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Opera Prima - Michele Fogliazza

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Opera Prima - Michele Fogliazza

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Titolo: Diurno

Autore: Michele Fogliazza

Fonti: Collana “Opera Prima”, n. 9, Anterem 2006

A cura di: Luigi Bosco e Poesia2.0

In copertina: Disegno di Tommaso Durante

Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro.

Tutti i diritti riservati all’autore.

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OPERA PRIMA

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MICHELE FOGLIAZZA

DIURNO

(Poesie Scelte)

Anterem, 2006

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Premessa

di Flavio Ermini

La parola poetica ci rinvia a una tela invisibile occultata in noi stessi.

Segnala un’area linguistica che confina con tutto lo spettro delle

cromie connesse alla luce che il buio cela in sé, e dunque

comunemente invisibili.

Qui lo sguardo scivola su fondali inesplorati, dove si dà un itinerario

non sempre descrivibile dal discorso. Qui «l’uomo / che scrive … /

vede un uomo che attende». Michele Fogliazza rende manifesto

questo tracciato.

La parola poetica è una scala oscura e infida che ci fa scendere verso

un luogo dove le parvenze sono concretezze attive e le metamorfosi

non sono mai accadimenti illusori.

Gli organismi mutevoli che Fogliazza ci propone sono fluttuazioni di

una sola presenza. Un modulo entra in cangianti morfismi. Conosce

unicamente il ritmo ineguale delle proprie apparizioni. La sua essenza

risiede nella stesura di questi passaggi da un senso ad altri consimili.

Lo spazio interiore abbracciato da Fogliazza non esiste in nessun

luogo, ma molti luoghi in esso convergono. Tra questi vi è un settore

attraverso il quale si entra nella luce. E un altro attraverso il quale

dalla luce ci si allontana. La vicenda che la parola dispiega sembra

non finire mai nel nulla. Ci si inoltra in un aspro territorio di

rovesciamenti.

La parola poetica fa capo a un antecedente del profondo dal quale

sembra che non ci si possa svincolare: primo spessore sotto l’alba di

coscienza o, forse, dettaglio incerto di una visione appena abbozzata:

piano di partenza comunque di sintomi e proiezioni.

Da quest’ombra rocciosa Fogliazza fa salire fino a noi il nastro delle

sue dizioni e le risultanze della sua esperienza e chiede a ognuno di

noi di leggere sul palmo della propria mano una carta geografica che

non è inscritta in un altro luogo che non sia l’emozione. Su quella

carta c’è scritto che «il male di vivere … / è riuscito a trovarci anche

di qua dal muro».

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La scacchiera è estesa. Ogni mossa provoca una serie imprevedibile di

conseguenze scompigliando la superficie dell’essere. Lo scatto di una

luce che precede il crepuscolo torna a farsi percepire in altro modo a

distanze sorprendenti. Tutte le cellule compositive rifrangono ogni

minimo balzo dell’eco.

Sulla scacchiera una storia si dichiara e avanza verso l’indecifrabile.

La grandezza spaziale occupata da Fogliazza serve a togliere la benda

dagli occhi dei nostri desideri e ci minaccia. In quella vastità si

liberano in corsa rallentata o senza freni gli elementi che costituiscono

la scrittura, regolata anche su orologi con lancette che girano in senso

inverso.

Le variazioni timbriche, così come quelle cromatiche, sono

sensibilissime. Seguirle è pretendere di raggiungere l’incontaminato

cuore del buio attraverso l’impetoso sorgere del sole. Nella scrittura

questo cuore è forse quel che si nasconde sotto la lingua: l’anima della

lingua: quel che il senso e il suono delle parole portano dentro di sé

senza esporlo o dissiparlo.

Flavio Ermini

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1

Dal cubo obliquo il sole sorge

In alba rilucente nel vetro solare

Evapora la brina nella luce

Si increspa il lontano mare

Ed il monte svetta squadrato

Dall’orbita voluto

E dalla terrazza affonda il respiro

L’uomo del sole diurno

Scruta sottile l’orizzonte

Come a studiarne l’avvenire

Ma qualcosa non coglie nel fluire del vento

Nel continuo luccicare del sole

E quest’aria sempre più estranea

S’infossa come nemico nel profondo.

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2

Stiedi un solo momento

A respirar nel sole poggiato

Che fui al muricciolo in cemento

Di schegge di sassi, schiacciati, ornato.

E lo scrocitar dei mali

Infiniti fili sulla fronte

Tesi tagliano le tempie e nudo

Il sudore gela il faticoso affanno

In nulla ciò mi sembra sogno

Ma l’ombra del plegico delirio

Più simile è invece

Alla meravigliosa veglia

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E come volge di nuovo

Di nuovo svolge

Nelle ombre dischiuse la luce si nasconde

Ed il prematuro buio sviene.

Ed il guardo lento, lontano scorge

Questo guardarsi lontano e scorgere

Tremenda immagine che mascherata danza

E dopo poco solo è fissa.

E denti tirati, sbarrati gli occhi.

In postura fobica, rigida dell’odio

Ultima figura

Come splendido loto.

E la scimmia resta sempre immobile a guardare

Questo groviglio livido e

Nei suoi occhi un brillio di cognizione desta sospetto.

A nulla serve il tuonare belluino del muggito

Di lontano, tra le rovinose aiuole

Nel diroccato divino, il passo fermo vuole

Come antica volontà lontana.

A spaventarsi un folle

Grida ed a tutti dice ridendo

Che egli, il toro è dio

E del muggito si accontenta

Ma già lontano s’è spinto il passo delle bestie

Già lontano le grida del folle sono rinchiuse

Da troppe voci meccaniche confuse

E come di nuovo svolge

Eccolo volgere di nuovo.

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V’era nel verno del cielo,

In contorno, a crocicchi

Spinti e orizzonti

In steccati chiusi,

Giù dalla stradetta,

L’aiuola di steli e rovi senza fiori.

Poi l’uomo con le stampelle

E le gambe di legno inchiodate;

Fuma e beve acqua sporca.

E in là verso il colle, che guarda

Scorge fila di cavalli a cerchio

Stretti nel morso

Seguono, zitti, trottando, la coda.

Goccia, goccia la fontana dona liquore

E l’infante ne prende gonfio

Rosso negli occhi, irato

Caccia piccioni e ne ammazza.

Corre più in là il prato

Colmo d’insetti

Nascosti nell’erba

Pronti a sputare veleno

In carni di bimbo.

Ed ecco l’uomo

Che scrive, dai polsi fasciati

Sotto le lenti spesse sbircia

E vede un uomo che attende,

Un bimbo che gioca,

I fiori, una giostra ed un prato incantato.

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5

Dove vai passero impazzito?

Dove t’annidi il giorno?

Di notte te ne esci ululando

Agli acerbi biancofiori del prato

Dolce urlatore notturno

Ricordo quando l’alba del sole accoglievi

E cinguettavi irridente le mie

Ultime ore

Sempre più presto ti sentivo

Sempre più nascosto al sole

Cosa fu che ora fuggi il giorno?

Ti incontro ora al tramonto

Mentre silente attendi

Come assaporando il tuo trionfo

Nel belvedere il sole morente.

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6

Trema la prima riva

Ferrosa tra i fiori

E le canne e i cani

Selvaggi del mare

Brunito di rame

Fra scaglie di ruggine e conchiglie

Lieto lungo l’arrivo

Dell’onda marina

Ricade e smarrisce

memoria

pezzetti di vetro

come erpice il pieno

feroce il mare frantuma

E i culmini di sole

Esplodono bruciati tra le onde

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Ugolino arpeggia placido al mulino

Il vento strumento arrota

Ed il canto cigola la nota

Assorda l’acuto della bocchina

Per bene Ugolina

Perdonami patria Caina

“Ho tradito!! Ai cento paradisi ho

Preferito la mia pochezza”

Uomo solitario

Iroso mollicino

Sta sulle piane ad attendere i lupicini

Che io nella torre, loro.

Che nella torre, io

Che chiuso lì, con io

Poterono loro prima

Cadevano ed io

Che io nella torre, loro

Aveva l’enorme fiato

Finito di fluire

Lasciava due pupille bloccate

Come per vedere

Per stare per vedere

Come guardate.

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Riflessione critica

di Bruno Moroncini

E ogni volta che inizi una poesia

Convochi i morti

Essi ti guardano scrivere

Ti aiutano

José Emilio Pacheco

Per raggiungere lo scopo dell’arte poetica, ossia riuscire ad avvicinarsi

a quel luogo in cui il dire schiude l’essere e il suono instaura, dopo

averlo sospeso, il senso, il poeta efebo, per usare un’immagine di

Harold Bloom, è costretto a lottare con coloro che lo hanno preceduto

in questa impresa, con i suoi precursori sulla via della poesia, la cui

grandezza sembra aver suturato tutto il campo delle possibilità

poetiche, non lasciando alcuno spazio, neppure un interstizio, al nuovo

arrivato che cerca faticosamente la propria strada e la propria voce. A

compensare, tuttavia, il sentimento dell’angoscia che attanaglia il

poeta efebo di fronte all’influenza che subisce da parte del poeta

precursore, sta la consapevolezza che anche quest’ultimo ha in gran

parte fallito: forse per l’impossibilità del compito stesso che si affida

alla poesia, quello, se non di rifare il mondo dall’inizio, almeno di

rovesciarlo come un guanto, anche il poeta precursore, nonostante la

sua inarrivabilità, non è andato fino in fondo, si è fermato, suo

malgrado, a un passo dalla rivelazione. Il dire è ricaduto su se stesso,

il suono ha mancato il senso, l’apocalisse è stata rinviata.

Ogni grande poesia è revisione di una poesia precedente: è un

rifacimento e una riscrittura. A questo proposito Harold Bloom elenca

sei rapporti revisionistici, sei modalità cioè con cui si attua la

revisione del poeta precursore da parte del poeta efebo. Il clinamen,

vale a dire il fraintendimento o travisamento vero e proprio, lo scarto

rispetto al poeta precursore che viene corretto in un punto del proprio

itinerario e spinto in un’altra direzione. La tessera, ossia il segno di

riconoscimento, il frammento che aggiunto agli altri pezzi ricostituisce

l’oggetto originario: il poeta efebo usa gli stessi termini del poeta

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precursore ma impiegandoli in un altro senso. La kenosis, ossia

l’abbassamento e l’umiliazione: il poeta efebo sembra eclissarsi di

fronte alla superiorità del poeta precursore, ma in questo modo lo

trascina con sé, lo svuota e riequilibra il rapporto. La demonizzazione:

aiutato da un essere inferiore, né divino né umano, il poeta efebo risale

ad una potenza anteriore alla poesia del precursore la quale così perde

l’aura dell’unicità. L’askesis, ossia una forma di purificazione

raggiunta attraverso la solitudine: il poeta efebo rinuncia a una parte

delle sue doti umane e immaginative e in tal modo si isola non solo

dagli altri, ma anche dal poeta precursore che viene a propria volta

costretto ad un autolimitazione. E infine l’Apophrades, il giorno

nefasto in cui tornano i morti: il poeta precursore ritorna nel poeta

efebo ma come se a scrivere la sua poesia fosse quest’ultimo. Con il

ritorno dei morti siamo pervenuti al punto massimo dell’opera di

revisione poetica: la poesia del precursore è stata scritta dal poeta

efebo.

La spia che mi fa credere che Michele Fogliazza appartenga alla

schiera dei poeti è il fatto che egli non nasconda ma anzi esibisca

spudoratamente il corpo a corpo – un corpo a corpo che dandosi

nell’elemento della poesia non può che manifestarsi nella corporeità

della scrittura: la sonora corposità delle parole – che ingaggia con i

poeti precursori. Che la sua poesia sia per la gran parte un rifacimento

e un approfondimento di quella dei poeti precursori - che per un poeta

italiano rispondono ai nomi di Dante e di Leopardi, precursori lontani,

ma soprattutto di Montale e Campana, precursori questi vicinissimi e

la cui influenza innerva d’angoscia le più belle poesie di questa

raccolta – non depone a suo sfavore come se essa fosse mera

imitazione, ma è la prova al contrario di quanto essa prenda sul serio il

compito poetico e sia disposta a pagare il prezzo necessario per essere

vera e giusta poesia.

Nella revisione ad esempio dell’Ugolino dantesco decisivo è lo

spostamento, cubista come Fogliazza suggerisce nelle Note di lettura,

dalla rappresentazione oggettiva e in fin dei conti solamente accennata

dell’orrore, alla sua resa soggettiva, unica capace di mostrarci a quale

grado di frantumazione l’io debba pervenire per arrivare a quella

soglia fra l’umano e l’inumano, a quel punto di non ritorno nella

degradazione, rappresentato dal “poscia, più che il dolor, potè il

digiuno”: l’io si è parcellizzato in una miriade di piccoli io, di piccoli

oggetti che, perduto l’ultimo afflato della coscienza, si rivelano essere

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nient’altro che incarnazioni dell’abiezione. Allo stesso modo nella

revisione del passero solitario leopardiano, l’uccello che cantava solo

durante il giorno per tacersi al calare della notte, si trasforma in un

«imbizzarrito animale notturno», in un «dolce urlatore notturno», che

fugge dalla luce solare, si nasconde alla chiarezza del giorno, e attende

silenzioso il tramonto.

Il rifacimento del passero solitario leopardiano ci introduce al tratto

più precipuo del revisionismo poetico di Michele Fogliazza:

l’indeterminazione del rapporto fra il giorno e la notte, fra la luce e il

buio. Il compito della poesia è di schiudere l’essere attraverso il dire,

il senso attraverso il suono: secondo il dettato di Heidegger ciò

significa attribuire al dire poetico la capacità di condurre ciò che è

nascosto alla manifestazione, alla visibilità. Il dire poetico conduce al

giorno, offre alla luce, ciò che fino allora albergava nella notte e

nell’invisibilità. Ma è sufficiente questa opposizione fra la notte e il

giorno, fra la luce e il buio? Dove si raccoglie la notte una volta che si

è fatto giorno? Dove il buio? Forse al centro stesso della luce del

giorno. «L’uomo del sole diurno / scruta sottile l’orizzonte / come a

studiarne l’avvenire / Ma qualcosa non coglie nel fluire del vento / nel

continuo luccicare del sole»: non si accorge dell’aria che diventa

sempre «più estranea» e «che s’infossa come nemico nel profondo».

«Diurno», scrive Fogliazza, è termine ambiguo, è «il nome notturno

del giorno»: è la notte quindi ad abitare il culmine del giorno, a

installarsi al centro della luce. Nel cuore del giorno c’è la notte, e se si

riesce a guardare fissi in questa notte ci si accorgerà che essa riluce. Il

Dioniso notturno cede il passo a Fanes, al dio che porta alla luce, che

rende visibile il nascosto.

Affisare lo sguardo nella luce è guardare la notte e viceversa.

Blanchot ha sperimentato per primo forse questa doppiezza

indecidibile del giorno: ciò che dovrebbe assicurare l’ordine, la

coerenza, il senso, fa sprofondare nella follia, è la follia. Esiste una

follia del giorno che non è quella della notte, in fondo conosciuta,

esplorata, resa innocua. Esiste una follia che è propria del giorno e che

appunto per questo ci sorprende, è la follia che ci afferra al culmine

della sensatezza. «A lungo andare,» scrive Blanchot, «mi convinsi di

vedere a faccia a faccia la follia del giorno; tale era la verità: la luce

impazziva, la chiarezza aveva perduto ogni buon senso; mi assaliva

sragionevolmente, senza regola, senza scopo». Come il personaggio

della Follia del giorno, cui qualcuno aveva schiacciato dei vetri sugli

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occhi, vedeva e non vedeva, vedeva, se così si può dire, il buio, così il

poeta deve esprimere gratitudine alla luce troppo forte che lo acceca

perché è solo nel nero dell’accecamento che riesce a vedere il

“minuscolo rigo di fulminosa luce”. È in questa luce, simile più a un

bagliore della notte che ai raggi dispiegati del sole diurno, che si

offrono i sentieri inesplorati su cui il poeta deve incamminarsi.

In versi come «Nelle ombre dischiuse la luce si nasconde / ed il

prematuro buio sviene» e «Volgono al ginepro le ore più viola del sole

basso / nell’ortaglia di fianco al fosso / Giù per la breve collina / la

luce fioca prima si smarrisce / E titillano i contorni travolti dal colore /

Ecco pare finalmente / Brulicar di quadratini scoppiettanti / Impazziti /

Si diradano / ed io con loro perdo luce», sembra di ascoltare l’eco

revisionista del Celan dell’elogio dell’ombra: «Parla anche tu, / parla

per ultimo, / dì la tua sentenza. /Parla – / Ma non dividere il sì dal no: /

Dà alla tua sentenza anche il senso; / dalle l’ombra. / Dalle ombra

sufficiente, / dagliene tanta / quanto sai ripartita attorno a te tra /

mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte». L’ombra qui non è il riparo

dalla luce eccessiva ma il rilucere proprio della notte a partire dal

quale si origina il senso.

Se si vuole spingere più oltre il lavoro poetico bisogna modificare

profondamente il dettato montaliano: per portare «alla chiarità le cose

oscure» non bisogna favorire la loro tendenza naturale, il loro

spontaneo volgersi alla luce. Bisogna al contrario farle flettere verso

l’ombra o verso l’oscurità. Bisogna contrastare l’eliotropismo del

girasole, questo fiore «impazzito di luce» e rinunciare alla regione

delle «bionde trasparenze» dove «vapora la vita quale essenza».

Questo movimento a ritroso, dalla luce all’oscurità, coincide con un

avanzamento verso il peggio: il linguaggio già stremato dovrà

diventare più soffocante, la realtà evocata dovrà essere sempre più

terribile, rovente. Come per i valentiniani l’unico modo per eliminare

il male dal mondo consisteva nel commetterne sempre di più e nello

sprofondare in esso, così bisogna incrementare il male di vivere fino a

farlo diventare irrimediabile. Il male di vivere non si è fermato, esso

diviene ancora: prima era «il rivo strozzato che gorgoglia, /era

l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato» e

contro di esso, di là dal muro, si presentiva il bene «che schiude la

Divina Indifferenza«, ossia «la statua nella sonnolenza / del meriggio,

e la nuvola, e il falco alto levato»; adesso invece esso è diventato «il

sonaglio attorcigliato all’orecchio / il morso del prurito doloroso /

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L’affanno del respiro». Al male è riuscito «di trovarci anche di qua dal

muro / nel protetto della stalla vuota / Forte come le fiere nella selva /

Contro il nostro corpo nudo».

Per rifare il mondo forse è necessario che il poeta sovrapponga al

giorno eccessivamente luminoso di Montale la «lunga notte piena di

inganni delle varie immagini» di Dino Campana. Suoni quel

“notturno” che è forse il nome diurno della notte.

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