Upload
stef-man
View
228
Download
2
Embed Size (px)
DESCRIPTION
Jack Settano non poteva sapere che entrando in quella stanza d’albergo quella notte il suo futuro sarebbe potuto cambiare. Ma di certo egli sapeva che salvare la vita a quella donna avrebbe sancito la propria condanna a morte. Ed ora qualcuno lo stava cercando nelle strade innevate della città con l’ordine di ucciderlo. Perché si può nascondere il proprio passato, ma non si può ingannare il proprio destino. Soprattutto per chi - come Jack Settano - il destino aveva reso di professione un assassino. "Chi mi lesse la mano - una ragazza dagli occhi scuri nell'alba di un nuovo anno - mi predisse con voce triste che per me l'arte sarebbe stata un ozio e l'amore un sofferto vizio, e che la mia vita sarebbe stata breve come doloroso ne fu l'inizio. Ma chissà se quella ragazza aveva intuito, fra le linee della mia mano, il disegno del destino che mi avrebbe reso di professione un assassino." Antemprima gratuita del primo capitolo
Citation preview
STEFANO MANUCCI
L'uomo che dovevo uccidereL'uomo che dovevo uccidere
UUID: 9ae99d4e-75bf-11e5-8c76-119a1b5d0361
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
( http://write.streetlib.com)
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
I l l ibroIl l ibro
Jack Settano non poteva sapere che entrando
in quella stanza d’albergo quella notte il suo
futuro sarebbe potuto cambiare. Ma di certo
egli sapeva che salvare la vita a quella donna
avrebbe sancito la propria condanna a morte.
Ed ora qualcuno lo stava cercando nelle strade
innevate della città con l’ordine di ucciderlo.
Perché si può nascondere il proprio passato,
ma non si può ingannare il proprio destino.
Soprattutto per chi - come Jack Settano - il
destino aveva reso di professione un assassino.
L'autoreL'autore
Nato a Roma nel 1975, Stefano Mannucci si
laurea presso la facoltà di Scienze Politiche
all'Università La Sapienza di Roma, con una
tesi sulla produzione fotografica dell’Istituto
Luce. Dopo aver collaborato con alcune riviste
e siti di Storia Contemporanea, inizia la
pubblicazione di diversi saggi riguardanti la
fotografia e la propaganda del regime fascista
durante gli anni della Seconda guerra
mondiale e della guerra d’Etiopia. L’uomo che
dovevo uccidere è il suo primo romanzo breve
scritto fra il 2005 ed il 2006.
Dello stesso autoreDello stesso autore
Storia della fotografia:
Luce sulla guerra. La fotografia di guerra tra
propaganda e realtà. Italia 1940-45.
La guerra d'Etiopia. La fotografia strumento
dell'imperialismo fascista.
La fotografia dell'Istituto Luce. Storia e critica.
Romanzi:
L'uomo che dovevo uccidere
Nota dell'autoreNota dell'autore
Questo romanzo è un'opera di fantasia.
Nomi, personaggi, luoghi ed eventi
narrati sono il frutto dell'immaginazione
dell'autore. Qualsiasi eventuale rassomiglianza
con avvenimenti o persone reali, viventi o
defunte, è da ritenersi puramente casuale.
L'UOMO CHE DOVEVO UCCIDERE
PRIMA PARTEPRIMA PARTE
Capitolo UnoCapitolo Uno
Chi mi lesse la mano - una ragazza dagli
occhi scuri nell'alba di un nuovo anno - mi
predisse con voce triste che per me l'arte
sarebbe stata un ozio e l'amore un sofferto
vizio, e che la mia vita sarebbe stata breve
come doloroso ne fu l'inizio.
Ma chissà se quella ragazza aveva intuito, fra
le linee della mia mano, il disegno del destino
che mi avrebbe reso di professione un
assassino.
Tutto ebbe inizio in una sera di dicembre.
Ero seduto al bancone di un pub, bevendo
un bicchiere di rum, quando qualcuno dietro
di me pronunciò il mio nome:
«Jack... Jack Settano! Sei tu Jack, vero?»
Mi voltai verso quella voce. Un uomo si
avvicinò alla mia sedia con fare discreto.
Lo osservai per qualche minuto senza
riuscire a dargli un'identità. Soltanto dopo che
l'uomo disse di chiamarsi Marcus, riconobbi il
suo volto.
Ci eravamo conosciuti ai tempi della guerra.
Non avevo ricevuto medaglie d’onore il
giorno in cui avevo ucciso il tenente.
Era una mattina di maggio. Ero nel plotone
di esecuzione.
I civili erano schierati inermi di fronte a noi.
Le donne stringevano i bambini tremanti ai
propri seni.
Le case del villaggio erano ancora in
fiamme.
Avevo gli occhi annebbiati dalle droghe che
ci avevano dato.
Sentivo gli ordini del tenente - che ci
spronava a sparare senza pietà - coprire le urla
dei feriti.
I soldati accanto a me avevano sparato
contro i civili che erano caduti al suolo come
fuscelli sotto la grandine.
Io avevo mirato contro il tenente che aveva
ordinato di sparare.
Avevo sparato dritto al suo cuore ed avevo
abbassato gli occhi.
Avevo lasciato cadere il fucile a terra.
Il sangue scivolava sotto i miei anfibi.
Mi arrestarono subito.
L’insubordinazione non era ammessa. La sua
esistenza doveva essere negata.
La ribellione era un fiore che doveva essere
estirpato prima che potesse germogliare negli
animi fecondi.
Meglio il gesto inconsulto di un folle
nichilista che l’atto di insubordinazione di una
coscienza disubbidiente.
Perché la follia esiste in tutte le persone.
In qualcuno è poesia, in qualcuno è violenza,
in qualcuno è arte, in qualcuno è asfissia.
A volte, essa dorme placida come un
cucciolo sul ventre materno.
A volte, invece, essa urla e freme sotto la
pelle fin quando non esce e graffia. Con
unghie acuminate essa graffia la vita. Con
occhi come diamanti essa taglia la notte.
Fui giudicato un folle.
E nella solitudine di una cella fui recluso.
Per non contagiare gli altri soldati. Per essere
di monito agli altri soldati.
Rimasi prigioniero per un tempo
immemore.
Non sapevo quando sarei stato condotto al
patibolo.
Avevo perso il conto delle ore e dei giorni.
Soltanto la sottile luce della luna, che
scivolava attraverso le spesse grate della
finestra, scandiva il trascorrere delle notti.
Fu Marcus ad aprire la porta della cella la
notte in cui la guerra finì.
Una ferita ancora sanguinante gli solcava il
viso.
Il nemico ormai stava raggiungendo le
nostre posizioni.
Gli ufficiali erano fuggiti prima di dare
l’ordine di evacuazione.
Marcus mi accompagnò nel cortile. La
caserma era in fiamme.
Fuggimmo assieme oltre la recinzione del
campo.
Non lo vidi più da quell'alba in cui le nostre
vite si divisero su barconi diversi.
La voce di Marcus mi distolse dai ricordi.
Mi chiese se stessi lavorando. Gli risposi che
non lavoravo da anni.
Non era facile trovare un lavoro, quando in
tutta la mia vita avevo imparato soltanto a
sparare ed uccidere.
Non era facile diventare un impiegato,
quando le mie mani si erano sempre sporcate
di sangue e mai di inchiostro.
Reietto della guerra. Un detrito
abbandonato a riva dal fiume della storia.
La condanna alla follia mi aveva salvato
dalla fucilazione, ma mi aveva anche
condannato all'emarginazione.
Marcus mi chiese se sapessi ancora sparare.
Erano anni che non impugnavo più una
pistola.
Non avevo più ucciso un uomo da quando -
alla fine della guerra - l'uccidere era tornato ad
essere considerato un gesto illegale.
Marcus mi disse che mi avrebbe chiamato
per propormi un lavoro, ma avrei dovuto
mantenere il riserbo assoluto con chiunque.
Il riserbo non sarebbe stato un problema.
Ormai ero diventato un uomo solitario.
Marcus uscì dal pub.
In fondo al locale alcuni giovani punk
danzavano un pogo cantando Last Caress dei
Misfits.
In mezzo a loro, appoggiata ad una parete,
una ragazza con la maglietta dei
Ramones sniffava butano da una bomboletta
che teneva nascosta dentro la borsa di pelle.
Finii di bere il rum ed uscii dal pub.
All'angolo della strada, come in ogni ora di
ogni suo giorno, Annarella fumava via gli
amari anni della sua vita da una sigaretta.
Qualche passo più in là qualcuno vendeva
l'amore. Qualcun altro vendeva in bustine la
morte.
Mi avviai lungo la strada di ritorno verso
casa.
Scivolai nella notte come un riflesso sopra
una finestra appannata.
Tremante come un’ombra in uno specchio
di pioggia.
Delicate cadevano le foglie sui miei capelli.
Piovendo da alberi, le cui radici possenti
spezzavano il cemento del marciapiede, ma i
cui rami fragili piangevano frementi le loro
foglie rossicce su di me.
Sul mio cammino.
Sulla pelle del mio viso che si rifugiava nel
bavero del cappotto a proteggersi dal vento
dell’inverno in arrivo.
Arrivai al portone del mio palazzo.
Varcai la soglia dell’androne e salii le scale
fino al mio appartamento.
Entrato dentro casa, mi diressi nella camera
da letto e, dopo aver aperto la finestra, accesi
una sigaretta. L’ultima sigaretta della notte.
Volsi lo sguardo verso il palazzo di fronte.
Sapevo già cosa mi aspettavo di trovare.
La vecchia signora girava su se stessa.
Girava come era solita fare ogni sera.
Da destra verso sinistra e poi di nuovo verso
destra.
Girava dentro la stanza davanti alla finestra
aperta.
Non importava se contro la pioggia o verso il
sole.
Ogni giorno, chiunque fosse passato sul
marciapiede ed avesse alzato la testa a
guardare i palazzi oltre le rotaie del tram,
soffermando lo sguardo verso quel quinto
piano di un vecchio palazzo ottocentesco,
avrebbe trovato la finestra aperta e la vecchia
signora nel suo silente danzare.
Un braccio piegato a poggiare il palmo
della mano contro la guancia.
L’altro braccio alzato con la mano aperta
verso il cielo.
Qualcuno diceva che lei pregasse per il
marito mai più tornato dalla guerra.
Qualcuno diceva che lei pregasse per il figlio
che mai aveva partorito.
Io non dicevo nulla, ed in silenzio osservavo
la vecchia signora trascorrere le ore delle
proprie giornate a girare su se stessa da destra
verso sinistra e poi di nuovo verso destra,
girare dentro la stanza davanti ad una finestra
aperta.
Volsi lo sguardo dal palazzo.
Osservai il muto orizzonte della città - sola
ed afflitta, ma ancora tremendamente bella -
iniziare a colorarsi a poco a poco di
automobili e sigarette, puttane e poliziotti a
cavallo, flash di fotografie e scintille di tram, e
poi ancora mille luci a splendere come stelle
artificiali sopra le strade.
Spensi la sigaretta e mi allontanai dal
davanzale.
Lasciai la finestra aperta a far entrare il
vento nella stanza.
Mi sdraiai sul letto. Non avevo sonno.
Avrei trascorso un’altra notte in compagnia
della mia fide malinconia. Chiusi gli occhi.
Le lontane urla di una vagabonda - resa folle
dalla dolcezza di notti insonni trascorse per le
vie solitarie della città - echeggiarono
nell'oscurità dei vicoli.