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PICCOLI FATTI DI IERI E DI OGGI. IERI 1939-1947- LA SITUAZIONE AL MIO PAESELLO Avevo pochi mesi allorché nel 1939 mio padre , mastro muratore e costruttore di case emigrò in Venezuela, scampando appena in tempo alla chiamata alle armi ed all’entrata in guerra dell’Italia.Con l’inizio del conflitto ed il massiccio abbandono dei campi e delle fabbriche per la chiamata alle armi, iniziarono ad aggravarsi le già precarie condizioni economiche della popolazione del mio paesello come del resto d’Italia.Del periodo bellico ricordo vividamente lo stato di privazione mia e di mia sorella, ma soprattutto di mia madre, che senza entrate, per noi si toglieva il pane dalla bocca. Per questo si ammalò di anemia cronica , che poi ,da medico ,ho capito che si era trattato di vera e propria carenza alimentare.Mamma mia , periodicamente,era costretta a recarsi assieme ad altre donne, in Calabria , con i treni merci ,per barattare biancheria del corredo con grano, legumi , fichi secchi ed altre derrate .Ricordo che , al suo ritorno, le andavo incontro sulla strada di casa, per buttarmi felice tra le sue braccia. Quanto mi rammarico di non aver raccolto e trascritto i suoi proverbi ed i detti popolari che conosceva a dovizia e che, all’occorrenza, citava sempre in maniera appropriata. Allora , vicino casa, era accampato un drappello di cavalleggeri, con i cavalli,come presidio militare.Erano tutti dell’Alta Italia che da subito avevano familiarizzato con la popolazione a cui non 1

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PICCOLI FATTI DI IERI E DI OGGI.

IERI

1939-1947- LA SITUAZIONE AL MIO PAESELLO

Avevo pochi mesi allorché nel 1939 mio padre , mastro muratore e costruttore di case emigrò in Venezuela, scampando appena in tempo alla chiamata alle armi ed all’entrata in guerra dell’Italia.Con l’inizio del conflitto ed il massiccio abbandono dei campi e delle fabbriche per la chiamata alle armi, iniziarono ad aggravarsi le già precarie condizioni economiche della popolazione del mio paesello come del resto d’Italia.Del periodo bellico ricordo vividamente lo stato di privazione mia e di mia sorella, ma soprattutto di mia madre, che senza entrate, per noi si toglieva il pane dalla bocca. Per questo si ammalò di anemia cronica , che poi ,da medico ,ho capito che si era trattato di vera e propria carenza alimentare.Mamma mia , periodicamente,era costretta a recarsi assieme ad altre donne, in Calabria , con i treni merci ,per barattare biancheria del corredo con grano, legumi , fichi secchi ed altre derrate .Ricordo che , al suo ritorno, le andavo incontro sulla strada di casa, per buttarmi felice tra le sue braccia. Quanto mi rammarico di non aver raccolto e trascritto i suoi proverbi ed i detti popolari che conosceva a dovizia e che, all’occorrenza, citava sempre in maniera appropriata.

Allora , vicino casa, era accampato un drappello di cavalleggeri, con i cavalli,come presidio militare.Erano tutti dell’Alta Italia che da subito avevano familiarizzato con la popolazione a cui non

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raramente allungavano un pò di rancio.Con il tempo alcuni sposarono pure donne locali.

Ricordo che spesso andavo a curiosare nella fucina del maniscalco, affascinato dal bagliore dei carboni ardenti e dalle scintille che sprizzavano dal ferro battuto. Un giorno che il fabbro buttò per terra un pezzo di ferro dopo averlo fatto raffreddare nell’acqua facendola sfriggere,lo raccolsi credendolo freddo e mi ustionai la mano. Mia madre , cercò di lenirmi il dolore ungendomi la mano con olio di oliva.

Ricordo quando i soldati uccisero con un colpo di randello un gatto sorpreso a mangiare nella dispensa, che poi cucinarono per tutti. Lo fecero assaggiare pure a me.Com’è vero che il miglior condimento è la fame.Quanto era buono!

Ricordo il 15 agosto del 43, il bombardamento di Sapri, di cui si udivano i sibili sinistri e gli scoppi raccapriccianti delle bombe, essendo poco distante in linea d’aria da noi.Gli angloamericani credendo di aver individuato un deposito militare importante la bombardarono con l’incursione di 34 bombardieri. A seguito di ciò fu distrutta al 70% con la morte di 83 civili, di cui 22 bambini. Questo evento, dalla storia, non viene nemmeno menzionato ma per la cittadinanza di Sapri è tutt’altro che un piccolo fatto.

Ricordo l’otto settembre del 1943 ,allorché tutti i cavalleggeri uscirono in strada con i loro fucili per sparare in aria ripetutamente per festeggiare l’armistizio mentre io raccoglievo i bossoli di ottone per terra. Nessuno pensava che i guai per l’Italia non fossero finiti e che il peggio dovesse ancora venire.

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Durante lo sbarco anglo-americano tutti ricordano l’accanito mitragliamento delle torri di avvistamento antisaraceni costruite nel Cinquecento lungo la costa scambiati per fortilizi militari, abbaglio che si ripeterà in maniera eclatante per l’abbazia di Montecassino alcuni mesi dopo.Io e molti altri subacquei , anni dopo, abbiamo raccolto centinaia di bossoli di mitraglia d’aereo caduti in mare. Ancora oggi sulle mura spesse tre metri di queste torri , si vedono i fori e le brecce aperte dai colpi.

Ricordo dello scontro aereo che ci fu proprio sopra il cielo del mio paesello tra un caccia angloamericano ed uno tedesco. Questo ultimo ebbe la peggio e precipitò sopra una montagna vicina.L’aviatore pur essendo atterrato con il paracadute alcuni chilometri distanti , in poche ore , raggiunse a piedi i resti del suo aereo .Poi , minacciando con un revolver ,tenne in scacco la popolazione per un paio di giorni prima di consegnarsi ai carabinieri. Voleva sparare in testa ad un mio cugino che cercava di recuperare la sua vecchia bicicletta arrugginita che il germanico gli aveva sequestrato. Tra lui e mio cugino si frappose la madre disperata con le braccia aperte per impedirgli di sparare, salvandolo a stento. Ogni volta che ricordo questa scena mi sovvengono “I disastri della guerra”di Goya.

Ricordo il fragore dei blindati ed il cigolio degli anfibi anglo- americani sbarcati, diretti a Salerno, che passarono proprio davanti casa mia ed i soldati che lanciavano alla gente gallette.

In quel periodo con i miei compagni avevamo costituito una vera e propria banda di scugnizzi. Assieme giocavamo alla “guerra francese” un gioco ereditato a seguito del passaggio delle truppe

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napoleoniche , che non richiedeva palle o attrezzi ed a “ strummulo” gioco che consisteva nell’avvolgere una cordicella attorno ad una trottola di legno munita di punta di ferro,che costruivamo da noi e poi nel lanciarla per colpire quella dell’avversario. Andavamo a caccia di uccelli con la fionda o i “lazzuli”, trappole , che costruivamo,per acchiappare i passerotti usando come esca un’oliva .Ma il massimo divertimento consisteva per noi, sempre affamati ,nel rubare per le campagne: ciliegie , nespole , fichi e altra frutta varia. Non raramente capitava di essere inseguiti da vecchi contadini inferociti, perché i giovani erano tutti alle armi, che appunto per l’ età avanzata riuscivamo facilmente a seminare.

Durante una di queste scorrerie ladresche, nella fretta ingurgitai il seme di una nespola. Allorché giunsi a casa ,preoccupato lo raccontai a uno zio . Questi, forse per scoraggiarmi dal fare future marachelle , fingendosi visibilmente preoccupato, mi disse che da lì a qualche mese mi sarebbe spuntata nella pancia una pianta di nespole che con il tempo sarebbe diventata sempre più grande. Da allora per mesi vissi nel terrore che mi spuntasse l’albero e ogni momento mi guardavo la pancia e mi tastavo la pelle.

Il gioco delle “furmelle”

Al mio paesello “furmella” significa bottone.Allora non c’erano giocattoli a disposizione per cui bisognava arrangiarsi. Il gioco

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consisteva nello scagliare alternativamente un bottone contro un muro e attendere il rivale che buttasse il suo. Se il secondo bottone si avvicinava fino ad un palmo della sua mano vinceva ed entrava in possesso dello stesso altrimenti perdeva il suo.Nel periodo anteguerra, quando eravamo meno poveri,al posto dei bottoni si giocava con i soldi di rame con l’effigie di Vittorio Emanuele III°. Ricordo che pur di giocare a “furmelle”una volta tagliai tutti i bottoni dei vestiti ad uno mio zio . Mia madre li dové ricomperare tutti dal sarto.

Ricordo il mio nonno materno,ciabattino per hobby, che era stato guardia comunale e suonatore di trombone nella banda del paese che ci teneva sempre a dire di essere stato a New York, per la qual cosa parlava inglese e dopo la guerra, di tanto in tanto , leggeva pure il New York Times.In paese era un personaggio per i suoi giudizi ed aforismi ,per la qual cosa veniva considerato un filosofo. A me citava spesso la celebre frase di Sant’Agostino “meglio non indagar nel gran mistero all’alba del giorno che sera non ha.”Quando si accorse che un ragazzo apprendista rubava nella bottega, dopo averlo fatto sbattere sull’attenti così l’apostrofò:”tu sei sordo all’occhio sinistro e cieco all’orecchio destro ma sei soprattutto un buon pianista” facendo il segno di arraffare con la mano e scacciandolo via.Un giorno che da uno dei terrazzi di casa si era accorto che il figlio più piccolo si era arrampicato sul campanile della chiesa gli gridò:”figlio che ti possano mettere sotto aceto! Figlio che ti possano fare cardinale!” Ricordo pure il nonno paterno, perché abitavamo a casa sua, che mi raccontava la sera davanti al fuoco, leggende e

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favole finché mi addormentavo. Allora mi prendeva in braccio e cullandomi con le mani mi cantava la ninna nanna:”dormi… dormi… niputello mio,dormi… dormi… cà candarella i papoppo… dormi… dormi niputello mio…”.”Candarella di papoppo” stava per ninna nanna del nonno.

Durante la guerra, riuscire ad allevare un maiale era risolutorio per la fame e per la carenza proteica.Ricordo che mia sorella, più grande di me di un anno,provvedeva a raccogliere per i campi ,durante l’intera giornata, erbe mangerecce, ghiande e radici per il maialino che come la sentiva avvicinare da lontano iniziava a inerpicarsi sul muretto del porcile con le zampe anteriori ed a grugnire festosamente.Nel mese di dicembre, prima di Natale , si usava uccidere il maiale per poi consumarlo tutto senza buttare nulla come sempre, ma allora più che mai.Quattro robusti contadini afferravano il porco per le zampe e dopo averlo sbattuto per terra e immobilizzato tra stridenti e acuti grugniti che si sentivano a distanza di chilometri e che evidentemente dimostravano che l’animale non fosse d’accordo,veniva scannato all’istante con un affilato coltello raccogliendo il sangue in un recipiente , per poi farne gustose pietanze di sanguinaccio. Poi veniva squartato e fatto a pezzi per preparare numerose varietà di salumi ed i prosciutti.Con le interiora si friggevano in vario modo le frattaglie. Gli intestini servivano come contenitori dei salumi.Con lo stomaco si cucinava un’appetitosa trippa.Con la pelle si cuocevano le cotenne.Con le zampe si ricavava il cotechino e lo zampone. La coda corta e pelosa veniva usata come scopino.Con i residui della carne grassa si assortiva la “cicola”, ammasso compresso che residuava dopo averla cotta e

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spremuta del grasso con cui si faceva la sugna bianca. Questa veniva conservata a parte nella vescica del maiale e poi utilizzata per svariati usi ma soprattutto in cucina in alternativa all’olio di oliva.Per me la “cicola”assieme al sanguinaccio a base di riso con uva passa e pinoli erano i manicaretti supremi. Ma soprattutto ricordo il pianto irrefrenabile di mia sorella che dopo aver cercato di impedire l’uccisione del suo “nico” con pianti e strepiti non riusciva a darsi pace perché avevano ucciso il suo porcellino a cui si era affezionata, che sin da piccolo , l’aveva adottata come madre.

Allora c’era carenza di tutto. Ricordo che su richiesta di mio nonno paterno a letto ammalato , andavo a staccare la corteccia dal tronco di una grande pianta di vite che poi sminuzzavo affinché potesse utilizzarla come surrogato del tabacco e prepararsi con piccoli pezzetti di carta le sigarette.

I bei tempi che furono.

I bei tempi che furono, sempre tanto decantati e rimpianti ,lo saranno stati per la nobiltà decaduta, nostalgica di un passato allorché essere nobile garantiva privilegi , ma non certo per il popolo. A sentire quello che raccontava mio padre di come fosse la vita per un popolano del mio paesello,negli anni venti-trenta, il cosiddetto “sfasulatu”, cioè colui che era tanto povero da non avere nemmeno i fagioli, che da sempre erano stati la carne del contadino,quella dopo il boom economico era come stare in

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paradiso.Giorni fa leggevo sul giornale che una grande famiglia di imprenditori di Treviso aveva invitato ad una suntuosa cena trecento VIP il cui piatto principale, elaborato da un noto chef ,era stato a base di pasta e fagioli.Mio padre raccontava ,che a quattordici anni fu iniziato all’arte muraria,dal padre, alias mio nonno , mastro muratore di vaglia,che era stato l’artefice delle mura e dei ponti della strada provinciale del mio paesello finanziati dal fascismo , ancora completamente integri dopo quasi cento anni.Per tre anni, come apprendista, dové caricarsi sulle spalle e trasportare la “cardarella” piena , un recipiente metallico a cono tronco che poteva contenere fino a venti chili di calcestruzzo, su per le scale a pioli, per rifornire i muratori. Doveva impastare ,per il restante tempo della giornata lavorativa,la calce con l’arena. E questo dall’alba al tramonto.La sera la cena consisteva in un pezzo di “pane nero” che era il pane dei poveri , senza un filo di olio né companatico assieme ad un bicchiere d’acqua, per poi andare a dormire assieme a tutti i fratelli in un unico grande letto con un materasso imbottito di sfoglie secche di pannocchie di granturco.Oggi il pane integrale viene venduto nelle panetterie come bene di lusso.La vita per i braccianti era ancora più dura.Il mattino all’alba, di giorno in giorno, dovevano andare in piazza ad aspettare che qualche “caporale” li assoldasse per lavorare nei campi duramente, dall’alba al tramonto per pochi spiccioli, cosa che capitava quasi solamente durante i raccolti. E mio padre ci teneva a dire che la vita dei suoi avi era stata ancora più dura e con più privazioni. A parte la domenica non c’erano ferie.Non c’erano né mutue né ospedali. Il medico se lo dovevano pagare di tasca propria .

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Quando era la festa del patrono del paese il suo premio consisteva , unico in un anno intero di duro lavoro,in due soldi di rame con cui riusciva a comperare un piccolo cono di carta gialla pieno di lupini e una piccola statuina di zucchero colorato di Cecco Peppe , alias Francesco Giuseppe Imperatore d’Austria e Ungheria. Questi racconti la dicono lunga sul perché del massiccio esodo, nel mondo, di Meridionali che ci fu specie dopo l’unità d’Italia ed ai primi del Novecento.

Fino alla istituzione del parco nazionale del Cilento nel 1991, poi patrimonio dell’Umanità , nonché Biosfera mondiale dell’UNESCO,al mio paesello la caccia al cinghiale, che è sempre cresciuto abbondante nei boschi ,per la pregressa scomparsa del suo predatore naturale, il lupo,era praticata con successo e specie durante la guerra serviva come integratore proteico per una popolazione affamata.Ricordo i grandi cinghiali uccisi che venivano portati in paese a dorso di muli che transitavano sotto casa mia.Ora che la caccia , per via del parco, è proibita, oltre a doversi privare di questa risorsa, la popolazione deve pure subire la beffa della devastazione dei raccolti da parte dei cinghiali, che prolificando scorrazzano.

Al mio paesello ,da sempre ,fino all’arrivo del gas ,il focolare è sempre stato non solo l’unica fonte di riscaldamento durante l’inverno ma anche la maniera più comune per cucinare durante l’intero anno.Per questo motivo a tutti i miei paesani, specie le donne, sulla pelle della parte anteriore delle gambe,esposta al fuoco,si formavano i “ruezzi”che erano delle striature rossastre,veri e propri esiti di ustioni. Oggi il camino durante

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l’estate non viene più acceso , fatto salve in qualche sparuto casolare di campagna, ma viene ripristinato ancora, in quasi ogni casa ,durante l’inverno come fonte di calore alternativo o supplementare al riscaldamento a gas o a legna.A Natale , i pochi paesani emigrati che di tanto in tanto fanno una rimpatriata nella loro madre terra è attorno al focolare che ritrovano i ricordi della loro infanzia e l’essenza della loro anima. Il camino , in tutto il mondo,anche se oggi è obsoleto come calorifero resterà sempre in uso come residuo atavico nella nostra memoria filogenetica del vecchio focolare ,attorno al quale , a far capo ad almeno 400 mila anni fa il nostro antenato l’Homo erectus sicuramente già si riuniva con la famiglia .Al mio paesello ancora si respira, nel periodo natalizio, assieme all’aria acre e odorosa di legna bruciata nei camini, l’atmosfera di miti e di vecchi racconti.

Ricordo tra le tante leggende che mi narrava il nonno paterno,oltre a quella del brigante Musolino che aveva imperversato in Calabria ai primi del Novecento , quella del “mummacello” e del “lipombinu” alias il lupo mannaro.Il “mummacello”, a sentire gli anziani che ne parlavano convinti e con fervore, lo avevano visto tutti più di una volta . Per questo motivo al “mummacello” finivano col credere pure coloro che non lo avevano visto mai. Era un ometto senza tempo,quanto un nano,scherzoso e beffardo che di tanto in tanto compariva sornione davanti al focolare o accanto al letto per fare boccacce o marameo.Oggi potremmo assimilarlo agli hobbit di “guerre stellari.”A pensarci bene doveva essere più un’allucinazione ricorrente frutto della fame che parto della fantasia popolare.Peccato che del “mummacello”oggi non se ne parli più.

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Perché se è vero che non c’è più sua madre, la fame , abbiamo perduto pure suo padre: il mito incantato.

La leggenda del “lipombinu” al mio paesello come altrove nel mondo ,non era di origine locale,ma derivava dalla atavica paura che l’uomo ha sempre avuto del lupo, una volta abitante in tutte le Alpi e negli Appennini, più per il suo richiamo agghiacciante che per una sua reale ferocia e pericolosità.A questa leggenda si riallaccia una forma grave di melanconia acuta una volta non infrequente in Europa, chiamata licantropia, i cui malati durante le crisi di sconforto ululano . Ritengo che nulla più del quadro di Münch, “il grido” , rappresenti meglio questa crisi esistenziale umana.La narrazione di questa leggenda, al mio paesello, da parte delle persone anziane, assumeva una particolare coloritura perché oltreché descrivere “u lipombinu” con convinzione ci tenevano vivamente a raccomandarci come fare per difenderci .All’uopo occorreva portare con sé sempre un temperino appuntito con cui pungerlo per acquietarlo e renderlo innocuo.

“De gustibus non est disputandum”

Le prelibatezze culinarie.

La fame, che era il condimento primario durante il periodo bellico, non faceva mancare le prelibatezze . Bastava accontentarsi e non aver conosciuto le mense ricche.Così le castagne al forno che

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preparava mia madre erano una di queste, assieme ai fichi secchi profumati dall’essenza di alloro di cui si impregnavano nelle cassapanche ove venivano conservati.Quelli poi eccezionalmente farciti con noci e/o mandorle erano il non plus ultra delle leccornie. Così una prelibatezza era scrostare con il cucchiaio la“ maracucciata” ,la polenta che rimaneva attaccata alle pareti interne del pentolone di rame in cui si metteva a cuocere sul fuoco nel camino oppure mangiare quella commista con i “tozzarelli”, piccoli pezzettini di pane abbrustoliti. Per non parlare delle patate arrostite nella brace che covava sotto la cenere del focolare, che pulivamo alla buona con le mani e che mangiavamo con tutte le bucce, che costituivano la parte più gustosa.Anni dopo, da medico, dovevo apprendere che mangiare cibo commisto con cenere o terra da parte dei bambini poveri del terzo mondo serve, quale contropartita alla denutrizione, come integrazione minerale e che la sporcizia a questi fanciulli oltre a fungere da vaccinazione plurima gratuita li premunisce dalle allergie, di cui invece soffrono di frequente i bambini superpuliti dei paesi ricchi.

L’eredità di Orbilio.

Ricordo allorché frequentavo la seconda elementare che la maestra, una donna bassa, tozza , pettoruta e con un evidente accenno di baffi,spesso e volentieri mi propinava delle forti bacchettate sulle mani allorché sbagliavo e se le schivavo me le

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suonava sul corpo.Questa consuetudine di bacchettare anche duramente i bambini nelle scuole elementari al mio paesello è durata fino a qualche lustro fa, proseguendo nella tradizione di Orbilio, il maestro che Orazio ricorda soprattutto per questo tipo di abitudine. Oggi a questi maestri, qualora fossero sfuggiti al linciaggio da parte dei genitori dei bambini , avrebbero sicuramente comminato l’ergastolo.

Ascoltavamo sempre ipnotizzati le arringhe di Mussolini per radio.A proposito vi ricordate le adunate oceaniche a piazza Venezia a Roma quando pontificava Mussolini,che ancora si possono vedere nei film luce? Quanti erano le persone grasse?Guardate ora le adunate, anche di operai,quanti sono i magri?Durante la guerra, per il popolo, essere “in salute” significava essere per lo meno grassocci e una donna che non fosse in carne non poteva essere bella.Oggi da parte delle donne, com’è notorio, è una gara a più non posso a non mangiare per essere magre non raramente fino all’anoressia.

Quando sono preoccupato per l’attuale crisi economica penso alla famiglia di un ciabattino povero durante la guerra, costituita da lui, da 18 figli e dalla moglie che veniva soprannominata “la coniglia” per averli avuti malgrado quattro aborti.Fino alla caduta del fascismo aveva ricevuto il sussidio del governo che incoraggiava la natalità a ogni piè sospinto perché occorrevano figli per “fertilizzare” l’Impero.Dopo l’otto settembre, rimasto senza sussidio, il povero ciabattino allorché i figli sentivano fame e gli andavano a chiedere del cibo diceva loro: “figli miei mangiate me , mangiate me.”Quei ragazzi per sopravvivere si nutrivano dei

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fichi d’India che abbondanti crescevano nei dirupi e di erbe di ogni tipo . Ciononostante tutti sono sopravvissuti e si sono sposati e sistemati .La “coniglia” , di aspetto portante,dopo la morte del marito, ebbe persino proposte di matrimonio.

La guerra, regina suprema della stupidità criminale umana, a parte i morti, i feriti , gli invalidi , tutti gli orrori che comporta e gli strascichi di dolore e sofferenze che si trascina sempre dietro, lascia tanti altri segni meno evidenti ma non privi di peso. In mia madre ho già detto, in me e mia sorella la bassa statura assolutamente sproporzionata in rapporto ai giovani di oggi dello stesso ceto, per via della carenza alimentare.

1947-1951 EMIGRAZIONE IN VENEZUELA.

Nell’aprile del 1947 a seguito di chiamata da parte di mio padre in Venezuela,io , mia sorella e mia madre emigrammo. Partimmo da Napoli in terza classe su una nave americana diretta a New York.Ricordo che dormivamo in una camerata comune,sopra letti a castello. Io giacevo sotto quello di mia sorella e sopra quello di

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mia madre poiché soffrivo di enuresi notturna.Quando, di notte, mi scappava la pipì il mattino la mamma dava qualche dollaro al marinaio di servizio perché cambiasse il mio materasso bagnato con uno asciutto.

Con noi erano oltre a uno zio, fratello di mio padre, quattro ragazzi che dovevamo accompagnare fino a New York. Ricordo il clamore che suscitammo mentre transitavamo sulla passerella della nave per sbarcare a New York ,perché tutti credevano che fossimo una famiglia di 6 figli.Gli emigranti una volta scesi dalla nave venivano smistati in enormi capannoni disposti per lettera alfabetica relativa alla iniziale del proprio cognome prima di superare il controllo della visita sanitaria.Ogni qualvolta ricordo questo passaggio non riesco a evitare l’accostamento ai lager.

Prima di prendere l’aereo per il Venezuela restammo in attesa quindici giorni a New York a casa dei genitori dei ragazzi che avevamo accompagnato. Durante questa permanenza ricordo due fatti .Il primo che ogni volta che uscivo fuori di casa venivo attorniato da una frotta di ragazzacci che mi ingiuriavano e minacciavano , conseguenza della propaganda bellica degli americani contro l’Italia fascista e dell’atavica xenofobia contro i nuovi arrivati, specie di origine latina. Io rispondevo alle minacce mostrando i pugni e digrignando i denti. Al mio paesello ero cresciuto allo stato brado, quindi penso proprio che un po’ di timore, ai miei coetanei americani dovessi incuterlo, perché evitai sempre di prenderle.Il secondo che al Central Park, che non era molto distante , in cui mi recavo in monopattino, un giorno trovai per terra un “the pencil”, una matita intera con la gomma per

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cancellare incorporata, che per me scolaro del sud Italia, era sempre stata un sogno.Un altro giorno trovai un dollaro di carta sotto una panchina. Fu allora che mi dissi: “ è proprio vero che l’America è il paese della cuccagna!”

Da New York fino all’aeroporto di Caracas viaggiammo in aereo. Se la nave con cui eravamo venuti a New York era una carretta di mare, l’aereo ne era un degno emulo, trattandosi di un vero e proprio trabiccolo a eliche che dové fare scalo all’Havana per rifornirsi non essendo in grado di volare fino a Caracas. Sobbalzava ad ogni alito di vento per cui vomitai pure gli occhi.Ricordo l’Havana come una città piena di palme.

Una volta a Caracas mio padre volle iscrivermi nel collegio più esclusivo , quello dei padri Gesuiti.Qui per ammettermi alla seconda elementare mi sottoposero ad un esame e non conoscendo lo spagnolo mi diedero da svolgere una divisione a quattro cifre che mi riuscì benissimo.In Venezuela già allora insegnavano l’inglese sin dalla seconda elementare per proseguire fino alla laurea. In questo modo chi si diploma e ancor meglio chi si laurea conosce bene le due lingue più parlate al mondo.In Italia, molto a torto, in questo ordine di idee ci siamo arrivati solo da poco.

Della frequenza al collegio ricordo che un giorno,un padre gesuita ,con un gesto sicuramente di cattivo gusto,mi mostrò la foto su un giornale che mostrava Mussolini e la Petacci appesi a testa in giù in piazza Loreto.

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Quando uscivo dalla scuola ,mi fermavo spesso a mangiare i bignè di cioccolata in pasticceria oppure la “chicha”, che è una bevanda squisita,simile allo yogurt,ma dolce, a base di mais fermentato venduta negli angoli delle strade dai “cicchèros” con il carretto, come fanno i gelatai di strada.

Non passava settimana che una signora di colore che abitava nello stesso mio condominio non mi vendesse e quando ero al verde,ogni tanto, mi regalasse, una ciotola di “jalea” di mango, una specie di cotognata di cui ero golosissimo. Non ricordo di aver mai mangiato nulla di più dolce in vita mia.

In un bar di Caracas ,gestito da un portoghese, andavo spesso per rastrellare sotto il banco i tappi delle innumerevoli bibite di succhi tropicali che si vendevano,di cui facevo la raccolta. Un giorno, con mia grande sorpresa, vi trovai pure alcune monetine di argento, a quel tempo frazioni del bolivar, la moneta del Venezuela. Da allora vi andavo quasi ogni giorno poiché ne trovavo sempre delle altre. Forse il tiretto ove il barman depositava gli spiccioli era bucato ? Fatto sta che io, tacito e furtivo, come trovavo una monetina, scappavo subito via a comprarmi un bicchiere di “chicha” la cui grandezza era proporzionale al valore della monetina scovata.

A Caracas mi ero messo in testa di fare il paladino dei coetanei del mio quartiere, che erano forestieri, da poco arrivati,per lo più spagnoli o polacchi di origine ebrea che venivano angariati dalle bande di “criòllos”, ragazzacci caracchègni ,per pura xenofobia e bullismo. Non passava giorno che non facessi a pugni o lottassi con qualcuno per cui ero temuto.I miei compagni, con

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ammirazione, mi chiamavano “el luchador”, il lottatore ed io ne andavo fiero poiché mi sentivo emulo di Zorro di cui ero accanito lettore di fumetti.

Nell’agosto del 1951 mio padre,più che benestante, all’età di 39 anni decise di rientrare con tutta la famiglia in Italia. All’andata eravamo partiti con la valigia di cartone su una vecchia caffettiera ed in terza classe da Napoli, ora rientravamo con le valigie di cuoio in prima classe su una nave di lusso,diretti a Genova.Il sogno dell’ emigrante è sempre stato lo stesso:rientrare in patria benestante al più presto.

La vezzosa intraprendente.

Sulla tolda della nave stava sempre sdraiato al sole un vecchio signore visibilmente benestante,che quando non dormiva guardava il mare.Un giorno un’avvenente mulatta , tutta sex appeal ,iniziò a “sfrugoliarlo” forse più per divertirsi che per adescarlo .La cosa andava avanti da alcuni minuti.Ad un certo punto il vecchietto per farla finita fece chiaramente alla bella il segno che si fa oscillando la mano semichiusa con l’opponente e l’indice aperti ad indicare che non ci sta nulla o che non c’è niente da fare.A quel punto lei si accostò al vecchietto e la sentii scandire chiaramente sebbene a bassa voce :”no se preocùpe…llielo levànto con la lengua!”

Davide e Golia.

Sul ponte della nave , durante l’intera navigazione veniva organizzata la gara del gioco delle “piastrelle”, che consisteva

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nello spingere forte ,rasente al suolo ,da una certa distanza,con una speciale paletta, una piastrella di legno rotonda per farla depositare su apposite caselle numerate.Si giocava in coppia, per eliminazione,vinceva chi riusciva a realizzare il punteggio maggiore.Lo scontro finale fu tra me tredicenne e il “goleador” della squadra di calcio del Venezuela.Vinsi io e per questo alla fine della navigazione fui premiato con un diploma e mi fu pure dato il nome di un animale marino.Da allora di premi e riconoscimenti anche di rilievo ne ho avuti diversi ma nessuno ha mai suscitato in me tanta emozione.

1951 al 1964 DAL COLLEGIO ALLA LAUREA.

Si parla spesso di soldi spesi male ed inutilmente per il Mezzogiorno d’Italia ed è indubbio che tutto non è stato speso bene ma ora posso fare, a ragion veduta, per quel che mi compete, alcuni confronti che dicono invece che per il Mezzogiorno d’Italia dagli anni cinquanta agli anni ottanta non si è fatto mai tanto e così bene in tutta la sua storia.

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Quando sono rientrato dal Venezuela nell’agosto del 51, da “americano”, così venivano chiamati coloro che rientravano in patria, a significare che erano ricchi o comunque benestanti, la metà dei bambini del mio paesello andava scalza e con i vestiti rattoppati.E nella stessa situazione del mio paesello erano tutti gli altri dell’intero Mezzogiorno. Nel paese non esistevano le scuole medie,né c’erano l’acquedotto e le fognature.Vi lascio immaginare lo stato dell’igiene e la diffusione delle parassitosi intestinali , quali potessero essere.Non c’erano mutue né ospedali.L’acqua potabile veniva attinta nella sorgente atavica del paese e trasportata, per chilometri in salita, dalle donne del paese con le “quarte” , recipienti di argilla cotta fabbricati al mio paesello,della capacità di 25 litri ,che portavano sulla testa con interposto “ u maccaturu” un fazzoletto arrotolato e collocato come ammortizzatore. Attigue alla sorgente oltre agli abbeveratoi per gli animali c’erano pure apposite vasche per sciacquare la biancheria,sempre affollate poiché la lavatrice in casa era di là da venire. L’analfabetismo, pur decimato dal fascismo, era ancora endemico.Quasi tutti i vasai del paese , come ebbi modo successivamente di accorgermi da medico,erano affetti da anchilostoma duedenale.Già alla fine degli anni settanta erano scomparsi i bambini scalzi e alla fine degli anni ottanta tutte le famiglie più povere avevano oltre al televisore e la lavatrice , l’acqua corrente in casa , con il lavandino ed il water e gli scarichi nella fognatura. Tutti avevano l’assistenza medica.Le scuole medie erano obbligatorie e diffuse in tutte le frazioni del comune. Nei paesi limitrofi importanti, come Sapri e Vallo della Lucania erano presenti anche le scuole superiori di ogni tipo.Ora il Sud poteva

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fornire , per lo più, all’ Alta Italia ,lavoratori completamente alfabetizzati e molto più edotti dell’immediato dopoguerra.

Dopo lo sbarco a Genova come giungemmo alla stazione ferroviaria afferente al mio paesello distante 11 chilometri,trovammo ad aspettarci uno zio, fratello di mio padre con una fiat 1400 . Allora in paese c’erano circolanti solo quattro automobili.Oggi sono tante che non si riesce a parcheggiare. C’erano solo strade strette e sterrate, senza asfalto per cui se capitavi dietro un camion o al postale del comune ti beccavi per l’intero tragitto tutta la polvere del nuvolone che si sollevava. Oggi il mio paesello è servito persino da una superstrada oltreché di strade larghe e completamente asfaltate. Ricordo che una delle quattro automobili era per uso noleggio .La guidava un autista molto pittoresco e un po’ strambo. Un giorno che proprio all’entrata del paese non riuscì a frenare per cui finì dentro la bottega di un vasaio, alle rimostranze di questi continuava a ripetere : “ ti potevi pure scansare!”.

Nel primo autunno del 1951 mio padre decise di mandarmi in un collegio di Barnabiti a Napoli , sito a Posillipo Capo, per farmi studiare.Il ricordo che ho di questo convitto è bello poiché oltre ad essere i Barnabiti maestri educatori , il posto godeva di un’ aria sopraffina,di un clima assai mite e soprattutto di un panorama unico, che dominava tutto il golfo di Napoli con in fondo il Vesuvio ed a destra Capri.Solo a guardare questo spettacolo ti riempievi il cuore al punto di dimenticare di stare in collegio. Era situato al centro del Parco della Rimembranza , di ben 8 ettari circondato da aranceti e mandarineti e munito di un

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giardino ricco di piante secolari e rare tra cui alcuni papiri originari dell’Egitto.Quando i miei compagni andavano a giocare, per un’ora al giorno, nel campo sportivo, io mi ritiravo nell’orto botanico per pensare, leggere o studiare.Ricordo il motto del collegio : “umbrata quies aliit artes” che letteralmente sta per:”la quiete all’ombra delle piante dà impulso alle arti” o se vogliamo: “l’amenità della natura stimola la creatività’”oppure :”la pace in mezzo al verde alimenta l’ispirazione”.In quella natura vivificante mi sono forgiato la coscienza.

Tutto attorno al parco del collegio girava un circuito in cui ogni anno si sfidavano le grandi marche automobilistiche. Io dall’alto di un cucuzzolo, in mezzo ad un frastuono incredibile assistevo entusiasta alle prodezze di Taruffi, Ascari , Farina e Fangio, a cavallo delle Ferrari, delle Alfa Romeo e delle Mercedes. Nulla più di quello spettacolo agiva in me come corroborante per studiare e far profitto a scuola.

Una delle norme belle del convitto era che per coloro che durante la intera settimana avevano avuto sul registro il giudizio “lodevole”, che veniva dato a coloro che facevano i bravi e rispettavano rigorosamente il silenzio dal lunedì al sabato, veniva concessa la libera uscita domenicale.Io l’avevo quasi sempre. Ricordo che da Posillipo Capo scendevo sempre a piedi fino a Mergellina, perché non mi stancavo mai di godermi, strada facendo, il panorama stupendo che pur essendo lo stesso si presentava sempre con colori diversi.Un giorno mentre transitavo per Posillipo m’imbattei nell’attore Stewart Granger, allora celeberrimo, che saliva con due bellissimi cani al guinzaglio, da

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solo, ammirando il panorama.Mentre continuavo a guardarlo meravigliato, se ne accorse e mi salutò con la mano libera. Una volta giunto a Mergellina non avevo che l’imbarazzo della scelta.Potevo allungarmi fino a via Caracciolo e riempirmi l’animo di mare o alla villa comunale ove , tra grandi palmeti,c’era l’acquario, allora ,il più importante d’Europa oppure più frequentemente bighellonare per il lungomare o curiosare tra le barche di ogni tipo nel porticciolo oppure andare a zonzo per viale Elena per finire al cinema . Ogni tanto compravo, a piazza Sannazzaro, con cinquanta lire ,una pizza alla margherita che mangiavo per strada. Oggi ancora nello stesso posto si mangia una delle migliori pizze di Napoli.Nel cuore mi è rimasto il fascino di questo quartiere in cui avrei vissuto volentieri per tutta la vita se avessi potuto.

Di tanto in tanto andavo anche a trovare mia sorella che era al collegio delle suore Dorotee a Posillipo. Era bravissima, sempre la prima della classe. A fine anno assistevo alla sua premiazione. Allorché le avevano appuntato tutte le medaglie somigliava a uno di quei generali russi decorati, eroi della seconda guerra mondiale.Una volta la premiazione avvenne in presenza del Cardinale Arcivescovo di Napoli. Ricordo che l’Alto Prelato , dopo aver elogiato brevemente tutte le premiate, estrasse elegantemente dal taschino un orologino d’oro finemente smaltato e dopo averlo scrutato teatralmente per far capire chiaramente che andava di fretta salutò tutti impartendo in quattro e quattro otto la benedizione pastorale.

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Gli anni dell’Università.

Alla fine degli anni cinquanta gli studenti universitari in generale ed in medicina in particolare, pur essendo cresciuti dall’immediato dopoguerra ,erano ancora molto pochi rispetto a quelli che saranno nei decenni successivi e soprattutto le università non erano proliferate come accadrà successivamente.

Durante la guerra ,passavo molto tempo nelle botteghe dei vasai che in grande numero ed allineate erano proprio vicino casa mia. Mi aveva sempre affascinato la figura del medico condotto del paese. Per questo motivo quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo sempre che avrei fatto il “pignataro” alias il vasaio o il dottore.

Fedele a me stesso mi iscrissi alla facoltà di medicina e chirurgia della università degli studi di Roma.Qui gli istituti a cui afferivano le materie propedeutiche del primo anno, chimica e fisica erano ubicati all’interno della città universitaria costruita in stile littorio dal fascismo, assai monumentale ma molto ariosa e stimolante. Lì dovendo per forza entrare,non c’era giorno che non venissi assediato , da matricola, dagli studenti anziani per gli scherzi vessatori che si usavano fare agli iniziati. Ogni volta ,che praticamente mi sequestravano, iniziavo a parlare spagnolo facendo finta di non capire.Così per l’intero primo anno riuscii a scampare all’”obolo” che la matricola doveva ogni volta pagare ai “gloriosi veterani”per circolare nella città universitaria. Ne conobbi uno che era da diciotto anni fuori corso e che anni dopo

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incontrai mentre mi stavo specializzando in pediatria a Modena mentre era in attesa di essere chiamato per l’esame di pediatria del corso di laurea in medicina!

La permanenza a Roma è stata una grande occasione per conoscere ,in parte ,una città straordinaria per arte e storia . Ogni sabato frequentavo il cinema-teatro Ambra Iovinelli poiché ero appassionato dell’avanspettacolo.Ogni volta che guardo uno spettacolo musicale in televisione mi viene sempre in mente il paragone tra le ballerine dell’Ambra Iovinelli di allora per lo più in carne , tracagnotte e con le gambe corte,con quelle slanciate e con le gambe lunghe della tv.Certamente queste ultime espressione della superiorità dello spettacolo,del cambio della moda , dei gusti e dello stato economico della nazione ma anche che sulle prime la guerra aveva lasciato il segno.Ma la città era per me troppo grande e soffocante per cui dopo due anni chiesi il trasferimento a Siena che da subito mi parve rinverdire sebbene in grande ed in maniera aulica l’atmosfera medioevale che si respira al mio paesello.

Qui l’ambiente studentesco era di gran lunga più raccolto di quello romano per cui si viveva un’atmosfera più da “college” che da città universitaria.

A Siena ebbi l’occasione di conoscere, per caso, personalmente Ernest Hemingway che era venuto per assistere al Palio, vestito in maniera pittoresca con un cappello piumato.Sembrava tanto vedere Alessandro Dumas ,di cui era sempre stato grande ammiratore.Mi presentai di mia iniziativa poiché venne a mangiare alla mensa universitaria.Poiché conoscevamo entrambi

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lo spagnolo volle sapere della mia permanenza in Venezuela e in specifico delle “corridas de toros”di Caracas, di cui era un vero intenditore. Era poco loquace ma alla mano senza alcuna boria di grande scrittore e fuor di dubbio un tipico americano.

Gli iscritti in Medicina a Siena allora erano pochi e c’erano non pochi israeliani e americani che venivano in Italia a studiare poiché nei loro paesi vigeva il numero chiuso.I più bravi del corso non erano italiani ma Israeliani. Quando il sabato e la domenica gli italiani andavano a divertirsi, loro , per via dello “shabbat”festivo e perché, per essi, la nostra domenica è giorno feriale , restavano in casa a studiare.Quando superavano gli esami con voti altissimi e mi sovveniva il ricordo delle leggi razziali mi dicevo :“altro che razza inferiore!”

Siccome mi ero messo in testa di emigrare negli USA, una volta laureato, volli concludere i miei studi a Bologna, da sempre considerata, in America, università internazionale e per questo mi iscrissi pure al corso di inglese-americano della the John Hopkins University Bologna.

In questa meravigliosa città universitaria ebbi modo di fare amicizia con diversi emiliani che riuscii a condurre d’estate al mio paesello che proprio allora iniziava ad aprirsi al turismo.Alcuni di costoro poi si innamorarono del posto e vi costruirono la casa per l’ estate. Uno di questi a cui ero assai affezionato era assai strambo ma assolutamente geniale.Strambo poiché correva con la macchina a scavezzacollo e prendeva sempre contro mano le curve a gomito , malgrado gli gridassi di stare attento. L’unico motivo per cui, secondo me, restò vivo fu perché a quel tempo la

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circolazione delle macchine ,dalle mie parti, era rara rispetto ad oggi. Era geniale perché in meno di quindici giorni scoprì un giacimento di anfore romane a cinque metri di profondità, vicino la costa,in un posto assai frequentato in cui nessuno si era mai accorto di nulla . A terra scoprì un sito paleontologico dimostratosi poi importante, consistente in una fabbrica di selci del paleolitico superiore e a pescare in una polla d’acqua del fiume Mingardo con un tridente da subacqueo un intero portabagagli di anguille, laddove nessuno mai vi aveva pescato nulla. Allorché emerse per mostrare a noi che eravamo in barca, un coccio di presunta anfora romana io per primo iniziai a sfotterlo tra la ilarità degli altri tre miei amici. Si trattava, dicevo senz’altro del coccio di una “frisina”, il recipiente di argilla , fabbricato in “illo tempore” al mio paesello, atto a contenere le deiezioni che poi si versavano nei campi come fertilizzante, altro che anfora romana!Ma dopo la seconda immersione venne a galla con una stupenda anfora vinaria ricoperta di incrostazioni che ci fece restare con la bocca aperta.Nell’imboccatura aveva ancora il sughero ricoperto di pece,intatto usato come tappo!Avvertimmo la guardia di finanza ,che non fece in tempo ad arrivare perché preceduta da una frotta di subacquei francesi attrezzati che fecero razzia portandosi dietro anche una bellissima ancora di piombo del peso di due quintali. Non miglior sorte capitò al sito paleontologico i cui reperti prima che intervenisse la sovraintendenza a recintarlo furono sbrindellati a dritta e manca , vandalizzati e depredati.Di lì a qualche anno durante lo sbancamento per allargare una strada-mulattiera venne alla luce una grotta preistorica con ricchi reperti di ossa di Homo sapiens e

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qualcuno di Homo di neanderthal con strati documentanti gli ultimi trentamila anni dal paleolitico superiore al neolitico.

I miei amici bolognesi,appresero da alcuni pastori, la leggenda della grotta dei briganti sita nel monte Bulgheria,in cui si dice nascondessero i loro tesori. La grotta era inaccessibile poiché incavata in uno strapiombo alto diverse centinaia di metri a cui poteva accedere solo un alpinista provetto ed attrezzato.Questo invece che spegnere la loro curiosità l’accentuò per cui pagarono un pastore locale perché facesse loro da guida.Dopo aver manifestato il mio scetticismo sulla valenza della grotta , data la loro insistenza mi accodai alla spedizione.Dopo aver imbracato uno di loro lo calarono dal ciglio del costone proprio sulla grotta.Questi dopo aver appurato che non c’era neanche l’ombra di un tesoro gridò loro di issarlo su. Ma ad un certo punto la corda restò impigliata nella roccia e non riuscivano più a tirarlo su. A un certo punto il bloccato iniziò ad avere paura e ad urlare disperato . I suoi compagni avevano paura che tirando forte, la corda potesse spezzarsi mettendone a repentaglio la vita .Alla fine, dietro mio suggerimento, gli calarono una seconda corda affinché si potesse imbracare di nuovo e liberarsi. Così fu felicemente issato su. Al ritorno, poiché faceva un caldo afoso , eravamo bruciati dal sole d’agosto, disidratati e senza acqua,passando davanti ad un abbeveratoio per pecore,ricavato in un grande tronco d’albero incavato, vero e proprio vivaio di insetti e di batteri , ci buttammo sopra a capofitto come gli sperduti nel deserto, allo stremo, sulla polla d’acqua di un oasi.Ci “abbeverammo” proprio come gli ovini ,bevendo direttamente

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l’acqua con la bocca, senza guardare per il sottile. In vita mia non mi sono mai divertito tanto.

1965-1966 IL SERVIZIO MILITARE

Gennaio-aprile 1965.Frequenza all’ Accademia di Sanità Militare di Firenze per allievi ufficiali medici.

Alla Scuola di Sanità Militare di Firenze , in alto, a Costa San Giorgio, in pieno inverno ,dopo la sveglia alle cinque del mattino occorreva in venti minuti lavarsi, sbarbarsi, vestirsi e fare il “cubo” per essere puntuale ed in perfetto ordine all’alzabandiera ove tirava sempre un’aria gelida.Di tutto questo a me è rimasto impresso il modo di fare in maniera accurata il “cubo” che doveva essere perfettamente squadrato.Il cubo era ciò che doveva approntare l’allievo dopo la sveglia, del proprio letto con esclusione della branda: una confezione perfettamente

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squadrata del materasso, le lenzuola ed il cuscino avvolta nelle coperte.Se non era perfetto il tenente comandante il battaglione diceva : “resti punito” che per l’allievo significava come minimo non uscire il pomeriggio per Firenze che per un amatore dell’arte era la peggiore punizione che potesse subire. A me ciò non accadde mai perché il cubo fu sempre impeccabile.

Una delle rare volte che non volli andare per musei o chiese e palazzi decisi di fermarmi a bere un rinfresco in un bar vicino al Ponte Vecchio dietro insistenza di alcuni miei colleghi. Capii il motivo allorché davanti a me e agli altri seduti al mio tavolo iniziarono a sfilare donne avvenenti che accostandosi davanti a noi si alzavano la gonna per mostrare le cosce , chiedendo a ciascuno di noi : vuoi? Poi mi dissero che quello era un noto bar ove per lo più gli allievi della scuola di sanità andavano per scegliere le donnine con cui stare.

Alla fine del corso a seguito degli esami, mi ero classificato, su oltre trecento allievi,ventesimo, ma con mia grande sorpresa,dopo il giudizio finale di attitudine militare mi ritrovai terz’ultimo, superato solo da due allievi che erano stati in prigione, in caserma, per gravi atti di indisciplina.Come mai? Nell’accademia mi ero sempre, per lo più, tenuto in disparte dai miei colleghi-commilitoni.Durante le libere uscite, mentre loro andavano per lo più a divertirsi , io mi preoccupavo solo di andare a visitare i musei e le chiese di Firenze perché sapevo che mai più nella mia vita avrei avuto l’occasione di poter visitare per così tanto tempo ed accuratamente una città così unica, per l’arte, come Firenze. Alla fine in conseguenza della gioia che si prova a

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superare il faticoso corso , desideravo salutarmi amichevolmente con i miei colleghi , per cui volli partecipare attivamente alla manifestazione festosa che si usava inscenare alla vigilia della chiusura del corso.Accettai di travestirmi da Papa.Così , opportunamente paludato,mi feci portare sulla sedia gestatoria per pontificare “urbi et orbi” con partecipazione ieratica.La sceneggiata fu molto apprezzata dai miei colleghi, tra la ilarità generale, ma non dagli ufficiali che dovevano darmi il giudizio di attitudine militare.

1965-1966 AL REGGIMENTO

Allorché mi recai a Verona al centro di smistamento militare per l’assegnazione della destinazione in servizio nella regione militare Nord-Est mi imbattei in un capitano medico che aveva il mio stesso cognome e che era quasi paesano per essere nato in un paesello vicino al mio. Mi disse che per graduatoria ero destinato a Bolzano che era considerata, allora, la sede peggiore poiché era il periodo in cui i separatisti alto-atesini facevano saltare in aria i tralicci. In alternativa c’era Gorizia come sede, che a me era sempre stata decantata dal fratello di mio nonno paterno che colà aveva partecipato alla prima guerra mondiale.A Gorizia la finestra della mia stanza ,attigua all’infermeria, affacciava proprio sulla Cortina di Ferro.Da lì si vedeva la Yugoslavia di Tito.

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Il primo giorno mi presentai al mio diretto superiore, il tenente medico in servizio permanente effettivo .Questi, come potei appurare successivamente, era un medico militare competente , sposato con una avvenente signora. Da siciliano verace ci tenne a dirmi che trattava la moglie sempre da amante per non rischiare di subire le corna. Subito dopo le presentazioni : ”vedo che lei è abilitato e già specialista, quindi da dopodomani potrà iniziare a fare le visite mediche ambulatoriali.Domani mattina verrà con me in ambulatorio così potrà rendersi conto dell’andamento.”Il mattino seguente mi recai puntuale in ambulatorio ove trovai già operativo il mio superiore.Stava visitando un soldato. In sala di attesa attendevano il loro turno, moggi moggi solo altri due. “ Come vede le visite sono poche. Bisogna solo stare attenti ai finti ammalati, che sono i più, cioè a quei soldati che per non andare alle marce ed agli addestramenti fanno finta di stare male .Le inventano tutte. Lei avrà certamente ben appreso alla scuola di sanità militare quali sono i loro trucchi ,gli accorgimenti da tenere ed i provvedimenti da prendere.”Il giorno seguente tutto pimpante mi recai in ambulatorio. Ma non feci in tempo ad entrare che l’entusiasmo mi si spense nel petto. C’era una lunga fila di soldati fuori dalla porta dell’ambulatorio, gremito di soldati tutti in attesa di visita medica .Arguii che i militi ,avendo saputo dell’arrivo del medico novellino, avessero pensato di approfittare per gabbarlo fingendo malori inesistenti e così concedersi un riposo supplementare.A volerli visitare bene tutti non sarebbe bastata la intera giornata, ma già dopo le prime visite i miei sospetti divennero certezze.Si trattava nella quasi totalità dei casi di mali senza che ci fosse alcun segno evidente e

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oggettivo di malattia.Allora ebbi un’ idea illuminante.Fui drastico e veloce nelle visite ,senza perdere la calma e lamentarmi e soprattutto senza perdere occasione di fare riferimenti e paragoni continui con le malattie dei cavalli, dei muli , dei cani e dei gatti. Alla fine della mattinata con una media di non meno di 20 visite all’ora avevo bello e finito.Ma come fui di ritorno in infermeria chiamai il maresciallo maggiore di sanità , napoletano verace ,al quale, dopo essere entrato in confidenza, compunto, dissi che volevo parlargli in forma assolutamente riservata.” Songo tutte rrecchie dottò.” “ Maresciallo ho un segreto da confessarvi, che non riesco a tenermi per me ,ma ve lo rivelerò solo se mi potete giurare che non ne farete cenno con alcuno.” “Dottò, pa mmure ra Maronna si vui mu ddicite … aggia murì primma i parlà.” “ Maresciallo io ve lo svelo solo se mi giurate su san Gennaro che non ne farete cenno ad alcuno.” Il maresciallo mettendosi entrambe le mani sul cuore : “ Dottò vu giuro su san Gennaro che nunnu u dicu a nisciuno a costo i murì.”” Bene allora dovete sapere che io non sono medico-chirurgo, ma medico-veterinario poiché non essendoci medici disponibili ed essendo poco utilizzati i cavalli ed i muli ormai , adibiscono noi al posto dei medici , specie da queste parti abbandonate ove non c’è alcun controllo.Ma mi raccomando non ditelo a nessuno per nessun motivo.”In effetti allora i medici militari, specie nella regione militare Nord-Est erano assai rari e ricercati.Per accudire i tre corpi di armata della regione c’era solo un terzo dell’organico.

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“ET EA FAMA VAGATUR “

La mattina seguente alla visita ambulatoriale c’erano solo due soldati visibilmente malconci .Era evidente che la clamorosa ma non incredibile notizia del medico veterinario al posto del medico-chirurgo, malgrado i giuramenti di segretezza del maresciallo,anzi appunto per questo, aveva fatto il giro del reggimento come il vento ed aveva avuto il suo effetto deterrente.Successivamente prima che la notizia fosse smentita da fonte autorevole e soprattutto che fosse dai soldati accettata la verità occorsero mesi.E intanto l’ambulatorio non fu mai così poco frequentato in tutta la storia del reggimento.

Subito dopo il mio arrivo al reggimento feci conoscenza del Colonnello Comandante , un piemontese tutto di un pezzo con cui legai sin da principio al punto che mi faceva curare la sua anziana madre.Ricordo che dopo le visite mi chiedeva sempre l’onorario che ovviamente rifiutavo dicendomi ampiamente ripagato dall’onore di poter curare la mamma del mio Colonnello Comandante.

Durante il periodo a Gorizia un giorno mi rifiutai di visitare un borghese dietro richiesta di un maresciallo .L’obbligo di visita ci sarebbe stato da parte mia solo in caso si fosse sentito male in caserma. Fatto sta che il maresciallo insisteva ed io lo licenziai alquanto duramente.Il giorno seguente venni chiamato a rapporto dal Colonnello Comandante e mentre entravo nel suo ufficio incrociai il maresciallo da me bistrattato che stava uscendo. Pensai subito che mi aspettava o una richiesta di spiegazioni per il mio comportamento o una vera e propria

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ramanzina. Invece il Colonnello mi parlò di tutt’altra cosa. Capii subito la finezza.Certamente alle rimostranze del maresciallo il Colonnello Comandante non volendolo umiliare e nemmeno darmi torto mi chiamò a rapporto facendomi incontrare con lui per fargli credere che gli avrebbe dato soddisfazione.

Alla fine del mio servizio come ufficiale questo fu il suo giudizio sul foglio del congedo:”ottimo per la bontà delle sue virtù e per la costanza del suo rendimento.”

Il soldato italiano in servizio di leva negli anni sessanta alla regione militare Nord-Est aveva diritto a circa 4000 calorie al giorno e ad un menù vario e ricco stabilito in ogni particolare, che era di tutto rispetto . Tra cui gli toccava, per il pranzo, una bottiglietta di vino da 0,2 litri che veniva fornito da produttori locali che avevano vinto l’assegnazione .Uno dei compiti del medico militare era quello di ispezionare le derrate alimentari e di dare il suo benestare di volta in volta,sulla freschezza,salubrità ed edibilità dei cibi e delle bevande da propinare ai soldati .Io giovane medico pivello pieno di belle intenzioni presi il compito con grande zelo.Innanzitutto volli visitare la fabbrica fornitrice del vino che veniva distribuito ai soldati.Si trattava di quantità enormi poiché alla regione militare Nord-Est erano ubicati ben tre corpi d’armata. Il produttore e fornitore volentieri acconsentì ad accompagnarmi a visitare la sua grande fabbrica di vino. E man a mano che passavamo in rivista i giganteschi tini metallici e le catene di montaggio per l’imbottigliamento del vino con gli operai intenti al lavoro , non si vedeva da alcuna parte ombra di uva. E si che per una quantità di vino così elevata ce ne voleva. Il

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proprietario con orgoglio mostrò persino i pozzi da cui prelevavano l’acqua perché ne occorreva tanta. “ Ma l’uva dov’è?” “Uva non c’è poiché il vino lo facciamo con lo zucchero di barbabietola che ci permette una produzione continua e quindi di risparmiare sui costi ma il vino è buono lo stesso , anzi è persino migliore di quello ricavato dall’uva.”Ero così convinto che il vino dovesse essere ricavato solo dall’uva che ci rimasi assai male.Da quel giorno iniziai a trovare il pelo nell’uovo nelle derrate alimentari, respingendo al mittente intere partite di vivande che se non eccellenti erano quasi certamente buone,creando un vero e proprio scompiglio in foresteria.Dopo pochi giorni , per ordine del Colonnello Comandante fui sostituito per la ispezione ed il controllo delle derrate alimentari dal tenente medico in servizio permanete effettivo.

“ Il campo” in alta montagna.

Il fulmine assassino.

La mia compagnia, durante il mese di settembre, saliva a circa 1500 metri di altezza in montagna per esercitarsi “al campo”cioè a vivere in tenda come in una operazione militare. Allora si era in pieno periodo di guerra fredda.Per ovvi motivi le condizioni igieniche di quel tipo di vita non erano tra le migliori, per cui si poteva stare anche due settimane senza potersi lavare.Questo per riprodurre il più possibile le condizioni militari in caso di guerra in alta montagna onde poter preparare i soldati di leva.Ovviamente una eccezione veniva fatta per gli ufficiali specie quelli in servizio

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permanente effettivo. Una sera che pioveva a dirotto con lampi e tuoni a tutto spiano un tenente colonnello rimase fulminato sotto la doccia da campo.

Il fango spossante.

In alta montagna , durante il campo, quando pioveva a dirotto, come accadeva di frequente, capitava facilmente che i soldati durante le marce affondassero nel fango fino alle ginocchia.La sera al rientro in tenda erano oltreché assiderati letteralmente spossati. Avevo nella infermeria otto posti letto , ebbi l’idea di farli riposare a turno un giorno, dando la precedenza ai più provati, senza che fossero realmente ammalati. Richiamato dal capitano comandante la compagnia , feci notare che in quel modo praticavo medicina preventiva,evitavo non solo che i soldati si ammalassero davvero , ma soprattutto che crollassero durante le operazioni perché in qualche maniera con il giorno di riposo riuscivano a bilanciare le forze.I veri malati diminuirono visibilmente con un rendimento assai più elevato da parte dei soldati che mi furono assai grati.

La bonifica del poligono.

Dopo ogni esercitazione di tiro nel poligono militare, era d’obbligo passare a setaccio il terreno per la “bonifica” che consisteva nello scovare ed eliminare le bombe e/o i proiettili inesplosi. Si costituiva una lunga fila di soldati che avanzavano perlustrando in ordine il terreno.Durante una di queste operazioni un soldato urtò una bomba a mano che esplose colpendolo in pieno . Subito accorso , dopo avergli prestato tutti i

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soccorsi del caso secondo le priorità, lo feci trasportare d’urgenza in ospedale con l’autoambulanza militare . Purtroppo ai raggi X entrambi i bulbi oculari mostravano chiaramente la penetrazione di diverse frammenti di alluminio a spirale che costituivano il metallo che avvolgeva le bombe a mano.Gli occhi erano irrimediabilmente perduti.Sarebbe rimasto cieco per tutta la vita .La preparazione della guerra produce danni e morti anche in pace.Quella per me fu la più triste giornata di tutta l’esperienza militare.

Esiti della visita di leva.

Alla Nord-Est venivano negli anni Sessanta comandati praticamente con certezza tutti i soldati non raccomandati che erano per lo più quelli sfigati e più poveri del Mezzogiorno d’Italia.Infatti chi poteva farsi raccomandare si faceva assegnare , per lo più ad un reggimento della sua regione oppure ad una grande città.Inoltre per superare la visita di leva occorreva un minimo di statura e di circonferenza toracica ben stabiliti e soprattutto non avere i piedi piatti. Durante la mia permanenza alla Nord-Est, durante la visita di controllo ai soldati neo arrivati, mi capitò non raramente di dover esonerare e quindi rinviare a casa, in congedo permanente, soldati sotto di statura minima o con deficienza toracica o con i piedi che più piatti di così non si poteva, per la cui diagnosi certa occorreva solo il metro del sarto e uno sguardo.Un giorno che camminavo per la città di Ferrara, a

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circa due anni dal congedo, fui fermato da uno di questi che mi riconobbe e volle ringraziarmi per averlo, secondo lui “salvato” dal servizio di leva appunto a seguito di uno di questi controlli.

Gli scarponi che pizzicano.

Cosa credete che inabiliti di più un soldato di fanteria che notoriamente durante il servizio di leva deve marciare e camminare con lo zaino e le armi addosso continuamente ? La scarpa che pizzica. All’uopo mi capitava non raramente di esentare dalla marcia soldati con escare dolorose ai piedi. Fornivo loro anche gli unguenti e le polveri sulfamidiche-antibiotiche ed antimicotiche necessarie vuoi per prevenire che per curare questi mali con grande sollievo , gratitudine e rendimento dei soldati.Fortunatamente l’infermeria militare era fornita di tutto ciò che serve per quel che attiene i medicamenti, farmaci fabbricati per la maggior parte all’istituto farmaceutico militare di Firenze . Erano per lo più galenici, ma efficaci.Per l’igiene personale i soldati erano riforniti altresì di ottimi dentifrici e saponette anch’essi confezionati a Firenze.

La potenza della Chiesa

Durante il mio periodo di servizio militare ,gli ufficiali medici, farmacisti e veterinari ed i cappellani militari facevano parte dei servizi. Questo comportava che avessero sempre un grado in meno degli ufficiali d’arma.Così partivano da sottotenente e non da tenente e potevano raggiungere al massimo il grado di generale di divisione.Facevano eccezione i cappellani militari che

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partivano da tenente e potevano giungere fino al grado di generale di corpo di armata , per cui il comandante dei cappellani militari era equiparato a vescovo e poteva fregiarsi del titolo di eccellenza.

Il cappellano militare energumeno.

Al reggimento era in servizio un cappellano militare aitante e di bel aspetto ma soprattutto dalla forza straordinaria. Era persona affabile e simpatica ma aveva il vezzo quando stringeva le mani , specie dei nuovi arrivati che non lo conoscevano, di farlo con forza tale da far gridare i malcapitati dal dolore.Siccome era evidente che lo faceva a posta, tutti si irritavano assai, ma era così vistosa la sua imponenza fisica che a nessuno,per quanto incavolato e mangiapreti potesse essere, passava mai per la testa di ottenere soddisfazione e tanto meno di addivenire a vie di fatto.

Il privilegiato.

Nell’esercito italiano, il medico militare sebbene abbia una autorità autonoma indiscussa e insindacabile nella sua professionalità da parte dei comandi d’arma ed un compito ben specifico,resta innanzitutto un combattente che all’occorrenza,deve far uso delle armi contro il nemico.Ciononostante ai miei tempi anche alla scuola di sanità militare , nessuno gli insegnava l’uso di armi particolari come il mitra o il lancio delle bombe a mano .Al massimo lo si faceva

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sparare con la pistola.Alla fine “de facto” il medico militare per questo motivo veniva considerato un privilegiato.

Durante le esercitazioni dei soldati di leva all’uso delle armi nel poligono era d’obbligo la presenza medica per ogni evenienza.Una volta mi venne lo schiribizzo di chiedere all’ufficiale istruttore di farmi sparare con il mitra.Questi sempre, al soldato neofita insegnava innanzitutto come posizionare il corpo e come impugnare quest’arma il cui uso non è semplice,soprattutto per evitare il forte rinculo conseguente alla raffica.All’ufficiale istruttore non parve vero di potermi fare uno scherzo da prete,dando per scontato che sapessi usarla.Dopo aver fatto allontanare tutti e sistemato l’arma affinché potesse sparare solo una piccola raffica , mi pose in mano il mitra e dopo essersi scansato,mi disse di sparare rivolgendo l’arma verso il “parapalle”, la montagna del poligono.Io sentendomi sceriffo,sicuro di me , senza esitare lo impugnai e spavaldo premei il grilletto. Partì subito la scarica che mi fece prima traballare fortemente e poi cadere all’indietro a pancia all’aria ed a gambe levate tra l’ilarità generale.Da quel giorno persi definitivamente la curiosità per l’uso delle armi.

Durante l’esercitazione dei tiri di mortaio era buona norma per il medico e l’infermiere di sanità appostarsi dietro il sito di lancio. Essendo molto ghiotto di lumache che in quel posto abbondavano, assieme al mio infermiere ci azzardavamo a cercarle anche a fianco dei tiratori , nella certezza che non sarebbero stati così maldestri da colpire ai lati.Fatto sta che un giorno una bomba di mortaio esplose a pochi metri da dove

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raccoglievamo le lumache.Restammo fortunatamente illesi e dopo lo stupore iniziammo a sudare freddo per lo scampato pericolo. Da allora sospendemmo la ricerca dei molluschi.

L’istituzionalizzazione dell’imperizia.

Allora era norma generale nell’esercito,adibire i soldati di leva in compiti o mestieri diversi da quelli che conoscevano.Così il falegname veniva messo a fare il meccanico, il sarto in cucina, il contadino a guidare carri, il muratore in sartoria e così via.Inoltre essendo il servizio militare solo temporaneo non solo il tempo non era sufficiente per imparare bene il nuovo mestiere ma nessuno metteva buona volontà per apprenderlo.Il soldato allora prestava malvolentieri il servizio militare a cui aveva per lo più dovuto sottostare rifiutando un sicuro lavoro nelle fabbriche perché si era in pieno boom economico. La diaria non bastava nemmeno per le sigarette. Si può quindi facilmente dedurre quali potesse essere il rendimento.Così allorché dovevo andare per assistere ai tiri, mi capitavano alla guida della jeep non raramente maldestri autisti. Una volta durante il tragitto uno di costoro più imbranato degli altri, perché oltretutto grattava ogni volta che cambiava marcia, non solo guidava a scavezzacollo ma non rispettava mai le precedenze ai bivi e malgrado le mie grida di stare attento, avemmo ben tre incidenti nella stessa giornata, per fortuna senza conseguenze.Come riuscii a giungere al reggimento sano e salvo lo feci subito esonerare dalla guida. Oggi ,per fortuna, il nostro esercito è costituito da professionisti motivati che sono all’avanguardia nel mondo.

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Conta quel che appare.

L’ispezione del generale di corpo di armata.

Una volta l’anno ,a sorpresa, arrivava il generale del corpo di armata per l’ispezione della caserma. In realtà ufficiosamente si sapeva del suo arrivo almeno una settimana prima. Ce ne accorgevamo subito come iniziavano la messa in ordine e le pulizie accurate della caserma.Come il generale arrivava davanti al cancello del presidio dentro la macchina blu con la bandiera italiana svettante sulla parte anteriore destra del parafango e l’autista alla guida , veniva accolto con il presentat-arm a suono di tromba. Indi ,scortato dal Colonnello Comandante ispezionava tutti i reparti, previamente allertati. Era cura nascondere i soldati che stavano per andare in congedo,i cosiddetti “burba” perché avevano tutti la divisa logora e di farli spostare in tempo prima che arrivasse il generale.Durante il pasto il generale mangiava con la truppa, naturalmente quel giorno si pasteggiava come al Grand Hotel. Alla fine della ispezione il generale davanti alle truppe schierate pronunciava un magniloquente discorso che si concludeva con l’elogio del reggimento per ”l’efficiente organizzazione e l’ordine mirabile riscontrati”.

Il genialoide.

Dopo sei mesi di permanenza a Gorizia il mio reggimento fu trasferito vicino Udine.Fu per me la grande occasione per conoscere il meraviglioso popolo friulano. Allora era regola che agli ufficiali trasferiti per sei mesi fosse dato doppio stipendio.

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Approfittai per farmi costruire un impianto stereofonico a valvole ad alta fedeltà da un soldato, tecnico elettronico , un genialoide, che era capace di farsi da sé lo schema elettronico e di costruire da solo l’intero impianto a mano con i pezzi che gli fornivo io , comperati a Udine, su sua richiesta.Le casse armoniche in legno speciale fonoassorbente e foderato con altoparlanti ad alta fedeltà le facemmo costruire da un falegname che lavorava nelle vicinanze della caserma.Terminato il servizio militare, fu un problema trasportare in macchina l’impianto dal Friuli fino al profondo Sud. Fui fermato dalla polizia stradale e dai carabinieri svariate volte, ma come vedevano la divisa: “ comandi signor tenente, può andare” e subito sull’attenti per il saluto militare.

1967-1968 MEDICO-CONDOTTO INTERINO

Dopo circa due anni come assistente universitario volontario al Centro di Virologia nonché Clinica delle Malattie Infettive e Tropicali del Policlinico Universitario di Modena ,in cui ebbi modo di arricchire la mia esperienza medica,alla fine degli anni sessanta assunsi l’incarico di medico condotto interino in un paesello del Vallo di Diano, in Campania, con anche funzioni di ufficiale sanitario.M’ imbattei subito in un fatto tragico ed inconsueto che accadeva nel paese.Di tanto in tanto moriva all’improvviso un bambino, per cause sconosciute.Il paese rimasto senza medico condotto da alcuni anni ,dal punto di vista igienico era stato abbandonato a sé stesso. Da anni non venivano fatte le vaccinazioni obbligatorie e non veniva praticata la periodica disinfestazione contro le mosche.La popolazione in prevalenza

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costituita da pastori era affetta per la quasi totalità dalla febbre maltese o febbre ambulante poiché notoriamente questi malati camminano con la febbre a trentanove gradi.In me per puro caso avevano trovato il medico giusto perché specializzato in malattie infettive e in pediatria con una discreta esperienza specifica universitaria. Quel paesello faceva proprio al caso mio.Manco a farlo a posta proprio nel mio istituto era stata collaudata la terapia antibiotica più efficace per curare la brucellosi.Da subito feci recapitare dalla guardia comunale l’ordine perentorio di portare i bambini nel mio ambulatorio per le vaccinazioni obbligatorie con speciale riguardo all’antipolio per via orale.Senza indugio iniziai a prescrivere la terapia anti maltese a tutti i pastori affetti e feci spargere il liquido per la disinfestazione dalle mosche specie nei punti chiavi del paese.In capo a pochi mesi scomparvero le morti improvvise di bambini ed in un anno i malati di brucellosi divennero sporadici.

Non era raro ,mentre ero in condotta , essere visitato da strani individui che proponevano di acquistare presunti pezzi archeologici di arte greco-lucana come grandi crateri attici,rhyton per libagioni,lucerne e vasi dipinti sia a figure rosse che a figure nere che ovviamente rifiutavo di comprare poiché ero a conoscenza che questi reperti, senza certificazione di legittimità, in Italia o sono falsi o se autentici sono pezzi trafugati da tombaroli.Poi un giorno, visitando il museo della Lucania Occidentale sito all’interno della certosa di Padula, patrimonio dell’Umanità per l’UNESCO, mi resi conto che fossero autentici. E dopo qualche mese che dei ladri forzarono i depositi del museo

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facendo man bassa di reperti,cosa che accadeva periodicamente, capii pure quale potesse essere la provenienza.Un addetto alla vigilanza del museo mi disse che i pezzi esposti costituivano solo la trentesima parte di quelli custoditi nel deposito di cui molti ancora da catalogare e restaurare. Da allora mi sono reso sempre più conto di uno dei problemi più tragici e deprecabili del nostro paese:lo stato di abbandono e d’incuria dei nostri beni culturali.Dopo cinquant’anni, per quel che sta accadendo a Pompei, a Volterra, alla reggia di Caserta ed al Colosseo per citare solo alcuni dei siti in degrado mi rendo conto che non solo nulla è cambiato ma che è tutto peggiorato.E se è vero che il nostro patrimonio è così enorme che è letteralmente impossibile tenerne adeguata cura è altresì vero che siamo incapaci pure di curare i nostri pezzi più importanti.Per non parlare che questo immenso patrimonio unico al mondo che costituisce una grossa entrata turistica non sappiamo farlo conoscere e fruttare come meriterebbe.

Questa constatazione venne confermata poi dalla mia personale esperienza da altri piccoli fatti ma non meno emblematici, al mio paesello e dintorni.

Sin da ragazzo avevo ammirato, il grandioso presepe che veniva allestito in chiesa al mio paesello. Era costituito da migliaia di figure tra pastori, popolani ed artigiani in legno scolpito e policromo del periodo barocco . Sin dopo la guerra ho passato praticamente il più della mia vita lontano dal mio paesello, fatto salvo il periodo di Natale e quello estivo in cui rimpatriavo. Mi sono sempre accorto che di anno in anno non solo i pezzi del

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presepio diminuivano sempre di più ma che non raramente alcuni antichi di legno venivano sostituiti da altri recenti di argilla cotta e colorata.Un pezzo in particolare mi era rimasto impresso, un vasaio che si diceva fosse stato scolpito proprio al mio paesello da parte di un maestro scultore, nel Settecento. Con il tempo sparì. Molti anni addietro visitando l’esposizione dei presepi a Verona lo identificai con assoluta certezza. Chiesi da dove provenisse, mi risposero che proveniva da una collezione privata e che si trattava di un pezzo d’arte napoletana.Per me rappresentava la mia terra depredata.

In un rudere di una vecchia chiesa basiliana ,sita in una collina vicina al mare del mio paesello, fatta costruire “in illo tempore” dai monaci basiliani in fuga a seguito della persecuzione iconoclasta, fu scoperto dietro un muro l’affresco di uno stupendo Cristo Pantocratore di arte bizantina. Subito fu oggetto di visite incontrollate e vandaliche. Presto l’affresco fu staccato e rubato.Per molto tempo rimasero dell’affresco attaccate solo le gambe del Cristo che non so se ci sono ancora.

Qualche diecina di anni fa fu scoperta in una località poco distante dal mio paesello , precisamente a Roccagloriosa, una importante necropoli greco-lucana ricca di numerosi reperti vascolari e soprattutto di gioielli d’oro e di monete appartenenti alla zecca dell’antica Phistelia, polis magnogreca, dai numismatici sempre attribuita alla Campania e della Campania fa parte oggi Roccagloriosa, solo che ai tempi antichi apparteneva alla Lucania.Perché mai questa svista?Perché delle circa 140 polis fondate dai Greci in Magna Grecia , di cui si conoscono le monete,

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solo di una parte minore si conoscono le sedi ove erano ubicate,poiché delle altre , ancora oggi ,non si sono ritrovati nemmeno i ruderi.Ora essendo stato un appassionato della numismatica antica,di cui ho scritto alcuni articoli su riviste, subito dopo la scoperta di Phistelia e per alcuni anni, mi è capitato di vedere in vendita su cataloghi numismatici di Zurigo e di Monaco di Baviera,che usavo per studio ,alcune monete di questa città, per lo più oboli e didracme d’argento che venivano deposti sugli occhi dei defunti per pagare a Caronte il traghettamento dell’Acheronte e poter accedere all’Ade. E’ notorio che tra l’Italia ,ove il commercio di questi reperti è proibito, in assenza di possesso legittimo, e la quasi totalità dell’Europa ove è libero, vi è un traffico continuo e fiorente rifornito dai tombaroli clandestini e dai ladri dei depositi dei musei.

E visto che siamo in tema di patrimonio culturale parliamo pure di quello delicato e non meno importante dei libri antichi.

Tutti siamo portati a credere che i peggiori nemici dei libri siano innanzitutto gli incendi e le alluvioni. All’uopo basta citare l’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto durante l’occupazione di Giulio Cesare e l’alluvione di Firenze del 1966.Poi siamo portati a considerare come nemici dei libri, le intemperie. Basta pensare quanti libri sono andati perduti per essere stati abbandonati sotto i tetti nelle soffitte o nelle cantine.Infine concludiamo, che contro i libri, hanno sempre fatto la loro parte anche i ratti ed i topi per non parlare delle tarme e delle muffe.Eppure i più acerrimi nemici dei libri non sono state queste

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calamità , ma da sempre , l’ignoranza e l’oscurantismo degli uomini.E per questo non occorre citare le cataste di libri che venivano bruciati a Firenze in piazza ,al tempo del Savonarola o dai nazisti sulle strade o dai fanatici islamici per i quali, di libri, basta il Corano.

Un giorno mentre ero seduto in giardino di casa vidi passare la figlia quindicenne della perpetua del paese con in testa un grande cesto pieno di libri per lo più pergamenati.La fermai per chiederle dove portasse quei libri. Mi disse che la madre, essendo morto il prete da alcuni giorni, glieli aveva mandati a buttare. “E perché li vuole buttare?” “ Perché puzzano”.Allora le chiesi di mostrarmeli. Effettivamente alcuni erano decisamente malmessi ed irrecuperabili ma tra quelli vi erano ben tre messali illustrati uno del Seicento, uno del Settecento ed uno ottocentesco rilegati in cuoio. Tra gli altri c’era un bellissimo libro del Seicento scritto in francese di farmacopea che poi risultò raro.Le offrii cinquecento lire in cambio. La ragazza accettò felice non solo per i soldi inattesi ma anche perché così evitava di doverli portare fino alla discarica.

Quando ero assistente universitario a Modena coabitavo presso una padrona di casa che per sbarcare il lunario andava in cerca di roba vecchia da rivendere. A me sapendomi appassionato di libri antichi aveva venduto a prezzo di affare un bellissimo libro del Settecento illustrato da incisioni sui re delle due Sicilie. Un giorno volle farsi accompagnare in macchina nella campagna presso dei contadini, in cambio mi disse mi avrebbe fatto avere un po’ di libri antichi. Giunti che fummo presso la casa colonica mi fece salire fino alla soffitta del casolare ove mi mostrò accatastati alla

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rinfusa l’uno sull’altro una montagna di libri antichi pergamenati . Curioso,iniziai a scartabellarli . Ne avevo appena accantonati alcuni allorché giunse trafelata la contadina che ci avvertiva dell’arrivo del padrone. Subito la mia padrona di casa allarmata mi fece posare i libri e scendere di sotto. Ci rimasi male come colui che si sveglia da un bel sogno in cui ha trovato un tesoro.I libri appartenuti ad un noto professore universitario deceduto, erano stati fatti buttare lì alla rinfusa dai figli per usarli come materiale da ardere durante l’inverno.

1969-1973 ASSISTENTE MEDICO-OSPEDALIERO NEL NORD ITALIA

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Alla fine degli anni Sessanta in Italia, la sanità pubblica era appena in fase di formazione.Non tutti gli Italiani erano ancora assistiti. Gli ospedali moderni si erano iniziati a costruire da poco.Quei pochi esistenti erano residuati di costruzioni risalenti in alcuni casi, come a Siena, al Medioevo ,in cui c’erano solo pochi medici , le suore che comandavano e inservienti. Non esistevano gli infermieri professionali ed i tecnici di laboratorio o di radiologia .Ricordo che le suore facevano economia su tutto e per questo riutilizzavano gli aghi spuntati, per fare i prelievi, non raramente svenando e seviziando involontariamente i malcapitati pazienti.

Episodio assiomatico del dominio delle suore in quel periodo fu quello a cui assistei per caso il giorno che ero in visita ad un mio collega direttore di laboratorio di una clinica della città.Il mio collega era il direttore responsabile del laboratorio ma chi

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comandava “de facto” era la suora-caposala.Quel giorno il mio collega , davanti a me,si lamentò con la suora, che custodiva le chiavi dello stipo ove erano riposti i reagenti e le vetrerie, perché per la sua assenza non aveva potuto eseguire un esame urgente.La lamentanza concludeva :” sono o non sono il direttore?” Al che la suora a voce alta e perentoria : “lei sarà pure il direttore ma si ricordi che noi siamo le padrone!”.

Allora al pronto soccorso e per un lungo periodo di anni successivi, venivano adibiti in servizio i medici neoassunti, per lo più privi di qualsiasi esperienza professionale, per cui ne capitavano di tutti i colori. E’ evidente anche ai non addetti che proprio in questo reparto occorrono medici esperti.Oggi infatti vi sono, per obbligo,in servizio medici con almeno cinque anni di esperienza.Al tempo in cui prestavo servizio in pronto soccorso c’era una suora come caposala,una vera maschiaccia ma esperta e decisa che per lo più rimediava alla meglio alla inesperienza dei medici pivelli.Io mi salvavo in quanto reduce da una discreta esperienza come assistente universitario, ufficiale medico e medico condotto.Fu quella comunque una grande esperienza medica e umana. Eccovi alcuni piccoli fatti.

Il lavaggio vaginale.

Una gagliarda ragazza sui vent’anni anni venne in pronto soccorso, poiché avendo avuto un rapporto sessuale completo con il fidanzato, senza protezione, voleva le fosse praticato il lavaggio vaginale. Fu messa alla porta.

Il coltello in gola.

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Un giovane, ormai cadavere, fu collocato sul lettino solo per accertare la causa di morte.Non mostrava lesioni o contusioni in nessuna parte del corpo né altri segni che indicassero la causa del decesso. Alla fine per completare l’esame obiettivo gli aprii la bocca con un divaricatore. Spuntò il manico di un coltello, che una volta estratto risultò avere una lama lunga circa trenta centimetri.Dalle indagini fu appurato che il giovane aveva tentato svariate volte il suicidio e che il coltello se l’era conficcato con forza in gola con entrambe le mani alla guisa dei mangiaspade.

L’ape killer.

Un grosso contadino sui cinquanta anni punto da un’ape giunse al pronto soccorso in fin di vita,completamente cianotico per lo shock, con un respiro ormai impercettibile.Capii subito la gravità della situazione. Velocemente preparai una siringa di adrenalina e gli feci immediatamente una puntura intracardiaca. Indi gli iniettai una fiala di cortisone nella giugulare e gli applicai la maschera di ossigeno. In pochi minuti si riprese. Pochi altri secondi e sarebbe andato nel regno dei più.

Chi rompe paga.

A quei tempi era d’obbligo, da parte del medico del pronto soccorso ,non solo accudire le emergenze esterne ma altresì prima di inviare il malato in reparto dopo avergli dato le prime cure, se ferito, pulire,disinfettare e cucire le ferire accuratamente.Anche a quei tempi la traumatologia più frequente era quella da incidenti d’auto. Per lo più si trattava di

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feriti e contusi lievi ma non mancava il grave incidente con morti.Ricordo quello di un ragazzo di venti anni e vi assicuro che vedere morto un giovane di questa età fa veramente pena.Un giorno capitò un incidente stradale multiplo con una serie di feriti non gravi di cui tre con innumerevoli frammenti di vetro del parabrezza conficcati sulla faccia, sul collo e sulle braccia, per cui fui impegnato ad asportarli ed a pulire,disinfettare e cucire accuratamente le ferite, dalle cinque del pomeriggio fino a oltre mezzanotte.

Il senso della misura.

Il dottorino era stato assunto da poco e collocato in servizio notturno al reparto di ostetricia.Dopo alcuni turni una partoriente si lamentò con la direzione sanitaria perché il medico di turno di notte aveva assistito al parto nudo.Da subito chiamato a rapporto dal Direttore Sanitario: “dottore è vero che di notte assiste nudo le partorienti ?” Questi pronto, sicuro di sé e alquanto indignato :”no signor Direttore , tutta’altro: visito sempre in mutande le partorienti quando vengo chiamato di notte.”Fu licenziato.

La fuga dalla responsabilità.

Il dottorino neofita era addetto ai turni del pronto soccorso.Iniziava alle 14 per terminare alle 22.La regola per i turnisti era che chi finiva il proprio turno prima di smontare dovesse assicurarsi che il suo collega subentrante fosse presente sia per evitare che il reparto restasse sguarnito sia per poter

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passare eventuali consegne.Per questo motivo allorché il dottorino al suo primo giorno invece di subentrare alle 14 precise giunse con circa due ore di ritardo,il servizio rimase assicurato dal suo predecessore che trattandosi della prima volta si limitò solo a lamentarsi con il collega.Il secondo giorno si ripeté il ritardo ma alle rimostranze del medico smontante, il subentrante si limitò a giustificarsi dicendo di essere stato costretto da cause maggiori, senza spiegare quali.Ciò indispettì molto il suo collega, che si ripromise di fare, appena possibile, rapporto al direttore sanitario. Il terzo giorno il medico di turno smontante, buggerato per l’ennesima volta consecutiva,dopo essere andato su tutte le furie lo mandò a cercare dalla polizia che dopo aver avuto la dritta giusta lo andò praticamente a prelevare sul lago lontano venti chilometri mentre veleggiava beato.Trasportato, quasi di peso, in ospedale ,fu subito convocato dal Direttore Sanitario . “ Dottore come mai invece di essere di turno al pronto soccorso era a veleggiare sul lago?” “Per motivi di causa maggiore signor Direttore.” “ Ma le pare che veleggiare sul lago durante l’orario di servizio in un reparto di emergenza possa essere motivo di causa maggiore?” “ Signor Direttore, dalle due alle quattro del pomeriggio sul lago tira la brezza. Un velista che si rispetti non può assolutamente perderla. Io sono un appassionato di vela,per cui per me è un motivo di causa maggiore.” “ Il Direttore Sanitario pronto : “ va bene allora è licenziato , così potrà dedicarsi alla vela a tempo pieno e non perdere più la brezza.”

Strumenti di tortura. La camicia di forza ed il forcipe.

Ricordo con disappunto due strumenti medici che furono adoperati molto a tutti gli anni sessanta, per poi cadere progressivamente sempre più in disuso: il forcipe e la camicia di forza. Il primo in acciaio inossidabile molto simile ad una piccola racchetta da tennis oblunga e piegata a gancio,senza retina,avevo

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imparato ad usarlo all’università in ostetricia in previsione di fare il medico condotto. Veniva usato nei casi di inerzia uterina per estrarre il nascituro, ma specie se usato in maniera maldestra causava non poche lesioni ai neonati sotto forma di bitorzoli al capo e talvolta ematomi, craniopatie e deformazioni . La seconda veniva usata specie nei manicomi, che prima della legge Basaglia erano dei veri e propri “refugium peccatorum” , cimiteri degli elefanti ,dei veri e propri lager.Io pur avendo fatto il medico condotto per oltre due anni in un paese del sud Italia non volli mai usare il forcipe ricorrendo ad altre manovre espulsive più valide e fisiologiche . Purtroppo la camicia di forza fui costretto, mio malgrado a usarla una volta al pronto soccorso per applicarla ad una giovane giunta con una violenta crisi psicomotoria incoercibile.Oggi con le terapie sedative moderne che ci sono, la camicia di forza non si usa che raramente nei manicomi e /o penitenziari criminali su soggetti pericolosi per se stessi o per gli altri o in prigioni particolari come quella di Guantanamo per terroristi.Ho sempre davanti agli occhi lo sguardo disperato di quella giovane immobilizzata come un salame ogni qualvolta mi sovviene in mente e immagino con profondo senso di colpa le maledizioni che dovette mandarmi. E’ fuor di dubbio che Il forcipe è valido solo come alternativa per arrostire i polli in mancanza di meglio e la camicia di forza è certamente roba di aguzzini e di reparto degli orrori non di un presidio medico.

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OGGI

O TEMPORA ,O MORES!

Sic transit Gloria mundi

Il magnate lombardo

La badante spingeva il paziente sulla sedia a rotelle, con passo sicuro e deciso. Sembrava più spingere un pacco che condurre una persona.Ad un flebile lamento dell’anziano,dopo essersi guardata attorno,si fermò di botto e con ghigno feroce gli scoccò un colpo secco in testa con le nocche della mano destra,a cui seguì un acuto lamento. Indi la megera,come inferocita, dopo essersi riguardata attorno con sguardo furtivo , gli afferrò con decisione il padiglione di un orecchio e glielo storse con protervia.Seguì una serie di gemiti più simili ai guaiti di un cane bastonato che ai lamenti di un paziente defedato e poi una dolente lagna che fu subito smorzata dalla minaccia dell’aguzzina: ”taci bestia!” .A questo punto avendo assistito , per puro caso,non visto, nascosto da una siepe nel parco, intervenni con decisione: “ non si vergogna di maltrattare in questo modo un povero vecchio?”. La badante senza darsi per intesa,imperterrita e sicura di sé,guardando fisso in avanti,riprese a spingere la sedia a rotelle, allontanandosi a passo svelto a modo di chi vuole sottrarsi a persona molesta. Le andai dietro deciso e inviperito iniziai a

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riprenderla con l’i-phon. Ma la donna continuò impassibile a spingere la carrozzella con passo svelto senza reagire.Ad un certo punto desistii dal rincorrerla,ma indignato e deciso, di scatto, con passo veloce mi recai nella più vicina caserma dei carabinieri per denunciare il fatto.L’appuntato, dopo aver registrato la denuncia,visionò le riprese e le trasferì sul computer , ma da subito disse che essendo la persona in causa sicuramente non in grado di intendere e di volere, senza la visione delle percorse o altre testimonianze,non avrebbe potuto fare nulla ,poiché sarebbe stata la mia parola contro quella della badante.Comunque, dopo essersi segnato il mio numero telefonico , mi assicurò che avrebbe contattato i parenti dell’anziano ed avrebbero indagato.Trascorse due settimane senza riscontro mi recai di nuovo presso la caserma dei carabinieri per sapere qualcosa.Fui fortunato poiché in servizio c’era lo stesso appuntato a cui avevo sporto denunzia.Mi disse che avevano rintracciato i figli dell’anziano , che dopo essere stati messi a corrente della mia denunzia, avevano confutato in maniera decisa quanto da me affermato,avvalorando la tesi della badante, persona di loro assoluta fiducia, che aveva raccontato loro lo sgradevole contrattempo avuto nel parco con uno scocciatore.La badante aveva solo allontanato in maniera energica un tafano che si era ripetutamente posato sulla testa dell’anziano.In quanto ai lamenti erano dovuti allo stato grave di demenza di cui era afflitto da tempo il padre per cui piangeva e gemeva continuamente senza motivo.A questa spiegazione avendo ben chiara e nitida tutt’altra scena davanti agli occhi rimasi visibilmente contrariato e deluso, ma capii che di più i carabinieri

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non potevano fare.Chiesi per curiosità chi fosse l’anziano angariato. L’appuntato a bassa voce:”non si possono fare nomi…è un noto magnate lombardo”.

MORTO UN PAPA SE NE FA UN ALTRO

LA GIOVANE SIGNORA DELLA PORTA ACCANTO

Nel condominio , sullo stesso piano della mia abitazione, c’erano altri due appartamenti.In uno abitava un giovane medico, single, nell’altro erano venuti ad abitare da poco due giovani sposi.Lei avrà potuto avere poco più di venti anni,assai bella e piacente. Lui era un baldo giovane. Vicino alla porta avevano fatto affiggere: “Ing.Filippo Ramiti “.Erano emigranti dell’est europeo , di origine italiana, che vivevano con lo stipendio di primo impiego in prova di lui, ingegnere in una fabbrica di macchine.Non erano trascorsi che poche settimane dal loro insediamento che fatalmente il giovane ingegnere morì in un incidente stradale.La prima cosa che fece la sposina ,disperata ,come ebbe la notizia,fu quella di bussare alla porta del medico che aveva conosciuto da poco un giorno che si era fatta aiutare da lui per fare le scale con il carico della spesa. La fece entrare subito ed accomodare nel salottino di casa. Tra il pianto irrefrenabile e disperato la giovane chiese aiuto poiché non conosceva nessuno in Italia , era senza soldi e non sapeva come fare. Il medico commosso la rincuorò assicurandole che l’avrebbe aiutata volentieri in tutto.Come si fu calmata si offrì di accompagnarla all’obitorio per il riconoscimento della salma.Poi si occupò pure dei funerali , trattando con il rappresentante di una ditta funebre tra i tanti che erano appostati.La sera ,alla chiusura dell’obitorio , dopo aver

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programmato il funerale per il dopodomani pomeriggio,l’accompagnò a casa.Ma come furono giunti davanti alla soglia, la vedova scoppiò in lacrime e stringendosi disperata a lui lo implorò di dormire con lei quella notte perché altrimenti non cel’avrebbe fatta a restare sola. Il mio vicino acconsentì senza esitare.Il giorno successivo al funerale la bella si trasferì in casa del medico.I due iniziarono a convivere come due novelli sposini. Il dolore dal volto della bella presto sparì e comparve persino il sorriso.Da lì a qualche mese si sposarono con una bella festicciola a cui invitato,per buon vicinato, partecipai pure io.

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IL DESTINO

IL GRANDE SCRITTORE

Da giorni, nel parco, osservavo incuriosito il viso stravolto di un invalido spinto sulla sedia a rotelle da un giovane badante di colore, perché mi sembrava una persona nota,ma non riuscivo ad inquadrarlo. Sicuramente si trattava di un paziente colpito da SLA in stadio avanzato che non era in grado di parlare e da quello che avevo potuto arguire da medico, osservando il suo volto ,di un uomo assai sofferente e cosciente di essere in quello stato senza ritorno.Sembrava di leggere negli occhi fissi ed allucinati la disperazione di un uomo che desiderasse la morte come liberazione più di ogni altra cosa senza essere capace di chiederla e tantomeno di darsela.Un giorno che mi trovavo a passeggiare con un mio amico che lo aveva conosciuto chiesi chi fosse.”E’ il celebre autore del best seller :”liberazione della morte.”

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LA PARTE OSCURA DELLA MORALE

IL PRESIDE DI UN LICEO

“Ricordatevi, che dovete essere sempre razionali, che non dovete mai farvi dominare dai vostri istinti.L’Uomo si differenzia dagli animali soprattutto per avere i freni inibitori”Erano raccomandazioni come queste,piene di moralità, del nostro preside, che ci risuonavano nelle orecchie e che ci tenevano a freno ogni qual volta eravamo tentati di fare qualche bricconata,il che accadeva spesso.Tutti noi ragazzi tenevamo il nostro preside come sicuro riferimento morale,stella polare etica per le nostre azioni e sicuro esempio specie ogni qualvolta la cronaca diffondeva notizie di dilagante mal costume.Fu quindi con stupore che una mattina ,dai giornali, apprendemmo che il nostro preside era stato arrestato perché aveva molestato una nostra collega. Ed ancora più sorpresi restammo allorché si apprese che il preside non era nuovo a questo genere di cose e che più di una volta aveva chiamato a rapporto nel suo studio delle allieve , per poi dopo aver loro promesso il suo interessamento per migliorare la media dei voti e aver creduto di trovare la disponibilità delle stesse, esibire il pene eretto e farle le più squallide profferte.Alle loro rimostranze le minacciava di stare zitte se non volevano essere denunziate per diffamazione ed espulse dalla scuola.Messo alle strette ammise che non era riuscito a controllarsi perché provocato dalla ragazzine che a sentire lui,di tanto in tanto ci stavano, ma non fu in grado di dimostrarlo.

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A PROPOSITO DELLA VIOLENZA SULLE DONNE

IL GINECOLOGO SATIRO

Allorché arrestarono il ginecologo che esercitava nel suo ambulatorio privato e fu rinviato a giudizio, per direttissima ,per sequestro di persona e violenza sessuale aggravata e continuata, la cosa non fece eccessivo scalpore poiché da tempo girava la voce che , ogni tanto , il medico dopo aver fatto distendere nude e poi collocare in posizione ginecologica a gambe divaricate le pazienti per la visita , invece di eseguire la esplorazione vaginale con delicatezza professionale, con le mani guantate e introducendo delicatamente in vagina lo “speculum” sterile e ben oleato per la ispezione,lo facesse d’impeto con il proprio pene eretto ed immobilizzando la paziente cercando di giungere al soddisfacimento.I più dicevano che si trattava delle solite salaci facezie che si raccontano sui dottori. Ma questa volta era stato arrestato poiché la paziente aggredita si era messa a gridare allarmando una sua amica preavvertita che stava fuori ad attenderla e che entrata nell’ambulatorio lo aveva colto in fragranza di reato.Poi alcune donne vittime ,che fino ad allora erano state zitte per vergogna, decisero di denunciarlo.

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LA CRISI ECONOMICA

DAL RACCONTO DI UN QUESTURINO

L’ufficio veterinario provinciale di controllo aveva evidenziato ,durante il censimento annuale,nel parco cittadino,un calo di piccioni molto al di sopra di quello fisiologico.Fu esclusa una moria da virosi , che di solito, periodicamente decimano questi volatili,poiché non erano stati trovati piccioni morti per terra da nessuna parte, come capita in questi casi.L’ufficio pertanto si limitò a segnalare il fatto alla Questura per accertare o escludere fenomeni di bracconaggio o di maltrattamenti di animali,come si erano verificati in altre parti d’Italia.Dopo alcuni giorni di ricognizione ed appostamenti mi insospettì il comportamento di un vecchietto.Costui comparve nel parco di prima mattina allorché era ancora deserto e quando ancora i volatili non avevano ricevuto cibo da nessun frequentatore.Dopo essersi guardato attorno con circospezione ed essersi assicurato che non c’era nessuno in vista,trasse da un sacchettino di plastica un pugno di mangime per uccelli e lo sparse davanti a sé , immobilizzandosi poi per non spaventare i volatili. Subito fu attorniato da una nutrita frotta di piccioni e da qualche merlo che trafelati e decisi si avventarono per beccare, in competizione, tutto quel ben di Dio.In piena concitazione l’ ometto con scatto fulmineo e deciso, come da pescatore esperto, lanciò una rete sui volatili riuscendo ad imbrigliarne alcuni,sebbene i più riuscissero a sfuggire.Indi si chinò di scatto per ritirare la rete con dentro i pennuti e con mossa studiata e rapida li pigiò uno ad uno in una

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borsa per poi allontanarsi subito alla chetichella.Lo pedinai, senza farmi vedere ,per circa un’ora, prima di giungere fino a casa sua.Abitava fuori città, in mezzo alla campagna,in una piccola capanna con attorno uno striminzito orticello coltivato circondato da siepe per cui da fuori si riusciva a vedere poco o nulla.Riuscii a sentite chiaramente un tubare di colombi. Sospettai subito che li avesse catturati per mangiarli.Mi allontanai dalla bicocca con il proposito di ritornarci verso mezzogiorno all’ora di pranzo per verificare il sospetto.Giunto all’ora prefissata, come fui vicino alla casupola iniziai a sentire odore acre di arrosto come da barbecue.Bussai alla porta.Il vecchietto prima di aprire chiese chi fossi.Dissi che ero della polizia per una informazione.Mi chiese di esibire il distintivo attraverso lo spioncino, che puntualmente feci.Allora l’ometto subito aprì , chiedendo visibilmente impaurito cosa volessi.Gli dissi che passando per caso avevo sentito odore di bruciato e quindi volevo appurare di cosa si trattasse.Mi fece subito entrare per mostrarmi due piccioni che arrostivano sul barbecue.Vicino su un tavolinetto era un piatto con dentro aceto ed olio e un ramo di origano che serviva per cospargere i volatili. “E questi piccioni da dove provengono?” A questa domanda l’ometto impallidì diventando ancora più piccolo.Ma poi si riprese. “Li ho catturati nell’orto”.Intanto mentre seguivo il tubare di colombi, ne contai cinque in una gabbia.” E questi cosa ci fanno qui? Sono i piccioni del parco, io li conosco.””Li tengo qui per proteggerli. Do loro regolarmente da mangiare.”” Ma questo non si può fare.E’ un reato che si chiama bracconaggio e maltrattamento di animali, un furto ai danni del Comune che ne è il proprietario!” A questo

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punto l’ometto iniziò a piangere come un bambino e tra le lacrime a lamentarsi , a dire che con la misera pensione sociale che riceveva non ce la faceva a comperarsi il companatico,per cui era costretto a supplire con i piccioni. In fondo lui dava loro da mangiare,così come fanno gli allevatori di polli. Non sapeva che i piccioni appartenessero al Comune, credeva che fossero di tutti. Guardai in giro nell’unica stanza. Si trattava di un povero tugurio senza servizi, né acqua né luce elettrica.Il vecchietto aveva varcato la soglia degli ottanta. Denunciarlo significava solo far perdere tempo a noi ed alla magistratura.”Senta buon uomo se mi promette che lascerà stare i piccioni non lo denunzio.Se ha bisogno di qualsiasi cosa si rivolga all’assistenza sociale.Se ha fame si rivolga alla Caritas ed alla Croce Rossa, intesi?” L’ometto come il bambino scoperto in fragrante mentre cerca di rubare la marmellata dall’armadio,visibilmente umiliato con lo sguardo basso, annuendo col capo:”non mi sono mai rivolto alla Caritas perché mi vergogno, ma ora che me lo chiedete voi lo farò .Grazie tante,prometto che lascerò stare i colombi”. Dopo aver liberato quelli che aveva in gabbia, sempre tenendo la testa bassa, mi accompagnò alla porta visibilmente umiliato. Con l’andare del tempo il conto dei piccioni del parco iniziò a tornare.

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LA SITUAZIONE AL MIO PAESELLO TRENT’ANNI DOPO IL BOOM ECONOMICO.

Nella primavera-estate del 2012, per causa maggiore, ho dovuto sostare per alcuni mesi al mio paesello.Non succedeva da molto tempo.Per questo motivo, ho potuto notare la differenza tra quello che è oggi il mio paesello rispetto a come lo ricordavo ai primi degli anni Ottanta, allo stesso modo di come si paragonano due foto di età diversa della stessa persona nella stessa posizione oppure quando capita di rivedere una persona conosciuta che non vedevi da anni , per cui noti subito la differenza.Mi sono cadute le braccia.Quello che allora era un paese alacre, benestante,con un turismo in continua espansione,di circa 2000 abitanti , con ben due bande musicali che fornivano, non raramente ,solisti nelle migliori orchestre d’Italia,con un teatro all’aperto funzionante e apprezzati artigiani , oggi è un paesello di pensionati allo stremo di circa 900 abitanti, senza futuro.L’eliporto ,attrezzato anche per l’atterraggio notturno, che allora era l’orgoglio del paese ora è diventato deposito di rifiuti, con tutti i fari scassati a sassate da teppisti .Il monumento in onore ai caduti della prima e seconda guerra mondiale impiantato a piena vista all’entrata del paese,atto a significare l’orgoglio della cittadinanza per quei morti in nome dell’Italia ,è stato, per una cospicua parte divelto e depredato dei marmi.Il cassone per la raccolta della biancheria usata da distribuire ai poveri è stato volutamente bruciato proprio durante il mio soggiorno.E nessuno che si curi di porvi rimedio .Il comune che dispone di una delle più belle e

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ricche coste d’Italia con centinaia di campeggi sempre pieni in concessione è pieno di debiti.Questa constatazione mi ha addolorato profondamente. Poi per rincuorarmi ho pensato che in un paese grande come l’Italia il mio paesello, alla fine, costituiva solo un piccolo fatto locale, la conseguenza di una emorragia di emigranti massiccia della parte più valida del paesello che non ha avuto interruzione.In fondo la maggior parte dei miei paesani avevano contribuito al miracolo economico del paese e si erano pienamente integrati nel Nord Italia.Ma subito ho pensato che come i piccoli fatti raccontati del periodo bellico erano sintomatici di un grande fatto:la guerra sullo sfondo di un’Italia povera da secoli, così i piccoli fatti deteriori avvenuti al mio paesello potessero esseri sintomatici di uno stato di decadenza generale dell’Italia attuale.Soprattutto dall’Italia post boom economico si continua ad emigrare. Prima emigrava , per lo più, il lavoratore manuale che andava ad arricchire il paese di destinazione, lasciando più povero quello di provenienza, ora emigra il lavoratore intellettuale che è costato molto di più per la sua formazione alla famiglia ed allo stato e che a maggior ragione in proporzione alle sue capacità arricchirà il paese di destinazione e lascerà più povero l’Italia.E perché il vandalismo , l’incuria dei nostri beni culturali e la bancarotta dell’amministrazione pubblica non sono diffusi ormai in tutta l’Italia? Ma questa constatazione esula da questi nostri piccoli fatti.

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La speranza

Il buon giorno si vede dal mattino

La piccola Ilaria

Un anno e tre mesi con due grandi occhi neri ,splendenti ed ammalianti,prese con entrambe le manine da bambolina di biscuit un cioccolatino ed iniziò a scartarlo con circospezione. Indi una volta liberato dall’involucro, spontaneamente , me lo donò.Non esitai a mangiarlo in un boccone. Lei subito manifestò la sua gioia ridendo in maniera manifesta, perché l’avevo esaudita, contrariamente a quanto non avevano fatto gli altri grandi a cui pure generosamente ne aveva donato uno. “Il buon giorno si vede dal mattino” pensai. “E’ di animo generoso”.

Mia moglie

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Dopo una lunga vita soddisfacente e fortunata ,mi rendo conto sempre di più di non avere certezze,anzi di averne una sola:di essere meno di un chicco di sabbia del Sahara.E mentre rimugino questa amara constatazione ,dalla stanza accanto , mi giunge una vocina , più dolce del miele e più inebriante dell’ambrosia , a me nota più di ogni cosa:”amore…amore”.E’ la mogliettina che mi chiama.Ecco che la voglia di vivere e di scrivere, alla ricerca di certezze, mi pervade di nuovo l’anima e si ricomincia.

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A mia moglie

Tra la gloria e la vita scelgo la vita

tra la vita e la felicità scelgo la felicità

tra la felicità e te scelgo te

tu sei la vita e la felicità

la terra e il cielo

tu sei l’Amore.

In fede

VINCENZO IANNUZZI

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INDICE

IERI

1939-1947 la situazione al mio paesello…………………………………2

Il gioco delle “furmelle”…………………………………………………………6

I bei tempi che furono…………………………………………………………..9

“De gustibus non est disputandum.Le prelibatezze culinarie..13

L’eredità di Orbilio……………………………………………………………….14

1947-1951 emigrazione in Venezuela…………………………………..16

La vezzosa intraprendente…………………………………………………..19

Davide e Golia…………………………………………………………………….20

1951-1964 dal collegio alla laurea……………………………………….21

Gli anni dell’Università……………………………………………………….25

1965-1966 il servizio militare………………………………………………31

Accademia della sanità militare di Firenze…………………………….

Reggimento……………………………………………………………………….32

“Et ea fama vagatur”………………………………………………………….35

Il campo in alta montagna…………………………………………………….38

Il fulmine assassino……………………………………………………………….

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Il fango spossante…………………………………………………………………

La bonifica del poligono…………………………………………………….39

Esiti della visita di leva……………………………………………………….39

Gli scarponi che pizzicano………………………………………………….40

La potenza della chiesa………………………………………………………41

Il privilegiato………………………………………………………………………41

L’istituzionalizzazione dell’imperizia………………………………….43

Conta quel che appare.L’ispezione del generale del corpo di armata……………………………………………………………………………….44

Il genialoide……………………………………………………………………… 45

1967-1968 medico condotto interino…………………………………46

1969-1973 assistente medico ospedaliero nel nord Italia…..52

Il lavaggio vaginale …………………………………………………………..53

Il coltello in gola………………………………………………………………..53

L’ape killer…………………………………………………………………………54

Chi rompe paga……………………………………………………………………

Il senso della misura…………………………………………………………..55

La fuga dalla responsabilità………………………………………………..56

Strumenti di tortura:il forcipe e la camicia di forza……………..57

OGGI

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“O tempora , o mores”……………………………………………………….58

“Sic transit gloria mundi”-Il magnate lombardo…………………….

Morto un papa se ne fa un altro……………………………………….60

La giovane signora della porta accanto………………………………..

Il destino.Il grande scrittore……………………………………………..62

La parte oscura della morale.Il preside di un liceo……………63

A proposito della violenza sulle donne…………………………….64

La crisi economica. Dal racconto di un questurino……………65

La situazione al mio paesello trent’anni dopo il boom economico

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La speranza. Il buon giorno si vede dal mattino. La piccola Ilaria.

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Dulcis in fundo. Amore…………………………………………………….71

Indice………………………………………………………………………………72

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