Italia in questo momento non sembra in grado di garantire. Veniamo da due anni di scontro permanente con la Commissione di Bruxelles, abbiamo beneficiato di 19 miliardi di flessibilità, abbiamo appena sforato i vincoli di deficit per 3,4 miliardi e tuttora pende su di noi il rischio di una procedura di infrazione. Abbiamo una crescita allo 0,8% (quattro volte meno della media Ue), e un debito al 134% del Pil (due volte il parametro dei Trattati). Abbiamo una produttività cresciuta del 4% dal 2000 ad oggi (contro il 19,2% della Germania e il 25,2% della Francia). Nelle condizioni date, l'Italia non sta nel blocco dei paesi che corrono, ma nel gruppone di quelli che arrancano. A meno che non sia pronta ad assumere impegni ancora più stringenti. Siamo pronti a farlo, o anche solo a discuterne? Grillo e Salvini, i pifferai magici che ascoltano l'eco di Trump, sanno che musica suonare, e come farsi seguire da cittadini-elettori esausti da un ventennio di sacrifici e di austerità. Sfasciamo questa Europa, torniamo alla liretta, che metteva al riparo le famiglie a suon di aste dei Bot e le imprese a colpi di svalutazioni competitive. I partiti "responsabili", di fronte a questa bolla narrativa, che altro "racconto" sanno proporre? L'unione monetaria, da sola, è pericolosamente "zoppa" (come diceva Ciampi). Il Patto di stabilità, fatto solo di vincoli numerici, è maledettamente stupido (come diceva Prodi). Ma c'è qualcuno, a partire dal Pd, che spiega perché l'euro va comunque difeso, visto che all'Italietta dell'inflazione e dei tassi di interesse a due cifre è servito come il pane? C'è qualcuno che racconta come e perché, invece di fare l'Europa a due velocità, è indispensabile riscrivere i Trattati, e prevedere che il tetto del deficit va portato a quota zero per la parte corrente, lasciando il 3% per finanziare la sola spesa per investimenti? Trump introduce i dazi per difendere l'occupazione: qual è il modello europeo, a parte i mini-jobs tedeschi o i voucher italiani? Trump smonta la riforma sanitaria di Obama: qual è il modello europeo, oltre ai tagli lineari al Welfare? Domande senza risposta. Implicherebbero una "visione", che al momento le classi dirigenti di questo Paese (non solo l'establishment politico, ma anche quello imprenditoriale) non sembrano avere. Le domina la confusione e la paura. Noi e l'Europa, noi e l'euro. Questa sarà la "faglia" che attraverserà il prossimo voto. Bisognerà trovare risposte serie e credibili. Anche a chi, come il ministro tedesco Schaeuble, lancia l'attacco frontale a Mario Draghi, contestando la politica monetaria "troppo accomodante" della Bce, che non fa più l'interesse della Germania. Una linea che stringe un Paese come il nostro in una morsa. Che succederebbe al nostro debito pubblico, alle nostre banche e ai nostri portafogli se la Bce rialzasse i tassi di interesse, o chiudesse anzitempo i rubinetti del "Quantitative easing"? Sarebbe un passo verso l'abisso. Ma servirebbe qualcuno che spiegasse a Schaeuble che senza l'ombrello di Draghi il tasso di crescita nell'eurozona tra il 2011 e il 2016 sarebbe stato inferiore del 5,6% (con un - 10,4 in Germania, - 7,4 in Italia, - 5,9 in Francia). Il totale degli occupati

sarebbe stato inferiore di 6,6 milioni di persone (mentre i disoccupati sarebbero stati 5,6 milioni in più). E il debito pubblico sarebbe stato pari a 10.572 miliardi (quasi 1.000 miliardi in più di quello attuale). Di tutto questo, nel Belpaese, non si parla. Siamo fermi alla post-verità di Renzi e alle fake-news della Raggi. Un tempo eravamo tutti euro-entusiasti. Ora siamo divisi, tra euro-combattenti in piazza ed euro-indifferenti nel Palazzo. Chiunque vinca, sarà un disastro. LA STAMPA Costi e benefici del dialogo con Donald di Marta Dassù Dopo la prima telefonata fra Donald Trump e Paolo Gentiloni sappiamo che il presidente americano sarà a Taormina per il G7 italiano. Bene. Ma è anche bene discutere come impostare le relazioni con un Presidente rivoluzionario. In epoca di «deal» bilaterali, Roma non può più dare per scontato la vecchia regola aurea della propria diplomazia, secondo cui atlantismo ed europeismo si rafforzano a vicenda. E neanche la vecchia sub-regola, secondo cui l’appoggio di Washington è sempre servito a rafforzare il potere negoziale dell’Italia verso i grandi Paesi europei. Se il passato è passato, l’Italia deve valutare in modo neutro, non ideologico, costi e benefici del rapporto con un’amministrazione americana che appare intenzionata - per ora a parole, poi si vedrà - a rilanciare il rapporto con una Gran Bretagna in uscita dall’Ue, ad appoggiare le forze politiche sovraniste rispetto a quelle europeiste e a vedere nella Germania un problema, piuttosto che la soluzione del problema. Guardiamo brevemente ai costi potenziali. Primo: è particolarmente delicato, per l’Italia, il tema del «burden-sharing» nella Nato (la divisione degli oneri della difesa). Per un Paese ad alto debito pubblico, con una crescita anemica e già in seria difficoltà rispetto ai vincoli europei, è difficile immaginare un rapido aumento delle spese militari verso l’obiettivo del 2% del Pil (la spesa militare italiana è ancora di poco superiore all’1%, nonostante gli impegni che abbiamo assunto sui tavoli Nato). Sempre nella colonna dei costi potenziali: se a Washington prevalesse davvero un orientamento protezionista, ne soffrirebbe non solo la Germania ma anche un Paese export-driven come l’Italia, che ha forti interessi economici sia nel mercato interno europeo che nel mercato americano. In genere, e come ha dimostrato il travagliato dibattito sul Ttip – l’accordo sul commercio e gli investimenti fra i due lati dell’Atlantico, ormai gettato alle ortiche -, l’Italia ha sempre qualcosa da perdere di fronte a una rottura aperta fra Berlino e Washington. È uno scenario che oggi non può essere escluso. Ai costi economici si sommano, per il governo attuale, costi politici potenziali, collegati al fatto che le forze «neo-sovraniste» italiane si ritengono rafforzate dall’ascesa di Trump - oltre che dalla politica di Putin. A torto o a ragione, si vedrà meglio dopo le elezioni francesi, gli anti-euro nostrani ritengono di potere contare su un contesto molto più favorevole. Ma vediamo anche i possibili benefici. Una distensione americana con la Russia (in vista di una collaborazione sul fronte siriano e nella lotta all’Isis) va nella direzione a lungo auspicata dai governi italiani - in questo caso con un sostegno bipartisan e un ovvio interesse dei gruppi industriali. Non è scontato, tuttavia, che l’apertura di Trump a Putin funzioni davvero; l’Italia - senza immaginarsi in ruoli eccessivi - potrebbe favorire un dialogo con la Russia che non passi completamente sopra la testa dell’Europa. Secondo beneficio potenziale, da valutare alla prova dei fatti: l’appoggio americano (confermato da Trump a Gentiloni) ai tentativi italiani di stabilizzazione della Libia, incluso l’ultimo accordo fra Roma e Tripoli per arginare i flussi migratori dal Mediterraneo. Il dossier Libia, in chiave di rapporto Italia/Stati Uniti, è in realtà più complesso di quanto non sembri. Come noto, l’Italia sostiene il premier Fayez al-Sarraj, al governo di Tripoli dal marzo scorso; e ha deciso, quale unico Paese europeo, di riaprire la propria ambasciata. Ma questo avviene in un contesto di persistente debolezza del governo Sarraj, in una Libia ancora fortemente segnata dalla lotta interna fra fazioni e dall’ascesa in Cirenaica del generale Khalifa Haftar, appoggiato dall’Egitto, da Mosca e meno apertamente dalla Francia. Come scriveva Maurizio Molinari su questo giornale, gli attori esterni si trovano quindi di fronte a un bivio: o appoggiare la spaccatura definitiva della Libia o favorire con Roma un tentativo di conciliazione fra Tripoli e Tobruk. Le nuove scelte di Washington, dopo la sponda che John Kerry, ex segretario di Stato, aveva offerto a Roma, saranno rilevanti: l’interesse strategico dell’Italia è che un accordo eventuale Stati Uniti-Russia sul fronte mediterraneo non

spinga verso una spartizione di fatto della Libia ma in senso opposto. Lo richiedono sia le nostre priorità in campo migratorio che le nostre priorità energetiche (difesa dei terminali petroliferi in Libia e sfruttamento del giacimento di Zohr in Egitto, di cui Eni ha venduto una quota a Rosfnet). Più problematica, per l’Italia, è la questione generale dei rapporti con l’Islam. Un aumento dell’impegno americano in chiave anti-Isis, e un accordo Stati Uniti-Russia nello stesso senso, rientrano nei nostri interessi di sicurezza; ma l’Italia, con le sue basi militari e la sua sovra-esposizione geografica, dovrà discuterne le modalità. Roma ha invece criticato, anche se in modo soft, il bando temporaneo deciso da Trump nei confronti dei rifugiati da sette Paesi islamici, fra cui Libia ed Iran. Sono posizioni che, al di là di qualunque considerazione di principio, riducono la possibilità che il governo italiano ottenga ciò che persegue da anni: accordi internazionali ed europei per la gestione dei flussi dal Mediterraneo. La rivoluzione Trump travolge vecchi assunti su cui si è retta, dal 1945 in poi, la collocazione internazionale dell’Italia. Al tempo stesso, costringe il nostro Paese a scuotersi dalle sue vecchie pigrizie mentali, per ragionare - finalmente - in termini di costi e benefici. Letta in questa prospettiva, la relazione che è appena cominciata con l’amministrazione Trump è più ambivalente di quanto non sembri. E dovrà essere impostata con molta attenzione da parte di un Paese come il nostro: pesante e fragile sul piano economico, instabile e diviso su quello politico, con una posizione geopolitica cruciale sul fronte mediterraneo. La tenuta dell’Italia sarà decisiva per il destino dell’Europa post-Brexit; e la tenuta dell’Unione europea - con le riforme che appaiono ormai indispensabili, incluse le differenti velocità di cui ha appena parlato Angela Merkel - sarà decisiva per l’Italia, troppo vulnerabile per scegliere un destino solitario. Nella logica Trump del «deal-making», Roma dovrà argomentare molto chiaramente che il beneficio della relazione con Washington non può comportare dei costi sul lato europeo. È essenziale, per i nostri interessi nazionali, che la nuova amministrazione americana ne tenga conto: per pragmatismo, se non per convinzione. IL GAZZETTINO Pag 1 Roma e G7, occasioni per una nuova Ue di Marco Gervasoni Sono passati solo tre giorni dal vertice maltese ma da noi si è già molto discusso dell'Europa a «diverse velocità». Un fermento assente finora negli altri paesi, almeno a giudicare dallo spazio ristretto dedicato dai media estero alla notizia. L'attenzione dell'Italia, e del governo, alla proposta non è casuale. Si è infatti capito che non si tratta della vecchia idea delle «due velocità», che riguardava l'integrazione monetaria e più generale economica. Qui siamo in uno scenario diverso. Si prevede infatti che si formino gruppi di paesi più connessi, a seconda di diversi obiettivi, con lo scopo di rendere snelle le procedure decisionali e di non forzare troppo i paesi recalcitranti. E' un percorso che, se intrapreso seriamente, significherà l'abbandono delle utopie federaliste e messianiche degli «Stati Uniti d'Europa» in nome di una realistica presa d'atto delle durezze della storia e del riconoscimento che gli Stati nazione contano ancora, e molto. Sembra, in ogni caso, l'ultima chance per l'Europa: l'alternativa sarebbe una disgregazione, con perdita progressiva di pezzi, e una lenta eutanasia. Il tutto si dipanerà nei prossimi mesi, ed è per questo che l'esecutivo e l'opinione pubblica del nostro paese sono più attenti di altri. L'Italia ha infatti non solo la possibilità, ma il dovere di collocarsi nei paesi di testa che decideranno le modalità di questo reset dell'Europa. E con due vertici internazionali importanti, quello di marzo a Roma e quella del G7 a Taormina a fine maggio l'ospite, il governo italiano, ha il diritto di stilare una sorta di ordine del giorno. Una delle debolezze croniche dell'Europa, ben prima di Maastricht e dell'allargamento, sta nella politica estera: tutti conoscono la famosa battuta di Kissinger «Who do I call if I want to call Europe?», chi devo chiamare quando voglio chiamare l'Europa? E allora una sfida importante, che investe l'Europa o almeno un gruppo di paesi interessati a cimentarvisi, riguarda la Russia. Ieri su queste giornale Romano Prodi ha esplicitamente invitato il governo italiano a muoversi con l'obiettivo di far rientrare Mosca nel G7, magari cercando già di far partecipare Putin come osservatore a Taormina. Gli ostacoli, come ammette l'ex premier, sono numerosi: ma il senso della politica non è quella di cercare di rimuoverli? La rottura e le sanzioni, come ricorda giustamente Prodi, furono volute soprattutto da Washington e da Londra; ma ora Trump sembra pensarla

diversamente da Obama, ed è perciò fondamentale che l'Europa giochi una sua parte, magari un attimo primo degli Usa, per non apparire subalterna. L'Italia è sempre stata tra i paesi più critici riguardo a questa deriva anti-russa; è venuto il momento di essere più espliciti, e magari di sfruttare la vicinanza della socialdemocrazia tedesca a Mosca. Secondo fronte. Non c'è politica estera senza un esercito degno del nome: la sfida di questi mesi sta perciò nel gettare le fondamenta di un'armata europea. Come italiani ne abbiamo in qualche sorta un diritto di primogenitura, visto che la proposta di una Comunità europea di difesa fu lanciata per primo dal governo De Gasperi e dal ministro degli Esteri Carlo Sforza nel 1950. Abortita allora per l'ostilità della Francia, oggi sembrano invece essere mature le condizioni, soprattutto se a Parigi diventasse presidente Macron. Francia, Germania, Italia e Spagna possono essere il primo nucleo di «volenterosi», come ha proposto sempre ieri su queste colonne il Ministro della Difesa Pinotti ma qualche giorno prima anche il presidente del Parlamento Europeo, Tajani. Il match si giocherà nei prossimi mesi. E non possiamo fare la parte del pugile suonato. Pag 12 L’agenda di Trump: ecco le altre mine pronte ad esplodere di Flavio Pompetti Donald Trump è arrivato a Washington due settimane fa con la promessa di sconvolgere lo status quo. Bisogna dargli credito di aver centrato l'obiettivo in un tempo brevissimo: il congresso è paralizzato dall'opposizione democratica al senato, una lunga lista di cancellerie estere sono ancora sbalordite dagli schiaffi ricevuti, e gli aeroporti americani sono in uno stato di caos, mentre il potere esecutivo e quello giudiziario si combattono a colpi di sentenze e di appelli. L'iconoclastia del nuovo presidente si sta definendo come uno stato di conflittualità permanente, nel quale Trump conquista ogni giorno l'onore della cronaca e dei titoli di prima pagina sui giornali di tutto il mondo. Cosa ci aspetta nel prossimo futuro? Sarà mai possibile sostenere il ritmo di queste due prime settimane di governo? Proviamo ad analizzare punto per punto l'agenda del primo cittadino americano, in cerca delle prossime mine in attesa di esplodere. Il bando sui visti in primo luogo. Oltre alle implicazioni sul piano interno con la battaglia ingaggiata con le toghe, Trump ha un problema crescente di diplomazia estera. L'Iraq ha avuto una reazione vibrata al provvedimento che ha colpito tra gli altri molti dei suoi cittadini che hanno collaborato con l'esercito Usa nella lotta contro l'Isis, e che ora chiedono rifugio negli Usa. Restano le pressioni perché alla lista dei paesi banditi siano aggiunti Arabia Saudita e Pakistan, e le difficoltà che una simile scelta comporterebbero per le alleanze nella zona mediorientale. Flynn e lo stesso Trump hanno messo in guardia l'Iran dopo il lancio balistico di sei giorni fa, e sanzioni sono state levate contro una lista di 13 imprenditori iraniani. La tensione sta montando dietro Rouhani che si trova ad affrontare il voto per la rielezione di maggio, e che è quindi costretto a rispondere a muso duro alle iniziative americane. Trump dovrà decidere se questo è il momento di precipitare la crisi o tirare le redini in attesa di ulteriori sviluppi. Il premier israeliano arriva il 15 febbraio a Washington a riscuotere le promesse di maggiore rispetto che Trump ha fatto alla lobby ebraica Aipac durante la campagna presidenziale. Negli ultimi giorni però la critica lanciata all'Onu dall'ambasciatrice statunitense, e poi un comunicato della stessa Casa Bianca contro l'espansione degli insediamenti, hanno seminato semi di discordia. Sul fronte interno, Trump ha annunciato che la riforma del codice fiscale è in arrivo, con la promessa di una fascia unificata di imposizione al 15%. L'opposizione che è contraria all'idea ha armi spuntate per combatterla. Il presidente da parte sua deve ancora dire con quali risorse intende coprire l'enorme buco di bilancio che si verrebbe a creare con il mancato gettito fiscale. Nell'incontro effettuato con i capi d'azienda della scorsa settimana il presidente ha anche rivelato che presto comunicherà quali paesi saranno colpiti da imposte di importazione negli Usa e, soprattutto, anche in quale misura. Ma il negoziato con i due membri del Nafta, Canada e Messico, non è ancora partito, né è stato chiarito se il provvedimento toccherà oltre ai paesi asiatici anche gli europei. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 Le rimozioni pericolose sull’Europa di Ferruccio de Bortoli

Maastricht 25 anni fa Il 7 febbraio del 1992 venne firmato ufficialmente, nella cittadina olandese di Maastricht, il trattato sui criteri economici per essere ammessi alla Comunità europea, vincolanti poi nell’Unione monetaria. I membri erano solo 12. Tedeschi e olandesi, assai freddi sulla prospettiva di una moneta unica, imposero l’osservanza di regole inizialmente rigide temendo di dover condividere in futuro i debiti degli altri. Paura ancora attuale. Quegli accordi sono stati via via modificati e integrati ma i parametri base - il 3 per cento sul deficit e il 60 per cento sul debito - sono entrati nel lessico quotidiano come esemplificazione numerica dei limiti europei. Espressione del rigore necessario per i Paesi nordici, mordacchia indigeribile per quelli mediterranei. L’inflazione allora era temuta al rialzo e così i tassi d’interesse di valute nazionali. Oggi la situazione è semplicemente opposta. Era un altro secolo, un altro mondo e ci si interroga se quell’impianto, certamente fragile e incoerente, sia ancora attuale. La crisi però è anche il risultato di regole non rispettate. E di questo si parla poco. Romano Prodi, quando era presidente della Commissione europea, in una intervista a Le Monde , definì il patto di stabilità «stupido ma necessario» perché andava applicato con intelligenza e flessibilità e governato da un’autorità che allora, come oggi, non c’è. Guido Carli, che al momento della firma era ministro del Tesoro, scrisse che a Maastricht veniva tracciato un confine tra Stato e cittadini, a favore di questi ultimi che non sarebbero stati più chiamati a finanziare, con i loro risparmi, disavanzi di bilancio ed eccessi di spesa pubblica. Citò il Faust di Goethe, Mefistofele che suggerisce al Principe di stampare moneta, senza badare alla quantità. Nel più prosaico lessico dei giornalisti, che all’epoca seguivano gli affari europei, Maastricht venne ricordata per un’intossicazione alimentare collettiva che produsse un generale mal di pancia. I pasti erano indigeribili, il patto lo sarebbe stato più a lungo. Nell’impianto originale di Maastricht - che superò i referendum francesi e danesi - vi erano alcune indubbie incongruenze. L’ambiguità di chi era costretto ad esserci pur non volendolo (la Germania). L’ambizione di chi non voleva essere escluso sperando che un vincolo esterno avrebbe cambiato le abitudini della politica e del Paese (l’Italia). Contraddizioni rimaste nel tempo che si ripropongono oggi sotto altra forma. È caduta invece l’illusione che attraverso la moneta unica si possa arrivare a un’unione politica. Un’intuizione nobile ma elitaria, peraltro sanzionata subito dagli osservatori più critici dell’Unione monetaria. Il premio Nobel dell’Economia Milton Friedman scrisse nel 1997 che senza un vero Stato alle spalle e una sola politica fiscale, la valuta unica avrebbe prodotto la divisione dell’Unione. Profezia che, riletta alla luce del disprezzo di Trump per l’Europa, fa venire brividi supplementari ma dovrebbe suscitare - come ci auguriamo - qualche salutare reazione difensiva. Nel suo anno più difficile, dopo lo choc della Brexit, l’Unione affronta un ciclo elettorale denso di incognite. In Italia non sappiamo quando voteremo, meglio alla scadenza naturale della legislatura e con una legge elettorale dignitosa e non suicida, ma la campagna è già in corso. Scomposta. L’Europa è bersaglio dei sovranisti, ma anche di esponenti della maggioranza che si illudono di arrestare l’onda populista replicandone i toni. Forse, l’unico modo di contrastare, sul piano delle idee concrete, questa spinta distruttiva, sta nel coraggio di rilanciare l’iniziativa europea. Dare risposte concrete a bisogni reali. Il rapporto sulla riforma del bilancio europeo, voluto da Commissione, Consiglio e Parlamento, scritto dal gruppo presieduto da Mario Monti, è sul tavolo del commissario Günther Oettinger. Non prevede nuove tasse, bensì ipotesi su come finanziare beni e progetti comuni, come la difesa e la sicurezza, la lotta al terrorismo, la gestione dell’immigrazione. Le regole europee sono soggette a forti critiche, a volte giustificate, e a diffuse amnesie. In Italia ci scordiamo che al tempo di Maastricht l’impegno era quello di convergere, nella regola del debito, verso il 60 per cento. Il governo Renzi aveva promesso di ridurre significativamente il rapporto con il prodotto interno lordo che invece rimane al 132 per cento. Il tema è stato colpevolmente rimosso per anni dal dibattito pubblico. Forse perché, grazie alla politica monetaria della Bce, lo finanziamo come se fosse quello tedesco. Il Quantitative easing (Qe) è anche un anestetico o meglio un metadone. Gli arcigni censori di Berlino dimenticano, a loro volta, che nel 2003 la Germania e la Francia non rispettarono la regola del deficit. L’Italia, allora presidente di turno e con ministro dell’Economia Giulio Tremonti, decise di bloccare ogni sanzione, nonostante la Commissione, guidata da Prodi, avesse proposto l’inizio di una procedura d’infrazione.

Tanto è vero che poi la delibera del Consiglio venne deferita alla Corte di Giustizia europea. Berlino dette un pessimo esempio ma, in appena quattro anni, tornò al pareggio di bilancio. Maastricht ha fatto il suo tempo? Il dibattito è aperto. Certo, dopo la crisi del 2007 le divergenze fra le economie dell’eurozona sono cresciute. Armonizzarle è impresa ardua. Le rigidità possono avere effetti recessivi. La domanda, soprattutto di investimenti, è debole. Angela Merkel ripropone un’Europa a due velocità. Le cooperazioni rafforzate vanno in questa direzione e fanno parte della storia, ormai sessantennale, dei trattati europei. Ma proviamo ad immaginare per un attimo, come vorrebbero i più accesi critici di Bruxelles, che le regole (in deroga alle quali abbiamo comunque avuto 19 miliardi in due anni) spariscano di colpo. Le leve del bilancio, come d’incanto sovranista, tornino tutte nelle nostre mani. E che cosa facciamo? Ci mettiamo a spendere allegramente tornando a deficit del 10 per cento come nei «favolosi» anni Ottanta nei quali abbiamo compromesso le prossime generazioni? Faremmo per il nostro Paese quello che non accetteremmo di fare mai per le nostre famiglie? Un extra deficit temporaneo può essere salutare se si privilegiano gli investimenti e non si ingrossa la spesa improduttiva. Ma questa visione antipaticamente austera non sembra animare i propositi dei fautori delle briglie sciolte. Prima di Maastricht nessuno si preoccupava della crescita impetuosa del debito. Si emettevano Bot e via. In ogni caso, i limiti non salterebbero del tutto. Ce li darebbe, senza flessibilità, il mercato finanziario al quale chiediamo, solo quest’anno, circa 450 miliardi per rifinanziare il nostro debito, per circa un terzo in mani estere. La ritrovata libertà sarebbe, dunque, un’amara delusione. Pagata a caro prezzo. Un Paese troppo indebitato non cresce più. Come accade per le aziende in analoghe condizioni: il rapporto di leva nel privato in Italia è doppio di quello tedesco. Inutile girarci intorno. E nemmeno Mefistofele, con un debito fuori controllo, può venirci in aiuto. Pag 4 Non tutti i Trump vengono per nuocere di Paolo Valentino E se Donald Trump fosse una benedizione urbi et orbi? Se l’insurgent, il ribelle atterrato alla Casa Bianca, come lo descrive l’Economist, fosse un regalo inatteso per tutti, amici e oppositori? È un paradosso naturalmente, ma se applichiamo all’ineffabile presidente degli Stati Uniti l’antico criterio del «cui prodest», non siamo così lontani dalla verità. È facile e ovvio dire che Trump serva ai populisti d’Europa, da Beppe Grillo a Marine Le Pen, da Geert Wilders a Frauke Petry, scodinzolanti cagnolini che nel tycoon americano hanno finalmente trovato l’inattesa sponda di legittimazione e sognano di imitarne le gesta. Ed è ancora più facile notare che l’elezione di Trump serva a Vladimir Putin, finalmente retribuito di quella uvazhenije, il rispetto, senza il quale un russo non è un russo e si vede restituito al ruolo di protagonista in Medio Oriente e altrove. E serve, Trump, alla Brexit e a Theresa May, che ritrova il rapporto speciale con Washington quando tutto sembrava compromesso. Meno scontato ma inconfutabile è che Donald Trump serva alla Ue. Per ragioni diametralmente opposte, ovviamente. Ha di sicuro ragione Enrico Letta, che nell’intervista odierna al nostro giornale definisce Trump una «minaccia esistenziale» per l’Europa. E non c’è dubbio che Trump sia il primo leader americano da 60 anni che dell’Europa non sappia che farsene e che in cuor suo vorrebbe vederla disintegrarsi. È quello che dice papale papale il suo probabile ambasciatore alla Ue, Ted Malloch, alla cui nomina, come suggerisce Letta, faremmo bene a opporre un netto rifiuto. Eppure, a guardar meglio, avete mai visto un’Europa più preoccupata, reattiva, coraggiosa di quella attuale? Perfino uno normalmente tiepidino come Donald (singolare omonimia) Tusk, il polacco che presiede il Consiglio europeo, verga parole di fuoco contro Trump in una lettera nella quale invita i Paesi europei a un sussulto verso una maggiore integrazione. E poi c’è Angela Merkel, improvvisamente destatasi dal suo cauto torpore, che rilancia l’idea delle velocità diverse per l’Unione sotto attacco. Dopo anni di discordie, rifiuti ed egoismi, anche davanti a tragedie vere, la Grecia per tutte, è esagerato dire che il serrate le file sia tutto merito di «The Donald»? Cui prodest ancora Trump? Serve alla Cina, regina del dumping, ma che la denuncia del Trattato Trans Pacifico improvvisamente catapulta nel ruolo di nostra signora del commercio mondiale, mentre il negazionismo ambientalista della nuova Amministrazione rende Pechino leader di fatto della lotta ai cambiamenti climatici. E che poi il nostro faccia sul serio o meno, l’importante è l’effetto di annuncio: «Trump ci spiazza: non sai mai se il suo tweet sia

uno scherzo o una nuova iniziativa politica», dice un diplomatico europeo. Nel dubbio meglio agire. Ultimo ma non ultimo, Trump serve a noi giornalisti, cinici testimoni dei fatti, pur maltrattati e disprezzati dalla nuova Amministrazione, che definisce le proprie bugie «alternative facts»: saranno dei ciarlatani, ma da anni non ci veniva servita una storia così ghiotta come quella iniziata con la discesa in campo del tycoon. Nel 1935 Sinclair Lewis, premio Nobel per la Letteratura, scrisse un libro, It can’t happen here , dove immaginava che un presidente americano, una volta eletto, si faceva dittatore. Non è questo il caso. Non tutti i Trump vengono per nuocere. LA REPUBBLICA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 L’Europa sta sotto i piedi di Angela ma nel cuore di Draghi di Eugenio Scalfari C'è una miriade di fatti che ingombrano gli schermi televisivi, le pagine dei giornali e perfino i siti web. Ne volete un sommario esempio per quanto riguarda l'informazione del nostro Paese? Raggi, sindaca di Roma di marca grillina, i sondaggi sull'andamento delle maggiori forze politiche italiane, l'accordo fra l'Italia e il governo libico di Tripoli sul tema degli immigrati, la probabilità che sia molto diminuita l'ipotesi di elezioni entro giugno e che Renzi abbia in proposito cambiato idea. E poi Trump. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è l'uomo-chiave del momento per due ragioni: la prima è che siede sul palco più alto dell'impero più forte del mondo; la seconda è che Trump cambia idea almeno una volta al giorno e a volte ancor più frequentemente: su Putin, sulla Cina, sull'Europa, sulla Corea del Nord (quella che fa esperimenti sulla bomba a idrogeno e dovrebbe essere fermata), su Israele, sull'Australia, sulla Nato e via discorrendo. Se continua così nessuno darà più peso alle sue decisioni e la sola cosa che continuerà a contare saranno le chiusure di Borsa a Wall Street. Del resto anche in Inghilterra, anzi nel Regno Unito che non è mai stato così disunito, quella che conta è la City e, per tutt'altra ragione, la National Gallery. Della Brexit tra poco nessuno parlerà più. L'elenco, come vedete, è piuttosto lungo e sicuramente incompleto, ma ometto volutamente i fatti veramente importanti che riguardano l'intero mondo occidentale, Italia ovviamente compresa. Ho scelto i fatti al plurale ma in realtà è un fatto unico, che ha due attori principali e una folla di spettatori coinvolti da quanto vedono recitare sulla scena e che li riguarda direttamente. Il fatto dominante è quanto è stato annunciato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel al vertice che si è concluso venerdì scorso a Malta: alla prossima riunione di vertice europeo che avrà luogo a Roma nelle prossime settimane per celebrare i Trattati che istituirono la Comunità europea del carbone e dell'acciaio e che successivamente diventò Unione politica ed economica, Merkel proporrà un'Europa a due velocità. La prima velocità riguarda tutti gli Stati dell'eurozona (diciannove) che sono in grado di marciare verso un'economia dinamica, in costante aumento di produttività, di scambi, di piena occupazione, di propensione verso un potere federale con organi politici appropriati. Il centro di questo sistema ad alta velocità sarà ristretto; di fatto (Merkel non l'ha detto ma è evidente nelle sue parole) avrà il suo perno nella Germania e nei suoi più stretti alleati: l'Olanda, i Paesi del Nord Europa e - per ragioni strettamente politiche - la Francia. Gli altri procederanno come potranno. Se si metteranno al passo potranno sempre entrare nel club dell'alta velocità. Se in teoria al passo giusto ci si metteranno tutti i 19 della moneta unica, sarebbe un club in grado di dar vita agli Stati Uniti d'Europa o a qualcosa di molto simile. Altrimenti sarà un piccolo ma potente cuore e cervello d'Europa che parla e pensa in tedesco, ma niente di più. Ma c'è un secondo attore in questa che mi viene voglia di definire la commedia degli inganni e si chiama Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea il cui incarico scadrà nel 2019 ed ha dunque tutto il tempo necessario per operare, anche se sta coprendo il dissenso che c'è sempre stato tra lui e il governatore della Bundesbank, che è la Banca centrale tedesca e fa parte ovviamente del Consiglio della Banca centrale europea ma è costantemente all'opposizione. Su che cosa? Sul fatto che Draghi - confortato dall'appoggio del direttorio della Bce e dall'ampia maggioranza delle Banche centrali nazionali che fanno parte del consiglio - dispone d'una salda maggioranza sulla sua politica monetaria ed economica espansiva. Come si comporterà adesso Draghi di fronte alla proposta di Merkel sulla doppia velocità? Si adeguerà? La contrasterà? Con quale tipo di operazioni? Personalmente sono molto amico di Draghi, fin da quando era uno dei

prediletti collaboratori del più importante personaggio della politica italiana, dopo tredici anni di governo della Banca d'Italia: Ciampi, dopo aver guidato la nostra Banca centrale in tempi assai calamitosi, fu in qualche modo obbligato a governare il Paese, politicamente ed economicamente, da primo ministro d'un governo provvisorio, poi da ministro del Tesoro del governo Prodi, e infine da presidente della Repubblica. In tutti questi ruoli, ma soprattutto nell'ultimo, dette il meglio di sé e Draghi collaborò strettamente con lui, specie nei contatti preliminari che poi condussero il ministro del Tesoro Ciampi a negoziare l'ingresso dell'Italia nella moneta unica, sulla quale erano già d'accordo la Germania di Khol e la Francia di Mitterrand. Da quei tempi Draghi ed io siamo buoni amici e parliamo spesso delle sue posizioni in quanto capo della Bce ma soltanto quando lui ne ha parlato pubblicamente. È per dire che non ho mai avuto notizie da parte sua, che sarebbe una scorrettezza in una delle persone più attente a non commetterne mai. Però pubblicamente si espone senza alcun timore. Dispone dello statuto della Bce, redatto da tutti i Paesi dell'eurozona che ne sono azionisti in proporzione alla consistenza delle proprie economie. Quello statuto e la maggioranza del Consiglio sono gli organi che sostengono Draghi e la sua indipendenza. I suoi rapporti con Merkel sono stati sempre buoni, se non addirittura ottimi sebbene in molte occasioni siano stati anche contrastati dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble (un "rigorista" per cultura propria ma anche molto legato ai circoli del capitalismo tedesco) e dalle misure che la Cancelliera dovrebbe prendere convincendo altre Autorità europee a farle proprie. Merkel, specie in vista delle prossime elezioni, deve usare ancora di più le opinioni di Schäuble e finché si può deve tentare di convincere anche Draghi, ma lui si troverà di fronte a una situazione molto difficile. Sarà un incontro-scontro avvincente ed è già cominciato. Con due pubblici interventi di Draghi: uno rivolto alla politica economica italiana in occasione del premio che gli è stato conferito in una celebrazione del conte Camillo Benso di Cavour, che nel 1861 proclamò lo Stato d'Italia, reso possibile dall'alleanza di Cavour con Napoleone III che sfociò nella guerra d'indipendenza del 1859, vinta dai francesi e dagli italiani e nell'assegnazione della Lombardia e poi del Veneto al regno piemontese. Dall'altra parte ci fu l'impresa di Garibaldi e dei Mille che conquistarono il Mezzogiorno e la cui iniziativa fu nascostamente appoggiata da Cavour. Il Regno d'Italia ebbe vita da questi due eventi e il perno che lo rese possibile fu appunto manovrato da Cavour. Per celebrare quegli avvenimenti non ci poteva essere scelta migliore che quella di Draghi il quale, nel corso di quella celebrazione, è stato per la prima volta non solo in veste di capo della Bce. Ha dedicato il suo discorso storicamente a Cavour e subito dopo alla politica economica del nostro Paese. Gli ho già dedicato una parte del mio articolo di domenica scorsa. Draghi ha parlato della produttività come elemento indispensabile dell'imprenditoria italiana, sia pubblica e sia privata, e della lotta contro le diseguaglianze sociali ed economiche che debbono essere fortemente diminuite con una politica fiscale adeguata che comprenda anche la battaglia contro l'evasione fiscale e il lavoro nero su cui contano le lobby clientelari e perfino mafiose. Pochi giorni dopo - e siamo al presente - Draghi ha dedicato un suo intervento a tutti i Paesi dell'eurozona. Praticamente è stata una risposta preventiva alla politica della doppia velocità che Merkel ha preannunciato a Malta e che avverrà tra poco a Roma. Che cosa ha detto Draghi? Poche cose, ma fondamentali. Ha detto che la Germania non è lontana dall'aver raggiunto il tasso del 2 per cento d'inflazione che è quello base previsto dallo statuto della Bce. Il raggiungimento di quel tasso è la positiva conseguenza della politica economica del governo tedesco ed anche della politica di "quantitative easing" della Banca centrale, praticata verso tutti i Paesi dell'eurozona, Germania naturalmente compresa. Nel secondo intervento di pochissimi giorni fa Draghi si è rivolto a tutti i Paesi dell'eurozona. Ha spiegato con piena soddisfazione i risultati raggiunti dalla Germania e invece ancora lontani per gran parte dei Paesi dell'eurozona, soprattutto quelli meridionali come la Grecia, l'Italia, la Spagna, la Francia, il Portogallo. Cioè la costiera mediterranea che, oltretutto, è al centro delle migrazioni sia dai Balcani sia dal Nord Africa. Ai Paesi dell'eurozona che si trovano davanti al fenomeno delle migrazioni di massa e a devastanti fenomeni naturali (i terremoti in Italia) e sono di fronte a politiche economiche insufficienti, Draghi ha raccomandato di rilanciare quelle politiche ed ha anche assicurato che il "quantitative easing" della Bce continuerà verso ciascuno dei Paesi suddetti in ragione di quanto sta facendo. La politica di Draghi non ha nulla a che fare con quella di Schäuble e di Merkel che si identifica con il suo ministro

delle Finanze. Draghi si incontrerà alla fine di febbraio a Berlino con Merkel e lì ci sarà il bilancio. Immagino i fiori e le rose profumate di quell'incontro sotto le quali la gentilezza cederà di fronte alla roccia con la quale Draghi espone le sue idee, i suoi impegni e i suoi doveri. Dovrei ora parlare dei risultati statistici rilevati nei giorni scorsi dal nostro Ilvo Diamanti. Ne risulta una notevole confusione in tutti i partiti, a cominciare dai grillini, ma anche nel Pd. Il raffreddamento di Renzi verso le elezioni subito, i buoni risultati del governo Gentiloni. Mi sembrano dati positivi che possono essere ulteriormente accresciuti. Mi auguro tuttavia che Renzi condurrà nel suo partito una riforma efficace, soprattutto nei confronti dell'opposizione interna nella sua parte più saggia che secondo me è quella interpretata da Cuperlo ed anche, in modi diversi, da Bersani. Renzi però farebbe un errore a concentrare il suo interesse soltanto su una riforma peraltro necessaria dei rapporti interni al suo partito. Questo lavoro deve essere, a mio avviso, la premessa necessaria per presentarsi lui dopo che la legislatura sarà terminata. Renzi ha carisma come pochi altri oggi; quel carisma però necessita della collaborazione più ampia nel partito per poter tornare al governo nel 2018 ed è sufficiente un solo punto di riforma della legge elettorale: affiancare alle eventuali liste uniche anche liste di coalizione. È con questa possibilità che si accoppiano democrazia, rappresentanza parlamentare, governabilità. Intanto formuliamo tutti, a cominciare come spero da Renzi, un ringraziamento al lavoro di Mattarella e di Gentiloni che stanno facendo il possibile per terminare un ciclo nel 2018 e riaprirne un altro ancor più efficace. AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 Perché no alla tortura di Francesco D’Agostino La risposta cristiana al male Dobbiamo essere onesti con noi stessi: il nostro no alla tortura, anche quando è fermo e assoluto, appare spesso stanco, ripetitivo, male e pigramente argomentato, in una parola sola 'moralistico'. La posta in gioco è troppo alta per permetterci tutto questo, per continuare a sfruttare le argomentazioni che il fondatore del diritto penale moderno, Cesare Beccaria, affidò a quell’esemplare, piccolo libro che è 'Dei delitti e delle pene', in cui la critica alla tortura appare nitida e razionalmente fondata. Il fatto è che Beccaria scriveva in un secolo che non è il nostro e usava argomenti che non possono più essere i nostri. Insomma, se il presidente Trump si dichiara, per ora solo personalmente, favorevole alla tortura, ribadendo di essere convinto che essa «funzioni», non possiamo cavarcela dandogli torto rievocando Beccaria e usando i suoi toni illuministicamente sdegnati. La tortura, ahimè, funziona davvero: non è detto che funzioni sempre, ma funziona molto spesso. È per questo motivo che tutte le critiche funzionali alla tortura (come quelle che stanno dilagando in rete) appaiono mosse da ottime intenzioni, ma lasciano il tempo che trovano, o addirittura suscitano l’irrisione che chi pretende di essere un «realista» (come appunto Trump) riserva costantemente all’ingenuità delle «anime belle». Andiamo al cuore del problema ed escludiamo dal nostro discorso le tante, possibili forme di pratiche, soprattutto giudiziarie, che storicamente sono correttamente considerate 'tortura', ma che con la tortura, con la quale oggi siamo chiamati a misurarci, hanno ben poco a che fare. Cercare di ottenere la piena confessione dell’imputato torturandolo, per consentire in tal modo al giudice di emanare una sentenza giusta, scevra da qualsiasi rischio di errore giudiziario, è sembrato in passato più che giustificabile, ma le argomentazioni di Beccaria hanno da tempo, e definitivamente, rimosso simili contorsionismi dialettici. Quando oggi parliamo di tortura, facciamo invece riferimento (come appunto fa Trump) a pratiche che si inscrivono nella logica del contenimento o addirittura della definitiva sconfitta del terrorismo internazionale. E poiché la violenza del terrorismo è cieca, quantitativamente priva di limiti, crudele oltre ogni misura, ecco che una tortura che «funzioni» acquista nell’opinione di molti una sua legittimità. L’osceno modo di dire italiano 'a brigante, brigante e mezzo', che sempre più spesso sentiamo ripetere con approvazione, ahimè anche a livello istituzionale, ne è un esempio lampante. Esiste un argomento razionale (non banale, non pigro, non emotivo) per dire di no alla tortura nell’epoca del terrorismo internazionale? Se per 'razionale' intendiamo 'funzionale', no. Non riusciremo mai a dimostrare che la tortura «non funziona »; potremo, tutt’al più, dimostrare che in un singolo caso essa può non aver funzionato, ma questo è un argomento retrospettivo,

che non convalida alcuna prassi rivolta al presente o al futuro. La verità è che il no alla tortura non può essere 'razionale', come pensavano gli illuministi alla Beccaria, ma deve essere 'cristiano'. Dobbiamo dire di no alla tortura non perché essa vada contro il buon uso della nostra ragione, ma perché altera l’immagine di umanità che con sforzi straordinari l’Occidente cristiano ha cercato di costruire nei secoli, quell’immagine secondo la quale il male va vinto non con il male, ma con il bene. Un’affermazione, questa, che può essere avvalorata solo proponendo alla ragione funzionale di inchinarsi davanti a un’altra dimensione della ragione, quella che è simboleggiata dalla croce e che gli illuministi (o almeno molti tra essi) hanno cercato e continuano a cercare di rimuovere. Il discorso si chiude qui. Naturalmente possiamo anche innestare sensatamente il discorso cristiano in sofisticate e suggestive prospettive antropologiche, che ci consentirebbero di mettere tra parentesi il riferimento alla croce. Non è difficile ad esempio rilevare come la tortura possa sì dare risposta alle esigenze funzionali di cui abbiamo parlato, ma solo al carissimo prezzo di lasciare ampio spazio alle pulsioni sadiche dei torturatori (diretti o indiretti). E possiamo anche aggiungere che un prezzo così esorbitante può destrutturare l’ordine sociale, tanto quanto le aggressioni terroristiche che si cerca giustamente di combattere. Resta però ferma l’astrattezza di simili valutazioni, che si muovono su di un piano intellettualistico, a fronte della concretezza della provocazione cristiana, che si muove invece sul piano dell’esperienza vissuta, quando esorta la vittima ad amare il proprio nemico e a perdonarlo, fino a settante volte sette. È una provocazione, quella introdotta nella storia da Cristo, che infine volte gli uomini hanno rifiutato di accogliere, ma che noi tutti abbiamo il dovere di reiterare costantemente, non per rendere ossequio allo spirito del diritto penale moderno, ma per ribadire la nostra fedeltà allo spirito sul quale - ne siano o no consapevoli gli ingenui fautori del marchese Beccaria - il diritto penale moderno e il suo no alla tortura di fondano. Pag 2 Donare senza scandalo di Massimo Calvi Solidarietà, quando la fiducia è tradita Fare beneficienza non è mai una cosa semplice. A chi vanno veramente i miei soldi? Come verranno impiegati? L’organizzazione che ho scelto è efficiente oppure gran parte delle risorse che gestisce viene sprecata o serve a finanziare la struttura? Queste domande sono legittime e sorgono spontanee ogni volta che ci apprestiamo a fare una donazione. Troppe volte ci siamo trovati a leggere e ragionare di fondi mal gestiti, sottratti, o mai arrivati a destinazione. E ciclicamente vengono condotte (anche su queste pagine, come i lettori sanno bene) inchieste giornalistiche che sollevano il coperchio su inefficienze, per non dire di peggio, collegate al grande e bellissimo mondo della solidarietà. È bene che vi siano controlli e denunce, e che i casi negativi siano portati alla luce. Purtroppo le azioni di denuncia, per quanto necessarie, rischiano sempre di sortire un effetto indesiderato: indurre le persone a fare di tutta l’erba un fascio. Pensare cioè che i pochi casi negativi siano rappresentativi di mille esperienze positive. Non è così, come dimostra l’impegno di centinaia di organizzazioni serie e affidabili, e l’esperienza di cooperazione internazionale che raccontiamo oggi a pagina 8 ne è un esempio. Come fare allora ad orientarsi bene? A separare il grano dal loglio? A scegliere? La solidarietà, la beneficienza, la filantropia, si orientano su stili di gestione degli aiuti anche molto diversi tra loro, ed è difficile definire un modello migliore di un altro. Ci sono interventi che richiedono di pagare di più il personale, altri che ricorrono al volontariato, altri che si fondano sulla sobrietà, altri ancora che hanno bisogno di maggiori investimenti in comunicazione. Esistono anche diversi strumenti per testare l’efficienza dell’organizzazione: bilanci trasparenti, valutazioni d’impatto, codici etici, controlli interni, certificazioni… Tutto serve, ma come l’esperienza insegna, tutto può anche essere contraffatto. La differenza, se siamo alla ricerca di un metodo di verifica efficace, la può fare anche il donatore. L’offerta presuppone sempre un atto di fiducia, una delega forte verso chi abbiamo scelto, che non vuol dire cessione di responsabilità, anzi. Donare è anche un’opportunità per conoscere meglio la realtà che stiamo sostenendo, per 'condividere' il senso della sua missione, avvicinarci il più possibile alla ragione del nostro impegno e di quello di chi è sul campo. Questa relazione e questa 'vicinanza' sono fondamentali perché la solidarietà possa dare buon frutto. Si può donare

con un clic, un sms, o compilare un bollettino e voltarsi dall’altra parte, ma sapendo che nel tradimento di un’attesa la responsabilità non è a senso unico. Donare è fidarci di chi restituisce fiducia. E la costruisce. Pag 3 Perché l’aborto non è un “diritto” di Pier Giorgio Lignani Una tesi giuridicamente sbagliata «Abortire è un diritto della donna», lo scrittore Roberto Saviano lo afferma con decisione in un articolo di pochi giorni fa. A quanto pare, secondo lui, abortire sarebbe uno di quei diritti universali e fondamentali della persona che – stando alle dottrine affermatesi nel secolo XX e culminate nelle apposite dichiarazioni sovranazionali – un legislatore nazionale, per quanto sovrano, non può sopprimere, ma anzi deve riconoscere e garantire. Parlando di «diritto della donna» Saviano intende dire che si tratta di un diritto pieno e incondizionato: la donna decide da sola e nessuno può interferire. Cito Saviano perché è un autore di successo, ma queste idee sono piuttosto diffuse. Vale dunque la pena di discuterle, e lo faccio ora dal punto di vista non della morale cattolica ma della scienza giuridica laica. Infatti ogni ragionamento caratterizzato in senso religioso è, per un verso, scontato per chi condivide le sue premesse, e per un altro respinto a priori da chi non le condivide, in base alla formula 'questo vale per te se ci credi, io non ci credo e per me non vale'. Dunque, vediamo la questione del diritto di abortire dal punto di vista della razionalità laica. Bisogna partire dalla definizione di quell’entità che è l’essere concepito ma non ancora nato. È un’idea astratta, una cosa, una persona? Alcuni sostengono che debba essere considerato una persona nel pieno senso della parola; ma almeno per ora è una posizione minoritaria, mentre la tradizione giuridica millenaria è in senso contrario. Lasciamo aperta la discussione su questo punto (anche perché il concetto filosofico e giuridico di persona può ricevere definizioni differenziate), e diciamo invece che quanto meno è un essere vivente, dotato di una sua piena individualità biologica e genetica e in qualche misura anche psicologica, e appartiene alla specie umana – anche se si trova transitoriamente in una situazione particolarissima, in quanto tutto ciò che gli occorre per vivere lo riceve dal corpo della madre in cui sta racchiuso. Insomma: forse possiamo non chiamarlo giuridicamente 'persona' ma non possiamo negargli, quanto meno, la qualità di 'essere umano'. Non a caso, da quando la scienza consente di conoscerne già il sesso è abitudine dei genitori dargli subito il suo nome e con quel nome parlarne. Non può dunque essere considerato alla pari di un dente che si toglie e si butta via. Tanto è vero che in qualunque legislazione del mondo chi provoca (anche involontariamente) un aborto senza il consenso della gestante è punito non solo per il danno che ha fatto alla madre ma proprio perché ha violato l’attesa di vita e di futuro che c’era in quell’essere. Il nascituro è protetto dall’ordinamento giuridico (cioè dallo Stato) come un valore in sé, non come una proprietà della madre. È per questo che non si può riconoscere alla donna il «diritto» incondizionato a liberarsene. È anche vero, però, che fra il nascituro e la gestante vi è una relazione particolarissima, non paragonabile ad alcun’altra, che incide in modo profondo sull’essere stesso della madre (non solo sul suo corpo, pure se gli effetti sul corpo sono i più visibili). Quindi neppure i diritti e i doveri della gestante verso il nascituro possono essere misurati con lo stesso metro con cui misuriamo quelli di chiunque altro. Per questa ragione la nostra Corte Costituzionale nel 1975 (sentenza n.27) ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge che allora puniva come reato l’aborto chiesto o accettato dalla donna, e lo ha reso non punibile se praticato per salvarla da un pericolo di vita o anche da un pericolo non mortale ma tuttavia «grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile». All’epoca questa decisione suscitò proteste anche nel mondo cattolico, ma comunque la si voglia giudicare rappresentava lo sforzo di trovare una soluzione senza affermare che la scelta di abortire è un diritto incondizionato della donna. A tutt’oggi sul piano del diritto costituzionale la regola è rimasta quella. Ma la legge del 1978 va molto più in là, perché pur fingendo di mettere limiti e condizioni in realtà non prevede alcuna forma di controllo o di verifica sulla serietà dei motivi che portano alla scelta di abortire. Non prevede neppure che le istituzioni – pur senza avere il potere di opporsi a quella scelta – abbiano il compito di proporre alla donna soluzioni alternative. Per questi aspetti la legge del 1978 può essere giudicata incostituzionale. Ma neppure essa configura la scelta della donna come un

«diritto» pieno e incondizionato perché quanto meno afferma che l’aborto non può essere usato come mezzo di limitazione delle nascite. L’equazione aborto-diritto non è sostenibile. Pag 7 “Stavo già per essere abortito… Invece sono qui grazie a un film” di Lucia Bellaspiga L’incredibile storia di un ragazzo “nato per il rotto della cuffia” Se sua madre quella sera non fosse andata al cinema, o se in cartellone ci fosse stato un qualsiasi altro film, Luca Mattei oggi non sarebbe vivo. E nessuno (eccetto forse lei) lo piangerebbe morto: non sarebbe neanche nato. Venuto al mondo per il rotto della cuffia, Luca era già pronto in rampa di lancio per essere abortito, uno dei 100mila desaparecidos che ogni anno in Italia spariscono in silenzio. La storia è sempre quella: un uomo che volta le spalle, una donna sola, la maternità vista come un peso impossibile, l’illegalità di chi per legge (la 194) dovrebbe garantirle ogni supporto e invece emette un frettoloso certificato di morte. «Mio padre se ne andò di casa appena seppe che mia madre mi aspettava – racconta Luca, nato in Piemonte 35 anni fa –, così io crebbi senza di lui e a 7/8 anni cominciai a sentirne forte la mancanza. Notavo che con mia sorella maggiore, che lo aveva avuto in casa fino a 5 anni, per lo meno aveva un rapporto, con me nulla, il che mi rendeva un bambino molto triste, anche se mia madre invece mi ricolmava di attenzioni. Con l’adolescenza la mancanza del padre fece crescere in me una rabbia ingestibile, che scaricavo contro l’innocente mia madre, non le parlavo, ero aggressivo. Il motivo era che non sapevo più chi fossi io, senza quel punto di riferimento...». A preservarlo da droga e alcol sono stati lo sport e il desiderio di non veder piangere sua madre: «Giocavo a calcio e questo mi ha salvato, sfogavo tutto lì, e poi vedevo l’estrema sofferenza con cui mia mamma discuteva con mia sorella quando lei difendeva in lacrime quel padre che tanto le mancava, e io non volevo aggiungere strazio a strazio». Finché un giorno di 20 anni fa lei non seppe più trattenere quella verità covata a lungo: «Fosse stato per tuo padre tu oggi non saresti qui!», gli sbatté in faccia in un momento di disperazione. Parole capaci di mordere il cuore. Che Luca ormai perdona ma che allora rischiarono di ucciderlo. «Sbagliò, non puoi scaricare su un ragazzino un rancore trattenuto per anni, ma oggi che vivo accanto ai bisognosi ho imparato a guardare tutto con gli occhi della misericordia e la comprendo. Certo fu atroce...». Quel giorno Luca apprese tutto d’un fiato che «nemmeno per un secondo ero stato desiderato», di tutto era frutto fuorché dell’amore: nato da un rapporto occasionale e distratto, quando i genitori si stavano già lasciando, era pure figlio di un errore, «il preservativo si è rotto, così sei nato», gli disse la madre. Poi il rifiuto del padre, «abortiscilo, cara mia, tanto io me ne vado». Per paradosso azzerare quel bambino per cancellare ogni traccia di un amore mutato in odio diventava l’unico punto di accordo tra i due. Se non che la sera prima di abortire (è il 1980) Anna entra in un cinema. «Adoro questa cosa», si illumina il giovane a questo punto del racconto. Proiettavano un film che in Italia s’intitolava Luca bambino mio e nell’originale spagnolo Il Cristo nell’oceano, la storia di un bimbo che perde entrambi i genitori e vive con uno zio alcolista. «Un giorno nel mare trova un crocifisso portato dalle onde e lo nasconde in cantina – riassume Luca – e questo Cristo gli parla di amore, gli fa scoprire che la vita è bella. È lì che mia madre ha avuto l’intuizione: se un bambino può essere felice senza genitori, io che almeno una mamma l’avrei avuta perché non potevo nascere? È uscita da quel cinema determinata a salvarmi e a chiamarmi come lui». Luca è nato la Domenica delle Palme ed è stato la resurrezione di Anna. Dieci anni fa ha cercato quel film e se lo è divorato scena per scena, ma da solo, «mi vergognavo di vederlo con lei e mostrarle i miei sentimenti...». A dissipare pian piano quella rabbia che dentro lo divorava sono stato i suoi amici, i disabili, quelli con cui oggi vive in una struttura in cui accoglie settanta persone: «Grazie a mia madre, che pure agnostica aveva uno spiccato senso del sociale, ho iniziato a frequentarli a 16 anni e sono cresciuto alla loro scuola, non mi stancherò mai di dirlo – spiega –. Mi direte: cos’hai da imparare da un disabile? Sei tu che lo lavi, che lo vesti... Mi hanno insegnato uno sguardo di stupore sulla vita. Io a 16 anni già non mi meravigliavo più di niente, invece li osservavo e loro erano felici con poco. Quanto erano fortunati!». Se fino a quel momento la consapevolezza di essere un aborto sopravvissuto gli scorreva sottopelle, adesso tutto cambiava: «Finché ero

centrato su me stesso la mia vita non mi piaceva e che io fossi nato oppure no mi pareva ininfluente, ma con gli amici ho trovato il sale nella mia vita e ho capito che esserci, al mondo, o non esserci non sarebbe stata la stessa cosa. Ho un debito con loro, mi hanno donato lo stupore senza bisogno di stupefacenti ». In dieci anni nella sua struttura sono passate anche 32 donne incinte, soprattutto ex schiave prostitute, convinte di dover abortire. Invece sono nati 32 bambini. Pag 11 I doveri di un sindaco, la giustizia dei cittadini di Eugenio Fatigante C’è solo una cosa da sperare ormai, in questa che assomiglia alla giunta 'più pazza del mondo' o a una sorta di 'cronache marziane'. E non è nemmeno originale: si spera che si plachino polemiche e indiscrezioni, congetture e veleni (e un po’ anche lo zelo della Procura, certamente sempre lodevole ma anche degno, forse, di cause e reati più gravi) in modo che, diminuendo le 'distrazioni', ci si applichi al bene comune di questa martoriata città. «Abbiamo un grande progetto per Roma», ha ricordato l’altroieri Raggi in tv. Tutti i romani (e non solo), al di là delle distinzioni politiche, confidano che ci sia davvero. Perché è proprio quello che manca alla capitale il cui ruolo internazionale va scemando, al di là delle bellezze storiche. Il sindaco ha ricordato anche che a Roma si è approvato il bilancio 2017 «in tempi record, prima delle grandi città, ma nessuno ne parla», e ha ragione (Milano ancora non l’ha fatto). Ma è anche ora di vedere come il ceto dirigente pentastellato, poi, questi fondi conta di impiegarli sul campo, attraverso quali scelte, con quale visione. Finora, invece, questa giunta ci ha costretto a diventare esperti di grovigli burocratici. Sappiamo quasi tutto della segreteria e delle chat del sindaco, poco o nulla dei suoi piani strategici. Scegliere due stretti collaboratori 'sbagliati' non è certo un bel biglietto da visita, e ancor meno lo è stata l’idea di promuovere il fratello di Marra, pur facendo la tara all’inesperienza di un 'sindaco-portavoce'. Così come un Movimento balzato in fretta sul podio della politica facendo le pulci agli altri partiti, deve mettere in conto di subire lo stesso trattamento. A discolpa, tuttavia, va detta anche un’altra cosa: alle tante indagini su Raggi (nemmeno fosse una criminale) è stato dato un peso abnorme, quasi fossero centrali per le sorti non solo della città, ma dell’intera nazione. E, soprattutto, non si tiene conto di un dato fondamentale: la volontà degli elettori. Raggi è stata scelta per governare, oltre che per mandarla dai pm. Tocca agli elettori, semmai, riservarle - a tempo debito - la 'condanna' più severa. E se ci rincuora che il sindaco faccia sapere, spesso e volentieri, di aver «sentito Grillo», ora si ricordi di sentire pure i cittadini. IL GAZZETTINO di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 L’occasione di riportare la Russia nel G8 di Romano Prodi Il G8 è il vertice annuale tra i massimi leader dei grandi paesi industrializzati. Iniziato nel 1975, dopo le trasformazioni del sistema monetario e la grande crisi energetica, tale vertice si è all'inizio concentrato sulle grandi decisioni di carattere economico. Nelle fasi successive ha allargato l'agenda a tutti i temi della politica mondiale, dal terrorismo alla sicurezza, dalla politica ambientale all'aiuto al terzo mondo. Tale summit è stato poi affiancato dal G20, riunione alla quale partecipano anche i protagonisti della nuova globalizzazione, a partire dall'India e dalla Cina. Come conseguenza di quest'evoluzione il G8 ha certo perso mordente riguardo alle decisioni concrete e immediate, ma è rimasto uno strumento non solo prezioso ma insostituibile per approfondire in un clima ristretto e confidenziale i grandi problemi del nostro futuro. Come Primo Ministro italiano e come Presidente della Commissione Europea ho partecipato a ben dieci di questi vertici: raramente ne sono nate decisioni immediatamente operative ma i due giorni di discussione libera, ininterrotta e riservata, mi sono sempre apparsi un utilissimo strumento per alleviare le tensioni e ipotizzare le possibili soluzioni dei problemi più acuti dell'agenda politica mondiale. Ciò non significa che questi incontri siano sempre pacifici e idilliaci. Ho ben vivo nella memoria gli scontri fra Blair e Putin sulla guerra in Iraq al vertice di Sea Island nel 2004 e mi risuona ancora l'eco di tantissime altre discussioni con un altissimo livello di tensione. Ricordo tuttavia che questi franchi e diretti scambi di opinione sono sempre stati indispensabili per affrontare con maggiore consapevolezza i grandi problemi del pianeta. Per il buon successo di questo summit, così rilevante ma

anche così informale, il ruolo della Presidenza risulta di primaria importanza, indipendentemente dalla forza muscolare del paese chiamato a reggerla. Nel prossimo maggio quest'esercizio di diplomazia e saggezza tocca all'Italia, che ospiterà i grandi del mondo nella splendida cornice di Taormina. Ancora prima di quest'incontro, anzi già da adesso, la Presidenza Italiana si trova tuttavia di fronte ad un problema non semplice: a partire dal vertice del 2014 i paesi partecipanti non sono più otto ma sette, dato che la Russia ne è stata esclusa, soprattutto per iniziativa americana e britannica, in conseguenza delle drammatiche tensioni riguardanti l'Ucraina e la Crimea. Credo tuttavia che il contesto in cui operiamo oggi sia diverso e che sia compito della Presidenza Italiana fare il possibile per il progressivo ritorno della Russia nell'ambito del G8. La prima ragione nasce ovviamente dalla semplice considerazione di quanto poco l'emarginazione della Russia, comprese le sanzioni, abbia giovato ad una soluzione del conflitto ucraino e come sia invece divenuto sempre più importante il contributo russo al raggiungimento della sicurezza e della lotta contro il terrorismo in Europa e in Medio Oriente. Si può a questo punto obiettare che le stesse ragioni erano valide anche nello scorso anno ma salta agli occhi di tutti come l'invito alla Russia divenga concretamente attuabile solo dopo le inattese e quasi incredibili aperture di Trump nei confronti di Putin. Per essere più semplici sono convinto che una fondamentale ragione per la progressiva apertura nei confronti della Russia derivi dalla convenienza di prendere posizione prima che lo faccia il Presidente Americano. Non mi nascondo certo la difficoltà di procedere in questa direzione. In primo luogo, infatti, occorre vedere se lo stesso Putin potrà accettare l'invito senza un impegno a cancellare le sanzioni contro la Russia, che scadranno nel prossimo luglio. Se non vi sarà una diversa decisione, la loro eventuale abolizione verrà messa all'ordine del giorno solo in occasione del vertice europeo di giugno, cioè dopo lo svolgimento del G8. Vi è inoltre da riflettere se Francia e Germania possano mettere in atto questo cambiamento di politica in un clima pre-elettorale che, per paura della crescita dei partiti antisistema, sembra essere caratterizzato da comportamenti di eccessiva prudenza, anche se sarebbe più conveniente il contrario. Un'iniziativa politica europea mi sembra invece non solo doverosa ma anche opportuna. Si deve inoltre aggiungere che, per gli imprevedibili casi della storia, l'Italia si trova a presiedere il G8 mentre la Germania ha la presidenza del G20 e, per un caso ancora più imprevedibile, il Presidente degli Stati Uniti si sta esercitando quotidianamente in una politica violentemente anti-europea e soprattutto anti-germanica. Ancora più perché costretta da queste imprevedibili evoluzioni, mi sembra quindi giunta l'ora che l'Unione Europea elabori una propria autonoma strategia, coerente con i propri obiettivi di sicurezza politica ed economica. Credo anche che l'Italia, pur tenendo saggiamente conto delle difficoltà e dei rischi di questa strategia più assertiva, abbia l'interesse e il dovere di proporla fin da ora. Comprendo le difficoltà e i rischi di questo cammino. Sono tuttavia convinto che sia un cammino giusto e conveniente e che, anche se dovesse andare in porto per tappe successive, i primi passi debbono essere cominciati oggi. LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016 Pag 1 Delegittimati dal ritorno al passato di Fabio Bordignon Nel caos post-referendario, sono molti i segnali di un ritorno al passato. Il primo e il più evidente: la riaffermazione di una meccanica politico-elettorale di impronta marcatamente proporzionale. L’intervento della Corte costituzionale, con l’amputazione della seconda gamba della Riforma renziana, sembra avere definitivamente invertito il percorso maggioritario degli ultimi vent’anni. Certo, rimane il premio assegnato dall’Italicum, ma vincolato alla soglia del 40%, ad oggi difficilmente raggiungibile. E, comunque, previsto per la sola Camera dei deputati. Mentre al Senato vige il sistema, puramente proporzionale, ritagliato da un precedente pronunciamento della Consulta: quello che sentenziò il Porcellum. Insomma, avanti verso la “Prima Repubblica”? Anche l’attuale governo e l’attuale premier sembrerebbero sottolineare il cambio di stagione. Basta con la personalizzazione estrema, l’iper-attivismo mediatico, il politico-celebrità. Sembra quasi un presidente del Consiglio democristiano, Gentiloni: misurato, quasi invisibile. Al servizio del proprio partito. Ma tutelato da un presidente della Repubblica rigoroso custode dell’impianto parlamentare della nostra democrazia: lui sì, peraltro, cresciuto alla scuola della Dc. Anche per queste caratteristiche, l’attuale governo non

dispiace agli italiani. Quantomeno, viene visto come un interludio salutare: un fattore di stabilizzazione, rispetto alle turbolenze dei mercati, e di pacificazione, dopo la battaglia referendaria. Eppure, tutto questo, più che la prima stagione della storia repubblicana, sembra evocare i primi mesi del governo Monti. Anche allora si parlò di un cambio di paradigma. Anche allora, l’austerità e il basso profilo mediatico del Professore e dei suoi tecnici rimarcavano la discontinuità rispetto ai fuochi d’artificio del berlusconismo. Si pensò che quel modello potesse durare, addirittura che da quella esperienza potesse nascere una nuova balena bianca. La successiva campagna elettorale, verso il voto 2013, mostrò come tali letture fossero fuorvianti. Perché le dinamiche del consenso sono ormai strettamente intrecciate alle logiche mediatiche. Che a loro volta mettono in scena la corsa tra i leader: una horse race nella quale il giaguaro di Bersani finì subito fuori competizione. Gli stessi elettori hanno interiorizzato queste regole non scritte. Così come si sono abituati all’idea di eleggere il proprio governo e il proprio premier. Lo dimostrano le polemiche di queste settimane sul “quarto governo consecutivo non eletto”. O il dibattito sulla necessità - a destra, a sinistra, o nel M5s - di primarie per individuare il candidato premier. Ma (anche) il prossimo premier non sarà eletto dagli elettori. Magari - e non è affatto scontato - a conquistare Palazzo Chigi sarà il leader del partito che ha “vinto” le elezioni. Ma solo dopo essersi costruito una maggioranza: in parlamento e nei tavoli di trattativa tra partiti. Stringendo alleanze non dichiarate prima delle elezioni, probabilmente indigeste agli stessi elettori che gli hanno affidato il proprio voto. Insomma, uno scenario da “Prima Repubblica”, privo però del grado di legittimazione del quale, per una lunga fase, quel modello ha goduto. Del resto, non ci sono più i partiti di allora. La statura della classe politica appare lontana. Soprattutto, alle spalle dei partiti e dei leader, non c’è più la società novecentesca, con le sue coordinate e i suoi riferimenti valoriali. Quello che potremmo trovarci di fronte è, invece, una sorta di democrazia a due tempi: un tempo per la campagna elettorale, con finti candidati premier che fingeranno di poter vincere, rincorrendo il 40%; un tempo per la fase post-voto, nella quale uno dei tanti sconfitti (o qualche mezzo vincitore) dovrà trovare un accordo con altri sconfitti. Si tratterebbe di una alternanza, schizofrenica, tra le logiche della Prima e della Seconda Repubblica. Con il probabile effetto di alimentare la delegittimazione del sistema. Pag 1 America, lo spauracchio della “tigre di carta” di Giancesare Flesca Le ultime notizie in arrivo dal pianeta Trump dovrebbero indurre a riflettere tutti i protagonisti della scena internazionale, in special modo - vedremo dopo il perché - i leader dell’Unione Europea. Al momento gli Stati Uniti sembrano la prolunga di una pretura italiana, dove si decide tutto e il contrario di tutto in base a cavilli che fanno la gioia (e la fortuna) dei legulei. Cronaca giudiziaria e cronaca politica si intrecciano. Il giudice James Robart di Seattle ha disposto venerdì la non applicabilità del bando Trump che vieta l’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini provenienti da sette paesi. Quando l’ha saputo, il miliardario ha commentato ricorrendo come sempre al tweet: «Ridicolo». Non ha cambiato idea quando gli hanno spiegato che Robart è un giudice nominato da George W. Bush e sostenuto nel corso degli anni dal partito repubblicano. E che la sua ordinanza non mette la parola fine alla campagna per il bando degli islamici, poiché ci saranno sospensive, contro-deduzioni, appelli e così via. Di ridicolo è rimasto solo un fatto. La prima persona entrata negli Usa dopo la sentenza è una cittadina iraniana, e l’Iran, come sappiamo, è il Paese che più sta sulle scatole a Donald Trump da sempre, e in special modo da quando è arrivato alla Casa Bianca. Lo detesta tanto che si è spinto fino a minacciare guerra a Teheran. Così facendo ha capovolto la politica di Obama: e questo, più che la minaccia agli ayatollah, è quel che davvero gli interessa. I suoi proclami contro l’Obamacare, contro i trattati commerciali internazionali e contro l’Europa non hanno avuto finora riscontri concreti nella realtà. Ciò nonostante la metà dei cittadini appoggia ancora Trump, perché crede fideisticamente che egli stia davvero rispettando le promesse fatte in campagna elettorale. E con questa realtà bisogna misurarsi senza sopravvalutare i molti bacini di resistenza che il trumpismo sta incontrando ovunque nel Paese, dove continuano marce, cortei, proteste contro di lui, sponsorizzati - dice la propaganda di regime - dal finanziere George Soros. L’episodio più significativo è la decisione di tagliare i fondi federali all’Università di Berkeley, quella di

Marcuse e di Angela Davis, per rappresaglia verso un burrascoso sit-in contro di lui. E il peggio è ancora da venire. L’arrivo del razzista dichiarato Steve Bannon alla Casa Bianca in posizione di responsabilità potrebbe riservare tremende sorprese. Ma potrebbe anche provocare una reazione, stavolta sì di massa, da parte dei cittadini americani. John Dean, ex consigliere di Nixon, scrive su the Nation che la presidenza Trump «finirà con una calamità». E dunque prima che il presidente americano consolidi il proprio potere con le buone o con le cattive, è decisivo che l’Europa ne raccolga la sfida e passi al contrattacco. Una buona notizia è il “no” all’ambasciatore che Trump aveva mandato a Bruxelles, Ted Mulloch, che si era presentato con queste parole: «Nella mia carriera ho aiutato ad abbattere l’Unione Sovietica, adesso mi pare che ci sia un’altra Unione da scuotere». Trump ha risposto rincarando la dose contro la Ue ma in particolare contro Angela Merkel, da lui accusata di aver anteposto gli interessi della Germania a quelli dell’Unione. Un giudizio che sa di miele per la canea populista europea. Ma anche l’establishment continentale sembra pronto a indossare i guantoni, senza più nascondere che gli Stati Uniti sono un rivale non un amico dell’Unione. Il campo di battaglia è quello di opporre i propri valori a quelli di un’America tornata ad una sorta di maccartismo. Fra i valori c’è quello dell’eguaglianza, per cui c’è da sperare che al prossimo Consiglio Angela Merkel spieghi meglio il concetto di un’Unione “a due velocità”. A chi minaccia di mandare l’esercito contro i peones messicani bisogna contrapporre un’Europa dell’accoglienza e dell’integrazione, approfondendo i concetti espressi a Malta in embrione. E se accadesse che trattando Trump come una “tigre di carta” e rifuggendo dalla paura il Vecchio continente ritrovi finalmente se stesso? Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 L’equivoco della classe dirigente di Sergio Rizzo Le ultime rivelazioni su Virginia Raggi, dalla polizza vita stipulata «a sua insaputa» dall’ex segretario particolare Salvatore Romeo al dossier costruito dagli amici della sindaca per screditare un potenziale concorrente alla poltrona da lei occupata, rendono ancor più macroscopico il vero punto debole del Movimento 5 stelle. Così debole da pregiudicare, come stanno penosamente dimostrando le peripezie nella Capitale, la stessa capacità di governo: il che, per una forza politica che si propone per guidare un Paese del G7, non è un dettaglio trascurabile. Parliamo della qualità di una classe dirigente selezionata con metodi che fanno acqua da tutte le parti. Si dirà che questo non è soltanto un problema del Movimento di cui Beppe Grillo è garante. La prova è riscontrabile nella situazione stessa di un Paese bloccato, conseguenza anche di un progressivo degrado delle classi dirigenti di ogni ordine e grado: dalla politica alla burocrazia pubblica, alle professioni, alla finanza... Ma proprio per tale ragione un Movimento con la fondata aspirazione di cambiare l’Italia non dovrebbe commettere un errore così marchiano come quello di affidare (di fatto) al caso le scelte decisive. Quelle, cioè, che riguardano le persone alle quali affidare ruoli tali da presupporre competenze, esperienza, cultura e attitudini. I risultati delle selezioni online sono purtroppo sotto gli occhi di tutti. La questione era apparsa già evidente con le elezioni dei rappresentanti del Movimento alle elezioni politiche del 2013. Ma in Parlamento i grillini sono all’opposizione e tale condizione di solito fa passare in secondo piano certi deficit qualitativi del personale politico. Ben diversa è la musica nei Comuni, dove amministrare è in qualche caso ancora più complicato che ai livelli istituzionali superiori. Come dimostra appunto, al di là delle implicazioni di carattere penale, il caso di Roma. Qui l’inefficienza del metodo di selezione ha toccato la sua punta massima, se è vero che la capitale d’Italia era finita nelle mani di «quattro amici al bar», a quanto pare concentrati più su piccole beghe di potere (anche personale) che sull’aggressione ai guai della città. Il fatto è che un ceto politico dirigente impreparato, frutto di scelte approssimative e non meritocratiche, eletto unicamente sulla base dell’adesione a determinati principi, se chiamato a governare deve necessariamente attingere a esperienze estranee. Con tutti i rischi del caso, incluso quello di trovarsi a dover riciclare figure compromesse proprio con il sistema che si vuole sradicare, com’è accaduto con Raffaele Marra. Anche se qui non è stato soltanto il caso a determinare un sodalizio tanto stretto fra la sindaca di

Roma e l’ex dirigente del patrimonio capitolino dell’epoca di Gianni Alemanno. Per non parlare poi dell’ex assessore all’Ambiente Paola Muraro, per 12 anni consulente dell’Ama e indagata per reati ambientali: la sua nomina è stato il primo grave errore di Virginia Raggi. La storia che si snoda all’ombra del Campidoglio in salsa grillina testimonia quanto siano pericolosi gli effetti di un meccanismo selettivo modellato sui social media, che spinge a creare gruppi chiusi di amici e affini. Il sistema incentiva la diffidenza verso tutto ciò che non appartiene a quel mondo, con il risultato di favorire anche il tanto deprecato familismo: la forma di selezione in assoluto meno efficiente che si conosca. Tutto questo, combinato con l’applicazione di regole etiche dettate dall’alto (ma interpretabili secondo le convenienze) rappresenta uno strumento formidabile di coesione. Ma anche una comoda arma per evitare le contaminazioni ed emarginare, quando necessario per i rapporti di potere, i presunti eretici: sacrificando pure, se del caso, i pezzi migliori. Ne sa qualcosa il bravo sindaco di Parma Federico Pizzarotti. La morale? L’onestà tanto sbandierata è una condizione certo necessaria, ma purtroppo non sufficiente. Per cambiare un Paese, e Dio solo sa se l’Italia ne avrebbe bisogno, serve una classe dirigente onesta e capace. Scelta per i suoi meriti, oltre che per la fedeltà a determinati ideali. Questi mesi al governo della Capitale hanno messo a nudo il fallimento assoluto e senza appello di quel metodo di selezione. Urge prenderne atto al più presto, se non si vogliono dissipare le speranze di milioni di italiani che hanno puntato sulle 5 stelle. Pag 1 Berlusconi e i due ministri di Francesco Verderami Berlusconi è uomo di folgorazioni e delusioni. E se su Renzi ormai è calato il velo, su Calenda e Franceschini è scattato l’entusiasmo dell’infatuazione. Il Cavaliere ci mette poco per farsi prendere dal trasporto (politico), e con i due ministri del governo Gentiloni è stata una fiammata. Del titolare per lo Sviluppo Economico, l’altro ieri diceva: «Com’è bravo, lo potremmo candidare a premier». Del titolare per la Cultura, ieri ha detto: «Com’è bravo, potrebbe essere il presidente del Consiglio ideale per un governo di larghe intese». Ovviamente il fondatore del centrodestra non direbbe simili cose se si potesse candidare. Ma siccome (per ora) non può, è sempre a caccia di qualcuno per passare il tempo. Pare si sia intrigato persino del sindaco di Milano, se è vero che l’ha messo sotto osservazione e ha commissionato su di lui una pila di sondaggi. D’altronde Sala era «la mia prima scelta», così almeno si fece sfuggire all’indomani del ballottaggio per Palazzo Marino: «Gli avevo parlato per candidarlo con noi, mi rispose - questa la versione di Berlusconi - che non poteva perché temeva di finire sulla graticola dei magistrati». Vista la prospettiva di grandi coalizioni, le strade potrebbero incrociarsi. Nell’attesa, Calenda e Franceschini hanno un po’ colorato le sue giornate, ingrigite dai rigurgiti giudiziari: il primo ha aperto il vaso di Pandora in casa Renzi, dicendo che «sarebbe un rischio per il Paese andare alle urne in giugno»; il secondo ha aperto alla trattiva con Forza Italia sulla legge elettorale, dicendo che bisognerebbe assegnare il premio di maggioranza alla coalizione non più alla lista. Progetto a cui mira anche Alfano. Berlusconi è pronto ad accettare, per evitare la convivenza con Salvini, che a sua volta - non volendosi «mischiare» con Berlusconi - non ha bocciato la proposta, avendo l’ambizione di riscoprirsi davanti al Cavaliere all’apertura delle urne. Ma, per dirla con Verdini, «sulla legge elettorale siamo ancora alle schermaglie»: bisognerà attendere le motivazioni della Consulta alla sentenza sull’Italicum - secondo il capo di Ala - per sapere «le reali intenzioni di Renzi», per capire cioè quando e come si andrà a votare. Tutti gli uomini di Berlusconi vorrebbero capirlo prima, e si interrogano se sia opportuno alzare il telefono per far parlare il Cavaliere con il leader del Pd, o se invece sia preferibile attendere lo squillo. Ogni opzione comporta dei rischi: nel primo caso il timore è che Renzi non risponda, nel secondo che il telefono resti muto. E allora tocca a Letta tenere un piede nel campo di Agramante, in modo da sapere cosa accade nel Pd. Così al Cavaliere viene riferito che il Guardasigilli Orlando è favorevole al premio di coalizione, «anche se ancora da noi è tutto confuso». La confusione è tale - secondo quanto saputo da Berlusconi - che Delrio sarebbe rimasto sorpreso dall’intervista di Renzi al Tg1: «Doveva aprire al premio di coalizione e non l’ha fatto». Ogni informazione che riceve, rafforza nel capo degli azzurri il convincimento che il leader dem non abbia ancora smaltito la botta referendaria: non tanto perché non ha detto ciò che avrebbe voluto

dire, ma perché ha detto ciò che non avrebbe voluto dire. Per esempio la battuta sul «vitalizio dei parlamentari», di cui si sarebbe pentito. Ma se al Nazareno piangono, ad Arcore non ridono. Per esorcizzare la paura dei Cinquestelle, circola la battuta che - se Grillo vincesse - staccherebbe anche l’antenna della tv a casa del «dottore». La speranza di ottenere il premio di maggioranza alla coalizione, porta Berlusconi a essere prudente e a far rilasciare poche dichiarazioni di plauso per la proposta di Franceschini, onde evitare che finisca schiacciata da un sua pubblica approvazione. Intanto si prodiga nel vecchio ruolo del federatore. «Più si può allargare l’alleanza, meglio è», ha detto ai suoi sherpa: «Parlate con tutti». E anche lui ha ripreso a parlare con tutti, riesumando persino la geniale idea del ’94 che lo portò a Palazzo Chigi: il Polo della Libertà e il Polo del Buongoverno. Da allora però è cambiato il mondo. Pag 6 La “cosa” di D’Alema può superare l’8%. Ma la sfida al leader è in salita dentro il Pd di Nando Pagnoncelli L’ex premier eroderebbe il 3% dei voti ai dem Il panorama politico si fa sempre più complesso. In particolare nel momento in cui si affaccia la concreta possibilità che alle prossime elezioni (sulla cui data il dibattito è acceso) si vada con una legge sostanzialmente proporzionale, le divisioni nel Pd si accentuano. La sconfitta referendaria e le dimissioni del premier hanno provocato una ridislocazione di parte delle sensibilità e delle correnti presenti nel partito, con un crescere delle critiche al segretario e una presa di distanza dall’ipotesi di votare il prima possibile. Ancora in discussione il percorso congressuale, naturalmente vincolato alla data del voto. Sembra prendere quota l’ipotesi delle primarie, anche se non è ben chiaro quale possa esserne la valenza con una competizione di carattere proporzionale. Abbiamo quindi testato, come la settimana scorsa per il centrodestra, le primarie Pd, l’interesse e le intenzioni di voto. L’attenzione coinvolge complessivamente oltre il 20% degli italiani. Per le primarie di centrodestra la quota era simile, il 17% dei nostri connazionali. Si tratta di competizioni gradite perché i cittadini si sentono chiamati a scegliere direttamente il proprio rappresentante, superando i «rituali» della politica . La partecipazione - L’interesse però non significa partecipazione effettiva: sappiamo che le ultime consultazioni primarie, quelle tenute nel 2013 dal Pd e vinte da Renzi, hanno coinvolto poco meno del 6% del totale elettori. Questa attenzione si massimizza naturalmente nell’elettorato di riferimento: poco meno della metà degli elettori Pd si dichiara interessato alla consultazione (con il 17% molto interessato), mentre a sinistra l’interesse si attesta intorno al 20%, con una quota di fortemente interessati analoga a quella del Pd (16%). Sembra profilarsi una competizione a sinistra, pur se naturalmente molto sbilanciata, visto il maggior peso dell’elettorato del Partito democratico. La leadership di Renzi non è messa in discussione. Sul totale degli interessati infatti raggiunge il 59% dei voti, contro il 10% di Emiliano, l’8% di Rossi, il 5% di Speranza. Mentre a sinistra trionfa Speranza, con il 60% dei voti, seguito da Emiliano e Rossi (rispettivamente al 20% e al 15%) e Renzi scompare (solo il 2% degli elettori di quest’area si esprime per l’attuale segretario), la situazione si ribalta nel Pd, dove l’ex premier arriva al 67%, con Emiliano al 10%, Rossi all’8% e Speranza solo al 2%. Sono le misure raggiunte nel 2013, quando l’attuale segretario ottenne circa il 68% dei voti contro due competitor collocati anch’essi a sinistra (Cuperlo e Civati). Le scelte - Ai blocchi di partenza, non sembra esserci possibilità concreta di scalzare Renzi: anche se gli incerti si ricollocassero tutti sugli altri candidati, si assicurerebbe comunque la maggioranza. Ma è indubbio che nel Pd sia indispensabile un processo di ricomposizione, di definizione degli obiettivi comuni, di ricostituzione del gruppo dirigente. Le primarie possono assolvere un ruolo importante in questo senso. Ma, lo ribadiamo, un leader consacrato dalle urne ha comunque un peso ridotto quando la competizione è proporzionale. Le insidie per il Pd non finiscono con le primarie. È di questi giorni l’ipotesi della costituzione di una lista di sinistra collegata a D’Alema, che potrebbe raccogliere i dissidenti di sinistra. Le stime, come si sa, sono complesse. Si tratta di una forza non ancora nata, di cui semplicemente si ipotizza la presenza. Indubbiamente essa ha una buona attrattività anche se, secondo i nostri dati, non nella misura che qualcuno ha indicato. Infatti la stima di voto evidenzia come ci sia un bacino già acquisito che si aggira intorno a poco meno del 4% del totale degli elettori, grosso

modo una cifra vicina al 6% sui voti validi. A questo bacino acquisito, ovvero elettori che sono convinti di votare per questa nuova formazione, va aggiunto un altro gruppo di elettori potenziali, ovvero molto vicini alla lista, ma ancora indecisi. Un gruppo che vale poco meno di due punti sul totale degli elettori, circa tre sui voti validi. Complessivamente quindi si tratta di una lista che potrebbe arrivare, allo stato attuale, tra l’8 e il 9% dei voti validi. I voti tolti ai dem - I bacini da cui la nuova formazione potrebbe pescare sono diversi. Innanzitutto l’elettorato Pd: circa il 40% dei voti proverrebbero da elettori di questo partito. Ciò significa che il Pd potrebbe perdere circa 3 punti del proprio consenso (oggi stimato intorno al 30% dei voti validi) a favore della formazione dalemiana. È interessante il fatto che essa recupererebbe anche nell’area grigia del non voto o degli incerti. Da qui verrebbe poco meno del 30% dei suoi consensi. Ancora, i consensi potenziali potrebbero venire da elettori che attualmente si orientano sulle forze di sinistra: poco meno del 20% dei consensi, pari a circa 1 punto e mezzo sui voti validi. Dato che nel loro complesso le forze di sinistra sono stimate oggi intorno a poco più del 4%, sembrano esserci degli spazi di ulteriore conquista, anche se in questo caso si tratterebbe di valutare l’appeal in quest’area del progetto Pisapia. Infine è interessante il flusso di voti che potrebbe arrivare dal Movimento 5 Stelle, intorno al 15%. Il panorama è complesso, come detto, e tutto è in movimento, non solo nell’ambito del centrosinistra. Ma l’ipotesi di strappare a Renzi, per quanto indebolito, la leadership, sembra per ora una strada davvero difficile. Pag 7 Salvini in Vaticano dal cardinale filo-Trump di Gian Guido Vecchi L’incontro di un’ora e mezza con l’ultratradizionalista Burke Città del Vaticano. A prima vista non potrebbero essere più diversi, il cardinale americano che ama celebrare in «cappa magna» - un principesco strascico purpureo di parecchi metri - e il politico padano in felpa e jeans. Ma il cardinale ultratradizionalista Raymond Burke e Matteo Salvini condividono un’ammirazione per Donald Trump unita a una certa avversione, diciamo così, per la linea di papa Francesco sui migranti. La notizia del cardinale che giovedì pomeriggio ha ricevuto il leader leghista nel suo appartamento, per un’ora e mezza, è rimbalzata ieri dall’agenzia Agi alla Rete senza che arrivassero conferme né smentite. Ma il «no comment» della Lega è eloquente, finché la sera Matteo Salvini sorride, «diciamo che sono stato a un incontro riservato in Vaticano», e spiega al Corriere : «Posso dire solo che è sempre un’emozione discutere di certi temi a certi livelli, e ne siamo usciti con tanta forza in più...». Un’iniziativa curiosa, specie per il cardinale, considerato che i rapporti «diplomatici» sono in genere una prerogativa della Segreteria di Stato e ai piani alti del Vaticano nessuno sapeva. Si è parlato anche di questioni italiane. Non che il cardinale Burke si faccia problemi. Capofila dell’opposizione più esplicita a Francesco, nel 2014 è stato spostato da prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica all’incarico meno prestigioso di «patrono» dell’Ordine di Malta. Pochi mesi fa, inorridito dalle aperture sui divorziati e risposati nell’esortazione Amoris Laetitia, dopo il Sinodo sulla famiglia, è arrivato a rendere pubblica una lettera inviata a Francesco perché i «dubbi» espressi non avevano ricevuto risposta, e annunciato un «atto formale» per «correggere il Papa», richiamandosi alla «Tradizione» e a «Giovanni XXII» che «fu corretto» nel Trecento. Del resto c’era lo stesso cardinale dietro lo scontro interno all’Ordine di Malta, con il Gran Maestro vicino a Burke che ha opposto la «sovranità» dell’Ordine rispetto al Papa e infine è stato costretto a dimettersi. Dopo l’elezione di Trump, Burke considerava: «Mi pare che il nuovo presidente capisca bene quali sono i beni fondamentali per noi importanti». Salvini, cui già era capitato di rilanciare sui social le uscite del cardinale («L’Islam è una minaccia, loro scopo è prendere Roma»), ieri scriveva: «Il “Metodo Trump” dovrebbe essere attuato anche in Italia». Pag 10 La locomotiva tedesca ha il motore arrugginito (e Schultz è in rimonta) di Federico Fubini A prima vista non sarebbe logico che la Germania torni politicamente contendibile ora. Mentre si avvicina alla fine il terzo mandato di Angela Merkel nella cancelleria, la

Repubblica federale non era mai stata così in pace con se stessa, così prospera e vicina alla piena occupazione, così competitiva e, in apparenza, finanziariamente solida. Mai prima nella storia era stata riconosciuta da tutti gli europei come il solo vero Paese leader anche quando - come ieri - ripropone un sistema «a due velocità». Il sorpasso nei sondaggi - Eppure i tedeschi non sembrano convinti. L’ultimo sondaggio mostra che, in un’elezione diretta, il candidato socialdemocratico Martin Schulz arriverebbe al 50%. La cancelliera sarebbe inchiodata al 34%: per la prima volta da 10 anni, non è il politico più popolare. Naturalmente in Germania si eleggono i partiti, non i candidati, e l’Unione cristiano-democratica e sociale di Merkel nei sondaggi viaggia sempre davanti ai socialdemocratici. Eppure anche lì il vantaggio è sceso rapidamente da 16 a soli 6 punti (34% contro 28%). Né è possibile liquidare i dubbi sulla cancelliera semplicemente come una reazione contro l’accoglienza dei rifugiati, perché in questo Schulz è anche più determinato di lei. In parte conta senz’altro la personalità dello sfidante: da decenni al Parlamento europeo, in Germania Schulz è un uomo nuovo, duttile e scaltro, capace di costruire una narrazione attorno alla sua figura di ex giovane promessa del calcio che si rifugia nell’alcol quando un infortunio gli stronca la carriera. Quindi il riscatto e l’ascesa, da libraio di provincia a presidente dell’Europarlamento a Bruxelles. Il malumore tedesco - Ma anche le storie più seducenti non gonfiano le vele di un candidato, se nel Paese manca un vento di malumore. E in Germania non manca. Perché se c’è qualcosa che sorprende nella più vasta ed efficiente economia d’Europa non sono i tassi di crescita attuali (1,9% nel 2019), ma il fatto che non siano più alti. I dati dicono che nel motore della locomotiva d’Europa qualcosa non va come potrebbe, nelle condizioni apparentemente perfette di oggi. Il Paese vanta il tasso di partecipazione al lavoro più alto della sua storia; fra il 2011 e il 2015 ha ricevuto un flusso netto di 400 mila lavoratori giovani e istruiti dall’Europa del Sud e un altro milione dall’Europa centro (secondo l’agenzia statistica tedesca); gode di tassi sotto zero sul debito, nessun deficit e 300 miliardi di avanzo sull’estero ogni anno. Eppure, per certi aspetti, la Germania è fra le economie meno dinamiche: terzultima nell’area euro dopo Grecia e Italia per il tasso medio di crescita per abitante (0,51%) nei tre anni dal 2014, secondo i dati dell’Fmi. Austria, Belgio, Finlandia, Olanda e persino la Francia fanno meglio. In parte, una frenata è solo naturale. Dopo anni di forte ripresa la Germania è più vicina al suo potenziale dell’Italia o della Francia, dunque ha meno spazio per accelerare. Per di più negli ultimi 18 mesi ha accolto oltre un milione di rifugiati e questi ultimi non aggiungono potenziale, ma riducono la crescita per abitante. Anche così, però, non tutto torna, e non solo perché in passato altri forti flussi di rifugiati non avevano prodotto simili frenate. Altri indizi segnalano malessere. Dal punto più drammatico della crisi dell’euro nel 2012, ad esempio, le banche tedesche hanno messo in atto una silenziosa ritirata dall’Europa. In questo si sono comportate in modo diverso da quelle di qualunque altro Paese: hanno ridotto la loro esposizione su Italia, Francia, Spagna, Olanda, Portogallo, Irlanda e Austria per circa 200 miliardi di euro, secondo la Banca dei regolamenti internazionali. L’esposizione sull’Italia è scesa sotto i minimi di prima dell’avvio dell’euro, quella sulla Spagna quasi. Il sistema finanziario tedesco sta disinvestendo dall’Europa, mentre quelli di Francia, Spagna, Italia o Olanda muovono in direzione opposta. Gli investimenti in calo - Può darsi che i regolatori in Germania stiano istruendo le banche a ridurre i rischi nel resto dell’area euro, perché non credono nel futuro della moneta. Può darsi anche che gli istituti tedeschi siano impediti da una redditività fra le più basse d’Europa (anche qui, con Italia e Grecia). In ogni caso la grande ritirata finanziaria tedesca dal resto d’Europa non lascia intravedere niente di buono per la fiducia e gli investimenti anche nel Paese. Questi ultimi sono scesi di oltre 120 miliardi di euro l’anno in termini reali dai livelli di avvio dell’euro, secondo l’Fmi. Al netto della svalutazione degli impianti già costruiti, gli investimenti oggi sono in caduta. Non può dunque essere un caso se la striscia degli ultimi 4 anni in Germania segna la più debole dinamica della produttività registrata da decenni, secondo l’Ocse. Tutto questo ricorda che proprio il governo tedesco - con quello francese - è quello che ha affrontato meno riforme in Europa negli ultimi dieci anni. Se l’è potuto permettere, per un po’. Ma ora questo torpore strisciante inizia a diventare percepibile, se non altro, nei sondaggi che non premiano più Angela Merkel.

LA REPUBBLICA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 Il post-renzismo al tempo di Renzi di Ilvo Diamanti Il sondaggio di Demos per l'Atlante Politico si è chiuso giovedì, in tarda serata. Quando le polemiche intorno a Virginia Raggi, per la polizza donata "a sua insaputa" e le nomine di collaboratori discussi (come il fratello di Raffaele Marra) erano già esplose. Ma non con il clamore che stanno assumendo ora. D'altronde, questa è una fase di instabilità e di tensioni politiche accese. Che investono non solo il M5S romano. Ma anche il Pd, nel quale leader storici della sinistra interna hanno minacciato una scissione. In generale, tutte le forze politiche sono entrate in fibrillazione, dopo la decisione della Corte Costituzionale, che ha emendato l'Italicum. Dichiarando inammissibile il ballottaggio. E dopo la bocciatura della riforma costituzionale, al referendum dello scorso 4 dicembre, che ha determinato le dimissioni del(l'ex) premier Matteo Renzi. Così, siamo entrati in una fase politica fluida. Nella quale il dibattito si è spostato sulla prospettiva e sulla data delle prossime elezioni. Il sondaggio riflette questo clima incerto. Anzi (Bauman mi perdonerà), "liquido". Anche se le intenzioni di voto non appaiono in grande movimento. Mostrano, tuttavia, alcuni segnali di mutamento. Significativi. Anzitutto, l'indebolirsi, parallelo, dei due partiti che dominano la scena, ormai da anni. Il Pd, perde poco. Mezzo punto appena. Ma scivola sotto il 30%. E tocca il livello più basso degli ultimi due anni, nelle nostre rilevazioni. Il M5s, a sua volta, perde consensi. Quasi due punti, anche se, nel corso del sondaggio, il "caso Raggi" era appena emerso. Tuttavia, anche il M5s scivola sui valori più bassi, (stimati) dalla primavera del 2016. Parallelamente, risalgono i soggetti politici della Destra e del Centro-Destra. Forza Italia, la Lega e, ancor più, i Fratelli d'Italia guidati da Giorgia Meloni. Come se, come in altri Paesi, fosse in atto un processo di radicalizzazione. Anche i soggetti a sinistra del Pd, d'altronde, risalgono. Seppure in misura limitata. In attesa che l'ipotesi di "scissione", avanzata, fra gli altri, da Massimo D'Alema, divenga maggiormente concreta. Quasi 6 elettori su 10, peraltro, pensano che il Pd finirà per dividersi. Si tratta di un'opinione cresciuta sensibilmente, negli ultimi mesi: 10 punti in più rispetto allo scorso ottobre. Ma, soprattutto, questa idea risulta condivisa, in misura pressoché identica (57%), dagli stessi elettori del Pd. Tuttavia, Massimo D'Alema, autorevole sostenitore del rischio "secessionista" nel Pd, non pare aver tratto beneficio sul piano del consenso, da questa posizione. E resta in coda alla graduatoria dei leader, in base al grado di popolarità (20% di fiducia). In effetti, siamo in una fase politica strana. La definirei "post-renziana", se Matteo Renzi non fosse ancora in pista. Nonostante le dimissioni. Perché è evidente che non ha alcuna intenzione di ritirarsi. Eppure qualcosa è sicuramente cambiato, dopo le sue dimissioni da premier. E dopo la bocciatura del referendum. Il primo, evidente, segno di cambiamento nel clima d'opinione è fornito dal grado di fiducia personale espresso dagli elettori. Nell'ultimo mese, infatti, Renzi è sceso di 8 punti. È il leader che ha subito il calo più sensibile. Insieme a Salvini e Grillo, che, tuttavia, hanno perduto minore credito (4-5 punti in meno). D'altronde, il ritiro - temporaneo di un leader si riflette anche sui principali "antagonisti". Ripeto, si tratta di un momento politico singolare. Il post-renzismo al tempo di Renzi. Nel quale agisce un premier sicuramente vicino a Renzi. Sicuramente diverso da Renzi. Paolo Gentiloni. "Personifica" un governo "impersonale". Perché l'attuale premier non ha lo stile di azione e di comunicazione di Renzi. Né di Berlusconi. È post-renziano e post-berlusconiano. Anche se ha una lunga storia politica personale. Questo stile "impersonale", in tempo di partiti e di leader "personali", però, non sembra nuocergli. Almeno fin qui. Anche se la maggioranza degli elettori, il 53%, ritiene che il suo governo sia destinato a concludersi prima della scadenza naturale del 2018. Tuttavia, un mese fa la quota degli scettici, al proposito, era più elevata di 10 punti percentuali. La fiducia nel governo, inoltre, rispetto al momento in cui si è insediato, è salita di 5 punti. E oggi ha raggiunto il 43%. D'altronde, Gentiloni, per quanto "impopulista", oggi è il più popolare fra i leader. Dichiara di aver fiducia verso di lui il 47% degli elettori. Oltre 10 punti più di Renzi. E poi: 9 più di Giorgia Meloni. E 13-14 di più, rispetto a Di Maio, De Magistris, Pisapia e Salvini. I quali, almeno per ora, non esprimono una possibile alternativa di governo. Probabilmente, lo stile "impersonale" del premier asseconda una stanchezza diffusa del Paese. Nel quale la maggioranza dei cittadini invoca l'avvento di un Uomo Forte. Ma solo perché in giro non se ne vede

traccia. D'altronde, molti elettori sono stanchi di miracoli annunciati e di guerre - politiche - praticate. E per quanto credano che il voto incomba, in fondo, lo temono. Perché vorrebbero affrontare le prossime elezioni con regole e soggetti che permettano di immaginare governi e parlamenti stabili. Ma nessuna alleanza, fra i principali partiti, raccoglie il consenso degli elettori. E senza alleanze - parlamentari - nessun governo appare possibile. Visto che non è immaginabile - anche in base ai risultati di questo sondaggio - che un partito, da solo, superi il 40% dei voti validi, come prevede l'attuale legge elettorale, per conquistare da solo la maggioranza dei seggi. Così, 7 elettori su 10, prima di andare al voto, preferiscono attendere. Che si approvi una legge elettorale che garantisca una maggioranza comune alle due Camere. Solo nella base della Lega e del M5s la "voglia" di andare comunque al voto "subito" è più ampia. Ma non di troppo. Così, è possibile che l'era del post-renzismo al tempo di Renzi possa durare più del previsto. Più di quanto vorrebbe lo stesso Renzi. Alla finestra, ma pronto a rientrare in gioco. IL FOGLIO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 Giudici, decreti, orazioni. La ricompensa di Trump alla destra religiosa di Mattia Ferraresi Testo non disponibile Pag 1 Muri mediterranei di Matteo Matzuzzi Roma. Alla chiesa non piace l'intesa tra l'Unione europea (con l'Italia in prima fila) e la Libia dell'instabile governo di Fayez al Serraj per la chiusura della rotta libica. Un muro, l'ennesimo, in mezzo al Mediterraneo, si suggerisce oltretevere. E' l'idea di un'Europa che si chiude a riccio, che irrobustisce le frontiere e che, di riflesso, costringe centinaia di migliaia di disperati a rimanere bloccati tra i campi del Niger e la costa della Tripolitania. E a poco servono le rassicurazioni sul fatto che non vi saranno blocchi navali, anzi. Per padre Camillo Ripamonti, del Centro Astalli, la naturale conseguenza dell'accordo non si tradurrà in meno vittime in mezzo al mare, bensì nell'apertura da parte dei trafficanti di esseri umani di nuove vie ancora più pericolose per chi cerca rifugio in Europa. La linea in Vaticano è chiara, il Papa stesso l'aveva spiegata ancora una volta davanti ai giornalisti che l'intervistavano a bordo dell'aereo che lo riportava in Italia dopo il viaggio lampo in Svezia per la commemorazione del cinquecentesimo anniversario della Riforma luterana, lo scorso novembre: "Non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga. Qui, si paga politicamente; come anche si può pagare politicamente un'imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare. Perché, qual è il pericolo quando un rifugiato o un migrante - questo vale per tutti e due - non viene integrato? Mi permetto la parola - forse è un neologismo - si ghettizza, ossia entra in un ghetto. E una cultura che non si sviluppa in rapporto con l'altra cultura, questo è pericoloso. Io credo che il più cattivo consigliere per i paesi che tendono a chiudere le frontiere sia la paura, e il miglior consigliere sia la prudenza". Ancora di più, Francesco aveva detto nei suoi tre discorsi sull' Europa, a Strasburgo (al Parlamento europeo e al Consiglio d'Europa) e a Roma, ricevendo il Premio Carlo Magno. In quell'occasione, lo scorso maggio, Francesco aveva detto: "Sogno un' Europa in cui essere migrante non è un delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l'essere umano". Prima ancora, intervenendo al Parlamento europeo, il Pontefice era stato ancora più chiaro: "L'Europa sarà in grado di far fronte alle problematiche connesse all' immigrazione se saprà proporre con chiarezza la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l'accoglienza dei migranti; se saprà adottare politiche corrette, coraggiose e concrete che aiutino i loro paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni - causa principale di tale fenomeno - invece delle politiche di interesse che aumentano e alimentano tali conflitti. E' necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti". Qualche giorno fa, poi, parlando a proposito dell'intenzione di costruire un muro tra gli Stati Uniti e il Messico, il cardinale Peter Turkson, presidente del dicastero per la Promozione dello sviluppo umano integrale, aveva osservato che "non sono solo gli Stati Uniti che vogliono costruire i muri contro i migranti, accade anche in Europa". Un continente che

vede la sua leadership divisa, tra chi (specie all'est) vuole riprendere il pieno controllo dei confini - e il presidente del Consiglio europeo, il polacco Tusk, è tra questi - e chi si mostra più disponibile all'integrazione, benché in forme non sempre chiare e senza nitide visioni programmatiche d'ampio respiro. Chi per anni ha portato avanti la battaglia per scardinare i muri del Vecchio continente alzati a protezione dello sterile orticello è stato il cardinale Antonio Maria Vegliò, già presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. Un anno fa, Vegliò - creato cardinale da Benedetto XVI nel 2012, nel suo penultimo concistoro prima della rinuncia avvenuta nel febbraio del 2013 - parlava non a caso di "un momento molto, molto triste per l'Europa". In un'ampia intervista al Servizio d'informazione religiosa (Sir), il cardinale osservava che "ci sono paesi che dovevano accogliere e invece non lo fanno più, come la Germania. Altri che hanno sospeso il Trattato di Schengen. E' una tristezza questa Europa. Posso capire - diceva - la necessità di fare una distinzione con i migranti economici, perché non siamo più l'Eldorado del passato, ma i profughi che scappano dalla guerra? Come si fa a non accoglierli?". Nessun buonismo di facciata, anzi: "Non è possibile accogliere tutti i migranti", precisava lo scorso autunno, ribadendo però che "questo non può significare chiusura". Anche perché, diceva, "più della metà dei rifugiati nel mondo ha meno di diciotto anni, mentre cinquanta milioni di bambini stanno vivendo la tragedia della migrazione e ventotto milioni sono stati costretti a fuggire per i conflitti". Tradotto, "un bambino ogni duecento nel mondo è un rifugiato". Quanto alla posizione della chiesa - osservata speciale soprattutto negli Stati Uniti, dove l'atteggiamento delle alte gerarchie episcopali verso l'Amministrazione di Donald Trump è guardato con attenzione quasi quotidiana - Vegliò chiariva che essa "non entra nel dibattito", anche se "bisogna trovare un equilibrio tra il rispetto dell' identità e il rispetto dei diritti". IL GAZZETTINO di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 Renzi e il labirinto della selva oscura di Bruno Vespa Il cronista dovrebbe essere il Virgilio del lettore e orientarlo nella selva oscura' della politica. Ma in queste settimane Virgilio rischia di perdersi egli stesso nel bosco perché, come nella favola di Alice, gli alberi cambiano forma e quel che è bello diventa brutto e il brutto può diventare bello. Si prenda Matteo Renzi. E' noto che egli vorrebbe votare a giugno e riprendersi palazzo Chigi. Ma il Pd non è più il Paese delle Meraviglie. Molto di quel che sembrava bello e adorante è diventato brutto e borbottante. A Virgilio, per esempio, è difficile capire quanti di quelli che vogliono prolungare la legislatura fino alla scadenza di febbraio lo fanno perché temono l'instabilità italiana in un quadro europeo inquieto anche per le prospettive elettorali altrui o perché puntano al logoramento di Renzi e alla sua liquidazione politica. Ci sono naturalmente gli uni e gli altri, ma non è facile sempre distinguerli visto il perverso gioco di specchi in corso nella Selva Oscura. I problemi del segretario del Pd non sono pochi. 1. La modifica della legge elettorale sembra complessa e probabilmente non è possibile farla per decreto legge, pur dopo aver raggiunto un eventuale, complicato accordo con Forza Italia. 2. Renzi (come tutti) è ormai rassegnato al proporzionale. Può farsi strada la proposta centrista di premiare le coalizioni e non le liste, sostituire il premio di maggioranza con un premio di governabilità più basso, assegnando alla coalizione vincente un numero di seggi più ridotto, ma sufficiente a raggiungere la maggioranza assoluta con Berlusconi. 3. Renzi dice che potrebbe rinunciare a palazzo Chigi perché non è sicuro che Berlusconi lo accetterebbe di nuovo come presidente del Consiglio. Il Cavaliere è generoso, ma non dimentica lo sgarbo sul Quirinale del 2015 che portò alla fine del Patto del Nazareno. 4. La coalizione di governo con Forza Italia deve essere un punto estremo di arrivo e certo non un punto di partenza, altrimenti la sinistra se ne va. 5. La sinistra se ne andrebbe comunque, incoraggiata dal sistema proporzionale, se Renzi restituisse a Bersani lo stesso numero di seggi garantito che Bersani dette agli amici di Renzi nelle elezioni politiche del 2013, cioè il 12 per cento (più o meno) di quelli sicuri. 6. Anche per Berlusconi che nel profondo dell'animo vuole rompere con Salvini è meglio uscire allo scoperto il più tardi possibile visto che andrebbe a rompere una coalizione sì tormentata, ma viva nel bene e nel male dal 1994.

7. Le primarie del Pd a marzo non sono incompatibili con le elezioni a giugno. La sinistra si accontenterà di ottenere quel che ha chiesto (primarie, appunto) o dirà che il presepe non le piace anche cambiando i pastori perché vuole comunque arrivare all'anno prossimo? 8. Il governo Gentiloni non è affatto debole in sé, ma ovviamente è meno forte di un governo eletto. Il punto è che da un lato si dice che le elezioni anticipate renderebbero difficili gli aggiustamenti finanziari chiesti da Bruxelles e non sta bene far guidate il G7 del 27 maggio da un governo dimissionario. Dall'altro si replica che sarebbe sconveniente per l'attuale maggioranza votare a febbraio dopo una manovra severa (e quindi impopolare) attesa per la fine dell'anno. Qual è la strada giusta nel labirinto della Selva Oscura? Pag 16 Carosello 60 anni dopo, quando nacque la réclame di Paolo Navarro Dina «Le lì le là, le là che l'aspettava, aspettava Miguel. Miguel son mi. E ti, e ti no ti xe niente, e ti e ti no ti xe niente». Per i cinquantenni d'oggi è senz'altro un tuffo nel passato. Di quelli belli. Era il tempo di Carosello. E poi come si diceva nelle famiglie tutti a letto. Proprio in questi giorni, sessant'anni fa, nasceva il mitico, straordinario contenitore serale di messaggi pubblicitari e piccole scenette che duravano al massimo due minuti, pronto al debutto sul Primo Canale Nazionale (l'odierna Rai1). Era il 1957 e Mamma Rai accompagnava per mano gli italiani nei primi anni del Boom economico e del consumismo. Il primo short, il cortometraggio pubblicitario, bucò il teleschermo alle ore 20.50 del 3 febbraio. Il battesimo fu affidato ad una ditta triestina, la Stock, con il suo Stock 84, un brandy tra i più bevuti al bar. E una scenetta: Erminio Macario, comico dell'avanspettacolo, come protagonista e Giulio Marchetti, spalla d'eccezione. Titolo Le avventure del signor Veneranda. E poi altri cinque cortometraggi, e altrettante marche con attori di calibro e di grido allora, come Mario Carotenuto, Carlo Campanini e un giovanissimo Mike Bongiorno. E fu successo. Nutritissima fu la pattuglia veneta e veneziana in particolare. Una delle caratteristiche di Carosello era soprattutto quella di far immedesimare il pubblico regionale col messaggio pubblicitario. Ed ecco quindi il cummenda milanese, la massaia bolognese e la servetta veneta. Ma non solo. Carosello fece grande uso di cartoni animati e di scenette di animazione. Come El Dindondero, che reclamizzava una nota azienda di cioccolato e dolciumi, la Talmone, che si affidava alla parlata veneziana grazie a quel Miguel son mi cantato sotto il sombrero; così come l'Amarena Fabbri coi suoi Pirati all'arrembaggio faceva dialogare coi rispettivi accenti corsari neri siciliani e veneziani pronti a conquistare Venezia durante una Mostra del Cinema. Memorabile uno spot del 1965 coi pirati che esclamano Miezzica o Ostregheta! mentre veleggiano in un surreale Canal Grande in viaggio per il Lido (!). E ancora il successo di Carosello si deve anche a un autore veneziano come Nino Pagot, al secolo Nino Pagotto, nato nel 1908, morto nel 1972, che all'indomani della Prima guerra mondiale, a Milano, diventò uno dei pionieri del cinema d'animazione creando personaggi come I fratelli Dinamite o Calimero. Pagot era uno dei maggiori esponenti della scuola Disneyana veneziana, ma con lui c'erano altri maestri del cartone animato: come Paul Campani con Angelino, angelo distratto tra le nuvole per l'Agip e l'Omino con i baffi per le caffettiere Bialetti, o Guido De Maria con Salomone pirata pacioccone. E poi come non ricordare l'Ispettore Rock, al secolo Cesare Polacco, veneziano, attore e spalla di Totò per tanti anni e che trovò il suo massimo successo come investigatore implacabile di polizia, che ha commesso un solo errore, ovvero il mancato uso della Brillantina Linetti, celebre marchio veneziano di cosmesi per uomini, che gli ha provocato la calvizie? Polacco fu solo uno dei tanti, attori e attrici, che si misurarono con Carosello. Basti pensare a Ernesto Calindri e il suo Cynar contro il logorio della vita moderna e il tavolo in mezzo al traffico caotico; e tanti altri, da Totò a Eduardo De Filippo; da Vittorio Gassman ad Alberto Lupo; da Aldo Fabrizi a Dario Fo e poi Bice Valori, Raimondo Vianello, Sandra Mondaini, Carlo Dapporto, Renzo Arbore fino a Frank Sinatra, Jerry Lewis, la giunonica attrice Jayne Mansfield fino a Yul Brynner. E i registi. Nomi altisonanti: da Gillo Pontecorvo a Sergio Leone, da Federico Fellini a Pier Paolo Pasolini. Ma quelli che più sono rimasti nella mente degli italiani sono stati gli slogan: Nooo, non esiste sporco impossibile (col chitarrista jazz Franco Cerri immerso nell'acqua per pubblicizzare un detersivo...); oppure La pancia non c'è più dell'attore Mimmo Craig per

reclamizzare un olio, fino al tormentone di Paolo Ferrari, grande attore di teatro, costretto a mercanteggiare due fustini di detersivo anonimo con quello di Dash e le massaie che sdegnate rinunciavano. Ma i gusti del pubblico e pure il mercato pubblicitario cominciavano ad evolversi. E fu così anche la morte di Carosello: dopo vent'anni di onorato servizio e ben 7.261 scenette, la Rai l'1 gennaio 1977 decise di interrompere l'esperienza. Nel 2013, poi, la Tv di Stato tentò un rilancio con Carosello Reloaded, ma ormai era tutta un'altra cosa. LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016 Pag 1 Raggi story, fallimento per il M5S di Claudio Giua Come reagirei se un funzionario di secondo piano del mio Comune facesse in campagna elettorale un potenziale regalo di trentatremila euro a un accreditato candidato a guidare l’amministrazione cittadina? E se addirittura questo stesso politico, una volta eletto, triplicasse lo stipendio e decuplicasse o centuplicasse il potere del suo benefattore? Pretenderei le dimissioni immediate del primo e il licenziamento in tronco dell’altro oppure lascerei fare, come nella Napoli delle scarpe spaiate di Achille Lauro? Sono domande che dovrebbero porsi sia i cittadini di Palermo, di Genova, di Padova, di Belluno, di Gorizia, di Lucca, di Pistoia e degli altri 984 centri al voto in primavera, sia i militanti e i simpatizzanti del Movimento 5 Stelle. A Roma, dove l’ultimo atto della Raggi-story s’è sviluppato nei tempi e modi appena riassunti, se lo stanno chiedendo in molti. È utile che lo stesso facciano tutti gli italiani. È fuori da ogni dubbio che Virginia Raggi non possa più restare al Campidoglio pur vantando - come ha detto ieri la sventurata - «tutta la fiducia di Grillo»: il quale vota a Genova, mica nella capitale. Il M5S ha regolamenti e strumenti per mettere la parola fine a un calvario politico e mediatico che dura da troppo. Se non fosse che viene messa in moto solo quando il fondatore e il figlio di Gianroberto Casaleggio hanno bisogno di un plebiscito alla Todor Zivkov, la misteriosa piattaforma digitale Rousseau potrebbe essere usata per far scegliere ai militanti registrati se cacciare o meno la sindaca. Non accadrà. La domanda ineludibile è invece un’altra: si possono affidare al Movimento 5 Stelle altri comuni di medie o grandi dimensioni o addirittura il governo del Paese? Per rispondere bisogna valutare serenamente le loro quattro esperienze in grandi città. La prima in ordine di tempo è Parma, dove Federico Pizzarotti è stato eletto nel 2012; mai entrato in sintonia con Grillo, ne ha subito la sconfessione fino al recente divorzio. Nonostante l’isolamento politico, i numeri e le cronache certificano che Pizzarotti è un sindaco capace e presente, che ha ridato dignità a un’amministrazione umiliata dai suoi predecessori. Due anni e mezzo fa il Movimento ha conquistato Livorno, dove ha piazzato l’ingegner Filippo Nogarin. Politico alle primissime armi, ha inanellato molti errori. Di recente pare aver trovato qualche sintonia con una comunità pesta, difficile e disillusa. Nel giugno scorso è andato a segno l’uno-due grillino che ha steso il Pd a Torino con Chiara Appendino e a Roma con Raggi. La sindaca piemontese ha avuto la fortuna di prendere il posto di un eccellente amministratore come Piero Fassino, che le ha lasciato in eredità un comune ben gestito. Roma, finita con Virginia Raggi nell’apparente disponibilità di un comitato d’affari che rappresenta i poteri forti della destra, è totalmente fuori controllo. In otto mesi la giunta non ha messo in cantiere nulla, bloccata com’è dai veti reciproci delle bande del grillismo locale e dall’ecatombe di assessori e funzionari apicali, né affrontato alcun problema, a cominciare da trasporti e spazzatura. Di rilievo solo i “no” definitivo alle Olimpiadi e temporaneo allo stadio della Roma e l’approvazione tardiva del bilancio, salutata come un trionfo dai consiglieri della maggioranza. Va riconosciuto che a Parma, a Livorno e a Torino non si segnalano danni gravi provocati dalle amministrazioni M5S. Ma la vicenda Raggi è sufficiente per far temere che, al di sopra della soglia media di difficoltà, i grillini falliscano. Hanno pochi precedenti l’inesperienza politica, l’inefficienza amministrativa, l’instabilità personale che la sindaca ha finora mostrato. S’è già ipotizzato che la prima cittadina sia ostaggio di una cricca di disonesti o incapaci: sarà la magistratura a dare una risposta. Non bisogna invece attendere inchieste e sentenze per sanzionare la sua incapacità a scegliere i collaboratori (Muraro, Marra, Romeo). Insomma, quella romana è una questione morale-criminale oppure una questione di totale stupidità. Comunque sia, un disastro.

Pag 1 Il radicalismo e la fragilità della Libia di Renzo Guolo Mentre al Louvre ricompare il fantasma jihadista, a Malta l’Unione europea cerca una soluzione alla questione libica. Lo fa benedicendo il memorandum siglato da Gentiloni e Serraj, frutto di lunghi negoziati sfociati nel precedente viaggio del ministro dell’Interno Minniti a Tripoli. Un doppio passaggio, italiano e europeo, che negli intenti di Roma vuole significare che la questione Libia è, ora, anche una questione dell’Unione, non solo dell’Italia. Per una volta, dunque, Italia e Europa, sembrano procedere di comune intento. L’obiettivo è sigillare la rotta mediterranea, così come l’accordo con la Turchia ha fatto con la rotta balcanica. Un compito non facile. Il governo Serraj ha escluso che la missione europea “Sophia” possa spingersi nelle acque territoriali libiche. Misura che avrebbe impedito ai barconi riempiti dai trafficanti di esseri umani di lasciare le coste del Paese mediterraneo. Il debole governo tripolino, che non controlla l’intero paese e si regge su una precaria alleanza con alcune milizie cittadine, non reggerebbe, però, la prevedibile rivolta che in tal caso, anche in nome dell’antico sentimento anticoloniale, i suoi nemici scatenerebbero. Il premier imposto dalla comunità internazionale ha così escluso la possibilità che siano navi europee a praticare il blocco nei porti libici. Così l’accordo italo-libico prevede opzioni che, sia per orizzonte temporale sia per oggettive difficoltà nel renderlo efficace, rischiano di vanificare gli obiettivi che stanno a cuore all’Italia: la fine degli sbarchi e il contrasto in loco al terrorismo di matrice jihadista. L’intesa prevede, infatti, che l’Italia: offra supporto tecnico e tecnologico alla Guardia costiera di Tripoli e aiuti la Libia a controllare le frontiere meridionali del paese dalle quali provengono la maggioranza dei migranti originari dell’Africa subsahariana; finanzi i campi di “accoglienza temporanea” - che dovrebbero avere standard ben diversi da quelli dei luoghi dell’orrore nei quali i migranti sono oggi rinchiusi, in condizioni disumane e sottoposti a efferate violenze, o degli “accampamenti” gestiti dalla criminalità nei quali sono oggi costretti a attendere l’imbarco. Campi in cui i migranti dovrebbero restare in attesa del rimpatrio o del rientro volontario. Per evitare che nei campi si riproduca una situazione critica, l’Italia si è impegnata sia a formare il personale sia a fornire attrezzature mediche. Un presidio, quello del confine sud, che avrebbe la funzione anche di impedire che gli jihadisti, cacciati da Sirte e affluiti in zona, possano diventare una calamita per i gruppi radicali che agiscono in Algeria, in Mali, in Niger e Ciad. Saldatura che trasformerebbe l’Africa sahariana in un nuovo focolaio radicale. Un piano, quello italiano, gravoso per impegno e risorse che per riuscire non può che avere il sostegno della Ue. Per questo a Malta, l’Unione ha presentato un proprio piano, che integra e asseconda quello dell’Italia, stanziando anche un contributo finanziario per renderlo esecutivo. Ovviamente, perché un simile piano funzioni, occorre che il governo Serraj controlli il territorio e non sia minacciato, nella sua stabilità, dalle milizie che sostenevano il precedente esecutivo tripolino e dal governo parallelo del generale Haftar, che controlla la Cirenaica ed è appoggiato sia dall’Egitto che dalla Russia, decisa a divenire sempre più, dopo la vittoria sul fronte siriano e il prevedibile neoisolazionismo dell’America di Trump, potenza mediterranea. Ma occorre anche che sia posta fine alla dilagante corruzione che, in una situazione come quella provocata dalla guerra civile e dalla frammentazione del potere su base locale e tribale, attanaglia il Paese. Sono molti, compresi numerosi effettivi di quella Guardia costiera che dovrebbe attuare il blocco delle partenze previsto dal piano italo-europeo, a trarre vantaggio da una fiorente economia criminale che, per poter agire indisturbata, opera una vera e propria redistribuzione del reddito accumulato illegalmente. Un fattore che complica le cose nel già problematico caos libico. Torna al sommario