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LE PRINCIPALI TEORIE SOCIOLOGICHE DELLA DEVIANZA (PARTE PRIMA)” PROF. TOMMASO COMUNALE

PPAARRTTE PPRRIIMMAA))””video.unipegaso.it/Post-Laurea/Comunale/Lezione 3/Teorie.pdf · Lo studio sociologico della devianza e della criminalità intende analizzare i condizionamenti

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Università Telematica Pegaso Le principali teorie sociologiche della

devianza (parte prima)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 INTRODUZIONE -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3

2 EMILE DURKHEIM (1858-1917) ------------------------------------------------------------------------------------------ 4

3 CONTROLLO SOCIALE E DEVIANZA NELLA SCUOLA DI CHICAGO ------------------------------------- 6

4 TEORIA DELL’ANOMIA DI MERTON -------------------------------------------------------------------------------- 10

4.1. CONCETTI FONDAMENTALI -------------------------------------------------------------------------------------------------12

5 SUTHERLAND ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 13

5.1. THE PROFESSIONAL THIEF (1937) ------------------------------------------------------------------------------------------14 5.2. CRITICHE ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------15 5.3. WHITE COLLAR CRIMINALITY (1940) -------------------------------------------------------------------------------------16

BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 18

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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1 Introduzione

Lo studio sociologico della devianza e della criminalità intende analizzare i condizionamenti

e le influenze sociali dell’ambiente in cui vive un individuo, partendo dal presupposto che egli non

sia isolato, ma piuttosto un prodotto del contesto in cui vive. Vengono dunque superati sia

l’approccio della Scuola Classica che quello della Scuola Positiva, privilegiando, nello studio della

criminalità, due variabili che diventeranno centrali nelle teorie del Novecento: la società e le

relazioni tra gli individui che la compongono. Numerose sono le teorie sociologiche che si sono

succedute nel tempo nell’analisi dell’influenza della collettività sul comportamento deviante. Inizia

ad emergere, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quella visione che parte dalla

consapevolezza che il reato e il reo, per essere compresi ancor prima che arginati, devono essere

inseriti in un contesto sociale.

Vediamo dunque quali sono i principali orientamenti che si sono sviluppati in questo senso.

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2 Emile Durkheim (1858-1917)

Il sociologo francese dedica molto spazio allo studio della criminalità, considerando il reato

come un fatto sociale normale.1 Egli definisce normale un fenomeno quando lo si incontra in

generale in una società di un certo tipo in un determinato momento: il delitto, infatti, si riscontra in

tutte le società. Una volta stabilita la premessa fondamentale della normalità del reato, è necessario

analizzare cosa Durkheim intende per reato.

Un atto è criminale quando offende gli stati forti della coscienza collettiva, ovvero tutti quei

valori comuni alla generalità dei consociati. Quest’offesa produce una reazione nella collettività,

detta sanzione. In questo modo, saranno reati tutti gli atti che presentano il carattere esterno di

determinare, una volta compiuti, il castigo da parte della società. In una simile concezione, la vera

funzione della sanzione è quella di mantenere intatta la coesione sociale: il criminale deve soffrire

in proporzione al suo reato e in questo modo viene riparato il danno subito dalla coscienza collettiva

(in questa proporzionalità tra pena e reato, il pensiero di Durkheim si avvicina al pensiero della

Scuola Classica). Il castigo è dunque destinato ad incidere sulle persone oneste, in quanto

rappresenta lo strumento per guarire le ferite e riparare le offese prodotte dal reato. La pena,

pertanto, non avrà una funzione di prevenzione speciale o generale, ma rappresenterà

quell’importante funzione di mantenere intatta la COESIONE SOCIALE. La conclusione quasi

paradossale a cui si arriva è quella per cui il delitto, secondo Durkheim, non è solo presente in tutte

le società, ma è anche un fatto necessario e utile. Il criminale, perciò, non appare più come una sorta

di parassita della società, come un corpo da tenere estraneo ad essa, ma come un agente regolatore

della vita sociale.

Pur supponendo che una società riesca a bandire tutte le forme di criminalità, questa non

scomparirebbe perché le norme penali verrebbero modificate per colpire altri comportamenti, altre

azioni che in precedenza venivano considerate lecite. Anche quest’ulteriore riflessione permette di

cogliere la normalità del reato che, come detto, consiste nell’esigenza di circoscrivere un’area

morale nella quale la maggior parte dei consociati si riconosca. Ciò è di fondamentale importanza

perché è alla base dell’entità del gruppo, della coesione sociale.2

1 Le principali teorie sociologiche, compreso il pensiero di Durkheim, sono contenute nell’opera, A. BALLONI,

Criminologia in prospettiva, Editrice CLUEB, Bologna, 1983. 2 A. BALLONI, op. cit.

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Per meglio cogliere il comportamento deviante nella visione durkheimiana è necessario fare

riferimento anche al concetto di anomia, che costituisce le fondamenta di una delle sue più

importanti opere: “Il suicidio – Studio di sociologia” del 1897.

Per anomia Durkheim intende la mancanza di norme sociali in grado di guidare il

comportamento umano nella giusta direzione. Le norme sociali sono molto importanti in quanto

evitano che gli individui si affidino unicamente ai propri impulsi irrazionali interiori. È importante

precisare che l’anomia non è una condizione in cui versa l’individuo, ma è una caratteristica del

tessuto socio-culturale, caratterizzato dall’assenza di norme sociali, entro il quale egli vive. Questo

concetto si presenta come diametralmente opposto rispetto a quello di solidarietà sociale, in cui

invece si ha una forte integrazione di rapporti sociali e di rappresentazioni collettive. Proprio ne “ Il

suicidio”, Durkheim analizza come la mancanza di regole in grado di orientare le azioni degli

individui influisca sul loro comportamento.3

Nel tentativo di sviluppare una teoria generale del comportamento deviante, Durkheim

individua tre differenti tipi di deviante:

1. Il deviante biologico: è presente in una società caratterizzata da una divisione del lavoro

spontanea. È un individuo deforme a livello bio-psicologico che, a causa delle eredità

genetiche e dei fattori ambientali, non riesce ad integrarsi con la collettività (la sua

coscienza individuale è perciò distaccata dalla coscienza collettiva).

2. Il deviante funzionale: si differenzia dal primo, non essendo tale per fattori biologici ma

perché etichettato così dalla società nella quale vive. È un soggetto che si ribella alla forzata

divisione del lavoro ed alle disuguaglianze sociali che da essa derivano.

3. Il deviante disadattato: è un individuo che, in una società già malata, non è riuscito a

socializzare.

La correlazione tra il comportamento umano e la società viene poi presa ulteriormente in

considerazione dalla Scuola di Chicago che, grazie a numerosi autorevoli esponenti, elabora uno

studio approfondito sulla dialettica tra individuo e società.

3 E. DURKHEIM, Il suicidio, UTET, Torino, 1977.

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3 Controllo sociale e devianza nella scuola di Chicago

Sotto l’impulso delle grandissime trasformazioni che caratterizzano la fine del XVII e

l’inizio del XIX secolo comincia a prevalere un nuovo tipo di atteggiamento, definito di

IGNEGNERIA SOCIALE. Si incomincia cioè a pensare di poter comprendere i fenomeni sociali

nel loro meccanismo profondo, applicando politiche sociali anziché ricorrere agli strumenti della

coazione e del diritto.

La Scuola di Chicago a partire dal 1882 ha svolto un ruolo fondamentale per queste

politiche pubbliche, elaborando un metodo di indagine sociale empirica nei confronti della città. I

diseredati di mezza Europa, stanchi di sopportare soprusi, cominciano a dirigersi in massa verso i

porti di imbarco per imbarcarsi e cercare fortuna nel nuovo mondo. Questi migranti, visti come

devianti sia nella loro terra d’origine che in quella d’arrivo, si spostano prevalentemente verso la

città di Chicago, vero polo d’attrazione di quel periodo in quanto città nord-americana in più rapida

crescita. L’attrazione di migranti fa sì che Chicago, agli inizi del XIX secolo, sia composta per più

della metà da una popolazione non nata in America. Queste ondate di immigrazione a cavallo tra i

due secoli portano al formarsi di nuove forme di delinquenza e ad un incremento della mortalità,

dovuta alle scarse condizioni igieniche.

Diventa naturale, allora, per il Dipartimento di Sociologia e Antropologia culturale trovare

la metafora centrale del processo sociale nella questione dell’immigrazione.

A causa di questi importanti fenomeni, dunque, si accentua la dialettica tra individuo e

società (attraverso lo studio degli esseri umani e del loro comportamento sociale) in una serie di

studi sulla criminalità e sulla delinquenza che, poiché provenienti tutti da autori dell’Università di

Chicago (Znaniecki, Mead, Park) si riconducono ala corrente di pensiero definita la Scuola di

Chicago.

I principali temi di riflessione della Scuola di Chicago sono:

L’immigrazione: a ciò va unito anche il problema dell’integrazione e dell’adattamento degli

immigrati;

La disorganizzazione: la città si disgrega, si scompone a causa della maggiore autonomia

d’azione individuale dovuta all’anonimato del vivere urbano;

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Individualizzazione del cittadino: è il processo che porta l’individuo, tramite le sue capacità,

ad adattarsi al nuovo ambiente sociale e a ricostruire in esso i propri valori sociali.

Ecologia: interesse nell’agire individuale e sui condizionamenti del mondo esterno.

L’interesse per l’ecologia costituisce la base di una delle impostazioni primarie su cui si

fonda questa scuola: la Teoria Ecologica afferma che il tipo prevalente di individuo che domina

entro un certo gruppo è determinato dall’ambiente socio-culturale nel quale tale gruppo si colloca.

Questa prospettiva ecologica porta a considerare l’esistenza di uno spazio urbano creato dai

meccanismi del mercato, dall’agire individuale e legato ad una forte divisione del lavoro e dei ruoli

sociali.

Ai cambiamenti strutturali della città, dal punto di vista urbano, si sono interessati due

allievi di Park (che fa sua la prospettiva ecologica), Burgess e McKenzie,4 che hanno rappresentato

l’espansione urbana della città di Chicago suddividendola in cerchi concentrici. Essi partono dal

presupposto che, a partire da un nucleo centrale, la città si sviluppi secondo un processo radiale.

Questo meccanismo di crescita porta alla creazione di precise aree sociali che si sviluppano, come

detto, in maniera concentrica:

1. Central Business District: è la zona del centro, detta anche Loop, composta da quartieri

direzionali della city, della vita economica e politica della città, ma contenente anche zone di

povertà.

2. Transitional Zone: zona di transizione in cui si mescolano industrie e quartieri abitati che

presentano spesso specificità etniche o di offerta commerciale. In questi quartieri, dalle case

fatiscenti e a basso costo, risiedono gli ultimi arrivati.

3. Working Class Zone: zona residenziale operaia solitamente migliore rispetto ai quartieri più

degradati della zona di transizione. In quest’area abita buona parte dell’aristocrazia

proletaria, i bianchi anglosassoni o gli immigrati bianchi arrivati per primi (tedeschi,

svedesi, ecc).

4. Residential Zone: area dei sobborghi borghesi, caratterizzata da una grande sicurezza

pubblica e composta di villette e aree verdi ed attrezzate.

5. Commuter Zone: zona dei lavoratori pendolari abitata dalla piccola classe media che trova

qui il giusto compromesso tra il non abitare in una zona degradata e l’abitare in una casa in

4 Insieme a Park, i due studiosi elaborano un testo che diventerà poi uno dei più importanti per la sociologia urbana,

R.E. PARK, E.W. BURGESS, R.D. MCKENZIE, The city, The University of Chicago Press, Chicago, 1967.

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città che non può permettersi. Da questa area provengono i lavoratori che si fermano in città

durante la settimana.

L’analisi di Burgess e McKenzie prevede dunque una città formata da anelli che si

ampliano invadendo progressivamente la zona circostante. Questo processo viene spiegato

ricorrendo alla metafora dell’ecologia vegetale: la struttura urbana, espandendosi, tende a riprodursi

come una pianta che crescendo forma foglie nuove ma sempre uguali. Due sono le dinamiche che si

sviluppano da questo tipo di evoluzione:

Accentramento: le reti di comunicazione e di trasporto tendono ad avere una direzione di

accentramento, a convergere verso il centro cittadino.

Decentramento: l’espandersi della città implica però che i vari quartieri sviluppino a loro

volta dei centri locali (per lo più di tipo commerciale e culturale), rappresentando così la

seconda forza dello sviluppo urbano, quella del decentramento.

Sulla base di questa impostazione, Shaw e McKay hanno posto in relazione la struttura

spaziale della città di Chicago e le sue varie tipologie di insediamento. Questo perché per i due

studiosi le forme di patologia sociale, che danno origine alla disorganizzazione sociale, non

derivano tanto da qualità individuali ma sono attributi della zona socio-culturale in cui gli uomini

vivono.

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Nella zona centrale, vicino al Business District, si notano alti tassi di patologia sociale che

vengono ricondotti al fatto che si tratta di aree in cui vi è un’elevata mobilità e ricambio e, quindi,

un forte anonimato. Shaw e McKay hanno sviluppato la teoria del gradiente, in base alla quale più

ci si allontana dal centro della città, più il livello socio-economico della popolazione residente

s'innalza e il tasso di criminalità diminuisce. Questo vuol dire che, invece, più ci si avvicina alla

città, più il comportamento criminale aumenta, diffondendosi come se fosse un’infezione.

Nelle residenze operaie di periferia (in cui si verificano gli insediamenti industriali) si

sviluppò una struttura urbanistica più simile a quella di una città europea.

All'inizio del XIX secolo, il centro degli affari si espande e la classe media risulta come

schiacciata tra il centro degli affari e l'entrata sempre maggiore degli immigrati. La classe media si

sposta verso la periferia portando così ad una decentralizzazione verso zone suburbane: la prima

zona occupata in origine dalla classe media si trasforma così in una zona di grande degrado e

mobilità. Vi si insediano i gruppi di immigrati più recenti perché il prezzo delle abitazioni scende e,

pertanto, i gruppi etnici, appena possono permetterselo, tendono a trasferirsi in zone meno

degradate. Questo rende evidente come il degrado dell'area non sia collegato a caratteristiche

individuali di gruppo quanto alla disorganizzazione sociale. La scuola di Chicago sostiene che

varie generazioni di immigrati tendono a seguire il tipo di criminalità che caratterizza il luogo dal

quale provengono.

La prima generazione di immigrati riproduce il tipo di criminalità della zona di provenienza,

mentre la seconda generazione verifica un nuovo atteggiamento con le caratteristiche del luogo di

accoglienza. Dalle tesi della disorganizzazione sociale discendono alcune caratteristiche principali

del programma di prevenzione individuato da Shaw e McKay, programma che prende il nome di

Chicago Area Project,5 in cui gli autori cercano di individuare possibili soluzioni per contenere e

limitare la criminalità. Individuando come problema quello della disorganizzazione sociale (assenza

di controllo informale comunitario), i due studiosi affermano che è necessario riorganizzare i

rapporti sociali in una certa area per prevenire l'insorgere della criminalità. Uno dei grandi meriti

della Scuola di Chicago fu quello di aver esplorato azioni, comportamenti e categorie sino ad allora

estranei ad ogni interesse scientifico. Una delle caratteristiche distintive di questa Scuola è quella di

aver proceduto ad un lavoro etnografico svolto non presso popolazioni primitive ma presso

fenomeni che riguardano le zone urbane.

5 Maggiori informazioni su questo interessante progetto sono rinvenibili al sito http://www.chicagoareaproject.org

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4 Teoria dell’anomia di Merton

La prospettiva teorica di Merton mette in evidenza e riprende il concetto di anomia

interpretato come contrasto tra la struttura culturale e la struttura sociale.6

Per anomia si intende la mancanza di norme sociali che regolano e limitano i comportamenti

individuali. Secondo Merton, l’anomia e la devianza nascono dall’esistenza di norme

particolarmente forti che entrano in contrasto con la struttura sociale, che non offre a tutti le stesse

opportunità di accedere con successo ai propri obiettivi. Nella prospettiva di Merton è deviante quel

comportamento che non segue valori condivisi in una società che prevede, per i suoi membri, mete

strutturate e mezzi adeguati. Quando le mete sono sottolineate in modo pressante si creano le

condizioni per l’anomia, perché non tutti gli individui hanno le stesse capacità di accesso

economico ai mezzi legittimi e cercheranno, dunque, di raggiungere quelle mete con mezzi illeciti.

Se le cause di disuguaglianza sono imputabili alla struttura sociale, allora Merton considera quella

struttura sociale come anomica. Gli individui che probabilmente subiranno maggiormente le

condizioni anomiche saranno quelli appartenenti alle classi più svantaggiate a livello socio-

economico. Oltre a ciò, Merton sostiene che i mezzi legittimi non costituiscono necessariamente il

modo più sicuro per raggiungere determinati scopi: altri mezzi, malgrado siano illegittimi o

sottovalutati dalla società, possono essere più efficienti.

Egli propone allora alcuni modi di adattamento alle sollecitazioni causate da un limitato

accesso a mezzi e mete socialmente approvati. Inoltre, le persone possono passare nel corso della

loro vita da un modo di adattamento ad un altro.

Un individuo sarà CONFORME se, una volta che ha preso atto della limitata possibilità di

accesso a mete e mezzi, continua comunque a ritenerli legittimi. La maggior parte degli individui

segue questo tipo di adattamento e ciò è positivo: infatti, se così non fosse la società sarebbe

seriamente minacciata in termini di coesione sociale.

Il modo di adattamento dell’INNOVAZIONE, invece, si verifica quando l’enfasi rimane

sulle scopi legittimi per il cui raggiungimento si usano però mezzi illegittimi. Questa scelta

rappresenta il tipo di devianza più diffuso nella società. I mezzi innovativi per alcune classi sociali

possono essere molto più interessanti di quelli legittimi (per il raggiungimento di mete). Ci può

essere un’altra situazione in cui si rinuncia alle mete per ricorrere solo a mezzi legittimi: il

6 Il suo pensiero su questo importante tema è sviluppato nell’opera, R.K. MERTON, Social structure and anomie, 1938.

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RITUALISMO. In questo caso, il lavoro, ad esempio, viene visto come una forma di sicurezza

sociale più che mezzo per conseguire il successo. Questo modo di adattamento si riscontra nel

comportamento burocratico.

Vi è poi il modo della RINUNCIA, che consiste nel rinunciare sia a mete che a mezzi. Il

rinunciatario non opta per l’innovazione e ha la necessità di evitare il confronto con le capacità di

raggiungimento degli obiettivi che contano nella vita. La soluzione, per questo tipo di persone,

consiste nell’abbandonare ogni sforzo per andare avanti nella vita. Questo è il modo meno comune

di adattamento perché riguarda le persone che vivono ai margini della società.

L’ultimo modo è quello di RIBELLIONE, che è diverso dagli altri in quanto si focalizza sul

rifiuto di mete, mezzi o entrambi. La ribellione consiste nella sostituzione di mete e mezzi con

qualcos’altro. Nella concezione di Merton, quest’ultimo modo conduce gli uomini fuori dalla

struttura sociale circostante per ravvisarne un’altra. Presuppone, cioè, l’alienazione degli obiettivi e

dei parametri dominanti.

Di sotto si riporta una tabella riassuntiva:

Modalità di

adattamento

Scopi culturali Norme

istituzionalizzate

Conformità + +

Innovazione + -

Ritualismo - +

Rinuncia - -

Ribellione ±

±

Questi modi di adattamento si inseriscono nella Teoria dell’Anomia di Merton, che sostiene

come sia la struttura sociale che contribuisce alla produzione di devianza a tutti i livelli. Ciò accade

perché, data la discrepanza tra mete e mezzi, le classi inferiori saranno maggiormente predisposte a

compiere azioni devianti.

La teoria di Merton viene classificata come teoria positivista ma, al contrario di altre teorie

(vedi Lombroso), essa colloca le patologie all’interno della struttura sociale. Lo studioso spiega che

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una struttura sociale è patologica quando c’è un’enfasi eccessiva sul successo, in particolare quello

economico. È importante sottolineare, infine, come i concetti di norme e mete culturali siano stati

adottati da Merton per spiegare il modo in cui essi producono conformità o devianza nella struttura

sociale, non per spiegare la maniera in cui ha luogo il processo di scelte che gli individui adottano

tra i vari modi di adattamento.

4.1. Concetti fondamentali

1. La maggior parte dei membri di una società condivide un sistema comune di valori;

2. Il sistema di valori indica sia le mete culturali che i mezzi legittimi necessari per la

realizzazione di queste mete;

3. Se mete e mezzi sono tra loro squilibrati, allora ci sarà una condizione anomica. In una

società squilibrata ci sono diversi gradi di accesso a mete e mezzi (non sono infatti

distribuiti in maniera equa) e questo costituisce la PATOLOGIA DELLA STRUTTURA

SOCIALE. Senza un accesso razionale a mete e mezzi legittimi i membri della società

cercheranno delle alternative per rispondere alle sollecitazioni di quest’ultima. I modi di

adattamento prevedono una combinazione di accettazione, rifiuto, sostituzione di fini e

mete.

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5 Sutherland

La teoria di Sutherland (1883-1950) merita di essere segnalata in quanto svolge un ruolo

fondamentale per la criminologia classica, entrando a pieno titolo nell'ambito delle teorie di

sociologia della devianza. Questa teoria può essere definita una teoria generale in quanto si propone

di trovare un elemento che sia assente in comportamenti conformisti e sistematicamente presente in

ogni comportamento deviante.

Tutto ciò fa sì che Sutherland rifiuti ogni spiegazione focalizzata sulla povertà e sulla

disintegrazione familiare, sostenendo che non è la povertà a creare devianza. Sutherland sostiene

che il comportamento deviante è appreso: ciò significa che non tutti gli individui in possesso di una

o più di queste caratteristiche si comportano in maniera deviante. Infatti, anche le persone sane e

stabili dal punto di vista mentale, che abitano nei quartieri ricchi, possono commettere atti devianti.

Sutherland rifiuta le teorie psicoanalitiche della devianza, in primis quelle che fanno

riferimento all'impostazione freudiana secondo cui il soggetto commette azioni devianti perché è

attanagliato da un opprimente senso di colpa riconducibile al mancato superamento del complesso

di Edipo.

Sutherland sostiene che esiste una spiegazione dinamica ed una storica del comportamento.

Con la prima si intende una spiegazione data in termini di processi che sono operativi nei momenti

in cui si verifica il comportamento deviante, con la seconda si fa riferimento ad un comportamento

adottato alla luce delle precedenti esperienze del soggetto deviante. È dalla spiegazione storica che

l'autore ricava tutto il significato sociologico del comportamento deviante: la teoria di Sutherland

quindi si definisce storica. Questa teoria, meglio definita come Teoria dell’Associazione

differenziale, è costituita da vari punti fondamentali:

1. Il comportamento deviante è appreso; tale comportamento non s'inventa né si eredita;

2. La devianza si apprende nel corso di un processo di interazione con altre persone.

L'apprendimento è un processo interattivo che predilige prevalentemente la comunicazione

verbale;

3. La maggior parte del processo di apprendimento si svolge all'interno di gruppi primari;

4. Il processo di apprendimento include non solo le tecniche idonee per commettere un crimine,

ma anche motivazioni, impulsi, razionalizzazioni e atteggiamenti;

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Università Telematica Pegaso Le principali teorie sociologiche della

devianza (parte prima)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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5. L'orientamento specifico delle motivazioni e degli impulsi viene appreso attraverso le

definizioni favorevoli o sfavorevoli alle norme sociali vigenti. In ogni società gli individui

sono circondati da gruppi che definiscono le norme con una sorta di comandamenti da

osservare oppure che sono orientati in senso opposto, cioè verso la violazione delle norme;

6. Un soggetto diventa deviante quando prendono il sopravvento le definizioni favorevoli alla

violazione delle norme: qui si scontra il principio dell'associazione differenziale, cioè

un'associazione di forze reciproca opposizione. Il deviante è tale in quanto esposto

l'incidenza di modelli devianti ed è contemporaneamente isolato da modelli non devianti;

7. Le associazioni differenziali possono variare secondo quattro variabili: frequenza, durata,

priorità e intensità. Le prime due sono facilmente comprensibili: con la prima si intende un

numero di volte in cui si verifica il comportamento deviante, mentre con la seconda si

intende l'estensione temporale del comportamento. La priorità fa invece riferimento

all'assunzione per cui i comportamenti devianti o non devianti appresi nell'infanzia debbono

persistere per buona parte della vita in tutte le età future del soggetto. Questa spiegazione di

tipo psicoanalitico fa emergere una contraddizione in Sutherland, in quanto egli aveva in

precedenza rifiutato questo tipo di spiegazioni. Infine, l'intensità si può intendere come il

prestigio di cui gode il modello deviante di riferimento;

8. Il processo di apprendimento della devianza coinvolge tutti i meccanismi presenti in ogni tipo

di apprendimento: quest'ipotesi incorpora il concetto di imitazione ma presuppone anche

molteplici altre modalità selettive di apprendimento. Tale concetto implica che

l'apprendimento deviante sia uguale all’apprendimento di qualsiasi altro comportamento

conformista;

9. L'azione deviante è l'espressione di bisogni e valori di cui è anche espressione l'agire non

deviante.

5.1. The professional thief (1937)

Il “Ladro di professione”7 è un saggio in cui Sutherland cerca di evidenziare dal punto di vista

pratico-empirico la sua

7 E. SUTHERLAND, The professional thief, University of Chicago Press, Chicago, 1937.

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Teoria dell’Associazione Differenziale: il comportamento criminale non si eredita ma viene

appreso all'interno di un determinato ambiente sociale come qualsiasi altro comportamento. In

questo ambiente (associazione), tramite processi di comunicazione interattiva, vengono apprese sia

le tecniche necessarie al compimento del crimine che le spinte motivazionali ad assumere un

comportamento criminale.

Il saggio di Sutherland costituisce l’autobiografia di un soggetto la cui professione specialistica

è quella di rubare, obiettivo finale di un lungo periodo in cui si sono imparate tecniche e procedure.

Lo studioso afferma come si possa diventare un buon professionista del furto solo se si posseggono

determinate qualità (mente sveglia, sfrontatezza, ecc.) che vengono sottoposte ad un buon noviziato.

Una volta che la specializzazione tecnica porta il soggetto ad acquisire lo STATUS di ladro, egli

guarderà con disprezzo tutti coloro che considera dilettanti. Il percorso e la carriera del ladro, a

questo punto, sono affiancati da un SISTEMA DI VALORI (violazione più grave è fornire

informazioni alla polizia perdita di prestigio e difficoltà nel trovare “colleghi devianti”) e si

caratterizzano per una particolare forma di associazione differenziale. L’individuo erige barriere per

difendersi dalla società esterna ma allo stesso tempo deve mantenere un contatto con persone non

devianti. Queste ultime, oltre ad essere sue potenziali vittime, svolgono una funzione importante per

l’espletamento della sua professione, in quanto possono essere in grado di garantirgli un certo

credito innanzi ad istituzioni perfettamente legali.

Le caratteristiche del ladro di professione, che si avvale dell’apporto di certe conoscenze, sono:

- Il CONTATTO: primo requisito, avere contatti con chi è già un ladro di professione;

- Processo di SELEZIONE: occorre che il ladro riconosca certe capacità nel potenziale collega.

N.B. Le modalità che regolano questo processo sono simili a quelle che regolano l’accesso alle

professioni legali.

5.2. Critiche

1) Sutherland non considera il ruolo della libera scelta da parte del deviante, considerandolo

semplicemente come un “contenitore” che recepisce la devianza a seconda di condizioni

favorevoli o sfavorevoli alla violazione di norme;

2) Non prende in considerazione la vittima (parte offesa);

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3) Egli spiega l’origine del crimine: afferma che il comportamento deviante è appreso ma non

viene spiegata l’origine dell’apprendimento (determinate caratteristiche piscologiche?);

4) Contrariamente a quanto sostengono Cloward e Olin parlando di subculture, Sutherland

afferma che ogni personalità ha uguale probabilità di accesso sia a comportamenti criminali che

a comportamenti non criminali.

5.3. White collar criminality (1940)

Secondo Sutherland esiste una vera e propria devianza attribuibile alle persone rispettabili, in

possesso di un elevato status sociale. Il termine white-collar worker (colletto bianco) fa riferimento

ai professionisti salariati che svolgono funzioni di grande responsabilità, come i dirigenti, gli

impiegati con funzioni amministrative e, più in generale, i lavoratori che svolgono funzioni meno

fisiche ma che sono più retribuite rispetto ai colletti blu (lavoratori manuali).

Sutherland sostiene come la criminalità commessa negli affari e nelle professioni, il white-collar

crime, termine da egli stesso coniato nel 1939, 8

sia un vero e proprio crimine dal punto di vista

giuridico, sociale, economico (evasioni fiscali) ed etico (realizzati contro vittime che non hanno

strumenti per impedirli).

La riflessione di Sutherland si inserisce in un periodo di grandi trasformazioni in cui la classe

operaia diviene molto forte all’interno del New Deal. Docente all’Università dell’Illinois, egli

comincia a reagire a quelle che vengono chiamate le spiegazioni multifattoriali della delinquenza e

del crimine. Egli si chiede perché tante persone disagiate e povere non delinquono a differenza di

coloro che godono di particolari agi sociali ed economici. Profondamente influenzato dalla Scuola

di Chicago, Sutherland non rivolge la sua riflessione tanto al problema della disorganizzazione

sociale quanto a un problema di organizzazione sociale differenziale. Quest’espressione sta ad

indicare come diversi gruppi sociali instaurino un diverso rapporto con i comportamenti devianti. Il

tasso di accettazione del comportamento deviante o conforme varia allora a seconda

dell’organizzazione sociale del gruppo considerato.

8 Dieci anni più tardi uscirà il saggio di Sutherland intitolato, E. SUTHERLAND, White Collar Crime, Holt, Rinehart

Winston, New York, 1949.

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Questa riflessione, unita al tipo di devianza dei colletti bianchi individuata da Sutherland,

rende evidente come le cause del crimine non siano i tratti di personalità, le condizioni sociali od

economiche, perché determinate condizioni sono presenti anche in assenza di condotte criminose o

assenti quando queste si manifestano. Per giungere, dunque, ad una spiegazione del comportamento

criminale, occorre mettere in evidenza meccanismi e processi comuni a ricchi e poveri, a differenti

gruppi raziali, a zone urbane e rurali, ad anziani e giovani che commettono crimini.

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Bibliografia

BALLONI A., Criminologia in prospettiva, Editrice CLUEB, Bologna, 1983;

DURKHEIM E., Il suicidio, UTET, Torino, 1977;

PARK R.E., E.W. BURGESS, R.D. MCKENZIE, The city, The University of Chicago Press,

Chicago, 1967;

http://www.chicagoareaproject.org;

MERTON R.K., Social structure and anomie, 1938;

E. SUTHERLAND, The professional thief, University of Chicago Press, Chicago, 1937;

E. SUTHERLAND, White Collar Crime, Holt, Rinehart Winston, New York, 1949.