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PERIODICO DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO Anno LX n. 3 Luglio-Settembre 2014

PERIODICO DI ARTE, SCIENZA E CULTURA …...2013, quando, con una cerimonia svoltasi al Circolo Artistico Politecnico, la testata è stata trasmessa a Ser-gio Zazzera. Antonio Lebro,Busto

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PERIODICO DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO

Anno LX n. 3 Luglio-Settembre 2014

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IN QUESTO NUMERO:

Editoriale, La rivoluzione digitale p. 3

E. Notarbartolo, Virgiliomago p. 4

F. Ferrajoli, Fasti, amori e tragedie nei castelli di Napoli p. 6

S. Zazzera, La “Salita al Calvario” di Pieter Bruegel il Vecchio p. 12

S. Loschiavo, Nel terzo cinquantenario della Repubblica Partenopea (1799-1949) p. 15

A. Del Grosso, Il Teatro S. Carlino - tempio della della risata (1740-1887) p. 18

A. La Gala, 1848: strage a Palazzo Cirella p. 20

M. Piscopo, Le funicolari p. 22

R. Pisani, Il Milite ignoto p. 26

F. Lista, Procida, arte e pace in totem p. 29

M. Galli, I 40 anni dell’Unicef Italia p. 33

U. Franzese, Trillante, trocola e uosso ‘epresutto p. 36

Libri & libri... p. 37

...& testate “online” p. 40

UN PO’ DI STORIAAlla metà del ventesimo secolo Napoli annoverava dueperiodici dedicati a temi di storia municipale: l’Archi-vio storico per le province napoletane, fondato nel1876 dalla Deputazione (poi divenuta Società) napole-tana di storia patria, e la Napoli nobilissima, fondatanel 1892 dal gruppo di studiosi che gravitava intornoalla personalità di Benedetto Croce e ripresa, una primavolta, nel 1920 da Giuseppe Ceci e Aldo De Rinaldise, una seconda volta, nel 1961 da Roberto Pane e, poi,da Raffaele Mormone. In entrambi i casi si trattava di riviste redatte da “addettiai lavori”, per cui Salvatore Loschiavo, bibliotecariodella Società napoletana di storia patria, avvertì l’esi-genza di quanti esercitavano il “mestiere”, piuttosto chela professione, di storico, di poter disporre di uno stru-mento di comunicazione dei risultati dei loro studi edelle loro ricerche. Nacque così Il Rievocatore, il cuiprimo numero data al gennaio 1950, che godé neltempo della collaborazione di figure di primo piano delpanorama culturale napoletano, fra le quali mons. Gio-van Battista Alfano, Raimondo Annecchino, p. AntonioBellucci d.O., Gino Doria, Ferdinando Ferrajoli, Ame-deo Maiuri, Carlo Nazzaro, Alfredo Parente. Alla scomparsa di Loschiavo, la pubblicazione è pro-seguita dal 1985 con la direzione di Antonio Ferrajoli,coadiuvato da Andrea Arpaja, fino al 13 dicembre2013, quando, con una cerimonia svoltasi al CircoloArtistico Politecnico, la testata è stata trasmessa a Ser-gio Zazzera.

Antonio Lebro, Busto di Ferdinando Ferrajoli (Napoli, Circolo Artistico Politecnico)

________________________

__________________________________________________________________________________________Con legge 29 luglio 2014, n. 106, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.175 del 30 luglio 2014 ed entrata in vi-gore il giorno successivo, è stato convertito in legge, con modificazioni, il decreto-legge 31 maggio 2014,n. 83, recante «Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilanciodel turismo», il cui articolo 12, comma 3, consente di fotografare liberamente all’interno di musei e monu-menti di proprietà dello Stato e di altri enti pubblici – inclusi quelli amministrati dal Fondo per gli edifici diculto –, purché senza l’impiego di flash e treppiedi. Col presente comunicato intendiamo integrare la notiziapubblicata a p. 16 del fascicolo 2 di aprile-giugno 2014 di questo periodico.

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Consolidatasi intorno agli anni quaranta del secolo scorso, la rivoluzione digitale ha conseguito a tutt’oggirisultati sicuramente maggiori, sia per celerità, che per incisività, rispetto a quella industriale, alla quale

si è soliti per lo più paragonarla. Ciò nonostante, c’è ancora chi – vuoi per supposta propria inidoneità, vuoiper obiettiva difficoltà di apprendimento, vuoi anche soltanto per snobismo – rifiuta con ostinazione l’approcciocon il mezzo informatico.Tale rifiuto, poi, si fa avvertire con particolare intensità anche verso il ricorso al digitale da parte dei media,siano essi libri ovvero periodici, nei confronti dei quali non sono pochi quei laudatores temporis acti checon nostalgia dichiarano di rimpiangere “la sensazione tattile offerta dalla carta” e “il buon profumo del-l’inchiostro”.Non v’è dubbio che carta e inchiostro sprigionino in maniera vigorosa un loro fascino; neanche, però, v’èdubbio che oggettive ragioni di carattere economico vadano indirizzando progressivamente il futuro dei mediaproprio verso il digitale, come i fatti dimostrano: sono sempre più, infatti, i volumi, sia di saggistica, che dinarrativa, editi anche in formato e-book, al pari delle testate giornalistiche diffuse anche in versione digitale.E ricade in questa lunghezza d’onda la decisione, adottata dalla compagine redazionale dell’attuale serie deIl Rievocatore, di pubblicare il periodico in tale ultimo formato.Confessiamo che la nostra scelta è stata accompagnata, all’inizio, dal timore del rifiuto della “novità” daparte del pubblico dei lettori; ebbene, ci attendevamo proteste e, viceversa, abbiamo ricevuto – e continuiamoa ricevere – complimenti per l’innovazione apportata a una testata, che pure appartiene ormai alla storiadella cultura napoletana. Peraltro, la decisione di pubblicare ciascun singolo numero in formato pdf. haconsentito anche agli amanti della carta stampata di continuare a sfogliare – in senso materiale – la rivista,dopo averne stampato la propria copia, il che ha fatto sì che il loro compiacimento sia venuto ad aggiungersia quello di chi ha gradito l’innovazione.Agli uni e agli altri di costoro, dunque, non possiamo che rispondere con il nostro più vivo ringraziamentoe con l’invito a continuare a seguirci e a farci pervenire i loro suggerimenti, dei quali, nei limiti del possibile,terremo conto.

Il Rievocatore

Editoriale

LA RIVOLUZIONE DIGITALE

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VIRGILIO MAGO

di Elio Notarbartolo

Non siamo pochi a sapere che il territoriocompreso tra il Vesuvio e l’Epomeo di

Ischia, dove ricadono Procida, Miseno, Bacoli,Lucrino, Pozzuoli, Agnano e, naturalmente,Napoli, è la zona a più alta densità di vulcanidel mondo. Se ai disastri di origine vulcanicaaggiungi quelli di origine tettonica – i terremoti– sempre frequentissimi, avrai la chiave perspiegarti perché i Napoletani sentono profon-

damente la presenza del trascendente in una alcorrispondente bisogno di sentire la presenzadi un'entità divina che si impegni a difenderli.E' quindi normale che Napoli abbia più santi inParadiso delle altre città a farle da protettore.Sono ben 52 i santi patroni di Napoli! Anchein epoca romana, ce lo racconta Petronio Arbi-tro, nel famoso Satyricon, nelle vie di Napolisi mostrano più dei che uomini, tante erano le

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statue delle divinità sparpagliate per la città. In epoca greca, quindi, precedente a quella ro-mana, agli dei dell’Olimpo Parthenope aggiun-geva addirittura una sua deità specifica, Ebone,la cui immagine la possiamo vedere sottoforma di toro, con il volto umano ricoperto dibarba, nelle monete coniate sulla collina di Piz-zofalcone e usate negli scambi commercialicon i Greci di Cuma, e con quelli provenientidalla Magna Grecia. Ancora oggi fanno moltefortune a Napoli maghi e indovini che millan-tano un filo diretto con il mondo ultraterreno.Il mago di Napoli, il mago di Forcella, il magoecc., non si finisce a farne l’elenco.Il più famoso mago di Napoli fu un poeta Pu-blio Virgilio Marone, sì, quello delle Bucoli-che, dell’Eneide, la cui tomba è conservata aipiedi della collina di Posillipo. Nel Medioevo a Napoli egli era molto più fa-moso come mago che come poeta. È senz’altro vero che Virgilio si intendevaanche di scienze naturali, di medicina e di ve-terinaria. L’imperatore Augusto lo faceva ve-nire da Napoli a Roma per curare i suoi calli!Non è certo, però, che egli si intendesse dimagia. I Napoletani, per le esigenze connessealla peculiarità ballerina e flegrea del territorio,e anche forse per la minore dimestichezza cheessi avevano con il latino, lingua in cui il Vir-gilio scriveva i suoi poemi, visto che essi eranoabituati a parlare in greco, accreditarono finoal basso Medioevo, la leggenda che Virgiliofosse un mago. Sarà stata anche la trascrizioneerrata del cognome Maro (Marone in Italiano)un Mago, o il fatto che la madre del poeta sichiamasse Magia, certo è che nella storia diNapoli Virgilio non è soltanto il creatore del-l’uovo magico nascosto negli anfratti dell’iso-letta Megaride, poi occupata dal Castellodell’Ovo, che avrebbe protetto Napoli finché

fosse rimasto intero (il nome del castello derivaproprio da questo magico uovo di Virgilio) maanche colui che aveva allontanato le fastidio-sissime mosche che infestavano la città, letroppo rumorose cicale che non facevano dor-mire i Napoletani, che ha aperto in una solanotte la grotta di Pozzuoli per facilitare ai Na-poletani il percorso verso le acque che luiaveva reso medicamentose sulla strada versoPozzuoli e Baia. Si narra, poi, che sotto la re-gina Giovanna I d'Angiò, nel 1343, un prigio-niero tenuto nelle più oscure galere di Castellodell'Ovo, nel tentativo di fuggire, ruppe l’uovoincantato. Che cosa non successe quella notte:lampi, tuoni, saette mai sentite, una tempesta,incredibile, forse un maremoto e un terremoto.Tantissimi morti, tantissimi danni alle navi ealle barche. Ne fu testimone Francesco Pe-trarca sul punto di partire da Napoli.Eppure in città c’era una santa, santa Barbara,che pare avesse a che dire contro la regina Gio-vanna, non solo per ragioni di ortodossia cri-stiana, ma anche per via del figlio FedericoUffstal sul quale la regina aveva posato un oc-chio non proprio certo. E oggi? I santi, quelli che sono rimasti, oggi sifanno concorrenza a sciogliere il sangue. Gen-naro lo scioglie due volte l’anno. Patrizia 200volte l’anno, cose che alla città servono pochis-simo.Anche i maghi stanno lasciando Napoli. Sonorimasti solo prestigiatori di basso conto capacidi fare scomparire qualunque cosa, qualunquesperanza. Nonostante loro, Napoli continua ad esserebella! Virgilio deve aver nascosto qualche altrotalismano per proteggere la città!Mantua me genuit – recita il famoso epitaffio–, tenet nunc Parthenope. Nuje tenimmo a Virgilio.

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FASTI, AMORI E TRAGEDIE NEI CASTELLI DI NAPOLI

di Ferdinando Ferrajoli

Chi* volga lo sguardo nelle intricate vie deiquartieri a nord della grande arteria del

Rettifilo – corso Umberto I – , ove si agglo-mera e vive, con le sue antichissime tradizioni,gran parte del popolo, vede le secolari archi-tetture di grandiose chiese, di solitari cenobi,di chiostri famosi e severi palazzi, che parlanodella vita e della storia cittadina, fin dai tempipiù remoti. Vede dalla piazza di S. Domenicomaggiore, per i rioni popolari di S. Agostinoalla Zecca, dei SS. Apostoli, fino a S. Anielloa Caponapoli, affiorare dal suolo visibili traccedi antichissime civiltà e può rendersi conto cheproprio in questo quartiere, pieno di vitalità,ebbe origine tremila anni orsono la città grecadi Napoli.Percorrendo queste strade si avverte subito direspirare un’aria di antichità, specialmente at-traverso le vie S. Paolo, Gigante, S. GregorioArmeno, vico Panettiere, vico Zuroli, vico Zitee tanti altri ancora, che partendo dalla via An-ticaglia incrociano le vie dei Tribunali e For-cella, che furono le antichissime arterie – ossiai decumani – della greca Neapolis.A piazza Mura Greche, a piazza Bellini, viaMezzocannone (cinema Astra) e nel cortile del-l’Università nuova appaiono visibili traccedella possente muraglia, che i Romani, nel 327a.C., poterono espugnare solo per i segreti ac-cordi dei principes Carilao e Ninfio, del partitodemocratico della città.Quando gli Agostiniani nel 651 ampliarono lachiesa su progetto dell’architetto BartolomeoPicchiatti, Nicola Carletti, nel suo volume Lafondazione di Partenope, scriveva: «La chiesae il convento di S. Agostino riposa su gli avanzi

delle antichissime costruzioni greche, osser-vandosi che il secondo chiostro dei frati, total-mente oggi è posto sulle mura vetustissime delCastello di Falero».Due illustri studiosi di storia patria, il Capassonel suo volume Napoli greco-romana e il Ga-brici nelle Notizie degli scavi, danno grandeimportanza al poggio di S. Agostino alla Zeccaa q. 18,2. Come pure una relazione dell’inge-gnere Luigi de Simone, del Comune di Napoli,del 15 maggio 1899, dice: «Nella zona dellachiesa di S. Agostino alla Zecca anticamentedoveva esservi un grande edificio». Il Gabrici,poi, in un suo studio, nel descrivere i rinveni-menti intorno al poggio di S. Agostino durantei lavori del Risanamento scrive: «Il muro a pièdi torre inclinato al 14% apparve in quasi tuttii punti della zona scavata; la sua andatura po-ligonale dimostrava che esso cingeva il piccolopoggio di S. Agostino alla Zecca… ed aveva12 metri di spessore e le sue fondamenta oltre-passavano il pelo dell’acqua arrestandosi a m.9,82 sotto il piano stradale di Forcella».In un mio libro – I Castelli di Napoli – ho di-mostrato che il Castello Angioino fu elevatoanch’esso intorno ad una collina a q. 19, con imuri a piè di torre inclinati al 14% e spessi 12metri, esattamente come quelli descritti dal Ga-brici intorno al colle di S. Agostino alla Zeccaa q. 18,2. Questa uguaglianza di basamenti neidue castelli di Falero e Angioino ci fa pensareche quando Carlo I fece elevare il suo castello,l’architetto dovette ispirarsi sui resti del Ca-stello di Falero che in quel lontano Medioevofaceva ancora bella mostra di sé.

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Quando i grandi di Roma vennero a Napoli percercarvi tutte le delizie, tutti i conforti e tutti ipiaceri che la severa città di Romolo non po-teva dare, scelsero le sponde più amene delgolfo partenopeo, da Baia a Miseno, da Sor-rento a Capri, da Posillipo al Chiatamone, ovesi fecero costruire monumentali ville, di cuituttora gli avanzi spirano la maestà dei loro edi-ficatori.Famosa fu quella che Lucio Lucullo si fece ele-vare sull’isola di Megaride, oggi Castellodell’Ovo, i cui giardini si stendevano fino atutto il monte Echia.Plinio afferma che Lucullotagliò il monte Echia conuna spesa maggiore diquanto costò la villa stessa,creando nel ventre delmonte grandi peschiere pervivai di pesci rari e di mu-rene, che ricevevano leacque direttamente dalmare, mediante appositi ca-nali.Plutarco esalta la grandiositàdi questa villa, ch’era arric-chita da una vistosa quantitàdi opere d’arte in pittura escultura, e secondo il Miho-vic tale materiale artistico sitrovava ancora intatto aitempi di Federico II di Sve-via, che formò in Castel del-l’Ovo il primo museoarcheologico napoletano.Si può immaginare lo splendore di questa villae il lusso sfrenato di Lucullo, specialmentenelle cene e nei banchetti rimasti così famosi,che furono censurati da Catone.La villa venne trasformata in castello dall’im-peratore Valentiniano col nome di Castrum Lu-cullanum; le fortificazioni furono completateda Odoacre che vi relegò a vivere fino allamorte il giovanetto Romolo Augustolo, ultimoimperatore d’Occidente.Fin dove giungevano le mura del Castro Lu-cullano con le sue torri più avanzate?Nulla è possibile precisare, perché con lo sfio-

rire della civiltà greca e col tramonto dell’im-pero di Roma, un profluvio di nordiche razzedilagò per le nostre belle contrade avvicendan-dosi per circa un millennio e mezzo, demo-lendo e distruggendo ogni segno della greca eromana civiltà.Nel VIII secolo sul Castrum Lucullanum vierano alcuni presidî bizantini che dimoravanoin grotte scavate nella roccia; poi in seguito fuelevata una piccola chiesa dedicata al Salva-tore, con annesso un monastero, nel quale S.Patrizia, nipote dell’imperatore Costante, presa

da ardente desiderio di con-sacrarsi a Dio, si ritirò evisse da eremita, dopo che siera rifiutata di sposare unprincipe a cui era stata pro-messa sposa.La complessa configura-zione topografica del Ca-stello dell’Ovo èstrettamente legata alla sto-ria civile e politica dellacittà, perché si trovava inuna posizione strategica-mente imprendibile; la suaimponente mole dominavatutto il litorale, ed era natu-rale che in ogni tempo dive-nisse campo di competizionie di lotte fra regnanti.Carlo I d’Angiò, che fu unodei più spietati tiranni delMedioevo, fece del Casteldell’Ovo una splendida di-

mora e una terribile prigione; dopo sconfitto reManfredi, vi fece rinchiudere il primogenito,con la sorella Beatrice, mentre gli altri figli conla moglie languirono nei castelli di Canosa eNocera.Fu soggiorno preferito delle corti di Napoli,tanto che vi venne alloggiato l’antipapa fran-cese Clemente VII, con i cardinali del suo se-guito, e per molti giorni si tennero feste, convitie ricevimenti.In questo castello – ove furono rinchiusi prin-cipi e regnanti – vennero commessi i misfattipiù atroci e fu teatro dei più tragici avveni-

Emilio Franceschi,Ruggero il Normanno

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menti, specialmente nel 1799, durante la Re-pubblica Partenopea, quando si rifugiaronocirca 300 patrioti, opponendo una strenua resi-stenza; il castello fu bombardato da terra e damare, fino a ridurlo un ammasso di rovine.

Dopo circa due millenni di vicende storiche ilcastello ha subìto non poche trasformazioni emutilazioni, per cui oggi è difficile farne la cro-nologia dell’edilizia nei suoi diversi periodi,che vanno da quello lucullano al cenobitico,dal normanno all’angioino, dall’aragonese aiBorboni, fino ai tempi nostri.Oltrepassato il vestibolo d’ingresso, si restasorpresi di trovarsi davanti ad una strada in ri-pida salita, fiancheggiata da vecchie abitazioniche formano un sol corpo con la roccia tufaceadell’isola che si leva dal mare circondata dapossenti bastioni esterni; la strada che rappre-senta la spina dorsale della rocca percorre circa200 metri, arrivando in un quadrilatero a 50metri di altezza fiancheggiato da possenti muradalle ampie feritoie, ch’è la vera roccaforte delcastello.

Se il Castello dell’Ovo derivò dalla genialevilla di Lucullo sorgente dal mare, sull’isola diMegaride, Castel Capuano derivò da una for-tezza, incorporata nella muraglia greco-ro-mana.Alcuni autorevoli scrittori di storia patria l’at-tribuiscono al re Ruggiero il Normanno (1140);il Capasso, invece, ritiene che al tempo ducalegià esisteva e che Guglielmo il Malo l’ingrandìe ne fece un proprio castello, circondato per trelati da un pauroso fossato, oltre il quale si sten-deva la pianura di Campus Neapolis.Ampliato e reso più bello da Federico II diSvevia e, poi, nel 1270, da Carlo I d’Angiò, visi svolse gran parte delle vicende storiche ditre dinastie: sveva, angioina e aragonese. Ilmassimo splendore l’ebbe nel Trecento conGiovanna I d’Angiò che spesse volte si recavaa Castel Capuano.La regina, che alla sua bellezza accoppiavamodi gentili e cortesi, si circondava di unasplendida corte di galanti cavalieri e di belledame della più alta nobiltà, fra le quali si nota-

vano Sclamunda di Acquabianca, Francesca daVerona e Mariella di Nocera. Ivi teneva unaspecie di accademia floreale, simile alle anti-che “corti d’amore”; la regina durante questitornei era al suo posto d’onore vestita sfarzo-samente di velluto cremisi, ricamato in oro,con la corona in testa, come partecipasse a unacerimonia di Stato.Oltre lo splendore Castel Capuano fu teatro ditragici amori della regima Giovanna II, chesuccesse sul trono a suo fratello re Ladislao, fi-glio di Carlo di Durazzo. Questa affascinantecreatura, tanto beneficata dalla natura, che leaveva dato un corpo perfetto, simile a quellodi Venere, armonioso, pieno di grazie e sedu-cente, fu una donna sensuale di poco riservaticostumi, per cui ebbe un burrascoso regno evisse in continue lotte politiche.Il Consiglio della Corona per ammansirla e peravere un erede al trono la fece sposare al conteGiacomo della Morea, dei reali di Francia, ilquale venuto a conoscenza dei precedenti amo-rosi della consorte, appena ebbe ricevuto il ti-tolo di re, fece mozzare il capo al contePandolfello, che era stato l’amante della re-gina.Quando all’astuta sovrana fu concesso dal con-sorte di recarsi a un matrimonio in piazza Mer-cato e si affacciò al balcone del palazzo permostrarsi al popolo che l’acclamava, chieseaiuto contro quel tiranno di suo marito che lateneva quasi prigioniera.Il popolo che amava la sua regina, la portò intrionfo a Castel Capuano, con grida ostili con-tro Giacomo, il quale, avvisato dai suoi seguacifrancesi, che accompagnavano la regina, fuggìin Castel dell’Ovo, ove restò prigioniero dellaregina, finché per l’intercessione di papa Mar-tino V venne liberato l’anno successivo.Avvilito e scoraggiato, questo principe ritornòin Francia, ritirandosi nella pace del chiostroper tutto il resto della sua vita, mentre la reginaGiovanna non tardò a invaghirsi del conte Ser-gianni Caracciolo, che nominò Gran Sini-scalco, duca di Venosa, conte di Avellino,Signore di Capua e tanti altri principati.Quando la lussureggiante regina era al tra-monto della giovinezza, il Gran Siniscalco in-

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cominciava anch’egli a invecchiare e sentivaraffreddare il suo amore per la sovrana, cercòdi assicurarsi sempre più privilegi e autoritànello Stato, ma quando pretendeva dalla reginail principato di Salerno e il ducato d’Amalfi,per fare un regalo di nozze al figlio, ne ebbe unrifiuto; allora incominciarono i primi dissapori,che ben presto degenerarono in un vicendevoleodio e disprezzo.Un giorno chiese ancora questi privilegi e,avuto nuovamente un netto rifiuto, il vile cor-tigiano coprì di villaniala sovrana che pianseamaramente. Dietro unaporta stava in ascolto laduchessa di Sessa Co-vella Ruffo, dama dicompagnia, che godevagrande stima della re-gina; entrata nella stanzamentre Sergianni si al-lontanava, rimproveròdolcemente la regina e lapersuase di destituire ilGran Siniscalco dalla ca-rica e farlo imprigionare.Avuto l’assenso della du-chessa che non tolleravala superbia di Sergianni,si accordò con Ottino Ca-racciolo, acerrimo nemicodel Siniscalco, e decisero di ucciderlo.Il giorno successivo Sergianni, per riconciliarsicon la regina, fece celebrare il matrimonio delfiglio Troiano in Castel Capuano alla presenzadella sovrana. Era il 17 agosto del 1432, dopoche gli splendidi saloni echeggiarono di suoni,di canti e di danze fino a tarda notte e i grandidel Regno presero commiato dalla regina, ilGran Siniscalco, al colmo della gioia, si ritirònel suo appartamento per dormire. Il castelloda un pezzo era immerso nell’oscurità, quandonel profondo silenzio della notte i congiurati,fatto aprire con uno stratagemma la porta dellastanza da letto di Sergianni, si precipitarono el’uccisero a colpi di stocco e di accetta, trasci-nando il cadavere in fondo al cortile presso unafontana.

Al mattino di buon’ora com’era insanguinatoe difforme dalle ferite fu posto in un cataletto,accompagnato da quattro padri, con solo dueceri, che lo portarono a seppellire nella tombache si era fatta elevare con grande magnifi-cenza marmorea, nella vicina chiesa di S. Gio-vanni a Carbonara.Così finì il conte Sergianni Caracciolo, chefino a poche ore prima aveva signoreggiato sulpotentissimo regno.

Con gli Aragonesi CastelCapuano conobbe tuttolo splendore della corte;Alfonso I ne fece unasplendida biblioteca, oveerano raccolti libri rarilegati in pelle e ornati dioro e di argento; qui nac-que la famosa Accade-mia Alfonsina, voluta dalre umanista, la qualeprese il suo nome; qui ilPanormita leggeva espiegava Livio alla pre-senza del sovrano.Questo castello vide lenozze fastose d’Isabelladi Aragona, figlia di Al-fonso II, con GaleazzoSforza di Milano, che

poi sarebbe stato ucciso dal veleno di suo zioLudovico il Moro.Il viceré d. Pietro di Toledo nel 1537 volle cheil famoso Castel Capuano divenisse il Palazzodi Giustizia e vi raccoglieva tutti i Tribunalisparsi per la città, quali la Regia Camera dellaSommaria, fondata da Federico II di Svevia, laGran Corte della Vicaria, fondata da Carlo IId’Angiò, il Sacro Regio Consiglio, fondato nel1444 da Alfonso d’Aragona, il Tribunale dellaZecca e il Tribunale della Bagliva.Castel Capuano aveva visto splendere tante di-nastie di re e raccoglieva tutta la criminalità,ove nelle stesse carceri sotterranee si commet-tevano i più orrendi delitti e gli aguzzini spie-tati seviziavano i prigionieri.Sulla piazza Capuana furono collocate le gab-

Ladislao di Durazzo

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bie di ferro alla parete esterna del Castello, cheoffriva alla vista del popolo le teste staccate daibusti dei giustiziati, dopo l’esecuzione che av-veniva su un palco elevato innanzi alla piccolachiesa di S. Onofrio.

Nel 1279 Carlo I d’Angiò si faceva costruireCastel Nuovo, da due architetti francesi al suoseguito, Pietro de Chaule e Pietro d’Angicourt,come richiedeva l’architettura civile di queitempi così poco sicuri per coloro ch’erano algoverno dei popoli.Si può immaginare come doveva apparire nelTrecento Castel Nuovo che, a forma di quadri-latero, si ergeva grandioso, possente e solitario,con le torri merlate a picco sul mare.Si elevava simile a una collina di pietre squa-drate, nell’antico Campus Oppidi, fra selve egiardini, che poi divennero tutti del regio de-manio, avendo ai suoi piedi una vasta pianuradetta Platea Corrigiarum, che si stendeva daPorta Petrucci agli spalti del castello. Nel 1282 il castello era già ultimato, ma il reangioino non poté goderselo a lungo perché treanni dopo moriva a Foggia; gli successe altrono il figlio Carlo II lo Zoppo, che venne ri-scattato dalla prigionia in Sicilia; egli elevò labella chiesa nel castello, che fece scrivere alPetrarca nel suo Itinerarium Syriacum: «Sulposto c’è la reggia nella quale non tralasceraidi entrare per visitare la cappella del re. In que-sta il mio concittadino pittore luminoso dell’etànostra lasciò grandi monumenti della sua manoe del suo ingegno». Infatti Giotto fu a Napolidal 1329 al 1332 per dipingere la Cappella Pa-latina e la Sala degli Uomini Grandi in CastelNuovo, nella quale raffigurò AlessandroMagno, Salomone, Ettore, Enea, Achille, Pa-ride, Sansone, Cesare. Sala che fu distrutta daAlfonso I per elevare al suo posto la Sala delTrionfo, architettata dal catalano GuglielmoSagrera, dalle aeree linee architettoniche slan-ciate audacemente in alto, formando sul tronodorato del Magnanimo un grande padiglioneottagonale, destando stupore e meraviglia. Inquesta sala, quando gli successe al trono suofiglio Ferrante I, il giorno delle nozze di sua ni-pote, figlia del duca di Amalfi, con il figlio di

Francesco Coppola, conte di Sarno, ch’erastato il maggior promotore della ribellione deibaroni contro di lui, mentre tutti i convitati tracanti e suoni aspettavano l’apparire della sposaal fianco del re Ferrante, fece arrestare e impri-gionare nei sotterranei del castello tutti i baronipresenti, che dopo un sommario processo fu-rono tutti giustiziati. Tale tragedia della nobiltànapoletana inorridì il mondo civile; sebbene lafama della crudeltà del re e di suo figlio Al-fonso già aveva varcato il confine d’Italia, daallora in poi la Sala del Trionfo fu chiamata“Sala dei Baroni”. Invece con suo padre Alfonso I d’Aragona Ca-stel Nuovo ebbe il maggior splendore dopo Ro-berto d’Angiò; raccontano il Falco e ilPanormita che con l’ingresso trionfale a Napoliil Magnanimo diede al suo regno una calda eluminosa luce, che lo accompagnò fino allamorte: favorì le arti, le lettere e le scienze, por-tando nel pensiero umanistico del Rinasci-mento una nuova vita, che illuminava come unfaro luminoso questa millenaria città.Questo fulgido periodo del suo regno si puòvedere nell’Arco trionfale, elevato nel 1445 frale due torri che difendevano l’ingresso del ca-stello, per tramandare ai posteri il ricordo deitrentacinque anni del suo regno. Quest’operaalta m. 35,70 e larga m. 9,20, che dà una notalirica al severo castello, fu opera di FrancescoLaurana eseguita da una schiera di scultori. Ilmonumentale complesso architettonico-deco-rativo rappresenta un alto godimento spirituale,sia per l’armonia delle masse architettonicheche per l’euritmia della parte decorativa, chepoi il figlio Ferrante I doveva completare congli stipiti e la porta di bronzo, che illustra la suavittoria riportata sotto le mura di Troia (Fog-gia) contro Giovanni d’Angiò, scolpita dallascultore Monaco che seppe cogliere il caratteree l’immediata azione dei personaggi, nei qualiraffigura il dominio delle forze scatenate dallapugna di due eserciti in armi, che si scontranoin furiosi combattimenti.Oggi la possente mole di questo castello do-mina una delle più belle piazze d’Italia.

Se i castelli avanti descritti resistettero durante

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,i secoli all’assalto degli eserciti e alla furia deipopoli, Castel Sant’Elmo, che si eleva sul-l’amena collina vomerese, come sullo sportonaturale di un bastione, non solo fu il terroredegli eserciti ma di tutta la città.La posizione della collina fece sì che i Nor-manni elevarono una torre chiamata Belfortche Roberto d’Angiò cinse di poderose mura.D. Pietro di Toledo, vista l’importanza strate-gica di questo vecchio castello normanno, perordine di Carlo V fece elevare al suo posto l’at-tuale grandioso castello.Ne fu architetto Luigi Scrivà di Valenza, cheescluse il tipo tradizionale del castello con letorri circolari e, da esperto ingegnere militare,tenne innanzitutto presente la posizione dellacollina di S. Martino rispetto alla città, per cuiideò un castello a forma di stella poligonalecon lati disuguali di circa 200 metri di lun-ghezza ciascuno per 100 di larghezza. La piaz-zaforte è di forma poligonale di circa 20.000mq. di superficie, è cinta da bastioni sotto iquali corrono corridoi, casematte, scale, cadi-toie e postierle con centinaia di feritoie perogni lato.

Il castello servì raramente contro lo straniero,però venne adoperato per rinchiudervi nei suoitetri sotterranei i cittadini ribelli al viceré, tantoche in uno di questi sotterranei nel 1799 fu rin-chiusa Luisa Sanfelice, che poi affrontò lamorte in piazza Mercato.Quando al raggio della luna vediamo profilarsila caratteristica sagoma dei vecchi e turriti ca-stelli napoletani, che oggi restano abbandonatie trascurati, la nostra fantasia si accende e sem-bra di vedere in quei secolari muri succulentibanchetti luculliani, splendide corti di sovrani,ricevimenti regali, corti di amore, tragedie pas-sionali, ombre vaganti del giovane e biondo reCorradino di Svevia, del conte Pandolfello, delfiero Sergianni Caracciolo, del popolare Masa-niello, dell’eroica Luigia Sanfelice, di MarioPagano, Domenico Cirillo e tanti altri che conle loro gesta, il loro martirio, scrissero paginesublimi della millenaria storia di questa illustrecittà.___________________

* Conferenza tenuta nella sede dell’Ordine degl’inge-gneri e architetti di Napoli nel febbraio del 1975.

Oggi io sono celebre e ricco. Maquando sono solo con me stesso,non ho il coraggio di ritenermi unartista nel grande e dignitososenso della parola. Grandi artistifurono Giotto, Tiziano, Rem-brandt, Goya… Io sono soltanto un pagliacciopubblico, che comprende il suotempo e che ha sfruttato conogni possibilità l’idiozia, l’avi-dità e la vanità dei propri con-temporanei.

Pablo PicassoPablo Picasso, Autoritratto

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In seguito all’abdicazione di Carlo Vd’Asburgo, nel 1555 il governo dei Paesi

Bassi spettò al figlio di lui, Filippo II, il quale,oltre a inasprirvi il regime fiscale, decise diproclamarvi religione di Stato quella cattolica.Tale sua politica non tardò a incontrare l’oppo-sizione della nobiltà locale, che aveva abbrac-ciato, per lo più, la religione calvinista, alpunto che, ai primi di agosto del 1566, il so-pravvenire di una carestia, che rese particolar-mente scarso il raccolto del grano, indusse lapopolazione delle principali città calviniste ainsorgere, innescando una vera e propria guerradi religione, con una marcata connotazione ico-noclastica, cui pose fine, soltanto dieci annidopo, la pacificazione di Gand1.

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In quell’anno 1566, Pieter Bruegel il Vecchio(detto anche “Bruegel dei contadini”2) avevaun’età compresa fra i trentasei e i quarantunanni, essendo nato all’incirca fra il 1525 e il1530, a Breda3: e sia chiaro che non è che aquell’età si potesse essere considerati “vecchi”;soltanto che con quell’attributo si è inteso di-stinguerlo dall’omonimo figlio (nato a Bruxel-les nel 1564), detto, per l’appunto, il Giovane.Formatosi a Bruxelles alla scuola di Pieter Co-ecke van Aelst, pittore di corte di Carlo V, peril tramite dell’incisore Hyeronimus Cock egliconobbe le opere di Hyeronimus Bosch4, allecui modalità compositive lo fa assimilarequella minuziosità nella rappresentazione della

LA “SALITA AL CALVARIO” DI PIETER BRUEGEL IL VECCHIO

di Sergio Zazzera

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natura in tutte le sue espressioni, ch’egli affolladi figurine umane dedite alle loro attività quo-tidiane, al punto che qualcuno lo ha definito –benché in maniera impropria, a mio avviso –«il primo gigantesco naïf della pittura euro-pea»5. La sua adesione alla Schola Caritatis(Huys der Liefde), setta eretica mistica fondataad Anversa da Hendrik Niclaes, pensatore dalleidee alquanto confuse6, consente di ritenerlovicino agli ambienti religiosi protestanti dellasua terra, piuttosto che a quelli cattolici, cui vi-ceversa qualcuno ha inteso ascriverlo7.Già due anni prima che la popolazione delleFiandre insorgesse, però, Bruegel, non ancoraquarantenne, doveva averne avvertito le primeavvisaglie: egli, infatti, in quell’anno 1564 rea-lizzò la celebre Salita al Calvario (ora al Kun-sthistorisches Museum di Vienna), che reca inbasso a destra la firma «BRVEGELMD.LXIIII». Si tratta di un dipinto a olio su ta-vola, delle dimensioni di cm. 124x170, checonferisce alla scena, affollata da oltre cento-cinquanta figure umane, un’ambientazionespaziotemporale corrispondente alle Fiandre diquello scorcio di secolo XVI8.Nel 2011 dalla tavola di Bruegel ha tratto ispi-razione il regista polacco Lech Majewski peril suo film I colori della Passione (titolo origi-nale: The Mill and the Cross)9, nel quale egli,al pari di diversi storici dell’arte, offre di al-cune delle scene che trovano spazio nel dipintoun’interpretazione, che non ritengo condivisi-bile10. In primo luogo, all’elemento che in manierapiù immediata attira l’attenzione dell’osserva-tore, vale a dire, il picco particolarmente ele-vato, sul quale sorge il mulino, Majewskiattribuisce la simbologia della Divinità, che, inquanto tale, deve necessariamente occupare laposizione più alta possibile. Ebbene, credo che,viceversa, quel particolare del dipinto stia a si-gnificare quanto un alimento di primaria ne-cessità, qual è il pane, si sia allontanato dallaquotidianità di quel momento, in conseguenzadella carestia11.Ai numerosi pali, poi, sormontati da ruote edisseminati per tutta la tavola, il regista asse-gna la valenza rappresentativa della ruota, sim-

bolo della tortura12, cui la parte non cattolicadella popolazione delle Fiandre era soventesottoposta dal Santo Officio dell’Inquisi-zione13. Senonché, l’iconografia dell’epoca raf-figura quello strumento di supplizio, per lo più,in posizione verticale ovvero, se in quella oriz-zontale, sorretta da un supporto di gran lungameno alto14. Mi sembra, dunque, che quell’im-magine intenda raffigurare piuttosto l’“alberodella cuccagna”15, la cui enorme distanza dalsuolo esprime quella che la carestia in atto hafatto assumere alla “cuccagna”, tanto più cheai piedi del palo dipinto nella parte destradell’opera giace un teschio equino, significa-tivo anch’esso delle conseguenze di quel fla-gello.Ancora, la rispettiva collocazione delle figuredei protagonisti della scena – Maria, la Mad-dalena e Giovanni in primo piano, sulla destra,e Cristo in posizione centrale, ma in lontananzae quasi sommerso dalla folla che lo circonda –, piuttosto che rappresentare la centralità deipersonaggi nella raccolta dell’eredità del Cro-cifisso, credo intenda rimproverare al cattoli-cesimo il conferimento alla Madonna e ai santidi un ruolo eccessivo, rispetto a quello ricono-sciuto al Figlio di Dio16. E, anzi, analogo signi-ficato credo che debba essere riconosciuto alladistanza che separa il Calvario, che sorge sullato destro, in alto, da quelle medesime tre fi-gure. Per non dire del disinteresse per quantosta accadendo, che connota la maggioranza deipersonaggi che popolano il dipinto, intenti cia-scuno alle proprie occupazioni; disinteresse, ilcui senso è talmente chiaro, che non ritengo ne-cessiti di commenti. E altrettanto dicasi dell’in-differenza espressa dalla moglie di Simone diCirene, che tenta di dissuadere costui dall’aiu-tare Cristo a reggere la Croce17.

*   *   *

La centralità del personaggio-Cristo, che carat-terizza le teologie protestanti18, è espressa, dun-que, dalla posizione centrale conferitaall’immagine-Cristo, che appare gravata delpeso della Croce nel dipinto bruegeliano; di-pinto che, poi, riguardato sotto il profilo squi-sitamente iconografico, merita di esseredefinito, a pieno titolo, un “Apocrifo neotesta-mentario per immagini”, poiché la sua forma

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pittorica è espressiva, in maniera analoga, diquella narrativa propria delle fonti non cano-niche della dottrina cristiana19. Del resto, per-fino in ambito cattolico, a dispetto del rifiutoufficialmente opposto dalla Chiesa20, la predi-cazione missionaria ha attinto molto spesso aquesta categoria di fonti, che meglio si prestaa rappresentazioni anche verbali particolar-mente icastiche, e perciò atte a imprimere conmaggiore facilità avvenimenti e concetti inmenti culturalmente meno evolute21. Vice-versa, per ciò che concerne le presenze femmi-nili alla Crocifissione22, Bruegel mostra diaccogliere la narrazione di Giovanni, che col-loca ai piedi della Croce anche Maria23, laquale, viceversa, oltre a non figurarvi nei Si-nottici24, è addirittura esclusa in manieraespressa dal Vangelo apocrifo di Gamaliele25. È legittimo, dunque, ipotizzare che la confu-sione d’idee di Hendrik Niclaes si sia sufficien-temente comunicata a Bruegel, ingenerando, asua volta, in maniera altrettanto legittima, il di-sorientamento che caratterizza, da una parte,chi ascrive l’artista agli ambienti religiosi pro-testanti e, dall’altra, chi lo ritiene vicino aquelli cattolici26. D’altronde, si sa quanto lavera arte mal tolleri ogni genere di etichette edi classificazioni._______________________

1 Cfr. A. PRANDI, L’Europa centro del mondo, 1, To-rino 1980, p. 238 ss.2 Cfr. L. VERDI, Habeas corpus: figure sociali delcorpo, Roma 1996, p. 113.3 Cfr. I. CHILVERS, The Oxford dictionary of art, Ox-ford 2004, p.110.4 Cfr. P. ALLEGRETTI, Brueghel, Milano 2003, p. 42;I. CHILVERS, o. c., p. 182.5 Cfr. F. CAROLI, Il volto dell’amore, Milano 2011, cap.IV; peraltro, per i paesaggi e per la minuziosità dei par-ticolari che caratterizzano la pittura di Bruegel mostrògrande interesse Elizabeth Bishop, come provano i suoitaccuini di appunti e le sue note di viaggio: cfr. A.ANEDDA, La vita dei dettagli, Roma 2009, p. 80 s.6 Così B.S. MYERS, Encyclopedia of World Art, 2, NewYork 1959, p. CCCXLVI; cfr. anche I. SIMON, Hen-drick Niclaes und das Huys der Liefde, in Gedekschriftfür William Foerste, Köln 1970, p. 432 ss.7 Nel primo senso cfr. A. CECCONI, La grande famigliaBrueghel arriva a Roma, in Tafter Journal, 20 dicembre2012 (all’indirizzo Internet: www.tafter.it); nel secondocfr. G. ARPINO, in P. ALLEGRETTI, o. c., p. 7.8 Cfr. V. DENIS, Tutta la pittura di Pieter Bruegel, tr.

it., Milano 1952, p. 32; L. VILLA, I tempi di Dio, Mi-lano 1984, p. 187 s.; J. BERGER, Questione di sguardi,tr. it., Milano 2009 (rist.), p. 28 s.9 Con Charlotte Rampling, Michael York e RutgerHauer: cfr. L. PERETTI, Osservatorio_Film, in Cinemae storia, 2013, fasc. 2, sez. 21; M. F. GIBSON, The Milland the Cross: Peter Bruegel’s Way to Calvary, NorthCharleston 2012. Il film è stato proiettato il 21 febbraio2014 nella sede napoletana della Fondazione Humaniter,nell’ambito del ciclo Da Caravaggio ad Andy Warhol.10 Rinunciano, viceversa, a porsi siffatti problemi L.VILLA, o. l. c.; M. DEL BELLO, Ritratti d’autore,Roma 2009, p. 40 s.11 Parimenti, non convince l’opinione manifestata, siapure ad altro proposito, da V. CEVA GRIMALDI - M.FRANCHINI, Napoli insolita e segreta, Versailles 2014,p. 230, i quali ravvisano nel moto delle pale del mulinola simbologia dell’alternanza fra vita e morte.12 In tal senso cfr. anche T. MARCI, Prospettiva pitto-rica e costruzione giuridica, Trento 2012, p.168.13 Sul punto cfr. M. BAIGENT - R. LEIGH, L’Inquisi-zione, tr. it., Milano r. 2004, p. 174.14 Per tutti valga la pena di citare gli esempi dell’affrescoche raffigura santa Caterina d’Alessandria, nella chiesadi Pasian di Prato (Udine), e del bassorilievo che rap-presenta san Giorgio, sul portale della Pieve di Argenta(Ferrara), su cui cfr., rispettivamente, P. CASADIO - R.FABIANI, La chiesa di Santa Caterina a Pasian diPrato nella parrocchia di Basaldella: storia, indaginearcheologica e restauro, Udine 2009; S. GELICHI, Lapieve di San Giorgio in Argenta (Ferrara): relazionedella prima campagna di scavo 1982, Ravenna 1983.15 Cfr., ex plurimis, la stampa di Piero Brolis (1955),esposta nella Galleria Tadini di Lovere (Bergamo), al-l’indirizzo Internet: http://www.lombardiabeniculturali.it/stampe/schede.16 In senso opposto, il rimprovero è rivolto alle confes-sioni protestanti da F.M. GAETANI S.I., Il Protestante-simo in Italia, Roma 1950, p. 238 s.17 Cfr. pure F. RICHER-ROSSI, L’autre et ses répresen-tations au cinéma: idéologies et discours, Paris 2013, p.162; peraltro, la circostanza è ignota ai Sinottici: cfr. Mt.27, 32; Mc. 15, 21; Lc. 23, 26.18 Cfr. F. BUZZI, Introduzione a M. LUTERO, I settesalmi penitenziali (1525); Il bel Confitemini (1530), Mi-lano 1996, p. 14 ss.19 Per le quali cfr. Apocrifi del Nuovo Testamento, a c.di L. MORALDI, Torino 19913, p. 9 ss.20 Ivi, p. 11 ss.21 In proposito si v. le critiche mosse a questa forma dipredicazione da Roma o il Vangelo, tr. it., Roma-Firenze1880, p. 133 ss.22 Tema approfondito da A. DESTRO - M. PESCE, Lamorte di Gesù, Milano 2014, p. 188 ss.23 Cfr. Gv. 19, 25-27. 24 Cfr. Mt. 27, 55 s.; Mc. 15, 40 s.; Lc. 23, 49.25 Cfr. Gam. (Laha Māryām, rec. etiop.), 2, 40. 26 Cfr. supra, ntt. 6 s.

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I medici napoletani, nel 1799, scrissero unapagina molto bella d’eroismo e di sacrificio,

ora dimenticata o addirittura ignorata.Il grande storico Vincenzo Cuoco ne consacròil ricordo, nel suo Saggio, col seguente nobi-lissimo elogio:«La professione medica pare che sia statapresa di mira nella persecuzione controrivolu-zionaria. Sarà un giorno soggetto di ammira-zione per la posterità l’ardore che i nostrimedici avevano sviluppato per la buona causa.I giovani medici del grande Ospedale degl’In-curabili formavano il Battaglione Sacro dellanostra Repubblica».

* * *Nel «99», i primi ad abbracciare le idee repub-blicane furono gli studenti, e particolarmente ivalorosi studenti. e «prattici» del grande Ospe-dale degli Incurabili1. Nel 1795 essi furono presi di mira dalla poliziaborbonica, sempre vigile alla caccia dei Giaco-bini. Narra un contemporaneo, il Marinelli:«nella notte de’ 19 giugno del 1795 furono di-sarmati i giovani di tutti gli Ospedali di questaCapitale, e di parecchi Conservatori. Il Go-verno li credeva Giacobini».Dai documenti della Giunta di Stato si rilevache un Sabato di Mauro, medico degl’Incura-bili, «animava i prattici a servir la Repubblicae s’offriva a tutte le unioni e combriccole per

dispregio delle sacre persone». La Giunta locondannò alla «esportaziene dal Regno», sottopena di morte nel caso di ritorno.L’entusiasmo di questi giovani studenti eravivo, impetuoso, travolgente. Molti di essi, tral’altro, s’erano tagliati i capelli a zazzera, e linascondevano con un codino posticcio. Era divoga una curiosa canzonetta :

«Vuoi conoscere il Giacobino E tu tiralo il codino:Se la coda ti viene in mano Questo è vero Repubblicano».

* * *Nell’entrata dei francesi in Napoli, nel gennaio‘99, essi combatterono leoninamente al Largodelle Pigne, coprendosi di gloria.I1 21 gennaio essi avevano avuto la peggio,battuti sanguinosamente sul colle di SantoAniello. Narra il Druso — testimone degli av-venimenti — che «sull’altura di S. Aniello siera ridotta tutta la gioventù sfrenata della CasaSanta degl’Incurabili, e, con armi da fuoco,facea violenza alla plebe, che era disposta concannoni al Largo delle Pigne, ma troppo costòla loro baldanza, perchè la plebe venne loro in-contro dalla parte opposta di San Gaudioso, equi si vide una tragedia dolorosa, oltreché poifurono tutti saccheggiati».Ma il giorno 22 essi si presero una rivincitaspettacolosa.

NEL TERZO CINQUANTENARIO DELLA REPUBBLICA PARTENOPEA (1799-1949)L’eroismo dei medici degl’Incurabili nella rivoluzione del «99»

di Salvatore Loschiavo

Pagine vive

Ripubblichiamo qui il testo dell’articolo del fondatore e primo direttore di questo periodico,apparso nel primo numero dello stesso (gennaio 1950, p. 15 s.)

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S’era combattuto in più punti della città conesito fortunoso per le armi francesi, da PortaCapuana a Capodimonte, dal Carmine al Ca-stello dell’Ovo; ma al Largo delle Pigne il po-polo di Napoli aveva giurato di stroncare unabuona volta la strapotenza dei «liberali». Quat-tro cannoni erano situati al Borgo S. AntonioAbate formanti una terribile batteria; due, digrosso calibro, a Porta S. Gennaro , due alLargo delle Pigne, due sopra gli Studi, e due,infine, al largo di S. Antoniello, a difesa del-l’abolita Porta di Costantino-poli. «Ma — narra il cronista— i prattici degl’Incurabilifacevano fuoco sulla plebe,di sopra il torrione di S. Gio-vanni a Carbonara con alcunicannoncini di campagna, chenon si poté appurare da chigli fossero stati dati». Il lorotiro, unito a quello del fortedi Sant’Elmo, e alla sparato-ria dei loro colleghi dai log-gioni degl’Incurabili,provocò gran danno nelle filadei lazzari : ma i valorosi«prattici» vollero parteciparedi persona all’aspro combat-timento, e molti d’essi, cioèGaspare Pucci, CristoforoGrossi, Egidio Damiani, Gio-van Battista Torricelli conaltri trenta colleghi, sfidando la morte, «tuttiarmati andarono al Largo delle Pigne per farfuoco contro il popolo che resisteva alle forzenemiche». Fu tale il loro accanimento che —dicono i documenti — le sorti della battagliavolsero a favore dei francesi.Il giorno 23 i «prattici» innalzarono nel cortiledell’Ospedale l’albero della libertà al suono dimusica, ballando e gridando in lode della de-mocrazia... Brugiarono sotto l’albero i RealiRitratti, che caricarono di esecrande espres-sioni. Vestirono in forma repubblicana...». UnGiovanni Varanese, poi, pronunciò sotto l’al-bero un infocato discorso patriottico tra l’esul-tanza del popolo. Il Pucci, il Grossi e ilVaranese, al ritorno dei Borboni, furono con-

dannati alle forche.Ad alimentare in quei cuori tanto amor di pa-tria concorse per altro l'opera tenace e fervidadi illustri clinici, come un Domenico Cirillo,un Francesco Bagno, ecc. e d’un preclaro sa-cerdote: Mons. Vincenzo Troisi, morto ancorlui sulle forche.Il Bagno, nativo di Cesa (Aversa) fu medico diprim’ordine e Lettore di medicina nell’ Univer-sità di Napoli: « Egli contribuì non poco —dice un contemporaneo, il Ricciardi — a for-

mare il cuore dei bravi allievidell’Ospedale , che si sonopoi tanto distinti nella car-riera della libertà».Egli scontò sulle forche il suoattaccamento alla Repub-blica. Di lui e della sua polie-drica opera di medico e dipolitico tratterremo più diffu-samente in altro numero. Cibasti dire ora che il suo nomesarebbe restato per sempreignorato se, nel 1899, un suoconterraneo, il dott. AlfonsoDe Michele, di cui riprodu-ciamo il ritratto, non neavesse riesumata la figura at-traverso sue pazienti ricerchein archivi e biblioteche.Il De Michele, anima gentile,ebbe sempre un culto pro-

fondo per il proprio paese. Nei ritagli di tempostudiò molto la storia locale, e cercò di met-terne in risalto le glorie più fulgide.La sua iniziativa venne salutata con favorevoleeco dalla stampa del tempo. Il dott. Girone cosìne parlava sul Corriere di Napoli del 6 aprile1899: «Ad un giovane collega, modesto e va-loroso, il dott. A. De Michele, si deve la rievo-cazione delle memorie di un illustre medico, ilquale offrì la sua grande anima alla causa dellalibertà. facendo germogliare i fiori del martiriosugli albori della scienza!… A Cesa sorge oggiuna voce che trova eco fedelissima dovunque:è la voce di un giovane cuore, educato allascuola di nobili sentimenti, il quale senza cu-rare ostacoli e difficoltà va innanzi con un ves-

Dott. Alfonso De Micheleevocatore del medico e patriota

Francesco Bagno

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sillo, sotto il quale si raccoglieranno, senzadubbio, quanti sentano amore e devozione perle glorie nostre».Nel 1904 il dott. Salvatore Montuori pubblicò,poi, una vita del Bagno, e ora le ricerche suquesto gran martire del «99» proseguono conintemerato e santo amore dal colto e serio fi-gliuolo del compianto dott. De Michele, il so-lerte e simpaticissimo nostro collega FrancescoBruno De Michele, cui auguriamo le più sin-cere cordialità per la sua nobile fatica. Illu-strare la propria terra è pia carità di patria,diceva Ovidio: «Et pius est patriae facto re-ferre labor».

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1 L’Ospedale degl’Incurabili fu fondato nel primo ven-tennio del ‘500, da una nobilissima dama napoletana,Maria Lorenza Longo, poi Suora Cappuccina. Alcuniscrittori liguri ne vorrebbero fondatore, invece, un loroconterraneo, il notaio genovese, D. Ettore Vernazza,uomo piissimo, grande organizzatore d'opere caritative,in quel tempo, in varie città d’Italia. Ma, a rivendicarneil merito alla Longo, è sceso in lizza, — con positive esicure argomentazioni e larga documentazione biblio-grafica e archívistíca — un preclaro e dotto Cappuccino,il P. Candido Caraccíolo da Quindici, il quale con verointelletto d’amore, e gran preparazione scientifica, staoccupandosi, da tempo, della fondazione di questo insi-gne Nosocomio, gloria della carità napoletana nei secoli.

_________________________________Per festeggiare la nascita dell’associazione“Quei Capitani di Capo Horn”, il suo fonda-tore, ammiraglio Maurizio Scotto di San-tolo, ha organizzato, per la sera del 24luglio scorso a Procida, sul piazzale diSanta Margherita Nuova, un concerto del-l’orchestra “I suoni del Sud”, che ha datovita a un “Omaggio a Domenico Modugno”.Tra il pubblico è stata notata la presenzadel nostro past-director, dr. Antonio Ferra-

joli, e della gentile signora. Al termine, cena sociale al ristorante“La locanda del Postino”, a Marina Corricella.

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IL TEATRO S. CARLINO - TEMPIO DELLA RISATA(1740-1887)

di Alberto Del Grosso

Del Largo del Castello (attuale piazza Mu-nicipio) descritto in quasi tutti i libri che

scrivono della Napoli antica, ne parlò ancheBenedetto Croce nella monografia sui teatri diNapoli del XV-XVIII e Salvatore Di Giacomo.Il luogo raccoglieva oziosi, vagabondi e perdi-tempo, attirati dalla presenza dei venditori am-bulanti.È in questa piazza che esisteva una baracca-teatro il cui nome era “La Cantina”. Nel 1740nella stessa piazza nacque il primo teatro S.Carlino, il quale era un baraccone di fronte allachiesa di San Giacomo.In questi teatri, i cui primi impresari furono iTomeo, si avvicendarono com-pagnie girovaghe e geniali at-tori. Tra i due teatri-baracche,per diversi anni vi fu na forteconcorrenza. Poi il baraccone S.Carlino fu abbattuto e la stessasorte toccò a La Cantina. Nel1770 il teatro S. Carlino fu rico-struito ed il 17 marzo 1770 ebbe un battesimotrionfale.Il S. Carlino, che riassume i felici ricordi del“La Cantina” e della “Baracca”, fa accorrere lanobiltà, la borghesia e la plebe. La grande ressafa nascere i soliti bisticci per un buon posto.Sul palcoscenico del teatro, artisti celebrihanno lasciato storia dell’arte teatrale napole-tana.Tra questi: Salvatore Petito vi portò per laprima volta la maschera di Pulcinella cheaveva ereditato nel 1823 alla morte di FilippoCammarano. L’origine di questa maschera è in-certa come il significato del suo nome. C’è chila indica discendere da “Pulcinello” piccolo

pulcino per il suo naso adunco; chi per “Pucciod’Aniello” un villano di Acerra del 600. Il pe-riodo più popolare tra Pulcinella e Napoli, traPulcinella e il teatro, tra Pulcinella e l’attore ri-sale al 600-700.La maschera fu rappresentata e rappresenta la“plebe napoletana” oppressa dai vari potentiche si sono succeduti. Molti attori hanno im-personato il personaggio Pulcinella. L’ultimoerede della maschera fu Salvatore De Muto cheesordì nel 1892 in un teatrino “dell’opera deipupi”. Egli ne fu un bravo interprete ma nonebbe una facile vita professionale. Nel 1950diede l’addio al suo ruolo al Teatro Politeama

e successivamente al NuovoTeatro San Ferdinando, donò lasua maschera a Eduardo De Fi-lippo.Nel 1850, morto SalvatoreTomeo, proprietario del S. Car-lino ed essendone stata dichia-rata la indivisibilità tra gli eredi,

fu messo in vendita e valutato 17.984 ducati ed80 grane (circa 70,000 lire). Esso fu aggiudi-cato ai coniugi Raffaele Mormone e DonnaMariantonia Tomeo (figlia di Salvatore Tomeo)per la somma di 15.000 ducati.Il 12 Aprile 1852, Salvatore Petito, dopo quasi30 anni di onorato pulcinellismo, passò la ma-schera al figlio Antonio Petito che era nato il22 giugno 1822. Il padre gli aveva insegnato ilballo, suo fratello la mimica. Antonio cheaveva già avuto varie esperienze teatrali, di-venne Pulcinella dopo il 1841 a Salerno nellacompagnia Martini, ma al teatro S. Carlino ciarrivò solo nel 1852 quando prese la mascheradel padre. Egli fu considerato il re dei Pulci-

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nella ed oltre ad essere ricordato come il piùgrande interprete della maschera, benché quasianalfabeta, resta noto anche come commedio-grafo. Tra le sue più belle opere: Palummellazompa e vola, Ciccuzza, Francesca da Riminied altre. Nella memorabile serata del passaggiodella maschera, la piccola orchestra del teatroeseguì un tenero preparativo musicale al com-movente avvenimento. Poi dalla prima quintaa destra sbucò Salvatore Petito vestito del suosolito costume con la maschera sul volto. Dallaquinta a sinistra uscì Antonio Petito anch’eglivestito da Pulcinella ma a viso scoperto. DonSalvatore, con voce tremante, rivolgendosi alpubblico che aspettava in silenzio disse: «Il vo-stro servitore devotissimo s’è fatto vecchio, habisogno di riposo e voi non glielo vorrete ne-gare dopo trenta anni durante i quali vi ha ser-vito. Da questa sera egli smette la maschera diPulcinella, la consegna al figlio Antonio, cheha l’onore di presentare al rispettabile pubblicoed alla inclita guarnigione». Poi si tolse la ma-schera e la pose sul volto di Antonio, gli misesul capo il coppolone e con le lacrime agliocchi augurò al figlio: «Pe cient’anne». Il pub-blico commosso applaudì ed iniziò la comme-dia intitolata S’è stutata la cannela.Tra gli interpreti che recitarono con lui c’eranoSalvatore Petito (che morì nel 1866) e PasqualeAltavilla, attore e commediografo. Il S. Carlinoproseguì nel suo successo di attori e di foltopubblico per molti anni.La sera del 26 marzo 1876 nel teatro c’era unfolto pubblico, si recitava La dama bianca, ilcast era di nove attori più il Petito.I primi due atti furono un gran successo. Iniziòil terzo atto ma Petito si mostrava svogliato edistratto; le sue battute mancavano di vivacità,sembrava stanco. Quando si accorse che il suomodo di recitare meravigliava il pubblico, bre-vemente tornò l’attore comico di prima, ma nelfinale del terzo atto mutò in tragico il suo in-tervento buffonesco. Dopo l’ultima battutacadde il sipario ed egli liberatosi della ma-schera e del coppolone, si andò a sedere nelcorridoio vicino al suo camerino, gli tremava

la mano ed aveva il viso contratto, la Tedesco,un’attrice, credeva che scherzasse ma si ac-corse che era stato colpito da apoplessia. Petitorotolò a terra dalla sedia e spirò senza parola(aveva 54 anni). L’attore fu adagiato su un ma-terasso e portato sul palcoscenico. Il sipario silevò lentamente sull’ultimo atto di Antonio Pe-tito! Il pubblico urlava e singhiozzava. Il piùgrande interprete di Pulcinella era morto sulpalcoscenico dove aveva raccolto i suoi allori..Ad Antonio Petito successe Giuseppe De Mar-tino, che esordì il 30 marzo 1876. Egli fu ac-colto con grandi applausi dal pubblico, ma pursomigliandogli molto fisicamente, nella vocee nei movimenti, ebbe un successo di breve du-rata forse perché modificò il personaggio dellamaschera o perché arrivò al S. Carlino EduardoScarpetta. A causa della morte di diversi per-sonaggi legati a questo teatro, esso subì chiu-sure che duravano mesi.Siamo al 1880, il teatro aveva chiuso le porteda tempo quando nel mese di Agosto i giornaliannunciavano la riapertura per l’1 settembrecon la commedia Il Cavaliere Don Felice Scio-sciammocca direttore d’una compagnia co-mica, attore principale Eduardo Scarpetta. Aquesta seguì una lunga serie di commedie scar-pettiane che ebbero gran successo.Scarpetta continuò da solo la gestione del tea-tro e dal marzo 1881 fino al maggio 1884 gua-dagnò circa 300.000 lire. Frattanto la vecchiapiazza del Castello aveva assunto il nome diPiazza Municipio, si costruivano nuovi palazzi,lo sterrato veniva pavimentato e veniva apertauna larga strada alla Marina. Le antiche costru-zioni furono espropriate e destinate all’abbat-timento, tra queste il teatro S. Carlino.Il piccone iniziò la demolizione il 6 maggio1884 e dopo qualche mese, al posto del teatronon restava che un cumulo di pietre, testimonidella pregressa storia artistica passata attra-verso il S. Carlino.A chi si chiede dove era situato il teatro S. Car-lino, informo che era all’angolo di piazza Mu-nicipio e più precisamente, dove attualmentetrovasi la Banca d’Italia.

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1848: STRAGE A PALAZZO CIRELLA

di Antonio La Gala

Chi passa davanti palazzo Cirella, uno deifabbricati che si trovano in via Toledo, fra

la Galleria Umberto I e piazza san Ferdinando,segnato dal civico 228, può notare una targa tu-ristica che recita: «legato ai Moti Rivoluzionaridel 1848».In effetti nei moti del 1848 quel palazzo fu alcentro di fatti d’arme che qui vogliamo breve-mente raccontare.Nel 1848 si diffusero intutta Europa moti rivolu-zionari libertari. In Italiaessi si rivolsero in partico-lare contro l’occupazioneaustriaca del Lombardo-Veneto. Sotto la pressionedell’opinione pubblica ivari stati della penisola,compreso quello napole-tano dei Ferdinando II,dovettero inviare truppein aiuto del regno pie-montese di Carlo Alberto.Lo sfilarsi di Pio IX daquesta coalizione italianaa sostegno di Carlo Al-berto determinò un riflusso controrivoluziona-rio dei governanti dei singoli stati. A Napoli la riluttanza di Ferdinando a conce-dere una costituzione provocò in città diffusiepisodi di guerriglia urbana. A metà maggio ilre operò un cruento colpo di stato e sciolse ilparlamento appena eletto e non ancora riuni-tosi.Fra gli episodi d’arme che occorsero nel con-trasto fra il popolo e il re Borbone è interes-sante la vicenda che ebbe come scenario iltratto di Toledo compreso fra Santa Brigida epiazza San Ferdinando e che ebbe come prota-

gonista palazzo Cirella. Questo palazzo risale alla fine del Settecento etrae il suo nome dalla famiglia napoletana Ca-talano Gonzaga che ne era proprietaria, insi-gnita del titolo nobiliare di Duchi di Cirella.Il cortile ha un fondale di ispirazione vanvitel-liana e vi spiccano una nicchia che contieneuna scultura di stile tardo-manierista ed un in-

teressante scalone.Il tratto di Toledo sopraspecificato era il frontestrada di un’area – viaVerdi, San Ferdinando,Toledo, S. Brigida – cheall’epoca aveva una con-figurazione radicalmentediversa da quella attuale.Infatti essa non era ancoraoccupata dalla GalleriaUmberto I, sorta qua-rant’anni dopo, ma era co-stituita da un addensato dipalazzi fatiscenti e in pes-sime condizioni igieniche,molto alti, in stradinestrette, tortuose, un’area

dove si affollavano più di 6.500 persone, poibonificata grazie al benemerito piccone risana-tore degli anni Ottanta di quel secolo.Torniamo al 1848. La sollevazione popolareoccupò con barricate più punti di Toledo.Nella zona sopra descritta le barricate sorserofra Toledo e piazza San Ferdinando, quindi da-vanti al palazzo Cirella, e in via S. Brigida, fraToledo e la chiesa nel cui convento si asserra-gliarono molte Guardie Nazionali. Le Guardie Nazionali costituivano il corpo ar-mato della rivoluzione, contrapposti alle mili-zie regolari borboniche, aiutate da soldati

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svizzeri.Le barricate napoletane erano sorte durante lanotte fra il 14 e 15 maggio, mentre nei palazzigovernativi si discuteva su aspetti proceduraliriguardanti l’operatività dei ministri nella cir-costanza.Durante tutta quella notte, con l’illuminazionepubblica spenta, in maniera furtiva molta gentesi dava da fare, alla luce di lanterne, per am-massare materassi legname, pietre ed altraroba, come ad esempio il banco di un acqua-frescaio.La mattina del giorno dopo, attorno alle 11 emezza, dalla barricata davanti a palazzo Ci-rella, dalla parte di via Nardones, venne sparatauna prima fucilata che uccise due soldati bor-bonici. Le truppe regolari dislocate nella piazzasi allertarono e chiesero rinforzi. Iniziò unfuoco incrociato fra soldati e rivoltosi dellabarricata, coadiuvati da cittadini appostati neibalconi circostanti. Dopo l’uccisione di un loro capitano, gli Sviz-zeri che aiutavano i borbonici, sotto la coper-tura del fuoco amico si scagliarono contro labarricata e i loro “zappatori” la demolirono acolpi d’ascia.Superata la barricata, sfondarono il portone dipalazzo Cirella, salirono per le scale, urlandoe sparando, uccidendo non solo Guardie Na-zionali ma chiunque veniva a taglio. Alcuni ci-vili, terrorizzati, mostravano le mani invitandoi soldati ad annusarle per accertarsi che nonodoravano di polvere da sparo, ma inutilmenteperché venivano tutti uccisi in maniera spiccia.Palazzo Cirella era abitato all'epoca dal pro-prietario duca Pasquale Catalano Gonzaga edai figli, ferventi liberali, e da molti artisti delSan Carlo, che si trovarono tutti coinvolti inquei fatti.Occupato il palazzo dai balconi di palazzo Ci-

rella furono poi i borbonici e gli Svizzeri a spa-rare, stavolta contro i balconi dei palazzi cir-costanti. Toledo divenne la scena di uno spettacolo san-guinoso e raccapricciante. Furono sfondate altre porte di altre case in cuipenetrarono alcuni popolani di S. Lucia, armatidi mazze e anche di remi, che seguivano letruppe borboniche, per saccheggiare selvaggia-mente dove riuscivano ad entrare.La barricata fra Toledo e S. Brigida venne at-taccata dalla parte della chiesa da Svizzeri cheprovenivano da piazza Castello (piazza Muni-cipio).Anche qui stessa scena vista attorno a palazzoCirella: fuoco incrociato, anche con colpi d’ar-tiglieria, “zappatori” che a colpi d’ascia sfon-dano la barricata e le porte di palazzi. I soldatiavanzavano in due colonne lungo i muri. En-trarono anche nel complesso religioso cheospitava Guardie Nazionali e fecero fuori tuttiquelli che incontravano salendo le scale delcampanile.Non venne risparmiato nessuno. In una casavenne ammazzata la figlia tredicenne del mar-chese di Vasaturo. Furono sterminate tutte lepersone incontrate nella casa del notaio Ca-cace.Anche qui i soldati erano seguiti dal selvaggiosaccheggio per mano dei popolani di S. Lucia. Procedendo verso Toledo, i soldati si unironoai commilitoni che provenivano da palazzo Ci-rella.Con il passare delle ore si ricongiunsero fra diloro tutti i gruppi di borbonici e Svizzeri, re-duci dallo smantellamento delle altre barricatedi Toledo, fra cui quelle di piazza Dante e dellargo della Carità, dove erano avvenute lestesse scene che abbiamo raccontato per pa-lazzo Cirella.

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È morto a Roma, l’8 settembre scorso, ROMOLO RUNCINI, sociologo dellaletteratura, già docente nelle Università “L’Orientale” di Napoli e “La Sa-pienza” di Roma, autore di numerosi saggi sulla letteratura del fantastico.Runcini, ch’era nato a Potenza nel 1925, in passato collaborò anche a questatestata, durante il suo decennale soggiorno a Procida. Alla gentile signoraGiuliana e ai figli vadano le più vive condoglianze del direttore e della reda-zione di questo periodico.

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LE FUNICOLARIdi Mimmo Piscopo

La celeberrima Funiculì funiculà (Turco-Denza, 1880), ha elevato universalmente

questo innovativo mezzo di trasporto a simbolodi romantico procedere, che tra la finedell’‘800 ed il ‘900 significava frenetica setedi futuristica evoluzione tecnica. La competizione del progresso implicava moltisettori della società, e la fantasia per l’ecletti-smo non risparmiava alcuna attività, speciequando, in particolare, l’architettura del tempoesprimeva a pieno la sua vena ardita attraversoopere rivoluzionarie, come quelle di Eiffel, La-mont-Young, Avena, Gaudì. Il termine “funicolare” indica un impianto ditrasporto, la cui trazione è realizzata mediantefuni metalliche (come anche funivie, seggio-vie, teleferiche); in termini tecnici: forzeesterne che agiscono meccanicamente con e sufuni. Impiegato in diversi luoghi del globo, dal SudAmerica alla Svizzera e al Sud Africa, in Italia,data la sua impervia orografia, questo tipo dilocomozione si offre egregiamente nel supe-rare valli, colline e declivi per trasporto di ma-teriali e passeggeri.Napoli ha una caratteristica unica; la funicolaredel Vesuvio, la cui discontinuità di servizio èdovuta ad eventi bellici e vulcanici, è divenutanoto simbolo partenopeo insieme alle sue quat-tro funicolari metropolitane. Quando la collina del Vomero veniva raggiuntaattraverso le sue storiche arrampicate delle pe-damentine (Petraio, S.Martino, Cacciottoli,S.Francesco) e le impervie carrabili e mulat-tiere, alcuni lungimiranti imprenditori – stra-nieri! – progettarono questo rivoluzionariomezzo di trasporto, per dare respiro alla sotto-stante città asfittica e malsana per sovrappopo-

lazione di quartieri fatiscenti. Ed ecco le funicolari. In ordine di tempo, laprima, del 1889, fu la funicolare di Chiaia, ilcui tracciato comprendeva due linee di corsaparallele, separate. Una folta équipe di qualifi-cati ingegneri, architetti e geologi, diede l’av-vio ad altri progetti consimili, la cui attuazionepratica, tuttavia, comportò grosse difficoltà didiversa natura, quali crolli, infiltrazioni, cedi-menti e scoperte archeologiche, come è recen-temente avvenuto anche con gli scavi dellametropolitana collinare. Essa collega via Cimarosa, accanto all’entratasuperiore di Villa Lucia (la “Piccola Flori-diana”), con le stazioni intermedie di Palazzolo(via Palizzi), del corso Vittorio Emanuele(Parco Grifeo), per raggiungere la stazione in-feriore di Piazza Amedeo. Si è tentati di descriverne le caratteristiche, chemeriterebbero vasto capitolo a parte; tuttavia èd’obbligo, anche per mera curiosità, citare al-cuni dati, proprio per esaudire eventuali legit-time richieste informative, iniziando dallafunicolare di Chiaia, per ordine cronologico.La stazione superiore motrice, situata al vico-letto Cimarosa, era dotata di sale di aspetto, lo-cali di servizio, officina, sala manovra e cabinadi regia, al suo nascere era azionata da mac-chine a vapore e oggi da moderni apparaticomputerizzati di controllo che agiscono sul-l’argano principale che, come tutti gli apparatidi trazione e di sicurezza, ha complementari diriserva assolutamente simili. Sulla circonferenza dell’argano, in appositegole, è avvolta a forma di 8, su contropuleggia,la fune traente di acciaio speciale (mm. 40), co-mandata da un albero motore a ruota dentatache, a mezzo di riduttore di velocità, con tachi-

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metri tarati di sicurezza, è collegata al motoreelettrico a 220 V.c.c./750 CV, con motore Die-sel di riserva da 670 CV. La peculiare caratteristica della trazione a funeavviene per regole fisico-meccaniche di forze-parallelogrammi radiali. Un percorso lineare non presta particolari dif-ficoltà d’attrito della fune traente poggiata surulli dritti rotanti posti a coppie al centro dellacarreggiata binari, mentre, qualora lo stessopercorso presenti, alternato a tratti dritti, unsusseguirsi di curve e controcurve, abbisognadi apposita guida costituita da alloggi in goledei rulli inclinati sistemati in pozzetti su pre-cise quote metriche, la cui inclinazione, ri-spetto al piano, fa da guida e da alloggio allafune stessa.Come per tutti gli impianti a fune, per ragionidi sicurezza, di adeguamento tecnico e dinorme ministeriali, si procede periodicamentea fermi di esercizio per controllo e manuten-zione che, anche se necessariamente utili, com-portano comprensibili malumori d’utenza;inoltre, per legge, si effettuano verifiche eprove giornaliere sulla linea e sulle vetture,fino a quelle più laboriose ed approfondite pra-ticate con prove settimanali, mensili ed an-nuali. La linea di corsa inclinata è di m. 497,721 conpendenza del 29,81% ad unica carreggiata conscambio centrale. Ogni treno è composto da due vetture dal pesodi 21 tonn. ognuna, che hanno due carrelli-ruote con bilancieri e freni di emergenza, mec-canici ed elettropneumatici, dove ilconducente, qualora lo ritenga opportuno, in-terviene, agendo anche per eventuale anomaliatecnica, accidentale o meccanica (rottura com-ponente fune, eccesso di velocità, sbullona-mento, ecc.) La sicurezza interviene altresì sul sistema fre-nante, sia in sala macchine, con comando elet-troidraulico a disco, che sulle vetture stesse,dove è calettata la fune traente, le cui due estre-mità sono alloggiate in un tamburello porta-fune orizzontale opportunamente tarato. Il 1891 segnò l’inaugurazione della funicolaredi Montesanto, la cui costruzione iniziò nel

1887. Il percorso è di m. 868,30 con pendenzadel 23%. Alterne vicende interessarono la linea ad unicobinario con scambio, poiché la doppia colloca-zione comportava insormontabili ostacoli dinatura edilizia nel rasentare il massiccio mura-glione dell’Ospedale militare. La stazione superiore di via Morghen ha lestesse caratteristiche tecniche di quella diChiaia; una fermata, che offrirebbe un comodopassaggio sottostante viale Raffaello-Santa-croce, per raggiungere celermente il complessodi S. Martino, per varie opposizioni legali e bu-rocratiche, a tutt’oggi è impedita. Il percorso èalternato tra gallerie e tratti panoramici. Altra stazione intermedia è al corso VittorioEmanuele, all’altezza proprio dell’Ospedalemilitare (ora adibito a parco pubblico), mentrequella terminale inferiore è in piazza Monte-santo, nel cuore della popolosa città, dov’eral’antica Porta Medina, ed è collegata agevol-mente alla stazione di testa della ferrovia Cu-mana (1884) che serve la zona dei CampiFlegrei (Napoli-Torregaveta). Tranne trascurabili ed ovvie modifiche, l’im-pianto di Montesanto è simile a quello diChiaia e ha subito nel corso del tempo vari in-terventi dalla subentrata amministrazione mu-nicipale dell’ATAN negli anni 70, quando erain concessione alla Società Ferrovie del Vo-mero (1898), ed ancora prima (1889) allaBanca Tiberina. Problemi di ordine burocratico, legale ed am-ministrativo hanno condizionato questi im-pianti ritenuti, a ragione, di vitale importanzaper la vita cittadina, per cui alcune controversiehanno spesso alterato il normale svolgimentodel servizio. Si tenga presente, inoltre, che dalla loro costi-tuzione ad oggi, fattori contingenti, di originesia naturale, quali terremoti e dissesti idrogeo-logici, che umana, hanno alterato l’aspetto de-gl’impianti fissi, dell’edilizia, della linea dipercorrenza, delle strutture portanti, dei mac-chinari e delle vetture stesse. L’inaugurazione della funicolare Centrale, de-finita la “Terza Funicolare”, avvenne il 28 ot-tobre 1928. La realizzazione fu sollecitata da

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pressanti esigenze dei pendolari che dalla col-lina residenziale, a tutt’oggi, sono impiegatipresso numerosi uffici privati e pubblici dellacittà, ivi compresa la nutrita compagine di pro-fessionisti. Il Comune ne offrì la gestione alla SocietàAnonima Funicolare Centrale (SAFUCE), chenel 1926 affidò la realizzazione tecnica alla mi-lanese Ceretti &Tanfani e le opere civili all’im-presa dell’ing. Zeni. Il percorso della linea si presentò abbastanzacomplesso per le sovrastanti strutture antichee storiche, come la cavea delle monache diSuor Orsola Benincasa, oggiadibita ad Istituto Universita-rio, le cave di S. Nicola daTolentino, pozzi ed anfrattinaturali e il complesso deiQuartieri Spagnoli, che com-portò nella parte terminale,verso via Toledo, la costru-zione del primo tunnel ita-liano in cemento armato di230 m. per sopportare i so-prastanti palazzi, chiese, con-venti, fogne e pozzi colmi diresti delle vittime di fre-quenti epidemie. La galleria è lunga 1290 m.con pendenza massima del15%, parte dal Vomero inpiazza Fuga, raggiunge il Pe-traio – unico tratto scopertoin parte –, quindi per l’ampio scambio dai tu-facei camminamenti, che hanno funzionatoanche da ricovero durante l’ultima guerra, sigiunge alla stazione di corso Vittorio Emanuele(altezza Cariati) e ci si immette nel già de-scritto “tubo di cemento”, per arrivare alla sta-zione terminale inferiore di via Toledo. Lavelocità di corsa è stata unificata in 7 m./sec. Le vetture originarie erano di un caratteristicocolore rosso, sciaguratamente sostituite daaltre, la cui linea moderna fu richiesta dai re-sponsabili ed a malincuore disegnata da chiscrive, per esigenze d’immagine moderna, erealizzata dalla CWA, ditta svizzera specializ-zata in impianti a fune.

Quale simbolo della passata gestione, daquando nell’ottobre 1975 essa passò all’ATAN,è in patetica visione una vecchia vettura nel de-posito laterale nella stazione Vomero. In origine le vetture erano divise in scompartidi prima classe con sedili di velluto e di se-conda con quelli di legno pregiato, con baga-gliai per merci modeste, carrozzine ed altro,che per la funicolare di Chiaia avevano la fun-zione di ospitare perfino animali da soma oprodotti ittici appena pescati alla vicina Rivieradi Chiaia1.Intorno alle sue quattro stazioni, la funicolare

Centrale edificò imponentistrutture edili che affidò inparte alla SACIAV, in com-proprietà, al Vomero, al Pe-traio, al corso VittorioEmanuele e a via Roma,sulla rinnovata piazzetta,dove il cine-teatro Augusteofu progettato all’architettoPierluigi Nervi. La sala macchine, postasotto il livello stradale (7 m.)in piazza Fuga, sin dalla suacreazione costituì tecnica av-veniristica per il sistemaWard-Leonard. Un trasformatore A.T.9000/500 V. alimenta un mo-tore asincrono trifase, chedal gruppo convertitore con-

duce a 220 V. c.c. il motore di trazione calettatosu asse a pignone, sull’argano, le cui gole ospi-tano la fune traente di acciaio speciale (diame-tro mm. 42) collegata alla testa dei due treni. Per eventuali interruzioni esterne di C.A. inter-viene la batteria stazionaria di 2050 Ah/220c.c., già collegata in parallelo per aiuti di ca-rico. Vari sistemi di frenaggio danno massima ga-ranzia alla sicurezza di macchine, vetture eviaggiatori. Data la vastità dell’argomento, opportuni ap-profondimenti tecnici, non sono possibili inquesta sede, e per notizie più dettagliate, si rin-via ad esaurienti testi di preziosa professiona-

Mimmo Piscopo, Funicolare Centraleal Petraio (coll. priv.)

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lità2. La funicolare di Posillipo, la “Quarta Funico-lare” (presidente Ernesto Lancillotti), gestitadalla SPEME (Società Partenopea di EdiliziaModerna ed Economica), fu inaugurata il 24Maggio 1931, passata anch’essa all’ATANnegli anni 90; il suo percorso di m. 580 è perbuona parte all’aperto, la sua pendenza mas-sima è del 46,57%, la stazione superiore è invia Manzoni con la sottostazione di comandoche, come tutto il complesso, linea, treni e ser-vizi, è aggiornata ai canoni della tecnica mo-derna. Le stazioni intermedie sono Parco Angelina eS. Antonio, la terminale inferiore, dalla carat-teristica struttura architettonica liberty, è inpiazza Mergellina. Poiché l’isola di Capri rappresenta una parti-colare realtà, da sempre luogo d’élite, privile-giata dalla nota schiera di personaggi dalleabitudini trasgressive, abbisognava tuttavia an-ch’essa di un moderno e comodo mezzo di tra-sporto che invadesse pacificamente il suodorato isolamento. Fu quindi inaugurata la fu-nicolare di Capri il 7 dicembre 1907. La stazione inferiore di Marina Grande, dalpercorso di 670 m., con dislivello di 140 m.,arriva a piazza Umberto I, con caratteristichevetture dagli originali parasole, mentre il 1° ot-tobre 1951, sempre nell’ambito del trasporto afune, fu costruita la seggiovia, che parte daAnacapri e arriva sul monte Solaro, superandoun dislivello di m. 300. Abbiamo descritto le funicolari dell’ambitometropolitano, ma si vuole ricordare anche, nelcontesto regionale, la funicolare di Montever-gine in Irpinia, che, oltre a dati storici-informa-tivi, offre anche spunti di colorito costumefolkloristico. La stazione motrice si trova nella piazza diMontevergine, situata alla sommità del massic-cio calcareo del Partenio, che ospita il monu-mentale complesso benedettino del famosoSantuario fondato da san Guglielmo di Vercellinel 1118, meta di grande flusso devozionale sin

dai secoli passati, quando i fedeli, per voto eper tradizione, percorrevano a piedi l’erta delmiglio sacro, partendo da Mercogliano, doveora è la stazione inferiore. Una antica consuetudine voleva le celebrazionireligiose per offrire occasioni di culto e di di-vertimento a coloro che si recavano, in un par-ticolare periodo dell’anno, a rendere omaggioalla “Madonna nera”, dipinto medioevale dallefattezze orientali. Prima delle comodità motorizzate, ci si inge-gnava alla meglio per recarsi alla sommità delPartenio: a dorso di animali da soma, su calessie birocci, ma la caratteristica di questa ker-messe era costituita da una autentica parata difolklore regionale, prendendo a riferimento lacaratteristica partenopea della Piedigrotta, conle sue storiche sfilate di carri e costumi. Carrozze scoperte, sciaraballi (char à banc),venivano addobbati con quanto di più incredi-bile poteva immaginare la fantasia popolare.Pennacchi, sonagli, pavesi, fiocchi, bandiere,trofei, piumaggi, collocati con maestria da ar-diti cocchieri che incitavano i poveri schiu-manti destrieri pavesati a procedereall’arrampicata, in sorta di corsa e di gara, lecui urla venivano mescolate dalle esaltazioninon proprio accademiche delle ingioiellate po-polane (zi’ maéste), viaggiatrici con i rispettivicompari, vestiti in grande pompa. Assolti i riti pagano-religiosi, le trattorie deidintorni venivano prese d’assalto per i previsticerimoniali bacchici, dove le generose liba-gioni spesso si concludevano in manieracruenta, nient’affatto consona al luogo di pace,con “dichiaramenti” e sfide, spesso in terminitragici, che riportavano i protagonisti ad incon-trarsi alle prossime calende.

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1 M. PISCOPO, Vomero e dintorni, Napoli 2000; ID., Ilmio Vomero, Napoli 20145. 2 A. LA GALA, Il Vomero e l’Arenella, Napoli 2002;ID., L’antica funicolare di Chiaia al Vomero, Napoli2004; ID., Quando Napoli andava in tram, Napoli 2011.

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IL MILITE IGNOTOdi Raffaele Pisani

Lo scrittore Raffaele Pisani, che ama autodefinirsi “napoletano a Catania”, sta per dare allestampe un volumetto celebrativo del centenario della “Grande guerra”, destinato ai ragazzidelle scuole italiane. Gli siamo grati di averci autorizzati a pubblicare qui di seguito il capitolodedicato al “Milite ignoto”.

* * *

Nel 1921 – come mi raccontava E.A. Marioe come Bruna Catalano Gaeta ha fedel-

mente ricordato nel suo libro E.A. Mario, leg-genda e storia1 – «fu stabilito dal Governoitaliano che la salma non identificata di un ca-duto in combattimento durante l’ultima guerraavesse una degna sepol-tura nell’Altare della Pa-tria in Roma, comesimbolo rappresentativodi tutti coloro che sacri-ficarono la loro vita perla Patria e che la morterese irriconoscibili muc-chi di ossa senza pia-strino. Dalle disposizioniimpartite al riguardo erascritto: «Il treno specialeche dovrà trasportare aRoma il “Milite ignoto” partirà da Aquileia alleore 8 la mattina del 1 novembre e fermerà atutte le stazioni. Vietati i discorsi. Sarà osser-vato un religioso silenzio. Ove intervenisseromusiche, queste non potranno suonare che LaLeggenda del Piave al momento della partenzadel convoglio». Non era un treno quello cheavanzava lentamente, ma il carro della gloria,ricoperto di fiori, che si fermava a tutte le sta-zioni ove l’intera popolazione attendeva in si-lenzio… e se non c’era la banda che suonavac’erano i contadini o i bambini delle scuole chela cantavano sommessamente. Lungo il per-

corso, giungeva dai campanili vicini e lontaniil suono delle campane a gloria mentre, oltreche nelle stazioni, dai casolari sparsi qua e là,sventolava il tricolore. Il treno giunse a Porto-naccio – una stazioncina romana – alle 21,45del giorno 3, illuminato da un poderoso faro.

Quando il macchinistaebbe dato l’ultimo colpodi freno al convoglio,s’udì – nel clima rare-fatto di quella cerimonia- mentre dal cielo cadevauna lenta pioggia - laLeggenda del Piave ri-suonare sottovoce comeda una soprannaturalelontananza; la gente sottola tettoia piena di ban-diere, si buttò in ginoc-

chio: avevano tutti gli occhi pieni di lacrime. La mattina seguente, sull’Altare della Patria,presenti il Re e tutte le Autorità, oltre alla follache si pigiava nella grande Piazza Venezia, almomento della tumulazione del Soldatoignoto, la Banda dei Carabinieri intonò solen-nemente La leggenda del Piave. Il Re – mentre stava salendo la grande scalinatadel monumento – ascoltando quella musica, sirivolse al Capo di Stato Maggiore che gli si af-fiancava in quel momento e gli domandò: «Dichi è quest’Aria?» Passò più di un quarto d’oraper dare una risposta al Sovrano, perché tutti

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conoscevano quella canzone ma non sapevanochi l’avesse scritta. Finalmente Vito Saracista,capo del personale delle Poste, si avvicinò alMinistro Giuffrida e gli mormorò qualcosa sot-tovoce. Giuffrida riuscì ad arrivare al fiancodi Vittorio Emanuele III e – con soddisfazione,perché si trattava di persona del Ministero cheegli rappresentava – disse: «Maestà, questamusica è di un nostro impiegato!» Il Re, di ri-mando: «Vorrei conoscerlo». In un attimo fudiramato una specie di ordine lampo: trovareGiovanni Gaeta. In quellostesso momento l’Autore dellaLeggenda del Piave stavaudendo la sua musica dal Vi-colo Doria poco distante daPiazza Venezia, dove si era ri-fugiato perché afflitto da unafastidiosa eruzione cutanea alviso che gli impediva di ra-dersi, per cui evitava di stare inmezzo alla gente. Intanto a Na-poli le ricerche divennero feb-brili. L’allora Direttore dellePoste napoletane Vincenzo Fotimise a soqquadro tutto il perso-nale. Vi erano tra gli impiegatidue che avevano lo stesso co-gnome, uno di nome Tommaso,l’altro Giovanni. Chi era il veroautore di quella canzone? Igno-ranza burocratica o meschino sentimento d’in-vidia? E i giorni passavano, mentre il Ministrodelle Poste pressava. Poi, finalmente, si accertòl’identità. Il 25 novembre di quello stesso annoE.A. Mario veniva ricevuto dal Re. La conver-sazione fu lunga e cordiale. Alle scuse rivolteda Mario al Sovrano per il ritardo involontariodella sua visita al Palazzo, il Re scherzosa-mente rispose: «Non si dia pena: si vede chequelle persone sono attaccate soltanto al bolloed alla ceralacca…» Il colloquio, avviato versola tradizione della canzone napoletana, ne evi-denziò le origini leggendarie e storiche, comepolla generatrice di arte e di sentimento del-l’espressione più genuina del suo popolo; E.A.Mario riassunse i diversi momenti della suacreatività che, da sentimentale, quasi inavver-

titamente doveva assurgere – nei momenti piùgravi del Paese – ad un carattere più alto, purrestando popolare nell’ispirazione, per ascen-dere come simbolo, fin sui gradini dell’Altaredella Patria. E, a questo punto del dialogo, tra-scriviamo ciò che l’Agenzia Stefani annotò:«Ma io, soggiunse il Maestro (E.A. Mario)smorzando con la voce con il gesto le ultimeparole – quasi temendo che potessero sembrareimmodeste – non rappresento che la canzonedi Napoli, non sono che un’espressione del

sentimento popolare: non hofatto altro che trascrivere –come un medium – fermandolain note musicali – l’onda fer-vida di un sentimento palpi-tante nell’aria».Il Re, motu proprio, gli conferìl’onorificenza di Commenda-tore della Corona d’Italia. Il lettore di queste pagine bio-grafiche – è sempre BrunaGaeta Catalano che lo scrive –a questo punto potrebbe pen-sare che E.A. Mario, oramai al-l’apice della gloria, avesseraggiunto una ben meritataagiatezza: e invece no, perchéla sua notorietà gli costò innan-zitutto il licenziamento dallePoste “per scarso rendimento”,

e La leggenda del Piave, eseguita prima daicantanti e poi dalle bande militari e municipali,non veniva mai trascritta sui bollettini dellaS.I.A.E. (Società Italiana Autori e Editori) per-ché considerata “Inno nazionale”. Per inno na-zionale si intende una composizione di cui loStato diventa proprietario previo un lauto com-penso o un vitalizio offerto all’Autore – ilquale – dietro questa forma unica di paga-mento, non può più accampare altri diritti eco-nomici. Ma La leggenda del Piave non fu mai dichia-rata inno nazionale, né E.A. Mario ebbe alcuncompenso dallo Stato, punto e basta. Di qui laannosa, lunghissima, ultraventennale causa conla Società Autori che, con abili avvocati ed in-numerevoli cavilli ingannevoli, protraeva i ter-

Autografo de La leggenda del Piave

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mini delle udienze, mentre E.A. Mario – dasolo – con limitati mezzi economici, cercavadi far prevalere la verità dei fatti, ma sempreinvano.Finalmente – dopo tanti anni – l’avvocato Fi-lippo Criscuolo Doria – con il libero patrocinio– cominciò ad interessarsi appassionatamenteal caso giudiziario, che fu risolto positivamenteanche se con un minimo margine economico.Ma quei pochi soldi che gli spettavano non glifurono dati subito, perché scoppiò la secondaguerra mondiale, dopo anni dall’amara scon-fitta, giunse una cifra “irrisoria” (anche per la

svalutazione monetaria) all’Autore che oramainon ci pensava più!La vittoria dell’Italia sull’impero Austro-Un-garico concludeva il ciclo del nostro Risorgi-mento. Quanti sacrifici, quanti atti eroici,quante giovani vite immolate affinché si rea-lizzasse il grande sogno di vedere la nostra Pa-tria finalmente libera da ogni dominazionestraniera.______________

1 B. CATALANO GAETA, E.A. Mario: leggenda e sto-ria, Napoli r. 2006, p. 55 ss.

Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare sulle nostregambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo sempre seduti sul nostroculo.

Michel Eyquem de Montaigne

La parola appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta.Friedrich Nietszche

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PROCIDA, ARTE E PACE IN TOTEM

di Franco Lista

È l’immagine più conosciuta di Procidaquella della Corricella: un arco di costa,

sicuramente il più indicativo della qualità am-bientale dell’isola, che va da punta Pizzaco apunta dei Monaci.Appare come un’orografia esemplificativa diquella bella riflessione di Cirlot che conside-rava la forma geologica quale ritmo raffreddatodella creazione. È come dire, adoperando una pregnante espres-sione di Goethe, “musica pietrificata”!L’arco di costa, comunemente chiamato Corri-cella, è in qualche modo significativo di tuttaProcida nel suo essere felice connubio tra “na-tura e cultura”. Una sorta di fotografia dellacarta d’identità dell’isola di Procida: l’imma-gine dunque di una forma compiuta in cui lacultura abitativa, fatta di archi, vèfi, passaggi,scale a giorno, terrazzi e coperture a gàveta,elementi che configurano spazi architettonicidi viva socialità, s’intreccia con la bella naturadell’isola.Un’ulteriore conferma di questa singolare ca-ratteristica la si può riscontrare nelle innume-revoli rappresentazioni fotografiche, grafiche,pittoriche, filmiche, al punto che la Corricellaè diventata una sorta di “marchio di fabbrica”di tutta l’isola.L’arco della Corricella si conclude, con mag-

giore intensità paesaggistica, nel crinale diSanta Margherita Nuova. La toponomastica in-dica questo crinale come Punta dei Monaci perla storica presenza di un complesso conven-tuale che fu prima dei Benedettini, poi dei Do-menicani.La chiesa, nella sua integrità, è la sola archi-tettura restaurata nel contesto dei pittoreschiruderi dell’antico convento che suscitano, perla loro posizione ambientale, un ruskiniano, ro-mantico apprezzamento.Ebbene, in questo felice contesto storico, geo-grafico, antropologico, in prossimità dellachiesa di Santa Margherita, è prevista la collo-cazione di un “nuovo monumento”. Infatti,l’amministrazione comunale, su proposta dellaFondazione Mediterraneo, ha deciso di instal-lare una grande scultura che in forma simbolicadovrebbe rappresentare la pace e per questo in-dicata come “Totem della pace”. Ma, occorredire, non si tratta della pace e della serenità cheinduce la visione di questo stupendo luogo cheperaltro da questa installazione ne sarebbe toc-cata nel suo antico, storico equilibrio, ma diuna pace per così dire universale, ecumenica,estesa a tutti i popoli.L’annunciata opera riproduce un modello rea-lizzato da Mario Molinari (artista scomparsoda non confondere con il nostro Rocco Moli-

La stesura del presente articolo ha preceduto la nota del 23 luglio 2014 (prot. n. 10425), conla quale la competente Autorità di Bacino Regionale per la Campania Centrale ha evidenziatoche la località nella quale era prevista l’installazione della quale ci si occupa rientra nelle areeperimetrate a rischio molto elevato di frana (R4) del PSAI e dal Piano per la difesa delle costee che, pertanto, ai sensi dell’art. 23 delle norme di attuazione del PSAI, la stessa non rientrafra quelle ammissibili nelle aree a rischio. Lo pubblichiamo ugualmente, perché i suoi contenutiinvestono argomenti di carattere ambientalistico e si spingono al di là del progetto specifico,relativamente al quale l’intenzione di realizzarlo è tuttora viva in seno all’Amministrazione co-munale.

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nari, artista napoletano tuttora operante) e giàreplicato più volte, con la considerevole altezzadi 12 metri, al di fuori della base, realizzato incemento vivacemente colorato e tale da costi-tuire un elemento fortemente segnaletico.In buona sostanza, trattandosi di un cosiddettomultiplo, cioè di un’opera che può essere ri-prodotta più volte, viene a perdersi quella ben-jaminiana “aura” che contraddistingue l’unicità

dell’opera d’arte, acquisendo per converso lecaratteristiche di un prodotto seriale, sia purecon qualche adattamento non previsto dall’au-tore.L’opera, più volte replicata con qualche va-riante, è stata sistemata in diverse città del Me-diterraneo con successo partecipativo e variecerimonie alla presenza di alte autorità.Emergono, anzitutto, non lievi dubbi sull’effi-cacia simbolica del totem dedicato alla pace inconsiderazione di come la simbologia sia ilprodotto di una storica codificazione, per cui,per fare un solo esempio, risulta immediata-mente riconoscibile la picassiana colomba col

ramoscello d’ulivo nel becco quale simbolodella pace. Diversamente e in modo criptico sipresenta l’opera proposta che, priva di caratte-ristiche connotative e denotative, come accadeper la gran parte dell’arte contemporanea, conla sua alta forma, acutamente triangolare ederetta su due semicerchi di diverso colore, sipresta alle più svariate interpretazioni; non ul-tima quella fallica così come è stata percepita,

con maliziosa immediatezza, dal pubblico in-vitato e presente alla seduta del Consiglio co-munale di Procida del 7 luglio scorso.Qui, soprattutto, interessa mettere in evidenzal’estraneità di tale installazione, se permanente,nello storico e paesaggistico ambiente circo-stante. Chi scrive ha svolto un’analoga espe-rienza assieme all’architetto Paola Pozzi neglianni ’90 a Napoli, sullo splendido lungomare.Curammo infatti l’installazione con il galleristaPeppe Morra di nove grandi sculture in acciaioCorten di Bruno Munari, il quale per l’occa-sione venne e si trattenne a Napoli. Ci fu unareazione piuttosto forte sostenuta dalla stampa

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e in particolare da un politico. Tutto fu ricon-dotto a ragione quando rassicurammo che illungomare poteva essere considerato come unagalleria en plein air per una esposizione dibreve tempo di opere d’arte, e che opere!, trat-tandosi di Munari.Per la Corricella-Santa Margherita, sgomentala perenne fissità della scultura del Molinari,tenendo in debito conto che in questo luogotutti gli elementi – di natura e cultura per l’ap-punto – si sono intrecciati nel costituirsi inun’unica straordinaria e armonica immagine;questa sicuramente e realmente mediterranea!Mediterranea proprio per quel rapporto pro-fondo, d’interiore reciprocità, che lega l’uomoal suo spazio, al suo paesaggio nel quale l’in-stallazione del totem costituirebbe un evidentecompromissione sia di scala che di forma. Pe-raltro, neanche “l’addolcimento” materico e di-mensionale, prescritto dalla Soprintendenza,nella sua materiale fattualità (riduzione dell’al-tezza del manufatto: da 12 a 8 metri; sostitu-zione del cemento con l’acciaio Corten, forsein memoria delle sculture di Munari, o diquella di Lidia Cottone, dedicata a SalvoD’Acquisto, installata a piazza Carità) po-trebbe dar luogo a un corretto, permanente, de-finitivo inserimento ambientale.Sulla improprietà del luogo d’installazione deltotem credo che non ci possano essere dubbi,anche a voler invocare l’aiuto, per seduta spi-ritica e non consiliare, del grande CesareBrandi che molto amò e difese i caratteri am-bientali di Procida.Un’ultima considerazione va fatta a propositodi un cambiamento che va registrandosi nel-l’isola di Procida e che attiene alla progressivaperdita di quella “misura” riscontrabile in al-cuni recenti interventi.La locuzione “a misura d’uomo”, che in sedestoriografica si applica alla bella architetturamediterranea, alla cosiddetta architettura senzaarchitetti (penso agli studi di Roberto Pane e aidialetti architettonici analizzati da Bruno Zevi),un tempo trovava, e forse trova ancora in formaresiduale, nell’isola di Procida una immediatacorrelazione.Oggi, per converso, a Procida si assiste a forme

di vero e proprio “gigantismo” in taluni inter-venti su i quali ebbi già modo di segnalare e discrivere e che purtroppo sfuggono alle compe-tenti autorità preposte alla tutela dei valori am-bientali.Penso all’insieme di false arcate a sostegnodella gradinata dello stadio, a certe aperture erampe gigantesche che fanno pensare alla mo-numentalità di Redipuglia, penso ancora allasmisurata pensilina a Marina Grande che sipresta più alla accoglienza del Pontefice che asvolgere funzione di semplice riparo per i viag-giatori in attesa dell’aliscafo… e così via.Perché avviene questo mi chiedo? Forse peruna malintesa esigenza di modernizzazione,forse per un sentirsi in una sorta di chiusuraprovinciale che provoca il rigetto del passato edunque l’adesione, come nel caso del totem de-dicato alla pace, a qualunque iniziativa e inter-vento che dia la sensazione di essere“modernamente contemporanei”. Ma, a benguardare, proprio questo può essere definito at-teggiamento provinciale per le conseguenzeche comporta: misconoscimento dei valori delluogo e del suo passato e dunque inevitabileperdita sia di radicamento che d’identità degliabitanti.Questo, purtroppo, non accade solo a Procidama sembra essere una comune condizione ditutte quelle comunità che si sentono recluse nelpassato e invece lo sono nel presente, in un pre-sente enormemente dilatato che esclude sia ilpassato che il futuro.In definitiva, l’invito certamente non è quellodi escludere l’opera, ma di scegliere una loca-lizzazione più pertinente e soprattutto in unpunto più centrale dell’abitato, affinché la frui-zione dell’opera possa essere allargata a tuttala popolazione.Perché allora non sistemare la scultura inpiazza Posta, che mi pare stia acquisendo laforma e la funzione sociale di una vera e pro-pria piazza con i lavori in corso indirizzati auna nuova e più funzionale sistemazione?La discussione sulla scelta del luogo restaaperta e si spera, non solo tra gli amministra-tori, ma anche aperta al dibattito e al pubblicoconfronto.

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Il totem è una classe di oggetti materiali, cui il primitivo dimostraun rispetto superstizioso, perché crede che sussista un rapportospeciale tra l’individuo e ogni soggetto di questa specie.

James George Frazer

Ma che cos’è questo totem? La maggior parte delle volte è un ani-male, a volte commestibile, inoffensivo, a volte pericoloso e te-muto; meno spesso una pianta od una forza naturale, come lapioggia, l’acqua, ecc.

Sigmund Freud

Il modello classico di natura/unità umana è conosciuto come “tote-mismo”. Nelle società totemiche, ogni gruppo si identifica con unacategoria naturale: clan di orsi, leoni, lupi…

James L. Peacock

…è proprio il centro del totemismo, quel pasto totemico, duranteil quale ogni anno viene cultualmente ucciso, consumato, pianto ealla fine celebrato con una festa l’animale totemico consideratosacro…

Hans Küng

Dunque, se il concetto di Totem è questo e null’altro, nonè chiaro che cosa c’entri con esso l’oggetto in questione.

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I 40 ANNI DELL’UNICEF ITALIA

di Maresa Galli

Nella Sala dei Baroni del Maschio Angioinol’Unicef Italia ha presentato il libro Mille

voci per un coro (Graus editore, pp. 352) suiprimi 40 anni del Comitato Italiano, nato il 19giugno 1974 con l’accordo di accreditamentosottoscritto con il Ministero degli Affari Esteri. Alla presenza del sindaco Luigi De Magistrisè stato presentato il volume a cura di Marghe-rita Dini Ciacci, presidente dell’Unicef Cam-pania e vice presidente nazionale. Il Sindacoricorda le tante iniziative condivise con l’Uni-cef, come quella della cittadinanza onorariaconferita ai bambini stranieri nati in città (“Iocome tu”), il grande impegno a favore diScampia che ha il maggior numero di bambinie adolescenti. Dunque buon compleanno e gra-

zie all’Unicef per quanto fa per la città di Na-poli, con l’augurio di conservare la propria ca-rica di energia, il proprio insegnamento di farcontare il capitale umano, le persone, con laloro dignità, la gente laboriosa e onesta. Accanto a loro il presidente nazionale Gia-como Guerrera, che sottolinea il lavoro del Co-mitato regionale campano e in particolare lapassione e l’impegno profuso da «quella cheda sempre chiamiamo Margherita Unicef», perpromuovere i diritti dell’infanzia. Guerrera evi-denzia il dato positivo: la crescita sociale delPaese, i passi compiuti, il lavoro in favore dipopolazioni disperate che approdano in Italiao che vivono nei paesi delle guerre. Il prossimoimpegno vedrà unite le Anci d’Italia, Spagna e

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Grecia in un intervento congiunto per combat-tere un’emergenza che è ormai europea. «Noidell’Unicef siamo appassionati, motivati, unitie operiamo tra la gente e non giriamo mai lespalle ai problemi», spiega il presidente del-l’Ong. Nel dopoguerra l’Unicef aiutò milionidi bambini europei sottonutriti, malati, scalzi,spogliati, analfabeti. L’Italia contava una po-polazione infantile (0-15) di circa 14 milioni emezzo ed in città come Roma e Napoli presen-tava una mortalità infantile del 20%, un anal-fabetismo dell’11% (nel Sud30%) ed una disoccupazione dapaese in via di sviluppo. Termi-nata la missione in Italia,l’ONU assegnò al Fondo delleNazioni Unite per l’Infanzia ilmandato di intervento in Africa,in Asia e America Latina. Il Co-mitato Italiano per l’Unicef,nato il 19 giugno 1974, nei 40anni vissuti in Italia ha pro-mosso i diritti dell’infanzia par-tendo dal sostegnodell’approvazione della Con-venzione Internazionale sui Di-ritti dell’Infanzia. Ha portato ascuole e università le sue propo-ste attraverso il progetto di Educazione alloSviluppo per aprirle al confronto culturale trarealtà vicine e lontane diventando volano disviluppo del territorio attraverso il bambino.Il Comitato Italiano, attraverso l’azione capil-lare dei Comitati Regionali e Provinciali, haposto il bambino al centro, sollecitando la par-tecipazione di tutti allo sviluppo ed alla solida-rietà, rendendo l’interdipendenza tra uomini epopoli filosofia di vita.«Nel libro troverete preziosi contributi offertida docenti illustri dei Corsi Universitari, dagiornalisti del Club Unicef per l’infanzia, dafunzionari del Comitato Italiano– spiega DiniCiacci – luminose testimonianze del lavoro deiComitati Provinciali: tutti coloro che hannovissuto gli anni esaltanti dell’avventurad’amore condividendoli con il presidente AldoFarina, fondatore e anima dell’Unicef Italia.Non avrei mai iniziato il mio volontariato con

l’Unicef se non avessi condiviso gli ideali delFondo delle Nazioni Unite tesi ad aiutare tuttii bambini del mondo, quelli che continuano amorire nei paesi in via di sviluppo per fame,sete, malattie e guerre e quelli del nostro “ci-vile” Paese che muoiono per inquinamentomorale ed ambientale, violenze e solitudine.Bussano alle porte del mondo più di un mi-liardo di giovani, fra i 15 ed i 24 anni, e tuttilanciano alle nostre coscienze un grido di do-lore, una richiesta d’aiuto. Non ascoltarli è

omissione di soccorso, criminecontro l’umanità».Tanti gli interventi delle istitu-zioni, come quello dell’asses-sore regionale alla CulturaCaterina Miraglia che elogia ilvolume quale strumento utileper un approccio sistematico aiproblemi, con i suoi tanti saggi,come quello prezioso del socio-logo Gilberto Antonio Marselli.Dopo i saluti del questore, deltenente colonnello della Guar-dia di Finanza, del colonnellodei Carabinieri Pecci, l’inter-vento del viceprefetto GabriellaD’Orso, nominata da Marghe-

rita Dini Ciacci testimoniale in Campania peri bambini rom per quanto ha fatto e fa concre-tamente per l’accoglienza dei rom, dei rifu-giati, dei bambini tutti.Fondamentale la testimonianza del professoreArmido Rubino, docente della Federico II,all’epoca responsabile della divisione di Pedia-tria del secondo Policlinico di Napoli, pionierenel rapporto con il Comitato regionale cam-pano che ha cambiato la condizione della sa-nità nella regione. Il professor Rubino, checollabora con il Fondo delle Nazioni Unite perl’infanzia dal ’74, ricorda lo straordinario im-pegno del mondo della pediatria e dell’Unicefnel cambiare una realtà difficile, quasi da paesein via di sviluppo dell’Italia. «Non è facile ren-dere assonante il coro con tante voci diverse –spiega – ma di ciò è stata capace MargheritaUnicef alla quale l’infanzia deve straordinariagratitudine», spiega.

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Un’ovazione per l’avvocato Gerardo Marotta,presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Fi-losofici, che ricorda il gemellaggio dell’Istitutocon l’Unicef, il concorso per le scuole “Venturiaevi non immemor”, l’appello di Giorgio LaPira per salvare le città distrutte dalla guerra,l’impegno per la pace. Anch’egli da sempre vi-cino alle politiche dell’Ong, con la verve disempre ha coinvolto il pubblico nel suo appelloa lavorare sempre a favore della pace. Presenti molti presidenti dei comitati regionalid’Italia e dei comitati provinciali, i volontari ei delegati della Campania e tanti amici. E an-cora auguri dall’assessore comunale allaScuola Annamaria Palmieri, dall’assessore co-munale alle Politiche Sociali Roberta Gaeta,dall’assessore provinciale alla Sicurezza Patri-zia Sannino, dal presidente della V municipa-lità Mario Coppeto e da tanti altri sindaci,assessori e consiglieri delle 63 città campanenominate amiche dell’Unicef, amici del mondodel volontariato, da Lucia Valenzi a PasqualeCaputo, da Sofia Bianco a Giusy Conte.Elsa Evangelista, direttore del ConservatorioSan Pietro a Majella, illustra l’accordo tra ilConservatorio di Napoli e l’Unicef con l’obiet-tivo comune di offrire maggiori possibilità aibambini di tutto il mondo nel nome della mu-sica. L’iniziativa si inserisce nel programmavarato da San Pietro a Majella che porterà allacostituzione, a partire dal prossimo autunno, diun proprio coro di voci bianche e dell’orchestrainfantile “Cappella della Pietà dei Turchini delConservatorio di Napoli”, ispirata al celebre‘El Sistema’ creato in Venezuela da José Anto-nio Abreu e coordinato in Italia dal 2010 dalSistema delle Orchestre Giovanili, attivo anchein Campania e di cui il Conservatorio è pernodi formazione. Questa attività coincide sposagli interventi dell’Unicef che mira a costruirela pace nel mondo per tutti i bambini ed i gio-vani attraverso la conoscenza, il rispetto e l’in-tegrazione fra culture e popoli. In Venezuela lamusica offre possibilità di riscatto a mille e

mille bambini; in Italia, ed oggi a Napoli, i gio-vani musicisti del Conservatorio partecipanoattivamente alla costruzione di un futuro mi-gliore, condividendo con i tanti bambini delmondo la musica, cuore pulsante che uniscetradizioni e popoli utilizzando l’unico vero lin-guaggio universale, quello delle 7 note che ab-batte qualunque barriera. E come sottofondo musicale hanno suonato insala i campanellini che hanno inaugurato intutte le piazze d’Italia la Campagna internazio-nale “100% Vacciniamoli Tutti” per sostenerei programmi di immunizzazione in otto Statinei quali si concentra oltre un quarto della mor-talità infantile nel mondo. Il compleanno si conclude in serata al Conser-vatorio di Musica con il concerto “Sinfonie diSolidarietà” dell’Orchestra San Pietro a Ma-jella, diretta dal maestro Francesco Vizioli. Inprogramma l’Ouverture da Il Barbiere di Sivi-glia di Giovanni Paisiello, la Sinfonia in domaggiore KV 425 Linz e il Concerto in la mag-giore per pianoforte e orchestra KV 414 diWolfgang Amadeus Mozart. Al pianoforte ilgiovanissimo talentuoso pianista Marco Stal-lone.Emozionante la visita alla Biblioteca Musicaledel Conservatorio e al Museo Storico, insiemealla mostra “Verdi e Napoli” nella Sala Ric-cardo Muti del Conservatorio.E ancora ottima musica con il Trio Megaride,di recente formazione ma già apprezzato, com-posto da Angelo Cardone, cantante e chitarri-sta, Andrea Bonetti, pianista e fisarmonicista,Michele Di Paola, chitarrista. L’ensemble de-lizia il pubblico con un raffinato repertorio ditarantelle e villanelle e teatro-canzone che spa-zia da Michelemmà alla Tarantella del Gar-gano, da Villanella ch’all’acqua vai a DdujeParavise, da Canzone appassionata a Voce ‘enotte. La musica è scuola di pace e di cultura in gradodi unire e regalare un futuro diverso ai giovani,al mondo.

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TRILLANTE, TROCOLA E UOSSO ‘E PRESUTTOuna spremuta di filosofia spicciola tra musica e dintorni

di Umberto Franzese

I “posteggiatori” sono gli ultimi eredi di unatradizione di giullari, trovatori e menestrelli

trasferitisi dalle corti e dai palazzi alle vie e allepiazze e che a Napoli hanno assunto spesso, neltempo, forme e modi popolari diversi, dal“concertino” d’amore al pazzariello, imboni-tore di vini e mercanzie. Ma sempre la posteg-gia nella sua espressione ha rappresentato unmodo tra i più autentici di dar voce e fama allacanzone napoletana.Nell’ottobre del 1972, in Le voci parlanti, sulpalchetto del Teatro dei Sordi e tra il pubblico,un complesso di posteggiatori tra i quali eccel-leva Giorgio Schottler, dalla voce finissima echiara, la “chitarra” Alfonso D’Andrea e il“mandolino” Antonio Baldini. Era, come lo de-scriveva Franco De Ciuceis, uno spettacolocolto e insieme popolare, raffinato, semplice,una serata di squisita napoletanità, che offre,talvolta, con accenni commossi, il meglio dellepiù celebri pagine del repertorio canoro e mu-sicale napoletano.Il meglio della posteggia, che ha avuto pro-fondi conoscitori nei “consulenti”, negliesperti, negli specialisti, i commentatori PietroLignola, Franco Lista, Giulio Mendozza, èstato proposto dal complesso di Mastroma-siello Mandolino. Commentatori e musici,sotto l’attenta e spigliata conduzione di LauraBufano, in Trillante, trocola e uosso ‘e pre-sutto, una spremuta di filosofia spicciola tramusica e dintorni, hanno costruito con mae-stria uno spettacolo entusiasmante in omaggioall’arte, al teatro, alla musica, imperniato, tral’altro su testi fini e garbati di Gianna Caiazzointerpretati con raffinatezza da Anna Donato.Nella Chiesa di S. Croce al Mercato, nel pienodei festeggiamenti in onore della Madonna delCarmine, la napoletanità più autentica tradottain scena, in concerto, in recital, in varietà, fa

vistosamente, magnificamente, spettacolo.Quella “napoletanità”, che fa dire a Pietro Li-gnola, che è tale se «conserva gelosamente ilpiacere di vivere, il culto della famiglia, il ri-conoscimento dell’amicizia, la difesa di abitu-dini e tradizioni millenarie. Il napoletano nonrecita soltanto sul palcoscenico, ma anche nellavita di tutti i giorni».

‘O vvi’, ‘e strate ‘e Napule cheste so’, nu pal-coscenico. Una città, Napoli, che pur nella mu-tevolezza, ha espresso la sua vitalità, la suaprorompente humanitas. Per accertare quantodi questa humanitas ancora resiste, forte è ildesiderio di quanti, in nessun modo, intendonoarchiviare antichi valori.Lievito fermentante di quanto resta delle nostrericchezze, delle nostre bellezze, della cultura,dell’arte, dello spettacolo, è la riconferma dellanostra identità, a cominciare dalla nostra bellalingua napoletana. Se una società si corrompeper prima s’imputridisce il linguaggio. A ciòcontribuisce l’uso spropositato degli inglesi-smi. La napoletanità dura se e fino a quandodureranno le tradizioni, le arti, il colore locale,le feste, l’amore per le cose nostre e non quellenon nostre che servono soltanto a imbastar-dirci, a renderci servi di modi di fare, di espres-sioni, linguaggi d’importazione.

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LIBRI & LIBRI...

RobeRto NaPoletaNo, Viaggio in Italia (Milano, Rizzoli, 2014), pp. 234,€. 17,00.Se la pratica del “viaggio in Italia” in età romantica fu appannaggio dei viag-giatori stranieri (si pensi, per tutte, alla Italienische Reise di Goethe, 1786-88), già nel secolo scorso a percorrere le strade italiane furono anchegl’italiani, da Guido Piovene (Viaggio in Italia, 1953-56) a Giorgio Bocca(Italia anno uno, 1984), i cui interessi andarono progressivamente spostandosidall’elemento ambientale a quello umano. Ed è proprio a quest’ultimo fattoreche rivolge ora la propria attenzione Roberto Napoletano, in un “viaggio” dalla

marcata connotazione “joyciana”, giacché esso si svolge all’interno del suo studio di direttore,dove lo hanno raggiunto lettere, e-mail e messaggi di lettori de Il Sole 24 Ore e, prima ancora,de Il Messaggero. Il quadro dell’Italia ch’emerge dalle pagine del volume è di gran lunga piùomogeneo di quello tracciato da Piovene e soprattutto della manichea descrizione delineata asuo tempo da Bocca: l’attenzione di Napoletano è rivolta in maniera prevalente ai problemi cheaffliggono l’Italia di questo inizio di millennio, dalla precarietà della condizione giovanile, allanotte che attraversa la cultura, al ricorso all’antica “arte di arrangiarsi”. E a tutti i suoi interlo-cutori l’autore rivolge in maniera costante l’esortazione a non mollare, nell’interesse comune difavorire la ripresa della nazione.

Guido CeRoNetti, Un viaggio in Italia, 3a edizione (torino, einaudi,2014), pp. 374, €. 22,00.Diversamente da Roberto Napoletano, Ceronetti compie “un” viaggio in Italiavero e proprio, benché rendicontato in maniera assolutamente disordinata, nonsoltanto relativamente ai luoghi visitati – che rappresenta in un andirivieni dacapogiro –, ma anche rispetto alle cose viste, tra le quali prevalgono le scrittestrane ricopiate dai muri, o i personaggi più diversi, spesso ridicolizzati, piùche descritti. Da perfetto bastian contrario, Ceronetti manifesta entusiasmoper cose che chiunque altro vitupererebbe e, viceversa, disgusto per quelle

che altri apprezzerebbero in maniera positiva. Nonostante tutto ciò, la lettura del volume è daritenersi quasi doverosa, se si vogliono cogliere aspetti delle località visitate dall’autore, che al-trimenti sfuggirebbero, e se si vuole tentare di comprendere uno scrittore che quasi gode nelmostrare di avere “il mondo in gran dispitto”.

adRiaNa destRo - MauRo PesCe, La morte di Gesù (Milano, Rizzoli,2014), pp. 360, €. 18,00.La scelta di sostenere la natura esclusivamente umana di Gesù può ben essereritenuta legittima; non altrettanto legittima, però, è l’operazione di plasmarele fonti, per utilizzarle a sostegno della propria tesi, nel che consiste, per lopiù, l’operazione compiuta dagli autori nel loro saggio, che ripercorre le tappedella vita di Cristo, per individuarne le ragioni della morte. Del resto, la tecnicad’insistere sulle minime divergenze presenti tra le fonti stesse ricorda moltoda vicino quella delle difese disperate d’imputati vistosamente colpevoli. Tutto

ciò fa avvertire, nell’incontro fra un’antropologa e uno storico, la mancanza del contributo fattivo

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di un teologo (non necessariamente ortodosso). Forse, l’unico spunto realmente interessante ditutto il volume, sul quale vale la pena di riflettere, è costituito dall’ipotesi – peraltro, notoria-mente non originale – della “rifondazione” del gruppo di discepoli per opera di Paolo, che spiegaalmeno le radici della configurazione assunta dal Cristianesimo fin dai primi tempi e tuttoraconservatasi. Rimane, in ogni caso, da non perdere di vista la considerazione che il compitodella storiografia è quello di dimostrare fatti, non tesi.

aNtoNio GuaRiNo, Lettere dal passato. Il processo di Giusta (Napoli, deFrede, 2013), pp. 28, s.i.p.Dalle tavolette cerate ercolanesi del processo di Giusta Antonio Guarino,Maestro del diritto romano nell’Ateneo napoletano, trasse lo spunto, nel1953, per redigere il testo di un originale radiofonico, che fu recitato, oltreche da lui stesso, anche da figure di spicco della cultura dell’epoca, comeVincenzo Arangio-Ruiz, Giovanni Pugliese Carratelli e Amedeo Maiuri. Lavicenda è quella di Giusta, una giovane donna che chiedeva al giudice diessere riconosciuta nata libera, dopo che la madre, già schiava della matrona

Calatoria Temide, era stata resa libera da costei, la quale, viceversa, pretendeva che la nascitadella fanciulla fosse avvenuta prima di tale evento. Ora, dopo sessant’anni e al compimento deicento da parte dell’autore, il testo dell’originale radiofonico, recuperato da una vecchia regi-strazione, è stato pubblicato, e il lettore troverà nelle ultime righe la simpatica conclusione asorpresa della vicenda giudiziaria, immaginata dall’autore, poiché la sentenza emessa dal giudicenon è stata rinvenuta.

GeRaRdo ausiello - leaNdRo del Gaudio, Dentro la Terra dei Fuochi(s.i.t., ma Napoli, shake up, 2014), pp. 128, €. 3,80.Al di là di una veste tipografica, a dir poco, spartana, che tuttavia si giustificaper il modestissimo prezzo di copertina, il volume – una sorta di “Apocalisselaica del terzo millennio” – ricostruisce le vicende della “storia infinita” dellosmaltimento dei rifiuti nel Napoletano, ponendo in evidenza l’intreccio collu-sivo tra criminalità organizzata, imprenditoria, pubblica amministrazione e po-tere politico in senso stretto. La riflessione, però, che la sua lettura findall’inizio sollecita – e che nella “postfazione” del magistrato Raffaele Picci-

rillo è esplicitata – è quella del ruolo “evanescente” assunto, per lo più, dall’informazione, primache il caso esplodesse in tutta la sua drammaticità. Il volume è stato offerto, in forma di supple-mento, ai lettori del quotidiano Il Mattino.

luiGi NaPPa, Procida Seagull (Napoli, Fioranna, 2014), pp. 72, €.20,00.Anche Luigi Nappa, lupo di mare italo-australiano, può essere annove-rato, ormai, a buon diritto, tra coloro che, consapevoli della comune eti-mologia dei vocaboli “penna” e “pennello”, governa con pari maestriaentrambi tali strumenti. L’occasione per offrire un saggio di tale sua du-plice abilità è costituita, ora, dalla pubblicazione di questo racconto (nonfavola, né cronaca, ma un mix di entrambe), corredato da illustrazioni

da lui stesso eseguite, con l’essenzialità del tratto e con la vivacità dei colori che da sempre locaratterizzano. Il testo del racconto è pubblicato, oltre che in lingua italiana, in inglese e in fran-cese (quest’ultimo nella traduzione di Rosario Di Silvio).

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ValeRio CeVa GRiMaldi - MaRia FRaNChiNi, Napoli insolita e segreta (Ver-sailles, JonGlez, 2014), pp. 382, €. 18,90.A fronte delle numerose guide che conducono il turista attraverso gl’itineraritradizionali di visita di Napoli, arriva da Oltralpe un vademecum che proponesei passeggiate alla scoperta di luoghi sconosciuti anche agli abitanti della città,verso i quali, perciò, ben può costituire uno stimolo alla conoscenza, non soltantodel territorio urbano, ma anche degl’immediati dintorni. E, se qualche scelta equalche interpretazione possono risultare opinabili, tuttavia, l’impianto com-plessivo del volume, impreziosito dalle fotografie di Ferdinando Pisacane, si fa

apprezzare in maniera decisamente positiva.

NiCola ViGliotti, Trilogia di Martiri (san lorenzello, ente culturale“schola Cantorum san lorenzo Martire”, 2014), pp. 148, s.i.p.I testi teatrali relativi ai martiri compatroni di San Lorenzello – Lorenzo,Donato vescovo e Sebastiano –, scritti dal compianto mons. Vigliotti e quiraccolti e pubblicati postumi, a cura di Alfonso Guarino, si collocano a metàstrada fra la drammaturgia sacra colta (da Corneille, a Perrucci, a T.S. Eliot)e le “tragedie” del teatro popolare (Arzano, Pianura). Essi, infatti, sono de-

stinati alla recitazione amatoriale, ma sono redatti con una precisa conoscenza delle fonti storiche(Vitae, Legendae, Passiones) e con il loro sapiente uso. La pubblicazione è stata patrocinatadalla Provincia di Benevento.

s.z.

In redazione ci sentiamo tui un po’ zii, ac-canto a Elio Notarbartolo, che dal 12 ago-sto scorso è il nonno di ElEda, figlia deinostri colleghi Tjuna ed Enzo Colimoro. allapiccola rivolgiamo il nostro benvenuto; aigenitori e a Elio gli auguri più affeuosi.

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CRITERI PER LA COLLABORAZIONE

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In copertina: Il progetto di trasformazione della cinquecentesca chiesa pro-cidana di Santa Margherita Nuova, danneggiata fin dal 1939, in “Catte-drale della Concordia” fu elaborato, verso il 1955, da FerdinandoFerrajoli, su commissione del cappellano dei detenuti politici fascisti inviatinell’isola, p. Blandino della Croce o.f.m., il cui comportamento, però, ag-gravò le condizioni statiche di quanto residuava dell’antico edificio, impe-dendo la realizzazione dell’opera.

Mimmo Piscopo, Il Reverendo (coll. priv.)

Direttore responsabile: SergioZazzeraRedattore capo: Carlo Zazzera Redazione: Gabriella Diliberto,Antonio La Gala, Franco Lista,Elio Notarbartolo, Mimmo Pi-scopo Past-director: Antonio Ferrajoli

Direzione, redazione, ammini-strazione:via G. Sagrera, 9 - 80129 Napoli- tf. 081.5566618 - e-mail: [email protected]

Registrazione: Tribunale di Na-poli, n. 3458 del 16 ottobre 1985

Fascicolo chiuso il 12 settembre2014, pubblicato online ai sensidell’a. 3-bis l. 16 luglio 2012, n.103.

diffusione gratuita

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