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RASSEGNA STAMPA di lunedì 19 settembre 2016 SOMMARIO “L’hanno fatto morire, quel ragazzo malato – scriveva ieri su Avvenire Giuseppe Anzani -. Dicono che soffriva tanto e che sarebbe morto di lì a non molto, e tanto vale risparmiare dolore, quando non se ne può più. Dicono che lui era d’accordo, e anzi lo chiedeva, e i suoi genitori dicevano di sì. E la legge ha detto di sì, la legge belga approvata il 28 febbraio 2014. E così alla fine un medico l’ha fatta finita, e la morte s’è presa quel corpo legalmente consegnato. È (forse) la prima volta al mondo che succede, l’eutanasia di un giovanissimo. Di lui non sappiamo con certezza quasi nient’altro, solo con grande fatica alla fine si è conosciuta l’età, 17 anni. Nel mondo, solo l’Olanda e il Belgio hanno leggi sull’eutanasia di minori; ma in Olanda c’è il limite dei 12 anni, sotto i quali è bandita, in Belgio invece non c’è alcun limite minimo, e se un bambino infradodicenne è ritenuto maturo e consapevole nel chiedere la morte la legge apre i circuiti della morte e ve lo incanala. È un percorso recintato fra prognosi mediche senza speranza e stadi terminali e sofferenze fisiche insopportabili che non si possono lenire; una strettoia nella quale s’introduce l’assenso di una équipe medica, e poi il giudizio di uno psichiatra, o psicologo, a vagliare la capacità di discernimento del minore che chiede di finire; e poi il consenso dei genitori; e quando ogni casella è riempita, il pollice verso è legale, e addio minore. Quando fu fatta la legge, in Belgio, fra aspri contrasti, forse si pensò di dare spiraglio di libertà adulta ai più giovani socchiudendo la porta proibita, il suicidio minorile assistito. Oggi la soglia è stata varcata, violata. Dico la parola suicidio perché il testo di quella legge ribadisce che la domanda di morire deve venire dal soggetto malato, e che i genitori devono essere 'd’accordo'. E qui c’è il primo tremendo quesito sul quale vorremmo interrogare la morte prima che si allontani con la sua prima vittima così giovane, frugando i segreti coperti dal suo mantello nero. Di chi è realmente la domanda, la volontà, la decisione (la libertà, infine, se vi ha gioco in questo genere di vertigini)? Quali fattori determinanti, nel viluppo emozionale e vitale che intreccia la vita del figlio alla vita dei genitori, influenzano l’autodeterminazione (si dice così, ormai) di un bambino, o di un ragazzo, investigata da uno psichiatra? O non è forse proprio la psicologia a metterci in guardia, e a volte in angoscia, su ciò che passa nel cuore di un figlio secondo il crogiolo affettivo che lo circonda, se è fatto di conforto o di desolazione, di sostegno empatico o di rassegnato abbandono? E di tutti gli altri certificatori dell’aiuto al minore 'suicida', protagonisti, un po’ burocratici, della procedura letale, si può chiedere infine chi veramente vuole che muoia chi, e perché? E gli analgesici, gli anestetici, le cure palliative per il dolore della persona, corpo e spirito insieme? Io credo che qualche fremito percorra anche quelli che in Italia si vanno battendo per l’eutanasia in casa nostra, e che in questi giorni ripescano le loro proposte di legge (dove la parola suicidio è scritta bella chiara) dicendo che non bisogna fare dalla vicenda del ragazzo belga uno 'spauracchio di cronaca'. Ma questa è la confessione implicita che quella morte è un contraccolpo nell’anima di tutti: ed esorcizzare la paura non schiverà i quesiti dell’umana civiltà, del senso della vita, di ciò che siamo da vivi e da morti, della polvere di cui siamo impastati e del soffio vitale che ci imparenta con l’eterno. Anche solo sul piano terrestre, la comune appartenenza, l’amore alla vita gli uni degli altri, la sollecitudine per lenire il dolore, la speranza che non s’arrende alla distruzione suicida è lo scampo per non chiuderci nell’orizzonte di una terra del nulla” (a.p.) 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 18 settembre 2016 Pag XII Le suore se ne vanno. Futuro incerto per l’area di Alvise Sperandio Carpenedo: dal 1° gennaio le due religiose rimaste lasceranno il complesso di via San Donà

Rassegna stampa 19 settembre 2016 - patriarcatovenezia.it · RASSEGNA STAMPA di lunedì 19 settembre 2016 SOMMARIO “L’hanno fatto morire, quel ragazzo malato – scriveva ieri

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 19 settembre 2016

SOMMARIO

“L’hanno fatto morire, quel ragazzo malato – scriveva ieri su Avvenire Giuseppe Anzani -. Dicono che soffriva tanto e che sarebbe morto di lì a non molto, e tanto vale risparmiare dolore, quando non se ne può più. Dicono che lui era d’accordo, e anzi lo

chiedeva, e i suoi genitori dicevano di sì. E la legge ha detto di sì, la legge belga approvata il 28 febbraio 2014. E così alla fine un medico l’ha fatta finita, e la morte s’è presa quel corpo legalmente consegnato. È (forse) la prima volta al mondo che succede, l’eutanasia di un giovanissimo. Di lui non sappiamo con certezza quasi

nient’altro, solo con grande fatica alla fine si è conosciuta l’età, 17 anni. Nel mondo, solo l’Olanda e il Belgio hanno leggi sull’eutanasia di minori; ma in Olanda c’è il limite dei 12 anni, sotto i quali è bandita, in Belgio invece non c’è alcun limite minimo, e se un bambino infradodicenne è ritenuto maturo e consapevole nel chiedere la morte la legge apre i circuiti della morte e ve lo incanala. È un percorso recintato fra prognosi mediche senza speranza e stadi terminali e sofferenze fisiche insopportabili che non

si possono lenire; una strettoia nella quale s’introduce l’assenso di una équipe medica, e poi il giudizio di uno psichiatra, o psicologo, a vagliare la capacità di

discernimento del minore che chiede di finire; e poi il consenso dei genitori; e quando ogni casella è riempita, il pollice verso è legale, e addio minore. Quando fu fatta la

legge, in Belgio, fra aspri contrasti, forse si pensò di dare spiraglio di libertà adulta ai più giovani socchiudendo la porta proibita, il suicidio minorile assistito. Oggi la soglia è stata varcata, violata. Dico la parola suicidio perché il testo di quella legge ribadisce che la domanda di morire deve venire dal soggetto malato, e che i genitori devono

essere 'd’accordo'. E qui c’è il primo tremendo quesito sul quale vorremmo interrogare la morte prima che si allontani con la sua prima vittima così giovane,

frugando i segreti coperti dal suo mantello nero. Di chi è realmente la domanda, la volontà, la decisione (la libertà, infine, se vi ha gioco in questo genere di vertigini)? Quali fattori determinanti, nel viluppo emozionale e vitale che intreccia la vita del figlio alla vita dei genitori, influenzano l’autodeterminazione (si dice così, ormai) di un bambino, o di un ragazzo, investigata da uno psichiatra? O non è forse proprio la

psicologia a metterci in guardia, e a volte in angoscia, su ciò che passa nel cuore di un figlio secondo il crogiolo affettivo che lo circonda, se è fatto di conforto o di

desolazione, di sostegno empatico o di rassegnato abbandono? E di tutti gli altri certificatori dell’aiuto al minore 'suicida', protagonisti, un po’ burocratici, della

procedura letale, si può chiedere infine chi veramente vuole che muoia chi, e perché? E gli analgesici, gli anestetici, le cure palliative per il dolore della persona, corpo e spirito insieme? Io credo che qualche fremito percorra anche quelli che in Italia si

vanno battendo per l’eutanasia in casa nostra, e che in questi giorni ripescano le loro proposte di legge (dove la parola suicidio è scritta bella chiara) dicendo che non

bisogna fare dalla vicenda del ragazzo belga uno 'spauracchio di cronaca'. Ma questa è la confessione implicita che quella morte è un contraccolpo nell’anima di tutti: ed

esorcizzare la paura non schiverà i quesiti dell’umana civiltà, del senso della vita, di ciò che siamo da vivi e da morti, della polvere di cui siamo impastati e del soffio vitale

che ci imparenta con l’eterno. Anche solo sul piano terrestre, la comune appartenenza, l’amore alla vita gli uni degli altri, la sollecitudine per lenire il dolore, la speranza che non s’arrende alla distruzione suicida è lo scampo per non chiuderci

nell’orizzonte di una terra del nulla” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 18 settembre 2016 Pag XII Le suore se ne vanno. Futuro incerto per l’area di Alvise Sperandio Carpenedo: dal 1° gennaio le due religiose rimaste lasceranno il complesso di via San Donà

LA NUOVA di domenica 18 settembre 2016 Pag 31 Due sole religiose, monastero a rischio di m.a. Crisi delle vocazioni: si profila la vendita della struttura di Piazza Carpenedo. L’assessore Boraso: “Spero non lascino” LA NUOVA di sabato 17 settembre 2016 Pagg 2 – 3 Crisi delle vocazioni, nella diocesi 173 preti di Francesco Furlan e Marta Artico Calo di un terzo negli ultimi trent’anni. Impegno sempre più difficile, ma nessuna parrocchia sarà soppressa. Don Sandro Vigani e don Davide Carraro: “Le famiglie sono cambiate, non educano più alla fede” IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 17 settembre 2016 Pag XXIX Quattro concerti d’organo a Santa Rita di Alvise Sperandio Settembre mestrino 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 18 settembre 2016 Pag 4 La parola ultima della storia Ai nunzi apostolici il Papa ricorda che il cuore degli uomini è in cerca dell’unità e non del conflitto. E denuncia il silenzio complice davanti al violento assedio ai cristiani in Oriente Pag 5 Tre uscite Messa a Santa Marta Pag 8 Tragedia umana Con gli ex alunni dei gesuiti il Papa parla del dramma dei rifugiati e della necessità di accoglierli AVVENIRE di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 Unità e vita innanzitutto di Bartolomeo Assisi 2016: il Patriarca ecumenico Pag 1 Dono e gesto provvidenziali di Andrea Riccardi Assisi 2016: il fondatore di Sant’Egidio Pag 6 “Assisi, dalle religioni riparta la speranza” di Angelo Scelzo Etchegaray: oggi urgente rinnovare il senso di quel primo incontro del 1986 CORRIERE DELLA SERA di domenica 18 settembre 2016 Pag 22 “Ad Assisi 500 leader religiosi contro l’inganno del terrorismo” di Gian Guido Vecchi Il presidente di Sant’Egidio Impagliazzo: ci saranno tanti musulmani, il dialogo con loro è fondamentale L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 17 settembre 2016 Pag 7 La logica del dopodomani A Santa Marta Pag 8 Pastorale di misericordia Tre raccomandazioni di Papa Francesco ai vescovi di nuova nomina. Per essere capaci di attirare, iniziare e accompagnare il gregge AVVENIRE di sabato 17 settembre 2016 Pag 2 Riecco quelli che “la Chiesa non paga”. Un parroco agita le ricevute. Per tanti… (lettere al direttore)

Pag 3 “Il dialogo interreligioso è condizione della pace” di Stefania Falasca Il magistero dei Papi: serve una coscienza mondiale LA REPUBBLICA di sabato 17 settembre 2016 Pag 56 Quel patto segreto tra fede e dubbio che ci rende umani di Vito Mancuso IL FOGLIO di sabato 17 settembre 2016 Pag 2 Tornano i raduni di Assisi, senza traccia delle correzioni ratzingeriane di mat.mat. Martedì il Papa alla Giornata mondiale della pace Pag V Dove Cristo è risorto di Matteo Matzuzzi Le religioni muoiono, ma il cattolicesimo sopravvivrà alle Cassandre. Meno europeo e più globale 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 18 settembre 2016 Pag XII Volontariato, riparte la Banca del tempo libero 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 13 Foto e video hard, un cancro indelebile che può uccidere di Alessandra Graziottin CORRIERE DEL VENETO di domenica 18 settembre 2016 Pag 2 Paritarie in crisi, mancano 80 milioni di Alice D’Este e Mauro Pigozzo In ritardo i fondi di Stato e Regione. E in Veneto crollano gli iscritti. Le testimonianze, la lotta quotidiana per non chiudere: “Il volontariato? Ora non basta più? LA NUOVA di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 La produzione ritrovi ritmo e velocità di Mario Carraro Pag 46 La vita di Tiziana risucchiata dall’enorme buco nero rappresentato da internet, che oggi incombe sulle vite di tutti di Vera Slepoj LA REPUBBLICA di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 Cari genitori e cari prof, fate la pace o la scuola non si salverà di Paolo Di Paolo Preside di Bologna scrive lettera sfida: ecco come fa fallire i vostri figli LA NUOVA di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 La lezione del miracolo economico di Franco A. Grassini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 18 settembre 2016 Pag IV Gli scenari del referendum di Ennio Fortuna CORRIERE DEL VENETO di domenica 18 settembre 2016 Pag 13 Stop a contributi a pioggia e aiuti gratis. Così Ca’ Farsetti rivoluziona il welfare di F.B. Progetti mirati per famiglie ed emarginati. Venturini: da assistenzialismo a sussidiarietà AVVENIRE di sabato 17 settembre 2016 Pag 22 Ecco il Ghetto di Venezia. Oggi di Giuseppe Matarazzo IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 17 settembre 2016

Pag XXV “Fare Comune”, proposte per i sindaci di Riccardo Coppo Monastero del Marango e associazioni vogliono rilanciare la “buona politica” 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 La partita delle due Leghe di Alessandro Russello Pontida e il centrodestra … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La grande impunità italiana di Ernesto Galli della Loggia In cella solo i poveri Pag 8 Inchiesta choc sull’Islam francese: “Metà dei ragazzi tra i 15 e i 25 anni sono radicali” di Stefano Montefiori Pag 17 Il referendum, la Chiesa e il no di Massimo Franco La Cei sembra attenta alle ragioni del governo ma stanno aumentando i contrari alla modifica della Costituzione Pag 21 E un sunnita celebra la visita di San Francesco al Saladino di Gian Guido Vecchi Pag 26 Così la politica fa la spesa al discount della storia di Paolo Franchi LA REPUBBLICA Pag 1 Il populista padano senza prospettiva di Stefano Folli IL GAZZETTINO Pag 1 I sicari del Califfo restano ancora lontani di Alessandro Orsini Pag 1 La doppia Angela, regina in Europa e in crisi a casa di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Religioni e scontro di civiltà di Vincenzo Milanesi Pag 1 L’instabilità sistemica dei 5 Stelle di Marco Panerari CORRIERE DELLA SERA di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 Un asse un po’ meno speciale di Sergio Romano Francia e Germania Pag 2 “L’austerity europea è un fallimento. Sono gli altri a violare le regole” di Maria Teresa Meli Intervista al premier Renzi Pag 9 “Quando Ciampi divenne politico e salvò l’Italia dalla bancarotta” di Marzio Breda Intervista a Sergio Mattarella Pag 12 I due Paesi più religiosi d’Europa in prima fila nella battaglia per garantire la “dolce morte” di Luigi Offeddu Pag 13 Mina Welby: “E’ un atto di pietà. Medici e genitori vanno rispettati” di Margherita De Bac Pag 13 Francesco D’Agostino: “No, è disumano. Oltre all’ipocrisia lo spettro dei

soldi” di M.D.C. Pag 26 L’altro ha due volti difficili da unificare di Giovanni Belardelli LA REPUBBLICA di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 L’europeismo fa cadere le spine e fiorire le rose di Eugenio Scalfari AVVENIRE di domenica 18 settembre 2016 Pag 2 Eutanasia di un figlio, la soglia violata di Giuseppe Anzani La burocrazia della morte applicata a un minore Pag 3 Chi gioca d’azzardo perde senza saperlo di Leonardo Becchetti Gli effetti negativi della bassa istruzione finanziaria Pag 5 “Con le famiglie. Nel dolore” di Enrico Negrotti Intervista a Franco Locatelli, del Bambin Gesù di Roma IL GAZZETTINO di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 Decisione-choc che lascia molti dubbi di Massimo Adinolfi Pag 1 Questa Europa fa il gioco dei populisti di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 Il referendum e la ripulsa per le élite di Roberto Weber CORRIERE DELLA SERA di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 L’orgoglio di servire il suo Paese di Ferruccio de Bortoli Serietà e competenza Pag 1 Mossa studiata anche per parlare agli elettori di Francesco Verderami Pag 1 Da Ventotene a Bratislava di Franco Venturini Pag 2 Ciampi, il presidente dei cittadini di Marzio Breda Pag 3 La sua missione per restituire l’orgoglio agli italiani di Aldo Cazzullo Pag 12 Quel sentimento meno europeista di Federico Fubini AVVENIRE di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 Senza demagogia di Gianfranco Marcelli Una via d’uscita per il centrodestra? Pag 4 Salvini straparla. Ma mai un po’ di silenzio? IL GAZZETTINO di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 Un servitore dello Stato nelle ore difficili di Romano Prodi Pag 1 Milano e Pontida, sfida delle due anime del Centrodestra di Bruno Vespa LA NUOVA di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 Italicum, c’è tempo per cambiare di Francesco Morosini Pag 4 Da letterato a esperto di numeri, così ha capito come risanare il Paese di Vittorio Emiliani

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 18 settembre 2016 Pag XII Le suore se ne vanno. Futuro incerto per l’area di Alvise Sperandio Carpenedo: dal 1° gennaio le due religiose rimaste lasceranno il complesso di via San Donà Dal 1. gennaio prossimo le suore di clausura lasceranno per sempre Carpenedo. Lo avevamo anticipato più di due mesi fa e adesso la notizia è ufficiale: dopo tre quarti di secolo di presenza nel quartiere, sono costrette ad abbandonare il monastero di Maria Santissima Addolorata di via San Donà perché non c'è ricambio. È la conseguenza del calo o, per meglio dire, del crollo delle vocazioni che in questi giorni ha portato anche i frati minori conventuali ad annunciare l'addio alla parrocchia del Sacro Cuore. Per le Eremitane Scalze affiliate all'Ordine dei Servi di Maria, la situazione si era fatta difficile da tempo ed è precipitata negli ultimi mesi con alcuni decessi e tre ricoveri al centro Nazaret di Zelarino che hanno ridotto a due le religiose presenti, entrambe sui 90 anni. L'impossibilità di nuovi ingressi ha reso inevitabile la decisione di trasferirle in altre comunità. Si apre, così, un punto interrogativo sul futuro del complesso che occupa un largo appezzamento compreso tra via San Donà, via Vallon, via Montegrotto e via Ligabue. Il codice adottato dal monastero prevede che la proprietà dei beni debba passare alle altre realtà che accolgano le suore rimaste, ma è evidente che si tratterà di capire cosa possa accadere una volta che le porte e le finestre saranno sbarrate definitivamente. «Dispiace per questa decisione, perché le religiose sono un pezzo di storia di questo pezzo di città - dice il parroco di Carpenedo, don Gianni Antoniazzi - Vedremo l'evolversi, ma questa dovrà restare una realtà vissuta per il bene del quartiere, anche se si tratterà di capire come. Proporrò, anzitutto, di abbattere la mura alta di cinta su via San Donà sostituendola con una cancellata di modo che si possa godere anche da fuori della vista sullo straordinario parco interno e che sia realizzato, dove possibile, un parcheggio data la scarsità di posti auto». LA NUOVA di domenica 18 settembre 2016 Pag 31 Due sole religiose, monastero a rischio di m.a. Crisi delle vocazioni: si profila la vendita della struttura di Piazza Carpenedo. L’assessore Boraso: “Spero non lascino” La data esatta, ancora non si conosce. Si ipotizza l’inizio del prossimo anno. Quel che è certo è che il monastero di clausura "Santa Maria Addolorata" di Carpenedo è in difficoltà e sempre più vicino è il momento in cui le Serve di Maria Eremitane Scalze, lasceranno piazza Carpenedo. I “rumors” si rincorrono da tempo, tanto che già un paio di mesi fa il parroco dei Santi Gervasio e Protasio, don Gianni Antoniazzi, aveva fatto chiarezza sulla questione confermando che alcune suore avevano problemi di salute. Le questioni aperte sono sempre le stesse: la crisi delle vocazioni, l'età che avanza, modelli di vita diversi, edifici molto grandi e difficili da gestire. Se fino a qualche anno fa erano otto, oggi sono solo due, più una suora esterna a rotazione che le aiuta, perché le altre hanno dovuto essere ricoverate in qualche struttura per sopraggiunti problemi di salute. È così possibile che all’inizio del prossimo anno, vengano richiamate dalla casa madre in qualche altra comunità, come già accaduto per altri ordini e altre suore e monache. Un copione che si ripete. Di qualche giorno fa la notizia che a settembre 2017 a lasciare Mestre saranno i Frati Minori Conventuali della Provincia Italiana di Sant'Antonio di Padova, altra presenza spirituale decennale per la città. Sia apre il tema del grande monastero, ente giuridico a sé stante, che sembra verrà messo in vendita a partire dall'inizio dell'anno prossimo. Il che apre un capitolo sul suo utilizzo e sullo spazio. «Il Comune» ragiona don Gianni Antoniazzi, «potrebbe premere perché chi acquista quell'area pensi a un parcheggio per il centro, pensi alla comunità che vive la zona». Il parco, ad esempio, che è grande e bellissimo (ed oggi protetto da alte mura), potrebbe essere aperto alla cittadinanza. Il Comune, dunque, potrebbe pensare a una destinazione d'uso che tenesse conto di alcuni fattori. «Io spero anzitutto che le suore non lascino Carpenedo nonostante la comunità sia ridotta all'osso» commenta

l'assessore Renato Boraso «Non ho comunicazioni ufficiali che il monastero verrà messo in vendita, ma mi risulta che tra le valutazioni patrimoniali ci sia quella che il bene vada in dote alla chiesa di Venezia. Solo se le suore se ne andranno si porrà il problema del futuro di quell'area, in termini tecnici e politici, perché è uno spazio enorme: su questo punto, in ogni caso, vorrei interloquire con la Diocesi. Ripeto, se il monastero chiude il Vaticano potrebbe riassegnarlo alla Diocesi di appartenenza». LA NUOVA di sabato 17 settembre 2016 Pagg 2 – 3 Crisi delle vocazioni, nella diocesi 173 preti di Francesco Furlan e Marta Artico Calo di un terzo negli ultimi trent’anni. Impegno sempre più difficile, ma nessuna parrocchia sarà soppressa. Don Sandro Vigani e don Davide Carraro: “Le famiglie sono cambiate, non educano più alla fede” Venezia. Il 2016 è stato un anno di grazia, con l’ordinazione di quattro nuovi preti, e pure giovani: tra i 27 e i 40 anni. Ma per trovare un’annata altrettanto positiva bisogna tornare a 17 anni fa. Difficile pensare che il dato positivo di quest’anno possa segnare un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi, che hanno registrato una o al massimo due ordinazioni, e qualche volta nessuna, come nel 2008 o nel 2010. Nel corso degli ultimi trent’anni il numero dei preti della diocesi veneziana si è ridotto di un terzo: nel 1990 erano 241, mentre oggi sono 173 di cui una parte in missione e una parte troppo anziani per dire messa e seguire le comunità. Con sempre maggiori difficoltà nella gestione delle parrocchie, dove i giovani preti sono ormai abituati a fare le trottole tra una messa, un’uscita con i boy scout, la catechesi e le confessioni. «Non è facile uscirne bene ma ci proviamo», scherza don Danilo Barlese, vicario episcopale per la Pastorale, «con un obiettivo, stabilito dal Patriarca: le parrocchie più grandi non devono mangiare le più piccole. Non dobbiamo agire con una logica aziendale». Sopprimere le parrocchie sarebbe forse più semplice, ma non è la logica dei tagli quella cui si ispira la diocesi. «Ogni comunità è come una famiglia», aggiunge don Barlese, «dobbiamo tenerla viva». Almeno, nelle realtà più piccole, con la messa della domenica, l’attività di carità spicciola, e l’accoglienza delle persone per i riti più importanti della religione, come i battesimi, i matrimoni o i funerali. Come fare? Chiedendo ai diaconi e ai parroci di fare uno sforzo maggiore, promuovendo la collaborazione tra parrocchie, e coinvolgendo maggiormente i laici già impegnati attivamente nelle parrocchie: è un piccolo esercito composto da circa diecimila volontari. L’ultimo caso è quello delle comunità dei Tolentini e di San Pantalon, da qualche giorno affiancate alla parrocchia dei Frari, retta dai padri conventuali. «Per troppo tempo i parroci sono stati abituati a occuparsi esclusivamente della loro parrocchia e ora non può più essere più così», dice il vicario, «i parroci devono cambiare mentalità, e saper lavorare in gruppo, ma soprattutto per quelli più anziani non è facile». Le reticenze non mancano tra i più anziani, mentre molti dei più giovani sono abituati al lavoro di squadra, e a ritmi diversi. Sempre più difficile, come succedeva fino a qualche anno fa suonando nelle canoniche, sentirsi rispondere che «il parroco sta riposando». In molti non hanno più tempo per farlo. Agli inizi degli anni Novanta fu l’allora patriarca Marco Cè a promuovere la collaborazione gettando le basi per l’unità pastorale delle comunità di Dorsoduro. Un’esperienza che nacque dalla volontà di lavorare insieme, ma che oggi diventa invece una necessità soprattutto in un centro storico caratterizzato da tante piccole parrocchie (e preti anziani) al contrario di Mestre dove le parrocchie sono molto popolose e i preti devono confrontarsi con molte attività: gruppi estivi, campi-scuola, anziani. Senza laici sarebbe impossibile. Negli anni il loro numero è stato stabile, «ma è aumentata la coscienza di partecipare a un progetto comunitario», spiega don Danilo - ha guidato Carpenedo dal 2005 al 2011 - preoccupato dal fatto che anche l’età media dei laici tende a crescere, e il ricambio scarseggia. «Dobbiamo lavorare perché anche i laici collaborino tra di loro, i valori delle comunità non sono optional ai quali è possibile rinunciare, non potremo mai adottare una strategia aziendale». È una riorganizzazione che, va da sé, chiama in causa anche i sacerdoti religiosi appartenenti cioè agli ordini come i Cappuccini o i Domenicani. È di ieri la notizia che i frati minori Conventuali della parrocchia del Sacro Cuore, a Mestre, lasceranno la città dopo 64 anni sulla scorta di una riorganizzazione delle presenze nel Nord Italia

dettata, anche in questo caso, dalla penuria di vocazioni. I frati nel settembre del 2017 consegneranno al patriarca Francesco Moraglia la cura della parrocchia di via Aleardi. Venezia. Don Sandro Vigani, 55 anni, è stato ordinato prete nel 1985. Attualmente è assistente della comunità Emmaus e collaboratore pastorale della parrocchia di Zelarino, direttore del settimanale diocesano Gente Veneta, per molti anni parroco di Trivignano. Perché secondo lei le vocazioni sono in caduta libera? «Dipende molto dalla cultura, dalla secolarizzazione, dal mondo in cui viviamo: quarant’anni fa per una famiglia avere un figlio prete era un orgoglio, era una bella notizia, inoltre entrare in seminario era anche abbastanza normale. Oggi è una difficoltà da non sottovalutare e nelle famiglie non c’è più questa sensibilità, anche perché le famiglie sono molto meno numerose di un tempo. Quando due genitori sentono che un figlio vuol diventare sacerdote si pongono una serie di problemi grossi, ad esempio il fatto di non avere nipoti, se poi hai un figlio solo, e in genere capita proprio questo, ancora di più. È quasi una sconfitta, perché ci sono i progetti, le idee sui figli, farsi prete è sentita quasi come una privazione». Ci sono altri freni? «La questione del celibato: viviamo in un mondo diverso rispetto a quello in cui sono diventato sacerdote io, la scelta celibataria oggi è più faticosa, complessa e difficile rispetto a tanti anni fa e i fatti che viviamo lo dimostrano». Cosa si può fare? «Anzitutto affrontare la questione in maniera seria, cosa che non si fa, in genere, nella Chiesa e nella diocesi». In che senso? «Da quando sono prete ho molti amici, davvero molti, che si sono innamorati e hanno lasciato il sacerdozio. Noi agli incontri pastorali e vicariali parliamo di massimi sistemi, di questioni a largo raggio, senza arrivare a soluzioni perché poi ognuno ha un’idea diversa, ma la chiesa è quella concreta, quella della gente. Al contrario parliamo troppo poco o non parliamo affatto di noi stessi, della nostra vita, delle nostre fatiche, delle questioni affettive, ma anche di come facciamo catechismo, di come intendiamo la pastorale che sono le cose fondamentali, le più importanti della quotidianità». Cosa si può fare allora? «Seguire la strada che ci ha indicato Papa Bergoglio: accettare di affrontare in maniera semplice e vera i problemi che viviamo senza chiuderci dentro l’ “istituzione”, il ben pensare, il fatto che tante cose devono essere a tutti i costi nascoste. Essere veri, percorrere la strada della vita, questo ci indica Papa Francesco». Che consiglio darebbe a un giovane prete o a un seminarista che sta per intraprendere questa strada? «Gli consiglierei di chiedere aiuto quando ne ha bisogno, di dirlo sempre con franchezza cercando persone che possano aiutarlo». E poi? «Gli direi che è un’esperienza affascinante e difficile». Venezia. Don Davide Carraro, 31 anni, classe 1985, è stato ordinato sacerdote nel 2013. È amministratore della parrocchia di Stretti e Cittanova e collaboratore pastorale a Eraclea e Ca’ Turcata. Tra quante comunità si divide? «In diocesi iniziano le collaborazioni pastorali: ho la responsabilità diretta di due parrocchie, delle quali è come se fossi parroco ma sono troppo giovane e quindi ne sono amministratore, anche se ho le medesime facoltà di un parroco. Nelle altre due invece, aiuto il parroco». È dura? «È tutto da inventare, bisogna gestirsi, ci sono tante cose da fare ma la gente è buona, ha pazienza, capisce che non posso essere in tre posti contemporaneamente, inoltre si cerca di coinvolgere i laici e ovviamente di fare il meglio possibile». In un momento di crisi delle vocazioni, chi glie lo ha fatto fare? «Me l’ha fatto fare Gesù Cristo, che ama le mie fragilità e le mie debolezze, e la volontà di dare la vita per una persona concreta: la mia vocazione non è diversa dalla vocazione matrimoniale». Perché, allora, c’è penuria di sacerdoti? «Le vocazioni sacerdotali sono in crisi perché è in crisi la vocazione matrimoniale, sono legate a doppio filo: non c’è più un tessuto familiare che era in grado di educare alla fede, alla formazione di famiglia che a sua volta teneva unita la comunità cristiana e, di conseguenza, la società. Oggi si è sgretolata la vocazione matrimoniale e a cascata l’economia, la vita di un Paese, noi siamo in difficoltà perché la famiglia è in difficoltà. Sono convinto che tra le due vocazioni, quella sacerdotale e quella matrimoniale, ci sia un legame strettissimo: la mia vocazione sacerdotale nasce dalla vita che ho visto dai miei genitori, la voglia di amarsi, di chiedersi perdono, una vita piena, donata, la stessa cosa che fa il prete per la sua comunità». Il celibato è difficile? «È un combattimento, sarei uno stupido se dicessi che non c’è provocazione, si deve vigilare, non mettersi in situazioni imbarazzanti, essere prudenti nelle scelte e nella gestione del tempo: il prete non è un castrato, ma deve usare testa, preghiera e cuore

per vivere quello che ha promesso nel giorno dell’ordinazione, sapendo di non essere solo, ma di avere Gesù al suo fianco». Perché così pochi giovani preti allora? «Manca il rapporto con il Signore, si tende a rinviare decisioni definitive più avanti negli anni, si ha paura del per sempre». Cosa fare? «Un prete rischia di sentirsi in difficoltà perché si sente solo, quando mi hanno dato le due realtà di Stretti e Cittanova ho chiesto al Patriarca di abitare ad Eraclea con un altro prete». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 17 settembre 2016 Pag XXIX Quattro concerti d’organo a Santa Rita di Alvise Sperandio Settembre mestrino Mestre - Da domani ritorna la 6. Rassegna organistica del Settembre mestrino promossa dall'associazione Grande organo di Santa Rita, in collaborazione con la parrocchia e la Municipalità di Mestre Carpenedo, su iniziativa di don Franco Gomiero. In programma quattro concerti a cadenza settimanale, alla domenica alle 17, a ingresso libero, con l'obiettivo di valorizzare sia i talenti emergenti che i grandi maestri di fama. Entrambi pronti a offrire al pubblico la loro bravura su uno strumento sinfonico di grandi dimensioni e con caratteristiche foniche molto ricche e varie, com'è il Tamburini da 83 registri e 4500 canne di cui dispone la chiesa di via Bellini (laterale di via Miranese), a ridosso del parco Piraghetto. Domani, a inaugurare la serie, saranno gli allievi della classe del prof. Wladimir Matesic del Conservatorio «Tartini» di Trieste Michela Sabadin, Veronica Chiodi, Francesco Bernasconi, Marta Bonetti e Valerio Simonini; mentre il 25 settembre ci sarà ancora un altro giovane, Gabriele Ghiozzi di Cremona, vincitore quest'anno del Concorso nazionale «R. Benedet» di Bibione. Il 2 ottobre sarà la volta del noto maestro Sandro Carnelos di Vittorio Veneto e la settimana successiva, il 9 ottobre, per il gran finale sarà protagonista uno dei nomi più famosi del panorama internazionale, il francese Jean Guillou, vero e proprio fenomeno dell'arte organistica d'oltralpe che alla veneranda età di 86 anni continua a suonare i più grandi organi del mondo. Per il primo concerto, ci sono in scaletta musiche di autori come Bach, Jommelli, Escaich, Griveau, Currie, Rousseau, Vierne e Widor. Tutto da scoprire anche il programma degli appuntamenti successivi, di altissima qualità com'è nello stile della rassegna voluta e promossa tenacemente negli anni da don Gomiero che dice: «La mettiamo a disposizione della città, come momento di incontro e di crescita culturale». Per informazioni, tel. 041987445, email [email protected]. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 18 settembre 2016 Pag 4 La parola ultima della storia Ai nunzi apostolici il Papa ricorda che il cuore degli uomini è in cerca dell’unità e non del conflitto. E denuncia il silenzio complice davanti al violento assedio ai cristiani in Oriente «La parola ultima della storia e della vita non è il conflitto ma l’unità, alla quale anela il cuore di ogni uomo». Lo ha assicurato Papa Francesco ai rappresentanti pontifici ricevuti in udienza nella mattina di sabato 17 settembre nella Sala Clementina, a conclusione del loro incontro giubilare. Cari Confratelli, sono lieto per questo momento di preghiera giubilare, che, oltre a richiamarci come Pastori a riscoprire le radici della Misericordia, è occasione per rinnovare, attraverso di voi, il legame tra il Successore di Pietro e le diverse Chiese locali presso le quali siete portatori e artigiani di quella comunione che è linfa per la vita della Chiesa e per l’annuncio del suo messaggio. Ringrazio il Cardinale Parolin per le sue parole e la Segreteria di Stato per la generosità con cui ha preparato queste giornate di incontro. Benvenuti a Roma! Riabbracciarla in quest’ora giubilare ha per voi un significato speciale. Qui dimorano tante delle vostre sorgenti e delle vostre memorie. Qui siete arrivati ancora giovani con il proposito di servire Pietro, qui ritornate spesso per incontrarlo, e da qui continuate a ripartire come suoi inviati portando il suo messaggio,

la sua vicinanza, la sua testimonianza. Infatti, qui Pietro c’è fin dagli albori della Chiesa; qui Pietro c’è oggi nel Papa che la provvidenza ha voluto che ci fosse; qui Pietro ci sarà domani, ci sarà sempre! Così ha voluto il Signore: che l’umanità impotente, che di per sé sarebbe soltanto pietra d’inciampo, diventasse per divina disposizione roccia incrollabile. Ringrazio ognuno di voi per il servizio che svolge al mio ministero. Grazie per l’attenzione con cui raccogliete dalle labbra del Papa la confessione sulla quale poggia la Chiesa di Cristo. Grazie per la fedeltà con la quale voi interpretate con il cuore indiviso, con la mente integra, con la parola senza ambiguità quanto lo Spirito Santo chiede a Pietro di dire alla Chiesa in questo momento. Grazie per la delicatezza con la quale “auscultate” il mio cuore di Pastore universale e cercate di far sì che tale respiro raggiunga le Chiese cui sono chiamato a presiedere nella carità. Vi ringrazio per la dedizione e per la pronta e generosa disponibilità della vostra vita densa d’impegni e segnata da ritmi spesso difficili. Voi toccate con mano la carne della Chiesa, lo splendore dell’amore che la rende gloriosa, ma anche le piaghe e le ferite che la fanno mendicante di perdono. Con genuino senso ecclesiale e umile ricerca di conoscenza di svariati problemi e tematiche, rendete la Chiesa e il mondo presenti al cuore del Papa. Leggo quotidianamente, per lo più alla mattina presto e alla sera, le vostre “comunicazioni” con le notizie sulle realtà delle Chiese locali, sulle vicende dei Paesi presso cui siete accreditati e sui dibattiti che incombono sulla vita della Comunità internazionale. Di tutto questo vi sono grato! Sappiate che vi accompagno ogni giorno - spesso con nome e volto - con il ricordo amico e la preghiera fiduciosa. Vi ricordo nell’Eucaristia. Siccome non siete Pastori diocesani e il vostro nome non viene pronunciato in alcuna Chiesa particolare, sappiate che il Papa in ogni anafora vi ricorda come estensione della propria persona, come inviati suoi per servire con sacrificio e competenza, accompagnando la Sposa di Cristo e i Popoli nei quali essa vive. Vorrei dirvi alcune cose. 1. Servire con sacrificio come umili inviati Il Beato Paolo VI, nel riformare il servizio diplomatico della Santa Sede, così scrisse: «L’attività del Rappresentante Pontificio reca innanzitutto un prezioso servizio ai Vescovi, ai Sacerdoti, ai Religiosi e a tutti i cattolici del luogo, i quali trovano in lui sostegno e tutela, in quanto egli rappresenta un’Autorità Superiore, che è a vantaggio di tutti. La sua missione non si sovrappone all’esercizio dei poteri dei Vescovi, né lo sostituisce o intralcia, ma lo rispetta e, anzi, lo favorisce e sostiene col fraterno e discreto consiglio» (Lett. ap. Sollicitudo omnium Ecclesiarum: AAS 61 [1969], 476). Nel vostro operare, dunque, siete chiamati a portare ad ognuno la carità premurosa di chi rappresentate, diventando così colui che sostiene e tutela, che è pronto a sorreggere e non solo a correggere, che è disponibile all’ascolto prima di decidere, a fare il primo passo per eliminare tensioni e favorire comprensione e riconciliazione. Senza l’umiltà nessun servizio è possibile o fecondo. L’umiltà di un Nunzio passa attraverso l’amore per il Paese e per la Chiesa in cui si è chiamati a servire. Passa per l’atteggiamento sereno di stare dove il Papa l’ha voluto e non con il cuore distratto dall’attesa della prossima destinazione. Essere lì per intero, con mente e cuore indivisi; smontare le proprie valigie per condividere le ricchezze che si portano con sé, ma anche per ricevere quanto non si possiede ancora. Sì, è necessario valutare, paragonare, rilevare quelli che possono essere i limiti di un percorso ecclesiale, di una cultura, di una religiosità, della vita sociale e politica per formarsi e poter riferire un’idea esatta della situazione. Guardare, analizzare e riferire sono verbi essenziali ma non sufficienti nella vita di un Nunzio. Serve anche incontrare, ascoltare, dialogare, condividere, proporre e lavorare insieme, perché traspaia un sincero amore, simpatia, empatia con la popolazione e la Chiesa locale. Ciò che i cattolici, ma anche la società civile in senso lato vogliono e devono percepire è che, nel loro Paese, il Nunzio si trova bene, come a casa sua; si sente libero e felice di instaurare rapporti costruttivi, condividere la vita quotidiana del posto (cucina, lingua, usanze), esprimere le proprie opinioni e impressioni con grande rispetto e senso di prossimità, accompagnare con lo sguardo che aiuta a crescere. Non basta puntare il dito o aggredire chi non la pensa come noi. Ciò è una misera tattica delle odierne guerre politiche e culturali, ma non può essere il metodo della Chiesa. Il nostro sguardo dev’essere esteso e profondo. La formazione delle coscienze è il nostro primordiale dovere di carità e ciò richiede delicatezza e perseveranza nella sua attuazione. Certamente è ancora attuale la minaccia del lupo che dall’esterno rapisce e aggredisce il gregge, lo confonde, crea scompiglio, lo disperde e lo distrugge. Il lupo ha le stesse

sembianze: incomprensione, ostilità, malvagità, persecuzione, rimozione della verità, resistenza alla bontà, chiusura all’amore, ostilità culturale inspiegabile, diffidenza e così via. Voi ben sapete di che pasta è fatta l’insidia dei lupi d’ogni genere. Penso ai cristiani in Oriente, verso i quali il violento assedio sembra mirare, con il silenzio complice di tanti, alla loro eradicazione. Non si chiede l’ingenuità degli agnelli, ma la magnanimità delle colombe e l’astuzia e la prudenza del servo saggio e fedele. È bene tenere gli occhi aperti per riconoscere da dove vengono le ostilità e per discernere le vie possibili per contrastare le sue cause e affrontare le sue insidie. Tuttavia, vi incoraggio a non indugiare in un clima di assedio, a non cedere alla tentazione di piangersi addosso, di fare le vittime di chi ci critica, ci pungola e talora anche ci denigra. Spendete le vostre migliori energie per far risuonare ancora nell’anima delle Chiese che servite la gioia e la potenza della beatitudine proclamata da Gesù (cfr. Mt 5, 11). Restare pronti e felici di spendere (talora anche perdere) tempo con vescovi, preti, religiosi, parrocchie, istituzioni culturali e sociali, in definitiva è ciò che “fa il lavoro” del Nunzio. In queste occasioni si creano le condizioni per imparare, ascoltare, far passare messaggi, conoscere problemi e situazioni personali o di governi ecclesiali che vanno affrontate e risolte. E non c’è nulla che faciliti il discernimento e l’eventuale correzione più della vicinanza, della disponibilità e della fraternità. E per questo per me è molto importante: vicinanza, disponibilità e fraternità con le Chiese locali. Non si tratta di una supina strategia per raccogliere informazioni e manipolare realtà o persone, ma di un atteggiamento che si addice a chi non è solo un diplomatico di carriera, né appena uno strumento della sollecitudine di Pietro, ma anche un Pastore dotato della capacità interiore di testimoniare Gesù Cristo. Superate la logica della burocrazia che spesso può impadronirsi del vostro lavoro - si capisce, è naturale - rendendolo chiuso, indifferente e impermeabile. La sede della Nunziatura Apostolica sia veramente la “Casa del Papa”, non solo per la sua tradizionale festa annuale, ma come luogo permanente, dove tutta la compagine ecclesiale possa trovare sostegno e consiglio, e le autorità pubbliche un punto di riferimento, non solo per la funzione diplomatica, ma per il carattere proprio e unico della diplomazia pontificia. Vigilate affinché le vostre Nunziature non diventino mai rifugio degli “amici e amici degli amici”. Fuggite dai pettegoli e dagli arrivisti. Il vostro rapporto con la comunità civile si ispiri all’immagine evangelica del Buon Pastore, capace di conoscere e di rappresentare le esigenze, i bisogni e la condizione del gregge, specie quando gli unici criteri che li determinano sono il disprezzo, la precarietà e lo scarto. Non abbiate paura di spingervi fino a frontiere complesse e difficili, perché siete Pastori ai quali importa davvero il bene delle persone. Nell’ingente compito di garantire la libertà della Chiesa di fronte ad ogni forma di potere che voglia far tacere la Verità, non illudetevi che questa libertà sia solo frutto d’intese, accordi e negoziati diplomatici, per quanto perfetti e riusciti. La Chiesa sarà libera solo se le sue istituzioni potranno operare per «annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 23), ma anche se si manifesterà come vero segno di contraddizione rispetto alle mode ricorrenti, alla negazione della Verità evangelica e alle facili comodità che spesso contagiano anche i Pastori e il loro gregge. Ricordatevi che rappresentate Pietro, roccia che sopravvive allo straripare delle ideologie, alla riduzione della Parola alla sola convenienza, alla sottomissione ai poteri di questo mondo che passa. Dunque, non sposate linee politiche o battaglie ideologiche, perché la permanenza della Chiesa non poggia sul consenso dei salotti o delle piazze, ma sulla fedeltà al suo Signore che, diversamente dalle volpi e dagli uccelli, non ha tana né nido per poggiare il proprio capo (Mt 8, 18-22). La Chiesa Sposa non può poggiare il capo se non sul petto trafitto del suo Sposo. Da lì sgorga il suo vero potere, quello della Misericordia. Non abbiamo il diritto di privare il mondo, anche nei forum dell’azione diplomatica bilaterale e multilaterale e nei grandi ambiti del dibattito internazionale, di questa ricchezza che nessun altro può donare. Questa consapevolezza ci spinge a dialogare con tutti, e in molti casi a farci voce profetica degli emarginati per la loro fede o la loro condizione etnica, economica, sociale o culturale: «Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera d’indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo» (Bolla Misericordiae vultus, 15). 2. Accompagnare le Chiese con il cuore di Pastori

La molteplicità e complessità dei problemi da affrontare nel quotidiano non vi deve distrarre dal cuore della vostra missione apostolica, che consiste nell’accompagnare le Chiese con lo sguardo del Papa, che non è altro che quello di Cristo, Buon Pastore. E per accompagnare bisogna muoversi. Non basta la fredda carta delle missive e dei rapporti. Non basta imparare per sentito dire. Bisogna vedere in loco come il buon seme del Vangelo si va diffondendo. Non attendete che le persone vengano da voi per esporvi un problema o desiderose di risolvere una questione. Recatevi nelle diocesi, negli istituti religiosi, nelle parrocchie, nei seminari, per capire cosa il Popolo di Dio vive, pensa e domanda. Siate cioè vera espressione di una Chiesa “in uscita”, di una Chiesa “ospedale da campo”, capaci di vivere la dimensione della Chiesa locale, del Paese e dell’Istituzione presso cui siete inviati. Conosco il grande volume di lavoro che vi attende, ma non lasciate che sia soffocata la vostra anima di Pastori generosi e vicini. Proprio questa vicinanza - vicinanza! - è oggi condizione essenziale per la fecondità della Chiesa. Le persone hanno bisogno di essere accompagnate. Serve loro una mano sulla spalla per non smarrire la strada o non scoraggiarsi. Accompagnare i Vescovi sostenendo le loro migliori forze e iniziative. Aiutarli ad affrontare le sfide e a trovare le soluzioni che non ci sono nei manuali, ma sono frutto del discernimento paziente e sofferto. Incoraggiare ogni sforzo per la qualificazione del clero. La profondità è una sfida decisiva per la Chiesa: profondità della fede, dell’adesione a Cristo, della vita cristiana, della sequela e del discepolato. Non bastano vaghe priorità e teorici programmi pastorali. Bisogna puntare sulla concretezza della presenza, della compagnia, della vicinanza, dell’accompagnare. Una mia viva preoccupazione riguarda la selezione dei futuri Vescovi. Ne ho parlato a voi nell’anno 2013. Parlando alla Congregazione per i Vescovi qualche tempo fa, ho tracciato il profilo dei Pastori che ritengo necessari alla Chiesa di oggi: testimoni del Risorto e non portatori di curriculum; Vescovi oranti, familiarizzati con le cose dell’“alto” e non schiacciati dal peso del “basso”; Vescovi capaci di entrare “in pazienza” alla presenza di Dio, così da possedere la libertà di non tradire il Kerygma loro affidato; Vescovi pastori e non principi e funzionari. Per favore! Nel complesso compito di rintracciare in mezzo alla Chiesa coloro che Dio ha già individuato nel proprio cuore per guidare il suo Popolo, una parte sostanziale tocca a voi. Siete voi i primi a dover scrutare i campi per accertarvi su dove sono rintanati i piccoli David (cfr. 1 Sam 16, 11-13): ci sono, Dio non li fa mancare! Ma se andiamo sempre a pescare nell’acquario, non li troveremo! Bisogna smuoversi per cercarli. Girare per i campi con il cuore di Dio e non con qualche prefissato profilo di cacciatori di teste. Lo sguardo con il quale si cerca, i criteri per valutare, i tratti della fisionomia ricercata non possono essere dettati dai vani intenti con i quali pensiamo di poter programmare nelle nostre scrivanie la Chiesa che sogniamo. Perciò, bisogna lanciare le reti al largo. Non ci si può accontentare di pescare negli acquari, nella riserva o nell’allevamento degli “amici degli amici”. In gioco c’è la fiducia nel Signore della storia e della Chiesa, che non trascura mai il loro bene, e perciò non dobbiamo tergiversare. La domanda pratica, che mi viene adesso da dire, è: ma non ce n’è un altro? Quella di Samuele al padre di Davide: “Ma non c’è un altro?” (cfr. 1 Sam 16, 11). E andare a cercare. E ci sono! Ce ne sono! 3. Accompagnare i popoli nei quali è presente la Chiesa di Cristo Il vostro servizio diplomatico è l’occhio vigile e lucido del Successore di Pietro sulla Chiesa e sul mondo! Vi prego di essere all’altezza di tale nobile missione, per la quale dovete continuamente prepararvi. Non si tratta solo di acquisire contenuti su temi, tra l’altro mutevoli, ma di una disciplina di lavoro e di uno stile di vita che permetta di apprezzare anche le situazioni di routine, di cogliere i cambiamenti in atto, di valutare le novità, saperle interpretare con misura e suggerire azioni concrete. È la velocità dei tempi a domandare una formazione permanente, evitando di dare tutto per scontato. A volte il ripetersi del lavoro, i numerosi impegni, la mancanza di nuovi stimoli alimenta una pigrizia intellettuale che non tarda a produrre i suoi frutti negativi. Un serio e continuo approfondimento gioverebbe a superare quella frammentazione per cui individualmente si cerca di svolgere al meglio il proprio lavoro, però senza alcun, o con assai poco, coordinamento e integrazione con gli altri. Non pensate che il Papa non sia consapevole della solitudine (non sempre “beata” come per gli eremiti e i Santi) in cui vivono non pochi Rappresentanti Pontifici. Sempre penso al vostro stato di “esuli”, e nelle mie preghiere chiedo continuamente che in voi non venga mai meno quella colonna portante che consente l’unità interiore e il senso di profonda pace e fecondità. L’esigenza

che sempre più dovremo fare nostra è quella di operare in una rete unitaria e coordinata, necessaria per evitare una visione personale che spesso non regge di fronte alla realtà della Chiesa locale, del Paese o della Comunità internazionale. Si rischia di proporre una visione individuale che certamente può essere frutto di un carisma, di un profondo senso ecclesiale e di capacità intellettuale, ma non è immune da una certa personalizzazione, da emotività, da sensibilità differenti e, non per ultimo, da situazioni personali che condizionano inevitabilmente il lavoro e la collaborazione. Grandi sono le sfide che ci attendono nei nostri giorni e non mi sento di tratteggiare un elenco. Voi le conoscete. Forse è anche più saggio intervenire sulle loro radici. Come si va progressivamente disegnando, la diplomazia pontificia non può essere estranea all’urgenza di rendere palpabile la misericordia in questo mondo ferito e frantumato. La misericordia deve essere la cifra della missione diplomatica di un Nunzio Apostolico, il quale, oltre allo sforzo etico personale, deve possedere la ferma convinzione che la misericordia di Dio s’inserisce nelle vicende di questo mondo, nelle vicende della società, dei gruppi umani, delle famiglie, dei popoli, delle nazioni. Anche nell’ambito internazionale, essa comporta il non considerare mai niente e nessuno come perduto. L’essere umano non è mai irrecuperabile. Nessuna situazione è impermeabile al sottile e irresistibile potere della bontà di Dio che mai desiste nei riguardi dell’uomo e del suo destino. Questa radicale novità di percezione della missione diplomatica libera il Rappresentante Pontificio da interessi geopolitici, economici o militari immediati, chiamandolo a discernere nei suoi primi interlocutori governativi, politici e sociali e nelle istituzioni pubbliche l’anelito a servire il bene comune e a fare leva su questo tratto, anche se talora si presenta offuscato o mortificato da interessi personali e corporativi o da derive ideologiche, populistiche o nazionalistiche. La Chiesa, pur senza sottovalutare l’oggi, è chiamata a lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Deve sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. Ci sarà sempre la tensione tra pienezza e limite, ma alla Chiesa non serve occupare spazi di potere e di autoaffermazione, bensì far nascere e crescere il seme buono, accompagnare pazientemente il suo sviluppo, gioire con la provvisoria raccolta che si può ottenere, senza scoraggiarsi quando un’improvvisa e gelida tempesta rovina quanto sembrava dorato e pronto da raccogliere (cfr. Gv 4, 35). Ricominciare fiduciosamente nuovi processi; ripartire dai passi compiuti, senza fare retromarcia, favorendo quanto fa emergere il meglio delle persone e delle istituzioni, «senza ansietà, con chiare e tenaci convinzioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 223). Non abbiate paura di interloquire con fiducia con le persone e le istituzioni pubbliche. Affrontiamo un mondo nel quale non è sempre facile individuare i centri di potere e molti si scoraggiano pensando che siano anonimi e irraggiungibili. Invece sono convinto che le persone siano ancora abbordabili. Sussiste nell’uomo lo spazio interiore dove la voce di Dio può risuonare. Dialogate con chiarezza e non abbiate paura che la misericordia possa confondere o sminuire la bellezza e la forza della verità. La verità si compie in pienezza solo nella misericordia. E siate sicuri che la parola ultima della storia e della vita non è il conflitto ma l’unità, alla quale anela il cuore di ogni uomo. Unità conquistata trasformando il drammatico conflitto della Croce nella sorgente della nostra pace, perché lì è stato abbattuto il muro di separazione (cfr. Ef 2, 14). Cari Confratelli, nell’inviarvi di nuovo alla vostra missione, dopo questi giorni di fraterni e lieti incontri, la mia parola conclusiva vuole affidarvi alla gioia del Vangelo. Noi non siamo commessi della paura e della notte, ma custodi dell’alba e della luce del Risorto. Il mondo ha tanta paura - tanta paura! - e la diffonde. Spesso fa di essa la chiave di lettura della storia e non di rado la adotta come strategia per costruire un mondo poggiato su muri e fossati. Possiamo anche comprendere le ragioni della paura, ma non possiamo abbracciarla, perché «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (2 Tm 1, 7). Attingete da tale spirito, e andate: aprite porte; costruite ponti; tessete legami; intrattenete amicizie; promuovete unità. Siate uomini di preghiera: non trascuratela mai, soprattutto l’adorazione silenziosa, vera sorgente di tutto il vostro operato. La paura abita sempre nell’oscurità del passato, ma ha una debolezza: è provvisoria. Il futuro appartiene alla luce! Il futuro è nostro, perché appartiene a Cristo! Grazie! Vi invito a pregare insieme l’Angelus. È mezzogiorno. [Angelus... Benedizione...]

Pag 5 Tre uscite Messa a Santa Marta I rappresentanti pontifici devono uscire tre volte da se stessi: fisicamente, perché sono sempre con le valigie in mano; culturalmente, perché devono calarsi subito nel contesto in cui sono inviati; e poi con la preghiera e l’adorazione davanti al tabernacolo. Concelebrando la messa con i partecipanti all’incontro giubilare, sabato mattina, 17 settembre, nella cappella della Casa Santa Marta, il Papa ha voluto delineare il profilo spirituale di quanti svolgono il lavoro diplomatico al servizio della Santa Sede. A dare lo spunto a Francesco per la meditazione è stata la parabola del seminatore che Luca racconta nel Vangelo (8, 4-15): «“Il seminatore uscì a seminare il suo seme”: è una figura, un’icona che Gesù ci offre per capire la vita cristiana: il cristiano è un uomo, una donna in uscita, sempre, per seminare». Rivolgendosi quindi direttamente ai presenti, il Papa ha detto che «in modo speciale, anche superlativo, voi siete uomini in uscita: qualche volta vi ho detto che la vostra vita è una vita da zingari, due, tre, quattro anni qui, cinque»; e poi, «quando si è imparata bene la lingua, uno squillo da Roma: “Ah, senti, come stai?” – “Bene” – “Sai, il Santo Padre, che ti vuole tanto bene, ha pensato a te per questo”. Perché queste chiamate, queste telefonate si fanno con “zucchero”, no?». Il rappresentante pontificio, ha continuato il Pontefice, sa di dover essere sempre pronto a «fare le valigie e andare in un altro posto: lasciare amici, lasciare abitudini, lasciare tante cose che ha fatto». Deve continuamente «uscire da se stesso, uscire da quel posto per andare in un altro e lì incominciare». Ma «c’è un’altra uscita - ha affermato il Pontefice - che il nunzio fa e deve fare: quando arriva in un Paese, uscire da se stesso per conoscere, il dialogo, per studiare la cultura, il modo di pensare». E deve anche «uscire da se stesso per andare ai ricevimenti, tante volte noiosi, ma lì ascoltare». In quei contesti «si semina» e «il seme è sempre buono, il chicco è buono, soltanto è necessario guardare un po’ che il diavolo non abbia messo lì un po’ di zizzania; ma il chicco è buono». Questo «lavoro di ricominciare, fare, capire la cultura - ha proseguito il Papa - si potrebbe pensare che è un lavoro troppo funzionale, un lavoro amministrativo pure» e, visto che «nella Chiesa ci sono tanti laici bravi», ci si potrebbe domandare: «Perché non possono farlo loro?». Alla questione Francesco ha risposto con una confidenza: «L’altro giorno, parlando su questo argomento, ho sentito il segretario di Stato che diceva: “Ma, guardate, nei ricevimenti, tanti che sembrano superficiali cercano “il colletto”». «Tutti voi sapete bene - ha detto Francesco rivolgendosi ancora ai rappresentanti pontifici - che cosa avete fatto in tante anime; in quella mondanità, ma senza assumere la mondanità, prendendo le persone come sono, ascoltarle, dialogare: è anche questa un’uscita da se stesso del nunzio, per capire la gente, dialogare. È croce». Riprendendo l’essenza della parabola evangelica, Francesco ha fatto notare come Gesù dica «che il seminatore semina il chicco, semina il grano e poi si riposa, perché è Dio che lo fa germogliare e crescere». Ecco che «anche il nunzio deve uscire da se stesso verso il Signore che fa crescere, che fa germogliare il seme; e deve uscire da se stesso davanti al tabernacolo, nella preghiera, nell’adorazione». Questa, ha spiegato, «è una testimonianza grande: il nunzio solo adora colui che fa crescere, colui che dà vita». Queste sono dunque, per il Papa, «le tre uscite di un nunzio». La prima è «l’uscita fisica: fare le valigie, la vita da zingaro». Poi c’è «l’uscita, diciamo, culturale: imparare la cultura, imparare la lingua». Perché, ha spiegato ancora Francesco, in quella telefonata che il rappresentante pontificio riceve per la comunicazione di un nuovo incarico gli viene anche chiesto quali lingue parli. E magari la risposta potrebbe essere: «Io parlo l’inglese bene, il francese, me la cavo con lo spagnolo». Eppure potrebbe anche sentirsi dire: «Ma senti, il Papa ha pensato di inviarti in Giappone!» - «Ma neppure conosco una lettera di questi giapponesi!» - «Bene, imparerai!». A questo proposito il Papa ha confidato ai presenti di essere «rimasto edificato da uno di voi che, prima di presentare le credenziali, in due mesi aveva imparato una lingua difficile e aveva imparato in quella lingua a celebrare: ha ri-cominciato questa uscita con entusiasmo, con gioia». La «terza uscita», infine, è «la preghiera, l’adorazione». E questo aspetto, ha affermato Francesco, «è più forte» in coloro che non sono più in servizio attivo, perché «è anche un compito di fratellanza»: essi pregano di più, devono pregare «di più per i fratelli che sono lì, nel mondo». Ma «anche il nunzio che è in carica» non deve «dimenticare questa adorazione, perché il padrone faccia crescere quello che lui ha seminato». Queste sono dunque, per i

rappresentanti pontifici, «tre uscite e tre modi di servire Gesù Cristo e la Chiesa». E «la Chiesa ringrazia voi per queste tre uscite, ringrazia tanto». E, ha concluso il Papa, «anche io, personalmente, voglio ringraziarvi: tante volte ammiro, quando ricevo, al mattino presto, le vostre comunicazioni: “Guarda questo come fa bene”». Ai presenti, prima di riprendere la celebrazione della messa, il Papa ha augurato proprio che il Signore dia «la grazia di essere sempre aggiornati in queste tre uscite, queste tre uscite da voi stessi». Pag 8 Tragedia umana Con gli ex alunni dei gesuiti il Papa parla del dramma dei rifugiati e della necessità di accoglierli Quella «dei rifugiati è la crisi umanitaria più grande dopo la seconda guerra mondiale»; perciò «c’è un grande bisogno di persone che ascoltino il grido» di questi «poveri e che rispondano con compassione e generosità». Lo ha detto Papa Francesco ai partecipanti all’incontro promosso dalla Confederazione europea degli ex alunni dei gesuiti, ricevuti in udienza nella mattina di sabato 17 settembre, nella Sala del Concistoro. Cari fratelli e sorelle, Cari membri della Confederazione Europea e dell’Unione Mondiale degli Ex Alunni e Alunne dei Gesuiti, sono lieto di ricevervi oggi nel corso della vostra conferenza sulla migrazione e sulla crisi dei rifugiati. È la crisi umanitaria più grande, dopo la seconda guerra mondiale. Diplomati nelle scuole dei Gesuiti, siete venuti a Roma come “uomini e donne per gli altri”, in particolare - questa volta - per studiare le radici della migrazione forzata, per considerare la vostra responsabilità in rapporto all’attuale situazione e per essere inviati come promotori di cambiamento nelle vostre comunità d’origine. Tragicamente, nel mondo oggi più di 65 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare i loro luoghi di residenza. Questo numero senza precedenti va oltre ogni immaginazione. Il numero complessivo dei profughi è ora più grande dell’intera popolazione dell’Italia! Se andiamo oltre la mera statistica, comunque, scopriremo che i rifugiati sono donne e uomini, ragazzi e ragazze che non sono diversi dai membri delle nostre famiglie e dai nostri amici. Ognuno di loro ha un nome, un volto e una storia, come l’inalienabile diritto di vivere in pace e di aspirare a un futuro migliore per i propri figli. Avete dedicato la vostra Associazione mondiale alla memoria di Padre Pedro Arrupe, che è stato anche il fondatore del Jesuit Refugee Service, l’organizzazione che vi ha accompagnato durante questa settimana trascorsa a Roma. Più di trentacinque anni fa, Padre Arrupe si sentì mosso ad agire in risposta alla situazione dei “boat people” sud-vietnamiti, che si trovavano esposti agli attacchi dei pirati e alle tempeste nel Mar Cinese del Sud, mentre cercavano disperatamente di sfuggire alle violenze nella loro patria. Purtroppo, il mondo oggi si trova ancora coinvolto in innumerevoli conflitti. La terribile guerra in Siria, come le guerre civili nel Sud-Sudan e altrove nel mondo possono sembrare irrisolvibili. Questa è proprio la ragione per cui il vostro incontro “per contemplare e agire” relativamente alla questione dei rifugiati è così importante. Più che mai oggi, mentre la guerra imperversa in diverse parti del mondo, mentre un numero mai raggiunto prima di rifugiati muore tentando di attraversare il Mar Mediterraneo - che è diventato un cimitero -, oppure trascorre anni e anni nei campi, la Chiesa ha bisogno che voi attingiate al coraggio e all’esempio di Padre Arrupe. Mediante la vostra educazione gesuita siete stati invitati a diventare “compagni di Gesù” e, con Sant’Ignazio di Loyola come vostra guida, siete stati inviati nel mondo per essere donne e uomini per e con gli altri. In questo frangente della storia, c’è un grande bisogno di persone che ascoltino il grido dei poveri e che rispondano con compassione e generosità. Alla conclusione della Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia, poche settimane fa, ho detto alla gioventù là riunita di essere coraggiosa. Come diplomati in scuole rette dai padri gesuiti, sappiate anche essere coraggiosi nel rispondere alle necessità dei rifugiati nel tempo presente. Come alunni dei Padri gesuiti, vi farà bene, nel momento in cui trattate dei problemi sperimentati dai rifugiati, ricordare le vostre radici ignaziane. Mentre nei vostri Paesi vi applicate a comprendere le cause dell’immigrazione forzata e a servire i rifugiati, è necessario che offriate al Signore “tutta la vostra libertà, la vostra memoria, la vostra intelligenza e la vostra intera volontà”. Nel corso di quest’Anno della Misericordia la Porta Santa della Basilica di San Pietro è rimasta aperta, a ricordare che

la misericordia di Dio è offerta a tutti coloro che ne hanno bisogno, ora e sempre. Milioni di fedeli hanno compiuto il pellegrinaggio alla Porta Santa, qui e nelle chiese di tutto il mondo, facendo memoria del fatto che la misericordia di Dio dura per sempre ed è rivolta a tutti. Anche con il vostro aiuto la Chiesa sarà capace di rispondere più pienamente alla tragedia umana dei rifugiati mediante atti di misericordia che promuovano la loro integrazione nel contesto europeo e al di là di esso. Vi incoraggio perciò a dare il benvenuto ai rifugiati nelle vostre case e comunità, in modo che la loro prima esperienza d’Europa non sia quella traumatica di dormire al freddo nelle strade, ma quella di un’accoglienza calda e umana. Ricordate che l’autentica ospitalità è un profondo valore evangelico, che alimenta l’amore ed è la nostra più grande sicurezza contro gli odiosi atti di terrorismo. Vi esorto ad attingere alle gioie ed ai successi che la vostra educazione gesuitica vi ha fornito nella cura dell’educazione dei rifugiati nel mondo. È un dato di fatto preoccupante che meno del 50% dei bambini rifugiati abbiano accesso alla scuola primaria. Sfortunatamente, tale numero si riduce al 22% per gli adolescenti rifugiati iscritti a scuole secondarie e a meno dell’1% che può accedere ad un’istruzione universitaria. Insieme al Jesuit Refugee Service, mettete in movimento la vostra misericordia ed aiutate a trasformare questa situazione nel campo educativo. Nel fare questo, costruirete un’Europa più forte e un più luminoso futuro per i rifugiati. A volte ci si può sentire soli nel momento in cui si cerca di tradurre in azione la misericordia. Sappiate però che unite il vostro lavoro a quello delle tante organizzazioni ecclesiali che lavorano nel campo umanitario, che si dedicano agli esclusi e agli emarginati. Più importante ancora, ricordate che l’amore di Dio vi accompagna in questo lavoro. Voi siete occhi, bocca, mani e cuore di Dio in questo mondo. Vi ringrazio per esservi addentrati nelle difficili questioni poste dall’accoglienza ai profughi. Molte porte vi sono state aperte grazie alla educazione ricevuta dai Gesuiti, mentre i rifugiati trovano molte porte chiuse. Avete imparato molto dai rifugiati che avete incontrato. Nel lasciare Roma e tornare alle vostre case, vi esorto ad aiutare a trasformare le vostre comunità in luoghi di benvenuto dove tutti i figli di Dio hanno l’opportunità, non semplicemente di sopravvivere, ma di crescere, fiorire e portare frutto. E mentre perseverate in questo costante lavoro per assicurare accoglienza e istruzione per i rifugiati, pensate alla Sacra Famiglia - Maria, Giuseppe e al Bambino Gesù - nel loro lungo viaggio in Egitto come rifugiati, mentre scappavano dalla violenza e trovavano rifugio tra gli stranieri. Ricordate parimenti le parole di Gesù: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25, 35). Portate queste parole e questi gesti con voi oggi. Possano esservi di incoraggiamento e di consolazione. Da parte mia, nell’assicurarvi la mia preghiera, vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie! AVVENIRE di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 Unità e vita innanzitutto di Bartolomeo Assisi 2016: il Patriarca ecumenico Sono passati 30 anni da quando papa Giovanni Paolo II diede inizio agli eventi di Assisi, eventi di contemplazione e di decisioni per le religioni che lavorano e camminano insieme verso la pace globale. Quest’anno, nel 25° anniversario del nostro umile ministero sul soglio patriarcale di Costantinopoli, siamo lieti di poter essere assieme ai nostri fratelli e alle nostre sorelle delle altre denominazioni e comunità di fede cristiane, guidati dall’amato papa Francesco, in un incontro e in un impegno comune – citando la Divina Liturgia ortodossa – «per la pace dall’alto» e «per la pace del mondo intero». È particolarmente appropriato che questo evento internazionale sia ospitato dalla diocesi di Assisi, dalla famiglia francescana e dai nostri cari amici della Comunità di Sant’Egidio. Stiamo stati recentemente testimoni di questo profondo desiderio di guarire la nostra comunità umana e di proteggere il nostro pianeta quando il mondo ha pianto la perdita di vita e bellezza nel terremoto che ha colpito l’Italia centrale. Riconosciamo, allora, che la pace è qualcosa a cui aneliamo con grande passione e grande dolore. Molti di voi sono sicuramente consapevoli di come negli ultimi 50 anni sono stati compiuti alcuni passi straordinari verso la riconciliazione tra la Chiesa cattolica romana e le Chiese ortodosse. Siamo debitori dell’inizio ai papi Giovanni XXIII e Paolo VI, così come ai nostri predecessori, i patriarchi ecumenici Atenagora a Demetrio. La loro visione ha ricordato a

noi tutti l’urgenza dell’esortazione del Signore ai suoi discepoli sul Monte degli Ulivi, «che tutti siano uno» (ut unum sint). Tuttavia c’è un’altra riconciliazione, una unità di azione che è sollecitudine verso la sofferenza che vediamo attorno a noi nel mondo. Perché il principio che sottostà all’apertura e al dialogo è che tutti gli esseri umani, in ultimo, affrontano le stesse sfide. Un tale dialogo trae persone di differenti religioni e culture fuori dall’isolamento, preparandole per una coesistenza e una relazione di mutuo rispetto. Questo è il motivo per cui il Santo e Grande Concilio della Chiesa ortodossa ha dichiarato nel suo messaggio finale: «Un sobrio dialogo interreligioso aiuta a promuovere la fiducia reciproca, la pace e la riconciliazione». E l’enciclica del Concilio è stata ancora più specifica: «Noi perciò sollecitiamo tutti… indipendentemente dalle convinzioni religiose, a lavorare per la riconciliazione e il rispetto per i diritti umani, prima di tutto attraverso la protezione del divino dono della vita. La guerra e lo spargimento di sangue deve aver fine e la giustizia deve prevalere, cosicché la pace possa essere restaurata». Questa è stata anche la nostra esperienza con papa Francesco sull’isola di Lesbo esattamente cinque mesi fa, il 16 aprile 2016. Quell’evento è stato una risposta concreta delle Chiese di Occidente e Oriente a una crisi tragica del nostro mondo. Allo stesso tempo, è stata una potente riaffermazione di come le relazioni ecumeniche possono favorire la pace e i diritti umani in un tempo in cui il mondo distoglie il suo sguardo dalle vittime dell’estremismo e della persecuzione o decide il loro destino in termini puramente economici o di interessi nazionali. La forza del dialogo e dell’azione ecumenici sta nell’iniziare ad andare oltre noi stessi e a ciò che è nostro, oltre le nostre comunità e le nostre Chiese. È imparare a parlare il linguaggio della cura e della compassione. Ed è dare priorità alla solidarietà e al servizio. Ringraziamo Sua Santità il Patriarca ecumenico di Costantinopoli per aver deciso di condividere con i lettori di 'Avvenire' questa preziosa riflessione alla vigilia dell’incontro 'Sete di pace: religioni e culture in dialogo' che si tiene da oggi ad Assisi a trent’anni dal primo incontro interreligioso di preghiera per la pace voluto da san Giovanni Paolo II. Pag 1 Dono e gesto provvidenziali di Andrea Riccardi Assisi 2016: il fondatore di Sant’Egidio Lo 'spirito d’Assisi' ritorna oggi ad Assisi, dov’è di casa. Da qui prese le mosse nel lontano 1986, trent’anni fa, al tempo della guerra fredda. Fu un’iniziativa personale audace di Giovanni Paolo II. Nella transizione del mondo, allora agli albori, papa Wojtyla aveva ben colto come le religioni potessero esercitare un ruolo di pace, ma anche come fossero tentate dalla santificazione dei conflitti e delle identità. Così invitò ad Assisi i leader religiosi del mondo non a discutere tra di loro, ma soprattutto a pregare per la pace. Era un’intuizione profonda: geopolitica e allo stesso tempo mistica. Giovanni Paolo II, nell’intervista a Messori, afferma a proposito delle religioni: «Tenterò di mostrare che cosa costituisce per queste religioni il comune elemento fondamentale e la comune radice». Ad Assisi, il Papa mostrò come l’aspirazione alla pace costituisse qualcosa di unificante tra le religioni, mettendo in luce come la preghiera è la radice della pace. Fu una svolta. A partire dalla preghiera si è sviluppato, negli anni, un cammino di dialogo ecumenico e interreligioso. Quel 27 ottobre 1986 fu percepito, non solo dai partecipanti, come una giornata storica: proponeva qualcosa di nuovo, atteso da tanti. Ebbe un grande impatto sulle religioni: basti pensare al mondo religioso giapponese, che perseguì con forza questa strada negli anni successivi. Ebbe un forte impatto anche sull’opinione pubblica. Era un segnale della fine della guerra fredda. Fu la conclusione di storie secolari di contrapposizione, isolamento, ignoranza tra i mondi. Storie che sembravano dovessero durare per sempre, quasi come un destino. Gente di religione diversa, nel giro di pochi anni, sotto l’impulso della globalizzazione, si sarebbero ancor più mischiate in tante parti del nostro pianeta. Ormai nessuno poteva più vivere da solo, come in un’isola. Lo 'spirito di Assisi' è stata la proposta dell’arte di vivere insieme, religiosamente fondata. Il mondo globale ne aveva e ne ha bisogno ancor di più oggi: di fronte a inedite convivenze, a una diffusa riaffermazione delle identità in contrapposizione, al terrorismo, alla rivalutazione della guerra. Negli anni Novanta, bisognava fondare, al di là dello scontro di civiltà e di religione (che era presentato come il destino del mondo globale), una 'civiltà' del vivere assieme. Per questo sono stati

tanto importanti l’incontro di Assisi e la storia che ne segue. Nella città di Francesco, in quel 1986, le religioni si presentarono le une accanto alle altre in pace e preghiera. Molti, più 'papisti' del papa, vollero ricordare i rischi di quell’iniziativa al vescovo di Roma. Altri, paurosi, consigliarono che l’episodio dell’incontro tra le religioni nel segno della pace restasse un fatto isolato, da non ripetere. Altrimenti ci sarebbero stati errori o sbavature. Ma papa Wojtyla teneva tenacemente che quella storia continuasse. Gli anni successivi gli hanno dato ragione. Lo 'spirito di Assisi' si è diffuso. Nell’incontro tra donne e uomini di religione, si è sviluppato un dialogo ricco e articolato anno dopo anno. Le famiglie francescane, nel mondo, hanno parlato dello spirito di Assisi. L’arcivescovo Bergoglio, a Buenos Aires, dichiarò che «la profezia di Assisi» era «un lascito di Giovanni Paolo II alle generazioni attuali e future'». Ricordo un vescovo siriaco di Aleppo, Mar Gregorios Ibrahim, che si gettò con entusiasmo nel dialogo tra le religioni, dopo aver partecipato ad Assisi 1986: è stato rapito nel 2013 e da anni non se ne hanno più notizie. Oggi, ad Assisi, inizia un convegno, cui partecipa anche il patriarca ecumenico Bartolomeo, alla presenza del presidente Sergio Mattarella , in cui leader religiosi, personalità umaniste s’incontrano per dialogare sui problemi spirituali, ma anche sulle situazioni di conflitto. Martedì, papa Francesco si unirà all’invocazione di pace di tanti credenti di ogni religione sul colle di Assisi, dopo le preghiere secondo le diverse tradizioni religiose nel recinto del Sacro Convento, non lontano dalla tomba di San Francesco. Ad Assisi pregheremo per la pace. La preghiera può piegare i disegni dei violenti, mentre si fa grido dei sofferenti, a causa della guerra, presso Dio. Si pregherà per Aleppo e la Siria. E per tutti i paesi in guerra o minacciati dalla violenza. Non sarà un evento isolato. La Chiesa italiana si unisce a questa preghiera per la pace. (Nello stesso giorno in cui esprime nuova, corale e concreta solidarietà alle vittime del terremoto in Centro Italia). Così fanno altre Chiese del mondo. In cinquantacinque città, in tutti i continenti, esponenti delle diverse religioni pregheranno anch’essi per la pace proprio in questo stesso giorno. Il nostro mondo è troppo carico di odi e di guerre. La preghiera è una forza di pace (non violenta, ma umilmente potente). San Giovanni Paolo II, nel 2000, scrisse alla Comunità di Sant’Egidio per l’incontro di Lisbona: «Sono convinto che lo 'spirito di Assisi' costituisce un dono provvidenziale per il nostro tempo. Nella diversità delle espressioni religiose, lealmente riconosciute come tali, stare insieme gli uni accanto agli altri manifesta anche visibilmente l’unità della famiglia umana». Pag 6 “Assisi, dalle religioni riparta la speranza” di Angelo Scelzo Etchegaray: oggi urgente rinnovare il senso di quel primo incontro del 1986 Assisi non è mai un ricordo. Esistono date che la riguardano ma non per mettere punti alla storia, perché anch’essa da Assisi prende semmai il volo, e va per il mondo a raccontare di un luogo che è piuttosto un monumento innalzato al futuro e alla speranza. Così è stato per quel 27 ottobre del 1986 che aprì, sul terreno audace dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, un nuovo cammino alla pace. Il Muro di Berlino era ancora in piedi, e tre anni prima della caduta non dava segni di cedimento. La “guerra fredda” continuava a tenere banco. Ed ecco a un tratto la grande intuizione di Giovanni Paolo II, le religioni convocate per “una preghiera per la pace” nella terra di Francesco. Trent’anni dopo sono ancora attuali le domande di sempre: come nacque? Quale fu la genesi di un evento che prima di suscitare entusiasmo, destò sorpresa e scalpore? «La prima traccia – spiega il cardinale Roger Etchegaray, già presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – fu il passaggio di un discorso di Giovanni Paolo II, pronunciato nel gennaio di quell’anno. La Santa Sede, affermava il Papa, desidera contribuire a suscitare un movimento mondiale di preghiera per la pace che, oltrepassando i confini delle singole nazioni e coinvolgendo i credenti di tutte le religioni, giunga ad abbracciare il mondo intero». Per riprendere quell’antico filo, il porporato, messaggero delle “missioni impossibili” che Wojtyla inviava per il mondo, rovista tra le carte, dopo che la copiosa documentazione con la scritta “Assisi”, viene estratta da uno scaffale che tappezza per intero le pareti di uno studio dove ancora lavora. Novantaquattro anni e una scrivania sempre ingombra, libri, ritagli di giornali, opuscoli, finanche gli appunti per un nuovo libro: di Assisi Etchegaray è quantomeno un grande testimone. Protagonista è un termine che respinge, ma l’obiezione è solo sua. Le carte, ma anche i ricordi. Faticosi, ma lucidi, a cominciare dalle lacrime che vide sul volto dei capi delle Chiese cristiane

mentre si scambiavano, come non l’avevano mai fatto prima, il segno di pace; e quelle che si sorprese a veder scorrere sul proprio quando il podio dei saluti, alla fine, fu allegramente invaso da giovani di ogni razza e religione. E poi quell’arcobaleno che, inarcandosi in cielo, fece di Assisi «la più bella arca di pace mai apparsa sulla terra». Emozioni che venivano da lontano. «Quell’invito del Papa non poteva restare senza risposta. Il mio dicastero, Giustizia e pace, era chiamato in causa in maniera diretta. Il nostro impegno era assiduo, si lavorava concretamente per un clima di maggiore distensione nel mondo. Ma avvertivamo che mancava il “colpo d’ala”, la spinta di una “profezia” capace di proiettare “oltre” anche il nostro lavoro ordinario. Ecco allora l’intuizione, anzi il genio tutto “wojtyliano” di Assisi. Assisi fu tutta sua, testa e cuore: la pace come orizzonte ma anche come fatica comune delle religioni. Il Papa aveva già tutto in mente. Anche le obiezioni, che infatti si manifestarono subito, puntando sul sincretismo. Era innanzitutto la novità che spaventava. E un po’ tutti, anche nel mondo cattolico, ma non certo Giovanni Paolo II che fece di tutto per sgombrare il terreno da ogni equivoco. In realtà, come ha poi dimostrato la visita di papa Bene- detto in occasione della ricorrenza dei 25 anni e tanto più ora la presenza di papa Francesco per i 30, quando la pace cerca un approdo, la bussola è sempre orientata sul Monte Subasio. Come non ricordare in questo senso anche gli incontri del gennaio ’93 per la pace nei Balcani e il ritorno di papa Giovanni II nell’anno successivo dell’attentato alle Torri Gemelle?». Eppure lo “spirito di Assisi”, anche come espressione, non ha avuto vita facile... «È vero, ma bisogna dare atto alla Comunità di Sant’Egidio di aver ripreso e rilanciato per il mondo la grande intuizione di Giovanni Paolo II. La presenza di Papa Francesco è ora come un sigillo che mette fine a ogni diversa valutazione ». La “Giornata di preghiera per la pace” Etchegaray l’ha vista non solo nascere, ma l’ha accompagnata per mano lungo tutto il cammino. In una cartella del “dossier Assisi”, un foglio ingiallito riporta gli appunti della relazionebase con la quale il cardinale metteva a punto, davanti al Papa, il progetto della “Journée de prière d’Assise”. La prima parte dedicata ai contenuti, poi i capitoli riguardanti i rapporti con le Chiese locali, le attese, la partecipazione, l’importanza dei media. E su tutte la preoccupazione di evitare che potesse trattarsi di un fatto “monolitico e spettacolare”. Si metteva mano alla storia del mondo e della chiesa. Tra la fine del Concilio e l’orizzonte che si approssimava del Grande Giubileo del millennio, Assisi si poneva come uno dei grandi eventi di un pontificato il cui asse portante era proprio nel rapporto Chiesa-mondo. Il cardinale di Espelette, un francese basco che il Papa aveva chiamato dalla arcidiocesi di Marsiglia, era l’inviato pontificio permanente ai quattro angoli della terra, dovunque un punto di crisi chiamasse la Chiesa a un impegno supplementare sulla via della pace. Assisi era in tutti i sensi la sintesi più significativa del magistero di Giovanni Paolo II. Il suo grande atto di coraggio. «Era commovente vedere come il Papa preparasse e si preparasse a quell’evento. Fu per me l’occasione di una più assidua frequentazione con Giovanni Paolo II; e di ciò mi sento ancora oggi edificato. Si vedeva dai primi incontri preparatori che di Assisi aveva già tutto in mente. Ricordo che sul terreno c’era la proposta di un “Concilio mondiale della pace” avanzata dal fisico von Weizsacker, fratello dell’allora presidente della Germania occidentale, e l’impulso che veniva anche dall’Anno internazionale della pace proclamato dalla Nazioni Unite. Ma Assisi prese subito la sua grande strada di un grande evento ecclesiale che parlava al mondo con la lingua nuova di una Chiesa uscita rinnovata dal Concilio». Tra i fogli sparsi, nel disordine creativo che ancora lo impegna a trovare il posto giusto alle carte e ai documenti di una lunga vita di Chiesa vissuta in una prima linea permanente, emergono, come frammenti di storia, brani degli interventi, sul tema Assisi, del gruppo di lavoro che affiancò più da vicino il Papa. E la parola passa da Etchegaray a Casaroli, allora segretario di Stato, da Opilio Rossi a Willebrands, e agli esponenti più direttamente impegnati sulla difficile via dei rapporti ecumenici e del dialogo interreligioso. Nomi e personaggi di un’altra stagione di Chiesa. Viene naturale lo sguardo al passato. Ma a distoglierlo è ancora questo cardinale ultranovantenne, al quale il solo nome di Assisi, fa ancora brillare gli occhi, più che la memoria. «Assisi significa pace. Dopo averla così a lungo servita, mi rendo conto che la pace è da fare in tempo di... pace più ancora che in tempo di guerra. Mai come oggi, infatti, la guerra si è installata nella pace. La violenza si intrufola dovunque al punto da rendere la pace bellicosa. Dopo le grandi guerre, le “vere”, ecco sorgere la mondializzazione del terrorismo. Per dire addio alla guerra, non basta dire buongiorno alla pace! C’è un’arte

della pace. Vi è una scienza della pace. Ecco perché la Chiesa dispiega un’onnipresenza attiva a livello diplomatico». Il vecchio cardinale, antico tessitore di pace, è abituato a guardare avanti e non sarà il peso degli anni a farlo desistere. «Il passato non si rimira. Occorre sempre trovare il modo per farlo rivivere, per rinnovarne il senso, poiché nessun grande evento – se è davvero tale – finisce una volta per sempre. A rinnovarlo, a dargli nuova vita, sarà ora la presenza di un altro Papa, Francesco. Lui che ritorna nella terra del Santo è già un grande fatto di fede. Ma ritorna per fare in modo che le religioni riprendano insieme il filo di un dialogo sempre più necessario e vitale per il mondo. Dalla “guerra fredda” di trent’anni fa, alla guerra combattuta a “pezzi” della quale papa Bergoglio ha parlato in tante occasioni. La pace, da tutti i sentieri, riporta sempre ad Assisi. È nella casa di Francesco che continua incessante a cercare riparo. Quanto a me, sento di rendere grazie a Dio per il privilegio di poter vedere che Assisi compie ancora un’altra tappa. E fa compiere alla pace un altro passo in avanti». CORRIERE DELLA SERA di domenica 18 settembre 2016 Pag 22 “Ad Assisi 500 leader religiosi contro l’inganno del terrorismo” di Gian Guido Vecchi Il presidente di Sant’Egidio Impagliazzo: ci saranno tanti musulmani, il dialogo con loro è fondamentale «Per Sant’Egidio non è stato facile portare avanti lo spirito di Assisi. All’inizio, anche tra i cattolici, c’era l’idea che l’evento voluto nell’86 da Giovanni Paolo II dovesse restare un unicum. L’anno dopo organizzammo un incontro a Roma nello spirito di Assisi ed eravamo in pochi, con pochi leader religiosi, della Chiesa cattolica l’unico vescovo era il cardinale Carlo Maria Martini. Ma quando fummo ricevuti, il Papa ci disse: non vi preoccupate, andate avanti». Marco Impagliazzo, 54 anni, ordinario di Storia contemporanea all’università per stranieri di Perugia, è dal 2003 presidente della Comunità di Sant’Egidio. Trent’anni dopo l’intuizione di Wojtyla, Assisi torna ad essere la capitale mondiale della pace e del dialogo. Assieme alle famiglie francescane e alla diocesi, Sant’Egidio ha organizzato l’incontro «Sete di pace, religioni e culture in dialogo»: oltre cinquecento tra leader religiosi e personalità della cultura, sei Nobel per la pace, 29 «panel» di discussione in tre giorni. Si apre oggi con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, martedì papa Francesco accompagnerà l’intera giornata conclusiva. Perché di nuovo Assisi, oggi? «Perché era necessario tornare là dove si era cominciato. La comunità ha fatto sì che lo spirito di Assisi non rimanesse solo qualcosa di simbolico ma si incarnasse ogni anno nella vita di tante città in Europa, negli Stati Uniti, in Terra Santa. Ci sono stati momenti memorabili, come quando nell’89, in Polonia, prima della caduta del Muro, portammo i musulmani ad Auschwitz...». Ma che cos’è lo «spirito di Assisi»? «Il dialogo tra le religioni, non essere più gli uni contro gli altri ma lavorare assieme per alcuni obiettivi: la pace, anzitutto. Non significa sincretismo, non è un dialogo teologico. È un impegno comune per vincere le tante forme di povertà e diseguaglianza nel pianeta: far sentire la voce delle religioni accanto alle persone che soffrono». Cos’è cambiato nel frattempo? «Trent’anni fa era un altro mondo, diviso in due dalla guerra fredda, l’ideologia comunista era ancora molto forte e metà dell’Europa non era libera. Poi è cambiato tutto, è arrivata la globalizzazione. Oggi le guerre non si fanno più per le ideologie ma per i soldi: traffico di armi, oro, diamanti, ricchezze. E in più si è insinuato il virus del terrorismo. Giovanni Paolo II aveva già intuito che si dovevano aiutare le religioni a superare ogni legame con la violenza». Francesco ripete che c’è una «guerra mondiale a pezzi» ma «non è una guerra di religione». L’altro giorno ha detto: «Mi piacerebbe che tutte le confessioni religiose dicessero: uccidere nel nome di Dio è satanico». «Questo discorso va fatto con grande chiarezza. Nel mondo globalizzato l’uomo naviga al largo e il ruolo delle fedi è ancora più importante. Non tutte le religioni credono a Satana, il male è detto in modi diversi: però è male. Bisogna dirlo con le parole del patriarca Bartolomeo, che verrà ad Assisi: ogni cosiddetta guerra di religione è una

guerra alla religione. Il fondamentalismo terrorista lavora per distruggere i legami e la pace sociale e metterci gli uni contro gli altri, scatena la reazione contro gli stranieri. Non bisogna cadere in questa trappola, rispondere con la stessa logica». Si parla di 26 delegazioni, la presenza musulmana non è mai stata così numerosa, che significa? «Significa che i musulmani hanno bisogno di aiuto, cercano interlocutori perché hanno toccato con mano come il terrorismo, l’uso pervertito del nome di Dio per incitare alla violenza, stia mietendo vittime anzitutto nel loro mondo. È un momento di grande difficoltà per i teologi e le scuole del mondo islamico. Bisogna uscire dall’autoreferenzialità, prendere posizioni comuni». Oltre ai momenti simbolici, ci sarà una quantità di incontri... «Non si cammina insieme solo firmando appelli ma, come dicevo, lavorando su questioni concrete - ambiente, disuguaglianze, migranti - a partire dalle periferie del mondo: sono i poveri, ci ricorda Francesco, a spiegarci meglio la realtà. I rifugiati parteciperanno ai panel, pranzeranno col Papa. Una donna di Aleppo parlerà davanti al Sacro Convento. Come dice Andrea Riccardi, la guerra è madre di tutte le povertà». L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 17 settembre 2016 Pag 7 La logica del dopodomani A Santa Marta Il cristiano deve avere il coraggio di vivere con «la logica del dopodomani», cioè nella certezza della «risurrezione della carne» che è anche «la radice più profonda delle opere di misericordia». E dalle tentazioni di farsi condizionare da una «pietà spiritualista» o di fermarsi solo alla «logica del passato e del presente» il Papa ha messo in guardia nella messa celebrata venerdì mattina, 16 settembre, nella cappella della Casa Santa Marta. Rilanciando la verità della «logica della redenzione, fino alla fine». Per la sua meditazione Francesco ha preso le mosse dal brano evangelico di Luca (8, 1-3) proposto oggi dalla liturgia. «Quando sento questo passo del Vangelo mi fa sorridere un po’ - ha confidato - perché alcuni apostoli ce l’hanno contro la Maddalena: Luca, anche Marco, sempre ricordano il passato» tanto da scrivere che da lei «erano usciti sette demoni». Ma «povera donna, è stata l’apostola della resurrezione, è l’apostola, ma questi non dimenticano». Quindi il Papa ha riproposto i contenuti del passo della prima lettera ai Corinzi (15, 12-20). Entrando «in questo gioco - mi viene questa parola: gioco - che fa Paolo» fra la risurrezione di Cristo e «la nostra resurrezione - “Se Cristo non è risorto, neppure noi lo saremo” - e da una parte all’altra, ma sembra un po’ confuso». In realtà, ha spiegato il Papa, lo scopo dell’apostolo delle Genti «è chiaro: vuole far sì che noi entriamo nella logica della redenzione fino alla fine». Per esempio, «quando recitiamo il Credo è bello, diciamo: “Dio, Padre Onnipotente, il Figlio, lo Spirito Santo…”». E «fino a quel momento lo diciamo bene». Invece «la coda del Credo incomincia ad andare in fretta: “la Chiesa cattolica, la risurrezione dei morti” o in alcune traduzioni, come quella spagnola, si dice “la risurrezione della carne”». Ma questa parte del Credo, ha insistito Francesco, «la diciamo in fretta: sì, meglio dirlo di fretta, perché non sappiamo bene come sarà questo, ci dà paura la carne». Ed ecco che, nella lettera ai Corinzi, «Paolo entra in tutto questo gioco della risurrezione: se Gesù ha fatto così, perché noi...; e se noi non faremo così, neppure Gesù lo ha fatto». Secondo Francesco la spiegazione è semplice: «È facile per tutti noi entrare nella logica del passato, perché è concreta: abbiamo visto». Ed «è facile anche entrare nella logica del presente: perché lo vediamo». Ma «dobbiamo dire pure - ha affermato - che tanti psichiatri hanno lavorato per far capire ad alcune persone questa logica del passato e del presente: è facile, è concreta». Sì, ha proseguito Francesco, «non è tanto difficile, ma lì ci tradisce anche un po’ un neo-sadduceismo: pensare nella logica del futuro, “no, ma in cielo, sì, ma c’è tanta gente in cielo: come sarà? Ma, meglio non pensarci”». È un modo di pensare «un po’ da sadducei» dunque: «Ma sì, il Signore ci vuole bene e ci farà vivere, ma non pensiamo a come, perché è difficile questo». Certo, ha aggiunto, «non è facile entrare nella totalità di questa logica del futuro». In effetti «la logica di ieri è facile, la logica dell’oggi è facile» e anche «la logica del domani è facile: tutti moriremo» ha affermato il Papa. A essere «difficile» è «la logica del dopodomani». E proprio «quello che Paolo vuole annunciare oggi, la logica del dopodomani: come sarà?». La questione centrale è

«la risurrezione: Cristo è risorto ed è ben chiaro che non è risorto come un fantasma». Per questo, raccontando la risurrezione, Luca riporta questa parola di Gesù: «Toccatemi, datemi da mangiare!». Perché «un fantasma non ha carne, non ha ossa». Ecco allora che «la logica del dopodomani è la logica nella quale entra la carne: come sarà il cielo? Sì, saremo tutti lì?». «Ma noi non arriviamo a quanto Paolo vuol fare capire, questa logica del dopodomani» ha spiegato ancora il Pontefice. E «anche qui ci tradisce un certo gnosticismo: no, sarà tutto spirituale». Il fatto, ha proseguito, è che «noi abbiamo paura della carne: non dimentichiamo che questa è stata la prima eresia che l’apostolo Giovanni condanna: “Chi dice che il Verbo di Dio non è venuto in carne è dell’Anticristo, è del Maligno”». Sì, ha affermato il Papa, «abbiamo paura di accettare e portare alle ultime conseguenze la carne di Cristo». È «più facile una pietà spiritualistica, una pietà delle sfumature; ma entrare nella logica della carne di Cristo, questo è difficile». Tuttavia «questa è la logica del dopodomani: noi risusciteremo come è risorto Cristo, con la nostra carne». In proposito Francesco ha fatto notare che «qualcosa si capisce nelle profezie» che possono essere d’aiuto: ad esempio, ha spiegato, «Giobbe, un po’ profeticamente oscuro, nel capitolo 19, ci dice qualcosa: “Io so che il mio Redentore è vivo e io lo vedrò, e lo vedrò con questi occhi». Ma «è stato proprio Gesù a far vedere che la sua risurrezione è così». Però già «i primi cristiani, quelli di Corinto, anche quelli di Tessalonica», pensano: “Sì, sì, Lui è risorto così, ma noi forse, ma non so, sì, vedremo il Signore, ma…”. In realtà è proprio «qui, nella fede della resurrezione della carne», che «hanno la radice più profonda le opere di misericordia, perché c’è un collegamento continuo: la carne di Cristo, la carne del fratello, le opere di misericordia, è la carne trasformata». Perciò «Paolo dice ai cristiani di Tessalonica», nella prima lettera, capitolo quarto: “Io non vorrei che voi foste nell’ignoranza riguardo ai dormienti. Tutti saremo trasformati”. Il nostro corpo, ha proseguito Francesco, «la nostra carne sarà trasformata e saremo sempre con il Signore, come è il Signore, con il corpo e con l’anima, trasformato: come il Signore si è fatto vedere e toccare e ha mangiato con i discepoli dopo la risurrezione, così noi, saremo con lo stesso corpo». E «questa è la logica del dopodomani - ha detto il Papa - quella che noi troviamo difficoltà a capire, in cui troviamo difficoltà ad entrare». Ci viene in soccorso, ha suggerito il Pontefice, una bella frase di Paolo ai cristiani di Tessalonica: e noi, così trasformati, «saremo sempre con il Signore». «È un segno di maturità capire bene la logica del passato; è un segno di maturità muoversi nella logica del presente, quella di ieri e quella dell’oggi» ha affermato Francesco. Ed «è anche un segno di maturità avere la prudenza per vedere la logica del domani, del futuro». Ma «ci vuole una grazia grande dello Spirito Santo per capire questa logica del dopodomani, dopo la trasformazione, quando Lui verrà e ci porterà tutti trasformati sulle nuvole per rimanere sempre con Lui». Al Signore, ha concluso il Papa, «chiediamo la grazia di questa fede». Pag 8 Pastorale di misericordia Tre raccomandazioni di Papa Francesco ai vescovi di nuova nomina. Per essere capaci di attirare, iniziare e accompagnare il gregge «Tre piccoli pensieri come contributo per rendere pastorale la Misericordia, cioè accessibile, tangibile, incontrabile»: li ha offerti Papa Francesco ai presuli di nuova nomina che partecipano ai corsi di formazione organizzati dalle Congregazioni per i vescovi e per le Chiese orientali, ricevuti in udienza nella Sala Clementina, venerdì mattina, 16 settembre. Cari Fratelli, buongiorno! Siete quasi alla fine di queste feconde giornate trascorse a Roma per approfondire la ricchezza del mistero al quale Dio vi ha chiamati come Vescovi della Chiesa. Saluto con gratitudine la Congregazione dei Vescovi e la Congregazione per le Chiese Orientali. Saluto il Cardinale Ouellet e lo ringrazio per le sue cortesi parole, fraterne parole. Nelle persone del Cardinale Ouellet e del Cardinale Sandri vorrei ringraziare per il generoso lavoro svolto per la nomina dei Vescovi e per l’impegno della preparazione di questa settimana. Sono lieto di accogliervi e di poter condividere con voi alcuni pensieri che vengono al cuore del Successore di Pietro quando vedo davanti a me coloro che sono stati “pescati” dal cuore di Dio per guidare il suo Popolo Santo. 1. Il brivido di essere stati amati in anticipo

Sì! Dio vi precede nella sua amorevole conoscenza! Egli vi ha “pescato” con l’amo della sua sorprendente misericordia. Le sue reti sono andate misteriosamente stringendosi e non avete potuto fare a meno di lasciarvi catturare. So bene che ancora un brivido vi pervade al ricordo della sua chiamata arrivata attraverso la voce della Chiesa, Sua Sposa. Non siete i primi ad essere percorsi da tale brivido. Lo è stato anche Mosè, che si credeva solo nel deserto e si scoprì invece rintracciato e attirato da Dio che gli affidò il proprio Nome, non per lui, ma per il suo popolo (cfr. Es 3). Gli affida il Nome per il popolo, non dimenticare questo. E continua a salire a Dio il grido di dolore della sua gente, e sappiate che questa volta è il vostro nome che il Padre ha voluto pronunciare, perché voi pronunciate il suo Nome al popolo. Lo è stato anche Natanaele, che, visto quando era ancora “sotto il fico” (Gv 1, 48), con stupore si ritrova custode della visione dei cieli che definitivamente si aprono. Ecco, la vita di tanti è ancora priva di questo varco che dà accesso all’alto, e voi siete stati visti da lontano per guidare verso la meta. Non accontentatevi di meno! Non fermatevi a metà strada! Lo è stata anche la Samaritana, “conosciuta” dal Maestro al pozzo del villaggio, che poi chiama i compaesani all’incontro di Colui che possiede l’Acqua Viva (cfr. Gv 4, 16-19). È importante essere consapevoli che nelle vostre Chiese non c’è bisogno di cercare “da un mare all’altro” perché la Parola di cui la gente ha fame e sete può trovarla sulle vostre labbra (cfr. Am 8, 11-13). Percorsi da tale brivido sono stati anche gli Apostoli quando, svelati “i pensieri dei loro cuori”, con fatica hanno scoperto l’accesso alla segreta via di Dio, che abita nei piccoli e si nasconde a chi basta a sé stesso (cfr. Lc 9, 46-48). Non vergognatevi delle volte in cui pure voi siete stati sfiorati da tale lontananza dai pensieri di Dio. Anzi, abbandonate la pretesa dell’autosufficienza per affidarvi come bambini a Colui che ai piccoli rivela il suo Regno. Perfino i farisei sono stati scossi da tale brivido, quando spesso sono stati smascherati dal Signore che conosceva i loro pensieri, così pretenziosi da voler misurare il potere di Dio con la ristrettezza del proprio sguardo e così blasfemi da mormorare contro la sovrana libertà del suo amore salvifico (Mt 12, 24-25). Dio vi scampi dal rendere vano tale brivido, dall’addomesticarlo e svuotarlo della sua potenza “destabilizzante”. Lasciatevi “destabilizzare”: questo è buono, per un vescovo. 2. Ammirabile condiscendenza! È bello lasciarsi trafiggere dalla conoscenza amorevole di Dio. È consolante sapere che Egli davvero sa chi siamo e non si spaventa della nostra pochezza. È rasserenante conservare nel cuore la memoria della sua voce che ha chiamato proprio noi, nonostante le nostre insufficienze. Dona pace abbandonarsi alla certezza che sarà Lui, e non noi, a portare a compimento quanto Egli stesso ha iniziato. Tanti oggi si mascherano e si nascondono. Amano costruire personaggi e inventare profili. Si rendono schiavi delle misere risorse che racimolano e a cui si aggrappano come se bastassero per comprarsi l’amore che non ha prezzo. Non sopportano il brivido di sapersi conosciuti da Qualcuno che è più grande e non disprezza il nostro poco, è più Santo e non rinfaccia la nostra debolezza, è buono davvero e non si scandalizza delle nostre piaghe. Non sia così per voi: lasciate che tale brivido vi percorra, non rimuovetelo né silenziatelo. 3. Varcare il cuore di Cristo, la vera Porta della Misericordia Per tutto questo, domenica prossima, nel varcare la Porta Santa del Giubileo della Misericordia, che ha attirato a Cristo milioni di pellegrini dell’Urbe e dell’Orbe, vi invito a vivere intensamente una personale esperienza di gratitudine, di riconciliazione, di affidamento totale, di consegna senza riserve della propria vita al Pastore dei Pastori. Varcando Cristo, la sola Porta, ponete il vostro sguardo nel Suo sguardo. Lasciate che Egli vi raggiunga “miserando atque eligendo”. La più preziosa ricchezza che potete portare da Roma all’inizio del vostro ministero episcopale è la consapevolezza della misericordia con la quale siete stati guardati e scelti. Il solo tesoro che vi prego di non lasciare arrugginire in voi è la certezza che non siete abbandonati alle vostre sole forze. Siete Vescovi della Chiesa, partecipi di un unico Episcopato, membri di un indivisibile Collegio, saldamente innestati come umili tralci nella vite, senza la quale nulla potete fare (Gv 15, 48). Poiché ormai non potete più andare da soli da nessuna parte, perché portate la Sposa a voi affidata come un sigillo impresso sulla vostra anima, nell’attraversare la Porta Santa, fatelo caricando sulle spalle il vostro gregge: non da soli!, col gregge sulle spalle, e portando nel cuore il cuore della vostra Sposa, delle vostre Chiese. 4. Il compito di rendere pastorale la misericordia

È un compito non facile. Domandate a Dio, che è ricco di misericordia, il segreto per rendere pastorale la sua misericordia nelle vostre diocesi. Bisogna, infatti, che la misericordia formi e informi le strutture pastorali delle nostre Chiese. Non si tratta di abbassare le esigenze o svendere a buon mercato le nostre perle. Anzi, la sola condizione che la perla preziosa pone a coloro che la trovano è quella di non poter reclamare meno del tutto; la sua unica pretesa è suscitare nel cuore di chi la trova il bisogno di rischiarsi per intero pur di averla. Non abbiate paura di proporre la Misericordia come riassunto di quanto Dio offre al mondo, perché a nulla di più grande il cuore dell’uomo può aspirare. Qualora ciò non fosse abbastanza per “piegare ciò che è rigido, scaldare ciò che è gelido, drizzare ciò che è sviato”, cos’altro avrebbe potere sull’uomo? Allora saremmo disperatamente condannati all’impotenza. Forse le nostre paure avrebbero il potere di contrastare i muri e dischiudere varchi? Per caso le nostre insicurezze e sfiducie sono in grado di suscitare dolcezza e consolazione nella solitudine e nell’abbandono? Come ha insegnato il mio venerato e saggio Predecessore, è «la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura tutta peculiare di Dio – la sua santità, il potere della verità e dell’amore». Essa è «il modo con il quale Dio si oppone al potere delle tenebre con il suo potere diverso e divino», appunto «quello della misericordia» (Benedetto XVI, Omelia, 15 aprile 2007). Dunque, non vi lasciate spaventare dalla prepotente insinuazione della notte. Conservate intatta la certezza di questo potere umile con il quale Dio bussa al cuore di ogni uomo: santità, verità e amore. Rendere pastorale la Misericordia non è altro che fare delle Chiese a voi affidate delle case dove albergano santità, verità e amore. Albergano come ospiti venuti dall’alto, di cui non si può impadronirsi, ma si devono sempre servire e ripetere: «Non passare oltre senza fermarti dal tuo servo» (Gen 18, 3): è la richiesta di Abramo. 5. Tre raccomandazioni per rendere pastorale la Misericordia Tre piccoli pensieri vorrei offrirvi come contributo per questo immane compito che vi attende: quello di rendere pastorale, per mezzo del vostro ministero, la Misericordia, cioè accessibile, tangibile, incontrabile. 5.1. Siate Vescovi capaci di incantare e attirare Fate del vostro ministero un’icona della Misericordia, la sola forza capace di sedurre ed attrarre in modo permanente il cuore dell’uomo. Anche il ladro all’ultima ora si è lasciato trascinare da Colui in cui ha “trovato solo bene” (cfr. Lc 23, 41). Nel vederlo trafitto sulla croce, si battevano il petto confessando quanto non avrebbero mai potuto riconoscere di sé stessi se non fossero stati spiazzati da quell’amore che non avevano mai conosciuto prima e che tuttavia sgorgava gratuitamente e abbondantemente! Un dio lontano e indifferente lo si può anche ignorare, ma non si resiste facilmente a un Dio così vicino e per di più ferito per amore. La bontà, la bellezza, la verità, l’amore, il bene - ecco quanto possiamo offrire a questo mondo mendicante, sia pure in ciotole mezze rotte. Non si tratta tuttavia di attrarre a sé stessi: questo è un pericolo! Il mondo è stanco di incantatori bugiardi. E mi permetto di dire: di preti “alla moda” o di vescovi “alla moda”. La gente “fiuta” - il popolo di Dio ha il fiuto di Dio - la gente “fiuta” e si allontana quando riconosce i narcisisti, i manipolatori, i difensori delle cause proprie, i banditori di vane crociate. Piuttosto, cercate di assecondare Dio, che già si introduce prima ancora del vostro arrivo. Penso a Eli con il piccolo Samuele, nel Primo Libro di Samuele. Benché fosse un tempo in cui «la parola del Signore era rara [...], le visioni non erano frequenti» (3, 1), Dio tuttavia non si era rassegnato a scomparire. Solo alla terza volta, l’assonnato Eli ha capito che il giovane Samuele non aveva bisogno della sua risposta ma di quella di Dio. Vedo il mondo oggi come un confuso Samuele, bisognoso di chi possa distinguere, nel grande rumore che turba la sua agonia, la segreta voce di Dio che lo chiama. Servono persone che sappiano far emergere dagli sgrammaticati cuori odierni l’umile balbettare: «Parla, Signore» (3, 9). Servono ancora di più coloro che sanno favorire il silenzio che rende questa parola ascoltabile. Dio non si arrende mai! Siamo noi che, abituati alla resa, spesso ci accomodiamo preferendo lasciarci convincere che veramente hanno potuto eliminarlo e inventiamo discorsi amari per giustificare la pigrizia che ci blocca nel suono immobile delle vane lamentele. Le lamentele di un vescovo sono cose brutte. 5.2. Siate Vescovi capaci di iniziare coloro che vi sono stati affidati Tutto quanto è grande ha bisogno di un percorso per potervisi addentrare. Tanto più la Misericordia divina, che è inesauribile! Una volta afferrati dalla Misericordia, essa esige

un percorso introduttivo, un cammino, una strada, una iniziazione. Basta guardare la Chiesa, Madre nel generare per Dio e Maestra nell’iniziare coloro che genera perché comprendano la verità in pienezza. Basta contemplare la ricchezza dei suoi Sacramenti, sorgente sempre da rivisitare, anche nella nostra pastorale, che altro non vuol essere che il compito materno della Chiesa di nutrire coloro che sono nati da Dio e per mezzo di Lei. La Misericordia di Dio è la sola realtà che consente all’uomo di non perdersi definitivamente, anche quando sventuratamente egli cerca di sfuggire al suo fascino. In essa l’uomo può sempre essere certo di non scivolare in quel baratro in cui si ritrova privo di origine e destino, di senso e orizzonte. Il volto della Misericordia è Cristo. In Lui essa rimane una offerta permanente e inesauribile; in Lui essa proclama che nessuno è perduto - nessuno è perduto! -. Per Lui ognuno è unico! Unica pecora per la quale Egli rischia nella tempesta; unica moneta comprata con il prezzo del suo sangue; unico figlio che era morto ed ora è tornato vivo (cfr. Lc 15). Vi prego di non avere altra prospettiva da cui guardare i vostri fedeli che quella della loro unicità, di non lasciare nulla di intentato pur di raggiungerli, di non risparmiare alcuno sforzo per recuperarli. Siate Vescovi capaci di iniziare le vostre Chiese a questo abisso di amore. Oggi si chiede troppo frutto da alberi che non sono stati abbastanza coltivati. Si è perso il senso dell’iniziazione, e tuttavia nelle cose veramente essenziali della vita si accede soltanto mediante l’iniziazione. Pensate all’emergenza educativa, alla trasmissione sia dei contenuti sia dei valori, pensate all’analfabetismo affettivo, ai percorsi vocazionali, al discernimento nelle famiglie, alla ricerca della pace: tutto ciò richiede iniziazione e percorsi guidati, con perseveranza, pazienza e costanza, che sono i segni che distinguono il buon pastore dal mercenario. Mi viene in mente Gesù che inizia i suoi discepoli. Prendete i Vangeli e osservate come il Maestro introduce con pazienza i suoi nel Mistero della propria persona e alla fine, per imprimere dentro di loro la sua persona, Egli dona lo Spirito che «insegna tutte le cose» (cfr. Gv 16, 13). Sempre mi colpisce una annotazione di Matteo durante il discorso delle parabole che dice così: «Poi [Gesù] congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci...”» (13, 36). Vorrei soffermarmi su questa annotazione apparentemente irrilevante. Gesù entra in casa, nell’intimità con i suoi, la folla resta fuori, si accostano i discepoli, domandano spiegazioni. Gesù era sempre immerso nelle cose del suo Padre con il quale coltivava l’intimità nella preghiera. Perciò poteva essere presente a sé stesso e agli altri. Usciva verso la folla, ma aveva la libertà di rientrare. Vi raccomando la cura dell’intimità con Dio, sorgente del possesso e della consegna di sé, della libertà di uscire e di tornare. Essere Pastori in grado anche di rientrare in casa con i vostri, di suscitare quella sana intimità che consente loro di accostarsi, di creare quella fiducia che permette la domanda: “Spiegaci”. Non si tratta di una qualsiasi spiegazione, ma del segreto del Regno. È una domanda rivolta a voi in prima persona. Non si può delegare a qualcun altro la risposta. Non si può rimandare a dopo perché si vive in giro, in un imprecisato “altrove”, andando da qualche parte o tornando da qualche luogo, spesso non ben saldi su sé stessi. Vi prego di curare con speciale premura le strutture di iniziazione delle vostre Chiese, particolarmente i seminari. Non lasciatevi tentare dai numeri e dalla quantità delle vocazioni, ma cercate piuttosto la qualità del discepolato. Né numeri né quantità: soltanto qualità. Non private i seminaristi della vostra ferma e tenera paternità. Fateli crescere fino al punto di acquisire la libertà di stare in Dio «tranquilli e sereni come bimbi svezzati in braccio alla loro madre» (cfr. Sal 131, 2); non preda dei propri capricci e succubi delle proprie fragilità, ma liberi di abbracciare quanto Dio chiede loro, anche quando ciò non sembra dolce come fu all’inizio il grembo materno. E state attenti quando qualche seminarista si rifugia nelle rigidità: sotto c’è sempre qualcosa di brutto. 5.3. Siate Vescovi capaci di accompagnare Consentitemi di farvi un’ultima raccomandazione per rendere pastorale la Misericordia. E qui sono obbligato a riportarvi di nuovo sulla strada di Gerico per contemplare il cuore del Samaritano che si squarcia come un ventre di una madre, toccato dalla misericordia di fronte a quell’uomo senza nome caduto in mano ai briganti. Prima di tutto c’è stato questo lasciarsi lacerare dalla visione del ferito, mezzo morto, e poi viene la serie impressionante di verbi che conoscete tutti. Verbi, non aggettivi, come spesso preferiamo noi. Verbi nei quali la misericordia si coniuga. Rendere pastorale la misericordia è proprio questo: coniugarla in verbi, renderla palpabile e operativa. Gli

uomini hanno bisogno della misericordia; sono, pur inconsapevolmente, alla sua ricerca. Sanno bene di essere feriti, lo sentono, sanno bene di essere “mezzi morti” (cfr. Lc 10, 30), pur avendo paura di ammetterlo. Quando inaspettatamente vedono la misericordia avvicinarsi, allora esponendosi tendono la mano per mendicarla. Sono affascinati dalla sua capacità di fermarsi, quando tanti passano oltre; di chinarsi, quando un certo reumatismo dell’anima impedisce di piegarsi; di toccare la carne ferita, quando prevale la preferenza per tutto ciò che è asettico. Vorrei soffermarmi su uno dei verbi coniugati dal Samaritano. Lui accompagna all’albergo l’uomo per caso incontrato, si fa carico della sua sorte. Si interessa della sua guarigione e del suo domani. Non gli basta quello che aveva già fatto. La misericordia, che aveva spezzato il suo cuore, ha bisogno di versarsi e di sgorgare. Non si può tamponarla. Non si riesce a farla smettere. Pur essendo solo un samaritano, la misericordia che lo ha colpito partecipa della pienezza di Dio, pertanto nessuna diga la può sbarrare. Siate Vescovi con il cuore ferito da una tale misericordia e dunque instancabile nell’umile compito di accompagnare l’uomo che “per caso” Dio ha messo sulla vostra strada. Dovunque andiate, ricordate che non è lontana la strada di Gerico. Le vostre Chiese sono piene di tali strade. Molto vicino a voi non sarà difficile incontrare chi attende non un “levita” che volta la faccia, ma un fratello che si fa prossimo. Accompagnate per primo, e con paziente sollecitudine, il vostro clero. Siate vicini al vostro clero. Vi prego di portare ai vostri sacerdoti l’abbraccio del Papa e l’apprezzamento per la loro operosa generosità. Cercate di ravvivare in loro la consapevolezza che è Cristo la loro “sorte”, la loro “parte e fonte di eredità”, la parte che tocca a loro bere nel “calice” (cfr. Sal 16, 5). Chi altro potrà riempire il cuore di un servitore di Dio e della sua Chiesa al di fuori di Cristo? Vi prego pure di agire con grande prudenza e responsabilità nell’accogliere candidati o incardinare sacerdoti nelle vostre Chiese locali. Per favore, prudenza e responsabilità in questo. Ricordate che sin dagli inizi si è voluto inscindibile il rapporto tra una Chiesa locale e i suoi sacerdoti e non si è mai accettato un clero vagante o in transito da un posto all’altro. E questa è una malattia dei nostri tempi. Uno speciale accompagnamento riservate a tutte le famiglie, gioendo con il loro amore generoso e incoraggiando l’immenso bene che elargiscono in questo mondo. Seguite soprattutto quelle più ferite. Non “passate oltre” davanti alle loro fragilità. Fermatevi per lasciare che il vostro cuore di pastori sia trafitto dalla visione della loro ferita; avvicinatevi con delicatezza e senza paura. Mettete davanti ai loro occhi la gioia dell’amore autentico e della grazia con la quale Dio lo eleva alla partecipazione del proprio Amore. Tanti hanno bisogno di riscoprirla, altri non l’hanno mai conosciuta, alcuni aspettano di riscattarla, non pochi dovranno portarsi addosso il peso di averla irrimediabilmente perduta. Vi prego di fare loro compagnia nel discernimento e con empatia. Cari Fratelli, ora pregheremo insieme e io vi benedirò con tutto il mio cuore di pastore, di padre e di fratello. La benedizione è sempre l’invocazione del volto di Dio su di noi. È Cristo il volto di Dio che mai si oscura. Nel benedirvi chiederò a Lui che cammini con voi e che vi dia il coraggio di camminare con Lui. È il suo volto che ci attrae, si imprime in noi e ci accompagna. Così sia! AVVENIRE di sabato 17 settembre 2016 Pag 2 Riecco quelli che “la Chiesa non paga”. Un parroco agita le ricevute. Per tanti… (lettere al direttore) Gentile direttore, sono parroco di una delle tante Parrocchie di Milano. La stampa e la tv “laica” hanno fatto titoli e dato spazio alla sentenza del Tribunale dell’Unione Europea che, testuale secondo articoli e servizi, «dichiara leciti i benefici alla Chiesa» sugli immobili, parlando di «regalìe» e di un danno ai Comuni di circa un miliardo all’anno per almeno quattro anni. Siccome nel periodo incriminato la mia Parrocchia ha pagato regolarmente la tassa sugli immobili di proprietà per circa 45mila euro all’anno (in pratica più di tutte le offerte che raccolgo nell’arco di dodici mesi in Chiesa!), le chiedo: o il Comune di Milano mi restituisce i soldi che, dunque, ho “indebitamente versato”, oppure i giornali scrivono falsità e devono rettificare. In entrambi i casi: chi ci tutela? (Don Paolo Zago)

Risponde il direttore Marco Tarquinio: Dovrebbe essere una corretta informazione a tutelare ogni cittadino, parroci compresi, da addebiti infondati che si traducono in caricature ingiuste e feroci. E invece, gentile e caro don Paolo, anche stavolta siamo costretti – io con particolare amarezza, visto il mestiere che faccio e le tante volte che sono intervenuto sull’argomento – a registrare che l’informazione data agli italiani sulla sentenza in tema di Ici-Imu del Tribunale Ue che ha rigettato il ricorso di una scuola privata romana appoggiata e sostenuta dai Radicali è stata un’informazione scorretta e manipolata. Manipolata perché allineata, in origine, a una “velina” di partito, e dunque “di regime” – come era solito denunciare, ironia della sorte, proprio Marco Pannella. Ovvero con elementi piegati ai comodi propagandistici di una parte, sino – altro copyright pannelliano – al «furto di verità». Come altro definire il risultato di notizie sulla decisione del Tribunale Ue che sono state “tagliate” e deformate sulla base della versione data dai ricorrenti che le hanno rese note, orientando la scrittura di redattori superficiali, sintonici o compiacenti? Cito solo le prime righe del dispaccio dell’Ansa sulla questione diramato alle 19.52 di giovedì: «Bruxelles, 15 settembre – La Chiesa riesce a “farla franca” un’altra volta sulla vecchia Ici, e ad evitare di pagare gli “arretrati” allo Stato italiano. La conferma viene dal Tribunale Ue, che ha respinto il ricorso presentato…». Ha capito? La principale agenzia di informazione del nostro Paese, una splendida realtà di cui – pensi un po’ – anche il giornale che dirigo è “socio”, e di cui io da giornalista italiano sono sempre stato fiero, capovolge i fatti e presenta la notizia della bocciatura giudiziaria di un ricorso come una “regalo” alla Chiesa che – testuale – «riesce a farla franca». Da non crederci. E questo modo di disinformare ha dato il là ad articoli e titoli di diversi altri giornali, anche di alcuni (“Il Corriere della sera” e “il Sole 24 ore”) che da qualche tempo avevano preso a informare con precisione di termini e di contesto su tali questioni. Ha invece preso piede la solita menzogna di base. Quale? Come i cittadini lettori ben informati sanno e come un cronista che affronta la materia dovrebbe sapere, in Italia non c’è mai stato un regime fiscale ad Ecclesiam, cioè speciale per gli immobili della Chiesa cattolica, ma c’è stato e c’è un sistema di ragionate agevolazioni per gli edifici di culto di tutte le confessioni religiose che hanno intese con lo Stato, per gli immobili tutti gli enti senza fini di lucro, religiosi e laici (dagli oratori ai circoli Arci e alle società di mutuo soccorso, per intenderci), e a certe condizioni (rette entro precisi limiti di legge) per le scuole da chiunque istituite. Si tratta di un sistema che ha subito successive correzioni, tant’è che la normativa in materia è stata resa sempre più restrittiva di concerto con una Ue che non conosce le ricchezza di realtà non profit propria dell’Italia e mette “in concorrenza” con i ristoranti persino le mense per i poveri... Eppure il ricorso perdente è stato presentato nella “velina” e, quindi, sulle pagine di diversi giornali (stavolta, purtroppo, con la sola eccezione di questo) come un’azione contro i benefici per i «beni ecclesiastici», anzi addirittura per gli immobili «del Vaticano». E questa è la prima, ritornante e grossolana falsificazione. La seconda falsificazione è quella per cui tutti gli immobili riconducibili alla Chiesa vengono indicati come sempre esenti da tasse e tributi. Non è e non è mai stato così. Gli immobili (o le porzioni di essi) affittati oppure usati per attività commerciali pagano, pagano eccome. Lei lo rivendica, caro don Paolo. E i lettori ricorderanno che sulle pagine di “Avvenire” per anni, durante la tambureggiante campagna denigratoria condotta da esponenti radicali, abbiamo pubblicato a ripetizione i bollettini dei pagamenti Ici-Imu effettuati da Parrocchie e Diocesi e Case religiose di volta in volta ingiustamente investite dell’accusa di «non pagare» su edifici che avrebbero dovuto farlo. Sono stati sfortunati gli accusatori? No, la verità è che le tasse pagate sono tante e su tanti beni che pure non vengono mai usati a fini solo privati. Ci sono o ci sono stati soggetti che hanno goduto male o senza diritto del beneficio che è concesso a precise condizioni a enti laici e religiosi? Si tratta di abusi, di evasioni o di elusioni fiscali che vanno perseguiti e sanati, non di “privilegi” come abbiamo scritto più volte e con tutta la chiarezza necessaria. Così come abbiamo scritto, e documentato, che ci sono però anche Parrocchie e Diocesi e Case religiose che si ritrovano a pagare oggi l’Imu (e ieri l’Ici), e la pagano in moneta sonante, persino su edifici o porzioni di edifici dati in comodato gratuito (gratuito!) ad associazioni di beneficenza e a enti pubblici per usi scolastici o assistenziali... Insomma, la sua indignazione e la sua amara ironia, caro don Paolo, sono pienamente giustificate. E interpretano la fedeltà al Vangelo e ai doveri (anche grevi) di cittadinanza, lo so, di tanti e tanti buoni e pazienti preti, religiose e religiosi di questo nostro Paese. Non so

dirle quando finirà questa deformante informazione “di regime”, ma so e non mi stanco di ripetere che copre di vergogna chi la fa. E infanga chi in un Paese civile come l’Italia meriterebbe se non dei grazie, almeno un po’ di rispetto. Pag 3 “Il dialogo interreligioso è condizione della pace” di Stefania Falasca Il magistero dei Papi: serve una coscienza mondiale «Sei per la grande causa della pace? Allora non solo parlare di pace, ma fare effettivamente, per quanto dipende da noi, la pace. E pregare per la pace. In realtà, non si può capire il cristianesimo, se non si capisce che in esso la pace ha un ruolo fondamentale. L’amore fraterno dell’artigiano di pace non conosce frontiere, coinvolge le altre religioni e congloba anche gli avversari». Anche l’allora neopatriarca di Venezia Albino Luciani mirava a «creare una coscienza mondiale della pace» partendo dalla «coscienza individuale», secondo il dettato conciliare. All’orologio della storia, cinquant’anni fa, grazie anche alla Pacem in Terris, era suonata l’ora in cui veniva messo a servizio dal Concilio un concetto più profondo di pace. Non più la sola tranquillitas ordinis degli stoici, fatta propria da sant’Agostino e da tutto il medioevo. Non la semplice assenza di guerra o l’effetto di una dominazione dispotica e neppure l’opera della sola giustizia. La pace, come affermato nella Gaudium et spes, è frutto insieme della giustizia e dell’amore e dunque «edificio da costruire continuamente». Da qui l’insistenza sull’educazione alla pace inculcata dal Concilio come «dovere gravissimo», «come estrema, urgente necessità» e condotta da Paolo VI con costanza intrepida. Del resto, nell’indizione della giornata mondiale per la pace, il primo gennaio 1968, papa Montini era stato chiarissimo nel fugare facili e false retoriche sulla pace, dietro le quali si possono celare azioni di sopraffazioni e interessi di parte, elencando i motivi per cui egli era chiamato a ripetere esortazioni, che sono ancora oggi per niente scontate: «Lo facciamo perché questo è dovere del Pastore universale»; «perché la pace è nel genio della religione cristiana, poiché per il cristiano proclamare la pace è annunciare Gesù Cristo, 'Egli è la nostra pace'; 'il Suo è Vangelo di pace'». «Nel nostro secolo è emerso chiarissimo – scriveva ancora Paolo VI – che la pace deve essere l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». È questa la pace che «si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la convivenza dei popoli, una nuova mentalità circa l’uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini». Un lungo cammino è ancora necessario – riconosceva allora Montini – per rendere universale ed operante questa mentalità ed educare le nuove generazioni al reciproco rispetto delle nazioni, alla fratellanza dei popoli, alla collaborazione delle genti fra loro, in vista del loro progresso e sviluppo». Il suo successore, Giovanni Paolo I, non è stato da meno, seppure la valenza del suo magistero, anche a questo riguardo, è ancora ignorata. Poco prima della sua elezione, nell’agosto del 1978, ricordava la priorità di «propagandare la teologia della pace», di «diffondere una coscienza universalistica, la coscienza cioè che tutti siamo cittadini del mondo e che molti problemi oggi si possono risolvere soltanto su piano mondiale». E terza cosa da fare – aggiungeva – è resistere a tutte le suggestioni, che si oppongono ai principi dell’amore fraterno e dell’universalismo! Resistere anche alle forze centrifughe quali sono il razzismo, l’imperialismo, l’individualismo, il nazionalismo, il terrorismo. Resistere alla tentazione dell’odio». È questo il tracciato che si ritrova ricalcato in sintesi nell’Evangelii Gaudium di papa Francesco, e portato avanti dal Papa e dalla Santa Sede come priorità, con approfondimento e determinazione. Basta mettere in fila tutti i gesti e i pronunciamenti. E questo è anche il tracciato che dalla Nostra Aetate passa per l’incontro interreligioso della preghiera per la pace di Assisi voluto da Giovanni Paolo II nel 1986, «perché – come ribadisce Francesco nell’Evangelii Gaudium – il dialogo interreligioso è condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto dovere per i cristiani come per le altre comunità religiose», insieme quindi «si assume il dovere di servire la giustizia e la pace, che dovrà diventare un criterio fondamentale di qualsiasi interscambio». A Cracovia Francesco ha ripristinato anche il 'plurale maiestatis' per un rinnovato messaggio che è arrivato forte e chiaro non solo alle nuove generazioni di ogni latitudine in questo tempo pervaso da nuovo terrorismo e dalle guerre a pezzi: «Noi non vogliamo vincere l’odio con più odio, vincere il terrore con più terrore». È anche questo messaggio diretto alla formazione della coscienza

individuale e collettiva che è stato riconsegnato in uno spazio preciso, in un Paese europeo cristiano, dal passato lacerato dalle ideologie totalitarie e dal flagello dei conflitti, come resistenza attiva all’odio, al terrore, alla violenza, ai nefasti totalitarismi di oggi, determinati dal potere dell’idolatria del denaro che impone oggi il suo prezzo di traffici e sangue. E aiuta ad aprire gli occhi di fronte alla propaganda di disinformazione orchestrata per alimentare divisioni. Davanti alla mistificazione delle religioni e agli attentati di regie occulte sistematicamente operanti per minare e distruggere la convivenza tra i popoli, sradicare la ragione, negare la coabitazione pacifica non solo in Europa. Chiamando ognuno alla responsabilità della pace. A partire dai cristiani spesso vittime dei fautori e dei corifei degli scontri civiltà, persino violenti o ostili davanti a gesti concreti di apertura, fraternità e di riconciliazione, segno eloquente di come il messaggio evangelico non abbia ancora «penetrato profondamente il cuore del Popolo di Dio al punto da cambiare riflessi e comportamenti». U na resistenza che fa così distinguere religione e violenza, ideologia e religione. «Non è giusto dire che l’Islam sia terrorista», ha dovuto ribadire ancora Francesco sul volo di ritorno da Cracovia, ricordando che i fondamentalismi esistono anche nel cattolicesimo. «Le religioni hanno la prerogativa di illuminare le coscienze e di promuovere il bene comune e l’edificazione della società, sono fonte di dialogo e di pace perché la fede sincera apre all’altro, genera dialogo e opera il bene; mentre la violenza nasce sempre da una mistificazione della religione stessa che è assunta a pretesto di progetti ideologici che hanno poi come unico scopo sempre il dominio dell’uomo sull’uomo». Con il medesimo pensiero che «Dio vuole l’amore, la fratellanza, l’incontrarsi di tutti i popoli in un’unica famiglia umana», il Segretario di Stato Pietro Parolin, nella più recente intervista rilasciata ad Avvenire, riprendeva l’Angelus del 10 settembre del 1978 pronunciato da Papa Luciani in occasione degli accordi di Camp David, nel quale la preghiera del Papa per la pace si univa a quella leader politici appartenenti a diverse fedi religiose. Luciani aveva accuratamente preparato quest’Angelus nel quale ribadiva la forza dell’umile amore, che nella sua stringente attualità condensa l’odierno magistero: «Di pace hanno fame e sete tutti gli uomini, specialmente i poveri che nei turbamenti e nelle guerre pagano di più e soffrono di più; per questo guardano con interesse e grande speranza al convegno di Camp David. Anche il Papa – affermava Luciani – il quale ha pregato, fatto pregare e prega perché il Signore si degni di aiutare gli sforzi di questi uomini politici. Ma io sono stato molto ben impressionato dal fatto che i tre presidenti abbiano voluto pubblicamente esprimere la loro speranza nel Signore con la preghiera. I fratelli di religione musulmana del presidente Sadat sono soliti dire così: 'C’è una notte nera, una pietra nera e sulla pietra una piccola formica; ma Dio la vede, non la dimentica'. Il presidente Carter, che è fervente cristiano, legge nel Vangelo: 'Battete... Bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato. Neanche un capello cadrà dalla vostra testa senza il Padre vostro che è nei cieli'. E il premier Begin ricorda che il popolo ebreo ha passato un tempo momenti difficili e si è rivolto al Signore lamentandosi dicendo: 'Ci hai abbandonato, Signore, ci hai dimenticato!'. 'No! – ha risposto Dio per mezzo di Isaia Profeta – può forse una mamma dimenticare il proprio bambino? ma anche se succedesse, mai Dio dimenticherà il suo popolo'. Anche noi che siamo qui abbiamo gli stessi sentimenti – concludeva Giovanni Paolo I – noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. Con questi sentimenti io vi invito a pregare insieme per ciascuno di noi, per il Medio Oriente, per l’Iran, per tutto il mondo». Non è questa la strada che riconduce oggi ad Assisi? LA REPUBBLICA di sabato 17 settembre 2016 Pag 56 Quel patto segreto tra fede e dubbio che ci rende umani di Vito Mancuso Comunemente si ritiene che fede e dubbio siano opposti, nel senso che chi ha fede non avrebbe dubbi e chi ha dubbi non avrebbe fede. Ma non è per nulla così. L'opposto del dubbio non è la fede, è il sapere: chi infatti sa con certezza come stanno le cose non ha dubbi, e neppure, ovviamente, ha bisogno di avere fede. Così per esempio affermava Carl Gustav Jung a proposito dell'oggetto per eccellenza su cui si ha o no fede: «Io non credo all'esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste» (da "Jung parla", Adel- phi, 1995). Chi invece non è giunto a un tale sapere dubita su come stiano effettivamente le

cose, non solo su Dio ma anche sulle altre questioni decisive: avrà un senso questa vita, e se sì quale? La natura persegue un effettivo incremento della sua organizzazione? Quando diciamo "anima" nominiamo un fenomeno reale o solo un arcaico concetto metafisico? Il bene, la giustizia, la bellezza, esistono come qualcosa di oggettivo o sono solo provvisorie convenzioni? E dopo la morte, il viaggio continua o finisce per sempre? Dato che i più su tali questioni non hanno un sapere certo, generalmente si risponde "sì" all'insegna della fede oppure "no" all'insegna dello scetticismo, in entrambi i casi privi di sapere, al massimo con qualche indizio interpretato in un modo o nell'altro a seconda del previo orientamento assunto. Così, sia coloro che hanno fede in Dio sia coloro che non ce l' hanno, fondano il loro pensiero sul dubbio, cioè sull'impossibilità di conseguire un sapere incontrovertibile sul senso ultimo del mondo e della nostra esistenza. La fede, in altri termini, positiva o negativa che sia, per esistere ha bisogno del dubbio. La tradizionale dottrina cattolica però non la pensa così. Per essa la fede non si fonda sul dubbio ma sul sapere che scaturisce da una precisa rivelazione divina mediante cui Dio ha comunicato se stesso e una serie di ulteriori verità dette "articoli di fede". Tale rivelazione costituisce il depositum fidei, cioè il patrimonio dottrinale custodito e trasmesso dalla Chiesa. Esso conferisce un sapere denominato dottrina che illumina quanti lo ricevono su origine, identità, destino e morale da seguire. Non solo; a partire da tale dottrina si configura anche una precisa visione del mondo: l'impresa speculativa delle Summae theologiae medievali, di cui la più nota è quella di Tommaso d'Aquino, vive di questa ambizione di possedere un sapere certo su fisica, metafisica ed etica, di essere quindi generatrice di filosofia. Tale impostazione regnò per tutto il medioevo ma venne combattuta dalla filosofia moderna e dalla rivoluzione scientifica. Il fine non era negare la fede in Dio bensì il sapere filosofico e scientifico che si riteneva discendesse da essa, per collocare la fede su un fondamento diverso, senza più la presunzione che fosse oggettivo: Kant per esempio scrive di aver dovuto «sospendere il sapere per far posto alla fede» (Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, 1787), mentre più di un secolo e mezzo prima Galileo aveva dichiarato che «l'intenzione dello Spirito Santo è d'insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo» (Lettera a Cristina di Lorena del 1615). Non furono per nulla atei i più grandi protagonisti della modernità, tra cui filosofi come Bruno, Cartesio, Spinoza, Lessing, Voltaire, Rousseau, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, o scienziati come Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Il loro obiettivo era piuttosto di ricollocare la religiosità sul suo autentico fondamento: non più un presunto sapere oggettivo, ma la soggettiva esperienza spirituale. A tale modello di fede non interessa il sapere, e quindi il potere che ne discende, ma piuttosto il sentire, e quindi l'esperienza personale. Non è più l'obbedienza a una dottrina dogmatica indiscutibile a rappresentare la sorgente della fede, ma è il sentimento di simpatia verso la vita e i viventi. In questa prospettiva, ben prima di credenza, fede significa fiducia. Quando diciamo che una persona è "degna di fede", cosa vogliamo dire? Quando alla fine delle nostre lettere scriviamo "in fede", cosa vogliamo dire? Quando un uomo mette l'anello nuziale alla sua donna e quando una donna fa lo stesso con il suo uomo, cosa vogliono dirsi? C'è una dimensione di fiducia che è costitutiva delle relazioni umane e che sola spiega quei veri e propri patti d' onore che sono l'amicizia e l'amore. Se non ci fosse, sorgerebbero solo rapporti interessati e calcolati: nulla di male, anzi tutto normale, ma anche tutto ordinario e prevedibile. Solo se c'è fiducia-fede nell'altra persona può sorgere una relazione all' insegna della gratuità, creatività, straordinarietà, e può innescarsi quella condizione che chiamiamo umanità. E la fede in Dio? Quando si ha fiducia-affidamento nella vita nel suo insieme, percepita come dotata di senso e di scopo, si compie il senso della fede in Dio (a prescindere da come poi le singole tradizioni religiose concepiscano il divino). Nessuno veramente sa cosa nomina quando dice Dio, ma credere nell'esistenza di una realtà più originaria, da cui il mondo proviene e verso cui va, significa sentire che la vita ha una direzione, un senso di marcia, un traguardo. Credere in Dio significa quindi dire sì alla vita e alla sua ragionevolezza: significa credere che la vita proviene dal bene e procede verso il bene, e che per questo agire bene è la modalità migliore di vivere. Ma questa convinzione è razionalmente fondabile? No. Basta considerare la vita in tutti i suoi aspetti per scorgere di frequente l'ombra della negazione, con la conseguenza che la mente è inevitabilmente consegnata al dubbio. In tutte le lingue di origine latina, come anche in greco e in tedesco, il termine dubbio ha come radice "due". Dubbio quindi è essere al bivio, altro termine che rimanda

al due: è vedere due sentieri senza sapere quale scegliere, consapevoli però che non ci si può fermare né tornare indietro, ma che si è posti di fronte al dilemma della scelta. Ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l'un l'altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa» (dal discorso introduttivo alla Cattedra dei non credenti). Ragionando si trovano elementi a favore della tesi e dell'antitesi, e chi non è ideologicamente determinato è inevitabilmente consegnato alla logica del due che genera il dubbio. Il dubbio però paralizza, mentre nella vita occorre procedere e agire responsabilmente. Da qui la necessità di superare il dubbio. Il superamento però non può avvenire in base alla ragione che è all'origine del dubbio, ma in base a qualcosa di più radicale e di più vitale della ragione, cioè il sentimento che genera la fiducia che si esplicita come coraggio di esistere e di scegliere il bene e la giustizia. Ma perché alcuni avvertano in sé questo sentimento di fiducia verso la vita e altri no, rimane per me un mistero inesplicabile. IL FOGLIO di sabato 17 settembre 2016 Pag 2 Tornano i raduni di Assisi, senza traccia delle correzioni ratzingeriane di mat.mat. Martedì il Papa alla Giornata mondiale della pace Roma. E' un ritorno alle origini, al modello impostato trent' anni fa da Giovanni Paolo II e condiviso da Francesco, che del dialogo ecumenico e interreligioso è assoluto sostenitore, anche considerato l'attuale scenario globale segnato da conflitti e tensioni anche a sfondo religioso. Il programma della visita di martedì del Papa ad Assisi, per la Giornata mondiale di preghiera per la pace, è più simile allo schema del 1986 che a quello di cinque anni fa, con le correzioni volute da Benedetto XVI. Soprattutto perché si torna al momento di preghiera "in diversi luoghi" pubblici, e cioè a una spettacolarizzazione che Joseph Ratzinger aveva avversato, disponendo che la preghiera post prandiale dei partecipanti si svolgesse in modo riservato: "A ciascuno dei partecipanti sarà assegnata una stanza nella casa di accoglienza adiacente al Convento di Santa Maria degli Angeli", si leggeva nel programma del 2011. Benedetto XVI aveva declinato l'invito che gli era stato inoltrato nel 2006, un anno dopo l'elezione a Pontefice, nel ventennale del primo incontro. In un messaggio inviato al vescovo di Assisi, scrisse che "per non equivocare sul senso di quanto, nel 1986, Giovanni Paolo II volle realizzare, e che, con una sua stessa espressione, si suole qualificare come 'spirito di Assisi', è importante non dimenticare l'attenzione che allora fu posta perché l'incontro interreligioso di preghiera non si prestasse a interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativistica". In un passaggio di "Ultime conversazioni", il recente libro intervista curato dal suo biografo Peter Seewald, il Papa emerito conferma lo scarso entusiasmo per quell'evento, tanto che fu una delle poche questioni che lo fecero dissentire da Giovanni Paolo II. "E' vero - dice a Seewald - ma non abbiamo avuto contrasti perché sapevo che le sue intenzioni erano giuste e, vice versa, lui sapeva che io seguivo un'altra linea. Prima del secondo incontro di Assisi mi disse che avrebbe comunque gradito la mia presenza e io ci andai. Quello fu anche un incontro meglio organizzato. Le obiezioni che avevo sollevato erano state accolte e la forma che la manifestazione aveva assunto mi permetteva di partecipare". Sempre nella lettera inviata al vescovo della città umbra, Benedetto XVI aggiungeva che "è doveroso evitare inopportune confusioni. Perciò, anche quando ci si ritrova insieme a pregare per la pace, occorre che la preghiera si svolga secondo quei cammini distinti che sono propri delle varie religioni. Fu questa la scelta del 1986, e tale scelta non può non restare valida anche oggi. La convergenza dei diversi non deve dare l'impressione di un cedimento a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla". Nel programma del trentennale, degli appunti ratzingeriani non v'è traccia. Dopo il "Momento di preghiera per la pace", come detto in "diversi luoghi", si terrà la preghiera ecumenica dei cristiani, seguita dall'incontro dei partecipanti "con i rappresentanti delle altre religioni, che hanno pregato in altri luoghi". A concludere, una teoria di messaggi, da "un testimone vittima della guerra" al Patriarca Bartolomeo I, da un rappresentante musulmano a uno dell' ebraismo, fino all'intervento del Patriarca buddista giapponese e,

a seguire, di Andrea Riccardi, che precederà le parole del Papa. Nessuna traccia della "monizione" finale, che cinque anni fa fu tenuta dal cardinale Kurt Koch. Padre Enzo Fortunato, direttore della Sala stampa del sacro convento, ha definito "profondamente significativa la presenza di ventisei delegazioni islamiche dall' Egitto all' Indonesia, della comunità italiana e di sei premi Nobel per la pace che seguiranno di persona l'evento". Pag V Dove Cristo è risorto di Matteo Matzuzzi Le religioni muoiono, ma il cattolicesimo sopravvivrà alle Cassandre. Meno europeo e più globale E' tutta questione di ripensare la presenza, trovare nuove forme, lavorare d'ingegno. Benedetto XVI l'ha ribadito al suo biografo Peter Seewald, quando ha rapidamente risposto circa la scristianizzazione dell' Europa nelle "Ultime Conversazioni" (Garzanti e Corriere della Sera), il suo testamento spirituale. E' un'evidenza, ma forse più che passare in rassegna l' elenco delle chiese vuote e chiuse e dismesse, magari convertite in mercati ortofrutticoli o saloni da ballo con ottimo parquet - tutte cose che ormai conosciamo a memoria - sarebbe utile capire che il problema è la fede, assopita e distratta. Ripartire insomma da qui, dalla questione centrale e fondamentale dell' essere cristiano. Testimoniare cioè in modi diversi, il che non significa che essi debbano essere trasgressivi. Anche perché la storia secondo cui il cattolicesimo (o addirittura il cristianesimo) è in agonia, destinato a morte certa, è in realtà una boutade buona per titoloni di giornale e discussioni di qualche circolo luterano cinquecentesco. Philip Jenkins, tra i massimi esperti di storia e scienze delle religioni, l' ha scritto di recente sul Catholic Herald. Ma quale fine, quale estinzione. Sì certo, le folle tra i banchi lignei delle chiese (dove ci sono ancora, non sostituiti da tristi seggiole) sono rare, le processioni hanno seguito altalenante, ma tutto questo è relativo all' Europa. Qui sta il problema, nella tesi di Jenkins: pensare il cattolicesimo come a qualcosa di meramente europeo, legato alla teoria delle sue immense e antiche cattedrali, ai riti d'un tempo che fu, al catechismo somministrato in dosi massicce a bambini di cinque-sei -sette anni ogni santa mattina dopo la messa e prima di andare a scuola. Che poi quei bambini, il più delle volte, sono quelli che oggi - slegati dai doveri imposti - sono i primi che in chiesa non ci mettono più piede e non ci portano i figli. Qualche anno fa, nel 2011, l'American physical society aveva pubblicato un corposo e dettagliato dossier che si concludeva con la sentenza inappellabile: il mondo avrebbe fatto a meno delle religioni (di tutte, compreso l'islam oggi immerso nella fratricida lotta tra sunniti e sciiti per la supremazia sulla umma) entro il 2100 e in cima alla lista dei paesi pronti ad abbandonare ciò in cui per secoli avevano creduto svettavano l'Austria e l'Irlanda. Cioè due delle realtà che più hanno dato alla causa cattolica, benché oggi anche lì si soffra e non solo per scandali sessuali e finanziari - per quanto concerne l' Austria, è sufficiente rileggere il discorso disperato che il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, fece tre anni fa al clero milanese, raccontando di una situazione che costringe la diocesi a vendere al miglior offerente le chiese (quando va bene, agli ortodossi), vuote e finanziaramente insostenibili. "Cosa posso fare?", si domandava il cardinale, descrivendo una situazione a suo dire irrimediabilmente compromessa. Lo studio applicava complicati modelli matematici che portavano tutti alla stessa conclusione: "In gran parte delle moderne democrazie secolari, c'è una tendenza secondo cui il popolo si identifica con nessuna religione. In Olanda siamo al quaranta per cento, mentre il livello più alto si è registrato in Repubblica Ceca, con il sessanta per cento di coloro che si dichiarano non affiliati ad alcuna religione". Da qui a profetizzare come Cassandre la fine della religione entro una manciata di decenni, però, ce ne passa, anche perché la fede individuale è ancora una delle poche cose che sfugge alla classificazione in database o formule Excel. Insomma, che a Praga non ci siano più cattolici può dispiacere a chi s'emoziona nell'udire il suono delle campane medievali, ma non può in alcun modo segnare il destino d'una religione. Jenkins non parte da pregiudizi, lui stesso ha scritto un libro ("La storia perduta del cristianesimo", Emi) per dire che "le religioni muoiono" e che "nel corso della storia, alcune religioni svaniscono del tutto, altre si riducono da grandi religioni mondiali a una manciata di seguaci". Insomma, non sarebbe una novità. Ma stavolta la prognosi in fausta non ha ragione d'essere. Perché la chiesa cattolica, che "è già la più grande istituzione religiosa del pianeta", sta godendo di una crescita globale senza precedenti. I

numeri: nel 1950, la popolazione cattolica ammontava a 347 milioni individui. Vent'anni dopo, erano 640 milioni. Nel 2050, secondo stime per difetto, saranno 1,6 miliardi. E allora? Anche qui, si tratta di ampliare gli orizzonti e guardare al di fuori del contesto meramente occidentale. "Ho parlato di crescita globale, e l'elemento 'globale' richiede enfasi", scrive infatti Jenkins. "La chiesa ha la pretesa di avere inventato la globalizzazione, il che spiega perché i suoi numeri sono in piena espansione. Nel corso della storia ci sono stati tanti cosiddetti 'imperi mondiali', che in realtà erano confinati principalmente all'Eurasia. Solo nel Sedicesimo secolo gli imperi spagnolo e portoghese hanno abbracciato davvero il mondo. Per me - scrive lo studioso, docente emerito alla Penn State University - la vera globalizzazione è iniziata nel 1578, quando la chiesa cattolica ha stabilito la sua diocesi a Manila, nelle Filippine - come sede suffraganea di Città del Messico, dall'altra parte dell'immenso Oceano Pacifico". Il fatto è che "oggi siamo abituati a pensare al cristianesimo come a una fede tradizionalmente ambientata in Europa e nel Nord America, e solo gradualmente apprendiamo lo strano concetto che quella religione si propaga su scala globale, poiché il numero dei cristiani sta aumentando velocemente in Africa, in Asia e in America latina", scrive Jenkins. "Il cristianesimo - proseguiva - è talmente radicato nel patrimonio culturale dell'occidente da far sembrare quasi rivoluzionaria una simile globalizzazione, con tutte le influenze che essa può esercitare sulla teologia, l'arte e la liturgia. Una fede associata principalmente con l'Europa deve in qualche modo adattarsi a questo mondo più vasto, ridimensionando molte delle proprie premesse, legate al la cultura europea". Il discorso, allargato al cristianesimo vale a maggior ragione per il cattolicesimo. Dinanzi a tutto ciò, è naturale domandarsi se "questo nuovo cristianesimo globale o mondiale rimarrà pienamente autentico, come se le norme europee rappresentassero una sorta di gold standard". Interrogativi legittimi ma senza senso, "quando ci si rende conto di quanto sia artificiosa l'accentuazione del carattere euroamericano nel contesto più ampio della storia cristiana". Anche perché oggi i grandi serbatoi del cattolicesimo sono altrove: Brasile, Messico, Filippine. In quest'ultimo caso, i cattolici sono destinati a crescere fino a toccare quota cento milioni entro il 2050. Qui, nell' ultimo anno, ci sono stati più battesimi che in Francia, Spagna, Italia e Polonia messe assieme. L'obiezione è facile: le tendenze demografiche spiegano le ragioni della crescita massiccia. Dove nascono più figli, crescono più cattolici, se il sostrato (benché coperto da cumuli secolarizzanti e laicisti) è presente. Dove ciò non accade, il cattolicesimo rinsecchisce. Non proprio, osserva Jenkins: basta andare in Africa per capire che le cose non stanno così. Nel 1900, nell'immenso continente africano vivevano forse dieci millioni di cristiani (inclusi i cattolici, stimati in un paio di milioni), che costituivano il dieci per cento dell'intera popolazione. Oggi, di cristiani lì ce ne sono mezzo miliardo (200 milioni i cattolici) e raddoppieranno nel prossimo quarto di secolo. E l' Africa non rappresenta di certo la culla del cattolicesimo, se si eccettua la lontanissima radice nordafricana poi recisa brutalmente da invasioni, occupazioni e islamizzazione più o meno forzata. Eppure, la sola Africa, se la tendenza sarà costante, aggiunge lo studioso, nel 2040 avrà più cattolici di quanti ve ne fossero in tutto il mondo solo nel 1950. Dieci anni prima, più o meno nel 2030, i cattolici in Africa supereranno quelli residenti in Europa: sarà, dice Jenkins, "una pietra miliare nella storia". Poco dopo, l'Africa contenderà all'America latina il titolo di chiesa più cattolica del continente. Tempo una generazione, nella lista dei dieci paesi più cattolici sul pianeta figureranno la Nigeria, l'Uganda, la Tanzania, il Congo. Realtà, cioè, dove il cattolicesimo ha iniziato ad attecchire in maniera decisa solo un secolo fa. Chiaro, insomma, che non tutto è spiegabile con gli istogrammi relativi alla demografia o riducendo la questione all'adagio non originalissimo secondo cui gli africani fanno più figli e quindi si spiega così perché lì vi so no più cristiani. Certo, i dubbi sono leciti, soprattutto in relazione al numero delle conversioni e ai battesimi di massa. Sono i rischi di una chiesa giovane e ancora entusiasta. Benedetto XVI, nel 2009, lo riconobbe, quando constatò sì come l'Africa fosse "un immenso polmone spirituale per un'umanità che appare in crisi di fede e di speranza", ammonendo però che un polmone può sempre ammalarsi. Un discorso analogo, anche se con numeri meno roboanti, vale per l' Asia, terreno così battuto da Francesco e non solo per la sua vocazione gesuitica nel rispondere alle sirene d'oriente. Per tornare alla domanda di Jenkins, sui rischi d'una contaminazione del cristianesimo euroamericano, considerato per ragioni varie quello autentico, la risposta sta non solo nelle masse di fedeli africani e asiatici che affollano le

chiese nostrane per la messa domenicale ma anche il modo, la forma, con cui presenziano al rito. Spesso, assai più rispettosa del sacro di quanto non si veda in qualche cattedrale che pure ha il rosone splendente e i baldacchini rinascimentali e gli altari maestosi e la musica diffusa non da cd acquistati in qualche bancarella al mercato bensì da organi d' indubbia bellezza. Bastava vedere come è stato accolto il Papa a Bangui, nella poverissima Repubblica centrafricana, mentre entrava in cattedrale dopo aver aperto la Porta santa: il popolo quasi in adorazione, inginocchiato, raccolto. Altro che spintoni e parolacce per conquistarsi una foto scattata con l'iPhone, magari un selfie con il vicario di Cristo. E' forse anche a questo che si riferiva Joseph Ratzinger dal suo eremo del monastero Mater ecclesiae mentre commentava la scristianizzazione imperante nell' occidente dei vecchi schemi e delle vecchie tradizioni, anche stantie. Jenkins prende ad esempio Aarhus, città della Danimarca conosciuta a queste latitudini solo perché qualche lustro fa partecipava sovente alla Coppa Uefa o all'Intertoto (per chi se lo ricorda). Ebbene, lì, in un paese che di cattolico ha ben poco sia nella pratica religiosa sia nei costumi, quelle poche chiese cattoliche che ci sono vedono entrare settimanalmente gruppi numerosi di fedeli provenienti da terre lontane. Tutti a pregare, rappresentando il carattere globale (o universale, quindi cattolico) della fede. La domanda che si potrebbe porre, semmai, è se ci siano la volontà e la capacità di cercare e sperimentare nuove forme di testimonianza e presenza, lasciando da parte i discorsi su quale sia la radice vera e autentica del cristianesimo, se la sua immagine più corretta sia quella dell'Europa che non si riconosce più o quella dell'Africa rampante e giovane. Un'evangelizzazione nuova, dunque. Papa Francesco l'ha ribadito in un messaggio recente inviato ai partecipanti del quattordicesimo Simposio intercristiano che si è tenuto ad agosto a Salonicco. Il tema era proprio quello della rievangelizzazione delle comunità cristiane in Europa, e Bergoglio ha scritto che il continente è ormai alle prese con "la diffusa realtà di quei battezzati che vivono come se Dio non esistesse, persone che non sono coscienti del dono della fede ricevuto, non ne sperimentano la consolazione e non sono pienamente partecipi della vita della comunità cristiana". Ecco perché la chiesa è davanti a una "sfida": si tratta di rinnovare i legami con le radici cristiane ormai sempre meno percepite. L'obiettivo, aggiungeva il Pontefice, è di "individuare strade nuove, metodi creativi e un linguaggio adatto per far giungere l'annuncio di Gesù Cristo, in tutta la sua bellezza, all'uomo europeo contemporaneo". Torna al sommario 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 18 settembre 2016 Pag XII Volontariato, riparte la Banca del tempo libero La Banca del Tempo libero riprende a pieno ritmo i servizi che da anni la distinguono come "motore caritativo" della parrocchia del Duomo. Alcuni servizi hanno continuato a funzionare anche in piena estate. In questo mese si raccoglieranno le richieste per il doposcuola gratuito per ragazzi con difficoltà scolastiche e che hanno alle spalle famiglie disagiate; per il corso di italiano per stranieri e quello di computer. Informazioni in segreteria (tel. 041-958418) a partire da domani, 19 settembre, quando aprirà anche il Centro ascolto e aiuto e tutti gli altri servizi che l’Associazione offre alla città. Il Centro distribuzione alimentari, frequentato da italiani e immigrati particolarmente disagiati, non ha mai chiuso: la povertà che la Banca del tempo libero combatte, toglie dignità e dà sofferenza. Nell’Anno della misericordia, l’associazione mestrina si propone come realtà solidale. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 13 Foto e video hard, un cancro indelebile che può uccidere di Alessandra Graziottin

Un’immagine sessualmente appetitosa sul web diventa subito virale. E’ infettiva, incontrollabile, imprevedibilmente dannosa. A volte fatale. La metafora del virus è efficace per discutere meglio come proteggersi e come insegnare ai nostri ragazze e ragazze una diversa consapevolezza dei pericoli del web quando l’oggetto è l’esibizione del proprio corpo e della propria intimità. In medicina si parla di prevenzione primaria, quando l’obiettivo è evitare che un dato evento patologico si verifichi; secondaria, quando si fa una diagnosi precoce di un problema già iniziato, per limitarlo; terziaria quando si è in fase avanzata di malattia e si cerca di ridurre i danni più gravi, con variabile efficacia. Nei confronti dell’esibizione della propria intimità sessuale sul web dovremmo usare le stesse strategie: la prevenzione primaria è non farsi filmare/filmarsi, per evitare il problema prima che insorga. Perché è così difficile non farlo? Perché a molte la visibilità sul web, con un crescendo di eccitante esibizionismo sessuale, sembra l’unico modo di esistere. Una sirena potente, la visibilità, tanto seduttiva quanto pericolosa. Perché tuteliamo la nostra privacy, di cui siamo così gelosi, nelle sciocchezze, e non lo facciamo nella sostanza, fino a farci divorare vivi sul web per leggerezza, per superficialità, per “gioco”? Possibile che ancora oggi ragazze e ragazzi non abbiano capito che il gioco di esibirsi può devastare la loro vita? E che la ricerca affamata dei “like”, tramite le immagini sexy, è un boomerang veloce e feroce? In nome della libertà sessuale, del gusto e del diritto alla trasgressione, neghiamo un fatto evidente: anche in una società che si dichiara laica e ipermoderna, i codici di “giudizio morale” sul comportamento di una donna sono rimasti arcaici e feroci. Tanto vale prenderne atto e proteggersi in modo radicale e sostanziale: tolleranza zero a immagini e filmati hard. Punto. E spiegarlo a figli/e e allievi/e, discutendo in classe le storie drammatiche che periodicamente ci interrogano sul linciaggio mediatico e reale cui si espongono le protagoniste dei filmati. Con un caveat in più: ragazze, attente all’alcol! In condizioni di ebbrezza alcolica e ancor più di ubriachezza, possiamo essere usate e violentate nei modi peggiori. Sempre sulla linea della prevenzione primaria, il non bere consente di divertirsi ma anche di sentire, con le antenne iperlucide della consapevolezza, quando la situazione, in discoteca, per esempio, sta diventando pericolosa, quando sta sfuggendo al controllo, quando è meglio andarsene in tempo. E il partner (o l’amica) che filma e fa circolare, usa quel corpo ma non ama quella donna. Chi ama davvero, ama il segreto, l’esclusività, la riservatezza. La prevenzione secondaria, in questo gusto del filmarsi, sarebbe di tenere la registrazione solo per sé. Idea vulnerabile e fragile. La prevenzione terziaria, sul web, è del tutto illusoria. Va detto con chiarezza: un’immagine, un filmato hard, spedito agli amici e captato da un internauta, può essere eliminato con sentenza da un sito, ma resta nel suo computer. E’ una minaccia eterna. L’immagine, come un cancro, si è metastatizzata. Può restare silenziosa per mesi e può essere riattivata, per impulsività, vendetta, gelosia, cattiveria, sadismo. E i cyberbulli, che filmano, aggrediscono, deridono e si esaltano a condividere i “like” di un’eccitata sorpresa usano questa violenza virtuale e reale per sentirsi più forti, più maschi. E la cercano, per sostenere un Io spesso frustrato e debole. Queste storie drammatiche, iniziate “per gioco”, sono la prova di un fallimento educativo, ma anche della superficialità con cui trattiamo i pericoli del web, se usato male. Il conformismo dell’ostentazione sessuale virtuale è una sirena pericolosa: se l’hai capito, evitala. CORRIERE DEL VENETO di domenica 18 settembre 2016 Pag 2 Paritarie in crisi, mancano 80 milioni di Alice D’Este e Mauro Pigozzo In ritardo i fondi di Stato e Regione. E in Veneto crollano gli iscritti. Le testimonianze, la lotta quotidiana per non chiudere: “Il volontariato? Ora non basta più? Venezia. Esiste un limite di credito oltre il quale una scuola non riesce nemmeno più a gestire l’amministrazione ordinaria ed è costretta a chiudere i battenti. Nel 2016 è successo cinque volte in Veneto. Cinque scuole gestite dalla Fism (Federazione italiana scuole materne) hanno chiuso i battenti. Calcolando una media di 100 bambini a scuola il conto arriva a 500 posti persi in un anno. E non sono i soli. La Fism ha calcolato per le iscrizioni 2016/2017 una diminuzione totale di 1.270 bambini. «Le iscrizioni al primo anno sono scese del 15% - spiega Stefano Cecchin della Fism Veneto – ci sono meno bambini in generale a motivo della perdurante denatalità (che vale il del 10%) e il 5 %

perché le famiglie non ce la fanno a pagare la retta. In questi numeri sono considerati anche le scuole che hanno dovuto chiudere per ragioni economiche». In questo momento infatti le scuole paritarie venete avanzano 12 mensilità di contributi statali. Otto sono dello scorso anno scolastico, quattro dell’anno appena iniziato. «Ormai va così da un po’ di tempo - dice Stefano Cecchin – ci siamo abituati contro voglia a partire con il nuovo anno scolastico contando solo sulle nostre forze e senza i dovuti finanziamenti pubblici per l’anno appena iniziato. Negli anni passati, ad agosto, venivano pagati i contributi dell’anno precedente. Stavolta non è accaduto nemmeno questo. Siamo rimasti col cerino in mano, ma ormai è quasi consumato». Peraltro, da cinque anni il numero di iscritti non fa che scendere. Due anni fa, l’allora presidente regionale Fism Ugo Lessio aveva evidenziato che dall’anno scolastico 2010/2011, a quello 2013/2014 le scuole paritarie avevano perso 4.885 bambini, 553 docenti e 37 scuole avevano dovuto chiudere (passando da 1.084 a 1.047). Poi circa altri 1.000 bambini sono «scomparsi» dal 2013/2014 al 2015/2016 e ora altri 1.270. A metterli tutti in fila il totale negli ultimi cinque anni sono stati persi oltre 7.000 bambini e una settantina di scuole. «Quelle che sono rimaste faticano a sopravvivere – spiega Cecchin – e molte di loro spesso non hanno la certezza di riaprire l’anno successivo». Intanto, la Regione e Stato hanno acculato pesanti ritardi nei pagamenti. Il Veneto, sul riparto nazionale di 500 milioni di euro, avanza 60 milioni di cui 42 sono per l’infanzia. «Il Miur li aveva in cassa fin dal primo gennaio e sono ancora lì inutilizzati da allora – dice Cecchin – abbiamo mandato una diffida il primo di giugno; il Ministro ha disposto lo stanziamento ma poi tutto si è fermato». In ballo c’è un ricorso che sarà discusso il prossimo 22 settembre e che ha visto le scuole paritarie che non fanno capo alla Fism – ossia alla Aninsei, l’Associazione nazionale istituti non statali di educazione e di istruzione che fa riferimento a Confindustria - fare ricorso lamentando una scorretta ripartizione del fondo nazionale che dà punteggi maggiori a chi opera nel no-profit. Il pronunciamento del Consiglio di Stato si avrà la prossima settimana e nel frattempo il Ministero preferisce aspettare ad erogare quei fondi. Se il giudice confermasse la regolarità del decreto del Miur, i contributi statali arriverebbero entro fine anno, se invece ciò non accadesse allora i fondi resterebbero congelati fino a primi mesi del 2017. Nel frattempo si attendono i contributi della Regione del Veneto per fine ottobre: 18 milioni di euro per la scuola dell’Infanzia, importo tuttavia inferiore del 15% rispetto ai 21 milioni degli anni precedenti. Inevitabilmente, alcune strutture chiuderanno i battenti. Quest’anno non hanno riaperto le scuole dell’infanzia di Monigo (Treviso), la «San Pio X» di Conco (Vicenza), la «De Vedruna» di Verona, la «Divina Provvidenza» di Ronco all’Adige, sempre nel Veronese e la paritaria di Rottanova di Cavarzere, nel Veneziano.Peraltro il problema dei fondi è in parte attenuato perché le scuole, grazie a convenzioni stipulate dalla Fism del Veneto, possono ricorrere agli anticipi bancari, i quali tuttavia, comportano ulteriori onere per intere passivi. «Il dato resta – chiude Cecchin – o i fondi arrivano o non so a gennaio quante se ne fermeranno ancora. È inammissibile che non venga considerata la nostra situazione in modo serio visto che in Veneto accogliamo circa del 70% dei bambini che frequentano le scuole materne». Venezia. Fiorenzo Bison ha 65 anni, da 42 è il legale rappresentante della «Immacolata concezione» di Dese, nel Veneziano, una primaria per l’infanzia nata nel 1963 dove sono passati praticamente tutti i duemila residenti nel Comune. Se ne è sempre occupato da volontario. Oggi l’istituto ospita poco meno di una sessantina di ragazzini, grazie a quattro insegnanti e due ausiliari che vi lavorano part time. «Il resto è volontariato», spiega Bison. Conti alla mano, l’istituto rischia di dover chiudere: sui 150 mila euro che costa all’anno, ne avanza oltre quaranta da Regione e Stato. «Se non accade qualcosa sarei costretto a far lavorare la gente gratuitamente o aumentare le rette, preferisco chiudere», dice lui indicando il giardino esterno. «Guardi: le giostre mobili non ci sono più, erano fuori norma e non abbiamo potuto cambiarle. Il tetto perdeva, siamo riusciti a metterlo a posto. Ma non si può andare avanti a volontariato e raccolte di fondi, che pur ci fruttano il 18 per cento dei nostri incassi». Problemi anche nel Veronese: Romano Spillari gestisce una scuola paritaria a Badia Calavena, tre sezioni per 61 allievi e un nido integrato da altri 18 posti. «Riusciamo a chiudere il bilancio in pari, ma non stiamo accantonando la quota di Tfr che spetta ai dipendenti», spiega dopo aver annunciato ai genitori l’aumento delle rette di dieci euro al mese sia per le materne che per il nido.

«Senza contare che il nostro personale a volte è costretto a far volontariato, ore non retribuite. Siamo fortunati che lo stabile è di proprietà del Comune, che pensa alle ristrutturazioni più impegnative». I disagi, peraltro, sono identici ovunque. Anche a Treviso. «Gestisco una scuola dell’infanzia e un nido integrato e sono referente delle 18 scuole trevigiane - spiega don Carlo Velludo che nel 2014 ha anche scritto una lettera accorata al premier Matteo Renzi per raccontare la situazione difficile delle scuole venete - i soldi che mancano ormai sono troppi, la situazione è drammatica, diventa ormai impossibile anche assolvere agli obblighi principali come pagare dipendenti e fornitori, non stiamo parlando di cose di corollario ma proprio degli stipendi. In questi giorni abbiamo appena riaperto le scuole e sta arrivando un flusso di denaro dalle rette. Ma nel conteggio della spesa la retta dei genitori copre solo il 60% dei costi». E Don Carlo dunque conclude: «l resto dovrebbe arrivare dalle istituzioni. Solo che non è così. Da tempo ho chiamato “ladri” quelli che lo sono effettivamente: le istituzioni, quelle regionali comprese che si vantano dei nostri servizi e non ci danno i contributi che ci spettano. La mia scuola avanza dalla Regione 9.600 euro per il 2014, dodicimila euro per il 2015, quindicimila euro per il 2016 cui si sommano trentamila euro dallo Stato. Mi spiegate come facciamo ad andare avanti? Nessuna impresa potrebbe permettersi di essere gestita in questo modo». LA NUOVA di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 La produzione ritrovi ritmo e velocità di Mario Carraro Mi chiedo se non dobbiamo abbandonare l’idea di ripresa come ritorno al Pil del 2007. Non bastano più gli anni, per arrivarci. Oltre un decennio secondo Nomisma e comunque insufficienti secondo Confindustria a riportarci nel gruppo di testa dei paesi industrializzati. Non siamo caduti in corsa, come Renzi si è spiegato con una metafora ciclistica, ma andiamo più lenti degli altri e da prima della deflagrazione di questa terribile crisi. Fanalino di coda da ben quindici anni, secondo l’ufficio studi degli industriali. Operanti spesso in settori poveri di tecnologia, talvolta obsoleti, anche a Nordest, con ritardi che rendono impervio il recupero. A meno di non ritrovare ritmo o cambiare bicicletta con una Ferrari. Che vuol dire riformare la macchina produttiva, oggi un sistema industriale privo di gruppi trainanti, pur in presenza di brillanti aziende medie. Insufficienti però a compensare le difficoltà di una miriade di piccole, piccolissime aziende, molte bloccate dalla crisi della finanza. È un quadro drammatico, ma non vedo come dipingerlo diversamente, misurando nel 25% la perdita di produzione dal 2009 ad oggi del nostro manifatturiero, contro la crescita di oltre il 15% del primo concorrente, la Germania, cui non sono venuti mancare i mezzi per continuare a investire e innovare. Naturalmente l’ultimo pensiero che ci deve venire è chiudere bottega. I cambiamenti in economia non si misurano con il calendario, ma nella volontà di tornare a contare (lasciamo per ora l’eccellere) facendo funzionare al meglio il sistema com’è, ma mirando contemporaneamente a un modello futuro radicalmente nuovo, in grado di inserirsi nelle trasformazioni che l’economia sta vivendo a ogni punto del pianeta, da Est a Ovest, ma ormai anche da Nord a Sud. Mi soccorre questa settimana un report dell’Economist sui colossi che si stanno sviluppando nel mondo, e che rischierebbero di schiacciarci, se rimanessimo fermi. I primi cento gruppi Usa che nel 1994 pesavano per il 33% del Pil, salivano al 46% nel 2013. Conseguente poi ai mutamenti di business, si scopre che, mentre in pieno boom nel 1990 i produttori di automobili, occupando 1,2 milioni di addetti, registravano una capitalizzazione di borsa di 36 miliardi di dollari, oggi le società di Silicon Valley, occupando 137.000 persone, quasi otto volte meno, capitalizzano mille miliardi, 27 volte più. Nel campo della produzione si assiste inoltre a una sfida feroce per il dominio della robotica, protagonisti oggi USA e Cina, non più Giappone e Germania. Quest’ultima, nel settore, ha perso il controllo di Kuka, a favore dei cinesi che, nel biennio, relativamente ai robot, hanno registrato il 50% di brevetti nel mondo. Si va decisamente verso nuovi modi di produrre. Non pensiamo a una robotica classica ma alle nuove generazioni, in cui stanno entrando applicazioni di intelligenza artificiale. Elementi questi essenziali, insieme al determinante concorso di Internet e Cloud, in quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale, nel progetto 4.0, di cui ho l’impressione si parli spesso senza cognizione di causa in un paese che è ancora lontano dal completare la rete a banda larga. Accenno a questi scenari, ma non finiscono qui le complessità, per

sottolineare che, non avendo altra scelta, va oggi sostenuto il sistema che abbiamo nel riprendere ritmo e velocità, nel fare ritrovare nuovo vigore a imprenditori, lavoratori, dirigenti manager, mettiamoli tutti, in una sfida che faccia tornare velocità alla macchina produttiva. Ma con l’idea che il sistema debba avviarsi a una radicale trasformazione. Ripeto, radicale. Nella prima fase il governo dovrebbe sobbarcarsi il peso di stimoli concreti, verso le aziende che si dichiarino pronte a impegnarsi in termini reali e forti, in programmi di innovazione e sviluppo di attività di ricerca. Per la fase seconda, quello della profonda modernizzazione, va individuato il modello futuro a noi più confacente, nel panorama generale dell’economia del globo, sulla base di potenzialità che il paese sono convinto possieda. Politica e amministrazione pubblica dovranno concorrere ai grandi mutamenti che investiranno l’intero paese, con servizi efficienti, una burocrazia senza intralci, tassazioni eque, servizi sociali seri, pur generosi in una ripresa delle capacità economiche. In testa agli impegni della politica e della società deve stare la Scuola, forte, grande. Con la S maiuscola, certo. Perché è nella scuola e nella crescita conoscitiva delle nuove generazioni in ogni settore, dove sta la vera speranza di futuro. Un articolo non basta per una analisi completa, che spetta a economisti. Ma non è fantascienza. E a tutto manca, inutile nasconderlo un punto pesante. A un’informazione sui progressi Usa che, con la crescita dell’economia, hanno fatto registrare nel 2015 un incremento del 5,6% del reddito per famiglia fino a 56.500 dollari, riducendo in termini rilevanti la quota dei poveri, un amico Facebook scopre la ricetta: “Nella stampante della Fed”. Piacerebbe a Krugman. Per noi purtroppo il tanto da farsi non è compatibile con le nostre casse, né lo stampare ci è concesso. Tutto dipende da quanto sarà consentito dall’Unione in termini di “flessibilità”, l’ossessivo mantra che pesa sulla nostra volontà di ripartire. Non c’è spazio per tentennamenti. È invece il momento in cui il paese deve unirsi. Credo che oltre al governo, mutando certi toni, tutti, istituzioni, partiti, cittadini dobbiamo prendere coscienza che non basteranno i semplici buoni propositi. È il tempo della serietà, tutti insieme ripeto, con umiltà, nella concreta determinazione di progetti credibili, certo complessi. Se ne daremo prova, a Bruxelles, l’Italia non potrà non trovare consensi, un paese essenziale come siamo, diciamolo, per la sussistenza della stessa Europa. Non resti un sogno. Pag 46 La vita di Tiziana risucchiata dall’enorme buco nero rappresentato da internet, che oggi incombe sulle vite di tutti di Vera Slepoj Un enorme buco nero sulla nostra vita. Così è il web ed è stato simbolicamente visto nel passato anche come una foresta, un luogo affascinante ma intricato, dove ci si può perdere e non ritornare, incontrare situazioni minacciose, una simbologia spiegata per i minori, ma oggi più che mai verosimile per gli adulti. Si entra e ci si fa guardare, si cerca di uscire dall’anonimato, catturare l’attenzione o far parte della grande categoria degli ingiuriosi, quel mondo fatto di vigliaccheria che fa in modo che si possa intervenire per poi magicamente sparire. Tiziana Cantone fa diversi errori: quello di non valutare le conseguenze, quello di non tener conto che l’hard è tale di nome e di fatto e fa parte ancora di una subcultura strisciante. Tiziana pensa di chiudere il suo profilo per i motivi più personali e profondi, avendolo creato allo stesso tempo per la sua probabile fragilità, quella dell’ingenuità delle azioni, dell’ostinazione mostrata poi e della dipendenza stessa di un sistema che anche se virtuale può diventare mortale. È chiaro che quel mondo per lei e per tanti altri era diventato l’unico pensiero, l’ossessione per trasformarsi poi nel desiderio di riscatto, vendetta, restituzione della propria identità. Ma forse un’identità vera e propria Tiziana non l’aveva e non ha fatto in tempo a costruirsela. Tiziana muore senza mai uscire da quel mondo, non basta cambiare nome, città, chiederne l’oblio per rinascere. E per uscire dalla dipendenza del sistema virtuale non bisogna più accedervisi, guardare e controllare. Si dovrebbe essere capaci di rigenerarsi in un altro mondo, fatto di una comunicazione reale e diversa. Chi soffre di dipendenza dal web dovrebbe abbandonarlo, non usare nessuna applicazione, né Whatsapp né social network, ma allo stesso tempo uscire dal sistema mentale prima ancora di azzerare il sistema tecnologico. Tiziana muore per mano di se stessa e di tutti, travolta dal voyeurismo e dalla manipolazione dei pensieri ossessivi e implacabili. Carolina muore a Novara, giovanissima vittima della fragilità della sua innocenza e della sua integrità morale. Due morti diverse, ma che richiedono una profonda e attenta riflessione su questa sorta di

pandemia emotiva, un virus letale per l’etico, per la morale, per quel mondo positivo che potrebbe essere internet, se levigato dalle patologie collettive che il sistema non crea, ma che consente. Nel deserto delle tutele, nell’incapacità del tessuto sociale di farsi da protezione, da essere costruttori non di disastri umani, ma di una cultura della dignità della persona, diventa un bisogno prioritario. Se si gira un po’ nei vari social è facile incappare nelle ingiurie, nelle condanne irrazionali, una sorta di deriva liberatoria dalla condanna sociale al silenzio, dove una collettività si sente più che mai assente dalla partecipazione alla propria vita sociale quotidiana. Tiziana muore dentro un mondo privo di emozioni, ma carico di quel rigurgito di perversione che sa accanirsi sulla preda debole, nascosto dietro l’alterigia dell’impunità, il vero grande sistema perverso che legittima non i buoni sentimenti, ma quelli più primitivi e arcaici. Si muore oramai per poco ma se diventa il tutto, non c’è scampo se non l’oblio, non dal web, ma da un modo di essere. LA REPUBBLICA di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 Cari genitori e cari prof, fate la pace o la scuola non si salverà di Paolo Di Paolo Preside di Bologna scrive lettera sfida: ecco come fa fallire i vostri figli Difficile dire di preciso quando e come sia accaduto, ma quella che doveva essere - ed è stata a lungo - un'alleanza, sembra essersi trasformata in una guerra aperta. La scuola da un lato della barricata, molte famiglie dall' altro. Una sfiducia progressiva è diventata ostilità, l'insofferenza somiglia, in molti casi, a un muro. Ci si manda messaggi senza guardarsi in faccia, si finisce per parlare lingue diverse. La lettera che un preside di Bologna ha scritto ai genitori degli alunni è sintomatica: un decalogo a rovescio che, dietro al velo dell'ironia, manifesta un malessere profondo. Bastano poche azioni - spiega il preside ai genitori - per far fallire l'anno scolastico dei vostri figli, per rendere la scuola «innocua». «Evitate di parlare con i docenti, sostituitevi ai vostri figli cercando di eliminare tutte le esperienze che possano metterli in difficoltà, credete loro anche contro l'evidenza, date sempre la colpa alla scuola, date assoluta importanza più al voto che alle cose che imparano». Quest' ultima, forse, la cosa più grave. La più sbagliata. Certo, non esiste una scuola per essere buoni insegnanti, né una scuola per essere buoni genitori, ma questo attrito manda definitivamente in crisi l'unica scuola che esiste. Fiaccata da una cronica assenza di risorse, logorata da un discorso pubblico (talvolta anche istituzionale) che la affronta e la mortifica trattandola come un'azienda tra aziende, messa alle strette da logiche concorsuali incongrue, la scuola italiana soffre. Gli insegnanti scendono da decenni verso i gradini più bassi della scala sociale: "funzionari" sotto assedio, schiacciati da un' immagine caricaturale, da una erosione progressiva dell'autorevolezza. Non li abbiamo difesi abbastanza, abbiamo lasciato che entrassero nella schiera dei "perdenti" in partenza, che un'ignoranza sempre più arrogante e rumorosa li mettesse comunque in discussione. E molti genitori entrano a scuola a gamba tesa, fanno invasione di campo anziché, come dovrebbero, restare al bordo. Aggrediscono e non dialogano, protestano senza ascoltare. Anche a scapito di altri genitori - e sono tanti - che, silenziosi, discreti, comprensivi, cercano di tenere in piedi l'alleanza con i docenti, la fiducia in un progetto educativo comune, condiviso. C'è invece chi entra nel merito delle scelte didattiche e dei programmi, spesso complice della pigrizia dei figli, c'è chi firma petizioni, chi si agita, si lamenta di tutto, strepita. Compromette così non solo il lavoro sereno dei docenti - valido, efficace o no che sia - ma soprattutto il loro rapporto con gli alunni, riducendolo a un conflitto permanente. Nella lettera che un papà di Varese ha inviato agli insegnanti per giustificare il figlio ("Non ha fatto i compiti delle vacanze"), c'era una opposizione inquietante: voi, io. «Voi avete nove mesi per insegnargli le nozioni, io tre mesi per insegnargli a vivere». È questa ottusa e presuntuosa certezza che ci sta ammalando, o forse ci ha già ammalati: la scuola, la conoscenza da una parte; la vita dall' altra. È triste che un uomo adulto pensi alla scuola come a una fabbrica di nozioni, è triste sopratutto per lui. Gli è sfuggito che le giornate all'aperto in bicicletta, la musica, lo svago, fanno parte della vita quanto la geometria euclidea e la storia dell' umanità, una pagina di romanzo o un' intuizione filosofica. Non sa, quel padre, che forse solo andando a scuola tutta la vita, si può sperare di restare vivi e soprattutto vitali.

LA NUOVA di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 La lezione del miracolo economico di Franco A. Grassini Da tempo la pregevole ricerca del Centro Studi Confindustria “Scenari Economici”, non era stata pessimista come quella presentata in questi giorni. Per l’anno in corso prevede un miglioramento dello 0,7% del prodotto interno lordo e per il 2017 di appena lo 0,5%. Stime molto più basse non solo di quelle del governo, ma anche della Banca d’Italia e di altri istituti di ricerca. Le ragioni di questo pessimismo sono ben chiarite nello stesso studio. C’è, prima di tutto, un quadro geopolitico mondiale tutt’altro che rassicurante. Si va dalla Brexit, a elezioni che nei Paesi democratici più importanti, dagli USA alla Francia, rischiano di portare al potere forze che metterebbero in forse le possibilità di mantenere relativamente libera l’economia mondiale. Il commercio internazionale che ha rappresentato un fattore di crescita per tutti già ora ha una marcia in meno. Si aggiunga che ovunque la popolazione in età lavorativa sta riducendosi, mentre aumentano i vecchi che preferiscono il risparmio ai consumi. In sintesi il CSC non esclude, e lo dice esplicitamente, abbiano ragione i sostenitori della vicina stagnazione secolare. In un quadro non favorevole la situazione italiana è appesantita da un “quindicennio perduto” che ha aumentato il divario tra noi e gli altri Paesi europei. Tra il 2007 ed il 2014 la Germania è cresciuta del 5,6%, la Francia 2,6%, noi siamo diminuiti del 9% peggio della Spagna ridotta del 6,3%. Tra il 2014 e il 2017 le previsioni dicono che la Spagna crescerà dell’8,9%, la Germania del 5%, la Francia del 3,7%, noi del 2%. Non tutto, per altro, è negativo per l’Italia nell’analisi degli Scenari Economici. Si riconosce che la propensione ad innovare ed investire delle imprese manifatturiere italiane è, nel confronto europeo, tra le migliori, che nel commercio internazionale stiamo guadagnando posizioni, che le riforme avviate, a partire dal Jobs Act, cominciano a dare risultati. Di fronte ad una situazione così preoccupante non sembra ci si possa limitare a ridurre la pressione fiscale sulle imprese sperando che da lì si avvii una ripresa più rapida. Né, come ha detto il ministro Padoan, sperare che, oltre alla riduzione delle imposte per chi investe, a semplificazione delle procedure ed maggiori investimenti pubblici, le riforme portino a mutamenti nei comportamenti degli imprenditori. Siamo un Paese ad economia mista. Abbiamo una parte, alcune stime parlano di un quinto, delle imprese, capaci ed innovative che danno un contributo positivo alla nostra economia, che vanno rafforzate ed aiutate, ma non bastano. Occorre lo Stato si rammenti che le imprese a partecipazione statale hanno svolto un ruolo determinante negli anni del miracolo economico. All’epoca, però, la politica indicava gli obiettivi e non interferiva con la gestione da parte del management. La storia, se ben studiata, può insegnare molte cose. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 18 settembre 2016 Pag IV Gli scenari del referendum di Ennio Fortuna Dunque se si vota (il condizionale è d’obbligo) si vota non più solo per Mestre comune, ma anche per Mestre e Marghera (e perché no per Favaro, Chirignago, Murano o Burano e così via?). Purtroppo è così anche se nessuno ha fatto un’indagine per accertare che cosa ne pensano i cittadini di Marghera. Il fatto più grave è che nessuno si è premurato neppure di approfondire l’incidenza della doppia possibilità sugli umori degli elettori, già l’ultima volta niente affatto entusiasti (non si raggiunse neppure il quorum) e ora, da ciò che vedo e sento ancor meno convinti. Intanto, come ho anticipato, è probabile che non si voti affatto, la legge Del Rio interdice tale possibilità, data la contrarietà decisa del Consiglio Comunale del capoluogo, mentre la tesi dei separatisti che il percorso imposto dalla legge statale vale solo per l’ipotesi che si voglia il voto popolare per l’elezione del sindaco metropolitano appartiene al novero delle idee stravaganti e tecnicamente insostenibili (la vera alternativa non è infatti l’applicazione delle leggi regionali per la divisione dei Comuni, ma semplicemente la conferma che il sindaco metropolitano è e

resta quello del capoluogo). Ma non voglio più parlare del problema giuridico circa l’ammissibilità del voto, tanti, forse troppi, lo hanno già fatto con risultati più che affidabili. Ovviamente bisognerà vedere come sarà congegnata la scheda elettorale o le schede elettorali, ma in ogni caso non c’è dubbio che i separatisti non ne saranno avvantaggiati. Non è una conclusione di cui debba preoccuparsi un unionista come lo scrivente che da sempre vota contro la separazione anche se questa volta meno convinto di altre (effetto anche qui della fallimentare politica dell’amministrazione), ma certamente se fossi un separatista, magari firmatario della prima proposta al vaglio della Regione, mi darei da fare per convincere il Consiglio Regionale a bocciare la proposta leghista che ha aggiunto anche Marghera alle opzioni per la divisione del Comune. Insomma staremo a vedere. Certo che le prospettive del voto per i separatisti non sembrano ispirate alla buona stella. Il rifiuto del voto, auspice il sindaco Brugnaro, appare sostenuto da forti probabilità di successo e, comunque, anche se si votasse, gli unionisti possono contare, ora come ora, su buone prospettive non solo per il loro numero da sempre più ampio di quello degli avversari, ma anche e soprattutto per la confusione provocata dalle iniziative ricordate, verosimilmente non bene meditate. Anche i separatisti possono però contare su una risorsa inaspettata: l’amministrazione Brugnaro non piace, o almeno piace assai poco, soprattutto agli elettori del partito democratico. Quanti democratici voterebbero per la separazione del Comune sperando di mandare a casa Brugnaro e i suoi prima del tempo? È impossibile una risposta ragionata e fondata su dati certi. Personalmente non credo che saranno tanti e forse saranno meno dei separatisti sconcertati, ma certamente anche questo è un fatto di cui si dovrà tenere conto nel caso si arrivasse al voto, come però non è probabile. CORRIERE DEL VENETO di domenica 18 settembre 2016 Pag 13 Stop a contributi a pioggia e aiuti gratis. Così Ca’ Farsetti rivoluziona il welfare di F.B. Progetti mirati per famiglie ed emarginati. Venturini: da assistenzialismo a sussidiarietà Venezia. Da assistenzialismo a sussidiarietà, dice l’assessore alla Coesione sociale Simone Venturini. La rivoluzione del welfare è già cominciata: basta contributi a pioggia, basta finanziamenti doppi, basta aiuti «gratis». Ogni azione del Comune adesso è legata a un progetto, piccolo o grande, comunque commisurato alla persona o alla famiglia, che permetta un reinserimento. Nella società o nel lavoro, poco importa, lo scopo «è aiutare per riprendere la vita in mano», precisa Venturini. «Il nostro compito è aiutare a non aver bisogno dell’aiuto del Comune». Come dire: non ti porto i pesci a casa, ma ti aiuto a pescare. Detto, fatto perché dopo la sperimentazione dell’anno scorso Ca’ Farsetti ha rilanciato quello che tecnicamente viene chiamato Reddito di inclusione attiva (Ria) grazie ai contributi della Regione. Il sostegno viene dato alle persone che non sono in grado di affrontare da sole un percorso di lavoro o un tirocinio. E’ un primo aiuto economico «formativo» per arrivare a camminare da sole. Ci sono ad esempio le persone emarginate (quest’anno ne vengono seguite 107 contro le 50 dell’anno scorso) che beneficiano di 150 euro al mese subordinati all’inserimento in un contesto sociale nelle attività parrocchie piuttosto che nelle società sportive. Ci sono le persone disabili che non hanno ancora un inserimento lavorativo (10), ci sono i minori border-line che fanno attività di volontariato in associazioni per un contributo alla famiglia di 150 euro. Poi ci sono gli inserimenti lavorativi attraverso un percorso guidato. Qui il budget complessivo è di 200 mila euro, le 40 persone fanno un tirocinio pagato 600 euro al mese per nove mesi: se non viene raggiunto l’obiettivo il Comune rivede l’aiuto. «Questo è un pezzo di un puzzle molto pia ampio della riforma del welfare cittadino - sottolinea Venturini - al solo dare siamo passati al dare per rimettere in moto». L’assessore cita i «Fioretti di San Francesco» (la storia di San Francesco e i briganti): «Chiedere sempre qualcosa in cambio migliora le persone che così si sentono utili alle collettività», spiega. L’altro pezzo della riforma è la mappatura dei servizi attraverso la realizzazione di un database e di un software unico. L’obiettivo è quello di mettere in rete tutti gli aiuti prestati dai servizi del Comune per non incorrere a contributi doppi. Lo sforzo dell’assessore infatti è di ricalibrare i servizi facendo fronte alle nuove emergenze che si stanno sempre più diffondendo: dai padri separati agli anziani soli, fino alle povertà nascoste «facendo autocritica sul sistema che abbiamo utilizzato fino ad oggi»,

sottolinea Venturini. Un esempio su tutti è il servizio ai senza fissa dimora che non deve tradursi esclusivamente nella coperta donata d’inverno ma deve cercare di creare un percorso per arrivare all’autonomia. E cosi la casa dell’ospitalità non deve più essere un «albergo permanente ma un posto di transito con l’obiettivo di migliorare le condizioni per riprendersi la vita». AVVENIRE di sabato 17 settembre 2016 Pag 22 Ecco il Ghetto di Venezia. Oggi di Giuseppe Matarazzo Il 29 marzo del 1516 il Senato della Repubblica Veneta decretò di mandare tutti i giudei presenti in città ad abitare «uniti» a Cannareggio in «una corte di case». Nasceva così, 500 anni fa, il primo ghetto al mondo destinato agli ebrei. La storia è poi proseguita con altri recinti, altri muri e con la barbarie che ha segnato drammaticamente il popolo ebraico. Ma cosa rimane di quel luogo originario? Cosa ci racconta? Chi abita oggi il ghetto di Venezia? Con la lucidità e la sensibilità che lo contraddistinguono, il fotografo Ferdinando Scianna propone un percorso in 50 scatti attraverso una comunità viva (la mostra Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo alla Casa dei Tre Oci del capoluogo veneto, fino all’8 gennaio del 2017, catalogo Marsilio). Persone e luoghi che fanno dialogare la normalità delle scene odierne con il senso della storia che in quelle calli, quei campi, quei canali dai tratti fortemente simbolici si è succeduta. S’incontrano Emilio Piasentini, pregiato intagliatore, il restauratore di mobili Giancarlo Rossi, il panettiere kosher Davide Volpe, la novantaduenne Virginia Gattegno, ospite della Casa israelitica di riposo e un vecchio fedele davanti alla sinagoga. Volti del quotidiano, insieme a figure imprescindibili del luogo: come Živa Kraus, grande dama della cultura internazionale, che con la sua galleria fotografica Ikon si è conquistata prestigio mondiale; la direttrice del museo ebraico, Marcella Ansaldi; e, certamente, il rabbino Rav Scialom Bahbout che si prepara alla preghiera. Si può rivivere la cerimonia di Shabbat della comunità Chabad-Lubavitch, trovarsi davanti al “Banco rosso” dei pegni, osservare un gruppo di ragazzi che gioca attorno a uno dei tre pozzi del Ghetto Nuovo, imbattersi in un gruppo di turisti che dialoga con gli abitanti con la tradizionale kippah, alzare lo sguardo e scorgere una vecchia signora affacciata a una finestra o fissare per terra antiche pietre d’inciampo, le mattonelle in ottone poste davanti all’ultima residenza nota dei deportati, dove sono incisi i nomi e i destini delle persone rastrellate dai nazisti e assassinate nei lager. Istantanee dal ghetto di Venezia. Oggi. Ma capaci di raccontare una storia lunga. Compito non facile, anche per un grande fotografo. In effetti il timore di fallire assale Scianna appena dopo aver accettato la proposta della Fondazione Venezia, promotrice della mostra insieme a Civita Tre Venezie. «E se non ce la faccio? – racconta il fotografo di Bagheria, primo italiano a entrare nell’esclusiva agenzia internazionale Magnum –. Quel posto è un teatro nel quale da mezzo millennio si sono svolte vicende straordinarie e terribili. So che i luoghi non smettono mai di raccontare, anche a distanza di secoli. Ma se io non riuscissi a sentire quelle voci, a vedere nella casuale complessità e contraddittorietà dell’oggi le immagini che contengono una qualche traccia di quella storia così densa? Da un pezzo ho però imparato che l’unica risposta all’angoscia dell’inadeguatezza è l’umiltà del lavoro, la tenacia, l’attenzione costante. Confonderti col luogo, con le persone e continuare, ora dopo ora, giorno dopo giorno, a raccogliere sassolini con cui costruire la tua casa. Invocando la fortuna». Il fotografo e le sue gambe si armano dei pensieri di Iosif Brodskij, uno dei poeti contemporanei «che più ho amato, ebreo anche lui, anche se non aveva l’aria di tenerci molto a questa etichetta, come alle altre». Compito riuscito. «Ferdinando Scianna – scrive nell’introduzione al catalogo Denis Curti, curatore della mostra e direttore artistico della Casa dei Tre Oci – ha saputo costruire un racconto delicato, ha scelto una prosa senza malinconia, ha cercato affinità elettive con affetto e gratitudine. Ha dato forma a una memoria collettiva elevando e distinguendo singole storie: se ne avverte la bellezza e la solennità. Il dolore mai urlato dell’Olocausto. Dentro queste fotografie ci si orienta. Con il linguaggio degli affetti, la grammatica dei corpi». E si può cogliere «il registro multiplo che caratterizza i frequentatori del ghetto – come fa notare Donatella Calabi, direttrice del Comitato scientifico per i 500 anni del Ghetto diVenezia –: persone conviventi negli stessi spazi ridotti, non sempre capaci, né desiderosi di interloquire fra loro, e che tuttavia contribuiscono insieme a farne un sito particolare, dotato di un fascino costruito sulle

sue vicende secolari e sulle commistioni: cittadini o turisti che frequentano uno spazio urbano storicamente connotato, indifferenti gli uni agli altri; depositari dell’antica cultura e della religione ebraica, che desiderano raggiungere “silenziosamente” il massimo di integrazione con la città; abitanti di recente immigrazione per i quali (come altrove nel mondo) la manifestazione della propria identità passa per l’abbigliamento anomalo e i comportamenti separati». Più mondi che si parlano in quello che fu il «recinto» ebraico di Venezia. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 17 settembre 2016 Pag XXV “Fare Comune”, proposte per i sindaci di Riccardo Coppo Monastero del Marango e associazioni vogliono rilanciare la “buona politica” Caorle - Un "Fare comune" per rilanciare la buona politica nel Veneto Orientale. Nasce dal monastero del Marango un interessante progetto che vedrà lavorare a stretto contatto associazioni cattoliche e laiche con l'obiettivo di offrire agli amministratori del territorio proposte e soluzioni concrete da adottare. L'iniziativa è stata presentata giovedì sera proprio dal priore della comunità monastica, don Giorgio Scatto, e dai rappresentanti delle associazioni che hanno già aderito con entusiasmo all'appello dei monaci: il "Forum città del Piave", il forum cattolico "I.e.c.i.p.", le associazioni "Limen Universalis" e "Fra terra e il cielo", oltre ovviamente all'associazione "Dossetti" che fa capo proprio al monastero. «Non siamo concorrenti alla politica perché non siamo parte politica e non siamo un partito - ha spiegato don Scatto - Siamo una famiglia che vuole dare ospitalità a tutti i cittadini. Vogliamo affrontare tematiche politiche, ma non con la logica dei consigli comunali». Anche il logo scelto per il progetto "Fare Comune" è evocativo: richiama, infatti, il nodo di Salomone quale simbolo di legame, ma allo stesso tempo di apertura verso il mondo. «Sono felice che questa esperienza parta dal nostro monastero», ha spiegato ancora il priore della comunità che è «allenata da tempo alla convivialità delle differenze e che credo possa essere un terreno dove il dialogo e il confronto sulle cose da fare, con umanità, diventi non solo possibile ma necessario». Uno dei primi argomenti che "Fare Comune" affronterà è tra i più attuali e discussi: l'immigrazione e l'accoglienza. Sono in via di definizione due importanti momenti di riflessione, il 22 ottobre ed il 10 dicembre. Altri temi che saranno affrontati in futuro sono la tutela della legalità e dell'ambiente ed il recupero di una visuale della politica quale "vocazione altissima", come ha detto qualche tempo fa Papa Francesco. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 La partita delle due Leghe di Alessandro Russello Pontida e il centrodestra Usando una metafora calcistica la si può vedere così: se non ci fosse «Salvini la ruspa» che ha depurato il partito dal letame dei diamanti catapultandolo dal 4 al 12 per cento, la Lega arrancherebbe a bordo campo e non sarebbe mai in partita. Ma con la Lega del Matteo anti-Matteo (Renzi) questa Lega il campionato nazionale (la presa del governo) non lo vincerebbe mai e, ancor prima, alle sue condizioni probabilmente non lo potrebbe nemmeno disputare. Sia perché con questo (quale?) centrodestra la Lega salviniana non sembra volerci stare («Il centrodestra? Una parola che mi dà l’orticaria») sia perché solo una coalizione con un tasso di partecipazione necessariamente moderata potrebbe sperare di battere Renzi, e con un leader che rivendica la propria leadership radicale ostentando un linguaggio da guerra civile molto difficilmente ci riuscirebbe. Sempre che, appunto, orticaria a parte, il centrodestra esista. Se stiamo ad oggi si vede meno di un gatto nero in una notte buia: tra un Berlusconi evanescente ma ancora incombente e un Parisi affacciante ma non meno etereo, non siamo nemmeno ad una vaga idea, mentre l’indossatore di felpe ne ripudia perfino la formula a vantaggio di un fantomatico soggetto «sovranista» che sembra funzionare molto meglio in Francia che da Bressanone a Canicattì. Per ora, insomma, l’unico punto chiaro del manifesto

programmatico del centrodestra che non c’è è fermo al «tutti contro Renzi». Insomma la Lega - che oggi a Pontida cerca di rinverdire i fasti di trent’anni di prato padano rimuovendo i tempi nefasti - è come minimo un sudoku. Perché se su alcuni temi connotanti (immigrazione fra tutte) c’è se non un linguaggio un pensiero comune, è evidente la divaricazione fra la vocazione radicale «di lotta & di lotta» di Salvini e quella non certo barricadera «di lotta & di governo» dei due presidenti di regione e sedicenti «populisti responsabili» Zaia e Maroni, già ministri e a capo di due regioni che messe insieme fanno un ampio pezzo di Pil di questo paese. Al netto del gioco delle parti, se Zaia dev’essere grato a Salvini per avergli tolto di mezzo Tosi, non si può non dire che politicamente sia più vicino a Maroni. Felpato senza felpa, istituzionale senza sdilinquire per il politicamente corretto, il leader veneto incarna quel moderatismo radicale che di fronte al radicalismo estremo di Salvini può rappresentare se non la carta per la vittoria del campionato almeno un tentativo di giocarsela. Non a caso e non da oggi, più di qualcuno nel centrodestra che non c’è include Zaia nel ventaglio dei possibili candidati premier, nonostante il governatore si schermisca e la veda come un’ipotesi molto remota. Non siamo in grado di prevedere se Zaia arriverà a ricoprire questo ruolo (per chiunque il confronto con l’ombra di Berlusconi è perlomeno arduo). Resta il fatto che il suo profilo è «giusto», perfino al netto della narrazione anti-romana e anti-statale, più ascrivibile alla battaglia per recuperare qualche miliardo di residuo fiscale vantato dal Veneto «regione virtuosa» che in ossequio al vecchio sogno secessionista. Abbandonato a vantaggio di una trattativa con lo Stato attraverso un processo costituzionale rafforzato da un referendum sull’autonomia e concepito per avere più forza contrattuale. Certo l’opzione dialogante, con il moderato Zaia candidato premier in quota Lega, rischierebbe seriamente di non essere a costo zero per il partito: perché se il Carroccio si «desalvinizzasse» potrebbe tornare a percentuali contenute sulle dita di una mano. Una lega «moderata» sembra un ossimoro, una contraddizione in termini, soprattutto nel tempo in cui la politica di «sistema» soffre della perdita di consensi, erosi da chi ha buon gioco a sfilarsi giocando su un appeal antagonista. Senza contare, a tale proposito, la feroce concorrenza del Movimento Cinque Stelle, che pur risucchiato dal principio di realtà (Roma docet) che richiede il passaggio dal dire al fare, dallo spirito della barricata a quella di governo, sembra avere molte carte in più del Carroccio. E non solo in virtù del fatto di essere un soggetto nazionale e non territoriale. Questo dovrebbe essere oggi a Pontida, nel grande abbraccio delle due leghe, figlie del più vecchio partito dell’Italia contemporanea, il vero «tema congressuale». Al di là di slogan autoreferenziali e di pacche sulle spalle. La verità è che il Carroccio è in un cul de sac, stretto fra fioretto e spadone, tra spirito guerriero e sensibilità istituzionale. Se dobbiamo dare atto a questo partito di aver posto con forza il tema sfidante seppur irrisolto del federalismo (che Salvini ha dimenticato in virtù della sua svolta nazional-lepenista), oggi non si capisce bene cos’è e cosa vuole essere la Lega. Certo, i profughi e gli immigrati restano un bell’atout per sottrarre voti al «sistema» Italia, e dare a Ciampi del «traditore» può scaldare gli animi di chi è convinto che passare dal default della liretta all’euro sia stato un errore. Ma ci vuole ben altro, in termini di progetto e visione, per dare una risposta alle complessità di un paese che da vent’anni non cresce e che ha il debito pubblico più alto d’Europa, che al netto del Renzi- sì Renzi-no non ha uno straccio di legge elettorale condivisa, che ha bisogno di riforme ma ha un corpo politico e sociale irriformabile. E nemmeno sembra una risposta vagheggiare piccole patrie (sia nazionali che territoriali) nell’oceano della globalizzazione. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La grande impunità italiana di Ernesto Galli della Loggia In cella solo i poveri Sulla base dei precedenti non c’è da farsi davvero molte illusioni sulla punizione dei responsabili della sospetta (direi quasi certa) pessima qualità costruttiva di molti degli edifici crollati nel recente terremoto dell’Italia centrale. Infatti, come ha messo bene in

evidenza l’inchiesta di Guastella e Pasqualetto pubblicata qualche giorno fa dal Corriere, nei decenni passati - dal Friuli all’Emilia passando per l’Irpinia e il Molise - tutte le numerose azioni giudiziarie conseguenti ai relativi terremoti occorsi in quei luoghi hanno portato a niente altro che ad appena 14 condanne di progettisti, costruttori e responsabili amministrativi, per un totale di pochi mesi effettivi di carcere. È un dato che tuttavia non fa notizia. E si capisce perché: esso rimanda infatti a un fenomeno più generale, anche questo quasi scontato. In Italia, in prigione forse anche i benestanti, i professionisti, le persone più o meno importanti e quelle che appartengono a una certa classe sociale ci fanno qualche volta una capatina: ma quanto a restarci ci restano solo i poveracci. Non ingannino a questo riguardo le dure condanne, che pure ci sono, come quella a 10 anni di prigione inflitta pochi giorni fa ai vertici dell’industria farmaceutica Menarini. Le condanne in primo e magari anche in secondo grado ci sono, ripeto: peccato che però non corrispondano a nessuna punizione effettiva, cioè non mandino in prigione nessuno. Novantanove volte su cento, infatti, con il tempo, con gli appelli, i contrappelli e la Cassazione, anche le condanne iniziali vengono poi cancellate. Sicché alla fine solo gli extracomunitari, gli infimi spacciatori, gli emarginati a vario titolo, gli appartenenti alle classi povere, popolano le nostre galere. Nei Paesi che ci piacerebbe emulare non è così. In Germania, non molto tempo fa, il ricco e potente presidente del Bayern Monaco, condannato per evasione fiscale a due anni e poco più di prigione, ne varcò i cancelli nel giro di un paio di giorni. Un altro esempio: negli Usa i responsabili dei fallimenti bancari e assicurativi del 2008 sono da tempo dietro le sbarre con condanne pesantissime che, c’è da giurarci, sconteranno in grandissima parte. Il famoso finanziere Madoff, colpevole di aver ingannato e spogliato centinaia di ricchi e avidi gonzi che gli avevano affidato i loro capitali, si è beccato una condanna all’ergastolo. Tutte cose in Italia impensabili: anche se nessuno sembra farci caso, nessuno solleva il problema. Meno che meno l’ineffabile Consiglio superiore della magistratura, pur così instancabilmente sollecito delle sorti della giustizia. E dire che proprio i magistrati, invece, sarebbero i più titolati a spiegarci il perché della vasta impunità italiana. A spiegarci, ad esempio, perché in mano ad avvocati abili, che però solo le persone agiate possono permettersi, le procedure assurde e i codici malfatti che ci governano consentono, attraverso tutto un sistema di rinvii, di prescrizioni e ricorsi, di vanificare indagini e sentenze. Chi lo sa meglio di loro? A quel che ricordo, invece, solo il presidente dell’Anm, Pier Camillo Davigo, vi ha in varie circostanze dedicato qualche attenzione. Eppure - c’è bisogno di dirlo? - questo doppio standard nell’amministrazione della giustizia ha conseguenze vaste e gravissime. La prima conseguenza è la vanificazione di fatto, prima che del senso della legalità nei cittadini, della legalità effettiva in quanto tale. Una legge che non valga per tutti, infatti, non è più una legge: è un provvedimento arbitrario. Rispetto poi a chi dovrebbe obbedire, ai cittadini, è difficile immaginare che una qualunque legge sia davvero rispettata se sulla base dell’esperienza si diffonde la convinzione che a qualcuno è consentito non rispettarla senza essere sanzionato. Da ciò la seconda conseguenza: il discredito dell’intera sfera pubblica, a cominciare dalla magistratura per finire con la politica e con il governo: le loro leggi non valgono nulla dal momento che chi sa e soprattutto chi può le viola senz’alcun danno, e dunque anche quei poteri che le emanano e le amministrano non valgono nulla, non meritano alcun rispetto. Anche perché, siano essi di destra o di sinistra, pur sapendo bene come stanno le cose non muovono un dito per cambiarle. Il modo d’essere della giustizia è così divenuto la manifestazione forse più importante della placida doppiezza morale che domina la società italiana. La quale quando parla (specie se parla in pubblico) s’inebria dei nobili concetti di solidarietà e di progresso, mostra regolarmente d’ispirarsi ai più alti principi dell’equità e della benevolenza sociale, ma quando invece si muove nella realtà d’ogni giorno, allora si scopre ferocemente classista, assuefatta ai privilegi come poche, spudorata cultrice di una vasta impunità. Pag 8 Inchiesta choc sull’Islam francese: “Metà dei ragazzi tra i 15 e i 25 anni sono radicali” di Stefano Montefiori La prima notizia è che un’inchiesta di questo genere è stata realizzata. «Un islam francese è possibile», si intitola lo studio diffuso ieri dal think tank liberale Institut Montaigne. In Francia le indagini sociologiche su base etnica o religiosa sono vietate. Il

ricercatore Hakim El Karoui ha aggirato i limiti per cercare di rispondere alla domanda «chi sono i musulmani di Francia»? Curiosità comprensibile, visto che il tema della presenza islamica e il suo rapporto con la République sta occupando da mesi gran parte del dibattito politico ed è per ora l’argomento fondamentale degli aspiranti candidati all’Eliseo nel 2017. Intanto, secondo lo studio condotto ad aprile-maggio 2016 su 1029 islamici, individuati su un campione di 15459 persone rappresentativo della popolazione francese sopra i 15 anni, i musulmani sarebbero meno del previsto: non i 5-7 milioni che si pensava, ma tra 3 e 4 milioni. Molto giovani, perché l’età media è di 35,8 anni contro i 53 dei cristiani e i 43 dei«senza religione». Poi, la ricerca si dedica alla questione più delicata: che rapporti hanno con il fondamentalismo? Anche qui la risposta riserva delle sorprese. Lo studio delinea tre gruppi di musulmani: il primo, il più numeroso (46 per cento), è composto dalla «maggioranza silenziosa», cioè cittadini secolarizzati che non trovano contraddizione tra i valori della Repubblica e l’islam, e che comunque sono a favore della laicità. Il secondo gruppo, intermedio, pari al 25%, si definisce innanzitutto come musulmano, rivendica con fierezza la propria appartenenza religiosa e il diritto di esibirla in pubblico, ma rispetta comunque le leggi e la laicità dello Stato. Il terzo gruppo, che arriva a un notevole 28%, comprende cittadini definiti dallo studio come «fondamentalisti» e «secessionisti», che affermano la primazia della legge islamica su quella della Repubblica e sono favorevoli a comportamenti vietati come la poligamia o l’indossare il burqa. Questa percentuale sale al 50 per cento nella fascia di età tra i 15 e i 25 anni. L’Institut Montaigne lancia quindi un allarme sui giovani musulmani francesi, che per metà «usano l’islam per affermarsi ai margini della società». Pag 17 Il referendum, la Chiesa e il no di Massimo Franco La Cei sembra attenta alle ragioni del governo ma stanno aumentando i contrari alla modifica della Costituzione Non ci sono pronunciamenti ufficiali, sebbene finora sia prevalsa la lettura di una Cei più attenta alle ragioni del governo. E probabilmente non ci saranno: né a favore del Sì né a favore del No. Ma non solo perché la Chiesa italiana non vuole essere accusata di ingerenze nella politica. La realtà è che sul referendum istituzionale la conferenza episcopale appare divisa e confusa proprio come il Paese. Eppure, più si avvicina la data ancora nebulosa della consultazione, più affiora la preoccupazione per il modo in cui ci si arriva. E sta spuntando un «fronte del No» ecclesiastico, convinto di poter guadagnare terreno rispetto a un Sì che sembrava predominante. A pesare non è la freddezza verso Matteo Renzi e il Pd per le scelte in materia di politica familiare e in economia, anche se una scia di incomprensione e di diffidenza è rimasta. Sono i contenuti dei quesiti referendari ad accentuare l’ostilità di alcuni settori dell’episcopato e del mondo cattolico. Con la Costituzione come fortino da difendere, e il sospetto che la vicenda sfiori anche lo scontro dentro la Cei. Il Vaticano osserva molto da lontano: tanto più con papa Francesco determinato a tenere le distanze da qualunque commistione con le vicende italiane. La posizione della Santa Sede è espressa da una persona vicina al Pontefice. E ricalca in buona misura quella misurata assunta dai vertici delle istituzioni italiane. «Non succederà nulla di tragico, né se vince il Sì né in caso contrario. Non si può assecondare chi ritiene sia travolta la democrazia se passa la riforma, né che si va al disastro se Renzi viene battuto. Non succederà nulla né in un caso né nell’altro», si fa presente. «Ci terremo a mille miglia da questa diatriba, anche perché non tocca direttamente gli interessi della Chiesa. Per questo, non pronunciarsi è saggio e doveroso». Ma se si esce dalle mura vaticane, gli umori sono diversi. E si toccano con mano. Sul referendum si scarica l’ortodossia costituzionale di alcune aree dell’episcopato; e si mescola o si aggiunge ai malumori da delusione verso il governo. «Un tempo per i cattolici esisteva il dogma dell’unità. Ora sembra prevalere quello della disunità», fotografa la situazione con un’iperbole uno dei conoscitori più profondi dell’Italia religiosa. Al di là di questa «disunità», nelle parrocchie e in alcuni settori dell’associazionismo riemerge con prepotenza una sorta di «catto-grillismo», antigovernativo e ostile a un Paese riplasmato dal Sì. «D’altronde, la Carta fondamentale non è una leggetta qualunque. E il referendum mette in gioco qualcosa che va al di là di un governo e di un premier: la democrazia in Italia», arriva a dire un influente cardinale italiano. «Registriamo gli ottimi propositi di velocizzare le leggi e di risparmiare soldi. Ma se il prezzo da pagare è una

concentrazione di potere impressionante, la risposta è no: il prezzo è troppo alto». È una tesi che raccoglie consensi tutt’altro che unanimi, ma di certo non è affatto isolata. Sulla stampa cattolica finora si è colta una cauta preferenza per le riforme proposte da Palazzo Chigi. Andando oltre l’ufficiosità, tuttavia, emerge una realtà più frastagliata, e a tratti ostile alla strategia e agli obiettivi del governo. È indicativa la prudenza di quanti sono indicati come fautori del Sì. Quando si chiede loro quale sia l’orientamento della Cei, si frena: «Non ci sono stati pronunciamenti ufficiali»: quasi si tema che schierarsi esplicitamente col governo possa provocare una spaccatura interna. La diplomazia della cautela anonima, e quella dell’attacco ai quesiti referendari, pure anonima, fanno pensare. È come se i sostenitori ecclesiastici del Sì captassero una fronda in incubazione: in parte, una coda dei contrasti tra presidenza della Cei, e cioè il cardinale Angelo Bagnasco, e il segretario, monsignor Nunzio Galantino. Gli elementi che alimentano i dubbi nei confronti del referendum sono diversi. Il primo è di metodo. Ad alcuni non sono piaciuti il modo in cui il premier ha difeso inizialmente la sua riforma elettorale, l’Italicum, sostenendo che era intoccabile; e poi la rapidità con la quale si è offerto di modificarla in cambio di un atteggiamento diverso degli avversari, in testa la minoranza del Pd, sul referendum costituzionale. «Scambiare l’appoggio al referendum con il sistema elettorale è scandaloso», avverte un cardinale: una critica che però non può essere riferita solo a Renzi ma va estesa ai suoi avversari tra i Dem. «Né bisogna avere paura della minaccia di una crisi di governo: perfino da noi si dice che morto un Papa se ne fa un altro». In realtà, il 2013 insegna che se ne fa un altro anche in caso di dimissioni, dopo quelle di Benedetto XVI. Inoltre, viene giudicato semplicistico lo schema secondo il quale «chi dice Sì guarderebbe avanti, chi è per il No sarebbe retrogrado, oscurantista e innamorato del potere. Così non si informa l’opinione pubblica, mentre è essenziale che sappia su che cosa è chiamata a votare». In realtà, come si fa notare in Vaticano, anche gli anti-renziani che esagerano i pericoli per la democrazia fanno propaganda. Il secondo motivo di irritazione è il coro internazionale che sostiene Renzi. Fra alcuni esponenti della Cei, l’appoggio martellante al Sì di istituzioni finanziarie e governi esteri ha creato sconcerto, se non fastidio: sebbene il tema degli effetti di una bocciatura non possa essere eluso. Queste intrusioni vengono considerate figlie come minimo di un’analisi superficiale, con una eventuale sconfitta governativa tutta da vedere. È un approccio sorprendente, nella sua radicalità. Nel «se ne stessero a casa loro!», rivolto a mo’ di sfogo da un cardinale a quanti appoggiano il referendum all’estero e preconizzano che altrimenti l’Italia colerebbe a picco, si colgono echi simili a quelli delle forze d’opposizione. Se questi sono gli umori, Renzi e la sua cerchia devono sapere di avere un altro avversario da fronteggiare; e più insidioso e potente della minoranza del Pd. Inutile cercare conferma, ma qualcuno ha notato che in alcune omelie estive il cardinale Bagnasco, parlando di Europa, ha accennato alla necessità di saper distinguere tra democrazie e regimi. Ebbene, più di uno ci ha visto un riferimento indiretto alla battaglia referendaria in atto in Italia. Non solo. Ha sorpreso la partecipazione di Dino Boffo, ex direttore di Avvenire e di Tv Duemila , molto vicino al più «politico» degli ex presidenti della Cei, Camillo Ruini, alla riunione dei sostenitori del No promossa di recente dal senatore Gaetano Quagliariello. In più, da mesi uno dei protagonisti del Family Day, Massimo Galdolfini, gira l’Italia attaccando il Sì. Dà seguito alla minaccia di «farla pagare» al premier per le leggi sulle unioni civili: operazione di cui è evidente la strumentalità. L’impressione è che queste iniziative confermino un fermento nel mondo cattolico e in quello ecclesiastico, frutto di contrasti vecchi e nuovi; e di un giudizio divergente sulla Costituzione e sul futuro politico: se n’è avuta un’eco recente nelle prese di posizione contraddittorie tra Cei e Vaticano sul pasticcio del Campidoglio a guida Cinque Stelle. La domanda da farsi è se questi contrasti emergeranno nelle prossime settimane anche pubblicamente, o rimarranno confinati nelle pieghe di un conflitto sordo e spesso opaco. Si parla di cardinali e vescovi italiani di peso, pronti a fare sentire la propria voce: a costo anche di esprimere opinioni discordanti. Ma ormai nel «mondo cattolico largo», come viene definito quello che va oltre le organizzazioni e le associazioni, a prevalere è un certo disorientamento. Prevale un disincanto verso i partiti che inserisce un’incognita in più anche sull’esito del referendum istituzionale.

Pag 21 E un sunnita celebra la visita di San Francesco al Saladino di Gian Guido Vecchi Racconta dell’incontro tra il Santo di Assisi e il Saladino, di quel frate che torna all’accampamento crociato con i doni del re. Poi alza lo sguardo: «Se san Francesco tornasse in vita oggi, come sarebbe accolto dall’Isis e simili?». Mohammad Sammak, sunnita, è il consigliere politico del gran Muftì del Libano. Ed è il suo intervento, «purtroppo conosciamo tutti la risposta», a segnare la prima giornata: «L’Islam non è cambiato. Il testo coranico è costante e gli Hadith, le parole del Profeta, sono chiari. Non è cambiato né prima né dopo quell’incontro. Ciò che è cambiato è che un gruppo di estremisti vendicativi e disperati ha dirottato l’Islam e lo sta usando come strumento di vendetta». Del resto «sappiamo cosa è successo ai tanti monasteri e chiese che sono stati distrutti, seppure siano descritti dal Corano come case di Dio, e nonostante l’avvertimento del profeta Maometto ai musulmani di non danneggiarli, considerandolo un atto di disobbedienza a Dio e al Suo Profeta». Lo spirito di Assisi, la chiarezza, il coraggio. Il rabbino israeliano Avraham Steinberg non l’aveva mandata a dire: «Oggi noi siamo testimoni di vergognose atrocità compiute da una minoranza di fondamentalisti islamici che dicono di agire nel nome del Signore, non c’è violazione più grande delle Sue parole!». Ed ora l’esponente musulmano ricorda il padre gesuita Paolo Dall’Oglio, «che ha dedicato la sua vita a servire musulmani e cristiani in Siria» e il vescovo di Aleppo Yohanna Ibrahim, rapiti dai fanatici e scomparsi. Spiega che padre Hamel «è una vittima non solo per la vostra Chiesa, ma anche per la nostra religione». Ed è tra gli applausi che Sammak parla del «movimento totalitario» che minaccia la sua fede: «Noi musulmani ben comprendiamo che dobbiamo liberare la nostra religione da questo «dirottamento» e riorganizzare l’Islam al suo interno, in allineamento con i principi spirituali dell’Islam e con i principi che costituiscono le fondamenta della civiltà umana nel XXI secolo». Così «affrontare il tema dell’estremismo religioso è un dovere innanzitutto dei musulmani», scandisce: «Papa Francesco si è proposto come leader spirituale per tutta l’umanità quando ha detto che non c’è nessuna religione criminale, ma che ci sono criminali in tutte le religioni». Pag 26 Così la politica fa la spesa al discount della storia di Paolo Franchi Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato, recitava lo slogan del partito totalitario genialmente raffigurato da George Orwell in 1984 . E ovviamente non c’è da rimpiangere né l’età dei totalitarismi né una concezione dei rapporti tra storia e politica per la quale la prima, ancella della seconda, era rivisitata, manipolata e distorta a maggior gloria dei detentori del potere assoluto e della linea da questi dettata. Il Novecento, però, non si è portato via solo i totalitarismi. La storia, ce ne accorgiamo amaramente ogni giorno, se ne è andata per strade inesplorate e assai poco rassicuranti: di sicuro non è finita, nei primi anni Novanta del secolo scorso, con la caduta dell’Unione Sovietica, come aveva teorizzato Francis Fukujama e, seppure in forme meno assertive, avevano pensato in molti. A farsi sempre più sottili, fin quasi a spezzarsi, sono stati piuttosto, in Occidente, in Europa, e soprattutto in Italia, i fili che legavano passato e presente. Le culture e le tradizioni politiche per così dire classiche, incapaci di rinnovarsi e forse obiettivamente impossibilitate a farlo in un mondo globalizzato si sono desertificate. La memoria, che si voleva finalmente condivisa, si è invece smarrita, come se gli anziani non avessero più nulla da trasmettere ai giovani, e i giovani non avessero più nulla da chiedere, e nel caso da contestare, agli anziani, eccezion fatta, naturalmente, per i debiti che questi ultimi hanno caricato sulle loro spalle. Niente più «domani che cantano», e va benissimo. Va molto, molto meno bene, invece, specie per le ultime e le penultime generazioni, che non possono nemmeno ricorrere alla droga dei ricordi, vivere in un eterno presente, senza passato e senza una prospettiva decente di futuro. Tutto questo non significa, naturalmente, che la storia non faccia capolino, suo malgrado, nella lotta politica e in quella che una volta si chiamava la battaglia delle idee. Ma ad essa si ricorre come se fosse una specie di discount, dai cui banconi si prende, alla rinfusa e a prezzi stracciati, ciò che di volta in volta si immagina possa essere utilizzato, a mo’ di clava, contro l’avversario, senza perdere troppo tempo a chiedersi che cosa si sta acquistando, o se il prodotto è scaduto. Non è più solo

questione di faciloneria, di improvvisazione e di estraneità a un patrimonio comune che, in passato, si dava, con un pizzico di infondata supponenza, per acquisito: sono già lontani i tempi (era l’ottobre del 2000) in cui Silvio Berlusconi in tv si dichiarava entusiasta all’idea di poter incontrare quanto prima papà Cervi, del tutto ignaro che il vecchio Alcide, un’icona della Resistenza, se ne fosse andato, novantacinquenne, trent’anni prima. Ognuno sembra ormai libero di costruirsi come più gli aggrada, senza incontrare troppe resistenze, la storia, scegliendo ciò che crede gli torni utile e scartando ciò che gli complica la vita. In fondo, se sbaglia ridicolmente, come è capitato a Luigi Di Maio quando, non contento di aver paragonato Matteo Renzi ad Augusto Pinochet Ugarte, ha provveduto a traslocare d’ufficio il dittatore dal Cile al Venezuela, se la caverà con qualche sfottò sui social e una rettifica. Allegri ignorantoni, incorreggibili gaffeur? Sì. Ma c’è dell’altro. Non è stata una semplice gaffe, anche se pure in quel caso si è scherzato con la storia, la trovata di Matteo Renzi e di Maria Elena Boschi, che tra gli antesignani del Sì nel referendum costituzionale, qualche mese fa, hanno arruolato, per tirarli tra le gambe della minoranza del Pd, Enrico Berlinguer, Nilde Iotti e addirittura Pietro Ingrao. In un dibattito nutrito di un minimo di conoscenza storica chiunque avrebbe riconosciuto che sì, i tre prestigiosi esponenti comunisti furono favorevoli al superamento del bicameralismo perfetto e, in una certa fase, anche monocameralisti. Ma si sarebbe anche ricordato che i suddetti, come tutto il Pci, erano inflessibilmente proporzionalisti, e fieri avversari di ogni forma di decisionismo: difficile rappresentarli come i padri nobili del combinato disposto tra questa riforma costituzionale e l’Italicum, fino a poche settimane fa in gran voga. I manifesti che li ritraevano come gli spiriti guida della riforma Boschi hanno fatto in tempo ad ingiallire senza che nessuno, o quasi, facesse questa semplicissima constatazione. Anche questo vorrà dire qualcosa. Come vorrà dire qualcosa pure il fatto che in un recentissimo talk show televisivo, nessuno abbia mandato a quel paese il combattivo giornalista che trovava forti analogie tra la reazione dei militanti del M5S alle vicende romane di queste settimane e quella dei militanti comunisti di fronte all’invasione dell’Ungheria nel 1956. Il discount della storia funziona così, e forse non potrebbe essere altrimenti. Ma a chi, per formazione o più semplicemente per età, la cosa stride, un po’ di respiro andrebbe pure concesso. Per pietà: concedetevi, e concedeteci, almeno una moratoria. LA REPUBBLICA Pag 1 Il populista padano senza prospettiva di Stefano Folli Con la Lega indicata nei sondaggi intorno al 12 per cento, ossia due o anche tre punti sotto il suo massimo storico, il raduno di Pontida avrebbe potuto offrire qualche indicazione interessante circa le strategie di Salvini. Acominciare dalla sua capacità di correggere qualcosa in uno spartito la cui musica è sempre meno gradita agli elettori (e le amministrative lo hanno certificato). Viceversa il leader del Carroccio ha riproposto tale e quale il solito schema, se possibile ancora più violento e volgare. Degli insulti a Ciampi nei giorni del cordoglio si è già detto. Ma ieri Salvini ha aggiunto qualche attacco al papa Francesco per la cedevolezza verso l'Islam, mentre gli elogi sono andati a Putin e a Marine Le Pen. Il problema è che nessuno ha capito quale sia la prospettiva politica che la Lega suggerisce al paese, salvo bloccare e rispedire indietro i migranti. Non si è capito nemmeno se la Padania esista ancora nell'immaginario nordista, come premessa della futura secessione invocata da qualche striscione e in fondo anche dal vecchio Bossi. O se invece il pensiero di Salvini sia ormai pienamente nazionalista, come farebbe pensare il suo desiderio di imitare la Le Pen. Peraltro, quando un leader attende l'autunno del 2016 per scoprire il presidenzialismo, vuol dire - secondo logica - che ha fatto una scelta precisa in favore dell' unità nazionale. Il che si sposa male con il fallimento dei tentativi fin qui messi in atto per trasportare il verbo leghista nel Mezzogiorno. Per riuscirci Salvini dovrebbe dare voce a uno stato d' animo, sia pure estremista, capace tuttavia di intercettare le differenze e le complessità storiche che rendono la storia del Nord e del Sud così diverse da tempo immemorabile. Ma di questo sforzo non si vede traccia né a Pontida né in qualcuno degli studi televisivi frequentati dal leader. Marine Le Pen, per citare di nuovo il punto di riferimento della nuova Lega, sa interpretare una certa tradizione della destra francese. Salvini invece ormai parla per slogan, oltretutto sempre gli stessi; e quando i sondaggi cominciano a essere deludenti,

egli sa solo inasprire i toni. È evidente che c'è in lui un istinto esclusivamente tattico. Oggi il suo nemico è il pragmatismo moderato di Stefano Parisi, assimilato a tutta la galassia dell'establishment centrista. Quanto all'ultima invettiva ("non saremo mai più schiavi di Berlusconi"), è in sostanza un appello all'uomo di Arcore perché riprenda con lui il filo del negoziato su un piede di parità, mettendo da parte l' esperimento Parisi. La carta nella manica di Salvini è sempre la stessa: non può esistere un centrodestra allargato senza la Lega. Ma i tempi cambiano e se il Carroccio si riduce a una minoranza etnica urlante, sia pure del 10-12 per cento, è chiaro che sarà marginale nell' Italia di domani. Forse il leader del Carroccio non tiene conto che gran parte dell'elettorato anti-sistema e anti-establishment si è già spostato sui Cinque Stelle e nonostante tutto non sembra intenzionato a lasciare Grillo per Salvini. In ultima analisi, chi è intervenuto ieri a Pontida è un personaggio isolato e a corto di idee. Parla al suo mondo, ma non appare in grado di conquistare nuovi elettori; anzi, il rischio è che la coperta via via si restringa. La strategia della Lega, in fondo, si può definire come la speranza in un colpo di dadi fortunato. C'è Trump in America che sta avendo gran successo con un linguaggio non molto diverso da quello di Pontida: se ci riesce lui, perché - per la proprietà transitiva - non deve riuscire prima o poi anche il piccolo Trump padano? E poi l'Austria: nel nuovo ballottaggio presidenziale potrebbe imporsi il candidato dell' estrema destra. E inoltre ci sono le crescenti difficoltà di Angela Merkel in Germania: anche lì potrebbe innescarsi un cortocircuito. E che dire della Francia, dove l'alleata Marine sembra poter accedere al secondo turno delle prossime presidenziali? È un mondo di illusioni che sembra propizio ai progetti di Salvini, ma l'analisi è grossolana e infatti i voti non superano mai la soglia media, comunque insufficiente ad alimentare certe ambizioni. IL GAZZETTINO Pag 1 I sicari del Califfo restano ancora lontani di Alessandro Orsini Chi ha piazzato l’ordigno a Manhattan voleva uccidere il maggior numero possibile di persone. Questo è fuori discussione, ma manca una rivendicazione. In queste situazioni, gli investigatori sono chiamati a sfoggiare la loro risorsa più preziosa, che è l’immaginazione, con cui devono sviluppare ipotesi credibili per poi verificarle. Le ipotesi potrebbero essere numerose. Esaminiamone soltanto due per poi soffermarci su quella che consente di sviluppare un ragionamento sulla sicurezza delle nostre città. La prima è l’ipotesi “Isis” e la seconda è l’ipotesi “non Isis”. È possibile che una cellula dello Stato Islamico voglia scuotere New York nel giorno in cui sono attesi i capi di Stato di tutto il mondo. Ha senso. L’Assemblea generale dell’Onu che si riunisce tutti gli anni a New York, si occuperà anche della lotta contro l’Isis. C’è però un fatto che milita contro questa ipotesi. L’Isis ha rivendicato l’accoltellamento di otto persone da parte di un suo militante, in un centro commerciale del Minnesota. Avrebbe un grande interesse mediatico a rivendicare anche l’attentato di Manhattan per dimostrare di essere capace di colpire due città americane nello stesso tempo. Un’altra ipotesi è che l’ordigno sia stato piazzato da un simpatizzante dell’Isis, privo di contatti con l’organizzazione. È già accaduto con l’attentato contro la maratona di Boston del 15 aprile 2013. La polizia impiegò tre giorni per identificare i due fratelli Tsarnaev e dichiarare che si era trattato di un attentato terroristico di matrice islamica. All’epoca dei fatti di Boston, tutti si ponevano la domanda che prevale in queste ore: “Se la maratona è stata colpita da un militante di al Qaeda, perché al Qaeda non rivendica?”. È possibile che, tra qualche giorno, la polizia americana individui due nuovi fratelli Tsarnaev e il mistero sarà svelato. Quanto all’ipotesi “non Isis”, l’ordigno potrebbe essere stato piazzato da un uomo privo di motivazioni politiche. Se l’ipotesi “Isis” è corretta, piangiamo tutti i feriti di Manhattan, ma le notizie sono buone sotto il profilo della sicurezza delle città americane. L’Isis odia gli Stati Uniti più di qualunque altro paese al mondo, ma non è mai riuscito a pianificare un attentato sul suo territorio. Ha rivendicato alcune stragi, realizzate da alcuni simpatizzanti, ma non penetra nella società americana. I musulmani di New York hanno prima respinto il messaggio di al Qaeda e adesso respingono quello dell’Isis. È semplice: niente consensi, niente militanti, niente attentati. La mancata penetrazione di al Qaeda e dell’Isis nel tessuto americano consente di cogliere un punto di gigantesca importanza nella lotta culturale contro l’estremismo jihadista. A differenza di quanto sostengono i “nemici della società aperta”, le società liberali non sono travolte da quella

crisi di valori che alcuni descrivono. È un tipo di società che potrebbe, agevolmente, correggere numerose ingiustizie sociali e che, magari, potrebbe imparare ad amare la pace più della guerra. Ma è anche una società che produce più consensi che dissensi, tra gli uomini di tutte le confessioni religiose, perché è la società più libera che sia mai esistita nella storia millenaria dell’uomo, oltre a essere quella che ha diffuso il livello maggiore di benessere in tutti gli strati della popolazione. I processi di radicalizzazione verso il terrorismo islamico esistono, ma non sono - nemmeno lontanamente - in grado di sfidare i valori portanti delle società liberali. Ciò accade non per merito dei cittadini occidentali, ma perché la quasi totalità degli immigrati musulmani non vorrebbe mai vivere sotto le leggi dello Stato Islamico. I migranti che provengono dall’Africa, dalla Siria, dall’Iraq e dal Pakistan, non gridano: “Forza Isis!”. Gridano: “Forza Occidente!”. Non vengono qui per abbattere la nostra società. Ecco perché l’ipotesi “Isis” deve generare preoccupazione, ma non terrore. Se, dopo due anni di minacce mortali, tutto ciò che l’Isis è in grado di realizzare contro New York è una pentola con dei bulloni, l’Isis colpisce, ma non scalfisce. Pag 1 La doppia Angela, regina in Europa e in crisi a casa di Alessandro Campi La destra nazionalista guidata da Frauke Petry ha ottenuto – stando ai primi risultati ufficiali – il 13,7% dei voti nelle elezioni per la città-stato di Berlino, entrando così per la prima volta con suoi rappresentanti (22 su 149) all’interno della Abgeordnetenhaus, la sede dell’assemblea legislativa della capitale. Nemmeno la città più cosmopolita della Germania, la prediletta dai giovani, dagli artisti e dagli spiriti liberi, è stata dunque risparmiata dal contagio xenofobo. Da copione, dovremmo stracciarci le vesti e gridare al pericolo populista. Ma a cosa servirebbe l’ennesimo grido l’allarme? L’ascesa elettorale della Alternative für Deutschland in realtà è una non-notizia, dal momento che questo partito (nato appena nel 2011) siede già in dieci dei sedici parlamenti regionali tedeschi. Il voto di ieri non ha fatto che confermare questo trend. Ampiamente previsto a livello i sondaggi (e anch’esso confermato dai precedenti appuntamenti elettorali) era anche l’arretramento delle due formazioni maggiori. I cristiano-democratici hanno perso il 5,4%, passando dal 23,3% del 2011 al 17,9% di ieri. I socialdemocratici (il partito del sindaco uscente Michael Müller) hanno avuto una performance ancora peggiore, pur restando il partito più votato: sono passati dal 28,3% al 22,6%. Se si considerano i risultati ottenuti dai Verdi (il 15,5%, in calo di più del 2% rispetto al voto di cinque anni fa) e dalla Linke (il 15,6%: quasi 4 punti in più del 2011), ne risulta come conseguenza politica la fine della “grande coalizione” che aveva retto sin qui Berlino e la nascita di una nuova maggioranza di governo - Rot-Grün-Rot - interamente di sinistra. Ma la vera questione è come questo voto, il cui valore simbolico va ben oltre il numero di cittadini in esso coinvolti (2,5 milioni), possa influenzare la scena politica nazionale e condizionare, in particolare, il futuro della Merkel. Quest’ultima si trova in una strana e paradossale situazione. In Europa continua a dominare incontrastata, come s’è visto anche nel recente vertice di Bratislava, con la Francia tornata ad accodarsi alle politiche della Kanzlerin in materia di finanze pubbliche e immigrazione dopo il velleitario tentativo di creare una coalizione socialista-mediterranea contro l’egemonia tedesca nella Ue. All’interno del suo Paese deve invece vedersela con il malessere crescente dell’opinione pubblica. Che in mancanza di una crisi economica come quella che ha messo a dura prova altre società europee, si tende ad imputare quasi esclusivamente alle sue politiche in materia di immigrazione, che risulterebbero sgradite a moltissimi tedeschi, soprattutto a quelli più anziani e d’orientamento conservatore. Una spiegazione spesso addotta dai commentatori, ma probabilmente parziale. Così come parziale è riferirsi all’ Afd come ad un partito anti-immigrati. Andrebbe ricordato che l’Afd è nato, nemmeno cinque anni fa, come partito che contestava l’euro e il piano di sostegni finanziari alla Grecia, giudicati troppo onerosi per i cittadini tedeschi. Il nazionalismo economico veniva dunque prima della polemica contro le “porte aperte” della Merkel ai profughi. Nella capitale lo scontro non ha riguardato solo la pessima gestione logistica dei circa 80.000 profughi e richiedenti asilo giunti in città nel corso del 2015 e ospitati alla meno peggio in strutture sportive e palazzi pubblici. La destra nazionalista e anti-establishment ha dato battaglia anche sulle proverbiali inefficienze della macchina amministrativa berlinese. La vittoria dell’Afd sembra essersi realizzata soprattutto nella

zona est di Berlino, laddove il disagio socio-economico conta più della paura per lo straniero. Ma il tema che più di tutti fornisce benzina al motore dei partiti populisti è la stanchezza degli elettori per le formule di compromesso politico che sempre più spesso vedono la destra e la sinistra tradizionali collaborare insieme al governo sino a rendersi indistinguibili sul piano dei valori e delle scelte programmatiche. Così come, agli occhi dell’opinione pubblica, sta diventando sempre più fastidioso l’eccesso di permanenza al potere delle stesse persone: la Merkel governa ininterrottamente dal 2005 e questo potrebbe già essere un buon argomento, per molti tedeschi, per desiderare un cambiamento di leadership. LA NUOVA Pag 1 Religioni e scontro di civiltà di Vincenzo Milanesi Papa Francesco domani sarà ad Assisi, per la conclusione dell’incontro internazionale “Sete di pace: religioni e culture in dialogo”, e parteciperà alla Giornata mondiale di preghiera per la pace, trent’anni dopo il primo incontro interreligioso nella città di San Francesco, voluto da papa Giovanni Paolo II. In questi giorni ad Assisi regna la volontà di pregare per la pace e di riflettere su come sia possibile che uomini e donne di fedi diverse convivano pacificamente nel mondo di oggi. Un mondo nel quale è forte il timore di uno “scontro di civiltà”, per dirla con le parole del titolo di un libro, provocatorio ma stimolante, e diventato famoso di Samuel Huntington. Scontro che non nasce solo da motivazioni politiche , da una “volontà di potenza”, nelle diverse aree geografiche del mondo, ma anche da un conflitto per l’autoaffermazione di una fede religiosa che, lungi ormai dall’essere “oppio dei popoli”, si vuol far diventare il detonatore non solo di guerre devastanti tra nazioni, a livello globale, ma anche di opposizioni insanabili tra fedi e culture, che a quelle fedi si connettono, all’interno dell’Occidente. Dove è tragicamente evidente l’escalation di atti terroristici compiuti dichiarando esplicitamente la volontà di “colpire gli infedeli” da parte di adepti di una interpretazione fondamentalista dell’Islam, che si richiamano al sedicente califfato che si è insediato in Medio Oriente. Il contesto di quella giornata di preghiera ad Assisi è dunque molto cambiato da quell’ormai lontano 1986 in cui la si celebrò per la prima volta. Ed è proprio per questo che oggi assume un’importanza ancora maggiore. Ma la domanda che sta al di là di una preghiera in comune per la pace, resta la medesima oggi come ieri. E’ possibile la convivenza di fedi religiose, che rimandano ciascuna ad una teologia propria e diversa dalle altre, che con le altre ha in comune solo la convinzione di esprimere, essa e non le altre, la verità? Perché questo è il punto nodale. Per affrontare questo nodo, bisogna approfondire il discorso. Ciascuna fede si “incultura” e si fa “religione” in modo proprio, nelle diverse realtà sociali del mondo in cui concretamente si dà, in cui “accade”. Esprimendosi attraverso una concezione del mondo e dell’uomo, cioè attraverso una “filosofia”, in cui si incorpora – per dir così – quella fede religiosa, modellando anche su di essa le realtà sociali in cui vivono gli uomini e le donne che praticano quelle fedi. Più forte è il legame tra le diverse teologie e le diverse forme di “inculturazione” di ciascuna di esse, più difficile sarà la convivenza pacifica tra i fedeli delle diverse religioni. Il dialogo interreligioso ben difficilmente porterà a risultati diversi da quelli, comunque apprezzabili, di una migliore conoscenza reciproca, e forse anche alla sottolineatura di alcune comunanze di princìpi etici, se non di dogmatiche teologiche. E sarebbe già molto. Ma la convivenza tra uomini e donne di fede diversa sarà impossibile se non ad una condizione: che tutti riconoscano un valore che “vale” al di là delle differenti fedi e culture, quello della tolleranza, del rispetto da parte di ciascuno delle credenze religiose degli altri in uno spazio pubblico costruito sulla base di una sostanziale “neutralità” nei confronti di tali credenze. In quello spazio non può non esserci la libertà di coscienza, così come la libertà di pratiche di culto che non creano problemi al vivere insieme in una società “laica”. Che non vuol dire contraria alla religione, ma semplicemente non condizionata, nella sua cultura e quindi nel suo strutturarsi come tale, da alcuna religione. E quindi rispettosa di tutte. Ma chiamata anche a far rispettare alcuni diritti che si definiscono come “umani” proprio perché fondati su una visione dell’uomo che va al di là delle diverse culture e delle diverse fedi religiose, un “uomo” cui tali diritti vengono inalienabilmente riconosciuti proprio per il suo “essere uomo”. Solo la tolleranza è premessa e condizione di una pace vera e duratura.

Pag 1 L’instabilità sistemica dei 5 Stelle di Marco Panerari È davvero un ircocervo il Movimento 5 Stelle. Un animale politico peculiare nell’ambito dell’offerta partitica non solo nazionale, i cui comportamenti non di rado “incomprensibili” e spesso inusitati si spiegherebbero proficuamente in chiave politologica proprio sulla base delle caratteristiche uniche della sua forma-partito. Molto interessanti, al riguardo, si sono rivelate le recenti “interviste incrociate” dei due nuovi dioscuri grillini (Alessandro Di Battista e l’indebolito Luigi Di Maio, dopo la coppia fondativa Casaleggio-Grillo). Interviste “incrociate” svoltesi quasi in contemporanea a Otto e mezzo su La7 e Politics di Rai3. Degne di interesse, non da ultimo, perché nella versione insolitamente strategica e politicistica apparsa davanti alle telecamere, il “movimentista” e barricadero “Dibba” ha fatto ricorso a un linguaggio “da Prima Repubblica”, a partire dall’evocazione – anch’essa molto inusuale – di un possibile «governo di scopo» sostenuto dal M5S (e prontamente smentita, di lì a poche decine di minuti, dall’«amico» Di Maio). Le contraddizioni nelle affermazioni dei leader-non leader del partito-non partito troverebbero una spiegazione, oltre che nella scarsa esperienza politica (elemento che rivendicano orgogliosamente) e in una certa generale impreparazione (specie culturale, se si pensa alla sequela di gaffes di questi ultimi tempi, alcune delle quali assai spiacevoli), anche e soprattutto, appunto, nell’inedita forma-partito da loro guidata. Che si traduce di fatto in un “informe partito”, il quale si fa forza del rifiuto di qualunque logica di istituzionalizzazione esterna e interna, e si fonda su un modello organizzativo mai definito, così come non lo è l’organigramma dei gruppi dirigenti. Al fondo si ritrova una motivazione realmente strutturale: il paradigma fluido e orizzontalizzato del Web è infatti quello in cui affondano dichiaratamente le radici, anche organizzative, della formazione politica partorita dal talento visionario (e pratico) di Casaleggio, che ha quale punto di partenza (e riferimento essenziale) la sua agenzia di pubbliche relazioni e marketing digitale (che sta al M5S esattamente come Publitalia stava alla nascente Forza Italia di Silvio Berlusconi). Una scommessa ampiamente vinta sul piano del consenso elettorale, ma che non produce (come evidente) cultura politica, sostituita dalla centralità della dimensione della comunicazione. Così come non genera stabilità organizzativa, né consente la formalizzazione di una catena decisionale interna trasparente (e l’opacità che i grillini rimproverano agli avversari se la ritrovano in questo modo, e significativamente, in casa propria). Quello che la vicenda romana fa supporre, quindi, è che tra i motivi di caos vi sia anche una guerra intestina per bande e cordate. Ma le “correnti” sono vietate nel partito dell’uno vale (apparentemente...) uno e della “volontà generale” di russoviana e casaleggiana memoria e, pertanto, non è dato sapere di che tipo sia il dibattito interno, e gli osservatori devono ricorrere agli incerti strumenti della “grillologia”, una disciplina comparabile, nello spirito di decrittazione di un universo politico pieno di arcani e segreti, alla sovietologia (con la villa del comico-imprenditore politico a Marina di Bibbona che fa le veci del Cremlino). La forma gassosa è, dunque, l’essenza profonda (e voluta) del Movimento 5 Stelle. Condizione strutturale che ne fa, persino al di là delle migliori intenzioni e della buona fede che anima molti elettori e una parte del suo gruppo dirigente, un fattore di instabilità permanente e sistemica. Una questione che, senza gridare al lupo o alla “violazione” della sovranità nazionale (tematica che meriterebbe, semmai, ben più di qualche slogan polemico in un Paese che si è ricostruito sotto le insegne del Piano Marshall ed è stato tra i fondatori dell’Unione europea), ricorreva qualche giorno or sono anche nelle affermazioni dell’ambasciatore americano John Phillips a proposito del referendum costituzionale. Il tema della stabilità sistemica costituisce, difatti, un problema oggettivo e molto serio, e che andrebbe risolto in via preventiva, di questo nostro Paese. Ma, e si tratta di una mera constatazione, il M5S faticherebbe, anche se volesse, a dare delle risposte positive in materia, dal momento che la sua genesi e la sua ragion d’essere poggiano proprio su modelli (volutamente) instabili, come dimostrano anche molte loro prove di governo locale. A meno di scegliere la strada dell’istituzionalizzazione, finendo però così per rinnegare la loro “natura”... Torna al sommario

CORRIERE DELLA SERA di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 Un asse un po’ meno speciale di Sergio Romano Francia e Germania È ancora utile all’Europa che il cancelliere tedesco e il presidente francese appaiano insieme di fronte alla stampa, dopo un vertice dell’Unione, per confermare l’esistenza fra i due Paesi di un rapporto speciale? Le prime riserve sulla opportunità dell’asse (come venne subito definito) risalgono alle prime reazioni provocate dal trattato che Charles De Gaulle e Konrad Adenauer firmarono all’Eliseo il 22 gennaio 1963. Tornato al potere nel 1958, il generale aveva accettato i Trattati di Roma per la creazione del Mercato Comune, firmati in Campidoglio un anno prima; ma non aveva mai nascosto il suo scetticismo per il progetto europeista e, contemporaneamente, la sua diffidenza per le potenze anglosassoni e l’Alleanza atlantica. Quando il trattato dell’Eliseo arrivò al Bundestag per la ratifica, Adenauer dovette constatare l’esistenza di molte riserve e le superò soltanto con un preambolo in cui si assicurava il Paese che l’accordo con la Francia gollista non avrebbe reso la Germania meno europeista e meno atlantica. Il preambolo non piacque al generale, ma fu accettato a Parigi e il trattato divenne da quel momento il simbolo di una storica riconciliazione fra due Paesi che si erano duramente combattuti nel 1870 e nel 1914. Da quel momento anche i partner europei di Francia e Germania dovettero rassegnarsi. L’asse era una implicita offesa alla parità dei membri della Comunità, ma archiviava un dissidio che aveva insanguinato più volte la storia dell’Europa. L a storica fotografia di François Mitterrand e Helmut Kohl, la mano nella mano di fronte al grande ossario di Douaumont, il 22 settembre 1984, per una celebrazione dedicata alla battaglia di Verdun, dimostrava che l’asse era ancora, per molti aspetti, un valore europeo. Ma anche le grandi memorie sono soggette al logorio del tempo. I rapporti di forza tra i due Paesi sono cambiati. Per molto tempo la inferiorità economica della Francia è stata compensata dalla sua superiorità militare. Ma la fine della Guerra fredda ha ridotto il valore della force de frappe (l’arma nucleare francese) mentre l’unificazione tedesca lasciava sul piatto della bilancia una Germania molto più pesante sul piano economico, demografico e geopolitico. Eppure esiste fra i due Paesi una convenienza reciproca a cui nessuno intende rinunciare. La Germania non ha aiutato la lira, durante la crisi monetaria del settembre 1992, all’epoca del governo Amato; ma ha salvato il franco francese. La Germania ha spalleggiato la Francia nel novembre 2003 quando i due Paesi, grazie alla presidenza italiana, poterono sottrarsi alle misure disciplinari per la violazione delle regole sul deficit. Francia e Germania hanno fatto fronte comune contro la guerra degli Stati Uniti all’Iraq nello stesso anno. Ma ciò che maggiormente garantisce la sopravvivenza dell’asse è probabilmente una sorta di reciproca prudenza. Il rischio di una guerra franco-tedesca non esiste più, ma ciascuno dei due Paesi ha comunque interesse a tenere d’occhio il partner, a seguirne le evoluzioni politiche, a spegnere subito le divergenze che inevitabilmente sorgono fra due grandi Paesi anche quando sono amici e alleati. Nell’ambito della Unione Europea, poi, i due Paesi devono sempre accordarsi per evitare di muoversi in direzioni diverse e pregiudicare così la credibilità dell’asse. Finché il quadro politico non cambierà radicalmente, vi sarà sempre una riunione franco tedesca prima di ogni vertice e una conferenza stampa franco-tedesca alla fine dell’incontro. Quanto alla posizione assunta da Matteo Renzi a Bratislava, non è difficile comprendere le ragioni del suo disappunto per un vertice piuttosto modesto e il suo desiderio di non lasciare agli euro-scettici del suo Paese il diritto di criticare l’Europa. Ma se avesse voluto contribuire al declino dell’asse franco-tedesco avrebbe dovuto, in linea con le iniziative prese nel corso dell’estate, partecipare alla conferenza stampa di Merkel e Hollande. Pag 2 “L’austerity europea è un fallimento. Sono gli altri a violare le regole” di Maria Teresa Meli Intervista al premier Renzi Matteo Renzi, che è successo al vertice di Bratislava? «Nessuna rissa, semplicemente un’occasione persa. Bratislava doveva essere la svolta, e invece è stata l’ennesima riunione finita a discutere le virgole di un documento che dice tutto e non dice nulla. Dopo Brexit l’Europa deve reagire, non tergiversare».

Nessuno si aspettava però un attacco italiano così duro. «Ho parlato duro quando nel documento presentato non ho trovato una riga su Africa e immigrazione, né una riga su crescita e Europa sociale. Per rilanciare dobbiamo cambiare la direzione dell’Europa, non cambiare il palazzo del summit. Si finge di non vedere che la questione migratoria non si esaurisce nell’accordo, tutto da verificare, con la Turchia. E bisogna riconoscere che l’austerity europea ha fallito mentre la politica americana di investimenti ha portato l’amministrazione Obama al record di posti di lavoro. Non è un attacco, ma solo la realtà dei fatti». Dica la verità: si è risentito perché Merkel e Hollande non l’hanno invitata alla conferenza stampa. «La prego, siamo seri: questa è l’Europa, non l’asilo. Non ho nessun problema con Merkel e Hollande. Ho incontrato il presidente francese alla fine e ci siamo salutati con la consueta amicizia. Ma io non faccio la bella statuina, aderendo a decisioni che non decidono nulla. Se vogliamo fare le cose serie, l’Italia c’è. Se vogliamo passare i pomeriggi a scrivere documenti senza anima e senza orizzonte, possono fare anche da soli. Fare conferenze stampa in cui non si dice nulla non è il sogno della mia vita. E fingere di essere d’accordo quando non lo si è non è serio». Berlino dice che alla fine anche lei ha approvato l’agenda e richiama lo spirito di Bratislava. «È finita come finisce sempre. Qualcuno pone questioni di merito, serie. E altri rispondono con il maquillage dei documenti, con le modifiche degli sherpa, con le virgole cambiate. E in nome dell’unità chiedono di dire fuori che siamo tutti d’accordo. Non so a cosa si riferisca la cancelliera Merkel quando parla di spirito di Bratislava. Se continua così più che lo spirito di Bratislava discuteremo del fantasma dell’Europa. A Bratislava abbiamo fatto una bella crociera sul Danubio, tutti insieme. Ma io speravo di rispondere alla crisi provocata dalla Brexit, non solo di farmi un giro in barca». Qualcuno dice che lei sta facendo tutto questo per la legge di Stabilità. «La legge di Bilancio italiana è pronta. Onora le regole europee, il deficit scende ancora, rispetta i parametri del fiscal compact che il Parlamento precedente ha votato su indicazioni di Brunetta e Fassina, responsabili economici dei partiti di allora. Dunque la nostra non è una tattica per strappare qualche decimale in più di flessibilità: noi rispetteremo le regole. E come le stesse regole prevedono, scomputeremo dal patto gli eventi eccezionali, legati al piano di prevenzione post terremoto “Casa Italia” e all’immigrazione che l’Europa non riesce a gestire. Dunque nessuna trattativa sulla legge di Stabilità italiana, che per il terzo anno consecutivo vedrà scendere le tasse. Sono altri che dovranno giustificarsi per il mancato rispetto delle regole». Altri chi? A chi si riferisce? «La Spagna ha un deficit doppio del nostro. La Francia non rispetta nemmeno Maastricht con il deficit ancora sopra il 3%. La Germania viola la regola del surplus commerciale: dovrebbe essere al 6% e invece sfiora il 9%. Nessuno chiede ai tedeschi di esportare di meno, ma hanno l’obbligo di investire di più e stiamo parlando di decine di miliardi che aiuterebbero l’intera eurozona. Ho fatto notare questa contraddizione in modo privato prima e pubblico poi. Io non sto zitto per quieto vivere. Con me il giochino “L’Italia pensi a fare le riforme” non funziona più. Noi le riforme le abbiamo fatte, le regole sono rispettate, gli impegni sull’immigrazione ci costano in termini di consenso ma sono doverosi. E dunque ho il dovere di dire che le regole valgono per tutti. Se qualcuno vuole far tacere l’Italia ha sbagliato indirizzo, metodo e sostanza». Cosa accadrà adesso? «La sfida sarà marzo 2017, quando a Roma festeggeremo i 60 anni dell’Ue: come ci presentiamo davanti ai concittadini di tutto il Continente? Spiegando che l’Europa dei padri fondatori è diventato un noioso club di regole finanziarie e algoritmi tecnici? O restituendo un’anima alla visione europea? Li ho portati a Ventotene per costruire un percorso, non per vedere il panorama o mangiare il pesce. Tra l’altro due mesi dopo l’anniversario dei trattati ci sarà il G7 a Taormina. Iniziano dunque otto mesi decisivi per la nostra politica estera e per la credibilità delle nostre istituzioni. Voglio risultati concreti, non parate scenografiche». Sull’immigrazione siete tornati a mani vuote? «Sull’immigrazione per il momento l’Europa ha parlato tanto e fatto poco. Noi abbiamo fatto gli hotspot, il fotosegnalamento, i salvataggi, la lotta agli scafisti. Loro hanno

messo un paio di navi nel Mediterraneo che scaricano i migranti in Sicilia: utile per fare le interviste, non per risolvere i problemi. Il giochino così non funziona. Vanno chiusi gli accordi in Africa decisi nel summit di Malta del 2015. Vanno costretti i Paesi membri a fare le ricollocazioni visto che in troppi fanno finta di niente. Vanno gestiti i rimpatri che per il momento fa l’Italia mentre l’Europa fa i convegni. Abbiamo proposto sei mesi fa il Migration Compact . Juncker lo ha ripreso nel suo discorso e gli siamo grati. Ma per il momento sono parole. L’Italia se necessario farà da sola: sappiamo come fare. Ma allora l’Europa ammetta di aver fallito e dica che gli egoismi sono più forti della politica: farebbe più bella figura. Non possiamo lasciar esplodere il problema dell’immigrazione per l’incapacità dell’Europa. Nel frattempo stiamo costruendo una nuova sede per il Consiglio europeo che costa qualche miliardo: hanno scelto i miei predecessori, non posso dire nulla. Ma proporrò di mettere davanti alla sede il barcone che l’Italia ha recuperato dal fondo del mare e che adesso è ad Augusta. Almeno tutte le volte che c’è una riunione anziché guardare solo i divani nuovi, si guarderà l’immagine di quel barcone e dello scandalo di una migrazione». C’è anche chi dice che ha fatto quell’attacco a Bratislava per attirare gli elettori meno europeisti. È preoccupato per il referendum? «No. Mai stato ottimista sull’esito come adesso. Nessuno parla più di “rischio democratico”, il clima è più disteso. Prima o poi inizieranno a circolare i facsimile della scheda e tutto sarà chiaro. Lì si parla di riduzione dei parlamentari, di riduzione dei costi delle Regioni, di soppressione del Cnel, di superamento del bicameralismo paritario, obiettivo condiviso da tutte le coalizioni in sede di campagna elettorale, sempre. Quando si diraderà la nebbia dell’ideologia parleremo di merito e gli indecisi sceglieranno il Sì perché è l’unico modo per cambiare questo Paese. Altrimenti si resta nella palude delle bicamerali di troppi anni fa. E l’Italia torna all’instabilità. Noi stiamo andando bene: quattromila comitati, migliaia di persone che partecipano a iniziative e sottoscrizione, boom sul sito www.bastaunsi.it . L’Italia può diventare più semplice e più agile. Il futuro può finalmente trovare casa anche nel Belpaese». Se vince il No si dimette, come aveva annunciato nel dicembre dello scorso anno ? «Per mesi mi avete detto di non personalizzare. Ho seguito il vostro suggerimento e non parlo più di me. Questo non è un referendum sul mio futuro, ma sul futuro dell’Italia». Avete detto che siete pronti a cambiare la legge elettorale. Che cosa significa, in concreto? «Ritengo l’Italicum un’ottima legge elettorale: garantisce governabilità e rappresentanza. Ma non facciamo le barricate. Siamo pronti a cambiarla, qualunque sia la decisione della Consulta. La maggioranza c’è: adesso tocca alle opposizioni parlare. Devono dirci cosa propongono. Vogliono tornare ai collegi uninominali? Vogliono eliminare le preferenze? Vogliono il turno unico e non il ballottaggio? Devono tirare giù le carte loro. Noi ci siamo. Ma le opposizioni hanno qualche proposta o sanno solo dire no?». Che ne pensa dell’iniziativa di Parisi? Secondo lei è destinata a dare vita a un nuovo centrodestra o sarà un buco nell’acqua? «In bocca al lupo a Parisi. Trovo alcune sue frasi esagerate e superficiali, frutto della necessità di rincorrere i suoi alleati. Ma se Parisi ce la farà mi confronterò con lui. Per il momento gli avversari sono Salvini e Di Maio. L’uno insulta la memoria di quel galantuomo che è stato Carlo Azeglio Ciampi. L’altro paragona la Repubblica italiana a una dittatura sudamericana e perde di credibilità ogni volta che apre nocca. Auguri a Parisi, ma per il momento non convince neanche i suoi. E se l’alternativa sono Salvini e Di Maio noi dobbiamo lavorare con ancora più senso di responsabilità. Perché qui è in ballo la credibilità internazionale dell’Italia, e non è poco» . Pag 9 “Quando Ciampi divenne politico e salvò l’Italia dalla bancarotta” di Marzio Breda Intervista a Sergio Mattarella Signor presidente, qual è il suo primo ricordo di Carlo Azeglio Ciampi? Quando lo incontrò per la prima volta, che impressione ne ebbe? Quale tratto del suo carattere la colpì maggiormente? In che cosa lo sentiva vicino alla sua sensibilità?

«Il mio primo ricordo è di Ciampi governatore della Banca d’Italia, e in questa sua veste l’ho incontrato per la prima volta, un trentennio addietro, quando ero ministro per i Rapporti con il Parlamento. Incontrandolo si avvertiva immediatamente la sensazione della sua autorevolezza, naturale, non costruita. Era inevitabile apprezzarne la chiarezza delle analisi e delle proposizioni, la sua serenità nel considerare le varie proposte avanzate. Allo stesso tempo colpiva la fermezza nel difendere la solidità della moneta e nel garantire la tutela dei risparmiatori. Insomma, ne ho sempre ammirato - e condiviso - il forte senso delle istituzioni e la responsabilità che ne consegue nei comportamenti concreti, in qualunque circostanza, semplice o difficile». Lei ha avuto modo di lavorare fianco a fianco con Ciampi nella stagione in cui foste insieme al governo, tra il 1998 e il ‘99: lei da vicepresidente del Consiglio e Ciampi al Tesoro. «Nei sei mesi di quel comune impegno di governo non ricordo una sola volta, nelle discussioni in Consiglio dei ministri o in altre occasioni, in cui non mi sia trovato d’accordo con Ciampi. D’altronde era, nel governo, un punto di riferimento per tutti e lo dimostrava la pacatezza e la capacità persuasiva con cui conduceva a condividere le sue ragioni. Ricordo, ad esempio, il tema controverso della riforma delle fondazioni bancarie, ben preparato con riunioni preliminari e magistralmente condotto in porto in Consiglio. Il periodo più lungo e intenso di collaborazione con il presidente Ciampi è stato, per me, da ministro della Difesa. Ovviamente, anche per la sua veste di presidente del Consiglio supremo di difesa e per il ruolo di comando delle Forze armate, aveva una grande ed effettiva attenzione ai compiti, alle attività e ai problemi della Difesa. Lo faceva sempre con molto rispetto per le attribuzioni del governo ma la sua costante vicinanza era preziosa come orientamenti e rassicurante come sostegno. Vi si rifletteva, del resto, la visione che lo ha condotto a recuperare, nella nostra Italia, un più diffuso e condiviso senso di Patria e il desiderio che la società si ritrovasse unita nella vita quotidiana. Da questa esigenza è nata la sua iniziativa di ripristinare la sfilata del 2 giugno: ero accanto a lui, nella vecchia Flaminia, quando vedendo la grande quantità di nostri concittadini, intervenuti con entusiasmo, non nascondeva la commozione nel trovar la conferma di aver incontrato, con quella decisione, un condiviso sentimento popolare». Quello fu tra l’altro il periodo nel quale si tentò, attraverso la Bicamerale, di costruire una grande riforma. Per inciso, di fronte a chi allora vagheggiava l’elezione diretta del presidente della Repubblica, lei sostenne un punto di vista diverso affermando che «il capo dello Stato è già in grado di incidere nella vita politica del Paese e deve avere un forte potere di arbitraggio e garanzia, ma non governare». Rammenta come la pensava Ciampi, al riguardo? «La miglior risposta a questa domanda è fornita dalla lezione di Ciampi al Quirinale: la sua misura, il suo equilibrio nell’assolvimento dei compiti affidati al presidente della Repubblica, costituiscono un’interpretazione puntuale del ruolo di arbitro che gli è affidato dalla Costituzione». Nelle sue esperienze - Bankitalia, governo, Quirinale - Ciampi ispirò il suo ruolo alla «religione della libertà» ponendosi l’obiettivo della massima coesione sociale del Paese. «Il presidente Ciampi è stato, nelle istituzioni che ha guidato, protagonista di momenti di svolta nella vita del Paese. Più di ogni altra, la cifra della sua vita va rinvenuta nel valore della rettitudine e del rigore morale, nello spirito di servizio nelle istituzioni. Nella scelta di campo dopo l’8 settembre 1943, nel rigore professionale, nell’autonomia e indipendenza di giudizio, nel distacco da interessi particolari e gruppi di potere. Virtù di un italiano che ha fatto, appunto, della religione della libertà, il suo punto di riferimento. Il suo senso della realtà lo portava a un confronto esigente tra la direzione da imprimere alla storia e le condizioni concrete del Paese e della sua popolazione. Così si comprende anche l’ideale di socialità che ha sempre ispirato le sue azioni». Ciampi è stato una «riserva della Repubblica» da mettere in campo in momenti di svolta nella vita del Paese: lei ha osservato a caldo che gli italiani non lo dimenticheranno. «La straordinaria, brillante biografia del presidente Ciampi ne ha disegnato perfettamente il ruolo di “civil servant”. Dopo la guerra e la Resistenza, ha trascorso ben 47 anni alla Banca d’Italia, percorrendone tutti i gradini fino alla nomina a Governatore, avvenuta in un momento particolarmente difficile per la nostra banca centrale. Quando, nella primavera del ’93, il presidente Scalfaro decide di chiamarlo a Palazzo Chigi e si forma il governo Ciampi, l’Italia attraversa uno dei momenti più drammatici della storia

recente, tra inchieste giudiziarie, delegittimazione della dirigenza politica, attentati di mafia e rischi di destabilizzazione della lira. La risposta del governo “tecnico” di Ciampi fu felicemente molto “politica”: non soltanto salvando il Paese dalla bancarotta, ma affrontando i problemi del momento, raggiungendo un accordo tra le parti sociali e permettendo il varo della nuova legge elettorale, assicurando così una transizione pacifica verso nuovi assetti politici, richiesti con evidenza dal referendum popolare». Insomma, non si è mai tirato indietro. «Sì, non si è tirato indietro neppure quando venne chiamato per il ruolo di ministro del Tesoro nei governi Prodi e D’Alema, ponendo il suo prestigio e la sua competenza nuovamente al servizio del Paese, in un frangente delicatissimo e cruciale come quello della decisione del passaggio dalla lira all’euro. La sua elezione al Quirinale avvenuta al primo turno e con amplissima maggioranza è stata la testimonianza della stima e dell’affetto che la sua figura riscuoteva in Parlamento e nel Paese. Al Quirinale ha dimostrato non distacco ma imparzialità, contribuendo a riavvicinare, forte di una popolarità crescente, i cittadini alle istituzioni e ai simboli repubblicani. E accrescendo il prestigio del nostro Paese all’estero. Per questo gli italiani lo ricorderanno con affetto e riconoscenza». Pag 12 I due Paesi più religiosi d’Europa in prima fila nella battaglia per garantire la “dolce morte” di Luigi Offeddu Due cose, nel costume, sembrano accomunare Belgio e Olanda: l’essere stati, fino a 40-50 anni fa, due fra i Paesi d’Europa in cui la religione o le confessioni religiose in genere hanno contato di più; e l’essere poi divenuti i due massimi esempi di secolarizzazione, con centinaia di chiese cattoliche o protestanti sempre più vuote. Conta, non conta, c’entra qualcosa o no con il fatto che questi due stessi Paesi abbiano varcato per primi e più a fondo in Europa le frontiere dell’eutanasia? Quella secolarizzazione è stata una concausa, una conseguenza, un fenomeno comunque correlato? Periodicamente, ogni volta che come in queste ore scatta il dibattito sulla dolce morte, c’è chi sostiene di sì e chi di no. Alla fine il quesito rimane irrisolto, ma intanto i fatti e le cifre parlano: che l’eutanasia sia una conquista di libertà civile o un delitto intollerabile, Belgio e Olanda ne hanno ormai fatto una tappa della propria storia, e pongono domande al resto del mondo. Il 4 aprile 1990, re Baldovino del Belgio si dichiarò per due giorni «incapace di regnare», con il pieno assenso di Parlamento e governo. La Costituzione, appositamente modificata, gli consentiva una «impossibilità morale» di compiere certi atti ufficiali. Così il sovrano evitò di firmare la legge che legalizzava parzialmente l’aborto. La considerava contraria alla sua fede cattolica, e poi aveva - fu spiegato - un motivo ancora più personale: lui e la moglie Fabiola non avevano mai avuto figli. Così accadde anche che il Belgio potesse salvare certi suoi principi (formalmente? apparentemente?) radicati da secoli senza imporli alla volontà del potere legislativo: perché la legge passò, come 12 anni dopo passò quella sull’eutanasia, e nel 2014 quella sua estensione che ha fatto dell’ex regno di Baldovino il primo Paese a concedere la «dolce morte» anche ai minori di 12 anni, con il consenso di genitori o tutori legali. Prodigio di machiavellismo, sostennero e sostengono i suoi oppositori. E di nuovo quella riflessione: il primo Paese d’Europa per numero di cattolici praticanti è diventato anche il primo a varcare quella frontiera legislativa inammissibile proprio per i cattolici. E così l’Olanda, con il suo popolo che - cattolico o protestante - è stato per secoli uno dei più credenti d’Europa, nel bene e nel male, con una storia dominata da rivolte, guerre, profonde riforme quasi tutte improntate a una confessione religiosa. Oggi, L’Aia conserva ancora il limite dei 12 anni di età alla pratica della dolce morte, ma per il resto mantiene pur con qualche variante la stessa base legale di Bruxelles: la presenza di «insopportabili sofferenze fisiche o psicologiche», purché supportate da una «richiesta volontaria, ponderata, reiterata», e certificate da un medico. «Questo è un nuovo spazio di libertà addizionale che si apre, per tutti - disse il primo ministro belga dell’epoca, Elio Di Rupo, quando la dolce morte fu legalizzata nei suo aspetti più estremi -. Ma certamente nessuno sarà obbligato ad applicarlo. Capisco molto bene la delicatezza del tema, l’esitazione, la questione di coscienza che si spalanca su temi così delicati, che riguardano dei bambini malati. Ma ripeto: è uno spazio in più di libertà». Una libertà di cui si è avvalso, quasi con fierezza e diventando un simbolo, anche Hugo Claus, considerato il più grande scrittore belga degli

ultimi decenni. Se nella politica e nei codici l’eutanasia ha trovato sia in Belgio che in Olanda una collocazione ormai (quasi) consolidata, nella vita reale non è stato certo così. A Bruxelles, vescovi cattolici, rabbini ebrei e imam musulmani si sono spesso ritrovati per protestare contro la legge. In Olanda, nel 2014, la dottoressa Els Borst, già ministro della Sanità e vicepremier, ha pagato a 81 anni con la vita il fatto di essere stata sempre considerata la «madre» della legge sull’eutanasia. «L’ho punita per il suo misfatto», ha detto l’uomo che l’ha straziata a coltellate. Pag 13 Mina Welby: “E’ un atto di pietà. Medici e genitori vanno rispettati” di Margherita De Bac Roma Il ricordo corre a San Candido, un paese di 2.000 anime in provincia di Bolzano. Le comitive di bimbi giocavano «a morire», si divertivano. Mina Welby abitava accanto al cimitero che la sera si accendeva di lumicini. I piccoli scorrazzavano lì intorno. «Non avevamo affatto la percezione della fine come punto di non ritorno», cala quelle immagini nella realtà la presidente dell’Associazione Luca Coscioni, moglie di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare, fino agli ultimi istanti di vita impegnato nella battaglia sulla libertà di scelta dell’individuo. Signora Welby, il suo racconto però non avvalora il principio secondo il quale un minorenne proprio in virtù dell’assenza di percezione non debba esprimere volontà sul fine vita? «No, al contrario, ne ha la capacità. La sofferenza causata dalla malattia lo porta a questa scelta, accompagnato dalle parole dei genitori. In Olanda e Belgio, dove l’eutanasia è legale, la pensano diversamente rispetto a noi e infatti si sono dotati di una legge che risponde agli interrogativi di tutti noi». Una diversa mentalità e cultura non dovrebbero giustificare un atto così estremo. Non dice? «In Belgio è stata creata una commissione speciale che deve valutare le richieste e non dubito che abbiano deciso nella maniera più giusta». Più giusta per chi? «Per il minore. Non riesco a immaginare che famiglia e medici abbiano agito contro i suoi diritti. Pensiamo a situazioni tragiche. Una forma di tumore infantile che procura strazio, l’impossibilità di deglutire. In questi casi senza speranza essere accompagnato verso la morte è un atto pietoso». Pietosa l’eutanasia? «Per favore, non usiamo la parola eutanasia. Meglio dire che non volevano farlo soffrire oltre. Proprio per sgombrare il campo da questi interrogativi noi della Associazione Coscioni auspichiamo l’arrivo di una legge sulle dichiarazioni di volontà e il fine vita. È appena stata incardinata in Parlamento». Lei dunque da piccola vedeva la morte in modo positivo ed è certa di poter trasferire la sua esperienza su altri? «A 10 anni presi un’infezione alle ghiandole linfatiche, stavo per andarmene. Mamma accese un lumino accanto al letto e accarezzandomi, senza piangere, mi disse non aver paura, andrai dagli angeli. Non smetteva mai di parlarmi. Mi immaginavo felice in paradiso. Superai la notte e le successive». Non lo ritiene un precedente pericoloso quello del Belgio? «No, non c’è un pericolo di reiterazione. Lei pensa che per una coppia di genitori privarsi di un figlio, anche se malatissimo, sia facile?». Pag 13 Francesco D’Agostino: “No, è disumano. Oltre all’ipocrisia lo spettro dei soldi” di M.D.C. Roma «Sconvolgente!». Qual è l’aspetto più sconvolgente del primo caso di eutanasia su minori in Belgio? «È un precedente pericoloso. Da ora in poi ci si muoverà su situazioni analoghe. Il mio è un no assoluto pur nella consapevolezza della tragicità di questa storia». Insomma, esclude la minima apertura Francesco D’Agostino, componente del Comitato nazionale di bioetica. Un minorenne può esprimere con consapevolezza il consenso alla morte?

«La sofferenza di un malato in fin di vita di qualsiasi età fa perdere lucidità di giudizio che qui è super necessaria. Vale per un bambino come per un novantenne. Chiarisco però che non sappiamo i particolari della vicenda, tranne ciò che viene riportato da un quotidiano locale». Il fine però è condivisibile: sottrarre un giovane a un dolore irreversibile. O dobbiamo dubitarne? «Dovremmo essere intellettualmente onesti. A un minorenne non si riconosce neppure la libertà di un atto sessuale con un adulto e gli si nega un contratto di lavoro regolare prima di aver raggiunto la maggiore età. Come si può tollerare che le sue volontà sulla morte vengano rispettate?». Un diciassettenne possiede la capacità di comprendere e decidere? «Legalmente no, materialmente sì. Anche se non tutti i casi sono uguali e dipende dalla maturità di ciascuno. L’età del ragazzo rende la notizia un po’ meno scandalosa. Se avesse avuto un’età inferiore non ci sarebbero state attenuanti». E i genitori? «È ipocrita affermare che agiscono per il bene del figlio. Sarebbe meglio ammettere che genitori e medici compiono la scelta al posto di un’altra persona». Però c’è il sì dei comitati etici, o non hanno valore? «La burocrazia non ha competenza su casi singoli così tragici. Possono approvare la richiesta di una sperimentazione di nuovi farmaci su pazienti ma non certo intervenire su vita o morte». Mette in dubbio che famiglia e sanitari decidano nell’esclusivo interesse del figlio e paziente? «Le cure palliative che eviterebbero l’eutanasia hanno costi onerosi in Paesi dove non c’è un servizio pubblico sanitario. Non si possono dunque escludere scelte funzionali alla liberazione di un posto letto o all’impossibilità di sostenere le spese». È un sospetto tremendo. «Le spese di sedazione profonda che eviterebbero ogni altro intervento richiedono denaro e un’abilità specialistica. Dunque per quale motivo non sospettare che certe scelte siano determinate da considerazioni funzionali e disumanizzanti?». Pag 26 L’altro ha due volti difficili da unificare di Giovanni Belardelli Negli stessi giorni in cui è stata resa nota la decisione franco-inglese di costruire una muraglia antimigranti a Calais, la sindaca di Parigi Anne Hidalgo ha annunciato la costruzione di un campo di accoglienza nella capitale francese. Due notizie che sintetizzano bene il dilemma e il paradosso in cui si dibatte da tempo l’Europa. È lecito infatti immaginare che presto alcuni (e forse non pochi) dei migranti ospitati e rifocillati a Parigi comme il faut andranno a Calais per cercare di raggiungere in qualche modo la Gran Bretagna, trovandosi di fronte al suddetto muro. L’Altro, il migrante, ha dunque due volti che non riusciamo, nella nostra mente prima ancora che nelle politiche degli Stati, a riunificare: da una parte i derelitti in fuga da guerre e miseria, che vorremmo accogliere; dall’altra (e si tratta sostanzialmente delle stesse persone) gli stranieri di cui spesso abbiamo timore e che cerchiamo di respingere. Ciò che determina un po’ ovunque i successi elettorali dei partiti antimmigrati si lega appunto alla difficoltà di contemperare le ragioni dell’accoglienza con le ragioni della paura, riconoscendo che anche queste ultime possono avere un fondamento. È vero che i migranti non tolgono il lavoro agli italiani: quale lavoro possono mai togliere i clandestini che, nel Sud d’Italia, lavorano 12-16 ore al giorno per 3 euro l’ora? Ma bisognerebbe non vi fossero situazioni come quella descritta tempo fa da Federico Fubini (Corriere del 26 aprile) di centri di accoglienza che garantiscono ai migranti «vitto e alloggio senza lavorare né studiare»; senza neppure l’obbligo di rassettare la propria stanza visto che a ciò pensa una donna delle pulizie. Saranno pure realtà isolate, ma il solo fatto che in qualche luogo d’Italia possano esistere rischia di rendere intollerabile l’accoglienza agli occhi di milioni di italiani in condizioni di difficoltà economica, inducendoli a vedere dell’Altro solo il volto minaccioso. Spesso evochiamo il razzismo per spiegare situazioni di malessere e di paura che invece hanno giustificazioni più semplici e del tutto non ideologiche. È il caso dell’Abetone dove il sindaco un mese fa ha chiesto, su pressione delle famiglie impaurite e preoccupate, di poter vietare ai migranti assegnati al suo Comune (ben 54 su 622

abitanti) il pullman che porta gli studenti nelle scuole dei centri vicini. Accadeva infatti che quei migranti, tutte persone adulte e robuste, imponessero ai ragazzi di alzarsi per lasciar loro il posto. Come si vede, l’Alabama degli anni 60 prontamente evocata dal viceministro Nencini c’entrava poco. In generale, l’impressione, destinata ad alimentare il senso di insicurezza e di paura, è che una vera politica nei confronti dei migranti manchi. Che manchi, in primo luogo, la capacità di stabilire quali sono le regole che tassativamente vogliamo vengano rispettate da chi viene accolto nel nostro Paese. Ancor più, forse, manca il coraggio di affrontare quell’aspetto dell’immigrazione che maggiormente incute timore nell’opinione pubblica. Mi riferisco alla peculiarità che presenta (in Italia e altrove) l’immigrazione islamica. La paura di essere accusati di islamofobia ci impedisce spesso di affrontare la questione in modo serio, guardando in faccia ciò che rende in questo caso più difficile l’integrazione nel nostro sistema di valori e nel nostro ordinamento giuridico. In primo luogo, per riferirsi all’aspetto che riassume buona parte della questione, la posizione della donna rispetto all’uomo. Secondo un sondaggio svolto qualche mese fa in Gran Bretagna, il 39% dei musulmani che vivono in quel Paese ritiene che «le mogli dovrebbero sempre obbedire ai loro mariti». Proprio in Gran Bretagna, anzi, esiste da anni, in nome del multiculturalismo, un sistema giudiziario parallelo che riconosce alla comunità islamica la possibilità di applicare in proprie corti la sharia per tutto ciò che riguarda i diritti familiari (dunque, la sottomissione della donna). Come ha rivelato un dossier di Micromega sull’argomento, la sharia viene applicata anche in Germania, benché in forma clandestina e dunque nel chiuso di alcune comunità islamiche. In Italia, per le minori dimensioni delle comunità islamiche e per la più recente immigrazione, non siamo a questo punto. Ma bisognerebbe sfruttare questo vantaggio per affrontare in tempo la questione; ad esempio verificando davvero che, nel chiuso delle comunità di immigrati, non esistano pratiche incompatibili con i nostri ordinamenti come la poligamia e i matrimoni combinati. In questo modo si otterrebbe anche di dare all’opinione pubblica la percezione che chi governa è consapevole dei problemi legati all’immigrazione e riconosce la fondatezza di certi timori. LA REPUBBLICA di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 L’europeismo fa cadere le spine e fiorire le rose di Eugenio Scalfari Il triumvirato europeo, che sembrava aver raggiunto il suo culmine nell’incontro di Ventotene, parrebbe essere andato in pezzi nel giorno finale di Bratislava venerdì scorso. Hollande e Merkel hanno concordato una linea ben diversa da quella del rafforzamento di un’Europa unita. D’un contenimento dell’immigrazione attraverso una politica africana sostenuta e finanziata dall’Ue e possibilmente anche dagli Usa se dalle imminenti elezioni americane il nuovo presidente seguirà la linea di Obama. La rottura, almeno in parte, si deve al fatto che ciascuno dei tre è alle prese con problemi elettorali e politici di casa propria: le elezioni amministrative e poi tra un anno quelle politiche per la Merkel; le elezioni presidenziali francesi per Hollande; il referendum costituzionale e la legge elettorale per Renzi. Questi appuntamenti essenziali hanno certamente influito su quanto è accaduto a Bratislava, ma non è stata soltanto una triplice sceneggiata. In paesi democratici il potere è sempre in discussione. Oggi, oltre ai nostri tre personaggi, il potere politico è in gioco negli Usa, in Brasile, in Libia, in Siria, in Austria, in Olanda; ha già cambiato colore in Inghilterra. Insomma in mezzo mondo. La democrazia ha un problema centrale: conciliare la libertà con la stabilità. Ed è questo che abbiamo visto a Bratislava. Ma c’è un però: quando queste oscillazioni si fanno sentire, esse mettono in crisi un tessuto che ancora non è stato filato a dovere, anzi ha subìto strappi e lacerazioni che non erano neppure previste. L'Europa è a pezzi. I paesi dell’Est, a cominciare dalla Polonia e dall’Ungheria, stanno navigando come se la Ue non esistesse più; i paesi balcanici sono una costola debole. Austria, Danimarca, Svezia, Svizzera, sentono più la nazionalità che l’europeismo. E non parliamo della Francia, della sua souveraineté e della sua faiblesse. Ed è in questo continente sfilacciato che si scaricano le differenze e le letture di Bratislava. Se però si deve dare un voto in pagella credo che Merkel e Hollande meritino un voto negativo, Renzi ne merita uno largamente positivo. Non mi fa certo velo la comune nazionalità per la semplice ragione che personalmente mi sento soprattutto cittadino europeo avendo sempre condiviso gli ideali di Spinelli, di

Ernesto Rossi e di Colorni. Ma Renzi, da qualche tempo, è anche lui su questa lunghezza d’onda: sta conducendo una battaglia per rafforzare l’Europa e la rottura di Bratislava è arrivata principalmente su questo piano. Renzi ha lanciato insieme a Tsipras e ad Hollande (che però ha cambiato fronte a Bratislava) un patto tra i paesi europei del Mediterraneo per adottare una politica di stabilizzazione in Libia e nei paesi del Corno d’Africa, per arginare la marea delle migrazioni verso l’Europa; ha più volte sostenuto la nascita d’un ministro delle Finanze dell’Eurozona che abbia gli stessi poteri dei ministri economici degli Stati nazionali che verrebbero in tal caso declassati; ha lanciato la necessità d’una politica militare e d’una politica estera di stampo europeo. E così pure l’ipotesi di una Fbi europea per sgominare il terrorismo delle periferie. Una politica di questo genere comporta investimenti e spese che debbono gravare sull’Ue, la quale dovrebbe a questo punto imboccare una politica economica keynesiana. Anche Renzi ha fatto molti errori sulla produttività, sull’occupazione, sulla fiscalità, ma li ha riconosciuti e almeno in parte li sta correggendo. I suoi problemi, quelli che in linguaggio corrente si chiamano le spine d’una rosa, sono altri e ne parleremo tra poco ben sapendo comunque che quelle spine sono molto aguzze e la rosa è un piccolo bocciolo che stenta a fiorire. Ora però, per coerenza con il tema europeo, vediamo che cosa ha detto Mario Draghi che proprio durante il vertice di Bratislava è andato a Trento dove gli è stato conferito il premio De Gasperi. Quel personaggio della storia italiana ed europea gli ha ispirato un discorso di grande importanza, che merita d’essere riferito nella sua sostanza. Di solito Mario Draghi non fa discorsi. Riferisce a platee di banchieri, economisti, membri di governi o al proprio consiglio dove siedono i banchieri centrali dell’Eurozona, sulla situazione economica europea e mondiale, sui provvedimenti che la Bce prenderà in un prossimo futuro e sugli effetti di quelli già presi. Di politica generale Draghi non parla; di politica economica sì, ma sempre con stretta attinenza a quella monetaria che, nei limiti dello statuto della Bce, è lo strumento della sua azione. Tutto ciò ricordato, a Trento Draghi ha parlato della figura di Alcide De Gasperi. Era ovviamente doveroso che lo facesse visto che gli era stato conferito un premio a De Gasperi intitolato, ma ciò che non era previsto era che Draghi non si limitasse a ricordare la vita politica del fondatore e primo leader del partito democristiano, ma affrontasse i problemi dell’Europa di oggi e la politica economica necessaria a risolverli e portare avanti la marcia intrapresa da De Gasperi, Schuman e Adenauer, i quali a loro volta davano un seguito al manifesto federalista di Ventotene. Draghi insomma ha fatto un discorso politico, nel quale la politica monetaria della Bce è entrata di striscio, il tema era ben altro e Draghi l’ha affrontato di petto. Che io ricordi, non era mai accaduto. Il tema di fondo è stato l’Europa. L’Europa rafforzata e dotata di istituzioni molto diverse da quelle attuali che sono soltanto un inizio in buona parte male usate. L’Europa come un continente dal quale (non dimentichiamolo) partì la civiltà che si diffuse poi in altri continenti a cominciare dal Nord America ma non soltanto. L’Europa, ha detto Draghi, deve capire che la società globale nella quale ormai viviamo e che sempre più accrescerà le sue caratteristiche globalizzanti, politiche e tecnologiche, non consente la persistenza di staterelli nazionalistici. Bisogna mantenere e magari rafforzare libertà e sovranità popolare; bisogna convincere popoli e classi dirigenti della necessità dell’unità europea; bisogna che l’opinione pubblica comprenda che questa è la strada da percorrere perché il tempo scorre velocemente e non consente ritardi. La Banca centrale europea, nel suo operare, ha ben presente quell’obiettivo; è suo compito gestire una politica che sia conforme all’obiettivo politico. Del resto De Gasperi e i suoi compagni di strada consideravano il sistema bancario come uno strumento della loro azione che era strettamente politica: ideali, valori, opinioni pubbliche, partiti, sindacati di lavoratori, strutture economiche, parlamenti e popoli sovrani e consapevoli. Questi furono De Gasperi e i suoi amici. E questa è una realtà che va risvegliata e perseguita con la massima energia possibile. Non so fino a che punto l’intervento politico di Draghi sia stato colto dai destinatari ai quali era rivolto, cioè alle forze politiche europee, al capitalismo europeo, ai lavoratori europei. Questo è il compito che tutte le persone consapevoli debbono adempiere. Ma voglio aggiungere un’altra considerazione: una Banca centrale come quella che Draghi presiede non ha un’Autorità politica sopra di lei. Ha uno statuto, ha 19 Stati azionisti. Di fatto significa che Draghi e il Consiglio della banca sono i soli a stabilire gli obiettivi e la politica economica da perseguire. Negli altri paesi la politica economica la stabilisce il governo e la Banca centrale la esegue. Sicché

in uno Stato europeo la politica economica sarebbe fissata dal ministro delle Finanze e dal premier e la Banca centrale, con la sua capacità e competenza, sarebbe uno degli strumenti e forse il più importante insieme a quello fiscale, della politica economica. Draghi queste cose le sa benissimo, il che peraltro non gli impedisce di concepire la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Dobbiamo essergli molto grati del discorso di Trento. Secondo me è una tappa della massima importanza per l’avvenire. Sarebbe bene che la Merkel e Hollande lo leggessero e riflettessero dopo averlo letto. Renzi forse l’ha già fatto e comunque gli raccomando (per il poco che vale il mio suggerimento) di rifletterci con molta attenzione. Le spine di Renzi sono il referendum e la legge elettorale. Finalmente ha capito il legame tra quei due argomenti e si è impegnato a modificare la legge elettorale prima che il referendum abbia luogo. Altro finora non sappiamo. Ma una cosa sappiamo (non io soltanto, da cittadino ed elettore, ma molti nel Pd e molti anche tra i moderati democratici). Sappiamo che legare la legge elettorale al ballottaggio è un gravissimo errore, come è altrettanto sbagliato introdurre le preferenze, frutto marcio di lobby e clientele perfino mafiose. Una legge elettorale democratica non può che basarsi sulla proporzionale. Naturalmente la proporzionale comporta alleanze adeguate che consentano la governabilità e un programma comune. La Democrazia cristiana fu al governo del paese dal 1947 al 1992, sempre con la proporzionale e le alleanze, variabili secondo le circostanze economiche, sociali, ideologiche: con i liberali, i socialdemocratici e i repubblicani; poi nel 1962 con i socialisti di Nenni; poi addirittura con i comunisti di Berlinguer che, dopo lo strappo con i sovietici, erano diventati pienamente democratici e costituzionali. Il totale degli anni che hanno visto la Dc al governo sono durati fino a Tangentopoli, cioè fino all’arrivo di Berlusconi. Da quella data in poi è cambiato l’intero panorama politico. Stabilire se il panorama di oggi sia migliore o peggiore di quello di ieri è un giudizio storico che non possiamo certo affrontare in un articolo. Magari sarà un panorama diverso ma di analogo valore (o disvalore). Ma un fatto è certo ed anche la Corte costituzionale l’ha più volte affermato: i voti degli elettori contano tutti e non possono essere ignorati con premi concessi ad una maggioranza relativa, cioè alla più forte delle minoranze. E pensate che dove non esiste una maggioranza assoluta, se i partiti di minoranza si alleassero tutti, il partito di maggioranza relativa non riceverebbe alcun premio. Qualche cosa di simile può accadere con il movimento di Grillo. Lì ci sono elettori che provengono da sinistra, dal centro, da destra e da chi si è fino ad allora astenuto. Quel movimento non ha alcun programma ma vuole soltanto conquistare il potere. Con il ballottaggio è possibile che lo ottenga. Questo è un risultato accettabile? E salutare per il paese? Per l’europeismo? Per la moneta europea? Ecco perché Renzi deve abolire il ballottaggio, accettare la proporzionale e costruire alleanze compatibili con il programma di governo d’un grande partito di centrosinistra. A mio giudizio dovrebbe aumentare la sua natura di centrosinistra e allearsi con movimenti di moderati, purché siano anche essi europeisti convinti e democratici. Forse in questo caso le spine cadrebbero e il bocciolo di rosa fiorirebbe. AVVENIRE di domenica 18 settembre 2016 Pag 2 Eutanasia di un figlio, la soglia violata di Giuseppe Anzani La burocrazia della morte applicata a un minore L’hanno fatto morire, quel ragazzo malato. Dicono che soffriva tanto e che sarebbe morto di lì a non molto, e tanto vale risparmiare dolore, quando non se ne può più. Dicono che lui era d’accordo, e anzi lo chiedeva, e i suoi genitori dicevano di sì. E la legge ha detto di sì, la legge belga approvata il 28 febbraio 2014. E così alla fine un medico l’ha fatta finita, e la morte s’è presa quel corpo legalmente consegnato. È (forse) la prima volta al mondo che succede, l’eutanasia di un giovanissimo. Di lui non sappiamo con certezza quasi nient’altro, solo con grande fatica alla fine si è conosciuta l’età, 17 anni. Nel mondo, solo l’Olanda e il Belgio hanno leggi sull’eutanasia di minori; ma in Olanda c’è il limite dei 12 anni, sotto i quali è bandita, in Belgio invece non c’è alcun limite minimo, e se un bambino infradodicenne è ritenuto maturo e consapevole nel chiedere la morte la legge apre i circuiti della morte e ve lo incanala. È un percorso recintato fra prognosi mediche senza speranza e stadi terminali e sofferenze fisiche insopportabili che non si possono lenire; una strettoia nella quale s’introduce l’assenso di una équipe medica, e poi il giudizio di uno psichiatra, o psicologo, a vagliare la capacità

di discernimento del minore che chiede di finire; e poi il consenso dei genitori; e quando ogni casella è riempita, il pollice verso è legale, e addio minore. Quando fu fatta la legge, in Belgio, fra aspri contrasti, forse si pensò di dare spiraglio di libertà adulta ai più giovani socchiudendo la porta proibita, il suicidio minorile assistito. Oggi la soglia è stata varcata, violata. Dico la parola suicidio perché il testo di quella legge ribadisce che la domanda di morire deve venire dal soggetto malato, e che i genitori devono essere 'd’accordo'. E qui c’è il primo tremendo quesito sul quale vorremmo interrogare la morte prima che si allontani con la sua prima vittima così giovane, frugando i segreti coperti dal suo mantello nero. Di chi è realmente la domanda, la volontà, la decisione (la libertà, infine, se vi ha gioco in questo genere di vertigini)? Quali fattori determinanti, nel viluppo emozionale e vitale che intreccia la vita del figlio alla vita dei genitori, influenzano l’autodeterminazione (si dice così, ormai) di un bambino, o di un ragazzo, investigata da uno psichiatra? O non è forse proprio la psicologia a metterci in guardia, e a volte in angoscia, su ciò che passa nel cuore di un figlio secondo il crogiolo affettivo che lo circonda, se è fatto di conforto o di desolazione, di sostegno empatico o di rassegnato abbandono? E di tutti gli altri certificatori dell’aiuto al minore 'suicida', protagonisti, un po’ burocratici, della procedura letale, si può chiedere infine chi veramente vuole che muoia chi, e perché? E gli analgesici, gli anestetici, le cure palliative per il dolore della persona, corpo e spirito insieme? Io credo che qualche fremito percorra anche quelli che in Italia si vanno battendo per l’eutanasia in casa nostra, e che in questi giorni ripescano le loro proposte di legge (dove la parola suicidio è scritta bella chiara) dicendo che non bisogna fare dalla vicenda del ragazzo belga uno 'spauracchio di cronaca'. Ma questa è la confessione implicita che quella morte è un contraccolpo nell’anima di tutti: ed esorcizzare la paura non schiverà i quesiti dell’umana civiltà, del senso della vita, di ciò che siamo da vivi e da morti, della polvere di cui siamo impastati e del soffio vitale che ci imparenta con l’eterno. Anche solo sul piano terrestre, la comune appartenenza, l’amore alla vita gli uni degli altri, la sollecitudine per lenire il dolore, la speranza che non s’arrende alla distruzione suicida è lo scampo per non chiuderci nell’orizzonte di una terra del nulla. Pag 3 Chi gioca d’azzardo perde senza saperlo di Leonardo Becchetti Gli effetti negativi della bassa istruzione finanziaria Il presidente del Consiglio ha annunciato recentemente di avere un piano per togliere le slot machines dai bar. Si tratta di un annuncio che, se sarà seguito da attuazione concreta, rappresenta un passo avanti importante nella lotta a una grave piaga del nostro Paese. Gli italiani si vantano di essere un popolo di abili risparmiatori e montano su tutte le furie quando pensano di aver subito torti da parte del sistema bancario. Eppure è come se, di fronte a un addetto che offre loro un’attività finanziaria (azione o obbligazione) che promette un rendimento che oscilla tra il -15% e il -30% aderissero all’offerta con entusiasmo. Nell’interrogazione parlamentare del 18 maggio 2016 il governo ha dichiarato che i consumi dell’azzardo ammontavano nel 2015 a circa 88 miliardi e rappresentavano il 10% dei consumi e il 4% del Pil. La fetta più grossa è quella delle slot machines col 55,8%, seguite dal gioco on line e dal gratta e vinci. Se sono circa 24 milioni quelli che giocano saltuariamente esiste uno zoccolo duro che oscilla, secondo le diverse stime, tra 850mila e 1 milione e 300mila giocatori problematici. Di questi, poco più di 12mila in cura presso centri specializzati quando si stima che almeno 600mila ne avrebbero bisogno. Possiamo immaginare dove va a finire e che problema purtroppo rappresenta questo milione e più di italiani nelle nostre statistiche dell’Italia che cerca di riprendersi e ancora non ci riesce. Per quale motivo una quota ragguardevole di italiani, tradizionalmente scrupolosi e attenti nella gestione dei risparmi, 'compra' ingenti volumi di attività finanziarie che hanno un rendimento atteso negativo? Si tratta di una scelta consapevole o viziata da pregiudizi ed errori di valutazione? Con un’analisi econometrica su dati di questionari raccolti su un campione italiano (Becchetti, Bellucci e Rossetti, 2016, Gamblers, scratchers and their financial education, Aiccon working paper n.153 http://tinyurl.com/jhegfj7 ) abbiamo provato a dare una risposta ricollegandoci anche a risultati di studi simili effettuati in tutto il mondo. Una delle motivazioni più note è che chi gioca compra un sogno, ovvero la possibilità di vincere il montepremi che è la vera attrazione. Interessante osservare che

la stessa evoluzione delle slot machines (dalle videolotteries alle vlt) va nella direzione di offrire questo 'sogno' ai partecipanti. Con le vlt si può giocare di più e soprattutto vincere qualcosa di simile al jackpot dell’Enalotto. Le vlt sono più appetibili anche perché la perdita attesa è inferiore rispetto alle videolotteries (ma pur sempre di perdita si tratta). Chi gioca, purtroppo, molto spesso non è pienamente consapevole di ciò che sta facendo. Numerosi studi internazionali sottolineano i numerosi errori cognitivi dei giocatori. Il primo, favorito dalla struttura del gioco, è quello delle 'perdite quasi vincite', ovvero della probabilità relativamente elevata di vincere un po’ meno del prezzo del biglietto che spinge a giocare nuovamente. Nel nostro studio i giocatori sbagliano sistematicamente per eccesso di ottimismo sul numero di giocate necessarie per rivincere almeno il prezzo del biglietto. La pubblicità ha un ruolo fondamentale nell’alimentare gli errori di percezione. Mettendo sotto i riflettori i vincenti contribuisce infatti a sopravvalutare la probabilità di vincere il montepremi nei giocatori. Altro errore tipico degli stessi è quello di pensare di sviluppare delle abilità particolari giocando, abilità che aumentano le loro probabilità di vincita. Altra caratteristica che emerge chiaramente dalla nostra indagine e dalle indagini tradizionali è quella della peculiarità socio-demografica dei giocatori. Essere disoccupato, pensionato e a basso reddito aumenta le probabilità di essere giocatore. Le lotterie e il gioco d’azzardo si confermano per quello che sono: una forma di tassazione regressiva in cui i poveri pagano più dei ricchi. Un altro dato interessante della ricerca è la relazione tra gioco d’azzardo ed educazione finanziaria: chi acquista biglietti gratta e vinci e chi gioca alle slot ha un’istruzione finanziaria significativamente inferiore. Tornando all’annuncio del governo sappiamo tutti che lo Stato ricava da questo business circa 8,7 miliardi all’anno. Ma questo non vuol dire che perderebbe se l’azzardo sparisse. Quei consumi sarebbero infatti sostituiti da altri consumi con un prelievo medio probabilmente superiore considerata l’aliquota fiscale tutto sommato moderata sui giochi e si ridurrebbero i costi delle dipendenze. La nuova via da percorrere simultaneamente dovrebbe essere quella di investire nell’educazione finanziaria della popolazione per ridurre la propensione al gioco. La ripartenza, la ricchezza di senso di vita e il bene comune degli italiani dipendono anche da questo. Pag 5 “Con le famiglie. Nel dolore” di Enrico Negrotti Intervista a Franco Locatelli, del Bambin Gesù di Roma «Una notizia che ha un impatto emotivo straordinariamente forte. Mi pare un precedente inquietante, pur con tutta la cautela e il rispetto con cui dobbiamo accostarci a una famiglia così provata per aver dovuto affrontare il momento supremo della morte di un figlio ». Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Oncoematologia pediatrica e Medicina trasfusionale dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, ha dovuto più volte confrontarsi con la sofferenza e la morte di minori: «La scienza oggi ha mille strumenti da offrire al paziente, sia nel controllo del dolore, sia nel supporto nutrizionale e respiratorio». Come si gestisce il fine vita di un minore? È importante che il medico, ancor più un pediatra e un oncologo, sappia mettersi in gioco, dialogare, non dare mai la percezione a genitori e malati di essere abbandonati e non aiutati. Nelle fasi finali ai genitori dico sempre che se l’obiettivo prioritario è la guarigione, non meno importante è l’accompagnamento nella terminalità. Compito del medico è anche contenere le ansie, offrire una rete che aiuta a sopportare un passaggio difficilmente tollerabile come la morte di un figlio. Come si può riuscire in questo compito? Occorre instaurare un rapporto fiduciario basato sulla più assoluta onestà e trasparenza e sulla capacità di adottare modelli che meglio si sposano con il profilo etico e culturale della famiglia. Ovvio che bisogna evitare l’accanimento, ma siamo ben lontani dall’eutanasia. Con il minore come ci si rapporta? Vale ancora di più il principio di deontologia medica che occorre evitare il più possibile di causare sofferenze fisiche o psichiche e quindi i drammi morali. Con gli adolescenti è bene evitare di dare la percezione della terminalità, perché ha un impatto psicologico devastante senza dare alcun vantaggio terapeutico. Senza essere stupidamente illusori

per non perdere credibilità, evitando però di causare sofferenza psichica gratuita: la presa in carico deve essere olistica. Accanto al medico è decisivo il contributo di infermieri e psicologi. E con un bambino? Occorre cercare di mantenere serenità con una proiezione sul futuro. A un bimbo di 6-7 anni che sta male puoi dare supporto facendo progetti per momenti ricreativamente gratificanti, non bisogna dargli l’impressione che non ci sarà un domani. Non si rischia l’accusa di non dire la verità? Non bisogna dire bugie ma neanche ogni verità, se non cambia l’evoluzione di quel che resta da vivere. Per gli adulti è diverso, per i giovani si rischia solo di causare angoscia. E il medico verrebbe meno al principio deontologico di non causare sofferenza, anche psichica. IL GAZZETTINO di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 Decisione-choc che lascia molti dubbi di Massimo Adinolfi Il primo caso al mondo di eutanasia su un minore non può non suscitare dubbi e interrogativi. In Belgio, dove si è dato il caso, la legge autorizza trattamenti eutanasici, senza porre limiti di età, quando il malato sia affetto da un male incurabile, giunto allo stadio terminale, e la sofferenza patita sia costante e intollerabile. Occorre che siano rispettati, e rigorosamente osservati, tutti i pilastri su cui si regge l’eutanasia legale: non solo lo stato clinico, ma anche una adeguata e completa informazione, e soprattutto l’accertamento della volontà del malato. Ora è chiaro che, nel caso di un minore, è molto più difficile stabilire queste ulteriori condizioni. Il significato stesso dei termini coinvolti nella decisione è molto meno netto di quanto non sia per una persona adulta. Che cosa vuol dire morire? Cosa vuol dire compiere una scelta irreversibile? E cosa l’assenza di alternative? In che modo risponda a queste domande un ragazzo, o un bambino, e quanto la risposta sia meditata, riflessa, matura, è tanto più difficile dire, quanto più bassa è l’età del minore. Certo, la legge belga prevede il concorso dei genitori, oltre ai pareri medici, ma il nodo non resta meno intricato, e anzi delicatissimo da sciogliere: quanto sia individuale, indipendente, autonoma, la volontà del minore, che magari ha vissuto solo pochi anni, per giunta in condizioni di salute particolarmente gravose. D’altra parte: si possono lasciare i genitori e i loro figli soli e senza strumenti, in situazioni estreme, quando il male avanza, la sofferenza si fa insopportabile, e ogni altra via è preclusa? È vero: la medicina oggi dispone di molti modi per alleviare la percezione del dolore, ma rimane comunque la necessità di decidere, o per alcuni di non decidere, sul modo in cui una vita umana giunga alla sua fine: se in condizioni dignitose, umane, compassionevoli. Chiunque sia stato vicino a un malato terminale sa quanto dura sia la prova a cui egli è sottoposto, e come la morte possa diventare, in certi casi estremi, l’unico sollievo dal dolore, o l’unica maniera di mantenere il rispetto di sé. È il più grande degli scandali: che un innocente soffra, e soffra al punto che si spenga in lui persino la volontà di vivere. Ma il bambino è il più innocente fra gli innocenti, e la sua sofferenza è la più scandalosa fra tutte. Ne "I fratelli Karamazov", Dostoevskij fa esprimere a Ivan, il più ‘teologo’ dei fratelli, tutta l’enormità di quella sofferenza inutile: in nessun modo redimibile, in nessun modo riscattabile. La più dura obiezione contro l’esistenza di Dio. Di più: Ivan trova ancor più impensabile che si provi a giustificarla, quella sofferenza, a dargli un senso o una ragione. Gli sembra un’offesa ancora più grande provare a inserirla in un qualunque disegno provvidenziale, misterioso o imperscrutabile che sia. Chi domanda di morire non ha più ragioni per vivere, ma forse non vuole neppure altri gliele forniscano, sottraendogli non solo il diritto di disporre della propria vita, ma anche il diritto di lasciarla fuori, definitivamente fuori da qualunque rete di parole. Logos – parola, discorso, ragione – vuol dire infatti originariamente raccogliere, raccolta. È lo spazio in cui la vita umana, in quanto umana, si raccoglie, viene sottratta a una dimensione soltanto naturale, biologica, per legarsi a quella degli altri: in una possibilità di ascolto e di dialogo, in una narrazione condivisa, in una storia comune. Chi muore, muore a tutto questo. Chi vuole morire, vuole morire a tutto questo: è giunto in una landa estrema, solitaria, abissale, in cui le parole sono spente del tutto dal dolore, non possono più raggiungerlo, abitarlo, comprenderlo. Non possono spiegare e nemmeno alleviare. Ma un ragazzo? O un bambino? Come si precisa la sua volontà di sfuggire alla

rete del mondo? Dobbiamo ovviamente supporre che siano stati rigorosamente rispettati i protocolli previsti dalla legge, condotte tutte le verifiche e seguite tutte le procedure: il fatto che questo primo caso giunga a distanza di circa due anni dall’approvazione della legge dimostra che la legge non banalizza il diritto a morire per un minorenne. Sarebbe perciò una vera iattura se si conducesse la discussione a colpi di paragoni con le politiche eugenetiche del nazismo e il programma di eliminazione dei disabili, dal monte Taigeto, a Sparta, alle sperimentazioni "in vivo" dei medici del Führer. Tutto questo non c’entra nulla. Ma anche il lessico dei diritti e delle libertà individuali – che è il lessico del nostro tempo – deve chiedersi se ha davvero tutte le parole giuste per spingersi in queste difficili zone di confine, in cui non coincidono o non sono ancora tutte formate individualità, personalità e vita adulta e autonoma. Delicatezza, umanità, ma anche prudenza e senso del limite sono dunque indispensabili per procedere senza inutile baldanza, sia nella discussione pubblica che nella discussione in Parlamento. Solo così, se si farà una legge, potrà essere anche una buona legge. Pag 1 Questa Europa fa il gioco dei populisti di Romano Prodi Domenica scorsa, nel consueto appuntamento settimanale con i lettori, scrivevo che si stava aprendo una settimana cruciale per il futuro dell'Unione Europea. E così è stato. Non però nel senso positivo. Martedì scorso i progetti esposti dal Presidente della Commissione di fronte al Parlamento Europeo sono stati infatti molto più timidi di quanto previsto. E non hanno incluso, come invece si sperava, la proposta di un necessario rilancio degli investimenti e della ricerca. Indubbiamente Juncker si è reso conto che su questi temi non avrebbe trovato l'appoggio sufficiente e si è dovuto perciò limitare a dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte, auspicando maggiore flessibilità ma aggiungendo però che non si poteva andare al di là delle rigide regole vigenti. Il colpo più grave è venuto però nel vertice di venerdì. I 27 capi di governo convenuti a Bratislava (mancava ovviamente la Gran Bretagna) si sono esibiti in reciproche manifestazioni di amicizia nella gita sociale sul Danubio e si sono duramente scontrati intorno al tavolo delle trattative. I maggiori punti di dissenso sono stati due: l'immigrazione e la politica economica. Sull'immigrazione la discussione si è totalmente incentrata nell'affrontare i rapporti con la Turchia (ovviamente prioritari per la Germania), ignorando il fatto che il flusso dei migranti arriva ormai quasi esclusivamente dalla Libia in Italia. La proposta, soprattutto italiana, di impostare un grande piano economico di sviluppo per l'Africa, è stata del tutto ignorata e ci si è limitati ad affrontare il problema del pattugliamento marittimo delle navi sotto l'egida dell'Unione Europea. Il che è prioritario dal punto di vista umanitario ma non può non tenere conto che oggi la solidarietà si ferma nel momento in cui queste navi scaricano i poveri emigranti sulle coste siciliane. Nessun progresso sulle quote di accoglienza e, soprattutto, nessuna consapevolezza della necessità di prendere un'iniziativa europea forte e duratura nel tempo per lo sviluppo dell'Africa. La motivazione per non fare nulla si è fondata sull'ovvia considerazione che vi sono anche tanti emigranti che arrivano dall'Asia, come se la responsabilità europea nei confronti dell'Africa non fosse diretta e particolare. Quest'inerzia la pagheremo cara in futuro. Il secondo punto di dissenso ha riguardato l'eterno problema della politica economica. Non solo sono state ribadite le regole sui limiti alla flessibilità ma non è stato nemmeno affrontato il capitolo del rilancio degli investimenti per uscire dalla crisi che ancora paralizza lo sviluppo europeo. Nemmeno è stata messa in discussione la strategia da seguire in conseguenza della Brexit. Si è solo tacitamente preso atto che il governo britannico non ha nessuna intenzione di cominciare le trattative entro la fine dell'anno. Se ne parlerà forse a febbraio. Dato che queste complicate trattative dureranno al minimo due anni, siamo di fronte ad un periodo di incertezza potenzialmente eterno. Potremmo quindi definire il summit di Bratislava come il vertice del rinvio. Fino a quando? Come in ogni occasione di questo tipo si è fissato un nuovo appuntamento che, in questo caso, dovrebbe essere il prossimo 25 marzo, in occasione del sessantesimo anniversario della firma del trattato di Roma. In questa situazione di crisi e di incertezza sei mesi sono già un'eternità ma, nel nostro caso, non si riesce nemmeno a capire come, da qui ad allora, possa accadere qualcosa di nuovo. In marzo saremo inoltre nell'immediata vigilia delle elezioni presidenziali francesi e in piena campagna per le elezioni parlamentari tedesche. Ci

troveremo quindi in una specie di semestre bianco nel quale prendere decisioni sarà quasi impossibile. Penso che, in tale situazione, la scelta del Presidente Renzi di non partecipare alla conferenza stampa finale insieme alla Merkel e a Hollande sia stata del tutto corretta. Renzi ha dovuto prendere atto che Hollande aveva scherzato quando ad Atene si era schierato in linea con la politica economica dei paesi del sud del mediterraneo. Nonostante il cattivo andamento dell'economia francese ed il crescente disagio interno nei confronti dell'attuale strategia europea il Presidente Hollande non si sente evidentemente in grado di contribuire ad elaborare un'alternativa all'attuale politica di austerità. Come è avvenuto a Bratislava, al termine dei prossimi vertici si ripeteranno quindi le tradizionali conferenze stampa che vedevano la cancelliera tedesca dettare le conclusioni ed il Presidente francese felice di condividere il palco con il comandante in capo dell'Unione Europea. Se così stanno le cose non dovremo sorprenderci se vi sarà un ulteriore passo in avanti dei partiti e dei movimenti anti-europei. L'Unione Europea è nata infatti per risolvere insieme i problemi e non per condizionare interamente i tempi e i modi della risoluzione agli interessi elettorali dei governi dei paesi membri. Capisco che il primo obiettivo di ogni governo è quello di vincere le future elezioni ma, se questo rimane l'unico obiettivo, il declino dell'Europa è segnato. A Bratislava, nonostante qualche espressione di buona volontà, si è purtroppo marciato in questa direzione. LA NUOVA di domenica 18 settembre 2016 Pag 1 Il referendum e la ripulsa per le élite di Roberto Weber «La reputazione, la reputazione, la reputazione! Oh, ho perduto la mia reputazione! Ho perduto la parte immortale di me stesso, e ciò che resta è bestiale!» (Othello, atto 2, scena 3) Più o meno 400 anni fa Shakespeare – che del cosiddetto “teatrino” della politica se ne intendeva – mostrava di non nutrire alcun dubbio sul valore della reputazione. Curiosamente in Italia per una molteplicità di ragioni il termine viene stabilmente e durevolmente acquisito per quanto riguarda la sua accezione positiva, mentre la valenza della “cattiva reputazione” conosce una navigazione più accidentata. Ciò accade per vari motivi, ma fra tutti forse è predominante una motivazione assai subdola legata ad un’errata autopercezione che le élites economico-finanziarie italiane hanno di sé. Essa appare determinata da meccanismi di autoincensamento, da riflessi mediatici, o più generalmente da sottili forme di ipocrisia suggerite dai milieu di appartenenza. Capita quindi – e in una stagione pervasa da narcisismo come quella in cui viviamo capita forse con maggior frequenza di un tempo – che essi abbiano di sé una considerazione sbagliata, eccessiva, non in linea con il percepito dell’opinione pubblica. In sostanza si sentono “buoni” e sono percepiti come “cattivi”. Il male naturalmente non è solamente italiano e di tanto in tanto – in particolare quando ci sono accelerazioni che mettono a repentaglio equilibri di sistema e viene data la parola al “popolo”– accade che esso affiori anche in altri paesi. È il caso – crediamo – del complesso fenomeno legato alla cosiddetta Brexit. Nell’analisi di quanto accaduto sono state privilegiate varie chiavi di lettura: quella demografica, quella sociale, quella identitaria, quella territoriale, quella mediatica etc. Pochissimi hanno preso in considerazione il peso dello schieramento rumoroso e massiccio delle istituzioni finanziarie a favore del Remain. Si tratta di un’inferenza naturalmente, che tuttavia si può agevolmente raccogliere analizzando il desolante standing reputazionale delle banche inglesi. Insomma l’imperio dei “mercati” sarà pure ineludibile, ma decisamente provoca una reazione di ripulsa fra la gente. Per una sorta di eterogenesi dei fini, quindi, un supposto valore reputazionale fatto pesare sul piatto della bilancia del Remain, ha sortito l’effetto opposto e i “valorosi soccorritori” si sono trasformati in “incauti affondatori”. Se guardiamo alla partita che sta giocando il premier Renzi con il referendum, ci sembra che nel quadro dello schieramento che si va configurando a favore del Sì, vi siano presenze che potrebbero finire per svolgere un ruolo del tutto analogo. All’inizio dell’estate avevamo lasciato il Sì confortevolmente avanti di una decina di punti. Oggi lo ritroviamo a condurre, ma con un vantaggio più limitato. Gli indecisi rappresentano ancora più di un quarto dei potenziali votanti, ma nel frattempo la quota che si è spostata ha premiato il No. Cosa è accaduto nel frattempo? La discesa in campo – senza se e senza ma – dell’uomo in maglioncino Sergio Marchionne, il richiamo da ultima spiaggia (“Il Sì è vitale”) di Confindustria e –

spettacolare per la consueta grossolanità – l’intervento a gamba tesa dell’ambasciatore americano Phillips. Tutta gente che “reputazionalmente” rappresenta un peso piuttosto che un vantaggio. Naturalmente tutto si tiene e tutto si spiega e si potrebbe dire che «la zavorra uno se la sceglie», però dispiace perché Renzi aveva fatto davvero del suo meglio per togliere “muscolarità” e mettere intelligenza nella campagna elettorale, depoliticizzando e depersonalizzando il confronto. Per fortuna sua mancano ancora un paio di mesi all’appuntamento e sugli orientamenti finali conterà anche il valore degli avversari: un quadro assai colorito che va da D’Alema a Salvini, da Zagrebelski a Berlusconi (?), da Brunetta a Meloni, da Bersani(???) a Beppe Grillo, passando per Di Battista e Di Maio (quello di Pinochet in Venezuela). Ma questa è un’altra storia, ancora tutta da scrivere. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 L’orgoglio di servire il suo Paese di Ferruccio de Bortoli Serietà e competenza «È la migliore intervista che ho fatto». «Quale presidente? Non l’ho letta». «E forse non la leggerà mai». Aveva l’aria quasi divertita Ciampi nel suo ufficio di senatore a vita, pochi mesi dopo aver lasciato il Quirinale. Quella mattina era soddisfatto di aver portato a termine un compito gravoso: rilasciare all’archivio di Stato un resoconto dettagliato, con tutti i documenti e gli appunti personali, dei suoi sette anni al Colle. L’etica repubblicana dell’ex governatore della Banca d’Italia (dal ‘79 al ‘93), diventato politico per necessità (del Paese, non sua), presidente della Repubblica dal ‘99 al 2006, imponeva l’assolvimento scrupoloso di ogni incombenza, anche la più piccola. Con meticolosità calvinista, acribia maniacale. La sindrome della scrivania vuota la sera, pulita, senza cose da evadere. In banca, una volta, si faceva così. In estrema sintesi: senso del dovere e grande rispetto delle istituzioni. Istituzioni che Ciampi ha servito, sentendosene onorato, e mai occupato con sufficienza o persino con disprezzo come gli capitò di notare negli anni in cui dovette contenere il berlusconismo più rampante e anche un certo pressappochismo della sinistra di governo. Una disciplina quasi militare la sua, esercitata alla scuola della Banca d’Italia. Palazzo Koch era (ed è) una roccaforte del rigore quasi estranea al costume italiano, un’eccellenza nazionale che suscita più invidia e sospetti che ammirazione e gratitudine. Aveva un metodo di lavoro prussiano. «Mi concentro su una cosa alla volta, con calma». La Banca d’Italia è stata per lui la seconda famiglia, il luogo da amare, la stanza del potere discreto che si esercita con la moral suasion, dove il tratto fermo e gentile è l’arma di governo più efficace. Una prassi che non conosce le durezze espressive del comando. Non c’è bisogno di gridare per farsi obbedire, né di battere i pugni sul tavolo. L’autorevolezza conta più delle amicizie influenti; le prove di serietà sono il migliore biglietto da visita. Non che Ciampi non avesse le sue durezze. Ricordo una sua telefonata particolarmente piccata quando il Corriere scrisse che non sarebbe succeduto come capo del governo a Prodi nel ‘98. Ci sperava e pare avesse già scritto il suo discorso. In uno dei tanti colloqui che avemmo, mi raccontò che negli anni più difficili per l’economia italiana, nei momenti più bui delle responsabilità a Palazzo Chigi e in via XX Settembre, la sede del ministero dell’Economia, teneva in tasca un biglietto con il grafico della differenza dei tassi italiani rispetto a quelli tedeschi. Quel divario in termini di costo del denaro sarebbe diventato sinistramente famoso con la parola spread. Prima della moneta unica aveva raggiunto anche i seicento punti base, un disastro per il servizio del debito italiano. Ciampi misurava i successi del governo con la riduzione di quel divario. Teneva costantemente sotto osservazione il grafico come fosse una pagella inappellabile. E non perché fosse ossessionato dal giudizio dei mercati e dal loro potere. Ma perché einaudianamente, da buon padre di famiglia, in questo caso molto allargata, faceva di conto. Oggi lo si fa assai meno. Ed era consapevole che senza una buona reputazione, senza dimostrare serietà di comportamento non si sarebbe andati da nessuna parte. L’Italia si sarebbe piegata sotto il peso dei propri difetti oltre che per il fardello del debito. Il suo governo uscì dalle secche pericolose della speculazione, consolidò il risanamento avviato da Amato dopo la crisi valutaria del ‘92 che coincise anche con l’attacco della mafia allo

Stato. Una tempesta valutaria che si scatenò quando, da governatore della Banca d’Italia, ricevette la telefonata più drammatica della sua vita. La Bundesbank lo avvertiva che non avrebbe più sostenuto il cambio della lira, difesa già costata un’emorragia di riserve. Negli anni in cui fu, nei governi Prodi e D’Alema, alla guida dell’economia vinse il sospetto degli alleati, in particolare i tedeschi, suscitò l’ammirazione di «falchi» come il ministro delle Finanze di Berlino Theo Waigel e, persino, del suo terribile collega olandese Gerrit Zalm. Il suo credito personale è stato tra i fattori di successo della rincorsa italiana per entrare nella moneta unica. E non dimenticheremo mai la sua espressione soddisfatta ed emozionata quando mostrò, fresco di conio, il primo euro uscito dalla Zecca. Era la vittoria di un ideale, nato tra le macerie della guerra e della Resistenza, combattute con onore, e coltivato nel sogno di Ventotene, nelle suggestioni azioniste e nell’entusiasmo repubblicano. L’euro come moneta di pace. Immaginiamo la sofferenza intima che un grande europeista come lui deve avere provato nell’assistere al lento e inesorabile indebolimento dell’Unione Europea, prigioniera degli egoismi nazionali. E il dispiacere nel vedere che i fantasmi del passato e i veleni del totalitarismo combattuti dalla sua generazione ricomparivano un po’ ovunque, specie in quell’Est che deve all’Unione Europea libertà e benessere. Un italiano per bene, orgoglioso di aver servito il suo Paese, è stato - e lo sarà ancora nel posto che la Storia gli riserverà - il simbolo della serietà e della competenza. Merce rara, diciamolo. Il suo settennato ha avuto come obiettivo, quasi una missione, quello di rianimare il concetto di patria, di restituire agli italiani l’orgoglio dell’appartenenza, la gioia di cantare l’inno. Compito non facile in un Paese in cui durante la Guerra fredda c’era chi di patrie ne aveva due e il tricolore era appannaggio politico solo della destra. Ricordo che in un pranzo al Quirinale, appena insediato nel ‘99, mi disse che avrebbe voluto visitare tutte le province italiane. Impegno che rispettò quasi fosse un fioretto laico. In quell’occasione il suo consigliere Arrigo Levi fece firmare a tutti i presenti il menù e promise che li avrebbe raccolti per i successivi sette anni. «Si rispettano tutti gli impegni, anche i più piccoli». Sorridemmo. La tenacia di Levi venne premiata, come quella del presidente. Tra le sue eredità, l’organizzazione delle celebrazioni nel 2011 del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. L’occasione per celebrare il ritorno del senso di patria che per lui non era morto l’8 settembre del 1943. Un testimone raccolto, splendidamente, dal suo successore Napolitano. Quel marzo del 2011 rimane nella memoria collettiva degli italiani, al pari di Torino 1961, un momento significativo della costruzione identitaria nazionale. L’economista Ciampi, che era laureato in Lettere, il banchiere centrale più mitteleuropeo che romano, ha sempre avuto per la politica un grande rispetto, pur tenendosi a distanza. Ne temeva le insidie anche se ne sentiva il fascino che a volte per un tecnico può essere irresistibile. Non coltivò però il sogno di improbabili discese in campo, quando dovette preparare con il suo governo le elezioni che nel ‘94 videro il primo trionfo di Berlusconi. Rinunciò al comizio finale che per le regole delle tribune politiche spetta al presidente del Consiglio in carica. Si ritirò in buon ordine in un piccolo ufficio messogli a disposizione dalla Banca d’Italia. Non sperava di tornare al governo e nemmeno di andare al Quirinale. Il Corriere , in un editoriale a firma di chi scrive, lo propose nella primavera del ‘99 come il candidato più autorevole. Ciampi chiamò la mattina seguente. «Grazie direttore, ma non so se mi ha fatto un favore». Poche settimane dopo l’accordo sul suo nome fu trovato con un consenso ampio. E la nomina avvenne al primo scrutinio. In un clima di concordia nazionale del quale oggi abbiamo profonda nostalgia. Pag 1 Mossa studiata anche per parlare agli elettori di Francesco Verderami Cameron ha perso Downing Street sulla Brexit, Merkel ha perso alcuni Land sull’immigrazione, Hollande sta perdendo l’Eliseo sulla sicurezza e Renzi non vuol perdere Palazzo Chigi sulle riforme costituzionali. Perciò il premier usa il vertice di Bratislava come un palco da cui parlare agli italiani. Renzi si rivolge a quella parte ormai maggioritaria del Paese che su economia e immigrazione è stanca di un’Europa dei fiscal compact e dei piccolissimi passi. E siccome è stata proprio l’Europa il fattore comune nelle avversità dei suoi colleghi a Londra, Berlino e Parigi, il capo del governo cerca di evitare la stessa sorte nel referendum da «lascia o raddoppia» che si appresta a indire, e si scaglia contro l’Unione a trazione franco-tedesca. Così nei giorni della convention dei

«moderati» di Parisi a Milano e del raduno dei «populisti» di Salvini a Pontida, prova a lanciare un’Opa sugli elettori di centrodestra che gli sono indispensabili per garantirsi la vittoria nelle urne. È vero che la svolta contraddice la narrazione renziana, la storia di un’Italia «tornata protagonista» a Bruxelles e nelle relazioni con le maggiori cancellerie continentali. D’altronde l’idea che dopo il divorzio del Regno Unito dall’Europa si celebrasse un matrimonio a tre, era stata l’illusione di una giornata a Ventotene. Renzi è partito da Roma avendo già maturato l’intenzione di rompere con Merkel e Hollande, perché - sapendo anzitempo quale verso avrebbe preso la riunione di Bratislava - si era reso conto di non potersi omologare ai vecchi riti: la sua leadership sarebbe parsa ininfluente nell’Unione e sarebbe stata ulteriormente intaccata in Italia. Così, se è vero che in patria la cancelliera tedesca e il presidente francese tengono famiglia, cioè governo, Renzi ha voluto far capire che non è disposto a mettere a repentaglio la sua. Sull’immigrazione l’Italia è stata «lasciata sola», visto che la Germania si è messa a parlare francese in tema di sicurezza, asilo e chiusura delle frontiere. Sulla difesa comune la Francia si è messa a parlar tedesco, e qualche settimana dopo aver fatto pubblicare su Le Monde un articolo firmato dai ministri di Parigi e Roma, ha siglato un documento solo con Berlino. Sull’economia prima Hollande si è schierato con Renzi al vertice di Atene, poi non è parso offrire sponde al premier italiano nella dura trattativa a Bruxelles sulla flessibilità dei conti pubblici. Magari l’inquilino dell’Eliseo avrà cambiato linea per sfuggire alla pressione dei tedeschi, dato che Schauble e Weber lo avevano additato insieme al premier italiano di esser stato un «irresponsabile» per aver partecipato all’incontro di Tsipras, sta di fatto che ieri nel Pd renziano si parlava di Hollande come del «compagno traditore». La verità è che le elezioni ci sono in ogni Paese, e a Roma ci si prepara allo show down referendario. Così, visto che il triangolo non c’è, Renzi si è messo a ballare da solo: una mossa obbligata forse, di certo assai spregiudicata. Ma utile a suo giudizio per conquistare consensi nella sfida sulle riforme costituzionali. Per questo ha denunciato che l’Unione non ha cuore, che non tiene nemmeno in conto i costi della sicurezza dei ragazzi nelle scuole. L’attacco pubblico gli serve per ritagliarsi più spazi di manovra nelle prossime riunioni riservate, alla vigilia della legge di Stabilità. In presenza di una Commissione debole e in assenza di una prospettiva politica comune nell’Unione, il premier ha deciso di non mostrarsi allineato e coperto: «A chi poi?». Perché Renzi ritiene che - in questo contesto disgregato - la diga europea franco-tedesca finirà per crollare. E allora si scansa, confidando di salvarsi. Il triangolo non c’è più, anzi non c’è mai stato. Gli ambasciatori italiani hanno provato a spiegare allo stato maggiore renziano quanto sia forte l’asse Parigi-Berlino, raccontando che funzionari dei ministeri francesi lavorano fissi in Germania e funzionari dei ministeri tedeschi lavorano fissi in Francia: «Ora capite?». Renzi ha capito che doveva far qualcosa in Italia. Se la mossa servirà a cambiare verso anche in Europa, bene. Sennò c’è da vincere quel referendum che deciderà il suo destino: per riuscirci ha bisogno di quegli italiani moderati stanchi dell’Europa germanizzata. Uno slogan berlusconiano. Infatti è lì che ieri il premier ha voluto fare breccia. Nel giorno della morte di Ciampi. Pag 1 Da Ventotene a Bratislava di Franco Venturini Nessuno si aspettava che il consulto di Bratislava potesse guarire la malattia esistenziale dell’Europa, ma non era nemmeno previsto che al termine del vertice il presidente del Consiglio italiano sparasse ad alzo zero sui ritardi e sulle disfunzioni dell’Unione. Mentre la Cancelliera Merkel e il presidente Hollande assicuravano in una conferenza stampa congiunta che sulle rive del Danubio era stato fatto un buon lavoro, Matteo Renzi si è detto di avviso contrario. Renzi ha usato una fermezza di linguaggio raramente riscontrabile negli annali degli appuntamenti europei. «Non sono soddisfatto delle conclusioni», ha detto, e «non devo fare una recita a copione per far vedere che siamo tutti uniti». Così, oltre ad esprimere il suo giudizio negativo sugli esiti dell’incontro, Renzi ha spiegato il fatto di non essere a fianco della Merkel e di Hollande. Ma la requisitoria non si è fermat qui. Non tutto è andato come doveva andare, ha insistito Renzi, sui temi-chiave dell’immigrazione e della crescita economica. E ancora, il fiscal compact non funziona, la Germania non rispetta la regola sul surplus commerciale, la crescita langue, e poi la stoccata finale: «Se l’Europa deve riavvicinarsi ai cittadini non può impedirmi di intervenire sull’edilizia scolastica» . Ovvio riferimento alla richiesta italiana di escludere

dal calcolo del deficit alcune spese relative al dopo-terremoto. Tutto vero, ma anche tutto sorprendente. Non per l’irritualità, che anzi serve talvolta a bilanciare una tradizione italiana di eccessiva prudenza. Ma piuttosto perché Matteo Renzi ha deciso di andare all’assalto di una Europa effettivamente smarrita davanti alle istanze dei suoi popoli nel momento in cui, da Ventotene a Maranello, all’Italia era stato riconosciuto un ruolo di primissimo piano favorito dal distacco della Gran Bretagna. A Bratislava questo ruolo si è dissolto nell’assemblea dei Ventisette? È possibile, ma era anche prevedibile. E ora, mantenendo tutta la fermezza necessaria sulla questione dei migranti e riaffermando che i margini di flessibilità sono necessari, servirà al governo l’ennesima correzione di rotta. Altrimenti le celebrazioni di marzo a Roma per il sessantesimo dei Trattati non soltanto non saranno più il punto di arrivo della «riflessione» collettiva lanciata ieri, ma rischieranno di diventare anche una occasione politicamente scomoda. Bratislava, beninteso, non è stata soltanto Renzi. Troppo divisi sulla diagnosi e troppo attenti ai loro privati interessi, i ventisette dottori chiamati al capezzale dell’Unione hanno riscontrato una seria nevrosi: l’Europa oggi non si piace, non sa come vuole essere domani, e nel frattempo rischia la frammentazione. Così, disarmati da una sceneggiatura che prevedeva dosi inadeguate di coraggio politico, i capi di Stato e di governo si sono accontentati di un minimo comun denominatore che dirà assai poco a quei popoli europei che, con la scheda elettorale in tasca, reclamano risposte sull’ondata migratoria, sul terrorismo e sullo stato dell’economia. Non può rassicurare il fatto che i dirigenti europei stiano affrontando una fase di assoluta emergenza con il passo dell’ordinaria amministrazione. La road map di riflessioni e di proposte sull’Europa del futuro troverà sul suo cammino ostacoli formidabili che in terra slovacca sono stati accuratamente infilati sotto il tappeto. L’integrazione differenziata è l’unica àncora di salvezza disponibile, ma nessuno l’ha definita ed è dubbio che essa possa funzionare anche nello zoccolo duro. Il recupero delle istanze sociali che il populismo anti-europeo raccoglie un po’ ovunque richiede interventi immediati. E il progetto di difesa europea, se rappresenta certamente un passo avanti, riguarderà soltanto marginalmente i fenomeni migratori e la lotta al terrorismo. Nel frattempo il Gruppo di Visegrad si presenta ormai ai vertici europei con una agenda concordata e separata, che punta esplicitamente a una «contro-rivoluzione culturale» che dovrebbe restituire sovranità ai singoli Stati. E continua a rifiutare le quote obbligatorie per la redistribuzione dei migranti, come Renzi ha focosamente ricordato. In Olanda, dove si voterà a marzo, la destra favorita ha promesso un referendum sull’Europa. Poi viene la Francia, dove una vittoriosa Le Pen renderebbe vana ogni riscossa europeista. E in Italia ci sarà il referendum che inquieta i nostri soci e alleati, e ci sono i Cinque Stelle che non hanno mai rinunciato a un referendum sull’euro. Infine il test decisivo tra un anno, nelle urne tedesche. Se a fare la diagnosi non ci avranno già pensato altri. Pag 2 Ciampi, il presidente dei cittadini di Marzio Breda «Nella politica italiana sono stato un corpo estraneo. In nulla assimilabile alla filosofia e allo stile che hanno guidato, e ancora guidano, i comportamenti di molti esponenti di partito... e tale del resto mi hanno fatto sentire. Ne ho avuto prova in tante occasioni». Negli ultimi anni ragionava così Carlo Azeglio Ciampi, se gli chiedevi quanto la sua esperienza di uomo delle istituzioni si rispecchiasse nella vita pubblica nazionale. Aveva ragione, e dunque non ha sbagliato chi, vedendolo salire per la prima volta al Quirinale, lo definì una sorta di «Giovanni senza terra» nell’elitario e chiusissimo regno dei poteri alti. Infatti, uno come lui era davvero quasi un irregolare nell’establishment di un Paese che, da quando si è cominciato a parlare di Seconda Repubblica, ondeggia sempre più torpidamente tra familismo, conformismo, opportunismo, cinismo, asocialità diffusa, indifferenza all’etica e qualche scatto di collera senza coraggio. Insomma, un Paese dove, per passaggi progressivi, il rifiuto della responsabilità rischia ormai di diventare una regola. Eletto plebiscitariamente (con 707 voti su 1.010) capo dello Stato il 13 maggio 1999 in un contesto di estrema emergenza e scelto al di fuori del Parlamento (come Enrico De Nicola, il primo presidente, provvisorio), Ciampi ha rappresentato l’ultima risorsa per un’Italia che sperava in un armistizio, dopo il discredito, le incertezze e le convulsioni provocate dalla generale tabula rasa post-Tangentopoli. Del resto, il suo stesso profilo prometteva un impegno «all’insegna della terzietà» di un’istituzione i cui

titolari, da Cossiga a Scalfaro, avevano già parecchio allargato la «fisarmonica» delle proprie prerogative. Forte fin dall’inizio il carico di attese riversate su di lui, che gli italiani avevano già cominciato a conoscere e rispettare. Da governatore di Bankitalia, da premier tecnico nell’ annus horribilis 1993, da superministro dell’Economia che ci aveva traghettato nell’euro. Nato a Livorno il 9 dicembre 1920 da una famiglia piccolo-borghese (il padre ottico, la madre insegnante di musica), laconico e restio ai riflettori, ma soprattutto non politico, Ciampi sembrò avere caratteristiche tranquillizzanti per i leader dei partiti. Di uno, insomma, le cui fortune potevano poggiare solo su un «carisma passivo», senza un reale appeal, che non avrebbe fatto ombra a nessuno e che non avrebbe interferito con il grande gioco del potere. Invece, se avessero conosciuto la sua storia di persona concreta e dal temperamento deciso (talvolta infiammabile), dai tenaci ideali e acuto senso dello Stato, avrebbero compreso subito di ritrovarsi di fronte un alieno, rispetto a loro. Uno cioè indisponibile a veder aggirati o calpestati i valori repubblicani e che avrebbe sempre tenuto ferma la barra sulla Costituzione. La stessa biografia ciampiana è eloquente di come tutto si tiene. Si laurea in Filologia classica alla Normale di Pisa, dov’era entrato a 16 anni, bruciando di un biennio i compagni. Poi, dopo il servizio da ufficiale in guerra e dopo un’«invernata» sui monti d’Abruzzo con il filosofo del liberalsocialismo Guido Calogero, si unisce all’esercito del Sud e, chiuso il conflitto dalla parte degli antifascisti, si laurea anche in Giurisprudenza. Per un po’ fa il professore, ma tenta pure il concorso della Banca d’Italia, dove presto si specializza in campo economico ed è chiamato a dirigere l’Ufficio studi, diventando infine governatore. Un primo della classe, certo. Ma soprattutto un civil servant, come dicono gli anglosassoni, tutto d’un pezzo, che poteva disporre di saperi diversi, incrociandoli. E che, quando prendeva un impegno, lo manteneva. Di sicuro lo fece nella sua stagione al Quirinale, al crocevia della legislatura berlusconiana, trovandosi pressato tra un centrodestra che pretendeva un suo collateralismo e un centrosinistra che in certe fasi da lui rivendicava aiuti impropri, che la coscienza non gli permetteva di dare. Il suo metodo era un altro, e non a caso da noi l’espressione «bipartisan» è diventata di moda con lui. La stessa chiave di lavoro che aveva collaudato a Palazzo Chigi e al ministero dell’Economia, all’epoca della concertazione: ridurre le distanze, trovare un comune denominatore, tessere volontà congiunte, ripristinare la coesione sociale, ricostruire quel fattore impalpabile ma decisivo che è la fiducia. Uno sforzo che gli è valso polemiche e continue prove di forza, nell’isterico clima politico del Paese. Ma non rinunciò mai al tentativo. Anzi, volle associarvi i cittadini, coinvolgendoli in un processo di «nation building» che lo vide attraversare l’Italia delle cento città - e volle visitarle proprio tutte - per ricordare e rilanciare gli ideali fondativi della Repubblica contro ogni interessata damnatio memoriae . Ed ecco la riscoperta della patria, il ritorno alla bandiera, all’inno e agli altri simboli collettivi onorati alcuni anni più tardi da Napolitano nel Giubileo laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia. La gente comune è stata sempre al fianco di Ciampi, e lo hanno dimostrato gli elevatissimi indici di consenso, che in alcuni momenti salirono tra l’87 e il 92 per cento. E, se è vero che, come sosteneva Aristotele, «le storie si capiscono dalla fine», la sua rinuncia a un secondo mandato - che gli era stato offerto da un doppio fronte - spiega tante altre cose. Negli ultimi tempi le performance della politica e la deriva presa dalla cosiddetta società civile lo avevano deluso. Al punto da fargli dire, con un amaro bilancio: «Non è il Paese che sognavo». Pag 3 La sua missione per restituire l’orgoglio agli italiani di Aldo Cazzullo Carlo Azeglio Ciampi è stato colui che ci ha restituito l’orgoglio di essere italiani. La rassegna del 2 giugno, aperta ai corpi in missione di pace nel mondo. La riscoperta del tricolore e dell’inno di Mameli, «da ascoltare seri e sull’attenti», come precisò dopo che Schumacher ne aveva riso su un podio di Formula 1. Il recupero del Vittoriano: la «macchina per scrivere», la «torta di nozze» fu restituita alla dignità di simbolo nazionale, a cominciare dalle scritte sui due frontoni: «patriae unitati», all’unità della patria, e «civium libertati», alla libertà del cittadino; a ricordare che il Risorgimento aveva segnato non solo l’unificazione, ma anche l’avvio delle libertà civili, l’abolizione dei ghetti, della forca e dei privilegi del clero, l’istruzione gratuita e obbligatoria, l’esordio della democrazia rappresentativa. Più in generale, Ciampi ha tentato di riconciliare gli italiani con la loro storia, tradizionalmente rappresentata come una sequela ininterrotta

di sciagure: la Controriforma senza riforma, il Risorgimento incompiuto, la vittoria mutilata, la Resistenza tradita, i proletari senza rivoluzione. Da presidente della Repubblica andò a El Alamein, a rendere omaggio al valore sfortunato della Folgore, a dire che non ci si doveva vergognare di aver combattuto la Seconda guerra mondiale. E andò a Cefalonia, a ricordare che la Resistenza non fu fatta solo dai partigiani comunisti, ma anche dai militari - quale era lui stesso -, dai civili, dalle donne, dagli ebrei, e dagli oltre 600 mila internati in Germania, di cui all’epoca si parlava se possibile meno ancora di adesso. Non sempre fu il primo; da Einaudi a Cossiga altri capi dello Stato avevano avuto gesti e sensibilità analoghi; ma fu Ciampi a elaborare un disegno, un progetto, un’idea dell’Italia, da condividere con il più vasto numero possibile di cittadini, forte del fatto di essere stato eletto al Quirinale anche con il sostegno del centrodestra. Con lui la parola patria rientrò nel lessico politico. La Lega non l’aveva votato. Ma quando Ciampi venne in visita a Varese, trovò ad attenderlo Umberto Bossi e tutti i sindaci leghisti della provincia con fascia tricolore. Il presidente del resto credeva alle piccole patrie. Non vedeva contraddizione tra il legame che ci unisce al campanile, al territorio, al dialetto, e il legame con la patria comune, l’Italia; cui aggiungeva la patria futura, l’Europa. Di sé diceva: «Mi sento profondamente livornese, toscano, italiano, europeo». Era uno che, visitando la Normale di Pisa, si commuoveva sino alle lacrime davanti alla lapide con i nomi degli studenti disfatti a Curtatone e a Montanara - accanto ai volontari napoletani -, per dar modo all’esercito piemontese di vincere il giorno dopo a Goito. Ciampi era convinto che gli italiani fossero più legati all’Italia di quanto non siano disposti a riconoscere. E che il sentimento nazionale esistesse già, sia pure latente. Non andava inculcato, ma risvegliato. E il patriottismo per lui non era «l’ultimo rifugio delle canaglie», espressione che lo faceva arrabbiare, come quell’altra sui sigari e sulle onorificenze che in Italia non si negherebbero a nessuno. Era infatti uomo mite ma dalle furie improvvise. Della moglie Franca diceva: «Mi fa allegra la vita». L’Italia gli deve molto. Pag 12 Quel sentimento meno europeista di Federico Fubini Non dev’esserci un solo motivo se oggi gli italiani si sentono anche cittadini europei meno dei britannici, se non hanno un’idea più positiva di questi ultimi riguardo all’Unione Europea e se (dopo Cipro) sono fra i Paesi dell’area i meno favorevoli alla moneta unica. Non ci sarà un motivo specifico, ma una ragione profonda deve pur esserci. Secondo l’Eurobarometro della Commissione Ue solo il 49% degli italiani si sente anche «europeo» (al penultimo posto assoluto con la Bulgaria, davanti alla Grecia). Appena il 32% ha un’opinione favorevole della Ue, un livello quasi britannico raggiunto dopo un crollo senza precedenti della reputazione dell’Europa in Italia nell’ultimo anno. E l’incidenza dei favorevoli all’euro è molto più alta non solo in Francia o in Germania; lo è anche in Grecia, Portogallo, Spagna e ancora di più in Irlanda, che negli anni scorsi hanno dovuto accettare le condizioni della Troika dei creditori arrivati da Bruxelles e da Francoforte. Qualcosa è andato seriamente storto nel rapporto fra gli italiani e la Ue negli ultimi tempi, e il resto d’Europa segue con un nervosismo sempre meno dissimulato per almeno due motivi. Il primo è che l’Italia è troppo grande per poter fallire senza conseguenze devastanti per l’intero progetto nato con il Trattato di Roma, e anche troppo grande per poter essere salvata con i mezzi dell’area euro o del Fondo monetario internazionale. Ma il secondo motivo, se possibile, è anche più spiazzante: almeno in parte gli italiani sono emblematici delle tendenze che attraversano l’opinione pubblica in tutta l’Unione e se questa nazione storicamente europeista ha un cedimento psicologico verso l’Europa, allora può accadere altrove. In effetti ciò che pensano gli italiani non è poi così anomalo, se si guarda al resto dell’Unione. Più o meno come in tutta Europa oggi gli elettori di questo Paese non indicano più la crisi economica, ma l’immigrazione, come la «questione più importante» oggi di fronte alla Ue. E più o meno come in tutta Europa dicono che la seconda emergenza a questo punto è il terrorismo, non la disoccupazione o le finanze pubbliche. Su questa base le risposte che il vertice Ue di Bratislava inizia a dare in questi giorni - progressi nella difesa e nella sicurezza dei confini - dovrebbero essere la risposta giusta per ricostruire la fiducia incrinata degli europei. Dovrebbero. Qualcosa però non torna, se si guarda appena all’indietro, oltre il muro mentale che ci separa dal tempo prima della crisi. L’immigrazione che gli italiani

indicano come problema urgente in realtà è una frazione di ciò che era in anni recenti. Nel 2007 o ancora nel 2008 arrivavano nel Paese oltre mezzo milione di stranieri all’anno, mentre nel 2016 saranno probabilmente sotto i duecentomila. Sono la disoccupazione e l’incapacità radicale di vedere il proprio futuro economico che oggi rendono gli italiani e gli europei molto più difensivi verso il resto del mondo. La nuova marea euroscettica non regredirà, finché l’Italia e l’Europa insieme non riusciranno a trovare questa risposta. AVVENIRE di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 Senza demagogia di Gianfranco Marcelli Una via d’uscita per il centrodestra? Accade, per una di quelle coincidenze impossibili da prevedere, che l’addio del Paese all’ex presidente della Repubblica Ciampi abbia coinciso ieri con un doppio appuntamento politico di notevole interesse per gli italiani che si riconoscono, o non escludono in futuro di poterlo fare, nell’area del centrodestra. Da un lato la convention milanese promossa da Stefano Parisi, alla ricerca di nuove energie da convogliare proprio in quel versante dello schieramento, con l’obiettivo di «rigenerarlo». Dall’altro il tradizionale raduno leghista a Pontida, dove sono convenuti anche tre presidenti di Regioni settentrionali eletti, pur se in tempi diversi, con i voti di tutte le componenti della medesima area. Ebbene, se dovessimo giudicare dal tono e dal contenuto dei commenti che nelle due sedi sono stati espressi sulla scomparsa dello statista di Livorno (come riferiamo nelle cronache), si dovrebbe concludere che il futuro del centrodestra italiano tutto potrà essere fuorché unitario. E che molto difficilmente potrà approdare anche soltanto a un patto di collaborazione simile a quello costruito poco più di due decenni fa da Silvio Berlusconi. D’altra parte, il bivio di fronte al quale si trovano protagonisti vecchi e nuovi della compagine che ha vinto in tre delle ultime sei elezioni politiche generali, è di quelli che, in caso di scelta errata, sembra lasciare ben pochi margini di recupero. Nello scenario tripolare, e ad alto tasso di mobilità, che gli italiani hanno disegnato nelle ultime consultazioni, non si vede come lo spazio della «metà campo» di destra possa ampliarsi, se le voci degli occupanti continueranno a essere sempre più discordanti e pronte a enfatizzare soprattutto ciò che li distingue gli uni dagli altri. Ma c’è un fattore soprattutto che dovrebbe spingere a riflettere i costruttori di una possibile alternativa a ciò che essi stessi definiscono, declinando a seconda dei casi scetticismo e disprezzo, il renzismo e il grillismo. Il Paese, che sta cercando con grande fatica di uscire dalla secche di quasi due lustri di crisi, ha bisogno essenzialmente di un grande progetto di rilancio, di una ripartenza che gli restituisca compattezza all’interno e credibilità all’esterno. E un progetto del genere non si mette assieme limitandosi a registrare le carenze e gli errori dei tentativi fin qui compiuti dagli altri. Le stesse difficoltà che le nuove leve di M5S stanno incontrando, nell’impatto con la gestione della cosa pubblica, dimostrano che non basta riuscire a cacciare i vecchi inquilini dei palazzi per garantire il loro funzionamento migliore. Da questo punto di vista, l’approccio fatto intravvedere ieri alla parisiana «convention Megawatt» sembra porre almeno qualche premessa positiva. L’insistenza dell’ex candidato sindaco milanese sulla necessità di passare dal voto «contro» a quello «per» dimostra consapevolezza della posta in gioco. L’accoglienza nella manifestazione milanese di personalità, professionalità e realtà associative non etichettabili come di area sottolinea il desiderio di non rinchiudersi in vecchi schemi autoreferenziali. Il tentativo di Parisi, aldilà delle incertezze – e forse delle volute ambiguità – sul sostegno che l’ex Cavaliere di Arcore vorrà dare all’operazione, dovrà certo fare i conti con molti fattori, non ultimo la riluttanza di una classe dirigente sulla breccia dalla prima ora o emersa negli anni dello scompaginamento del partitone Pdl a fare almeno passi di lato, se non indietro. Ed è sintomatico a questo proposito il ricorso quasi ossessivo all’aggettivo «nuovo» fatto ieri nel discorso d’apertura da Parisi, attento per altro a non aprire fronti polemici interni, fino al punto di evitare giudizi diretti sulle incredibili parole di Matteo Salvini a proposito del «traditore» Ciampi. Alla lunga, tuttavia, la vera sfida per il manager prestato alla politica sarà probabilmente proprio quella di riuscire a porre argini fermi alla demagogia distruttiva e alla tendenza sempre più inarrestabile alla demonizzazione dell’avversario, del resto da lui denunciata apertamente come sterile e perniciosa. E coltivata invece con inflessibile coerenza dal

leader leghista, con ogni probabilità pronto, tra oggi e domani, a lanciare altri e non meno acuminati strali, anche contro i possibili compagni di strada. Che arrivino a bersaglio fino al punto di garantire la vittoria all’arciere lumbard e, da qualche tempo, itallepenista sembra però molto dubbio. Si è già visto in tutte le ultime elezioni: un centrodestra fatto di «signor no» e di costruttori di muri non ha davvero un gran futuro. Pag 4 Salvini straparla. Ma mai un po’ di silenzio? Muore un presidente emerito della Repubblica, europeista convinto, tra i principali artefici dell’ingresso dell’Italia nell’euro, e un eurodeputato (nonché leader di un partito politico) non trova di meglio da fare che dargli del «traditore dell’Italia e degli italiani». Succede anche questo, per quanto possa sembrare incredibile, nella politica di oggi. Politichetta, in questo caso. L’insulto del segretario della Lega Nord Matteo Salvini, piombato nelle redazioni pochi minuti dopo la diffusione della notizia della scomparsa di Carlo Azeglio Ciampi, è stato sommerso in breve tempo dalla riprovazione dell’intero mondo politico e istituzionale. «Strumentalizzare la morte di un grande statista, anche se a livello politico, non può non considerarsi un’azione da sciacallo», ha osservato il presidente del Senato Pietro Grasso. Che cosa aggiungere? Forse che nel nostro Paese, così tanto amato da Ciampi, esistono figure talmente piccole da non riuscire a tacere nemmeno di fronte alla morte di un italiano illustre, quando non hanno niente di sensato da dire. IL GAZZETTINO di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 Un servitore dello Stato nelle ore difficili di Romano Prodi Carlo Azeglio Ciampi ha speso la sua vita a servizio dell'Italia, sempre chiamato in circostanze drammatiche e mai spinto da personale ambizione. Così è stato quando è stato nominato Governatore della Banca d'Italia nel 1979, così quando ha ricoperto il ruolo di Presidente del Consiglio nel 1993, così quando gli ho chiesto (a lui che era già stato Presidente del Consiglio) di accettare di essere Ministro del Tesoro nel 1996, in un momento in cui l'Italia aveva bisogno di una personalità singolarmente autorevole, rispettata e quindi in grado di mantenerci fra i paesi di riferimento dell'Unione Europea. L'Italia (evento non frequente nel nostro paese) si è riconosciuta nelle sue virtù: per questo motivo si è stretta intorno a lui nell'eleggerlo Presidente della Repubblica al primo scrutinio, con una maggioranza plebiscitaria, accompagnandolo poi con approvazione ed affetto durante tutto il suo settennato presidenziale. Due sono stati i riferimenti nella vita di Carlo Azeglio Ciampi e, ancora più, nel tratto di strada nel quale abbiamo camminato insieme: Europa e Costituzione. L'Europa come punto di riferimento indispensabile per mantenere l'Italia nella modernità e la Costituzione come strumento per mantenere l'Italia unita. Per raggiungere questi due grandi obiettivi Ciampi aveva uno stile suo personale: non mancava mai di richiamare l'obiettivo finale che l'azione di governo si proponeva ma non lo faceva con dichiarazioni roboanti. Lo faceva con la consapevolezza che i grandi obiettivi si raggiungono solo con la fatica del giorno per giorno, mobilitando tutte le risorse disponibili a servizio della causa. Non posso dimenticarmi le riunioni quasi quotidiane a Palazzo Chigi, riunioni nelle quali, come gesto iniziale, toglieva dalla tasca un foglietto con le ultime cifre dei conti dello Stato, cifre che terminavano invariabilmente con il dato dello "spread", cioè della differenza dei tassi di interesse fra titoli pubblici italiani e tedeschi, come segno del risultato dell'azione di governo nei confronti dell'obiettivo finale che ci eravamo proposti. Questo era Ciampi: uno statista che sapeva che la politica era fatta di grandi ideali e di grandi obiettivi e che perciò teneva sempre diritto il timone verso l'Europa e verso l'unità d'Italia ma, nello stesso tempo con la consapevolezza che, per raggiungere questi obiettivi, bisognava faticare ogni giorno, camminando passo per passo nella direzione intrapresa. Il "foglietto dei numeri" era il modo quotidiano di dimostrare che senza la fatica quotidiana e senza un'idea concreta ed analitica del buon governo non si potevano raggiungere risultati duraturi. Anche nei difficili confronti internazionali Ciampi si comportava allo stesso modo: teneva fermi i nostri obiettivi e i nostri diritti ma li rendeva credibili ponendo sul tavolo l'elenco analitico delle difficoltà, delle misure prese per superarle e dei progressi compiuti. Una posizione che si presentava forte per la singolare credibilità di chi la

proponeva. Una credibilità sostenuta dalla sua coerenza di vita, dalla sua serenità dei rapporti amicali e famigliari, che hanno sempre visto al suo fianco l'inseparabile presenza della signora Franca, una presenza che ha accompagnato con il suo affetto e la sua vicinanza l'intera vita di Carlo. Una vicinanza guidata dallo stesso rigore e dallo stesso senso di servizio, senza mai un' interferenza negli affari dello Stato. Una presenza sempre affettuosa, intelligente, spiritosa ma mai ingombrante. Gli anni di responsabilità politica di Ciampi sono stati anni difficili, nei quali l'Italia ha dimostrato troppo spesso divisioni e tensioni. Per questo motivo l'ho sempre sentito insistere sulla necessità di rafforzare il senso di italianità, ritenuto indispensabile anche per ricoprire un degno ruolo in Europa. Questo è il motivo del suo continuo riferimento all'inno nazionale sentito e proposto come "un canto di popolo, un canto che ancora trascina e commuove e conserva tutto intatto quell'amore "per un'Italia libera e unita". L'inno nazionale è concepito come una battaglia per ridare voce al ritrovarci come italiani, attraverso l'apprendimento di quel "Fratelli d'Italia" che molti avevano quasi snobbato, dimenticando che, privi di simboli dove abitare, dove ripararsi e dove crescere, i sentimenti di appartenenza comune sono destinati a dissolversi. Per Ciampi "il foglietto dei numeri" rende credibili i principi ma i numeri assumono credibilità solo se accompagnati da forti principi. Forti principi che hanno accompagnato la vita di Carlo Azeglio Ciampi anche nel sempre complesso rapporto fra politica e religione. Ciampi era fermamente religioso e fermamente laico. Laico, ma non laicista: in questo campo educato dai padri gesuiti, che hanno guidato la sua formazione giovanile al senso della distinzione fra fede e politica, fra Stato e Chiesa. Una formazione che gli ha permesso di essere per tutti noi italiani un punto di riferimento che ci sarà da guida anche nelle difficili scelte del nostro futuro. Pag 1 Milano e Pontida, sfida delle due anime del Centrodestra di Bruno Vespa Le due anime di un nuovo centrodestra si confrontano tra la Milano di Stefano Parisi e la Pontida di Matteo Salvini. I due non si amano e hanno posizioni politiche molto diverse ma sono condannati a collaborare se vogliono avere qualche probabilità di ricostituire un polo competitivo con il Pd di Matteo Renzi e con un Movimento Cinque Stelle frantumato eppure sempre forte. Parisi si trova in una condizione paradossale. Berlusconi gli ha dato mandato di rivolgersi ai dieci milioni di italiani che hanno lasciato Forza Italia riunendo le forze migliori del mondo moderato che non abbiano avuto contaminazioni con la politica nazionale. Nazionale, badate: perché il nostro è invece attentissimo agli amministratori locali, i veri detentori dei voti, visto che a quelli nazionali ha sempre provveduto Berlusconi. Alle migliaia di persone riunite a Milano (e alle altre che andrà ad incontrare sul territorio) Parisi prospetta una rigenerazione della politica: “nuove persone, nuovo coraggio, nuova rettitudine”. Non a caso tra i relatori di ieri e di oggi ci sono solo persone della ‘società civile’. Parisi guarda a un centrodestra moderato, fermamente ancorato alle tradizioni del Partito popolare europeo, liberista in economia, aperto sia agli Stati Uniti che alla Russia in politica estera, fermo sull'immigrazione senza derive populiste. Il paradosso sta nel fatto che tra i suoi interlocutori non c'è lo stato a maggiore di Forza Italia: i Romani, i Brunetta, i Gasparri, i Matteoli che vediamo la sera nei telegiornali sembrano esclusi dal disegno del 'nuovo'. Berlusconi ha finora arginato la rivolta dei Colonnelli giocando su due tavoli: incoraggia Parisi, tranquillizza gli altri. Aspetta di vedere i primi risultati del lavoro del nuovo delfino prima di decidere da che parte schierarsi definitivamente. E’ scontata l’inquietudine di chi non vuole il ‘papa straniero’, siede da molti anni in parlamento e rappresenta tuttora un leader che tifa invece per un brillante imprenditore che fa per ora solo il consigliere comunale di Milano. Salvini – anche lui consigliere comunale di Milano - risponde a Parisi (e a Berlusconi) tornando a Pontida, dove giusto vent'anni fa Umberto Bossi lanciò la secessione: l'acqua attinta alle sorgenti del Dio Po e versata nella laguna di Venezia riuniva idealmente l'intera Padania pronta all'indipendenza. Bossi era convinto che l'Italia non ce l'avrebbe fatta a entrare nell'euro, giocava di sponda con i bavaresi e si preparava ad invocare la doppia moneta, quella forte per il Nord e quella svalutata per il Sud. Andò come andò . Oggi la secessione è tramontata, ma il grido di battaglia di Salvini è contro l'Europa, contro l'euro, contro gli immigrati sulla scia di un populismo dilagante in Europa che ha la sua capofila in Marine Le Pen. Finora i populisti hanno avuto forti successi parziali, ma

è difficile che riescano a governare una grande nazione. Salvini dovrà scegliere se rinunciare a qualcuno dei suoi principi per fare squadra con Forza Italia, qualunque ne sia la fisionomia, o combattere da solo puntando a un buon risultato senza prospettive di governo. E Parisi dovrà conciliare le sue posizioni moderate con qualche esigenza dell’alleato. Il cammino è appena iniziato, ma i due partiti dovranno marciare insieme per raggiungere la destinazione giusta. LA NUOVA di sabato 17 settembre 2016 Pag 1 Italicum, c’è tempo per cambiare di Francesco Morosini Il premier Renzi ha dichiarato la propria disponibilità a modificare l’Italicum, la legge che riforma il sistema elettorale della Camera dei deputati. La cosa sembra paradossale, se si considera che l’Italicum è in vigore appena dal 1. luglio 2016; conseguentemente, le domande sono due. La prima riguarda il perché della mossa del Presidente del Consiglio; la seconda, invece, interroga sull’opportunità di modificare l’Italicum rispetto al funzionamento del sistema politico del Belpaese. A questo proposito, la cosa è dubbia, sebbene l’Italicum abbia i suoi difetti; soprattutto perché le alternative in campo paiono peggiorative. Pertanto, l’apertura del premier è figlia della sua priorità prima: vincere il referendum sulla riforma costituzionale (sulla quale ha investito correttamente la gran parte del suo capitale politico), evitando che il fronte degli oppositori a questa si saldi a quello dei nemici dell’Italicum, minacciando così di compromettere il risultato del referendum. Ciò posto, nell’immediato alle parole del premier potrebbe succedere poco o nulla; e per due buone ragioni. La prima è che è poco sensato cambiare l’Italicum prima che la Corte costituzionale si pronunci su tre (se tutti giudicati ammissibili dalla Corte medesima) punti: il premio di maggioranza; il divieto di apparentamento (coalizioni) per conseguirlo; le candidature multiple (in più collegi) dei capilista. L’altra, viceversa, è che l’Italicum, essendo pensato sulla base del buon esito della riforma costituzionale, riguarda solo la Camera, visto che, nell’ipotesi, le modalità di formazione del Senato dovrebbero seguire tutt’altra strada; e che, conseguentemente, “riformare la riforma” elettorale prima del referendum, cioè di sapere se essa riguarderà uno o entrambi i rami del Parlamento, pare assurdo. Ciò posto, il giudizio sull’Italicum può essere positivo? In via di fatto – pur in attesa del responso della Corte costituzionale sulla sua congruenza con la Legge fondamentale – la risposta pare positiva. Il motivo: garantisce, pur con i suoi difetti (d’altronde nessuna legge elettorale ne è esclusa), che dalle urne esca una maggioranza di governo: 340 seggi su 630. Per di più, impensieriscono le opposte suggestioni anti premio di maggioranza che risposterebbero la formazione dei governi dagli elettori agli accordi post-elettorali tra i partiti; e preoccupano anche le nostalgie per il ritorno dell’uninominale all’inglese (basta un voto in più, collegio elettorale per collegio, per essere eletti) che, dando potere d’interdizione ai detentori di mini pacchetti di voti, riprodurrebbe nuovamente (il “caso Ulivo” per tutti) la nostra frammentazione partitica assieme ad alleanze di governo arlecchinesche e fragili. L’ultima parola ora è della Corte costituzionale: difatti, se dichiarasse incostituzionale il premio di maggioranza o, pur ammettendolo, dichiarasse illegittimo il divieto di apparentamento (che nell’Italicum dà il senso politico del premio di maggioranza), ne farebbe cadere la ratio (maggioranze coese). Riaprendo anche un’antica questione: ovvero se il problema è nel premio di maggioranza; oppure se Costituzione e proporzionale siano inseparabili. Sarebbe una “bomba politica” che cancellerebbe il percorso riformista di questo Paese iniziato coi “referendum Segni” e che, al contempo, ricondurrebbe il Belpaese alle “coalizioni Arlecchino” del passato. Ad ogni buon conto, in attesa della Corte costituzionale, in via di fatto contro il premio di maggioranza (introdotto dalla Legge Calderoli) si potrebbe obbiettare che di per sé neppure esso garantisce la stabilità delle maggioranze di governo. Vero; come da recente esperienza; per questo, come detto, l’Italicum vi aggiunge il divieto di apparentamenti di lista nel conseguimento del premio di maggioranza. Il senso di ciò è di premiare la “forza” di un esecutivo - intendendo con ciò la capacità di un governo di gestire la propria maggioranza parlamentare – rendendola il più coesa possibile. Obiezione: se il sistema politico diventasse da bipolare tripolare? Qui il premio di maggioranza è ancora più importante, assicurando i numeri per la formazione di un governo; poco? Forse no. Ma prima va risolta la questione

costituzionale; che è decisione propria della Corte costituzionale. La politica, come le salmerie, viene dopo. Pag 4 Da letterato a esperto di numeri, così ha capito come risanare il Paese di Vittorio Emiliani Carlo Azeglio Ciampi rileggeva spesso le pagine del suo maestro all’Università di Pisa, il filosofo del liberalsocialismo Guido Calogero, antifascista, assertore per tutta la vita delle idee di libertà e di giustizia. Con lui aveva studiato per la prima laurea, in Lettere e filosofia e quell’imprinting ha conservato per tutta la lunga esistenza, in Banca d’Italia e in politica. Con lui scompare una delle figure “di frontiera” che hanno concorso in modo decisivo a traghettare l’Italia dalla spaventosa inflazione in doppia cifra all’abbattimento della stessa, ad un risanamento gigantesco e al conseguimento, infine, degli standard per poter entrare in Europa, nell’euro, con un cambio che non soffocasse le imprese italiane. Doveva vivere l’esistenza tranquilla e normale di un insegnante di lettere al liceo della sua città, Livorno, e invece, anche su sollecitazione della moglie, Franca Pilla, una reggiana energica, sua coetanea piena, conosciuta alla Normale quando avevano 18 anni, prese una seconda laurea in Giurisprudenza (con una tesi significativa sulla tutela delle minoranze religiose nella Costituzione italiana) e decise di puntare alla Banca d’Italia. L’uomo di lettere sarebbe diventato uomo di numeri. Qui c’entra la tempra del livornese, cresciuto in una città speciale, martoriata dalle bombe e però orgogliosa del suo porto, del suo carattere forte, differente dalle altre città toscane. «Io sono nato in una città di mare e so che, quando soffia il libeccio, va avanti per tre giorni. Poi ce ne vogliono altri tre perché il mare si plachi». Una massima di vita. Una scelta risoluta, del resto, il ventitreenne tenente Ciampi l’aveva compiuta l’8 settembre del ’43, rifiutando di aderire alla Rsi e rifugiandosi a Scanno, in Abruzzo, confino politico del suo maestro, Guido Calogero, del quale avrebbe portato a Bari, all’editore Laterza, attraversando le linee, il saggio sul liberalismo. Si sarebbe così unito all’esercito del Sud. Tornato a Livorno aveva fondato una sezione del Partito d’Azione, capendo presto che la politica, almeno allora, non era per lui. Sposatosi nel 1946 con la compagna degli anni pisani, cominciò in Banca d’Italia la lunga trafila, da impiegato, in giro per le filiali provinciali. Poi, nel 1970, la guida dell’ufficio studi e tre anni dopo la direzione generale. Nel 1979 la grande svolta, dopo le amare dimissioni di un grande governatore, Paolo Baffi: la vetta di Bankitalia, a 59 anni. In tempi economicamente e politicamente terribili, fra terrorismo, crisi finanziarie, inflazione galoppante, choc petroliferi e speculazioni monetarie connesse. Nel 1981 Ciampi sollecitò l’entrata dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo, embrione del futuro Trattato di Maastricht e dello stesso euro, primo riparo dall’inflazione e dalle svalutazioni ricorrenti. Per raffreddare il caro-vita ci volle però la decisione del governo Craxi di tagliare 3 punti di contingenza affrontando nell’85 l’infuocato referendum abrogativo voluto dal Pci di Natta molto più che dalla Cgil di Lama. Con una sconfitta clamorosa. Nello stesso anno il governatore Ciampi presentò le dimissioni dopo che la lira aveva subito un duro contraccolpo dalla speculazione sbagliata della direzione finanziaria dell’Eni, col dollaro schizzato da 1.870 a 2.200 lire, in poche ore. Craxi però le respinse concordando un’azione più decisa per abbattere il caro-vita. «Se farà le cose che dice - gli pronosticò Ciampi, - l’inflazione scenderà ancora». Difatti calò dal 9,2 al 5,8% in un anno. Tuttavia le tempeste per il governatore della Banca d’Italia - la quale era stata opportunamente separata dal Tesoro - erano tutt’altro che finite. Durante queste ricorrenti, inarrestabili burrasche, Ciampi si rafforzò nell’idea di una intesa europea complessiva. A metà ’92 il tasso di sconto dovette essere aumentato sino al 15% e, a settembre, la lira nuovamente svalutata del 7%. Col mercato dei cambi chiuso venne varata - presidente del Consiglio, Giuliano Amato, alla guida di un governo Dc, Psi, Psdi e Pli - una delle maxi-manovre della storia, circa 100mila miliardi di lire: aumento dell’età pensionabile e dell’anzianità contributiva, blocco dei pensionamenti, patrimoniale sulle imprese, prelievo forzoso sui conti correnti, minimum tax, ticket, privatizzazioni, blocco degli stipendi pubblici, ecc. Ma il 1993 doveva segnare una svolta epocale nella carriera e nella vita di Carlo Azeglio Ciampi ormai da più di tredici anni in via Nazionale. Nell’infuriare di Tangentopoli il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro volle a Palazzo Chigi un uomo al di sopra dei partiti, di sicura fede democratica e scelse lui per quell’incarico. Da presidente del

Consiglio prima e da ministro del Tesoro poi nei governi Prodi e D’Alema, creò con ostinata volontà le condizioni per l’ingresso dell’Italia, poco considerata all’estero, nella moneta unica europea. Successo storico conseguito nel 1999. A ciò aveva concorso - non dimentichiamolo - l’accordo del 1993 Confindustria-Sindacati che assicurò, con la “concertazione”, un clima sociale più disteso. Quando i coniugi Ciampi pensavano ad una tranquilla pensione, fra Roma, Santa Severa, la montagna, arrivò la chiamata bipartisan, nel marzo del ’99, alla presidenza della Repubblica, alla prima votazione, contrarie Lega e Rifondazione. Sette anni accidentati, resi più impervi dai contrasti con Berlusconi sulla legge Gasparri sulle tv, sulla giustizia, su altre norme, di fatto, ad personam. Anni di minacce secessioniste della Lega alle quali rispose riproponendo di continuo l’unità risorgimentale e l’inno-simbolo di Goffredo Mameli e Michele Novaro. Alla fine del mandato Carlo Azeglio Ciampi ricusò la riconferma in nome della “democratica rotazione delle cariche”. Rimarrà nella memoria come il timoniere che guidò la lira fuori dalle bufere più distruttive verso l’approdo europeo e l’Italia verso una possibile unità attorno a grandi obiettivi non più soltanto nazionali. Torna al sommario