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Presentazione

Un libro che fa luce su uno dei più clamorosi e misteriosi "buchineri" della storia d'Italia: l'assassinio a Palermo del generale deiCarabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, nominato dal governo prefettodel capoluogo siciliano per combattere la mafia. Vengono raccontati isuoi ultimi cento giorni in Sicilia, il contesto politico in cui maturò ildelitto e le troppe ombre che ruotano intorno alla strage di via IsidoroCarini del 3 settembre 1982. Il processo sull'assassinio del generale,infatti, pur facendo riferimento a possibili "zone grigie", ha condannatosoltanto il primo livello di Cosa nostra, l'ala militare, quella che hacommesso materialmente il crimine, senza addentrarsi su eventuali

"mandanti esterni" che stanno dietro ai delitti eccellenti di quegli anni.Attraverso gli atti processuali e testimonianze inedite si delineano i probabili moventi sull'uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa chevenne spedito a Palermo per contrastare la mafia senza avere i poterinecessari. Nel libro il giornalista Luciano Mirone mette insieme i pezzidi un complesso mosaico che dal cuore della Sicilia porta nelle segretestanze del potere italiano. Il testo si avvale delle interviste che l'autoreha realizzato con Nando dalla Chiesa, Francesco Accordino, Giuseppe

Ayala, Gian Carlo Caselli, Alfredo Galasso, Riccardo Orioles, UmbertoSantino e tante altre autorevoli personalità del mondo della politica,della magistratura, del giornalismo.

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Indice

Dietro quella mano

Sbornia da MundialLa guerra di Palermo

Mattarella e Andreotti

La Torre e Sindona

A Corleone contro Liggio

Di nuovo in Sicilia

La lotta al terrorismo

L’iscrizione alla P2 Gelli. Chi è costui?

Il caso Moro

Via Montenevoso 8

Il delitto Pecorelli

Così parlo Buscetta

La vittoria sul terrorismo

«In Sicilia c’è bisogno di lei» 

Intanto a Catania

Potere

A Palermo per morire

3 settembre

Ricordo...

La cassaforte svuotataI funerali a San Domenico

Un delitto firmato

Il dopo dalla Chiesa

I Siciliani

I Cavalieri dell’apocalisse mafiosa 

Lo spartiacque

La storia si ripete Note

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 A Giuseppe Mirone,

mio padre

 Ecco allora che la cronaca di una morte annunciata

diventa la cronaca straziante di un uomo che,

 pur essendo ancora in tempo per salvarsi,

non ha esitazioni e va incontro alla morte,

 perché lui, tra la vita e lo Stato,

 sceglie lo Stato, fino in fondo.

Come Socrate quasi duemilacinquecento anni prima:

«Adesso vado... Io a morire, voi a vivere.

Cosa sia giusto, Dio solo lo sa».

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Dietro quella mano

C’è sempre una «mente raffinatissima» dietro una cassaforte

svuotata, un computer manomesso, una valigetta trafugata o un’agendarossa sparita. E dietro quella mente c’è sempre qualcuno che dà unordine. Di svuotare quella cassaforte, di manomettere quel computer, ditrafugare quella valigetta, di far sparire quell’agenda rossa. E poi diuccidere e di depistare, di omettere e di occultare. Chi si rifiuta muore.Come nel Cile di Pinochet o nell’Unione Sovietica di Stalin. 

In realtà, è dallo Sbarco degli americani in Sicilia che lo Stato è sceso

a patti con Cosa nostra. Uno sbarco previsto in un primo momento soload Anzio, nel Lazio, ma che vide un repentino cambio di strategia perché nella remota Sicilia qualcuno avrebbe potuto agevolarel’operazione attraverso apporti logistici e uomini fidati. E allora tutto fuanticipato. E allora da un carcere degli Stati Uniti Lucky Luciano  –  alsecolo Salvatore Lucanìa, boss di Lercara Friddi in provincia diPalermo  –   contattò Cosa nostra siciliana su input dei servizi segretistatunitensi, che evidentemente agirono in nome della ragion di Stato.

I boss di Villalba e di Mussomeli, don Calogero Vizzini e GencoRusso, da un giorno all’altro diventarono sindaci su nomina degliamericani, ed ecco che la mafia da quel momento diventò una cosa solacon la politica.

Certo, bisognava liberare l’Europa dall’esercito più sanguinar io della

Storia, ma da allora il legame tra Stato e mafia  –  esistente almeno dalsecolo precedente  –   è stato legittimato, fino a quando è degeneratodurante un altro conflitto: la Guerra Fredda tra il blocco dei Paesioccidentali e il blocco dei Paesi del comunismo sovietico.

Anche in questo caso  –   in un luogo strategico come la Sicilia  –   loStato ha «trattato» con la mafia, utilizzata come braccio armato e comemacchina elettorale per non consentire al Partito comunista italiano di

arrivare al governo mediante libere elezioni.

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Ma nel frattempo lo Stato non ha visto  –  o non ha voluto vedere –  letrasformazioni di Cosa nostra. Stavolta non erano personaggi tuttosommato paciosi come Calò Vizzini e Genco Russo a dettar legge.Stavolta c’erano i Riina e i Provenzano a comandare le s tragi. E lo

Stato ha continuato a «trattare» come se niente fosse. Basta leggere lerisultanze processuali che scaturiscono delle indagini su Capaci e su viaD’Amelio per comprendere. 

Man mano che scrivevo questo libro mi sono addentrato negli anfrattireconditi di un contesto politico che dallo «sbarco» ai giorni nostri hacaratterizzato questi decenni.

Tante volte  –   mentre leggevo le sentenze dei vari processi  –   hosentito risuonare nel mio cervello questa frase: «Ma in quale Statoviviamo?».

 Non solo per il patto scellerato col diavolo cui la politica si è prestata,ma per i grovigli sotterranei che hanno portato uomini delle istituzioni afar parte della P2, a tollerare i depistaggi nelle stragi di Stato, adagevolare addirittura la morte di Moro.

In nome dell’anticomunismo affaristi, faccendieri, intrallazzisti,mafiosi, hanno continuato la loro opera avvalendosi di un’impunità chele istituzioni hanno garantito per tanti decenni. E chi ha denunciato ilmisfatto è stato messo alla gogna. E se la gogna non ha funzionato cisono stati sistemi ben più convincenti. Non è un caso che in Sicilia  –  

oltre a magistrati, uomini politici, poliziotti e carabinieri  –   siano statiassassinati otto giornalisti, rei di essersi permessi di aver denunciatoquesto Stato a democrazia limitata. Ucciderne uno per educarne cento.Colpire l’epicentro per ristabilire gli equilibri. 

Il risultato terribile è che questa cultura dell’illegalità si è estesagradualmente a una «società civile» che ha smarrito il proprio sensoetico senza accorgersi dello sfaldamento dello Stato di diritto.

Sbaglia chi pensa che la gravissima crisi economica che ha colpito il

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nostro Paese sia causata solo dalla congiuntura internazionale.Addebitare la recessione esclusivamente a un «contagio» straniero vuoldire cercare alibi, vuol dire non voler capire che ci troviamo di fronte auna patologia della società che chiama in causa direttamente le nostre

coscienze.

L’immondizia nelle strade del Sud che arriva fino al primo piano, ladisoccupazione in netta crescita, le morti per malasanità, leorganizzazioni mafiose sbarcate al Nord, le scuole che cadono a pezzi, iComuni che non hanno il becco di un quattrino, i precari che fanno le barricate, il cemento che ha invaso il Paese, le opere inutili, le cattedrali

nel deserto, l’acqua che manca e tanto altro non sono il risultato di unacrisi internazionale, ma di una crisi di valori, il frutto del fallimento diuna politica espressa da noi, dunque il frutto della nostra cattivacoscienza.

Se è vero che la maturità di un popolo si misura attraverso ilconsenso elettorale, è anche vero che sull’Italia che esprime presidentidel Consiglio piduisti e collusi bisogna seriamente riflettere. È vero,

alcuni elettori sono stati inconsapevoli, ma molti altri no, sapevano e cihanno trascinati nel baratro. Per un posto di primario, per una materiaall’università, per un concorso truccato, per una invalidità fasulla, perun appalto, per una progettazione, per un certificato, per un assessorato, per un posto di sottogover no, per tre mesi alla Forestale... L’Italia si èridotta così. È un Paese che ha perso il senso del bene e del male. È unPaese talmente rinchiuso nel proprio egoismo che con questiatteggiamenti sprezzanti continua a oltraggiare i servitori dello Stato

che si sono fatti uccidere per difendere le regole democratiche.

La storia del generale dalla Chiesa è emblematica perché facomprendere che le dinamiche del potere non riguardano solo la mafiae la politica –  come spesso si dice semplificando  –  ma entità molto piùcomplesse collegate fra loro come in un sistema di vasi comunicanti. Eallora è meglio non farsi illusioni: fino a quando questo sistema durerà,l’Italia resterà un Paese a democrazia e a modernizzazione incompiuta. 

Come spiegare la levata di scudi contro Nando dalla Chiesa quando

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questi denunciò il sistema politico degli anni Ottanta ritenutomoralmente responsabile del delitto di suo padre, da parte diintellettuali che a rigor di logica avrebbero dovuto difenderlo?

E come spiegare il richiamo del Vaticano al cardinale Pappalardo perla famosa omelia pronunciata in occasione dei funerali di dalla Chiesa?

Un film che abbiamo visto troppe volte. Dopo l’assassinio di Moro,dopo l’assassinio di Fava, dopo le stragi Falcone e Borsellino.L’abbiamo visto talmente tante volte che non pensiamo più allecoincidenze.

«Chi non si ribella alle ingiustizie umane non è innocente», dicevaFava.

Se questo Paese si indigna solo per la strage eclatante e poi, passatigli effetti emotivi, riesce tranquillamente a votare per i mandanti moralidi quegli omicidi, vuol dire che non è un Paese innocente, anzi, vuol

dire che è un Paese profondamente malato.

 Non si può capire il caso dalla Chiesa se non si tiene presente il ruolodi Andreotti (a proposito: un giorno gli storici come lo definiranno? Il«Divo Giulio», «il garante della mafia», o molto, molto di più?),sempre assolto ma considerato il «punto di snodo» di un sistema perverso che ha compiuto delle nefandezze inimmaginabili, magarioccultate da un benessere superiore alle nostre reali possibilità, che ha

 prodotto uno dei debiti pubblici più alti del pianeta, e da certainformazione che ha avuto il compito di narcotizzare le coscienze, cosìcome previsto dal famoso «Piano di rinascita democratica» di LicioGelli. A distanza di molti anni dalla sua stesura, quel «Piano» va letto per capire l’attualità di certi slogan: «liberismo», «club», «magistratura politicizzata», «comunista», «Rai Tv», eccetera eccetera eccetera.

Andreotti certo, ma non solo lui. Craxi, Cossiga, Berlusconi,Dell’Utri e tutta la corte di mafiosi, di piduisti, di faccendieri, diimbroglioni, di imbecilli, di semplici ingenui che gli sono corsi dietro

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 per un privilegio.

Con questo libro ho voluto ringraziare un servitore dello Stato che ha

inteso la lotta alla mafia non solo come fatto di polizia, ma come fattoculturale. È stato il primo a dirci che ognuno di noi, nel proprio ambito, può far qualcosa. Intanto recuperando dal proprio vocabolario delle parole ormai desuete come etica, onestà, rispetto delle regole e sensodello Stato. E poi dicendoci che si vince se rifiutiamo ogni forma dicompromesso e di raccomandazione, senza schierarci col forte, ma colgiusto. Non sempre è facile, ma forse è un modo per stare bene con la propria coscienza, e forse per essere felici.

Poi lo hanno ucciso. Da quel momento niente è stato più come prima.Il cammino di riscossa è iniziato da quella sera. Incerto, lento e irto diostacoli, ma è iniziato, dura ancor oggi e durerà ancora, malgrado ilsangue e il fango che è scorso a fiumi nelle strade di questo martoriatoPaese.

Il professor Nando dalla Chiesa, figlio del generale ucciso in viaCarini, è docente universitario di Sociologia, ha sessantadue anni e datrentacinque è impegnato in una battaglia contro Cosa nostra. Una battaglia etica e culturale combattuta sempre in nome della verità.

È un «volteriano» nel senso puro della parola, uno studioso che mettela ragione al centro di tutte le cose. Compassato, riflessivo e schivo,quando si toccano certi argomenti si indigna, il suo eloquio diventa

appassionato perché, come dice lui stesso, «da trent’anni sono costrettoa ristabilire certe verità sulla figura di mio padre». Per quale ragione?Certa letteratura è portata a collegare questo assassinio con la morte diAldo Moro, «cercando di far passare il messaggio che mio padre fosseuna sorta di ricattatore». Pietra dello scandalo: il Memoriale di Mororinvenuto dagli uomini di dalla Chiesa in via Montenevoso cinque mesidopo la morte dell’ex presidente democristiano. Un documentoscottante nel quale si parla di argomenti allora segretissimi come il

ruolo della Cia, di Gladio e di Giulio Andreotti nella politica italiana, dicui l’ufficiale, secondo qualcuno, avrebbe trattenuto delle pagine.Accuse infamanti nei confronti di un servitore dello Stato già scampato

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due volte a un progetto di morte (nel ’74 e nel ’79) e trucidato in quelmodo orrendo con la moglie e con l’agente di scorta, specie se questeaccuse non sono provate.

E allora? «E allora», dice Nando, «è da quella sera in via Carini checercano di portare avanti un disegno attraverso vari modi: l’iscrizionealla P2, le carte di Moro... Dopo la morte di mio padre una giornalistade “Il Sabato”, Maria Antonietta Calabrò, mi disse: “Lo voglionodiffamare perché lo vogliono fare passare come un ricattatore”. Eravero. Da lì è partita una letteratura infinita contro di lui. Io non ci sto».

Ecco perché ho ritenuto doveroso approfondire, anche attraverso latestimonianza del professor dalla Chiesa, gli aspetti più importanti diquesta storia. Non solo la sua, ma anche quella di autorevoli giuristi,giornalisti, studiosi e investigatori come Giuseppe Ayala, Gian CarloCaselli, Alfredo Galasso, Riccardo Orioles, Umberto Santino eFrancesco Accordino. I quali, a vario titolo, si sono occupati di questocaso.

 Non è la prima volta che mi trovo al cospetto di situazioni del genere.Senza volere entrare nel merito delle denunce del figlio del generale, diorrendi depistaggi è piena la storia italiana del dopoguerra. Più il delitto(o la strage) è eclatante, più il depistaggio è raffinato, anche se semprelascia tracce. Depistaggi che riguardano le indagini, e depistaggi molto più subdoli che riguardano la delegittimazione delle vittime. Per lasemplice ragione che attraverso la delegittimazione si ridimensiona ilmovente, o quanto meno si distoglie l’attenzione dell’opinione pubblicadal movente «politico», che potrebbe causare una perdita di consenso oaddirittura il crollo del sistema coinvolto in quell’assassinio. 

Ecco perché bisogna cogliere con rispetto l’indignazione di una persona solitamente mite come Nando dalla Chiesa. Perché èun’indignazione che esprime innanzitutto impotenza nel combattere unalotta contro un sistema invisibile. La stessa impotenza di altre persone

che hanno perso un congiunto in questa guerra infinita.

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Giornalisticamente ho cercato di non sposare alcuna tesi perché ildovere di un cronista, penso, sia quello di riportare alla luce, senzaalcuna censura, le testimonianze che ricostruiscono il contesto nel qualeun uomo straordinario come dalla Chiesa ha operato. Palermo certo, ma

anche Corleone, la lotta al terrorismo, la P2, l’isolamento all’internodell’Arma, il caso Moro, il caso Pecorelli, fino ad arrivare ai centogiorni che lo hanno portato alla morte. Ovviamente non per inseguire loscoop, ma per ricostruire i momenti più importanti della carriera delgenerale che coincidono con i misteri più inquietanti dell’Italiarepubblicana. E anche per fare «memoria».

In queste pagine quindi non potevano mancare alcuni aspetti (soloalcuni per ovvie ragioni di spazio) delle risultanze della commissioneP2 o della commissione Moro, del maxiprocesso o delle indagini palermitane su Andreotti, fino all’inchiesta di Perugia sul delitto diPecorelli, non foss’altro perché Tommaso Buscetta ha dichiarato che«la storia di Pecorelli si intreccia con la storia di dalla Chiesa». Il problema è capire «come» e «perché» tutto questo è successo. E cercaredi dare una interpretazione quanto più onesta possibile dei fatti

accaduti.

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Sbornia da Mundial

Eravamo troppo ubriachi della vittoria del «Mundial» per capire cosa

stava succedendo. Tutto appariva sbiadito, surreale, perfino i mortiammazzati e i casi di «lupara bianca» di cui si era perso il conto.C’erano i gol di Pablito e la Coppa del mondo che dopo quarantaquattroanni riportavamo in Italia. Il resto non contava, non c’era. Contavaquella felicità inaspettata che si riversava nelle strade e nelle piazze,quell’ebbrezza irrefrenabile che coinvolgeva un’Italia intera che adesso,dopo avere sconfitto il terrorismo, aveva voglia di «sballarsi» con la Nazionale di calcio.

Una sottile aria sudamericana si respirava a Palermo, i vicolidisperati, la polvere che si alza ad ogni colpo di vento, gli acquitrini chesi formano sul basalto sconnesso, l’odore inconfondibile del ventredella città, i quartieri emarginati dello Zen e del Cep, i ragazzini che adodici anni spacciano, a sedici fanno la prima rapina, a diciotto il primoomicidio; le scuole con i doppi e i tripli turni, i palazzi del centrostorico sventrati dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale, le

casupole dell’Alber gheria dove si vive in quindici e dove al calar dellasera si tirano giù i materassi e si dorme per terra, i mercati dellaVucciria e del Capo con il pesce «vivo vivo» e i quarti di vitellosanguinanti, i venditori di stigghiole e di pane ’cca mèusa, le ca taste diangurie agli angoli delle strade e gli uomini con le pance enormi e lecollane d’oro massiccio... E poi, svoltato l’angolo, la cattedrale Normanna, il Teatro Massimo, il Politeama, San Giovanni degliEremiti, la Cappella Palatina, Palazzo dei Normanni, via Libertà, le

 palazzine liberty, il parco della Favorita. Lo squallore e lo splendore nelgiro di pochi metri.

 No, non è il clima del dopoguerra, di quando eravamo poveri mavolevamo rinascere, adesso che avevamo vinto la guerra con le Brigaterosse ci mancava la voglia di ricostruire, un urlo di Tardelli e via,eravamo l’Italia «da bere». 

E invece alle 21:10 del 3 settembre 1982 accade qualcosa cheimprovvisamente ci fa sbalzare, ci fa uscire da quell’ubriacatura. 

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Una raffica di kalashnikov massacra l’uomo che lo Stato ha mandatoin Sicilia per sconfiggere la mafia, il generale Carlo Alberto dallaChiesa, che quella sera, in via Isidoro Carini, è a bordo della A112guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, preceduta dall’autodell’agente di scorta Domenico Russo. Muoiono tutti. È una strage.

Da cento giorni l’uomo-simbolo della vittoria al terrorismo  –  con unincredibile numero di riconoscimenti e di decorazioni: Croce d’oro peranzianità di servizio, medaglia d’oro di lungo comando, distintivo diferita in servizio, medaglia d’argento al Valor Militare, medaglia di

 bronzo al Valor Civile, trentotto encomi solenni e tanto altro  –   è prefetto di Palermo, nominato dal governo Spadolini per combattereCosa nostra: una decisione che sembra presa non tanto per fare la lottaalla mafia, quanto per placare un’opinione pubblica che ad aprile avevacominciato ad aprire gli occhi con l’omicidio del leader del Pci sicilianoPio La Torre.

Un prefetto spedito nella città più mafiosa del mondo per fare una

guerra, come dice lui stesso, «con gli stessi poteri del prefetto di Forlì»,contro un esercito che ha lo stesso bilancio di un anno dello Statoitaliano, quello stesso Stato che non ha mai voluto combattereseriamente la mafia, perché in fondo, mafia e Stato hanno sempre fattola guerra per poi fare la pace, lasciando sul campo centinaia di servitoridelle istituzioni democratiche.

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La guerra di Palermo

Allora era difficile capire, tutto stava cambiando velocemente.

Il primo segnale arriva un anno prima con la scoperta degli elenchidella P2, una loggia massonica segreta alla quale risultano iscritti unmigliaio fra uomini politici, imprenditori, mafiosi, alti burocrati,generali dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e funzionari dellaPolizia di Stato. La cultura della raccomandazione, dell’intrallazzo edell’eversione eretta a sistema. 

Anche all’interno della mafia, dalla fine degli anni Settanta, stannocambiando tante cose.

«Era un’Italia che voleva uscire dai funerali, dai lutti, dalle violenzedel terrorismo», dice Nando dalla Chiesa. «A Palermo fino all’82 c’èuna teoria di morti eccellenti che rappresentano lo Stato e che siconcentrano nel capoluogo siciliano, una specie di zona periferica del

Paese dove la mafia c’è sempre stata, dove si diceva che persconfiggerla bisognava mandare dei magistrati non siciliani, perché isiciliani non erano affidabili, e invece c’è stata un’ecatombe dimagistrati siciliani. Credo che quella incapacità di comprendere ledinamiche di ciò che avveniva in Sicilia sia stata decisiva per la futuraespansione del fenomeno mafioso».

Per alcuni anni i «perdenti» capeggiati da Stefano Bontate e da

Gaetano Badalamenti da un lato, e i Corleonesi capeggiati da TotòRiina e da Bernardo Provenzano dall’altro, combattono una «guerrafredda» all’interno della stessa organizzazione, finalizzata allasupremazia del controllo delle attività illecite. Per un certo periodo sitollerano senza farsi la guerra vera.

Il traffico di droga intanto registra uno sviluppo senza precedenti:Cosa nostra ha il monopolio in tutto il mondo. I facili guadagni fannosaltare regole, codici, leggi non scritte.

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Dalla fine degli anni Settanta, Cosa nostra –  perfino quella capeggiatada Bontate  –  alza il tiro sulle istituzioni. Un fatto senza precedenti, omeglio, con qualche isolato precedente: il rapimento e l’uccisione delgiornalista Mauro De Mauro (1970) e l’omicidio del procuratore di

Palermo Pietro Scaglione (1971).

Adesso nella mattanza  –  cosa inusuale fino a pochi anni prima  –  cifiniscono politici, giudici, giornalisti, poliziotti, carabinieri e medicilegali.

Basta scorrere l’elenco dei morti eccellenti di quegli anni per

comprendere che non c’è solamente il piano di eliminazione di personaggi che ostacolano gli interessi di Cosa nostra. Adesso c’è unattacco strategico alle istituzioni democratiche, un piano «politico».

A imporre la nuova strategia sono i «vincenti». Bontate eBadalamenti si adeguano facendo i loro morti eccellenti, ma alla lunganon reggono il passo dei Corleonesi.

 Nel 1977 viene ucciso il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo,ottimo investigatore in buoni rapporti con Badalamenti.

 Nel ’78 muore assassinato il giornalista Giuseppe Impastato, leaderdi Democrazia proletaria di Cinisi, che denuncia Badalamenti daimicrofoni di «Radio Aut».

Poco dopo è la volta del mafioso di Riesi Giuseppe Di Cristina,legato a Bontate e alla massoneria internazionale, coinvoltonell’attentato all’ex presidente dell’Eni Enrico Mattei. 

 Nel ’79 cadono il cronista di giudiziaria del «Giornale di Sicilia»Mario Francese, il segretario provinciale della Democrazia cristianaMichele Reina, il vice questore Boris Giuliano, capo della Squadra

mobile di Palermo; il giudice Cesare Terranova e il maresciallo diPubblica sicurezza Lenin Mancuso.

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 Nell’80 il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, ilcapitano Emanuele Basile, comandante della Compagnia deiCarabinieri di Monreale, e il procuratore della Repubblica di PalermoGaetano Costa.

È un bagno di sangue senza precedenti che fa da preludio alla guerratra i «perdenti» e i «vincenti». Che inizia ufficialmente il 23 aprile 1981con l’uccisione dell’indiscusso capo di Cosa nostra, Stefano Bontate. 

Pochi mesi dopo viene abbattuto anche Salvatore Inzerillo. TanoBadalamenti viene espulso da Cosa nostra per ordine di Riina, capiscel’antifona e ripara in Brasile, quindi in Spagna. Viene condannato da untribunale americano a quarantacinque anni di carcere per traffico distupefacenti (la cosiddetta «Pizza connection») e trascorre il resto deisuoi giorni in un carcere degli Stati Uniti. Dove nel frattempo subisceun’altra condanna a trent’anni per il delitto di Peppino Impastato. 

I Corleonesi diventano i padroni del campo. Hanno tutti i difetti dei«perdenti», senza possedere la capacità di mediazione con la politica(con la quale, comunque, continuano a trattare): sono più sanguinari, più volgari, più spicci. Vanno dritti al sodo, la droga, gli appalti, ilriciclaggio del danaro sporco. Quando qualche magistrato si mette ditraverso fanno le stragi, tante stragi, in Sicilia e in Continente.

«Il tutto», scrivono i giudici, «con una tracotanza e una sicumera pari

soltanto all’assoluta incapacità mostrata dallo Stato di individuare gliautori degli omicidi».

«Dietro le sbarre», afferma Alfredo Galasso, legale di parte civiledella famiglia dalla Chiesa, «Luciano Liggio si muoveva come un caporiconosciuto: i suoi diretti collaboratori, i suoi sodali Riina eProvenzano avevano ottenuto sul campo militare un successo neiconfronti di Bontate, di Inzerillo e della vecchia mafia, e lui agiva comeun padrone».

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Un quindicennio  –   quello che va dal ’77 al ’92-93  –   in cui Cosanostra mostra il suo volto eversivo perché uccide i capisaldi di unsistema basato sulla legalità e su una politica nuova.

All’inizio degli anni Ottanta lo dimostrano soprattutto due delitti. Nelgiro di un anno la mafia elimina gli esponenti più autorevoli di questanuova politica in Sicilia: Piersanti Mattarella e Pio La Torre, il primodemocristiano, il secondo comunista.

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Mattarella e Andreotti

Secondo i giudici del processo Andreotti, «verso la fine di ottobre del

1979 Piersanti Mattarella –  insistendo nella sua linea politica che lo haormai contrapposto agli interessi di Cosa nostra e dei suoi referenti politici  –   ha un incontro con Virginio Rognoni (allora ministrodell’Interno) per manifestargli le sue gravi preoccupazioni. Alladottoressa Maria Grazia Trizzino, suo capo di Gabinetto, riferisce: “Sedovesse succedere qualcosa di molto grave per la mia persona, siricordi questo incontro con il ministro Rognoni, perché a questoincontro è da ricollegare quanto di grave mi potrà accadere”»1. 

Il 6 gennaio 1980 Mattarella viene ucciso. Piersanti non è un politicoqualunque. È un democristiano anomalo. Pur provenendo da uncontesto discusso come quello del padre Bernardo (potente uomo politico più volte coinvolto in inchieste su mafia e politica), rompe conquel sistema intestandosi una battaglia per la moralizzazione dellaclasse dirigente. Per portare avanti il suo disegno punta sullatrasparenza degli appalti, ma tutto, secondo lui, deve passare dal

rinnovamento della politica. E il rinnovamento non può prescinderedalla rottura dei vecchi schemi. Mattarella pensa di coinvolgere nelgoverno della Regione la parte migliore del Partito comunista,lasciando fuori gli ascari di Lima e di Ciancimino.

È il sogno vagheggiato da Aldo Moro, il sogno del «Compromessostorico» fra il partito cattolico depurato dalla presenza mafiosa e il partito comunista che ha preso le distanze da Mosca. Un sogno che si

infrange il giorno dell’Epifania dell’80 in viale della Regione Sicilianasotto i colpi di due killer che massacrano Mattarella davanti alla mogliee ai due figli, mentre la famiglia si sta recando a messa.

«Fino al 1980, Giulio Andreotti ha scambiato favori con mafiosi e haincontrato mafiosi come Stefano Bontate e altri della stessa levaturacriminale, discutendo con loro di fatti criminali gravissimi, ruotanti

intorno all’omicidio di Piersanti Mattarella, senza mai creare neimafiosi che incontrava il timore che avrebbe denunziato quello chesapeva, rafforzando così l’organizzazione criminale e commettendo il

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delitto di partecipazione all’associazione a delinquere Cosa nostra finoal 1980». Questo il commento del procuratore della Repubblica diTorino, Gian Carlo Caselli, già capo della Procura palermitana che hamesso sotto processo Giulio Andreotti.

Secondo la sentenza del Tribunale di Palermo, dunque, dietrol’omicidio di Piersanti Mattarella non c’è soltanto Cosa nostra, ma la  politica «alta» incarnata dal sette volte presidente del Consiglio GiulioAndreotti e da un sistema formato dall’eurodeputato palermitano SalvoLima (accusato di essere organico alle cosche, ma mai sfiorato da unacondanna) e dai cugini mafiosi Nino e Ignazio Salvo, «re» delle

esattorie siciliane per via di una concessione governativa che consenteloro di riscuotere le tasse degli isolani a un aggio superiore rispetto aglialtri italiani.

Scrivono i giudici di Palermo: «Pochi mesi dopo, Andreotti ritorna inSicilia e, in una villetta alla periferia di Palermo, incontra Bontate,Lima e i cugini Salvo. Andreotti protesta per l’omicidio ma, quandoBontate lo minaccia di ritirare il sostegno elettorale di Cosa nostra alla

sua corrente politica, accetta la situazione»2.

Per capire il contesto politico di quel periodo è importante seguire il percorso successivo di Andreotti attraverso la sentenza emessa sia in primo grado che in appello dal Tribunale di Palermo: «Altrettanto provati sono i rapporti di Andreotti con Salvo Lima, il discusso leaderdella corrente andreottiana in Sicilia, e Vito Ciancimino, l’ex sindacodemocristiano di Palermo condannato in via definitiva per mafia».

La sentenza della Cassazione, che accoglie integralmente leconclusioni dei giudici di primo e di secondo grado, ritiene accertato«che il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoireferenti siciliani (Lima, i Salvo, Ciancimino) intrattenevanoamichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che egli aveva quindi, asua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss». E poi:

«Che aveva palesato ai medesimi una disponibilità non necessariamenteseguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; che aveva lorochiesto favori; che li aveva incontrati; che aveva interagito con essi e

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che aveva omesso di denunciare le loro responsabilità».

È almeno fino al 1985 che vengono dimostrati gli incontri fra l’ex

 presidente del Consiglio e gli esponenti di Cosa nostra, ma è fino al1980 che viene documentata l’«organicità» fra il «Divo Giulio» e lecosche mafiose. Questo secondo la verità giudiziaria.

Secondo la verità storica, per altri anni gli andreottiani continuanotranquillamente a intessere i loro rapporti con la mafia. Fino al delitto diSalvo Lima (1992). Che secondo i magistrati rappresenta una«punizione» per l’eurodeputato, e un «monito» per Andreotti per non

aver garantito l’impunità in Cassazione promessa ai boss condannati almaxiprocesso.

Dunque se è stato dimostrato con prove concrete il coinvolgimentodella politica nel delitto Mattarella, lo stesso non possiamo dire per ildelitto dalla Chiesa. Perché?

«Io non parlo di responsabilità che non siano processualmenteaccertate», dice Caselli. «Però mafia è uguale a intreccio perversoanche con pezzi della politica. Che ci fossero pezzi della politica chevedevano il generale dalla Chiesa come il fumo negli occhi per la suaazione antimafia è una cosa storicamente incontestabile. Purtroppo nonè facile dare nomi, cognomi e indirizzi a tutto questo, e quindi non èfacile trovare delle responsabilità penali, che sono individuali. La terra bruciata fatta attorno a dalla Chiesa, il preannunzio quasi ossessivo di

un attentato contro di lui, senza che nessuno facesse qualcosa perdifenderlo adeguatamente, o a sostenerlo, è Storia».

 Nando dalla Chiesa: «Era una Sicilia infognata nella mafia. UnaSicilia che viveva sotto una spaventosa coltre di mafiosità e di ipocrisia.La Dc era totalmente permeata e infiltrata da Lima, da Ciancimino,dagli andreottiani, e non solo. Il Psi era totalmente penetrato dallamafia».

Guerra senza tregua, quindi, alle Brigate rosse fino all’annientamento

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dell’ultima cellula, ma non parliamo di Cosa nostra. La vulgata deltempo è questa, chi si azzarda a pronunciare la parola mafia è out.

C’è tuttavia un ulteriore elemento per capire meglio il contesto politico di quegli anni.

«Andreotti, complessivamente, ha avuto un ruolo positivo nella storiad’Italia», dice Riccardo Orioles, giornalista de «I Siciliani». «Hacondotto una politica atlantica non neutralista, ma neanche oltranzista.Possiamo parlare non bene ma comunque senza molto astio diAndreotti a Milano o a Roma. Ma se scendiamo a Palermo dobbiamo

dire che ha contribuito alla morte di centinaia di siciliani. Non perchéabbia dato gli ordini, ma perché ha accettato come interlocutori coloroche materialmente li assassinavano». Perché? «Perché la Sicilia è quella parte periferica della Nazione che va tenuta a bada, alleandosi con chila domina in quel momento, forze che siano in grado di portare voti e diuccidere gli antimafiosi».

La Sicilia come luogo strategico per mantenere certi equilibri? «Se ilPartito comunista in Sicilia», seguita Orioles, «avesse ottenuto levittorie che ha ottenuto in Emilia, l’Italia intera avrebbe svoltato aSinistra. Questa strategia di cedere il territorio siciliano in cambio delcontrollo dello stesso è sempre stata attuata da tutti, compresoAndreotti».

Ma a un certo punto cambiano i parametri, le dimensioni, quelli che

erano dei boss tutto sommato locali diventano miliardari con il trafficodi eroina, i rapporti di forza improvvisamente si spostano.

«A tirare le fila», spiega il giornalista, «sono gli Stati Uniti. Quelloche era un avamposto da difendere, improvvisamente diventa un’isolain un mare di guai. Dal punto di vista delle alleanze con gli Usa crolla ilPortogallo, crolla la Spagna, crolla la Grecia. Il capo della Marinasovietica costruisce una flotta oceanica per conto dell’Unione Sovietica,

una potente flotta nemica che comincia a varcare gli oceani. Il governoamericano decide di fare quel che ha fatto quando sbarcò in Sicilia per

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liberare l’Italia dai nazisti: usare Cosa nostra, quella giovane e moderna(in questo caso i Corleonesi e i Catanesi), e di usare la massoneria. Si prendono le cosche, si armano, si distruggono i nemici, per esempioBontate, si prende una sciocca loggia massonica come la P2,

un’accolita di ammiragli in pensione e di professori rimbambiti, la siinfiltra con uomini attivi e vigili, e la si mette in una funzione di puntadi lancio. Dei 960 nomi ufficiali della P2, nel primo gruppo troviamomassoni regolari e un po’ coglioni; nel secondo giovani ufficiali moltooperativi; nel terzo solo siciliani operanti in Sicilia, i quali spesso con lamassoneria non hanno mai avuto nulla a che fare. Penso ad esempio ai piduisti palermitani che vengono presentati da un cattolico come l’ex presidente della Regione Siciliana, l’andreottiano Mario D’Acquisto.

Che c’entra un democristiano e per giunta cattolico con la massoneria? Non solo c’entra, ma è tanto autorevole da raccomandare molta gente.Questo viene fuori dall’archivio di Gelli trovato a Montevideo, inUruguay».

Cosa avviene dentro Cosa nostra e dentro le strutture massoniche?«Una trasformazione», dice il fondatore de «I Siciliani». «Che

attribuisco fortemente a interventi esterni. Non sono interventi politici,sono veri e propri interventi militari, come si era fatto negli anniQuaranta».

A quel punto «l’organizzazione criminale diventa invincibile».Questo succede «quando trova “alleati” in alcuni gruppi politici, tutte levolte che vi sia una convergenza d’interessi che determina semprenuovi tentativi di condizionare la democrazia e di eliminare personaggi

scomodi per entrambi»3.

Ma cosa succede nel periodo in cui viene assassinato dalla Chiesa?

Il 1982 inizia con una notizia apparentemente banale: l’editore EdilioRusconi fonda «Italia 1», una televisione privata acquistata alcuni mesidopo da un giovanotto di belle speranze di nome Silvio Berlusconi,

tessera P2 in tasca, che proprio allora getta le basi per diventare il padrone dell’etere. 

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A marzo la Corte d’Appello di Brescia assolve gli imputati dellastrage di piazza della Loggia (8 morti, 103 feriti).

Sempre a marzo la tensione tra l’America di Reagan e la Libiafilosovietica di Gheddafi tocca il culmine con le sanzioni economichenei confronti di Tripoli.

 Nei cinema gli Usa mostrano i muscoli con le saghe dei Rambo e deiRocky, ma l’Urss risponde con frasi del tipo «ti spiezzo in due». Unaguerra di bicipiti giocata in nome della Guerra Fredda.

Già, la Guerra Fredda... Le prove generali si svolgono tra gli ulivi diComiso, nella Sicilia profonda e contadina del ragusano. Lì l’Americaha impiantato la base missilistica più potente del Mediterraneo, missiliCruise puntati verso l’Urss, un bottone e la guerra atomica non sarebbesolo un terribile incubo dei pacifisti. È in quel pezzetto dell’Orientesiciliano che si gioca una partita fondamentale per il destino del

 pianeta.

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La Torre e Sindona

Il primo a intuire la posta in gioco a Comiso è Pio La Torre, un

deputato del Partito comunista italiano da poco eletto segretarioregionale in Sicilia. La Torre comprende che dalla strage di Portelladella Ginestra in poi  –   primo maggio 1947  –   la saldatura tra Cosanostra, neofascismo, servizi segreti e terrorismo di Destra è statadeterminante per consolidare equilibri e assetti della politica atlantica.L’alleanza non ha ancora assunto le caratteristiche di Stay behind, maLa Torre capisce che Gladio è la rete clandestina della Nato destinata acontrastare l’influenza sovietica nei Paesi dell’Europa occidentale. E

capisce anche il ruolo perverso delle banche  –  specie in Sicilia, dove inquel periodo proliferano come funghi –  nel riciclaggio delle narco-lire.

Pio La Torre viene assassinato il 30 aprile 1982 a Palermo, mentre sitrova in macchina, assieme al suo autista Rosario Di Salvo.

È un periodo in cui in Italia, in Sicilia e negli Stati Uniti succedeveramente di tutto.

 Negli Usa Michele Sindona ricicla il denaro sporco per conto di Cosanostra, viene in Sicilia e, con l’aiuto di alcuni mafiosi iscritti allamassoneria e alla P2, finge uno strano rapimento.

Il 30 maggio 1981, Pio La Torre nel corso di Tribuna politicadenuncia: «Perché sottovalutare la spaventosa coincidenza fra la

 presenza di Michele Sindona a Palermo e l’esecuzione mafiosa delgiudice Cesare Terranova? Ma le indagini si sono spinte fino a questolivello? Hanno puntato così in alto?».

Sindona in Italia può contare sulla protezione di Giulio Andreotti.Finanzia con colossali somme la Dc, soltanto due miliardi di lire liversa per la campagna sul referendum per il divorzio.

Il sette volte presidente del Consiglio (e trentanove volte ministro)

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interviene per evitare al bancarottiere di Patti l’estradizione nel nostroPaese, dopo una serie di mandati di cattura emessi dalla magistraturaitaliana; telefona a politici di primo piano e segretari di Statostatunitensi per ritardare certe incriminazioni. Vede diverse volte

l’avvocato di Sindona e gli assicura la più ampia disponibilità percoprire il suo cliente. Si incontra negli Usa con lo stesso Sindonamentre questi è latitante, malgrado il parere negativo dell’ambasciatorestatunitense in Italia. È consapevole dei rapporti fra Sindona, la mafia ela P2, ma va avanti lo stesso.

«Sindona», scrivono i magistrati, «affida la sua reazione non a

strumenti legali, ma a iniziative criminali, che si estrinsecano nelle pressioni rivolte nei confronti del liquidatore del Banco Ambrosiano,Giorgio Ambrosoli». A minacciare Ambrosoli è Giacomo Vitale(massone e cognato di Stefano Bontate), il quale «fa presente alliquidatore che Andreotti ha attribuito a lui tutta la responsabilità dellamancata conclusione della vicenda Sindona».

Il 4 luglio 1979 Giorgio Ambrosoli viene ucciso dal killer William

Joseph Aricò, assoldato da Sindona. È «colpevole» di aver fatto lucesugli inquietanti intrecci che si svolgono all’interno del BancoAmbrosiano.

A Londra il 17 giugno 1982, sotto il Ponte dei Frati Neri, vieneassassinato il presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, piduista,amico stretto di Gelli, di Sindona e del presidente dello Ior, PaulMarcinkus.

 Nel 1976 «Andreotti incontra gli emissari di Sindona, Paul Rao ePhilip Guarino, personaggi affiliati alla massoneria internazionale, suiquali vi sono informazioni negative da parte dell’ambasciatore italianoGaia, comunicate al ministero degli Esteri e al Quirinale. Si mostra inottimi rapporti con i due [...]. A quel tempo Sindona è già latitante,oggetto di estradizione per reati molto gravi, eppure i suoi emissari [...]

vengono ricevuti affettuosamente dal presidente del Consiglio deiministri»1.

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Tutto questo non avviene per caso.

Per comprendere questi fatti è necessario guardare la realtà nel suocomplesso, pensando a Palermo non come a una città staccata dal restod’Italia, ma come un luogo dove esiste il braccio armato di un sistema perverso che ha il cervello a Roma e a Washington, a New York e aMilano.

Una Piovra i cui tentacoli da qualche anno si sono allungati anche suCatania, la città più ricca e industriale della Sicilia.

 Nel capoluogo etneo operano i quattro imprenditori più potenti dellaSicilia, diventati Cavalieri del lavoro su nomina del Presidente dellaRepubblica: migliaia di persone alle loro dipendenze, appalti in tutto ilmondo, rapporti con l’alta politica nazionale, ma anche conl’immancabile Licio Gelli e col più importante boss della città. 

Loro, i Cavalieri, si chiamano Carmelo Costanzo, Mario Rendo,Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro. Il boss si chiama Benedetto«Nitto» Santapaola.

Il quale non è un boss da niente. È colui che alla fine degli anniSettanta uccide il capomafia catanese Giuseppe Calderone, di cui prende le redini, alleandosi con i Corleonesi.

Calderone è colui che  –   secondo le rivelazioni di Buscetta e lerisultanze di numerosi atti processuali –  auspici i servizi segreti francesie americani, assieme alla mafia di Giuseppe Di Cristina, e allamassoneria, nel 1962 avrebbe sabotato l’aereo del presidente dell’EniEnrico Mattei all’aeroporto di Catania: il velivolo esploderà in volo poco prima che atterri all’aeroporto di Milano. Non un boss qualsiasi,ma un rappresentante di Cosa nostra in grado di dialogare con i poteri

di tutto il mondo.

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Se Santapaola lo uccide evidentemente dispone delle giuste protezioni. All’inaugurazione dei suoi autosaloni, le autorità catanesi –  a cominciare dal prefetto Abbatelli  –   fanno a gara per partecipare altaglio del nastro. Per fare un esempio della potenza di Santapaola, basti

dire che durante la latitanza si muove da un luogo all’altro scortato daicarabinieri.

Catania non è più la città «babba» e ironica di qualche anno prima.Anch’essa ha subìto una mutazione antropologica di dimensioniepocali.

La politica locale si muove in sintonia con Cosa nostra e con iCavalieri, gli intellettuali sono ancora fermi agli anni Cinquanta e nonsi avvedono della presenza della mafia in città. L’unico a denunciareCosa nostra è Giuseppe Fava, prima col «Giornale del Sud», poi con «ISiciliani». Ma questo lo vedremo dopo.

Quei colpi di pistola che uccidono La Torre creano un corto circuitonell’indifferenza degli italiani. Il Paese comincia a prendere coscienzache il fenomeno mafioso è un problema nazionale. Poi vinciamo iMondiali e tutto torna come prima, ma per poco, per tre mesi appena.Dopo inizia qualcosa di nuovo. E inizia proprio con l’omicidio dallaChiesa.

Fino alla fine degli anni Settanta, La Torre per gli italiani non è un politico famoso. Le sue battaglie per le terre ai contadini e per

l’occupazione degli operai dei Cantieri navali di Palermo, le conosconoin pochi.

È all’inizio del nuovo decennio che il leader del Pci siciliano si poneall’attenzione dell’opinione pubblica per le  sue posizioni intransigentisull’installazione dei missili Cruise. Una battaglia per la quale raccoglieoltre un milione di firme. La Torre è il principale protagonista delmovimento pacifista europeo che all’inizio degli anni Ottanta occupa la

Piana di Comiso, spesso caricato dalla polizia.

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Ecco perché il suo delitto suscita clamore, specie se si pensa che poco prima La Torre è stato l’autore del disegno di legge sulla confisca dei beni ai mafiosi e sulle indagini bancarie, approvato dal Parlamento solodopo la morte di dalla Chiesa.

Soltanto oggi, leggendo i suoi appunti, si comprende come l’exleader siciliano del Pci si ponesse in una posizione d’avanguardiarispetto a una politica stantia, vecchia, costretta per salvare se stessa perfino a negare l’esistenza di Cosa nostra.

La mafia –  dice La Torre –  non è solo quella che uccide e che chiede

il «pizzo». Esistono variegate e complesse entità che coesistono einteragiscono con essa.

 Nella Sinistra italiana  –   seppur con diverse contraddizioni  –   moltecose stanno cambiando. Da alcuni anni Enrico Berlinguer ha avviato lo«strappo» con Mosca, parla apertamente di «Eurocomunismo», nell’81critica aspramente l’invasione dell’Afghanistan da  parte delle truppesovietiche, dicendo che «la forza propulsiva della Rivoluzioned’ottobre» si è esaurita. E nove mesi prima dell’uccisione di La Torrerilascia una clamorosa intervista al direttore de «la Repubblica»Eugenio Scalfari sulla «questione morale». Dichiara: «I partiti di oggisono soprattutto macchine di potere e di clientela». Mai nessun leader politico –  sia di maggioranza sia di opposizione –  si è spinto a tanto.

Ecco perché l’omicidio La Torre –   al contrario dei numerosi delitti

eccellenti commessi precedentemente a Palermo –  indigna una parte del popolo italiano. Il potere si preoccupa e corre ai ripari. Per la primavolta la politica comprende che è necessario uno shock. Per tacitaretutti. Occorre una figura di grande prestigio da mandare nel capoluogosiciliano.

 Nella stessa giornata in cui viene ucciso La Torre, il governo affrettauna decisione presa alcune settimane prima: inviare in Sicilia  –  con la

carica di prefetto di Palermo  –   l’eroe della guerra al terrorismo, ilgenerale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, colui che pochi

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anni prima ha sconfitto le Br.

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A Corleone contro Liggio

Ma facciamo un passo indietro di oltre trent’anni, e riportiamoci

all’inizio della sua carriera. 

«Di Carlo Alberto dalla Chiesa ho un ricordo vivissimo fin dai tempiin cui, giovane capitano, svolgeva servizio a Corleone».

Alfredo Galasso, legale di parte civile al maxiprocesso per contodella famiglia dalla Chiesa, ricorda i primi anni dell’ufficiale in Sicilia. 

«A Corleone si occupò soprattutto del delitto di Placido Rizzotto, unomicidio particolarmente efferato compiuto da Luciano Liggio.Rizzotto fu ucciso e fatto scomparire nel dirupo di Rocca Busambra».

Sono gli anni in cui la mafia opera nelle campagne della Siciliaoccidentale, dove mafiosi e gabelloti stringono patti con i proprietari diquegli immensi feudi, per lo più aristocratici, per proteggere le terre

dalle occupazioni dei braccianti ridotti al rango di servitori della gleba,i quali chiedono una riforma agraria che preveda una equa ripartizionedel latifondo.

Questa la Corleone conosciuta da dalla Chiesa in quegli anni: «Lastragrande maggioranza delle popolazioni che abitano l’intero territorioè, da sempre, dedita all’agricoltura e alla pastorizia; fino a non molti

anni orsono, mentre le piazze di buon mattino rigurgitavano di un bracciantato che si offriva per ben poco all’intraprendente mezzadro oal più spregiudicato gabelloto, altri, tanti altri, già alle 3, alle 4 delmattino, a dorso di mulo, erano in viaggio per piccoli lotti sassosi difeudi lontanissimi; e ivi finivano per giungere  –  con le energie fiaccateda 15-20 chilometri di “trazzera” –   uomini non tutelati che da una pagliera infracidita dal tempo, e anelanti a ripartire nel primissimo pomeriggio  –   con il loro carico di attrezzi rudimentali e d’erba –   perrestituirsi sfiniti in agglomerati raccolti, a mo’ di istintiva difesa,intorno alla parte più alta del centro urbano»1.

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Sono anni di scontri durissimi fra latifondisti e mafiosi da un lato, esindacalisti, capi lega, responsabili di Camere del lavoro, e bracciantiagricoli dall’altro. Anni di attentati dinamitardi e di intimidazioni. Diomicidi soprattutto. Cosa nostra in quegli anni uccide centinaia di

oppositori sia nel palermitano che nel trapanese e nell’agrigentino.

La dimostrazione più violenta si verifica il primo maggio 1947 aPortella della Ginestra, a opera della mafia e della banda Giuliano  –  coadiuvate, secondo le recenti inchieste condotte dallo storico GiuseppeCasarrubbea, da agenti della Decima Mas e dei servizi segreti americani –   mentre i contadini stanno celebrando la Festa del lavoro. Dalle

montagne circostanti i killer sparano sulla folla uccidendo ufficialmenteundici persone e ferendone ventisette, anche se in seguito i mortiaumenteranno di numero. È la prima strage dell’Italia repubblicana. La prima dopo la vittoria elettorale conseguita dalle Sinistre del Blocco delPopolo alle elezioni regionali del 20 aprile.

Carlo Alberto dalla Chiesa è consapevole che l’assassinio di PlacidoRizzotto sia inserito in questo contesto: Rizzotto è un giovane

sindacalista che si batte contro la mafia, rivendicando i diritti dei braccianti. È uno dei principali protagonisti del movimento contadinodell’immediato dopoguerra. Ex partigiano, accusa la «Primula rossa» diCorleone (come viene definito Luciano Liggio) di essere il capo diquella mafia che vessa i contadini, che spara sulla folla, che frena losviluppo.

«All’epoca ero un bambino», racconta Galasso, «vivevo con lafamiglia a Corleone, mio padre insegnava alla scuola media. Ricordoquesta figura di ufficiale sabaudo arrivato da poco, alto, ieratico, tuttod’un pezzo. Allora a Corleone i morti ammazzati erano una sorta dievento naturale. Andavi a scuola, ti sedevi e ti accorgevi che un giornomancava un compagno, un giorno un altro. Perché? La sera precedenteavevano ammazzato i loro padri. L’omicidio, per gli abitanti, era unevento naturale, come il terremoto del Belice o la moria degli animali. Non si pensava minimamente che si trattasse di un’o ppressione dei

diritti fondamentali».

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«Arrivai a Corleone nel 1949 e, sviluppando le indagini susettantaquattro omicidi che mi erano stati consegnati in eredità,affrontai anche quello del sindacalista Placido Rizzotto, scomparso daoltre due anni, che pareva destinato a rimanere a opera di ignoti. Nel

dicembre del ’49 denunziai per omicidio Liggio, Criscione e Colluraalla magistratura di Palermo. Furono assolti tutti per insufficienza di prove». Questo il racconto che dalla Chiesa fa ad Enzo Biagi in unaintervista televisiva alla Rai.

Dopo quel rapporto, dalla Chiesa viene trasferito al Nord. Forse non acaso. La sua vicenda ispira Leonardo Sciascia a scrivere Il giorno della

civetta, il celebre romanzo in cui Corleone diventa Partinico, il giovanecapitano dalla Chiesa, nato il 27 settembre 1920 a Saluzzo in provinciadi Cuneo ma originario di Parma, diventa il giovane capitano Bellodi,anch’egli, guarda caso, di Parma. 

Da poco tempo dalla Chiesa, figlio di un generale dei Carabinieri, si èarruolato nell’Arma. Proviene da San Benedetto del Tronto, nelleMarche, dove ha svolto servizio con i gradi di tenente. Negli anni della

Resistenza è stato partigiano. È stata un’esperienza preziosa. Sul pianomilitare una delle più importanti della sua vita: «Come ufficiale mitrovai alla testa di bande di patrioti e fui responsabile di intere popolazioni»2.

Un’esperienza che dalla Chiesa utilizzerà successivamente per leindagini più delicate, soprattutto nei servizi di intelligence, allorquandodeve infiltrare i suoi uomini all’interno delle Br. 

Ma perché un ragazzo degli anni Quaranta, un ragazzo come lui,decide di fare l’ufficiale dei Carabinieri? «Perché crede e perché ha bisogno di continuare a credere». E che qualità deve avere un ragazzoche intende entrare nell’Arma? «Certamente deve avere una carica dicontenuti tale da affrontare sacrifici e rinunzie, con la consapevolezzache tutto viene proiettato nella difesa dello Stato, delle istituzioni e di

quella stessa collettività da cui proviene»3.

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Stato, istituzioni e collettività. Tre parole alle quali dalla Chiesa crede profondamente. Del resto, vivendo fin da bambino nelle caserme, la suafilosofia è quella dei padri nobili dell’Arma, come Salvo D’Acquisto,fucilato dai nazisti per essersi messo dalla parte della popolazione

inerme durante la guerra partigiana.

Ma l’esperienza in Sicilia non è la prima. Poco dopo la guerra è statonell’isola per reprimere la banda Giuliano. Fa parte del Cfrb (Corpoforze di repressione banditismo), opera alle dirette dipendenze delcolonnello Ugo Luca, incaricato dal governo di catturare il bandito diMontelepre.

È sulle montagne di quel paesino palermitano che comincia aimpossessarsi dei segreti di Cosa nostra, a capire che «scoprire i capimafiosi non è difficile, in quanto i nomi sono sulle bocche di molti: basta seguirli da vicino attraverso i figli, attraverso i coniugi dei figli,attraverso le provenienze, e non attraverso le schede del ministerodell’Interno»4. 

«Dalla Chiesa», dice Alfredo Galasso, «era un alto esponente delloStato, anzi, un “servitore dello Stato”, che ha avuto il Bene pubblicocome stella polare della sua attività professionale e del suo impegnomorale, capace di reagire anche a momenti difficili, ad avversità che sitrovavano sul proprio cammino e che, come lui avrebbe dichiarato tantianni dopo, sarebbero venute dall’interno stesso dell’Arma deiCarabinieri, di cui lui era un fedelissimo rappresentante».

Sono anni di grande esperienza quelli trascorsi in Sicilia. Acquisiti igradi di maggiore, dalla Chiesa viene trasferito a Roma, quindi a Torinoe a Milano come tenente colonnello.

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Di nuovo in Sicilia

 Nel 1966  –   diventato colonnello  –   ecco dalla Chiesa di nuovo in

Sicilia, a comandare fino al 1973 la Legione di Palermo, che anni primaaveva comandato il suocero, il generale Fabbo.

Quella mafia contadina che negli anni Quaranta spadroneggiava nellecampagne del Corleonese nel frattempo ha spostato i suoi interessi incittà, a Palermo.

I nuovi referenti politici sono Salvo Lima e Vito Ciancimino,entrambi democristiani. Il primo f a l’assessore ai Lavori pubblici, ilsecondo il sindaco. Ma c’è anche il più volte ministro Giovanni Gioia(ovviamente democristiano) a dettar legge. Dalla Chiesa è il primoufficiale dei Carabinieri a fare i loro nomi. Sono nomi che a quel tempo –  tranne il giornale antimafia «L’Ora» –  nessuno osa bisbigliare.

È il tempo in cui un sindaco onesto della Democrazia cristiana,

Pasquale Almerico, primo cittadino di Camporeale (Palermo), denunciaal ministro Gioia e al segretario nazionale del suo partito, AmintoreFanfani, che la Dc del suo paese sta per passare nelle mani del bossVanni Sacco. «È urgente un vostro intervento». Nessuna risposta. Unasera a Camporeale manca la luce. Mentre il sindaco si sta recando acasa viene raggiunto da diverse scariche di lupara e muore. Da quelmomento Vanni Sacco diventa il padrone del paese.

I rapporti di dalla Chiesa vengono trasmessi alla commissione parlamentare antimafia, che li mette agli atti. E saranno utili alloscrittore Michele Pantaleone per ricostruire  –   attraverso un libro,Antimafia, occasione mancata  –   i legami fra la politica e i boss. Ilministro Gioia lo querela. Lo storico produce in tribunale i rapporti didalla Chiesa. L’ufficiale conferma. Il tribunale sentenzia: «Pantaleoneha ragione». I giornali scrivono: «Gioia è mafioso. Dirlo non costituiscereato».

All’inizio degli anni Sessanta il capoluogo siciliano è devastato da

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una violenta speculazione edilizia portata avanti da Cosa nostra e daquella parte della politica che la fiancheggia. In una notte il Comunerilascia seimila licenze edilizie per demolire bellissime palazzine libertye per edificare palazzi di quindici piani negli agrumeti della Conca

d’oro. Sono gli anni della prima guerra di mafia tra i Greco e i LaBarbera.

 Nel 1962 nella borgata di Ciaculli una Giulietta imbottita di tritolo,confezionata dalla mafia e destinata agli esponenti delle cosche rivali,viene aperta da una pattuglia di carabinieri e di militari dell’esercito, efa una strage. Muoiono in sei, il tenente Mario Malausa, i marescialli

Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare eMarino Fardelli (tutti dell’Arma), il maresciallo Pasquale Nuccio e ilsoldato Giorgio Ciacci (dell’Esercito). 

Un eccidio non mirato alle forze dell’ordine, che tuttavia facomprendere come a Palermo stiano cambiando tante cose.

Carlo Alberto dalla Chiesa arriva in Sicilia mentre la mafia stacambiando pelle. In quei sette anni ha modo di studiare l’ulteriore processo camaleontico di Cosa nostra.

 Nel ’66 svolge una clamorosa indagine sulla mafia. Fa un censimentodei nuovi boss, quartiere per quartiere, Famiglia per Famiglia, individuacapi, sottocapi, decine e capi decine. Si convince che la mafia non èquella che vent’anni prima operava a Corleone. Adesso ha strutture più

forti, più organizzate, ha consolidato i rapporti con la politica, ha protettori potenti sia a Palermo sia a Roma. Stila un rapporto che fatremare parecchi intoccabili: arresta settantasei capi di primo piano, fracui Frank Coppola «Tre dita» e Gerlando Alberti, che vengono mandatial soggiorno obbligato.

Il suo concetto di mafia è questo: «La mafia tende ad arare, acoltivare, a lucrare anche sulla politica. E quando la politica si lascia

coltivare, può diventare anche il tramite, talvolta inconsapevole, perchéla mafia giunga all’interno dello Stato»1. 

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In pochi anni trasforma un vetusto edificio del XVI secolo in unagrande Legione dei carabinieri, che ha giurisdizione nelle provincedella Sicilia occidentale (quella a maggiore penetrazione mafiosa):Palermo, Agrigento, Caltanissetta e Trapani. È un manufatto costruitosul modello dell’ordine militare di Santiago. Nella facciata ci sono leconchiglie che contraddistinguono l’ordine. 

I suoi collaboratori ne sono entusiasti. A quel tempo dicono conorgoglio: «Dalla Chiesa ha trasformato la caserma, ha messo marmi,moquette, tendaggi». In quegli anni il colonnello dalla Chiesa dà nuovi

impulsi ai carabinieri del capoluogo siciliano.

«Un tipo simpaticissimo, specie con i bambini». Graziella Trovato  –  oggi architetto residente a Madrid  –   ha sei anni quando conosce ilcomandante dalla Chiesa. Suo padre, l’ex capitano Alfio Trovato (oggigenerale), è uno degli ufficiali di quella Legione. «Con noi scherzavasempre. Una stanza della Legione la riservò ai bambini. Alle pareti feceapporre una speciale carta da parati con delle paperelle e fece mettere

anche dei giochi. In un angolo c’era anche un box per i neonati: spessolo utilizzava anche la figlia Rita per il suo piccolo. Andato via dallaChiesa, quella stanza fu riservata per il gioco delle carte».

 Nel 1970 dalla Chiesa si imbatte in uno dei sequestri più clamorosidel dopoguerra, quello del giornalista Mauro De Mauro, cronista di punta del giornale «L’Ora». Sono mesi convulsi, contrassegnati da una

spaccatura senza precedenti fra Polizia e Carabinieri. La Polizia èconvinta che De Mauro sia stato rapito dalla mafia coinvolta  –  assiemeall’alta massoneria e ai servizi segreti francesi e americani –  nella mortedell’ex presidente dell’Eni Enrico Mattei, su cui il giornalista stavaindagando per conto del regista Francesco Rosi (che doveva realizzareun film). I Carabinieri invece sono convinti che De Mauro sia sparito per ordine dei grandi signori della droga, i nuovi capi di Cosa nostrache stanno facendo affari giganteschi.

Forse hanno ragione entrambi. Potrebbe trattarsi di una convergenza

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d’interessi: i mafiosi coinvolti nella morte di Mattei sono gli stessi cheesportano eroina negli Stati Uniti, ma non risulta che a quel tempo DeMauro si stesse occupando di stupefacenti.

C’è una frase sibillina che dalla Chiesa –  nei giorni del sequestro  –  rivolge a Elda De Mauro, moglie del giornalista. La donna  –  secondoquanto lei stessa dichiara agli inquirenti  –   confida all’ufficiale la suaconvinzione che il marito sia sparito per quell’indagine su Mattei. Larisposta di dalla Chiesa è lapidaria: «Signora, la pista Mattei portadirettamente al cuore dello Stato, e io non mi metto contro lo Stato»2.

L’inchiesta su De Mauro non produce alcun risultato, né da partedella Polizia, né da parte dell’Arma, anche perché –  secondo quello cheemerge dalle indagini successive –  da Roma partono parecchi input perfermare l’inchiesta su Mattei. 

La verità  –   o buona parte di essa  –   si conoscerà molti anni dopo,quando i pentiti dichiareranno che De Mauro è stato interrogato e poistrangolato per i segreti che aveva raccolto proprio sulla morte dell’ex presidente dell’Eni. 

 Nel frattempo i processi celebrati ai settantasei boss arrestati da dallaChiesa vanificano mesi di pazienti indagini. La formula è sempre lastessa: insufficienza di prove.

È un dalla Chiesa deluso quello che nel 1970 si presenta alla

commissione parlamentare antimafia: «Siamo senza unghie.Francamente, di fronte a questi personaggi, mentre nell’indaginenormale, nella delinquenza, possiamo far fronte e abbiamo ottenutoanche dei risultati di rilievo, nei confronti del mafioso in quanto tale, inquanto inquadrato in un contesto particolare, è difficile per noiraggiungere le prove».

Quei sette anni sono fondamentali per approfondire e consolidare lesue conoscenze. L’ufficiale si convince che Cosa nostra, pur nella suacultura di morte, possieda nel suo dna un «codice d’onore» che mette al

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 bando l’assassinio di carabinieri, di poliziotti e di magistrati. 

La strage di Ciaculli, tutto sommato, era destinata ai mafiosi, non ai

carabinieri. Gli omicidi del procuratore Scaglione e del giornalista DeMauro potrebbero essere dei casi isolati.

In realtà sono i primi segnali della rottura di quel «codice». Ma alloranon lo capì nessuno, forse neanche un grande investigatore come dallaChiesa.

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La lotta al terrorismo

 Nell’ottobre 1973 dalla Chiesa, ormai generale, viene mandato a

comandare la Brigata di Torino.

È il tempo delle Brigate rosse. Mentre il terrorismo di Destra compiestragi terribili, quello di Sinistra spara su obiettivi sensibili: magistrati,giornalisti, carabinieri, uomini politici. Ma non viene mosso dalle stessemotivazioni della mafia: se quest’ultima si serve del delitto per proteggere colossali interessi economici, le Br combattono lo Stato innome di un’ideologia impazzita. 

«Nel 1974», spiega Nando dalla Chiesa, «la mafia ha in progettol’uccisione di mio padre. Il  piano prevede che debba farlo durante ifunerali di mio nonno materno per quello che aveva fatto a Palermo».Perché? «Perché mio padre stilò un rapporto in cui per la prima volta sifacevano i nomi di Lima e di Gioia. Stranamente quei nomi non sitrovarono nelle carte trasmesse alla commissione anti-mafia. Cancellati,anzi sbianchettati».

Ma è anche, dicevamo, il periodo delle Brigate rosse. Quando  –  sempre nel 1974  –   le Br sequestrano il giudice Mario Sossi, dallaChiesa lancia l’idea di istituire il Nucleo antiterrorismo presso la suaBrigata. Un Nucleo composto dagli uomini più fidati e preparati chedeve occuparsi solo della caccia ai brigatisti.

All’interno dell’Arma nascono contrasti fortissimi: i vertici delComando generale temono i personalismi. Dalla Chiesa è un soldatocon la divisa e gli alamari cuciti addosso, ha un temperamentofortissimo, alcuni colleghi nutrono delle forti ritrosie nei suoi confronti,lo accusano di protagonismo, pensano che quel Nucleo possa agire inmodo troppo autonomo r ispetto alle rigide gerarchie dell’Arma. In poche parole, temono che dalla Chiesa, in nome dell’emergenza, possasfuggire al controllo.

Ma è in nome dell’emergenza che l’allora ministro dell’Interno,

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Paolo Emilio Taviani, malgrado il dissenso di diversi ufficialidell’Arma, non ha esitazioni nel nominare Carlo Alberto dalla Chiesacomandante del Nucleo speciale antiterrorismo. Al Comando generalescoppia il putiferio, ma il 22 maggio 1974 dalla Chiesa prende

ufficialmente possesso del nuovo incarico.

«I nostri reparti», spiega il generale, «devono vivere la stessa vitaclandestina delle Brigate rosse. Nessun uomo deve fare mai capo allecaserme». Vengono affittati in modo poco ortodosso gli appartamenti dicui il Nucleo ha bisogno, si usano auto con targhe false, telefoniintestati a utenti fantasma, settori logistici e operativi distanti tra loro.

«I nostri successi», dirà poi dalla Chiesa, «costarono allo Stato meno di10 milioni al mese».

«Con dalla Chiesa all’antiterrorismo ho lavorato dieci anni», ricordaGian Carlo Caselli. «Era un grande uomo, un grande investigatore, unuomo molto intelligente; capace, nel rispetto delle regole, di risolvereanche i problemi più intricati».

È in quei giorni convulsi del ’74 che il generale utilizza le tecnicheimparate durante la guerra partigiana per infiltrare i suoi uominiall’interno delle organizzazioni terroristiche. 

Meno di quattro mesi dopo ottiene il primo clamoroso successo. È l’8settembre 1974 quando i carabinieri di dalla Chiesa  –   attraverso uninfiltrato, Silvano Girotto detto «Frate mitra» –  arrestano due esponenti

di primo piano delle Brigate rosse, Renato Curcio e AlbertoFranceschini, fondatori e capi storici del movimento.

È subito polemica. Dalla Chiesa viene accusato di averespettacolarizzato quegli arresti, di avere avuto troppa fretta: secondoqualcuno, bastava aspettare qualche giorno per catturare l’intero verticedelle Br, compreso un altro esponente di punta del terrorismo, quelMario Moretti che più tardi farà parlare di sé in merito al sequestro e

all’uccisione di Aldo Moro. E quella tecnica nuova di infiltrarecarabinieri ed ex terroristi viene contestata da più parti.

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Si comprende subito che il Nucleo speciale antiterrorismo non nascesotto i migliori auspici. Dalla Chiesa è costretto a difendersi dallecritiche: «Se è vero che l’infiltrazione esisteva fin dai tempi dei babilonesi, è anche vero che tutte le guerre e tutti gli eserciti hannoattinto a piene mani al nemico vinto»1.

«Dalla Chiesa, tecnico della repressione, nel suo lavoro è un uomoduro», scrive Giorgio Bocca. «È lui a domare nel ’74 la rivolta nelcarcere di Alessandria in modo spietato: sette morti, tra cui cinqueostaggi, e quattordici feriti»2.

 Nel 1976 il Nucleo viene sciolto e dalla Chiesa viene trasferito. È ilmomento in cui si apre la fase forse più drammatica e più controversadella sua vita militare.

«Il Nucleo speciale dei Carabinieri, così come il Nucleo speciale delquestore Santillo della Polizia di Stato, vengono soppressi. Questo darà

modo al terrorismo di riformarsi», dice Nando dalla Chiesa.

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L’iscrizione alla P2 

«Era un uomo distrutto», afferma uno dei più stretti collaboratori di

dalla Chiesa, il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo.«Improvvisamente al comando della Prima Brigata di Torino si presentail generale Franco Picchiotti, già fuori dall’Arma dei Carabinieri, e glidice: “Carlo, ti vedo un po’ abbattuto, come mai, cos’è che non va?”.“La mia carriera è finita, si è conclusa, mi mettono a disposizione”». 

Dalla Chiesa infatti è convinto che non andrà in avanzamento perdiventare generale di Divisione. Quei contrasti all’interno dell’Arma

qualcuno glieli sta facendo pagare. Bozzo prosegue il raccontodell’incontro tra il suo ex comandante e Picchiotti: «“Ma no, non ti deviabbattere così, le strade del Signore sono infinite. Perché non vieni connoi? Vieni con noi, ti risolviamo tutti i problemi”. “Con voi chi?”. “LaP2, la loggia massonica per le alte autorità”». 

Secondo il generale Bozzo, dalla Chiesa risponde così: «Ma no, qualemassoneria, io sono cattolico». E Picchiotti: «Ti lascio il documento perla filiazione».

Cosa fa Dalla Chiesa? Chiama il comandante generale dell’Arma egli dice: «Guardi che è venuto il generale Picchiotti...». Fa intendere ilmotivo di quella visita, e gli parla di P2. La risposta del comandantegenerale, secondo Bozzo, è questa: «E cosa c’è di male? Non ci vedonulla di male». «Allora dalla Chiesa capisce, firma e consegna il

modulo», dice Bozzo. «Non si è più parlato di trasferimento, è andatoin avanzamento ed è stato promosso generale di Divisione»1.

 Nando dalla Chiesa: «Picchiotti gli disse: “Noi possiamo aiutarti,dovresti fare una domanda per entrare in una associazione in cui siamoriuniti tutti. Non temere, c’è anche il comandante generale EnricoMino”. Mio padre non firmò, disse soltanto: “Rivediamoci”. Picchiottitornò e insistette. Alla fine mio padre firmò».

Dalle testimonianze raccolte emerge un dalla Chiesa tormentato per

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quella richiesta di affiliazione alla P2. In quel momento (ma questo loappronfondiremo dopo) il generale appunta su un diario dei colloquiimmaginari con la moglie Dora, deceduta da qualche anno. Sono paroledi amarezza, dalle quali tuttavia si coglie il suo stato d’animo: «Dalla

lettura del diario», spiega Nando, «si capisce benissimo che mio padre parla in modo sincero. Quel memoriale non viene scritto con la riservache in futuro possa essere utilizzato, è roba intimissima, personale. Inun brano riferito alla P2 dice a mia madre: “Ricordi quando ne parlammo? Ricordi quando decisi di ritirare la domanda? Ricordiquando chiesi di non andare avanti perché quella cosa mi sembravacontraria ai miei principi?”». 

«Loro che fanno?», prosegue Nando. «Invece di ridargli la lettera, lacustodiscono, ovviamente con funzione di possibile ricatto».

 Nel 1977 viene conferito a dalla Chiesa l’incarico di Coordinamentodel servizio di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena. Il generaleistituisce delle strutture di massima sicurezza come le «supercarceri»,dalle quali è impossibile evadere. È un incarico che per un periodo lo

tiene lontano da quelle funzioni operative per le quali si è dimostratoformidabile. Nelle carceri riesce a infiltrarsi e a infiltrare i suoi uomini,ottiene preziose informazioni di prima mano, non si fa trovareimpreparato per un compito delicatissimo che di lì a poco il governo gliconferisce.

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Gelli. Chi è costui?

«Egli in buona fede mi diceva sempre: “Voglio democratizzare tutti i

Paesi che posso”». 

E se lo dice Michele Sindona (tessera P2 n. 1612), possiamo giurarciche è vero, specie se un commento del genere è fatto nei confrontidell’amico Gelli. 

Tra il 1976 e il 1979  –   cioè nel periodo del sequestro Moro  –   i piduisti presenti in Parlamento sono trentanove. Diciannove Dc, ottoPsi, 4 Msi, 3 Psdi, 3 Pli, 2 Pri. Non risultano appartenenti al Pci. Gelliin quel periodo si vanta di controllare i due terzi fra Camera e Senato. Imassoni, invece, secondo il settimanale «Panorama» sonocentoquarantacinque.

I nomi che ricorrono spesso tra le amicizie del «Burattinaio» diArezzo sono quelli di Giulio Andreotti, considerato da qualche studioso

e dalla vedova di Roberto Calvi il «vero capo della P2», mastranamente citato solo due volte nella Relazione Anselmi. E poiAmintore Fanfani, che ha ricoperto la carica di presidente del Consigliononché di segretario della Dc, e i Presidenti della Repubblica GiuseppeSaragat e Giovanni Leone.

Gelli tuttavia non disdegna di coltivare rapporti affettuosi perfino conil Papa Paolo VI, al punto che «in occasione del matrimonio del figlio

sono pervenuti regali personali anche da parte del Sommo Pontefice».

Ma tanti, tantissimi sono i politici che fanno parte della P2 o che, avario titolo, coltivano una buona amicizia con il materassaio di Arezzo(tra questi un altro eminente presidente del Consiglio, Bettino Craxi). Nel 1981 quando scoppia lo scandalo, ben tre ministri del governoForlani risultano negli elenchi di Gelli.

Francesco Cossiga dice di aver visto Gelli non più di tre o quattro

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volte in vita sua. Salvo, come vedremo, riempire di piduisti i Gabinettidi crisi durante il sequestro Moro. Tante le testimonianze chesmentiscono Cossiga: secondo la Relazione Anselmi, «nel luglio 1989sarebbe stata organizzata dal Sismi l’operazione “Minareto”. La parte di

documentazione dell’archivio uruguayano di Gelli riguardante Cossigasarebbe stata fatta sparire durante il viaggio di trasferimentodell’archivio in Italia»1. 

Ma ci sono altri particolari inquietanti che emergono dalla RelazioneAnselmi in merito al caso Moro. Secondo alcune testimonianzeconvergenti, Licio Gelli in persona, nei cinquantacinque giorni del

sequestro, «avrebbe partecipato ai lavori del “Gruppo gestione crisi”nei locali della Marina Militare». Umberto Cavina, all’epoca capoufficio stampa della Dc, «segnala la partecipazione alle riunioni diGelli, sotto il falso nome di “ingegner Lucio Luciani”». Moro stesso,nei cinquantacinque giorni scrive: «Nella sua azione, Cossiga ha illimite di avere collaboratori esterni al ministero».

C’è un riferimento illuminante che il generale Bozzo fa alla

commissione Moro allorquando si parla degli alti vertici del Comandogenerale dell’Arma iscritti alla loggia P2. 

Bozzo dice che negli anni del fascismo qualcuno di questi ha fatto parte della Repubblica sociale, dunque si è portato dentro, anche dopola guerra, una cultura fondamentalmente fascista.

Il riferimento è al generale Giovambattista Palumbo (tessera P2 n.1062), comandante tra il 1971 e il 1974 della Divisione Carabinieri«Pastrengo» di Milano, il cui nome ricorre in un paio di depistaggi diStato. Il più clamoroso riguarda la strage di Peteano (Gorizia) del 31maggio 1972, nella quale muoiono tre carabinieri. Pare che inquell’occasione Palumbo scriva al maggiore Dino Mingarelli,comandante della Legione di Udine: «Abbandonare la pista nera.Perseguire quelle dei gruppi della Sinistra e della delinquenza

comune»2.

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Per quella strage vengono arrestati sei esponenti della malavitagoriziana che solo nel ’79 verranno ritenuti estranei all’eccidio. 

Palumbo, secondo la testimonianza di Bozzo, in quegli anni creaall’interno della caserma «Pastrengo» un gruppo di fedelissimi piduisti –   il maggiore Antonio Calabrese, il colonnello Pietro Musumeci, ilcolonnello Aldo Favali, il tenente colonnello Michele Santoro  –  che sidistinguono per una serie di depistaggi per altre stragi e tentate stragicommesse in quel periodo.

L’ex comandante della «Pastrengo» è un habitué di casa Gelli,

addirittura nel ’73 partecipa a quella che Tina Anselmi chiama «la nottedei generali», una serata a casa del Venerabile cui prende parte unostuolo di ufficiali dell’Arma, oltre al procuratore generale presso laCorte d’Appello di Roma Carmelo Spagnuolo, per parlare ufficialmentedella crisi che attanaglia l’Italia. 

Successivamente Palumbo viene nominato vice comandantedell’Arma al posto del generale Picchiotti. Secondo Nicolò Bozzo «ilgruppo dei piduisti presenti nell’Arma è collegato con il ministroLattanzio attraverso il suo segretario, tale Pieschi, il cui fratellosembrava essere diventato il vero comandante generale dell’Arma deiCarabinieri»3.

Bozzo sostiene che gli ufficiali iscritti alla P2 sono quelli chedetestano e avversano il generale dalla Chiesa.

Il capo della massoneria ufficiale Lino Salvini spiega ai magistrati:«Io cittadino italiano, abituato per educazione familiare, a riconoscere ivalori costituiti, vedevo che il comandante dei Carabinieri, ilcomandante della Finanza, il procuratore generale, che i capi dei servizisegreti, che i ministri, che i sottosegretari parlavano con Gelli congrande ammirazione e stima»4.

Già il tentativo di golpe  –   noto come «piano Solo»  –  messo in attonel ’64 dal generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, capo del

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Sifar, spiega come all’interno dell’Arma, dall’inizio degli anniSessanta, si agitino dei fermenti antidemocratici non andati a buon fine.

 Non sono fenomeni casuali. Il «piano Demagnetize» è un altroesempio illuminante. È un memorandum top secret redatto dal JointChief of State (il capo di Stato maggiore della Difesa americana), che il14 maggio 1952 scrive: «La limitazione del potere dei comunisti inItalia e Francia è un obiettivo prioritario: esso deve essere raggiuntocon qualsiasi mezzo». Fra i punti previsti c’è la compilazione puntualeda parte del Sifar di fascicoli completi da inviare alla Cia su tutte le personalità di spicco del mondo politico italiano.

 Nel 1970 il tentato «golpe Borghese» vede protagoniste le stesseentità, con il coinvolgimento della mafia, che poi si sarebbe tirataindietro. In questo caso, secondo gli studiosi, «il ruolo di Gellisembrerebbe tutt’altro che secondario»5. 

Questo per descrivere le pulsioni che fin dall’immediato dopoguerraanimano diversi settori nevralgici delle istituzioni statali, e il ruolo degliStati Uniti nell’alimentare tali pulsioni. 

La figura che fa da collante fra le varie anime dell’eversione è proprio quella di Licio Gelli.

Vediamo perché.

Dopo la licenza elementare Gelli frequenta l’Istituto tecnico perragionieri, ma non completa gli studi per un calcione sferrato al presidedella scuola, colpevole di aver difeso un professore dichiaratosi nonfascista: è così che il giovane Licio viene espulso da tutte le scuole delRegno.

 Nel 1937, non ancora maggiorenne, si arruola nella 94ma Legione

della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, quindi partecipa allaGuerra di Spagna dove viene inquadrato nel battaglione «Camicie nere

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alcuni.

Un giorno a Pistoia viene pesantemente aggredito da una quarantina

di persone che ne conoscono il passato repubblichino8.

Il dopoguerra di Gelli è pieno di arresti, di processi e di altrettanteassoluzioni per sequestri, per delazioni e per reati vari. Nel ’47 èsottoposto ad «attenta vigilanza» in quanto ritenuto «elemento dispeciale pericolosità».

Quindi va in Argentina, Paese tradizionalmente ospitale verso gli exfascisti e gli ex nazisti, dove conosce il Presidente Perón. È l’inizio diuna grande amicizia. Ma la sua presenza nel Paese sudamericano èlegata soprattutto a dubbie operazioni finanziarie con l’ex ministrofascista Domenico Pellegrini Giampietro e con un altro protagonistadell’Italia oscura della Prima Repubblica: Umberto Ortolani. Sì, perchési legge nella Relazione Anselmi che tutte queste amicizie, tutte questealleanze, a Gelli servano principalmente per fare affari, spesso sporchi.

Passano gli anni. Il 1963 è un anno campale per lui. L’exrepubblichino presenta domanda di ammissione alla massoneria. Èl’inizio di una nuova era. Per lui e per l’Italia. 

 Nel ’65 diventa imprenditor e e inaugura  –   grazie a un politico colquale intesserà un rapporto più che amichevole, Giulio Andreotti, probabilmente coinvolto nell’iniziativa –   lo stabilimento della

Permaflex di Frosinone. È Andreotti a intervenire per fare ottenere aGelli i finanziamenti previsti dalla Cassa per il Mezzogiorno. Frosinoneè nel feudo elettorale del «Divo Giulio», l’amicizia col futuroVenerabile tornerà senz’altro utile. 

All’interno della massoneria ufficiale intanto si registra unaspaccatura senza precedenti. Molti massoni considerano Gelli una

 presenza ingombrante e inquietante. E ne prendono decisamente ledistanze.

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Dopo una serie di vicende complesse, Gelli fonda la sua loggiasegreta cui dà il nome di Propaganda 2, meglio nota come P2.

 Nel 1971 la P2 comincia la sua attività a Roma con una riunione ditrentasei adepti. È l’inizio di un lungo cammino che –   in modosotterraneo –  cambierà il volto dell’Italia. 

Ordine del giorno: 1) «La minaccia del Partito comunista italiano, inaccordo con il clericalismo, volta alla conquista del potere»; 2) «Lacarenza di potere nelle Forze dell’Ordine»; 3) «Il dilagare delmalcostume, della sregolatezza e di tutti i più deteriori aspetti dellamoralità e del civismo»; 4) «La nostra posizione in caso di ascesa al potere dei clerico-comunisti».

L’anticomunismo è la parola magica che mette insieme le forzereazionarie, l’eterno alibi dietro al quale si nascondono i progetti piùtorbidi dell’Italia repubblicana. Del resto c’è da capirlo, lo stesso Gelli,

quasi commosso, lo confida una volta a Sindona: «Io ho perso unfratello in trincea, lottando contro i comunisti. Questo non lo potrò maidimenticare. Ho visto cosa si soffre. Credo che attraverso la P2 io possaavere la forza di democratizzare»9.

La pubblicistica gelliana è ricca di argomentazioni del genere. «Nellamia qualità di uomo d’affari sono conosciuto come anticomunista esono al corrente degli attacchi dei comunisti contro Michele Sindona

[...]. L’odio dei comunisti per Michele Sindona trova la sua origine nelfatto che egli è anticomunista [...]. In base alla mia conoscenza dellasituazione italiana, se Michele Sindona dovesse rientrare in Italia nonavrebbe un equo processo e la sua stessa vita potrebbe essere in grave pericolo»10.

Tra gli amici americani di Sindona ce ne sono parecchi vicini allaCia, alla mafia e alla massoneria. Uno di questi è Philip Guarino,autorevole esponente del Partito repubblicano, che a proposito del fintorapimento del banchiere di Patti, in una lettera a Gelli scrive: sono

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«avvilito e abbattuto del brutto trattamento accordato al nostro amicoMichele. Un’ingiustizia diabolica. Io credo che i terroristi hanno fattoquesto rapimento [...]. I giornali sono tutti della Sinistra e il popolo nonsa la verità»11.

I quattro  punti all’Ordine del giorno discussi dai trentasei piduisti inquel lontano marzo del 1971 contengono argomenti finalizzati aelaborare un progetto che negli anni successivi attirerà migliaia diiscritti alla loggia.

Si parla di anticomunismo, di antisindacalismo, di presidenzialismo.

E anche di «liberismo», «paravento dietro al quale si possonoconcludere gli affari più spregiudicati». Uno di questi è il trafficod’armi di Gelli cui la commissione Anselmi sulla P2 dedica ampiospazio.

Lo stesso Sindona nella sua audizione nella commissione Anselmirichiama spesso questo concetto: «A torto o a ragione io, Gelli, Calvi eMarcinkus siamo per il libero mercato perché riteniamo che questo porti la democrazia».

Le conclusioni della riunione del ’71 ci offrono   un distillato di purissima filosofia gelliana.

 Nel corso dell’incontro si stigmatizza «l’enorme strapotere assuntodai sindacati». E inoltre: «Per quanto riguarda la minaccia portata dal

comunismo all’Ordine costituito, è stato fatto rilevare come sia notorioche il Partito comunista russo, in accordo con quello italiano, stiasperimentando un nuovo tipo di tattica per il “colpo di Stato”,consistente nell’attaccare il Governo fino a condurlo all’esasperazione[...] in modo da far apparire il Partito comunista il Partito dellaProvvidenza».

Quindi si rendono necessarie «azioni di forza, dove e quandoindispensabili, da parte delle Forze dell’ordine». 

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«All’interno delle Forze Armate [...] si sta espandendo una massicciainfiltrazione della propaganda comunista tendente a sovvertire i valorigerarchici e disciplinari»12.

Conclusioni: «Molti ci hanno chiesto  –  e non ci è stato possibile darloro nessuna risposta  –  come dovremmo comportarci se un mattino, alrisveglio, trovassimo i clerico-comunisti che si fossero impadroniti del potere: se chiuderci dentro una passiva acquiescenza, oppure assumeredeterminate posizioni e in base a quali piani di emergenza».

Già nel 1971, dunque, Gelli parla di «piani di emergenza» se le«dittature comuniste» dovessero mettere in pericolo l’«Ordinecostituito».

«La paventata possibilità», come fa notare Alberto Gemelli, «di uncolpo di Stato del Pci manca di qualsiasi appiglio reale, a meno che nonsi volesse considerare tale il clima di mobilitazione sociale che

 pervadeva quegli anni».

In quanto al terrorismo, nel 1971 c’è ancora solo quello di Destra adestabilizzare con le bombe e con le stragi il quadro sociale e politicodel tempo. Basti ricordare piazza Fontana (1969), la rivolta di ReggioCalabria (1970), l’attentato al treno «Freccia del Sud», i campi par amilitari fascisti, l’operazione «Tora Tora» –   con la quale vienedefinito il «golpe Borghese»  –  di cui Gelli conosce i dettagli in tempo

reale.

In quegli anni  –  fa notare il politologo Giorgio Galli  –  di terrorismodi Sinistra c’è ben poco, se si eccettuano «piccoli incendi provocati daiGap e dalle Br, e il rapimento Garella a opera del gruppo XXIIOttobre»13.

Ma bisogna partire da quella riunione del ’71 per capire fino in fondoi progetti del materassaio di Arezzo.

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Passa altro tempo. Nel ’73 la loggia di Gelli comincia a farsi notarein seno all’opinione pubblica italiana. Ma è dal 1976 che comincia a far parlare di sé. Il 10 luglio un commando di Ordine nero guidato dalneofascista Pierluigi Concutelli uccide il sostituto procuratore di RomaVittorio Occorsio. Il quale, il giorno prima, aveva confidato a FrancoScottoni de «l’Unità» di avere buoni elementi che lo portavano acollegare le attività del clan dei Marsigliesi con esponenti dellamassoneria deviata, fra cui Licio Gelli.

 Nel gennaio 1977 Marco Pannella, attraverso un’interrogazione,

chiede di sapere se «corrisponde a verità la notizia di un incontroavvenuto il 15 dicembre 1976 tra il presidente del Consiglio GiulioAndreotti e Licio Gelli, responsabile della loggia P2 e al centro diindagini giudiziarie e giornalistiche per gravissimi fatti relativi allastrategia di attacco alla Repubblica». Nessuna risposta.

Lo stesso Pannella nel 1980, nel corso della trasmissione Tribuna politica denuncia un «sistema criminale di potere che congiunge la

loggia P2, Sindona e i sindoniani con il gruppo Rizzoli».

Un piccolo passo indietro. Nel ’79, come detto, Michele Sindonacompie il misterioso viaggio in Sicilia, in cui, avvalendosi di alcunimafiosi aderenti alla massoneria collegata alla P2, finge un rapimentofacendosi sparare a una gamba.

Per farsi curare si rivolge al medico siculo-americano Joseph MiceliCrimi, anche lui con contatti masso-mafiosi, e probabilmente con laCia. Interrogato dai magistrati il 18 novembre 1980, Crimi spiega diavere curato Gelli durante il finto rapimento.

È da quel momento che le indagini sul banchiere di Patti prendonouna direzione precisa: Castiglion Fibocchi, provincia di Arezzo, pressoVilla Wanda, abitazione di Licio Gelli. Che in quel momento si trovaall’ester o.

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Qui la mattina del 17 marzo 1981 militari della Guardia di Finanza diMilano  –   agli ordini dei sostituti procuratori Gherardo Colombo eGiuliano Turone  –   fanno irruzione e sequestrano una ingente mole dicarte, che i magistrati catalogano minuziosamente per cinque giorni,

compresa la domenica.

 Nei tabulati redatti personalmente da Gelli ci sono quasi mille nomidi alti esponenti delle istituzioni che hanno aderito alla P2, con tanto dimoduli, di ricevute, di firme e di tessere.

A luglio la figlia di Gelli, Maria Grazia, viene fermata all’aeroporto

di Milano dalla Guardia di Finanza con una borsa da viaggio contenentedei documenti che hanno una stretta relazione con i tabulati.

Si tratta del «Memorandum sulla situazione politica in Italia» e del«Piano di rinascita democratica».

 Nel «Memorandum» si parla dell’«alto livello di instabilità» e

dell’«anarchismo dilagante» causati dalla crisi economica, dalla crisimorale, e dalla crisi politica, che hanno sempre portato«all’instaurazione di “regimi di ferro”». Un «ineluttabile destino», silegge, attende il nostro Paese a causa di «un Pci che nasconde il verovolto ungherese e cecoslovacco». Si agitano «guerre civili», «caosanarcoidi», «sommosse quotidiane», con una «militocrazia» che potrebbe essere «la soluzione non del tutto impensabile quale unicaalternativa al regime comunista».

 Nel documento si parla della completa rifondazione dellaDemocrazia cristiana con nuovi valori che vedano «Nazione efamiglia» al primo posto. Ma siccome per realizzare il progetto sononecessari tempi lunghi, meglio pensare a scadenze di medio termine: un pentapartito formato da Democrazia cristiana, Partito socialista, Partitosocialdemocratico, Partito repubblicano e Partito liberale. Insomma, il pentapartito che avrebbe governato l’Italia fino al 1993. 

Collegato al «Memorandum» c’è il «Piano di rinascita democratica»

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con obiettivi che vanno indirizzati ai cinque partiti di governo, conl’eventuale ingresso in maggioranza del Movimento sociale italianofondato dall’ex repubblichino Giorgio Almirante, allora leader del partito. Ma gli obiettivi «sensibili» sono anche la stampa, la Rai Tv, i

sindacati (Cisl e Uil, con l’esclusione della Cgil), il governo, lamagistratura, il Parlamento.

«La disponibilità di cifre non superiori a 40 o 50 miliardi», si legge,«sembra sufficiente a permettere a uomini in buona fede e benselezionati di conquistare posizioni chiave necessarie al loro controllo».

«Primario obiettivo e indispensabile presupposto [sottolineato diGelli, nda] dell’operazione è la costituzione di un club [...]rappresentato ai migliori livelli da operatori imprenditoriali e finanziari,esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori emagistrati, nonché pochissimi e selezionati uomini politici, che nonsuperino il numero di 50 e 40 unità».

Il club dovrà essere in contatto «con le forze amiche nazionali estraniere. Importante è stabilire un collegamento valido con lamassoneria internazionale [sottolineato di Gelli, nda]».

I politici da selezionare sono, fra gli altri, Andreotti, Piccoli, Forlani,Gullotti e Bisaglia della Dc; Craxi, Mancini e Mariani del Psi; Visentinie Bandiera del Pri; Cottone e Quilleri del Pli; Orlandi e Amadei delPsdi.

«Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di“simpatizzare” per gli esponenti politici sopra prescelti», quindioccorrerà «acquisire alcuni settimanali di battaglia, coordinare lastampa locale e molte Tv via cavo attraverso un’agenzia centralizzata,dissolvere la Rai-Tv».

Per quanto concerne la magistratura, sarebbe sufficiente «stabilire unraccordo sul piano morale e programmatico, elaborando un’intesadiretta [...] con la corrente di Magistratura indipendente», in modo da

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riportare «la giustizia alla sua tradizionale funzione di elemento diequilibrio della società e non già di eversione».

Questi i progetti di Gelli sui magistrati: «Responsabilità delGuardasigilli verso il Parlamento sull’operato del pm, la separazionedelle carriere requirente e giudicante».

Innumerevoli i rapporti delle forze dell’ordine su Gelli. Tutticoncordano sulle capacità del Venerabile di fare insabbiare o didepistare le indagini sulla P2 e sui rapporti fra P2 e terrorismo diDestra.

Dalla metà alla fine degli anni Settanta, Gelli è fortemente impegnatoa diffondere il suo Piano. Ne parla Mario Scialoja su «l’Espresso» e ne parla il capo dell’antiterrorismo Santillo: «In occasione della recentecampagna elettorale, Gelli avrebbe inviato ad alcuni “Fratelli”, suoiintimi, un documento propagandistico, decisamente antimarxista, concui si invita la Democrazia cristiana a uscire dalla grave crisi in cuiversa il Paese, attuando un vasto piano di riforme: controlloradiotelevisivo, revisione della Costituzione, soppressionedell’immunità parlamentare, riforma dell’ordinamento giudiziario,revisione delle competenze delle Forze dell’ordine, sospensione,  perdue anni, dell’azione dei Sindacati e il bloccaggio dei contratti dilavoro»14.

Per capire come «nei primi mesi del 1978» sia stato preparato un

apparato antiterrorismo di totale inefficienza, basta leggere cosa scriveil relatore di minoranza della commissione P2, Massimo Teodori. Si badi bene: Teodori parla proprio dei «primi mesi» del ’78, quindi di un periodo antecedente al sequestro Moro: «Nei primi mesi del ’78 vienesmantellato dall’oggi al domani l’antiterrorismo di Santillo [che,attraverso delle informative, ha denunciato il coinvolgimento del“Gruppo Gelli” in inchieste sull’eversione di Destra, nda] e sonoinsediati a capo dei “servizi riformati”, con l’appoggio parlamentare del

Pci, i generali Grassini e Santovito, entrambi P2. Di lì a poco Moroviene rapito e ucciso. I servizi sono paralizzati, non agiscono». Dalle parole di Teodori si deduce un’ipotesi inquietante: che il sequestro

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Moro sia stato pianificato scientificamente dallo Stato già diversotempo prima, depotenziando quelle strutture investigative che sarebberostate efficaci per scoprire la prigione dell’uomo politico. 

Soltanto molti anni dopo si scoprirà che «i nomi degli iscritti alla P2sono depositati in codice al Pentagono».

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Il caso Moro

Alle 9:01 del 16 marzo 1978 in via Mario Fani a Roma un commando

delle Brigate rosse blocca l’auto che trasporta il presidente dellaDemocrazia cristiana Aldo Moro –  fino a due anni prima presidente delConsiglio –  mentre è diretta alla Camera dei deputati. In soli tre minutirapisce il parlamentare e uccide i cinque militari di scorta. È l’attacco più grave del dopoguerra inferto a una carica istituzionale. Sono giornidrammatici, probabilmente i più drammatici dell’Italia repubblicana. 

Quella mattina Giulio Andreotti deve ottenere la fiducia per il nuovo

governo, l’Andreotti IV, il trentaquattresimo del dopoguerra, il secondodella VII legislatura, che resterà in carica 374 giorni. Un governo aforte impronta democristiana, ma che, proprio su ispirazione di Moro,dovrebbe costituire il viatico per una graduale apertura al Partitocomunista italiano di Enrico Berlinguer.

Di quell’esecutivo fanno parte, tra gli altri, tre cattolici democraticiche non disdegnano il dialogo col Pci: Ciriaco De Mita, Tina Anselmi eRomano Prodi.

Ma esiste un progetto politico di Moro –  nel contesto dell’apertura alPci  –   che prevede la sua elezione alla Presidenza della Repubblica,quella di Benigno Zaccagnini alla presidenza del Consiglio nazionaleDc e quella di Flaminio Piccoli alla presidenza del Consiglio, conl’esautorazione di Giulio Andreotti. E questo ovviamente non piace allo

stesso Andreotti e neanche agli Stati Uniti.

Secondo i primi dati dell’inchiesta ufficiale, i componenti delcommando che uccidono la scorta e sequestrano Aldo Moro sono undici –  uno in meno di quanti, quattro anni prima, ne sono stati impiegati perrapire il giudice Mario Sossi  –   indossano tute da avieri civili eviaggiano a bordo di diverse auto, almeno una con targa del Corpodiplomatico.

Secondo le indagini successive, il gruppo di fuoco è composto da

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circa diciannove persone, non tutte delle Br. Una ricostruzione cheappare aderente alla realtà, se consideriamo l’importanza della personalità da sequestrare e la complessità dell’operazione da compiere,a maggior ragione se si pensa che tutto si svolge a Roma, in un’ora di

traffico intenso.

Dunque, per colpire al cuore lo Stato, non si sarebbero mosse solo leBr, ma altre entità. Come ventinove anni prima a Portella dellaGinestra, dove ufficialmente dai monti Palavet e Kumeta sparano gliuomini di Giuliano e della mafia, ma dove verosimilmente c’è la presenza dei servizi segreti americani e della Decima Mas.

Chi già dalle prime ore dimostra di sapere molto della strage di viaFani è il giornalista Mino Pecorelli, direttore del settimanale «Op»(Osservatorio Politico): «Gli autori della strage di via Fani e delsequestro di Aldo Moro sono dei professionisti addestrati in scuole diguerra del massimo livello. I killer mandati all’assalto dell’auto del presidente potrebbero invece essere manovalanza reclutata in piazza».

Almeno cinque i motivi che lo dimostrano: 1) la natura«professionale» dell’agguato che prevede una «operazione chirurgica»finalizzata alla soppressione di tutti gli agenti della scorta e al prelievodell’ostaggio, appena sfiorato da una pallottola; 2) la presenza dicecchini di rarissima abilità che riescono a fronteggiare e ad annientareuna scorta di agenti addestrati a fronteggiare il terrorismo; 3) sunovantasette bossoli ritrovati, sessantadue sono sparati da una solaarma, venti da un’altra, pochissimi dalle altre; 4) l’ipotesi che le armiusate appartengano  –   secondo il perito del primo processo Moro  –   auno stock in dotazione «a forze militari non convenzionali»; 5) la presenza sul luogo del sequestro di esponenti della ’ndranghetacalabrese e di un ufficiale del Sismi che apparterrebbe a «Gladio»(circostanza smentita dall’interessato), il quale nei vari interrogatorispiega di essersi trovato casualmente in quella zona.

Lo Stato è tramortito. L’indignazione dell’opinione pubblica è alcalor bianco. Il Paese rischia la catastrofe. Sono ore convulse, le oredella «Solidarietà nazionale», le ore in cui il Pci stabilisce di dare

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l’appoggio esterno ad Andreotti, le ore in cui il governo decide dirichiamare l’unico uomo in grado di fronteggiare le Br: Carlo Albertodalla Chiesa. Che viene invitato nuovamente a formare il Nucleospeciale antiterrorismo.

Dalla Chiesa frattanto vive un dramma privato: la perdita dellamoglie Dora, la persona  –   come dichiara in un’intervista –   piùimportante della sua vita.

Rita dalla Chiesa: «Si erano sposati il 29 luglio e ogni 29 di tutti imesi lui le portava dei fiori. Quando guardavano la tv si tenevano per

mano»1. Durante i funerali il cappellano militare la definisce «lavittima più silenziosa del terrorismo».

Dora sa tutto del marito grazie alle confidenze che lui stesso le faquotidianamente. La donna muore stroncata da un infarto, probabilmente per uno stress causato da un periodo carico di tensioni edi veleni. Da quel momento Carlo Alberto dalla Chiesa inizia unaconversazione molto intima con lei attraverso un diario: ogni giornoannota fatti, emozioni e stati d’animo che confida a Dora. È un modo per risollevarsi dalle angustie del servizio, ma anche per sentirsi menosolo.

Pagine e pagine di diario dalle quali emerge una profonda tenerezza:

Da tre anni, Dora mia, custodisco il ricordo del tuo ultimo respiro e

da allora, ansiosamente, ho cercato la tua immagine! L’ho cercata tra ilverde tenero di campi sospinti dal vento, tra gli alberi nudi che, fitti,ricamano  –   con fili di muschio e castoro  –   i fondali d’autunno, nel bagliore delle nevi lontane lambite dal sole. L’ho chiesta all’armoniasolenne di un organo d’argento, al dialogare sommesso di un ruscello,ai gorghi inquieti dei flutti, al canto vivido di una cascata, al fruscioaltissimo di un olmo. L’ho colta nel mistero dei templi antichi, nellevolute degli incensi e di tante, silenti navate. L’ho avvertita tra gli

stupendi colori del «nostro» roseto e nel profumo forte dei tuoi gerani;nella pace di una valle al tramonto e mentre ti dondoli e mi guardi da

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uno spicchio di luna. L’ho vissuta, ancora, e sofferta nei ricordi diLidia, dei cari, delle tue amiche, nei tratti dei nostri figli, negli occhi deifigli dei figli. Ovunque l’ho cercata, amor mio; perché il palpito di unmare fatto di turchesi e di smeraldi o la carezza pastello del cielo  –  che

entrambi amavi  –   restituissero a me quel dolce, estremo respiro. Sì,ovunque: perché da lassù, dalla bontà dell’immenso giungesse l’essenzadi un credo e dai boschi e dalle ginestre d’Irpinia –  oltre l’incanto deltuo viso e del tuo amore  –   fosse sempre la mano protesa all’aiuto. Ed’ogni dove mi hai sorriso. Dora mia, e mi hai detto d’essere forte; mihai preso tra le braccia e mi hai detto d’aver fede; mi hai carezzato em’hai detto d’essere ancora con me. Come se un fiore caduto da unmandorlo fosse tornato sul suo ramo! Come se il tuo nome fosse

davvero e sempre un «dono di Dio», il tuo Carlo.

Malgrado questo profondo dispiacere, dalla Chiesa non si sottrae aidoveri del servizio, che adesso si fanno più incombenti e delicati.Riunisce i suoi uomini più fidati e dice loro: «Da oggi nessuno di voi ha più una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi inclandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò

una casa. Io vi ordino dove andare e cosa fare. Il Paese è terrorizzatodai terroristi. Da oggi sono loro che devono cominciare ad avere pauradi noi e dello Stato».

Il generale dà la caccia ai rapitori di Moro e pensa –  almeno all’inizio –  che il sequestro dello statista sia opera esclusiva delle Br. Col temposi accorge che la realtà è molto più complessa di come la si vuole farcredere. Le Br, certo, ma solo le Br? Troppi fatti strani si verificano in

quei cinquantacinque giorni di prigionia.

Dice Giovanni Galloni, ex vice segretario della Democrazia cristiana:«Poche settimane prima del rapimento, Moro mi confidò di essere aconoscenza del fatto che sia i servizi americani che quelli israelianiavevano degli infiltrati nelle Br»2.

E poi: per gli americani «l’entrata dei comunisti in Italia, nel governoo nella maggioranza, era una questione strategica, di vita o di morte,“life or death”, come dissero, perché se fossero arrivati i comunisti al

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governo, in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo»3.

Parole che trovano conferma nelle dichiarazioni rese più volte allamagistratura e alle commissioni parlamentari d’inchiesta dalla mogliedi Aldo Moro. È dal 1964 –  secondo Eleonora Moro –  dalla formazionedel primo governo di Centrosinistra, che gli Stati Uniti operano una pressione costante sull’ex presidente della Dc perché rispetti gli«Accordi di Yalta». Ma è dal 1973 –  anno in cui Moro si avvicina al Pciattraverso il «Compromesso storico» –  che le pressioni si intensificano. Nel ’74 il segretario di Stato americano Henry Kissinger, rivolgendosi

direttamente allo statista, giudica «pericolosi» i rapporti con Mosca. Nel marzo del 1976  –   a pochissimi giorni dal rapimento  –   gliammonimenti diventano delle vere e proprie minacce. Eleonora Mororivela un particolare clamoroso riferitole dal marito: «Gli americani gliavevano detto, senza svelarmi il nome della persona [si presume che sitratti ancora di Henry Kissinger, nda]: “Onorevole, lei deve smet tere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese acollaborare direttamente. O la smette di fare questa cosa, o la pagherà

cara. Veda lei come la vuole intendere”». 

Lo scrittore ed ex parlamentare Pci Sergio Flamigni, nel libro La teladel ragno, disegna uno scenario del genere: nel rapimento Moro ècoinvolta pesantemente la P2, con Gladio e la Cia che hanno il compitodi infiltrarsi nelle Br. Secondo Flamigni, Mario Moretti, uno dei capi brigatisti che sequestra il presidente della Dc, in quei cinquantacinquegiorni, viene «eterodiretto» da qualcuno4.

In quelle ore convulse il ministro dell’Interno Francesco Cossigaistituisce ufficialmente due Comitati di crisi. Sì, perché ce n’è un terzo,non ufficiale, che ha funzioni e ruoli non meglio precisati.

Il primo Comitato, definito «Tecnico-politico-operativo», è presieduto dallo stesso Cossiga. Ne fanno parte i comandanti della

Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, i direttori del Sismie del Sisde, il segretar io generale del Cesis, il direttore dell’Ucigos e ilquestore di Roma.

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Il secondo, detto di «Informazione», è formato dai responsabili deivari servizi segreti, Cesis, Sisde, Sismi e Sios.

Il terzo è un fantomatico «Comitato di esperti». Secondo Cossiga nonsi sarebbe mai riunito collegialmente. In realtà non si conosce nulla diquesto organismo. L’ex Presidente della Repubblica ne svela l’esistenzaalla commissione Moro solo nel 1981, ma non spiega le attività e ledecisioni adottate all’interno. Ne fanno parte Steve Pieczenik,funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Statoamericano, il criminologo Franco Ferracuti (iscrittosi alla P2 nei giorni

del rapimento Moro, e assertore della tesi secondo cui le lettere dellostatista democristiano sono state scritte da persona affetta da«demenza»), e dei distinti docenti universitari non proprio esperti diantiterrorismo, fra cui il direttore generale dell’Istituto perl’Enciclopedia italiana. Cosa ci facciano questi illustri signori in un«Comitato di esperti» non si è mai saputo.

Svela il magistrato Ferdinando Imposimato: «Cossiga, su

sollecitazione di Licio Gelli, inserì nel comitato di crisi del Viminale,che gestì il caso Moro in senso contrario alla sua salvezza, affiliati allaP2 tra cui Federico Umberto D’Amato, già capo del disciolto ufficioAffari riservati del ministero dell’Interno (tessera numero 554), GiulioGrassini, capo del Sisde (tessera numero 1620), Giuseppe Santovito,capo del Sismi (tessera numero 1630); Walter Pelosi capo del Cesis(tessera numero 754), il generale Raffaele Giudice, comandantegenerale della Guardia di Finanza (tessera 535), il generale Donato Lo

Prete, Guardia di Finanza (tessera 1600), l’ammiraglio GiovanniTorrisi, capo di Stato maggiore della Marina (tessera numero 631).Ancora: il colonnello Giuseppe Siracusano (tessera numero 1607), il prefetto Mario Semprini (tessera numero 1637), il professore FrancoFerracuti (tessera 2137), agente della Cia e consulente personale delsenatore Francesco Cossiga, il colonnello Pietro Musumeci dell’Armadei Carabinieri, vice capo del Sismi (tessera 487)».

Fra i membri del terzo Comitato, Pieczenik è sicuramente il personaggio più autorevole. Ufficialmente è stato mandato da

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Washington per lavorare gomito a gomito col governo italiano per fareliberare l’ostaggio. In quei giorni il funzionario del Dipartimento diStato si rende conto che molte cose non girano come dovrebbero: acominciare dalla fuga di notizie sulle informazioni riservate che devono

restare all’interno dello stesso Comitato. Trent’anni dopo, il funzionariodell’antiterrorismo statunitense rivela il ruolo devastante della politicaitaliana e di quella statunitense nella vicenda Moro.

Pieczenik descrive una riunione operativa organizzata dall’alloraministro dell’Interno Francesco Cossiga per elaborare una strategiasulla liberazione dell’ostaggio: «Ci ritrovammo in questa sala piena di

generali e di uomini politici, tutta gente che conosceva bene AldoMoro. Alla fine ebbi la netta sensazione che a nessuno di loro Morostesse simpatico o andasse a genio come persona, Cossiga compreso.Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleati». E ancora:«Dopo un po’ mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunionifiltrava all’esterno. Lo sapevo perché ci fu chi (persino le Br) rilasciavadichiarazioni che potevano avere origine soltanto dall’interno del nostrogruppo. C’era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a

Cossiga, senza mezzi termini. “C’è un’infiltrazione dall’alto, da moltoin alto”. “Sì”, rispose lui, “lo so, da molto in alto”. Quanto in alto, nonlo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere ilnumero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava adallargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due, Cossiga e io.Ma la falla non accennò a richiudersi»5.

Le dichiarazioni del funzionario americano sono gravissime perché  –  

in merito alla fuga di notizie  –   tirano in ballo direttamente Cossiga.Leggendo attentamente le lettere che Aldo Moro scrive dalla prigioniasi deduce che le responsabilità di quel rapimento le attribuisce al suo partito. La Dc e tutti i partiti di governo, insieme al Pci, votanoall’unanimità la linea della fermezza: nessuna trattativa con le Br. Con iterroristi non si scende a patti, a qualsiasi costo. Solo il Psi, i Radicali equalche esponente del governo come l’ex Presidente della RepubblicaGiuseppe Saragat e l’ex presidente del Consiglio Amintore Fanfani,

sposano la linea della trattativa.

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L’8 aprile Aldo Moro scrive: «Naturalmente non posso nonsottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno volutonolente a una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermisalvata, accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che

sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momentosupremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessunoche si dissociasse? [...]. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come puòrimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputoimmaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro».

Su Andreotti il giudizio diventa sempre più sprezzante: «Registafreddo, imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai unmomento di pietà umana. È questo l’on. Andreotti del quale gli altrisono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini […] Andreotti è restatoindifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria».

Intanto sul fronte delle indagini si registra il più completo marasma.Ufficialmente perché lo Stato  –   abituato a combattere fino a quel

momento il terrorismo al Nord  –  non è preparato a fronteggiare le Brnel Centro Italia. Sostanzialmente perché quella disorganizzazione  –  come dice qualcuno in commissione Moro  –   appare fin troppoorganizzata. Per individuare dove è nascosto Moro, dal Nord vienespostato un contingente di dieci carabinieri del reparto di dalla Chiesa,alle direttive del generale Bozzo. Uomini super addestrati che peròvengono risucchiati in una situazione davvero surreale.

«In occasione del sequestro Moro», dichiara il generale Bozzo allacommissione, «ci siamo trovati in questa tragica situazione, e io, cheero il coordinatore, non coordinavo più niente,  perché c’erano benquattro livelli tra me e la periferia: le notizie pervenivano frammentate,soppesate, ma soprattutto ritardate».

Bozzo parla di un grumo di potere annidato all’interno dell’Arma e

appartenente alla P2.

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In commissione Moro, il senatore Libero Gualtieri, rivolgendosi aBozzo dichiara: «Lei dice che, arrivato a Roma, praticamente non lehanno fatto fare niente, tanto che, non sapendo cosa fare, se ne andavaal cinema il pomeriggio. Ora, in pieno rapimento Moro, vengono dieci

carabinieri con il comandante del Nucleo più espertodell’antiterrorismo da Milano, si incontra con un altro Nucleodell’antiterrorismo a Roma, e non gli fanno fare niente...». 

Bozzo: «Abbiamo fatto una sola perquisizione. Nel pomeriggio nonavevamo nulla da fare, non avevamo un riferimento, non avevamo una persona che ci guidasse».

Libero Gualtieri: «O c’è stato un complotto, per cui si è deciso aqualsiasi livello politico, amministrativo, che Moro non doveva esserecercato, oppure c’è stato un livello tale di confusione e di marasma, diincapacità, che non c’è stato bisogno di un complotto». E incalzando:«In un libro della famosa giornalista inglese Alison Jamieson si parla diun esperto di terrorismo inglese, il generale Head, il quale afferma cheuna qualsiasi polizia mediocre avrebbe trovato Moro effettuando delle

normali investigazioni».

Moro intanto scrive una lettera al segretario della Dc BenignoZaccagnini: «Caro Zaccagnini, scrivo a te, intendendo rivolgermi aPiccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga aiquali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere leresponsabilità, che sono a un tempo individuali e collettive. Parloinnanzitutto della Dc alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti,ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficileimmaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un cosìtremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto la Dc, la qualedeve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell’immediato, glialtri. Parlo innanzitutto del Partito comunista, il quale, pur nellaopportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare cheil mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava allaCamera per la consacrazione del Governo che m’ero tanto adoperato a

costituire»6.

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Soltanto il 17 marzo del 1981  –  quando a Castiglion Fibocchi, nellacasa di Licio Gelli, vengono rinvenuti i tabulati con le liste degli iscrittialla P2  –   si capisce perché le indagini per ritrovare Moro non sonoandate avanti.

 Nomi di alti ufficiali che nei giorni del sequestro hanno un ruolofondamentale nello svolgimento delle indagini. Alcuni di questivengono promossi nel corso di quei cinquantacinque giorni, altri subitodopo: il direttore del Sismi, Giuseppe Santovito; il prefetto WalterPelosi, direttore del Cesis; il generale Giulio Grassini, componente delSisde; l’ammiraglio Antonino Geraci, capo del Sios della Marina

Militare; Federico Umberto D’Amato, direttore dell’Ufficio affaririservati del ministero dell’Interno; il comandante della Guardia diFinanza, Raffaele Giudice; il generale Donato Lo Prete, capo di Statomaggiore della Guardia di Finanza; il generale dei Carabinieri GiuseppeSiracusano.

Un lungo elenco che dimostra come nel periodo del rapimento Morola strategia dell’eversione abbia attraversato il cuore dello Stato. 

Ma c’è un’altra circostanza sconvolgente che dimostra come lostatista, nei cinquantacinque giorni di prigionia, potesse essere salvato.

Una tesi che  –   malgrado «non vi siano elementi probatori asostegno», come scrivono i magistrati di Perugia –  emerge dagli articolidi Mino Pecorelli, dagli atti della commissione Moro e dagli atti del

 processo di Perugia sul delitto Pecorelli.

In queste carte si legge che Carlo Alberto dalla Chiesa era aconoscenza del luogo dove era tenuto nascosto il presidente della Dc.Pare che fosse previsto il rilascio di Moro sotto la sorveglianza deicarabinieri. Ma per un’irruzione era necessario il placet del governo. Selo statista fosse stato ucciso durante un conflitto a fuoco, non potevaessere il solo dalla Chiesa a pagare. Dunque era necessario il via libera

da parte dell’esecutivo. Dalla Chiesa si sarebbe recato da Cossiga perottenere un assenso, ma Cossiga avrebbe detto di no. Perché? Il

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ministro dell’Interno si sarebbe trincerato dietro a una metafora. C’èuna «Loggia di Cristo in paradiso» che si oppone.

Anche una parte della politica si mobilita per salvare lo statistademocristiano. Sono due i rappresentanti parlamentari che contattano i boss affinché si possa arrivare ai terroristi. Politici di secondo piano che probabilmente agiscono per conto di alti vertici dello Stato, i qualiritengono di non esporsi sia per non compromettersi direttamente, sia per evitare la gogna in caso di insuccesso. I partiti ufficialmente si sonoespressi quasi all’unanimità per la linea dura: l’iniziativa di contattarela criminalità per salvare Moro, più che finalizzata a trattare, appare

finalizzata a sondare, per decidere eventualmente il da farsi.

E così due illustri sconosciuti del mondo politico, EdoardoFormisano del Movimento sociale italiano e Benito Cazora dellaDemocrazia cristiana, fanno i loro passi per il rilascio del prigioniero.

Mediante i contatti con i capi della mala milanese Francis Turatello eUgo Bossi, Formisano riesce ad arrivare a Tommaso Buscetta e a proporre a Cosa nostra una trattativa segreta con le Br. La propostaviene illustrata da Stefano Bontate alla «Cupola» riunita appositamente.Alla fine di un summit molto acceso, Pippo Calò taglia corto: «Nonl’avete ancora capito? Moro lo vogliono morto quelli stessi della Dc».La trattativa non va avanti.

Va avanti la seconda. Benito Cazora ha il compito di avvicinare la

’ndrangheta per ar rivare alle Br. Secondo la ricostruzione deimagistrati, il 7 maggio 1978  –   due giorni prima dell’assassinio dellostatista  –   Cazora si incontra con un emissario dei boss calabresi, taleVarone, che gli rivela tre particolari sconvolgenti: innanzitutto il luogonel quale è tenuto prigioniero Aldo Moro, poi che da trentasei ore il presidente della Dc è senza carcerieri perché l’ala romana delle Br si èrecata al Nord Italia per una riunione urgente (forse quella decisiva),infine che se si vuole salvare Moro è necessaria un’irruzione dei reparti

speciali dell’antiterrorismo. 

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Dunque, almeno due giorni prima della morte di Moro, lo Stato sadove è nascosto il prigioniero (ma probabilmente lo sa da prima, vistoche dalla Chiesa avrebbe già informato Cossiga), sa che Moro datrentasei ore è senza vigilanza, e sa che per liberarlo è necessario un

 blitz.

Cazora informa immediatamente il sottosegretario all’Interno NicolaLettieri, diretta emanazione di Cossiga.

«Lettieri telefona al capo della Polizia, ma al suo posto arriva ilquestore De Francesco». Emanuele De Francesco è colui che nel 1982,

dopo l’assassinio dalla Chiesa, sarà nominato dal governo Commissariostraordinario per la lotta alla mafia.

«De Francesco dice che da loro informazioni Aldo Moro sarebbestato consegnato vivo il martedì successivo». Non solo: «De Francescodice pure che non può fornire il personale richiesto».

Dunque, se quello che emerge è vero, non solo c’è la certezza che loStato sa, ma c’è anche la certezza che lo Stato non vuole salvare lostatista democristiano. Infatti «il martedì Aldo Moro viene ritrovatomorto»7.

Ci sono almeno altri due tentativi che contemporaneamente vengonomessi in atto per salvare Moro: uno da parte del capo della Nuovacamorra organizzata, Raffaele Cutolo, che si rivolge ai servizi segreti,

dai quali si sente rispondere: «Fatevi i fatti vostri». L’altro da parte diDaniele Pifano, capo di Autonomia operaia, un movimento moltovicino alle Br, che viene avvicinato dal magistrato romano ClaudioVitalone, andr eottiano di ferro. Pifano dichiara che «all’inizio ci sono imargini concreti per una trattativa», dopo registra la completa«chiusura» dei rappresentanti istituzionali. I giudici di Perugiascrivono: «In quell’occasione Claudio Vitalone non ha agito comemagistrato della Repubblica italiana, ma come un politico e come tale

ha dato conto del suo operato ai suoi referenti politici e non anche aimagistrati titolari dell’inchiesta»8. 

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Pesante il giudizio che i magistrati di Perugia danno su Vitalone, che«nella sua posizione di pubblico ministero [...] agisce come strumentodi lotta politica [...] per mantenere il potere». Inoltre: «È amico del capodella Banda della Magliana, Enrico De Pedis, dal quale riceve costosiregali. È amico di Gaetano Caltagirone (difeso dal fratello, l’avv.Wilfredo Vitalone), coinvolto nel caso Italcasse». Ancora: «Siinteressava dei processi a carico del fratello Wilfredo, facendo pressione sui colleghi che dovevano giudicarlo». Quindi: «Aveva untenore di vita superiore a quello derivante da un onesto stipendio,avendo acquistato un piano in corso Vittorio Emanuele e una villa aCapri, e possiede macchine di lusso»9.

 Negli ultimi giorni di prigionia, Aldo Moro percepisce che la morte siavvicina. E scrive alla moglie: «Mia dolcissima Noretta, credo di esseregiunto all’estremo delle mie possibilità e di essere sul punto, salvo unmiracolo, di chiudere questa mia esperienza umana. Gli ultimi tentativi[...] sono falliti [...]. Mi resta misterioso perché è stata scelta questastrada rovinosa, che condanna me e priva di un punto di riferimento e di

equilibrio [...]. Pacatamente dirai a Cossiga che sono stato ucciso trevolte, per insufficiente protezione, per rifiuto della trattativa, per la politica inconcludente, cosa che in questi giorni ha eccitato l’animo dicoloro che mi detengono»10.

Il 9 maggio 1978 il corpo senza vita di Aldo Moro viene ritrovatodentro il bagagliaio di una Renault 5 posteggiata a Roma in via Caetani,a metà strada tra piazza del Gesù, dove c’è la sede della Democrazia

cristiana, e via delle Botteghe Oscure, dove c’è la sede del Pci. Pare chesoltanto nelle ultime settimane di prigionia sia stata decisa l’esecuzione,quando lo statista Dc, durante gli interrogatori effettuati nella «prigionedel popolo», svela ai brigatisti il ruolo di Gladio, della Cia e diAndreotti, particolari che a quel tempo devono rimanere segreti.

Una decisione –  secondo le indagini –  presa in due riunioni parallele:quella dei brigatisti che tengono in ostaggio Moro  –   il cui grupposubisce una spaccatura, tanto che alla fine la proposta viene messa aivoti  –   e quella dei vertici istituzionali che decidono l’assassinio del

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Un «piccolo» particolare. Il 27 aprile 1981 le Br rapiscono a Torredel Greco l’assessore all’Urbanistica della Regione Campania, CiroCirillo, grande elettore dei potenti ras nazionali della Democraziacristiana.

Se appena tre anni prima Moro è stato lasciato morire, per unassessore regionale che ad ogni elezione procaccia centinaia di migliaiadi voti per i mammasantissima della Dc, lo Stato si mobilita allagrande. Il Sismi –  in particolare il piduista Pietro Musumeci –  assume ilcomando delle operazioni e intavola una «torbida trattativa» alla quale

 partecipano lo stesso servizio, la Democrazia cristiana, la camorra diRaffaele Cutolo e le Brigate rosse. Viene pagato un riscatto di svariatimiliardi. A fare la colletta pensa soprattutto un ras della Dc campana,Antonio Gava: riunisce gli imprenditori a casa sua, spiega la cosa e inqualche ora raccoglie la cifra da consegnare alle Br e a Cutolo. Gliimprenditori sono quelli che hanno fatto il «sacco» della città e che siaccingono a mettere le mani sulla ricostruzione post terremoto. Ma,come scrive il Comitato di controllo sui servizi, «il riscatto da pagarsi

alle Brigate rosse costituiva solo una parte della partita, e laconcessione di contropartite ai clan camorristici di Cutolo, elevati alrango di intermediari tra lo Stato e le formazioni terroristiche, eraaltrettanto necessaria»15.

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Via Montenevoso 8

«Con un lavoro di primissima qualità riuscimmo a individuare a

Milano il covo di via Montenevoso, la sede del vertice delle Brigaterosse», dice il gen. Bozzo1.

La mattina del primo ottobre 1978 gli uomini di dalla Chiesa fannoirruzione nel nascondiglio milanese delle Br e arrestano i capi chehanno preso parte al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro: LauroAzzolini, Franco Bonisoli e Nadia Mantovani, fidanzata del fondatoredelle Br, Renato Curcio.

Un successo clamoroso perché contemporaneamente il Nucleoantiterrorismo  –   a soli cinque mesi dall’uccisione dello statistademocristiano –  trova le lettere e un Memoriale di Aldo Moro.

A fare il blitz è il capitano Roberto Arlati, che informa Bozzo, ilquale a sua volta informa dalla Chiesa. Ricorda Bozzo: «Arlati disse

che c’era una cartellina azzurra contenente delle lettere di Aldo Moro».Man mano che l’appartamento  viene rovistato si trova ben altro. «Inquell’appartamento c’era un mare di materiale: mai vista una cosa delgenere. Dietro una tenda nascosta da un finto armadio a muro, c’eratutto l’archivio delle Brigate rosse, con tutti i faldoni allineati»2. 

«Per eseguire la verbalizzazione di tutto il materiale repertato einiziare la perquisizione dei mobili e dei muri, sarebbero stati necessari

non meno di quindici giorni, ma noi siamo rimasti cinque giornisoltanto».

Perché al Nucleo di dalla Chiesa non viene dato il tempo di perquisire a fondo l’appartamento? La risposta di Bozzo è inquietante.«Il 2 ottobre sono venuto a conoscenza che il comando della Legione diMilano stava redigendo un rapporto disciplinare contro l’operato mio edei miei collaboratori. Ho chiamato il generale dalla Chiesa a Roma,dove era rientrato la sera del primo ottobre, e gli ho detto cosa stavasuccedendo; lui mi ha risposto di ritirare tutto il personale».

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Dunque il giorno dopo  –  malgrado l’eccezionale risultato conseguitoda dalla Chiesa  –   il comando della Legione dei Carabinieri di Milanoavvia un rapporto disciplinare contro il Nucleo antiterrorismointervenuto in via Montenevoso: un pezzo dell’Arma si mette contro unaltro pezzo dell’Arma per censurare un successo di quelle dimensioni. 

Secondo la dichiarazione che Bozzo rende alla commissione Moro, ilcolonnello Rocco Mazzei, allora comandante della Legione di Milano,è iscritto alla P2.

Ma anche altri ufficiali che fanno parte della P2 hanno creato non pochi problemi all’attività del Nucleo antiterrorismo. 

«Parliamoci chiaro», incalza il braccio destro di dalla Chiesa, «ledifficoltà che noi dei reparti speciali abbiamo incontrato all’internodelle istituzioni non sono state di gran lunga inferiori a quelle cheabbiamo trovato all’esterno, perché la nostra era una struttura malvista

da tutti, o quasi».

Dichiarazioni gravissime che tirano in ballo i vertici dei Carabinieri.Bisogna seguire il filo del ricordo di questo ufficiale per comprenderecosa è davvero avvenuto sia nei giorni del sequestro, sia nei mesisuccessivi.

«Dalla Chiesa disse anche di portare con noi tutto il materiale da cuisi potevano trarre immediati spunti operativi, lasciando tutto il resto inmano all’Arma territoriale». 

Dopo il ritrovamento della carte di Moro, seguita Bozzo, «dallaChiesa fece una serie di telefonate». «Parlò con il consigliere istruttoredi Roma Gallucci, con il ministro dell’Interno Virginio Rognoni [...], eandò dal procuratore della Repubblica Gresti: con questo e con Gallucci

andò in via Montenevoso. Il ministro dell’Interno Rognoni, informatodi questo ritrovamento, ha chiesto al procuratore della Repubblica, ai

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sensi del decreto 21 marzo 1978, n. 59, copia di quegli atti, che furonofotocopiati nell’ufficio del nostro reparto antiterrorismo di Milano,consegnati a dalla Chiesa, il quale ripartì per Roma e l’indomanimattina li portò allo stesso ministro Rognoni»3.

La vicenda del covo di via Montenevoso apre aspre polemiche:qualcuno insinua che dalla Chiesa abbia tenuto per sé alcune pagine perricattare soprattutto Andreotti. Ma questo non solo non è mai statodimostrato, ma contrasta nettamente con i giudizi unanimi espressisull’onestà del generale e sul suo alto senso dello Stato.

«Figuriamoci», dice Nando dalla Chiesa, «il comandantedell’antiterrorismo trova dei documenti e non li dà tutti in lettura adAndreotti. E Andreotti, che è un candido bambino di dieci anni, non siaccorge che mancano delle pagine. Io ho interpellato tutti quelli chehanno avuto a che fare con via Montenevoso e tutti garantiscono cheuna cosa del genere era impossibile farla, ma era impossibile farlaanche per la logica. Se tu hai sopra di te uno che si chiama GiulioAndreotti, che è l’uomo politico più potente d’Italia, che ti nomina capo

dell’antiterrorismo e tu, invece di servirlo fedelmente, gli combini unacosa del genere, pensi che non se ne accorga? È una panzana messa ingiro ad arte da certi settori politici per far pensare che mio padre fosseun ricattatore».

«Purtroppo dietro quel maledetto termosifone», seguita Bozzo, «c’erauna finta parete con dell’altro materiale». Il riferimento è a un doppiofondo contenuto in un muro che conteneva un altro Memoriale Moro più completo di quello ritrovato nel ’78, rinvenuto casualmente nel ’90durante la ristrutturazione dell’appartamento. 

Cossiga sostiene che a metterlo lì sia stata «una manina o unamanona» eterodiretta da qualcuno che evidentemente –  quando ormai laPrima Repubblica è al capolinea  –   vuole fare saltare il sistemademocristiano. Ma anche questa è una congettura. Di vero c’è che

tredici anni prima l’appartamento di via Montenevoso non è stato perquisito fino in fondo. I motivi li abbiamo visti.

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Il delitto Pecorelli

La sera del 20 marzo 1979 a Roma due uomini uccidono con quattro

colpi di pistola munita di silenziatore il giornalista Carmine «Mino»Pecorelli, direttore del settimanale «Op», in quel periodo impegnato arivelare i clamorosi retroscena del rapimento e della morte di AldoMoro.

 Nel numero che esce nello stesso giorno, Pecorelli preannuncial’uscita di un’inchiesta dettagliata sul sequestro, sulle trattative, sul previsto rilascio di Moro sotto la sorveglianza dei Carabinieri, sulle

responsabilità politiche che hanno portato all’uccisione dello statista.Insomma una «bomba», come la definisce lui stesso.

Secondo la ricostruzione dei magistrati, la pistola semiautomaticacalibro 7,65 Browning/32, e le cartucce usate (di fabbricazionefrancese), non rinvenibili perfino nel mercato clandestino, fanno partedi un deposito di armi ubicato all’interno del ministero della Sanità.

A quel deposito accedono i componenti della Banda della Maglianadi Roma, fra cui Danilo Abbruciati e Massimo Carminati, esponenti di primissimo piano che hanno collegamenti con la P2, con Cosa nostra,con i servizi segreti deviati e con la Destra eversiva di Cristiano eValerio Fioravanti, Alessandro Alibrandi e Francesca Mambro.

Il Paese è ancora ferito per la morte di Moro. Lo Stato ha

ufficialmente dichiarato guerra al terrorismo, ma sull’assassinio dellostatista democristiano  –   soprattutto la Dc  –   ha orrendi scheletrinell’armadio. 

A un anno da quel tragico avvenimento, pochissimi nel nostro Paesesono al corrente di quel che è davvero successo in quei cinquantacinquegiorni. L’informazione è pilotata dalla politica. L’opinione pub blica èconvinta che a sequestrare e a uccidere il presidente della Democraziacristiana siano state «solo» le Brigate rosse.

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Cerchiamo, dunque, di «calarci» nel clima politico di quel periodo.

Il giorno dell’uccisione di Pecorelli, a Palazzo Chigi si insedia il

quinto governo Andreotti, ma dura appena tre mesi. A giugno si andrà aelezioni anticipate: il Pci sogna il «sorpasso» sulla Dc, ma perdeclamorosamente un milione e mezzo di voti (pari a ventisette seggi)diventando definitivamente il secondo partito italiano. La Democraziacristiana rimane pressoché stabile e resterà il primo partito fino aTangentopoli. Il «Compromesso storico» fra Dc e Pci –  con la morte diMoro –  resterà per sempre un’utopia. 

La morte dell’ex presidente democristiano, attribuita esclusivamentealle Brigate «rosse» –  dalla vulgata assimilabili alle «Sinistre»  –  invecedi destabilizzare, «stabilizza» il quadro politico, e fa da spartiacque frail prima e il dopo, fra una Dc che vuole dialogare con il Pci e una Dcfiloamericana che rifiuta categoricamente di farlo.

Il risultato non tarda ad arrivare: il Pci viene gradualmenteemarginato a beneficio del Partito socialista italiano, che dal luglio del1976 è attraversato dal «nuovo corso» di Bettino Craxi, astro nascentedel Psi, che al Congresso dell’hotel Midas di Roma spodesta il vecchiosegretario Francesco De Martino e per diciassette anni diventerà il capoindiscusso del partito.

Dalla morte di Moro a Tangentopoli ci saranno quasi sempre governia guida democristiana. Le uniche eccezioni saranno costituite dalle

 presidenze del repubblicano Giovanni Spadolini e del socialista BettinoCraxi, che comunque guideranno esecutivi a fortissima valenzascudocrociata.

Pochissime persone in Italia, nei giorni del dopo Moro, conoscono leverità inconfessabili del sequestro e della morte dello statistademocristiano. Fra queste, Carlo Alberto dalla Chiesa e Mino Pecorelli.Il quale, come scrivono i magistrati di Perugia, è «un giornalista che

aveva rapporti con personaggi di spicco appartenenti agli ambienti piùdisparati, che gli consentivano di entrare in possesso, in via esclusiva,

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di notizie di grande interesse pubblico»1.

Fra le persone con cui Pecorelli entra in contatto c’è proprio il

generale dalla Chiesa.

Pecorelli è iscritto alla P2. Sia lui sia dalla Chiesa sanno che la«Loggia di Cristo in paradiso» porta direttamente alla P2. Sanno cosavuol dire Moro quando scrive: «Vi è forse, nel tener duro contro di me,un’indicazione americana e tedesca?»2. 

E sanno pure che Andreotti (e non solo) ha responsabilità gravissimenella morte di Moro. C’è un brano del Memoriale rinvenuto in viaMontenevoso che è un vero e proprio atto d’accusa nei confronti del presidente del Consiglio. Scrive Moro:

L’on. Andreotti è per nostra disgrazia e per  disgrazia del Paese a capodel governo; non è mia intenzione rievocarne la grigia carriera. Non èquesta una colpa. Si può essere grigi ma onesti, grigi ma buoni, grigi

ma pieni di fervore. Ebbene, on. Andreotti, è proprio questo che lemanca. Si può disinvoltamente navigare tra Zac e Fanfani, imitando unDe Gasperi inimitabile che è milioni di anni luce lontano da lei. Ma lemanca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà,saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochidemocratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Dureràun po’ più, un po’ meno, ma passerà senza traccia. Non le basterà lacortesia diplomatica di Carter [Presidente degli Stati Uniti, nda] che le

attribuisce (si vede che se ne intende poco) tutti i successi deltrentennio democristiano, per passare alla storia. Passerà alla tristecronaca, soprattutto ora, che le si addice. Cosa ricordare di lei?Ricordare la sua [...] amicizia con Sindona? Il suo viaggio americanocon il banchetto offerto da Sindona, malgrado il contrario pareredell’ambasciatore d’Italia? [...] Non ho niente di cui debba ringraziarlae per quello che ella è non ho neppure risentimento. Le auguro buonlavoro, on. Andreotti, con il suo inimitabile gruppo dirigente e che

Iddio le risparmi l’esperienza che ho conosciuto [...]3. 

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Secondo i magistrati il rapporto tra il direttore di «Op» e il generaledalla Chiesa risale ufficialmente al 4 ottobre 1978, tre giorni dopo il blitz di via Montenevoso.

Su questo particolare Nando dalla Chiesa si dimostra possibilista:«Ho cercato di sapere se davvero mio padre conoscesse Pecorelli. I suoicollaboratori diretti mi hanno risposto di no, nel senso che Pecorelli nonchiamava in caserma chiedendo di parlare con lui. Rimane aperta la possibilità che si conoscessero in altro modo, ma questo non lo possosapere».

Prendiamo dunque per buona la ricostruzione dei magistrati diPerugia: dalla Chiesa e Pecorelli si conoscono almeno dal 4 ottobre1978.

Bene: il 17 ottobre «Op» pubblica una lettera nella quale si parla diretroscena inquietanti riferiti al caso Moro, con un riferimentoincredibile all’imminente assassinio di un generale indicato con lo pseudonimo di «Amen». Un documento di fondamentale importanza per capire perché il caso Pecorelli potrebbe intrecciarsi con il caso dallaChiesa.

«Il ministro di polizia [Cossiga, nda]», si legge su «Op», «sapevatutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero Moro, dalle parti delghetto [...] perché un generale dei Carabinieri era andato a riferirglielodi persona sulla massima segretezza [...] Il ministro non poteva decidere

nulla su due piedi, doveva sentire più in alto [...] magari fino alla loggiadi Cristo in paradiso».

Il generale «Amen» è dalla Chiesa. Pecorelli sa che dalla Chiesa deveessere ucciso e conosce le dinamiche che scorrono all’interno delmondo piduista. Non solo: sa pure che Cossiga non avrebbe volutosalvare Moro.

Molti anni dopo, le parole del giornalista troveranno conferma nelledichiarazioni di Tommaso Buscetta, il quale dirà ai magistrati che nel

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1979 la mafia ha davvero deciso di uccidere dalla Chiesa, non per uninteresse diretto di Cosa nostra  –   che in quel periodo non vieneimpensierita dall’attività antiterroristica del generale –  ma per ordine diun’«entità». 

La mafia però –  per evitare grane –  vuole una rivendicazione «falsa»dell’omicidio. Allora Buscetta, su incarico di Bontate, si rivolge aLauro Azzolini affinché le Br possano assumersi la paternità del delitto.L’ex terrorista rifiuta argomentando così: «Le Br “firmano” gli omicidise almeno un suo componente fa parte del gruppo di fuoco». Il progettofallisce. Invece di dalla Chiesa viene ucciso Pecorelli.

Ma qual è l’«entità» che nel ’79 vuole morto dalla Chiesa?«Probabilmente pezzi del governo», dice Nando. Perché? «Perché mio padre sa delle cose che non deve sapere, e magari non è affidabile comeloro pensano. Mio padre non ha fatto le indagini su Moro, ma può darsiche sappia delle cose. Questa è una possibilità, ma le carte di Moro nonc’entrano nulla». 

L’assassinio del giornalista –  secondo i magistrati di Perugia  –  vienecommesso due mesi dopo un presunto incontro. Un presunto incontroche dopo trent’anni è al centro di una controversia poiché su questo(anche su questo) si basa la tesi secondo cui dalla Chiesa avrebbecustodito delle carte di Moro.

All’incontro avrebbero preso parte il direttore di «Op», il generale

dalla Chiesa e il maresciallo Angelo Incandela, nuovo capo degli agentidi custodia del carcere di Cuneo.

Si tratta di un passaggio delicatissimo della ricostruzione, che Nandodalla Chiesa contesta del tutto. Partiamo da una premessa. Il figlio delgenerale non considera molto affidabili i magistrati umbri che hannoindagato sul delitto Pecorelli. «La ragione», spiega il sociologo,«consiste nel fatto che nelle carte di Perugia sta scritto che mio padre

era iscritto alla P2. Questo non è vero. E se asseriscono una cosa così pesante su un martire della Repubblica, diffido di quello che hanno

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scritto in seguito».

 Nando dalla Chiesa definisce del tutto infondata la versione del

maresciallo Incandela. Ma procediamo con ordine. Vediamoinnanzitutto cosa scrivono i magistrati di Perugia.

Secondo la loro ricostruzione, Incandela è un «fedelissimo» di dallaChiesa. I due hanno una frequentazione che va al di là dei «formalirapporti d’ufficio». Per fare la lotta al terrorismo, il generale si vedespesso col sottufficiale, dal quale ottiene notizie importanti provenientida un carcere strategico come quello di Cuneo, dove sono rinchiusi

esponenti di punta del terrorismo e della criminalità organizzata.

«Narra il maresciallo Incandela», si legge nelle carte dei giudici diPerugia, «che nel gennaio del 1979 il generale dalla Chiesa [...] loincontrò in una zona di campagna del cuneese, all’interno diun’autovettura condotta da altra persona che non gli fu presentata, mache egli intuì essere un giornalista e che, attraverso le foto pubblicatedai giornali dopo l’omicidio, riconobbe con sicurezza per CarminePecorelli»4.

«Con sicurezza», scrivono. L’incontro –  organizzato da dalla Chiesa,secondo i magistrati –  ha lo scopo di recuperare dei documenti su Morodefiniti «pericolosissimi», destinati a Francis Turatello, fatti entraresotto forma di due involucri nel braccio di massima sicurezza, dove sitrova il capo della mala milanese.

A spiegare questi particolari assolutamente sconosciuti alresponsabile delle carceri di Cuneo  –  che, dato il recente trasferimento,non conosce certi luoghi dell’istituto di pena –   in quella occasionesarebbe proprio Pecorelli, il quale evidentemente possiede notizie di prima mano.

«Il giorno successivo, il maresciallo aveva verificato che nel carcerevi erano luoghi corrispondenti a quelli descritti dall’accompagnatoredel generale dalla Chiesa e, dopo circa venti giorni, aveva ritrovato uno

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dei due involucri, che si presentava chiuso con del nastro adesivo e conla forma descritta da Carmine Pecorelli e, in conformità alledisposizioni ricevute, lo aveva consegnato integro al generale, ben prima dell’uccisione di Pecorelli»5. 

Quindi dalla Chiesa, secondo quanto emerge dalle indagini, conoscedei documenti «pericolosissimi» sul sequestro e sul delitto di AldoMoro.

Vediamo adesso la versione del figlio del generale: «Quello diIncandela è un depistaggio per mettere in cattiva luce mio padre e per

inquinare il processo Andreotti». Perché? «Per tre motivi: 1) Mio padrequella sera era con mia sorella Rita; 2) Mio padre non annunciava maiuna visita, contrariamente a quanto asserito da Incandela; 3) Eraimpossibile che in quel periodo, come ha dichiarato l’ex direttore delleGuardie carcerarie di Cuneo, si presentasse da solo, senza scorta».

E ancora: «Se vedo Santoro in trasmissione, non uno qualunque,Santoro, che presenta uno sconosciuto [Incandela, nda] come bracciodestro di mio padre, avrò pure il diritto, in qualità di figlio, di saperecosa è successo. Dopodiché lo rivedo per la seconda volta, mi chiamaVirginio Rognoni, che mi dice: “Nando, c’è ancora quel tipo intelevisione... ”. Intervengo in trasmissione: “Questo signore sta dicendoun sacco di bugie, voglio un confronto diretto in tivù”. Santoro miassicura: “Faremo il confronto”. Ma non si fa trovare mai. Gli scrivo enon mi risponde. Ho il diritto di sapere chi ha messo lì questo signoreaccreditandolo come il braccio destro di mio padre? Da quel momentoIncandela viene invitato dai magistrati a riferire. A Perugia la suadeposizione è stata accreditata, a Palermo è stata indebolita. Perché?Perché a Perugia se ne sono fregati di quello che ho detto. A Palermono».

Ma secondo il professor dalla Chiesa è l’intera versione dei fatti afare acqua da tutte le parti. «Mio padre non avvisava mai per dire che

sarebbe arrivato, cosa confermata da tutti i suoi collaboratori. Arriva dasolo? No, aveva la scorta. Di una persona o di due, sempre in quel periodo. E tu vuoi far credere che arriva da solo, sapendo che in quel

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 periodo lo vogliono uccidere? Per giunta di sera? E poi Incandela diceche mio padre si apparta per fare la pipì. Quindi uno come mio padre,orgoglioso del suo grado, va a urinare davanti a un maresciallo? È unaroba da pazzi, è tutto incredibile e ci costruiscono pure la storia, perché

nel momento in cui ci sono degli atti giudiziari, molti giornalisti sisentono autorizzati a pensare che questa sia una storia vera. Quindi cosaaggiunge Incandela? Che il bagliore della sigaretta gli ha consentito divedere il volto di Pecorelli, che lui riconosce tre mesi dopoconfrontandolo con una foto fatta all’obitorio». 

Ma chi è Mino Pecorelli? Che tipo di giornalista è? Di quali fonti si

avvale?

Secondo la vulgata è un ricattatore. Ecco cosa scrivono i giudici diPerugia su di lui: «Questa Corte non ritiene di prendere in seriaconsiderazione l’ipotesi che Pecorelli fosse un ricattatore, giacché, nonessendo corroborata dal benché minimo elemento di prova, sarebbe unainaccettabile offesa alla memoria di chi non può più difendersi»6.

Dalle carte del processo emerge tuttavia una figura controversa. Daun lato i magistrati non hanno dubbi sull’onestà del giornalista,dall’altro registrano i finanziamenti cospicui che «Op» riceve daMichele Sindona, da Gaetano Caltagirone, e da un altro personaggiochiacchierato della Dc dell’epoca, Franco Evangelisti, andreottiano diferro e sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

«Trenta milioni di lire pagati da Evangelisti –  con denaro di GaetanoCaltagirone –  alla tipografia Abete (nei cui confronti “Op” ha un debitodi quaranta milioni). Quindici milioni da Caltagirone su richiesta diEvangelisti. Una trattativa –  auspice il solito Evangelisti  –  per chiudereun contratto pubblicitario con la Spi di Milano per trecento milionil’anno». 

I magistrati scrivono che Mino Pecorelli è un giornalista a

trecentosessanta gradi, il quale, pur ricevendo finanziamenti dadeterminati ambienti, non dimostra sudditanza verso costoro, pubblica

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sempre tutto, senza fare sconti a nessuno. È vicino ai servizi segreti e aivertici più discussi di essi, a cominciare da Vito Miceli, ma non si lasciacondizionare da nessuno.

Fondamentale questo passo della sentenza di Perugia: «Pecorelli nonaveva riguardo né per gli amici né per i potenti né per chi losovvenzionava, sicché l’avere soccorso economicamente Pecorelli nonavrebbe potuto consentire ad Andreotti di dormire sonni tranquilli».

Su «Op» vengono pubblicate settimanalmente inchieste che presentano aspetti riservati conosciuti solo dagli addetti ai lavori,

inchieste sui grossi scandali del tempo, in cui protagonista assoluto èsempre lui, Giulio Andreotti: dal caso Italcasse sui fondi neri riservatialla Dc al caso Mi.Fo.Biali che coinvolge i vertici della Guardia diFinanza.

Per comprendere la complessità della figura del direttore di «Op» bisogna raccontare una cena che poco tempo prima del suo assassinio sisvolge nel ristorante romano «La famija Piemonteisa». A tavola sonoseduti, tra gli altri, Mino Pecorelli; Donato Lo Prete, generale dellaGuardia di Finanza che nei giorni del sequestro Moro brilla per la suainefficienza e che ritroveremo negli elenchi di Gelli; e ClaudioVitalone, molti anni dopo imputato per la morte di Pecorelli, assieme aGiulio Andreotti e al gotha di Cosa nostra e della Banda della Magliana.

 Nel corso della cena, il giornalista si lamenta di non avere ricevuto i

«contributi» che la Dc gli ha promesso, e dichiara che sul prossimonumero di «Op» pubblicherà un’inchiesta sul ruolo del presidenteAndreotti nello scandalo Italcasse. C’è già la copertina pronta, la foto diAndreotti e il titolo: Gli assegni del Presidente.

Vitalone, in qualità di magistrato, invece di informare il pm che sioccupa dell’Italcasse, informa Evangelisti, il quale parla con Andreotti,che fa il solito ghigno impenetrabile.

Ma non è lo scandalo Italcasse a fare tremare il presidente del

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Consiglio. E neanche lo scandalo Mi.Fo.Biali.

Tutto sommato queste vicende  –   per quanto clamorose  –   rientrano

nella «fisiologia» di una politica che solo da qualche anno hacominciato a permearsi di un livello di illegalità che nel 1993 porteràall’implosione dei partiti, primo fra tutti la Dc. Il processo di nemesi èancora all’inizio, non è difficile fare metabolizzare agli italiani i primimisfatti del mondo politico.

Il caso Moro no. Il caso Moro  –   se svelato nei suoi aspetti piùreconditi  –  potrebbe fare crollare il sistema, quando ancora in tutto il

mondo impera la Guerra Fredda. E questo l’America non può permetterselo. E neanche l’Italia. E neanche Andreotti, che di quelsistema è il garante più rappresentativo. È dal ’68 che ha rapporti conSalvo Lima. È dal ’76 che salda i rapporti con la mafia attraverso VitoCiancimino.

Da diversi anni è in combutta con Michele Sindona, piduista, grandericiclatore dei soldi di Cosa nostra.

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Così parlò Buscetta

«Pecorelli e dalla Chiesa sono cose che si intrecciano fra loro.

L’omicidio di Pecorelli è stato organizzato dalla mafia e ordinato daGaetano Badalamenti e da Stefano Bontate, su richiesta dei cuginiSalvo, perché questo ci interessava a Giulio Andreotti».

È un Tommaso Buscetta provato dalle stragi di Capaci e di viaD’Amelio quello che nel 1993 rivela al nuovo procuratore di Palermo,Gian Carlo Caselli, i retroscena del delitto del direttore di «Op».

«Il movente», dice il «Boss dei due mondi», «è rappresentato dallecarte segrete di Moro».

Parole pesanti come macigni pronunciate da colui che è ritenuto il boss più attendibile della storia di Cosa nostra, parole chesuccessivamente trovano conferma nelle dichiarazioni di un altro pentito di mafia, Salvatore Cangemi.

Buscetta spiega a Caselli di avere appreso questi particolaridirettamente da Badalamenti e Bontate, nel ’79 capi di quella Cosanostra che ha una interlocuzione particolare soprattutto con Andreotti.

Badalamenti avrebbe rivelato a Buscetta: «Abbiamo fatto un favoreal senatore Andreotti, tramite la richiesta dei cugini Salvo».

Attenzione, non un favore deciso da Cosa nostra o dalla«Commissione», ma un favore «personale» deciso «da me e daStefano». Insomma, il delitto «u ficimu nuatri, io e Stefano», loabbiamo fatto noi, una piena assunzione di responsabilitàsull’organizzazione dell’omicidio. 

«Il Bontate, d’altro canto, nel 1980, chiarì a Buscetta, che non era lamafia ad avere interesse ad uccidere Pecorelli, giacché siffatto interesseera esclusivamente politico».

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Sull’uccisione del giornalista affluiscono contemporaneamente aimagistrati le dichiarazioni di quattro pentiti della Banda della Magliana:Vittorio Carnovale, Antonio Mancini, Fabiola Moretti e MaurizioAbbatino. Questi ultimi parlano del ruolo della Banda in connessionecon Cosa nostra nel delitto Pecorelli, con particolare riferimento aMichelangelo La Barbera e a Pippo Calò (appartenenti alla mafiasiciliana), a Danilo Abbruciati, Franco Giuseppucci e MassimoCarminati (Banda della Magliana), nonché a Claudio Vitalone. Il quale,secondo i pentiti, di questo assassinio –  al pari di Andreotti e dei cuginiSalvo –  sarebbe il mandante.

«A parere della Pubblica accusa, il delitto sarebbe stato deciso daGiulio Andreotti [...] che, attraverso Claudio Vitalone, avrebbe chiestoai cugini Ignazio e Nino Salvo l’eliminazione dello scomodogiornalista. Questi a loro volta si sarebbero rivolti ai capi di Cosa nostraStefano Bontate e Gaetano Badalamenti che, attraverso Giuseppe Calò,avrebbero incaricato costoro [ovvero Danilo Abbruciati e FrancoGiuseppucci della Banda della Magliana, nda] di organizzare il

delitto»1.

Sei gli imputati giudicati dal Tribunale di Perugia: Giulio Andreotti,Giuseppe Calò, Claudio Vitalone, Massimo Carminati, GaetanoBadalamenti e Michelangelo La Barbera. Gli altri presunti responsabilinon figurano nei banchi degli imputati in quanto nel frattempo deceduti.

Anche se a parere dei magistrati di Perugia, nessuno dei collaboratoridi giustizia «ha dato una visione complessiva dell’intera vicenda», dalletestimonianze si conclude che a eseguire il delitto siano stati MassimoCarminati e il mafioso Michelangelo La Barbera (detto «Angelino il biondo»), su ordine di Cosa nostra che si è avvalsa dell’apporto dellaBanda della Magliana tramite Pippo Calò, latitante a Roma dal 1975,condannato assieme agli esponenti della mala capitolina per la stragedel treno Italicus, per il processo «Armi e droga» e per altri gravissimireati.

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Punto di snodo dei rapporti tra la politica e la criminalità organizzata,in questa vicenda, sono dunque i cugini Nino e Ignazio Salvo, cheAndreotti e Vitalone per tanto tempo, malgrado i riscontri, letestimonianze, le foto, hanno dichiarato ostinatamente di non

conoscere.

Badalamenti lo smentisce perché avrebbe ammesso a Buscetta diavere «incontrato Giulio Andreotti nel suo studio romano, insieme auno dei cugini Salvo e a Filippo Rimi (boss di Alcamo e cognato dellostesso Badalamenti), per il suo interessamento in ordine a un processo per omicidio a carico di Rimi, risoltosi in Cassazione con l’assoluzione

del mafioso, dopo una condanna all’ergastolo»2. 

Perché Andreotti e Vitalone negano l’amicizia con i Salvo? «Acquista particolare valenza la menzogna pervicacemente sostenutadall’imputato Andreotti in ordine a detti rapporti [...], che non può nontrovare spiegazione se non nella consapevolezza dell’organicaappartenenza dei Salvo alla mafia e del collegamento esistente fra glistessi Salvo e l’omicidio Pecorelli». 

«L’interesse di Nino Salvo si inquadra in quei rapporti politici e personali intercorrenti tra gli stessi cugini Salvo con Salvo Lima eGiulio Andreotti». E ancora: «Dell’esistenza di tali rapporti hanno parlato i pentiti Tommaso Buscetta, Gioacchino Pennino, GiovanniBrusca e Salvatore Cangemi per averlo appreso direttamente da Nino eIgnazio Salvo o dai vertici di Cosa nostra e, cioè, da Raffaele Ganci eSalvatore Riina».

Durissima la conclusione dei giudici di Appello: «Certo, la sera del20 marzo 1979 Andreotti non ha premuto il grilletto [...]. Certo,Andreotti non era presente mentre crepitavano i colpi di pistola [...].Pecorelli era un libero giornalista, un uomo solo; per gli esecutoridell’atroce delitto lo Stato era altrove; lo Stato, come hanno dichiaratovari collaboratori di giustizia, era rappresentato dall’imputato Giulio

Andreotti, al quale facevano riferimento molti personaggi cheaffondavano le loro radici nel mondo inestricabile della mafia»3.

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Al processo di primo grado gli imputati ottengono la «pienaassoluzione».

In appello la sentenza viene completamente ribaltata: la Corteinfligge ventiquattro anni ad Andreotti e a Badalamenti, e assolve tuttigli altri imputati.

La Cassazione sposa «in toto» il verdetto di primo grado, assolvendogli imputati per aver cagionato la morte del giornalista Carmine«Mino» Pecorelli.

Dice l’avvocato Alfredo Galasso, parte civile di Rosita Pecorelli,sorella del direttore di «Op»: «Andreotti è stato assolto nel processoPecorelli per una ragione di tipo giudiziario assolutamente evidente: si può ordinare, favorire, dimostrare il proprio interesse a che una personavenga fatta fuori in molti modi, specialmente quando ci sonointerlocutori particolari: le forme del linguaggio e della comunicazione

 possono essere diversificate, ma è mancata una prova diretta di questomandato a uccidere, e quindi sul piano giudiziario, dopo l’imprevistacondanna in sede di appello, in sede di Cassazione è stato abbastanzaagevole per l’avvocato di Andreotti, il professor Franco Coppi,dimostrare che non c’era una prova di questo interesse, o meglio diquesto mandato. Buscetta ebbe a dichiarare, sia a Palermo che aPerugia, che gli era stato confidato da Badalamenti e da Bontate chePecorelli era stato ucciso nell’interesse (questa fu l’espressione che usò)

di Andreotti, con riferimento alla vicenda Moro, cui Pecorelli si stavainteressando molto assiduamente, puntigliosamente, come usava fare.Ma da questa espressione, che naturalmente la difesa di Andreotti haconsiderato fasulla, inventata da Buscetta, ma che a mio parere invece èstata raccontata nei suoi termini reali (anche qui c’è un problema diinterpretazione del linguaggio), a giungere a una condanna per mandatoa uccidere, c’è una distanza notevole, almeno sul piano giudiziario.Quello che dispiace è che l’assoluzione di Andreotti si è tirata dietrol’assoluzione di tutti gli altri: dal senatore Vitalone a Badalamenti, daPippo Calò a Michelangelo La Barbera».

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La vittoria sul terrorismo

Per dalla Chiesa la lotta alle Br non conosce soste. In Italia per la

 prima volta si sente parlare di «pentitismo». A inaugurare questastagione è proprio il generale, che nel 1980 convince Patrizio Peci, unodei capi storici delle Brigate rosse, a pentirsi. Peci racconta fatti emisfatti del terrorismo rosso, fa i nomi dei compagni, indica i covistrategici, racconta molti retroscena.

Il 28 marzo gli uomini di dalla Chiesa fanno irruzione nel covo di viaFracchia a Genova e ingaggiano un conflitto a fuoco con i terroristi:

muoiono quattro esponenti delle Br.

È di nuovo polemica su quel Nucleo che secondo alcuni ha poteritroppo speciali. Ma stavolta dalla Chiesa inanella una serie di successiche lo portano all’apice della notorietà perché in poco tempo r iesce asconfiggere le Brigate rosse.

È la vittoria dello Stato. Finalmente dopo oltre diciassette anni,l’Italia torna a vivere momenti di distensione grazie a quel generale cheadesso  –   e siamo all’inizio dell’81 –   va a comandare la Divisione«Pastrengo» di Milano, che suo padre aveva comandato molti anni prima.

«Quando mio padre torna nei Carabinieri», denuncia Nando dallaChiesa, «carico della gloria conquistata nella lotta al terrorismo, c’è

intorno a lui un gruppo di ufficiali che è pronto a creargli intorno unasituazione insostenibile, che gli fa la guerra»1.

Chi sono? Fra gli altri, «il generale Cappuzzo e il generale De Sena».

«Cappuzzo», dice il sociologo, «è quello che protegge un colonnellosiciliano inquisito per mafia, è quello che a Palermo è affiliato ai

cavalieri del Santo Sepolcro, una organizzazione paramassonica che èguidata dal chiacchierato imprenditore Arturo Cassina. Al termine della

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carriera Cappuzzo, con Andreotti come sponsor, diventa senatore»2.

«De Sena, scrive mio padre nei diari, all’epoca è capo di Stato

maggiore. È lui a ostacolarlo quando [mio padre, nda] inizia acollaborare con i giudici che indagano sulla strage di Bologna. Poi siscopre che De Sena, andato in pensione, faceva il sindaco in un paesedella Campania per la Democrazia cristiana. E che è sospettato di avercontrattato benevolenze da parte del clan di Carmine Alfieri»3.

Il 17 maggio 1981 scoppia lo scandalo della P2. Fra tanti nomi c’èquello di Carlo Alberto dalla Chiesa e del fratello Romolo.

Lo stesso dalla Chiesa che ha fatto la guerra partigiana, che hacombattuto il bandito Giuliano, che ha combattuto Liggio, che è stato aun passo dal liberare Moro, che nel ’79 ha rischiato di essere ucciso daCosa nostra, che non ha lesinato energie per sconfiggere il terrorismo,adesso lo ritroviamo coinvolto in uno scandalo di dimensioni enormi.

Per il generale è un colpo durissimo, una ferita profonda. Il suo nomeviene assimilato a infedeli ufficiali dell’Arma che, sul caso Moro,hanno fatto carriera.

Lui non ci sta e reagisce, rilascia interviste, spiega: l’adesione è stataun pretesto per indagare nell’imperscrutabile mondo della P2. «Forse èuna spiegazione ingenua», spiega Nando, «ma probabilmente vera».

«In ogni caso», seguita il figlio del generale, «non ho elementi peraffermarlo con certezza. Ma so che certamente egli non era unSantovito o un Musumeci, gente pronta a depistare indagini delicate e atradire lo Stato»4.

Intanto la presidenza del Consiglio rende pubblica la lista dei nomidegli affiliati alla loggia massonica P2: Carlo Alberto dalla Chiesa non

c’è. 

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Alfredo Galasso: «Mi sono fatto l’idea che dalla Chiesa avesse provato a capire di cosa si trattava, e avesse pensato non dico diinfiltrarsi, ma insomma di verificare dall’interno che cosa stavasuccedendo in quel circuito oscuro. Era una parentesi che si era

conclusa rapidissimamente e che non ha tolto nulla nella pubblicaopinione della stima e della riconoscenza nei confronti del gen. dallaChiesa».

Subito dopo la firma di adesione alla P2, dice il generale Bozzo, dallaChiesa rivuole quel modulo. Probabilmente vuole distruggerlo, ma nonlo ottiene.

L’ufficiale scrive alla moglie nel diario: «Ricordi tesoro  quando ilPicchiotti per mesi e mesi insistette venendo da Roma a Torino perchévi aderissi? E ricordi che [...] immediatamente dissi che non ne volevosapere e che volevo continuare a camminare senza il presunto aiuto dialcuno? Invece di distruggere il modulo, e benché non fosse statoseguito da alcun fatto, quel Picchiotti lo ha passato ad altri, che lohanno custodito per cinque anni»5.

«Viene trovata questa richiesta di iscrizione», seguita Nando, «e mio padre capisce che gli andranno addosso per farlo fuori».

Da quel momento c’è chi, come Cossiga, accusa dalla Chiesa diessere massone e figlio di massone, e lo accusa di far parte della P2.

 Nando Dalla Chiesa: «Era talmente forte questo senso di ingiustiziache a tavola, alla festa dell’Arma dell’81, mio padre ruppe un bicchierestringendolo con le mani. Era davvero un uomo ferito»6.

«Quando inizia il maxiprocesso alla mafia [19 febbraio 1986, nda],dove si chiede giustizia per mio padre», prosegue Nando, «Cossigadichiara alla stampa: “Dalla Chiesa  era della P2”. E continua a dirlo

tutte le volte che vuole. Io vado dai magistrati Colombo e Turone, cheavevano fatto la famosa inchiesta sulla P2, e apprendo che mio padrenon era né massone né piduista. Il fatto viene confermato dalla

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commissione Anselmi sulla P2, dove non risulta alcuna tessera di mio padre. Allora Cossiga accusa Colombo e Turone di aver fatto un favorea dalla Chiesa strappando il foglio che riguardava l’iscrizione alla P2». 

Scoppiato lo scandalo, il presidente del Consiglio, GiovanniSpadolini, dichiara solennemente: «L’esigenza prioritaria dell’attualegoverno è quella di fare piena luce sull’affare P2». 

Per dalla Chiesa sono giorni terribili. Addirittura il Comandogenerale vuole destituirlo, gli vuole togliere la direzione della Divisione«Pastrengo».

 Nell’81 però Carlo Alberto dalla Chiesa viene promosso vicecomandante dell’Arma, un incarico al quale tiene tanto, che molti anni prima è stato del padre Romano. Una apparente promozione che inrealtà si rivela piena di quei risvolti burocratici che l’ufficiale non ama. 

Allo scrittore Leonardo Sciascia, all’epoca parlamentare del Partito

radicale e componente della commissione Moro, dalla Chiesa dice:«Sono un esiliato a Roma, un soldato lontano dalle battaglie», e silascia andare a una domanda sibillina: «Mi chiedo oggi perché sonofuori dalla mischia».

«Ogni suo tentativo di mettere a frutto la sua esperienza diinvestigatore», afferma Nando dalla Chiesa, «viene frenato malamente.I settimanali pubblicano di continuo “veline” contro di lui, ispirate da

qualcuno all’interno dell’Arma»7. 

È un dalla Chiesa tutt’altro che felice quello che assume il vicecomando dell’Arma. 

Ma è un’infelicità destinata a durare poco. A Genova, mentre è incorso una sfilata degli alpini, una ragazza gli si avvicina, gli porge un

garofano e lo ringrazia per quello che ha fatto per il Paese. È unaragazza dolcissima e bella, si chiama Emanuela Setti Carraro, una

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crocerossina poco più che trentenne della buona borghesia milanese.L’ufficiale resta colpito da quel gesto e il giorno dopo la chiama. Daquel momento inizia una storia d’amore che culminerà nel matrimonio. 

Ma laggiù in Sicilia c’è un’altra piaga sociale, la mafia. Che duraalmeno da centocinquant’anni e che sta conoscendo un momento digrande recrudescenza. Ci sono tanti morti, troppi. Al punto che si faconfusione perfino sulle cifre. Quelle ufficiali dicono dieci nell’80,cinquanta nell’81, quasi venti nei primi quattro mesi del’82. Fonti nonmeno attendibili parlano di centinaia.

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«In Sicilia c’è bisogno di lei» 

Il 2 aprile 1982 un Comitato interministeriale composto dal

 presidente del Consiglio Spadolini e dai ministri Rognoni, Formica,Altissimo e Di Giesi, per contrastare la violenza mafiosa, nomina CarloAlberto dalla Chiesa prefetto di Palermo. È il ministro dell’Interno,Virginio Rognoni, a comunicargli la decisione: «Caro generale, lei va aPalermo non come prefetto ordinario, ma con il compito di coordinaretutte le informazioni sull’universo mafioso». 

Dalla Chiesa è inorgoglito del nuovo incarico, si rimette in

discussione, ma il comunicato di Rognoni non lo convince. Il giornostesso prende carta e penna e scrive a Spadolini:

Gentilissimo Professore, mi corre l’obbligo di sottolineare alla suacortese attenzione che:

• la eventuale nomina a prefetto non potrebbe bastare da sola a

convincermi di lasciare l’attuale carica. 

• la eventuale nomina a prefetto non può e non deve   avere come«implicita» la lotta alla mafia, giacché: si darebbe la sensazione di nonsapere che cosa sia (e che cosa si intenda) l’espressione «mafia» e sidarebbe la certezza che non è nelle più serie intenzioni la dichiaratavolontà di contenere e combattere il fenomeno in tutte le sue molteplicimanifestazioni e si dimostrerebbe che i messaggi già fatti pervenire a

qualche organo di stampa da parte della «famiglia politica» piùinquinata del luogo hanno fatto presa là dove si voleva.

Lungi dal volere stimolare leggi o poteri «eccezionali», è necessario eonesto che chi è destinato alla lotta di un fenomeno di tale dimensione,non solo abbia il conforto di una stampa non sempre autorizzata ocredibile e talvolta estremamente sensibile a mutamenti di rotta, magoda di un appoggio e di un ossigeno «dichiarato» e «codificato».

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Dalla Chiesa chiede poteri adeguati per una guerra molto più dura edifficile di quella al terrorismo. Il nuovo nemico non è individuabile inun covo o in una riunione strategica. Il nuovo nemico è invisibile,annidato nelle aule parlamentari, a Roma come a Palermo, nei

municipi, nelle banche, in certi centri direzionali di Catania, nelle loggemassoniche deviate.

In realtà, in quei giorni, non viene «codificato» assolutamente nulla.

L’assassinio di La Torre imprime l’accelerazione decisiva altrasferimento di dalla Chiesa a Palermo.

E la storia si ripete. Il solito decisionismo seguito dalla solitariluttanza seguita dal solito immobilismo.

È sempre stato così. Soprattutto per combattere la mafia. Unatelefonata, un telegramma, un fonogramma, un cablogramma, undispaccio, una lettera, un messaggio telegrafico. E così l’Eroe,

l’immancabile Eroe, viene innalzato in piazza per tacitare le folle, pernormalizzare tutto, per ricacciare indietro le lancette della Storia.Petrosino, Mori, dalla Chiesa, Falcone, Borsellino... È sempre statocosì.

Il decisionismo di chi, subito dopo il delitto eclatante, preso dai furoriastratti della lotta al male, alza la cornetta, telegrafa, scrive, rilasciainterviste, lo-Stato-non-si-farà-intimidire, e invece a poco a poco,

giorno dopo giorno, cede il passo alle forze della conservazione, e siconvince che per-non-alterare-gli-equilibri, è meglio lasciare tuttocom’è. In questo crogiuolo di corsi e di ricorsi storici, la scelta delgoverno di mandare Carlo Alberto dalla Chiesa a Palermo non faeccezione.

«Gior nali tradizionalmente vicini a mio padre, come “il Giornale” e

“Il Tempo”», ricorda Nando dalla Chiesa, «che all’epoca del terrorismoavevano sostenuto la necessità di misure speciali, divenneroimprovvisamente garantisti. Ricordo che il quotidiano romano fece un

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Per la cronaca: nel periodo della presidenza Spadolini, vice presidente del Consiglio di amministrazione dell’Università «Bocconi»di Milano è Roberto Calvi. Ingenti i finanziamenti che  –  sotto forma didonazioni –  Calvi eroga alla «Bocconi».

Alla Regione Siciliana gli uomini di Lima e di Ciancimino dettanolegge da tempi immemorabili. Presidente della giunta regionale è unodei prodotti meglio riusciti dell’andreottismo in Sicilia, quel MarioD’Acquisto citato infinite volte nelle relazioni della commissione parlamentare antimafia, istruite anche da dalla Chiesa. AdessoD’Acquisto è chiamato direttamente da Lima a gestire il dopo

Mattarella. Il «dopo Mattarella», certo...

Secondo il pentito Vincenzo Marsala  –   figlio di Mariano Marsala, boss di Vicari inghiottito dalla lupara bianca  –  D’Acquisto partecipa almatrimonio del boss, e diverse volte si incontra col padre. «Una volta»,dice il pentito, «accompagnai mio padre a casa dell’onorevoleD’Acquisto, dove mi risulta che mio padre si recò altre volteaccompagnato da altre persone». La  parola d’ordine per le cosche

mafiose è votare Dc. Nel 1988 D’Acquisto, a coronamento di unafedeltà correntizia di lungo corso, diventa sottosegretario alla Giustiziadel governo «rinnovatore» di Ciriaco De Mita. Nel ’90 è presidentedella commissione Bilancio della Camera e deve smentire«sdegnosamente» le affermazioni di due legali del Pci che lo accusanodi essere stato in combutta, da presidente della Regione Siciliana, con iCavalieri del lavoro per la spartizione degli appalti nell’isola,soprattutto con Carmelo Costanzo che all’inizio degli anni Ottanta deve

costruire il Palazzo dei congressi di Palermo. Regista dell’operazione,secondo i legali, è Michele Sindona. Pio La Torre scopre l’accordo ecerca di impedirlo. Viene ucciso poco tempo dopo.

 Nel suo diario dalla Chiesa scrive il suo testamento spirituale. Allamoglie defunta affida pagine piene di dolore, ma anche un lucidoragionamento di ciò che coglie del suo trasferimento a Palermo: «Tirendi conto cosa è accaduto dentro di me e quali reazioni ne sono

scaturite in un’atmosfera surriscaldata da un evento gravissimo:l’uccisione, in piena Palermo, del Segretario Regionale del Pci, Pio La

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Torre?».

E poi: «L’Italia è stata scossa dall’episodio, specie alla vigilia del

Congresso di una Dc che su Palermo vive con l’espressione peggioredel suo attivismo mafioso».

Ancora: «Io, che sono certamente il depositario più informato di tuttele vicende di un passato non lontano, mi trovo ad essere richiesto di uncompito davvero improbo e, perché no, anche pericoloso. Promesse,garanzie, sostegni, sono tutte cose che lasciano e lasceranno il tempoche trovano. La verità è che in poche ore (cinque-sei) sono stato

catapultato […] in un ambiente infido, ricco di un mistero e di una lottache possono anche esaltarmi, ma senza nessuno intorno, senza l’aiuto diuna persona amica, senza il conforto di avere alla spalle una famigliacome già era stato nella lotta al terrorismo, quando con me era tuttal’Arma. Mi sono trovato ad un tratto in casa d’altri ed in un ambienteche attende dal tuo Carlo i miracoli e che dall’altro va maledicendo lamia destinazione e il mio arrivo».

Passaggi fondamentali per capire gli aspetti più intimi di dallaChiesa. Il generale tutto d’un pezzo, il generale risorgimentale chemolti hanno immaginato dopo la vittoria sul terrorismo, ci consegna ilvolto autentico di un uomo solo. Basta leggere cosa scrive nelle righesuccessive: «Mi sono trovato al centro di una pubblica opinione che adampio raggio mi ha dato l’ossigeno della sua stima e di uno Stato cheaffida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà dicombattere e debellare la mafia ed una politica mafiosa, ma all’uso eallo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti». 

Dalla Chiesa è consapevole di essere stato mandato a Palermo per«tacitare» un sistema che avverte i primi scricchiolii di un’implosioneche arriverà dieci anni dopo. Eppure il suo senso del dovere lo porta adaffrontare un ambiente «infido» come quello palermitano.

«Che poi la mia opera possa diventare utile, tutto è lasciato al mioentusiasmo di sempre, pronti a buttarmi al vento non appena

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determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi, pronti a lasciarmi solo nelle responsabilità che indubbiamentederiveranno e anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare»2.

Ecco allora che la cronaca di una morte annunciata, diventa lacronaca straziante di un uomo che, pur essendo ancora in tempo persalvarsi, non ha esitazioni e va incontro alla morte, perché lui, tra la vitae lo Stato, sceglie lo Stato, fino in fondo. Come Socrate quasiduemilacinquecento anni prima: «Adesso vado… Io a morire, voi avivere. Cosa sia giusto, Dio solo lo sa».

E così alla fine, dopo varie promesse, dalla Chiesa accetta dianticipare il suo arrivo a Palermo. Dopo l’uccisione di La Torre vuole portare la presenza dello Stato in Sicilia. E mentre è in volo per ilcapoluogo siciliano scrive una bellissima lettera ai figli: «Miei cariragazzi, vi scrivo da sette o ottomila metri di altezza, in cielo, mentrel’aereo mi porta veloce verso Palermo, verso il mio nuovo incarico. Inquesto momento mi sento più vicino a vostra madre, e la sua immaginemi ritorna com’era, bellissima… Vi voglio bene, tanto, e in questo

momento vi chiedo di essermi vicino. Vi abbraccio forte forte. Il vostro papà»3.

Dalla Chiesa sa di rischiare tanto. Proprio per questo vuole che loStato metta nella lotta alla mafia la stessa determinazione e la stessafermezza che ha messo contro il terrorismo. Invoca gli stessi poteri chegli sono stati conferiti per sconfiggere le Br. Poteri di coordinamentofra le varie forze di polizia, di intervento diretto, immediato. Uomini emezzi adeguati. Invano.

Scrive: «Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale deiCarabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa lalotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri pervincerla nell’interesse dello Stato».

Ha capito che la mafia non è più quella rozza e analfabeta che

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operava nelle campagne di Corleone negli anni Quaranta e Cinquanta.E allora si mette in testa che per sconfiggere la Piovra bisogna mozzarlela testa. E la testa sta nei movimenti finanziari, nelle banche chericiclano il denaro sporco della droga e dell’edilizia. 

Poi un giorno va a far visita a Giulio Andreotti e gli dice che non avràriguardi per la sua corrente, per i vari Salvo Lima, Vito Ciancimino, e icugini Salvo. Lui, Andreotti, sbianca in volto, ma non fa una piega. Ilgenerale confida al figlio: «Gli andreottiani ci sono dentro fino alcollo».

Dal diario di dalla Chiesa: «Ieri anche l’on. Andreotti mi ha chiesto diandare e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si èmanifestato per via indiretta interessato al problema; sono stato moltochiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di Democrazia cristiana alla quale attingono i suoi grandielettori».

E cosa fa Andreotti? Butta lì una battuta, una battuta, certamente,mica una minaccia, anzi, più che una battuta, una parabola, come Nostro Signore: «Replicò ricordando a mio padre che un mafioso,Pietro Inzerillo, era tornato dagli Usa in Italia rinchiuso in una bara, conin bocca un biglietto da dieci dollari», dice Nando dalla Chiesa aigiudici del maxiprocesso. Minacce? «Mio padre ne fu colpito, questo ècerto».

«È agli atti del processo», spiega Alfredo Galasso, «che il gen. dallaChiesa aveva puntato il riflettore sulla corrente andreottiana, la quale lovedeva come il fumo negli occhi. Il generale lo fece presente in unincontro a Giulio Andreotti. E la risposta fu assolutamente elusiva. Perquesta ragione durante il maxiprocesso chiesi che Andreotti fosseincriminato per falsa testimonianza. Il senatore a vita fu sentito a Romain un’aula della Corte di Cassazione. Questa mia denuncia fu trasmessaalla Procura della Repubblica della capitale, la quale decise che la

testimonianza di Andreotti non era rilevante, e con un espediente chiusequesta vicenda. Ma io sono assolutamente certo che Andreotti mentì, fuestremamente reticente perché non aveva voglia di “confessare” che il

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generale dalla Chiesa lo aveva avvertito, sempre sulla base di una lealtàistituzionale, che avrebbe agito nei confronti dei suoi proconsolisiciliani».

«Quando arrivò», ricorda il capo della sezione Omicidi della Squadramobile, Francesco Accordino, «fu accolto da tanta diffidenza. Ancheufficiali dei Carabinieri, funzionari di Polizia, politici dicevano: “Maquesto cosa viene a fare, che si è messo in testa, cosa crede di fare?”.Invece quando lui cominciò a fare le prime cose, si capì subito che erauna persona d’azione, una persona integralmente corretta, che volevafare pulizia all’interno delle istituzioni».

«Riallacciò rapporti con carabinieri, vecchi appuntati e maresciallifidati per assegnare loro gli incarichi più delicati. Prese contatti percircondarsi di alcuni uomini, ufficiali e sottufficiali, dell’epocadell’antiterrorismo. Voleva ricostituir si intorno un nucleo di sicurezza.Ma non tanto sul piano della scorta fisica, quanto della fidatezza, dellaraccolta e del filtraggio delle informazioni. Si era accorto, tra l’altro,che gli era stata aperta della corrispondenza personale»4.

In compenso il sindaco democristiano Nello Martellucci non perdeoccasione per rilasciare interviste in cui esprime le sue felicitazioni perl’arrivo a Palermo dell’eroe-nazionale-della-lotta-al-terrorismo. Peccato però che questo dalla Chiesa parli troppo di mafia. Criminalitàorganizzata, semmai. E poi, signori miei, i cadaveri eccellenti di questacittà, da Boris Giuliano a Terranova, da Mattarella a Basile, dimostranoche in Sicilia lo Stato è impegnato nella lotta alla delinquenza.

 Nando Dalla Chiesa: «Ricordo che mio padre prese questo messaggiocome un avvertimento, questo lo ricordo perché me lo disse».

Addirittura, secondo la testimonianza del sociologo, Martelluccivuole che sia dalla Chiesa ad andargli a far visita in municipio. DaRoma partono pressioni affinché sia il prefetto a recarsi dal sindaco. Il

generale resiste, andare al Comune significa legittimare il sindaco diSalvo Lima, e questo il prefetto vuole evitarlo. Ma alla fine, da uomo di

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Stato, deve piegarsi alle pressioni di una politica che quando vuole saessere decisionista. Il suo commento è lapidario: «Finché una tessera di partito conterà più dello Stato non ce la faremo mai a vincere».

Dalla Chiesa arriva a Palermo cinque mesi dopo le dimissioni delquestore Giuseppe Nicolicchia e del capo della Squadra mobileGiuseppe Impallomeni, risultati iscritti alla P2. Addirittura il questore fa parte «della World organization of masonic “Thougth”,l’organizzazione fondata da Licio Gelli all’inizio degli anni Settanta peresportare all’estero le trame della P2»5. 

È Pio La Torre, in una conferenza stampa nel maggio dell’81, adenunciare lo scandalo: «Il questore ha ammesso d’aver brigato per far parte della P2. E di aver tenuto con Gelli una corrispondenza durata dueanni. Impallomeni si è spinto oltre entrando nell’accolita dei fratelli proprio mentre esaminava gli atti dell’inchiesta su Michele Sindona».

«Il nome di Sindona», scrive il giornalista de «l’Unità» SaverioLodato, «era inserito in alcuni rapporti preliminari di polizia,scomparve dal dossier che aveva provocato gli ordini di cattura firmatida Costa [il procuratore di Palermo, Gaetano Costa, ucciso dalla mafiail 6 agosto 1980, nda]».

Insomma quando dalla Chiesa mette piede a Palermo capisce chemolte cose gli sono ostili.

Quando arriva a Punta Raisi lo fanno attendere per un’ora inaeroporto. Da solo. Arriva in prefettura in taxi.

«La prima cosa che fece», racconta il figlio del generale, «fu quelladi cambiare le disposizioni delle scrivanie nell’ufficio di VillaWhitaker, per evitare che gli sparassero da una finestra; fece farericerche sui dipendenti della prefettura e ne allontanò un paio con

 parenti mafiosi»6.

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Poi ci sono i partiti, i giornali. C’è la Dc intossicata dalla mafia, il Pcispaccato in due (una parte favorevole al nuovo prefetto, un’altrafortemente consociativa col sistema di potere), il «Giornale di Sicilia»finanziato dai Salvo, «L’Ora», storica testata antimafia vicina al Partito

comunista, che ufficialmente sostiene dalla Chiesa e poi pubblica letteredi questo tenore: «Il Generale dalla Chiesa rischia di diventare unasciagura per Palermo. Se si mette a fare il super poliziotto contro itrafficanti di droga finisce che rovina questa città. Si immagini tuttiquelli che oggi campano coi proventi della droga buttati sul mercato deidisoccupati. Metterebbero a sacco le nostre case, non potremmo piùuscire la sera. Ci scipperebbero negozi, ville, uffici. Non ci sarebbe più pace. I ristoranti non sarebbero più sicuri, le nostri mogli non

 potrebbero più uscire in pelliccia. No, deve stare attento a quello che faquesto Generale piemontese».

 Non ci vuole molto a capire che da certi salotti, da certe conviviali,da certi ricevimenti bisogna stare alla larga. Palermo non è una cittànormale. È una città piena di inganni che ti coopta e ti fa sua. È una«città cannibale», abituata a divorare i suoi figli migliori. Lo aveva

detto nel secolo precedente Leopoldo Notarbartolo, il figlio diEmanuele Notarbartolo, il sindaco che voleva moralizzare la politica eil Banco di Sicilia, di cui era stato presidente. Lo uccisero a pugnalatesul treno Palermo-Messina, all’altezza di Termini Imerese. Fu il primodelitto eccellente della storia di Cosa nostra. L’ordine era partito dalla politica. Il mandante era un onorevole, l’on. Raffaele Palizzolo. Dopoun clamoroso processo, i mafiosi furono assolti.

È la storia che si ripete.

Quando dalla Chiesa arriva a Palermo trova anche un’altra città –  quella non ufficiale, quella degli studenti, dei lavoratori, di alcune parrocchie –  che vuole cambiare.

«Era una Sicilia che aveva dentro di sé i fermenti del cambiamento»,

ricorda Nando. «Mio padre venne seguito da una porzione di società palermitana che lo guardava con fiducia, sperando che mettesse unfreno a questa prepotenza delle cosche, all’acquiescenza e alla

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complicità della stampa».

«Ricordo che la nomina di dalla Chiesa fu accolta con grande favore

da quel neonato fronte dell’antimafia che si era intanto costituito», diceAlfredo Galasso.

«Pur essendo un militare», prosegue Galasso, «dalla Chiesa iniziòun’opera di pedagogia sociale attraverso una serie di iniziative culturali.Si faceva vedere in città, non dico abbandonando la scorta, madissimulando in qualche modo una situazione di grande protezione cheavrebbe dovuto essergli riservata. Insomma, un’opera importante che

segnò un momento di avvio di quel movimento antimafia sviluppatosinei mesi e negli anni successivi».

 Nando dalla Chiesa: «Era convinto che i siciliani fossero noncomplici ma vittime della mafia, vittime per paura. E chi avrebbesmesso di aver paura se persino il generale dalla Chiesa se ne andava ingiro con la scor ta? Voleva dare l’esempio, fu una scelta meravigliosa, egliela rinfacciarono da morto»7.

Carlo Alberto dalla Chiesa comprende il gioco e cerca di «parlare»con la Sicilia più illuminata e sensibile, capisce che la lotta alla mafianon può prescindere dalla cultura, dice «bisogna togliere l’acqua ai pesci piranha», indicando con ciò che bisogna lavorare su due fronti, suquello culturale per eliminare l’omertà, e su quello finanziario perindagare sui capitali illeciti. Si reca nelle scuole e nei luoghi di lavoro.

trasmette valori di cui nessuno ha mai sentito parlare. Parla di onestà, dirispetto, di istituzioni, di senso dello Stato.

A Palermo trova una Polizia in fase di rinnovamento dopo loscandalo P2 che ha travolto il questore e il capo della Mobile. LaSquadra mobile è il fiore all’occhiello di questa nuova strutturainvestigativa. Ci sono investigatori di grande valore come NinniCassarà alla Investigativa, come Beppe Montana alla Catturandi, come

Francesco Accordino alla Omicidi. Di questi tre, l’unico sopravvissutoè Accordino, che oggi ha sessant’anni. «Nella mia carriera mi sono

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 passati oltre mille omicidi», dice. «Quando arrivò, dalla Chiesa vollemettersi in contatto con noi, per sapere cosa bolliva in pentola, cosastavano facendo, se avevamo in preparazione qualcosa di grosso. Allorastavamo realizzando un rapporto che successivamente fu la base del

maxiprocesso, la base di strategia di lotta alle famiglie mafiose, ilrapporto a carico di Greco Michele +161. Lui era molto entusiasta.Michele Greco, detto il “Papa”, era un nobile palermitano nella cuitenuta di Favarella andavano prefetti, questori, generali dei Carabinieri, politici. Era un insospettabile con tanto di porto d’armi e di passaporto».

Ecco cosa scrivono i magistrati del maxiprocesso: «Non è dadimenticare la scossa frenetica che dalla Chiesa iniziò a dare a unambiente sonnolento, rendendosi protagonista d’incontri, d’interviste,di dichiarazioni pubbliche, di proclamazioni d’intenti, d’indicazioni puntuali, che miravano a risvegliare l’interesse generale su un problemache mostrava tutto il suo drammatico peso nella vita dell’intera Nazione. È quindi innegabile che su di lui conversero i faridell’attenzione isolana e nazionale»8. 

«Sui giornali di quei giorni», ricorda Nando dalla Chiesa, «era tuttouno stillicidio di dichiarazioni anonime di magistrati, funzionari, poliziotti»9.

L’eroe della lotta al terrorismo non va a Palermo solo per arrestare imafiosi, ma per proporre un modello culturale nuovo, diverso,alternativo a quello mafioso. E questo nel Palazzo non passainosservato.

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Intanto a Catania

«Nel settembre scorso ci siamo incontrati con i Costanzo, con i

Rendo e con i Graci. Eravamo tutti nel palazzo del centro direzionale diRendo. E abbiamo stabilito un patto di ferro: lasciamo ai piccoli leopere da uno o due miliardi, così possono crescere anche loro o almenovivere. Al resto pensiamo noi».

Questo dichiara uno dei quattro Cavalieri al «Corriere della Sera»quando l’inviato gli chiede: chi sono i nuovi padroni di Catania e dellaSicilia? E lui, senza un attimo di esitazione: noi. Noi chi? Carmelo

Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro. I padroni. A loro gli appalti miliardari, agli altri le briciole. E perché mai?Perché loro hanno quello che gli altri non hanno: la mafia. Che li protegge ed espelle dal mercato gli imprenditori onesti. Semplice no?

Per capire il livello di penetrazione dei maggiori imprenditoricatanesi nei gangli vitali dello Stato, basta raccontare quello che il primo settembre 1983  –  un anno dopo l’assassinio di dalla Chiesa, inoccasione di un ordine di cattura emesso dalla Procura di Arezzo neiconfronti di Ugo Rendo, figlio del Cavaliere Mario  –  viene ritrovato nelcorso di una perquisizione nell’abitazione romana dell’imprenditoreetneo. Una serie di carpette contenenti appunti e promemoria che  –  scrive Falcone  –   «per la loro rilevanza si riportano» agli atti delmaxiprocesso.

Quattro carpette destinate a esponenti del governo nazionale e aqualcuno dell’opposizione. 

I destinatari sono il ministro delle Finanze Rino Formica, il segretariogenerale della Presidenza della Repubblica Antonio Maccanico (poiministro nei governi Prodi e D’Alema), l’on. Antonino Gullotti,ministro ai Beni culturali e ambientali, e il parlamentare del PciEmanuele Macaluso, direttore de «l’Unità». 

Rendo chiede al ministro Formica un intervento presso la Guardia di

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Finanza per certi controlli eseguiti nelle sue aziende, a Sua EccellenzaMaccanico il trasferimento a Catania di questori suoi amici.

Significativi gli appunti che riguardano il ministro Gullotti: «1)Questione inchiesta Procura Catania –  Ammorbidire. 2) Seguire nominaProcuratore Generale a Catania. 3) Questione passaporti e chiusura procedimenti in corso per reati fiscali (dott. D’Agata –   speculazioneCiancio, Costanzo etc.). 4) Questione stampa tipografia Catania e mioincontro Lima e D’Acquisto. 5) Gare autostrada Me-Pa».

All’onorevole Macaluso, in merito alla presidenza della Corte

d’Appello di Catania, si chiede se «sono riusciti ad addomesticare ilPci».

Sentiti dalla Procura di Palermo, i quattro uomini politici, purammettendo la loro amicizia con Rendo, dicono di non aver esaudito lesue richieste.

«Gli appunti sequestrati al Rendo», scrive Falcone, «sarebbero statinulla più che mere manifestazioni di intenti, non seguite da alcunfattivo interessamento presso le personalità indicate». In ogni caso,colpisce il tentativo di avere tutto sotto controllo, di «ammorbidire»certe inchieste della Procura, di tentare di agganciare anchel’opposizione per «addomesticarla». Colpiscono i modi, il linguaggio,la maniera di rapportarsi alla pari con ministri e alti esponentiistituzionali di un personaggio che ormai è ufficialmente considerato

«un colluso».

Ecco cosa scrive il questore di Catania Luigi Rossi sui Cavalieri.

Su Mario Rendo: «Un vincolo scellerato unisce la manovalanzacriminale mafiosa al sistema economico imprenditoriale sicilianorappresentato da uomini come Mario Rendo».

Su Gaetano Graci: «Calza a pennello la figura aggiornata e rivista del

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mafioso dei nostri tempi che, inserito in un contesto imprenditoriale, hacercato e trovato giusti legami con esponenti di spicco della malavitanazionale e internazionale».

Su Carmelo Costanzo: «Uno degli uomini che con la mafia si sonoarricchiti [...]. Chiari sintomi di una sottile pericolosità, ancorchégenerica, sono però nettamente evidenziabili nella sua attitudine alfalso, alla corruzione, al disprezzo per l’autorità costituita, nonché allasua assoluta noncuranza per l’incolumità fisica e la vita dei  suoidipendenti»1.

Conclusione del questore: i Cavalieri sono soggetti pericolosi e pertanto vanno inviati al soggiorno obbligato. Proposta respinta.

In quel periodo un intellettuale non allineato di Catania vienecontattato da un gruppo di imprenditori per assumere la direzione del«Giornale del Sud», un nuovo quotidiano da affiancare a quello che daldopoguerra opera in regime di monopolio nel capoluogo etneo, «LaSicilia», di proprietà dell’editore Mario Ciancio (oggi sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa), famiglia di ricchi proprietari terrieri che dagli anni Sessanta scopre la vocazione delcemento. Più che un giornale, «La Sicilia» è uno strumento di pressione per modificare le destinazioni d’uso di certi terreni. Più che un giornale,un modo per distogliere l’attenzione dagli intrighi del Palazzo. 

L’intellettuale si chiama Giuseppe Fava, ha scritto saggi, romanzi e

lavori teatrali di grande successo. Non è lo scrittore di provincia chiusonei confini asfittici della sua regione, è l’intellettuale europeo cheracconta delle storie siciliane per farne una metafora nazionale.

Per capire chi è Fava basta fare un esempio: all’inizio degli anniOttanta il film Palermo oder Wolfsburg del regista tedesco WernerSchroeter, tratto dal romanzo dello scrittore catanese Passione diMichele, vince l’Orso d’oro al Festival di Berlino. 

Dunque Fava viene avvicinato da alcuni imprenditori legati al

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cavaliere Graci che gli spiegano l’iniziativa: il giornale uscirà ognimattina nelle edicole di Catania e provincia, avrà una tiratura iniziale dicirca diecimila copie, e sarà stampato negli stessi locali in cui è ubicatala redazione.

Dopo diverse perplessità Fava accetta, ma a condizione che si stipuliun contratto che preveda la massima libertà di espressione, e un gruppodi collaboratori scelti da lui.

Ai futuri proprietari, il giornale servirà a consolidare il potere, astringere alleanze, a mandare messaggi alla politica. A Fava, invece,

servirà a creare una testata autenticamente alternativa, che dicaall’opinione pubblica tutto ciò che l’altro giornale nasconde. 

In effetti Fava è consapevole del mare sporco da cui è attorniato, maè anche sicuro  –   grazie a quel contratto che lo tutela  –   di riuscire acreare uno strumento che possa diventare punto di riferimento di quella parte di città che vuole davvero cambiare.

Il direttore si circonda di un gruppo di ventenni senza moltaesperienza, ma con lo stesso concetto etico del giornalismo: il figlioClaudio; Riccardo Orioles, ex cronista de «il manifesto»; MikiGambino, Antonio Roccuzzo, Rosario Lanza, Fabio Tracuzzi, freschi dilicenza liceale; Elena Brancati e Giovanna Quasimodo, nipoti deigrandi scrittori Vitaliano Brancati e Salvatore Quasimodo; LilloVenezia, reduce dall’esperienza de «Il Male», e poi Sebastiano

Messina, Agrippino Gagliano e tanti altri ragazzi alle prime armi.

 Nel nuovo giornale, Fava racconta tutto ciò che succede a Catania enella Piana di Comiso, senza bucare nulla. Su quest’ultimo argomento,ricollegandosi alle lotte di Pio La Torre, non solo descrive i rischi diuna guerra nucleare, ma denuncia l’irregolarità di certi appalti per lacostruzione delle basi missilistiche in cui sono coinvolti i Cavalieri.

Per la prima volta i catanesi conoscono dei retroscena di cui, per tantianni, sono stati tenuti all’oscuro: le grandi fortune di questi

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imprenditori rampanti, la rapida ascesa di Santapaola, la tracotanza deiFerlito, le nuove rotte della droga, i missili Cruise.

Poi un giorno Alfio Ferlito viene arrestato a Milano con diversiquintali di hascish. Giro delle redazioni del cugino assessore per evitareche la notizia venga divulgata. Fava è a Roma per impegni teatrali.Quando l’assessore arriva al «Giornale del Sud» il servizio su Ferlito ègià impaginato. In quell’articolo Claudio e Riccardo hanno scritto tutto,l’ascesa del padrino, gli intrallazzi del cugino, la guerra con Santapaola.Il politico parla con gli editori e quel servizio viene eliminato. Ci sono proteste ma l’articolo non esce. 

Il giorno dopo, Fava torna da Roma e succede il putiferio. E lospeciale su Ferlito si fa, con tanto di foto, di nomi e di notizie di primamano.

Riccardo Orioles: «Penso al povero capo della squadra narcotici dellaquestura, che inseguivo per i corridoi perché non mi voleva dire cheavevano arrestato il mafioso catanese a Milano. E quando gli arrivaivicino, si barricò dentro la camera di sicurezza, pur di non parlare colgiornalista che gli chiedeva conto dell’arresto di Ferlito». 

«Santapaola», prosegue Orioles, «faceva parte dell’establishmentcatanese, andava a pranzo col colonnello dei Carabinieri, si scambiavadei favori. E lui, il colonnello, assieme ad alcuni magistrati dellaProcura, veniva ospitato alla Perla Ionica, di proprietà di personaggi

vicini a Santapaola. A Catania abbiamo avuto il procuratore, tale PietroPerracchio che, poveraccio, si vendette ai mafiosi: il prezzo dellacorruzione era un furgoncino di salumi e di formaggi che mensilmentegli veniva recapitato a casa».

Ecco cosa scrivono i giudici del maxiprocesso: «La moglie diSantapaola, Carmela Minniti, e i figli, erano alloggiati in una palazzinadel complesso turistico “La perla Ionica”, di pertinenza del gruppo

Costanzo, dal 22 giugno al 31 dicembre 1982, quando cioè ilSantapaola era ricercato quale autore, in concorso con altri, dello

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spietato eccidio della Circonvallazione di Palermo».

 Nello stesso periodo  –   secondo i magistrati  –   il boss catanese

intrattiene «ottimi rapporti» con gli altri Cavalieri, protegge i lorocantieri, li incontra, punisce chi osa mettersi contro di loro.

È questa la Catania di allora. Giuseppe Fava e i suoi giovanigiornalisti squarciano il velo su un sistema che va oltre la città etnea. Equesto il potere non può consentirlo. E così una notte, davanti allaredazione, viene collocata una bomba che provoca un sacco di dannima per fortuna non uccide nessuno. Fava ironicamente dice: «Si sono

messi la bomba perché avevano paura del loro stesso giornale». Econtinua tranquillamente il suo lavoro. Alla fine, di fronte all’ennesimatrasgressione, viene licenziato con questa singolare motivazione: «Ildirettore non ha mantenuto fede agli impegni previsti dal PattoAtlantico».

Poco tempo dopo il giornale chiude. Ma la storia non finisce qui.

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Potere

C’è un discorso destinato a passare alla Storia. Dalla Chiesa lo

 pronuncia il primo maggio 1982, il giorno dopo il suo insediamento aPalermo, il giorno dopo l’assassinio di Pio La Torre. È un discorso cheviene fatto nel corso dell’incontro con i Maestri del lavoro di Palermo:«Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato,delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegarequesto potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti».

«Potere può essere un sostantivo nel nostro vocabolario, ma è anche

un verbo, un verbo [...]. Potere; l’ho sentito questo verbo. E bbene, iol’ho colto e lo voglio sottolineare in tutte le sue espressioni o almenoquelle che così estemporaneamente mi vengono in mente».

«Poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccial’interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figlisenza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa, poterguardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici, dirinunzie, ma di pulizia, poter sentirci tutti uniti in una convivenza, inuna società che è fatta, è fatta di tante belle cose, ma soprattutto dellavoro, del lavoro di tanti, operai, impiegati, dirigenti, che [...]rappresentano tutta la Sicilia, rappresentano non solo la città diPalermo, non solo questa capitale bellissima dell’isola, marappresentano gli angoli più remoti di questa Sicilia, che vuole essere buona, che vuole essere sana, che vuole essere difesa, vuole progredire,

non può restare vittima di chi prevarica, di chi attraverso il poterelucra».

«E occorre che tutti, gomito a gomito, ci sentiamo uniti, perché anchechi è animato da entusiasmo, anche chi crede, come crede colui che inquesto momento vi sta parlando, ha bisogno di essere sostenuto, diessere aiutato, di sentire di vivere in mezzo a chi crede perché, tutti

credendo, possiamo raggiungere la meta che auspichiamo: latranquillità, la serenità»1.

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 Non è un discorso, è un manifesto politico di lotta alla mafia. Mai prima d’ora a Palermo si era sentita una cosa del genere. Un uomo delleistituzioni che chiama a raccolta la parte migliore della società per fare«insieme» la lotta alla mafia.

Trascorre un mese e mezzo. La mattina del 16 giugno, allacirconvallazione di Palermo, mentre il boss catanese Alfio Ferlito vienetradotto nel carcere di Trapani, un commando assalta il furgone blindatoe uccide il capomafia etneo, tre carabinieri e l’autista della ditta adibitaal trasporto. Con questa strage Nitto Santapaola  –   rivale storico di

Ferlito, e mandante dell’eccidio –   diventa l’unico referente di Cosanostra catanese, si dà alla latitanza, ma viene protetto per molti annidallo stesso Stato che dovrebbe dargli la caccia. È una strage che turba perfino dalla Chiesa.

Il generale si rende conto della nuova strategia stragista di Cosanostra, e nella nuova geografia del crimine colloca Catania allo stessolivello di Palermo.

Scrive Falcone: «Circa un mese dopo il suo insediamento, dallaChiesa richiedeva al prefetto di Catania, in via del tutto riservata, un profilo informativo sui titolari delle imprese Graci e Costanzo, sui loro prossimi congiunti e sullo loro attività economiche. Nella risposta, il prefetto di Catania […] riferiva del coinvolgimento di Graci nella notavicenda del finto sequestro di Sindona e del rapporto di lavoro tra il

defunto Giuseppe Calderone [ex boss di Catania, nda] e la dittaCostanzo, escludendo, però, qualsiasi rapporto di “connivenzadelittuosa” fra il Calderone e i Costanzo, e sostenendo che la dittaCostanzo, oggetto di mire aggressive da parte della malavita catanese,si appoggiava al Calderone, ex imprenditore edile, per garantirsi il“tranquillo svolgimento della propria attività imprenditoriale”. Nessunaccenno veniva fatto a Nitto Santapaola, denunciato alcuni giorni prima per la cosiddetta “strage della circonvallazione di Palermo”: devededursi, quindi, che il prefetto di Catania ne ignorasse i rapporti conCostanzo»2.

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Bozzo inquadra questo incontro appena due mesi primadell’assassinio. Quel rapporto è di una importanza estrema perché è conquel rapporto che dalla Chiesa vuole aggredire la testa della Piovra.

Il generale non solo è consapevole che Cosa nostra ha esteso i suoitentacoli anche a Catania, ma che da Catania riparte per saccheggiare la parte occidentale dell’isola con il consenso della mafia palermitana. 

Ha le prime carte per inchiodare i Cavalieri. Ha imboccato la stradagiusta. Se gli danno i poteri promessi, nel giro di qualche anno potrebbesconfiggerla davvero la mafia.

Questo fatto «determinò vivo allarme in seno alla criminalitàorganizzata [...] che fu mobilitata (per ordine certamente venuto da piùin alto) al fine di pedinare i movimenti del dalla Chiesa». Da questo «siha chiaro il quadro di una congiura ordita al fine di sopprimere questaminaccia gravissima ai loschi traffici, fiorenti per intensità e profitti,

che l’organizzazione “Cosa nostra” ordiva in Italia e all’estero»4. 

«Di lui si temevano gli sconfinamenti territoriali in direzione Catania,versocui certamente l’attenzione del prefetto si era orientata esoffermata», scrivono i magistrati del maxiprocesso.

Il 12 luglio 1982, Carlo Alberto dalla Chiesa sposa Emanuela SettiCarraro. Il matrimonio viene celebrato in forma privata in una chiesettadel Trentino. È l’unico momento bello del nuovo prefetto di Palermo. 

Pochi giorni dopo rieccolo in trincea. Assieme alla bellissimaEmanuela.

E mentre è in trincea succede un fatto che accelera la sua condanna amorte: la storica intervista a Giorgio Bocca, in cui rivela delle cose

talmente dirompenti da creare un terremoto. Ma solo in apparenza, perché la politica non reagisce, finge indifferenza. Un’intervista lucida,

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ma anche uno sfogo, una denuncia sui poteri che lo Stato non gli hadato.

Questi i retroscena come li ricorda Bocca.

«Il 7 agosto 1982 un giornalista della redazione siciliana diRepubblica mi telefona in Valle d’Aosta, a Beillardey, dove sono invacanza: “Dalla Chiesa vorrebbe vederti”. “Quando?”, chiedo. “Il più presto possibile”. Scendo a Milano, prendo il primo aereo e arrivodavanti alla prefettura. All’ingresso della Villa Whitaker non ci sono icarabinieri delle caserme Moscova o Cernaia, ci sono dei poliziotti che

fumano e leggono i giornali. “Dovrei vedere il generale dalla Chiesa”,dico, e mi aspetto che mi mettano a mani alzate contro il muro. Inveceuno continua a leggere il giornale e l’altro fa appena un gesto del capoverso la villa. Per le scale non c’è anima viva, al primo piano mi aspettaun vecchio segretario. Il generale, ora prefetto, lo trovo in un corridoiomentre esce da una porticina, una toilette. Fuori un vento caldo frusciatra i palmizi, e mi chiedo che cosa ci facciamo lì noi due, checommedia cerchiamo di recitare, mentre già si tesse la rete dei grandi

 padrini mafiosi che fra qualche giorno lo uccideranno»5.

Il 10 agosto a Palermo viene commesso un altro omicidio. Icarabinieri ricevono questa telefonata: «Siamo i killer del triangolodella morte. Con l’assassinio di oggi l’operazione Carlo Alberto è quasiconclusa. E sottolineo: quasi conclusa».

Ma lo stesso giorno, «la Repubblica» pubblica l’intervista di Bocca,intitolata Come combatto contro la mafia:

PALERMO  –   La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoidelitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia eAltavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato,ancora un omicidio domenica notte, sempre lì, alle porte di Palermo,mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo

internazionale, del «wind surf» nel mare azzurro di Mondello. Ma èsoprattutto il modo che offende, il «segno» che esso dà al generale

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Carlo Alberto Dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potentimotociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, adistanza di dieci minuti da un delitto all’altro. 

Dalla Chiesa è nero: «Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l’arroganza mafiosa devecessare».

Che arroganza generale?

A un giornalista devo dirlo? Uccidono in pieno giorno, trasportano icadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li brucianoalle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo.

Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certodisagio la sua trasformazione: dai bunker catafratti di via Moscova, inMilano, guardati da carabinieri in armi, a questa Villa Whitaker, un po’

lasciata andare, un po’ leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati,un vecchio segretario che arriva con le tazzine del caffè e sorride comea dire: ne ho visti io di prefetti che dovevano sconfiggere la Mafia.

Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua odi qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?

Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale deicarabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa lalotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri pervincerla nell’interesse dello Stato. 

Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene ilConsiglio dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve

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«coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale» la lotta allaMafia.

 Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati.

Vediamo un po’ generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è lastessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia ilsovrintendente, il coordinatore.

Preferirei l’esplicito. 

Se non ottiene l’investitura formale che farà? Rinuncerà allamissione?

Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia,non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia diredi più.

 No, parliamone, queste faccende all’italiana vanno chiarite. Lei cosachiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefettoMori?

 Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo diMori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui

ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, doveoccorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel «pascolo» palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo.

Lei cosa chiede? L’autonomia e l’ubiquità di cui ha potuto disporrenella lotta al terrorismo?

Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico.Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate

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nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto.Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi.

Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati,coordinati in tutte le città calde?

Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista,disciplina giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo,maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali.Difficile da capire.

Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e diLiggio, lei è stato qui fra il ’66 e il ’73 in funzione antimafia, il giovaneufficiale nordista de Il giorno della civetta. Che cosa ha capito alloradella Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?

Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l’istituto del soggiornoobbligatorio era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione

tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i mieicorleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovatistranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanzada Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per piùomicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto:«Brave persone». Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno siera accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o chetenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi.

E oggi?

Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, equesta è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamentedefinita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania,anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della

Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggilavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non cifosse una nuova mappa del potere mafioso?

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Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, uccisonell’agguato sull’autostrada, sì quando ammazzarono anche icarabinieri di scorta, non era il cugino dell’assessore ai Lavori pubblicidi Catania?

Sì.

E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? Èvero che sono sempre nel cassetto dell’assessore al Territorio eall’Ambiente? 

Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerarel’abusivismo. 

Senta generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili,altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella

venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombomafioso. Cosa è successo, generale?

È accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualcheombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la suaattività politica e l’impegno del suo lavoro come pubblicoamministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha datochiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo dellaMafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del «palazzo». Credo di aver capitola nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questacombinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato.

Mi spieghi meglio.

Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse

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aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare lalinearità dell’amministrazione. Anche nella Dc aveva più di un nemico.Ma l’esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbeessere la copia conforme del caso Coco.

Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistonoaffinità elettive?

Direi di sì. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro lamaggioranza della Procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gliSpatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un

corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica eanche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli dellaXXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato.

Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandantimorali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.

Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge,di mettere accanto alla «associazione a delinquere» la associazionemafiosa.

 Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazionemafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?

È materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l’associazione mafiosa. La definiscono per ilcodice e sottraggono i giudizi alle opinioni personali.

Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino de Ilgiorno della civetta?

Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta,lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne

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accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco.

Mi faccia un esempio.

Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, diufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendereil caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casal’eroina corre a fiumi ci vado e servo da copertura. Ma se io ci vadosapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quantoaccade.

Che mondo complicato. Forse era meglio l’antiterrorismo.

In un certo senso sì, allora avevo dietro di me l’opinione pubblica,l’attenzione dell’Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tuttinegli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia èdiverso, salvo rare eccezioni la Mafia uccide i malavitosi, l’Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia.

Perché sbaglia, generale?

La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossiinvestimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a meinteressa conoscere questa «accumulazione primitiva» del capitalemafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate,

estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in casemoderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di piùla rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, aquei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.

E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale?

Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due

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anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi chesegreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono iloro clienti mafiosi. La lotta alla Mafia non si fa nelle banche o aBagheria o volta per volta, ma in modo globale.

Generale Dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissimeambizioni?

Mi guarda incuriosito.

Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l’hanno persa tutti, dasecoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il banditoGiuliano, l’ala socialista dell’Evis indipendente e la Sinistra sindacaledei Rizzotto e dei Carnevale, la commissione parlamentare di inchiestae Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.

Ma sì, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più prestodefinito il carattere della specifica investitura con la quale mi hannofatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere.Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Hocapito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadininon sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo

questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati.

Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora DallaChiesa, oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generaleassicura che non c’erano neppure negli anni dell’antiterrorismo. Diceche è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono ditrasferirlo a un mondo migliore. «Doveva uccidermi Piancone la sera

che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi videtroppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l’elenco completo

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di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie. Ditutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato dauno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non leho prese neppure nei giorni in cui su “Rosso” appariva la mia faccia al

centro del bersaglio da tirassegno, con il punteggio dieci, il massimo.Se non è istigazione ad uccidere questa?».

Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono?

Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcunoaccenna un inchino e mormora: «Eccellenza»6.

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A Palermo per morire

Quell’intervista è un pugno nello stomaco, specie se si pensa che per

l’Italia intera Carlo Alberto dalla Chiesa –  assieme al Presidente dellaRepubblica Sandro Pertini e alla Nazionale di calcio  –   è uno dei personaggi più amati.

Per la prima volta gli italiani si accorgono che la mafia è unfenomeno nazionale ed europeo. Quell’intervista rappresenta una svolta perché per la prima volta si parla dei Cavalieri del lavoro di Cataniacome paradigma dell’imprenditoria mafiosa, dell’accumulazione

illecita e del riciclaggio del denaro sporco nelle banche o nelle attivitàapparentemente lecite, palazzoni di venti piani, cementificazionedisordinata, centri turistico-alberghieri, ristoranti alla moda. Per la prima volta si parla di mafia «globale», di «policentrismo» di Cosanostra, di confisca dei beni mafiosi.

«Il generale non amava le interviste, eppure quella l’aveva chiestalui. Per drammatica urgenza [...]. Aveva voluto un giornale e ungiornalista non sospetti di benevolenza acritica nei suoi confronti.Bocca aveva espresso più volte su “Repubblica” le sue perplessità sualcuni episodi della lotta al terrorismo. Era dunque l’interlocutoreideale per dare rappresentazione oggettiva di quel che stava accadendoa Palermo, dello scontro che si giocava sui poteri di coordinamentodella lotta alla mafia, prima promessi e poi mai dati al prefetto»1.

«Mio padre», spiega Nando dalla Chiesa, «disse ciò che soltantoadesso viene chiarito da Massimo Ciancimino: ovvero che c’era un patto di ferro tra Totò Riina e i Cavalieri del lavoro. Ma la politica, aquelle denunce, non reagì. Dopo la morte di mio padre, il Psitranquillamente flirtò con i Cavalieri, la Dc fece lo stesso e il Pciaccusò gli antimafiosi di chiedere le analisi del sangue agliimprenditori».

C’è una parola che dalla Chiesa –  a proposito dei poteri speciali chegli devono essere conferiti  –   rivela a Bocca: «Settembre». O entro

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settembre gli danno i poteri promessi oppure rinuncia all’incarico.Tradotto in parole povere: o lo Stato fa seriamente la lotta alla mafia ome ne vado. Un perentorio aut aut che, se avesse scadenza immediata,metterebbe lo Stato con le spalle al muro. Prima di tutto perché lo Stato,

la lotta alla mafia non ha mai voluto farla seriamente, e poi perché lostesso Stato non può perdere la faccia di fronte a un’opinione pubblicasempre più inquieta, specie dopo un’intervista clamorosa come quellarilasciata a Bocca. Ma siccome quell’aut aut è fatto ad agosto, qualcuno pensa che il tempo di organizzarsi ancora c’è. Un mese è sufficiente.Settembre... Certo generale, a settembre può succedere di tutto.

Intanto la strategia di logoramento va avanti.

Il 13 agosto il presidente della Regione D’Acquisto –   facendo dasponda alle lamentazioni dei Cavalieri –  scrive al generale dalla Chiesauna lettera di questo tenore: «Nell’intervista da Lei rilasciata al giornale“la Repubblica”, si legge quanto segue: “Con il consenso della mafia palermitana le quattro maggiori imprese edili catanesi lavorano oggi aPalermo”. La circostanza mi par e assai grave ed abbisognevole di

attento approfondimento. La prego quindi di comunicarmi ogni precisazione ed elemento che possa servire a suffragarla o meno, al finedi trarne le necessarie conseguenze per l’attività di questa pubblicaamministrazione […]. Suo Mario D’Acquisto»2. 

«Nonostante le assicurazioni e le pubbliche affermazioni di stima delministro Rognoni», scrive Falcone nella sentenza-istruttoria delmaxiprocesso, «le cose non andavano per il verso giusto». Lo stessoFalcone parla esplicitamente di «confusione», di «incertezza» e di«resistenze interne».

 Negli stessi giorni D’Acquisto dichiara alla stampa: «Non sono previsti provvedimenti eccezionali, perché al Viminale non si è cercatanessuna novità sensazionale o reclamistica». Come dire: Rognoni faccia pure le sue attestazioni di stima, ma di poteri a dalla Chiesa non se ne

 parli proprio. I socialisti dal canto loro «non paiono rammaricati dallenon decisioni di Rognoni».

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Istintivamente Emanuela avverte i segnali. Lei è milanese e nonconosce i linguaggi, i messaggi, i codici che viaggiano con lo sciroccodi quel terribile agosto, eppure ha antenne sensibili, percepisce cheattorno a lei e al marito c’è una tranquillità fin troppo strana, la stessache ha percepito Bocca quando si è recato in prefettura. E lo confida algenerale. È una circostanza emersa al maxiprocesso istruito daGiovanni Falcone. Una circostanza venuta fuori quando è statainterrogata la domestica di Villa Paino, residenza del prefetto e dellamoglie. A tavola Emanuela si mostra timorosa: stare a Palermo è«pericolosissimo». Carlo la rassicura: «Stai tranquilla, non mi farannoniente. Se mi faranno qualcosa, tu sai che c’è il nero su bianco e saidove prenderlo».

«Il nero sul bianco»? Che vuol dire il generale dalla Chiesa? Che selo uccidono potrebbe lasciare delle carte dove svela i segreti della suamorte?

La madre di Emanuela, la signora Antonia Setti Carraro, riporta una

 battuta confidatale dalla figlia: «Col cucco che gliele ha date tutte adAndreotti le carte su Moro». Su Moro? E poi: «Mamma, io so cosetremende, ma non posso dirle, Carlo mi ha fatto giurare di non dirle anessuno».

Un’altra circostanza che Nando dalla Chiesa contesta decisamente.Anzi, si sfoga «per le dichiarazioni rese in tutti questi anni dalla

mamma di Emanuela, alla quale sono stato nell’impossibilità psicologica di dover dire che non sempre diceva la verità».

Il figlio del generale è percorso da un fremito di indignazione quandosi scivola su questo argomento. Dopo trent’anni interrompe unariservatezza che su questo punto l’ha sempre portato ad essere accorto,misurato, silenzioso.

«Mi dispiace dirlo, ma questa signora ha contribuito a isolarmi. Basti pensare a un’intervista che rilasciò a “Il Giorno”: “Se suo padre lo

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3 settembre 1982

Intanto il «sottosuolo» palermitano si muove, subisce fortissime

scosse, mentre lassù, in superficie, nessuno avverte tremori, la cittàsembra surreale, apparente, continua a sonnecchiare, avvolta daquell’afa a quaranta gradi all’ombra. Sonnecchia il vetturino,sonnecchia il suo cavallo, sonnecchia ’u panellaru, sonnecchia ilmacellaio, sonnecchia il bibitaro, sonnecchia la politica.

Solo i mafiosi sono attivi. E molto preoccupati. Questo-ci-fottecome-ha-fottuto-i-terroristi... Addirittura-dice-che-li-torturava... Un-

cuinnutu...

Dalla città apparente, gli uomini dabbene fanno eco: Ma-che-vuole-questo-dalla-Chiesa? Si-vada-a-sciacquare-le-palle-a-Mondello.

Intanto i segnali si moltiplicano. In prefettura arrivano stranetelefonate. C’è chi si presenta come giornalista, chi come ufficiale dei

Carabinieri, chi come anonimo e dal centralista vuol sapere se lasignora dalla Chiesa è in casa; chiude improvvisamente quandol’operatore telefonico gli chiede se intende parlare col generale. 

È da un mese –  da quando il nuovo Prefetto si è dato quella scadenza,«settembre»  –   che gli «uomini d’onore» si riuniscono ogni giorno al«Fondo Pipitone» per organizzare il piano di morte. È nel quartieredell’Acquasanta, vicino ai Cantieri navali. Lì la Famiglia Galatolo –  

quella che controlla la zona  –  ha messo a disposizione i suoi locali perfare il «quartier generale» delle cosche palermitane. Il «sottosuolo» èquesto. Invisibile. Impalpabile. Impenetrabile. Eppure sotto gli occhi ditutti. Alla luce del sole.

A illustrare il progetto sono Antonino Madonia, Giuseppe GiacomoGambino e Pino Greco detto «Scarpuzzedda». A questi tre,ufficialmente, i Corleonesi di Riina hanno assegnato il compito diorganizzare l’omicidio. Studiano le strade, i pedinamenti, le abitudini,sanno che la vittima predestinata cambia spesso percorso e sanno pure

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che cammina senza scorta.

Ad ascoltarli sono una mezza dozzina di soldati: Raffaele Ganci,

Francesco Paolo Anzelmo, Vincenzo Galatolo, Antonino Rotolo,Giuseppe Lucchese, Giovanni Motisi.

Sono due pentiti, Francesco Paolo Anzelmo e Raffaele Ganci,all’inizio del Duemila, a fare queste rivelazioni ai magistrati diPalermo.

Una leggera brezza prende il posto dello scirocco, mentre ilcalendario segna settembre.

Il 2 dalla Chiesa incontra il ministro delle Finanze Rino Formica. Ladiscussione fra il ministro e dalla Chiesa è molto delicata. Il prefettosottopone al titolare delle Finanze il rapporto delle Fiamme gialle in cuisi parla di oltre tremila patrimoni sospetti. Non conosciamo le realireazioni e i reali sviluppi di quella discussione.

Tre settembre. Mattina. La pazienza di dalla Chiesa è al limite, ormaiil generale ha la chiara percezione che a Roma lo abbiano mollato.Avverte che la terra gli brucia sotto i piedi, che certi legami invisibilidiventano sempre più chiari. «La situazione sta precipitando. Purtroppoquanto avevo previsto sta verificandosi, stanno venendo al pettine certinodi che mi ero premurato di prospettare a chi di dovere, al momento incui mi era stato affidato questo incarico»1.

Al telefono con la suocera è più esplicito: «Io insisto a chiederequello che mi è necessario per il grande lavoro che mi sono proposto.Ci sono varie forme di chiedere e l’opinione pubblica deve essereinformata: per questo ho avvertito la stampa con la quale collaboro.Credo che sia un dovere morale avvertire l’opinione pubblica di quantosi deve fare»2.

Dalla Chiesa vuole allertare la stampa. È l’unico modo per mettere il

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governo di fronte alle proprie responsabilità, l’unico modo per salvarsila vita. L’intervista a Bocca non può essere un caso isolato. Siamo asettembre da tre giorni, da Roma il silenzio è assordante.

Sempre in mattinata c’è una telefonata fra Emanuela e la mamma.«Sono giorni terribili, ma vedrai che ne usciremo. Carlo non è sereno,dentro è teso, preoccupato. Non gli hanno dato quello che da tantotempo chiede a Roma: hanno mancato ai patti, temporeggiano e perdono tempo. Carlo Alberto è solo, gli hanno lasciato le spallescoperte [...]. Lo hanno abbandonato, non ci sono che io a coprirgli lespalle, a dargli fiducia. Lo difenderò [...]. Lui aspetta disposizioni e

uomini scelti per i suoi disegni. Mi chiedi come mi sento: fisicamenteho un gran mal di testa, ma moralmente sono sempre più su. No, non posso venire a Milano, è inutile che tu insista. Non voglio lasciareCarlo nemmeno per un momento: e chi lo salverebbe? Siamodimenticati, mamma, da quelli che ci dovrebbero tutelare»3.

Pomeriggio. Un’altra telefonata. Emanuela dice alla madre: «Nonsono del tutto tranquilla. Quando Carlo è agitato anch’io ne soffro.

Preferirei che desse le dimissioni. Carlo Alberto, se volesse, potrebbeavere una carriera politica intensa e luminosa. Credo che i partiti che più contano gli abbiano offerto il primo posto nelle eventuali liste, malui ora rappresenta lo Stato. Ho nostalgia della vita passata nella villa dicampagna, c’erano fiori dai colori vivacissimi, qualità che nemmenoconoscevo; e c’er ano poi alberi, e tanta frutta. La vita scorreva serena,ma il nostro dovere era di ritornare qui, sempre in prima linea, perchéquesta è proprio guerra, sai? E delle più difficili da combattere. Prega

 per Carlo, prega per noi, anzi “aleggia”, come dici tu. Carlo, te l’hodetto, è un po’ nervoso e preoccupato, ma non vuole farlo capire,desidera che i suoi figli siano tranquilli [...]. È stato troppo militare. Haaffrontato la situazione di petto. Non ha saputo essere un politico. Hadetto le cose con troppa franchezza a tutti, anche a quelli ai quali nondoveva dirle. Ha lavorato allo scoperto, con onore, con chiarezza. Èandato di persona nei municipi, ha guardato con profondità nellesegrete cose. Ha agito con troppo coraggio. Non si rassegna all’omertà.

Le minacce di morte sono continue»4.

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«C’era uno scenario inquietante», dice Giuseppe Ayala, pm almaxiprocesso. «Non si capiva perché il governo non gli dava i poteri promessi. Lui pressava e loro nicchiavano. Ci fu la netta sensazione chefosse stato mandato in Sicilia e poi abbandonato a se stesso perché

c’erano pezzi dello Stato contrari al conferimento di questi poteri, pezzidello Stato che lavoravano non nell’interesse dello Stato. Basterebbequesto a ipotizzare che dietro questa strage non ci fu soltanto la mafia».

Pomeriggio. Undici uomini della mafia si riuniscono al «FondoPipitone». Sono determinati a portare a termine la missione. Salgono a bordo di auto «pulite» rubate qualche tempo prima, si recano nel garage

di Nino Madonia da dove prelevano le armi, che infilano nei borsoni, ele auto «sporche» –  una Bmw e una Fiat 131, rubate anche queste –  chedevono servire per l’agguato. Tornano al «Fondo Pipitone» per metterea punto le ultime cose, quindi in corteo  –   cinque o sei macchine, piùdue moto di grossa cilindrata –  si avviano verso piazza Nascè, lo slargoubicato all’inizio di via Isidoro Carini. Sono le 19:30. Fermano auto emoto e aspettano un’ora e mezza. Comunicano con potentiricetrasmittenti.

Emanuela dice alla domestica della prefettura di preparare la cena perché questa sera resta in casa col marito. La donna apparecchia edesegue l’indicazione della signora. 

Adesso Emanuela è in camera da letto, si guarda allo specchio eammira l’abito nero con strisce bianche che indosserà. 

Esce da Villa Paino con la A112 per recarsi in prefettura a rilevare ilmarito. All’ultimo momento però c’è un cambio di programma. Nientecena in casa. Si va a Mondello, al ristorante, a respirare questa brezzache profuma di alghe e di mare. A Villa Paino la tavola restaapparecchiata.

Adesso Emanuela è a Villa Whitaker, mancano alcuni minuti alle 21.

Il generale firma l’ultima pratica della giornata. Di fronte ha solo il

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servizio” sull’omicidio del generale dalla Chiesa fu firmata da unagente, Calogero Zucchetto, che appena due mesi dopo venne ucciso incircostanze stranissime. Si scoprì che Zucchetto, in abiti civili, sitrovava a cinquanta metri dal luogo dell’agguato, era stato il primo ad

arrivare in via Carini e aveva spento un principio d’incendio sull’autodell’agente Russo. Ma dalla lettura degli atti si deduce anche che almomento dell’arrivo della prima volante di polizia, Zucchetto non c’era più. Una Renault 14 rossa, identica alla sua, venne notata nei pressi delluogo in cui gli assassini abbandonarono i mezzi usati nell’esecuzionedell’attentato. Ma non c’è traccia di inseguimenti in nessun verbale.Due mesi dopo Zucchetto esce di casa per incontrare qualcuno di cui sifida (un collega gli offre la sua pistola, ma lui rifiuta) e viene

ammazzato. I giudici d’appello ipotizzano che Zucchetto sia stato aconoscenza “di una sconvolgente verità alternativa a quella ipotizzatadalla indagini ufficiali”. E tirano in ballo, velatamente, i servizisegreti»5.

E la storia si ripete anche stavolta. Puntuale. Come la morte. Chearriverà alcuni anni dopo per un altro agente di polizia, Nino Agostino,

il quale scoprirà i retroscena del fallito attentato all’Addaura al giudiceFalcone. Ma questa è un’altra storia. Che però con la str age di viaCarini ha delle analogie impressionanti per la presenza dei servizisegreti.

Intorno alle 22 alcuni agenti del Sisde si presentano in prefettura.Ufficialmente per prendere delle lenzuola per coprire le salme,realmente non si sa, o meglio si sa benissimo ma non ci sono prove.

Della strage di via Carini non vengono avvisate né la famiglia dallaChiesa, né la famiglia Setti Carraro.

 Nando: «Ho appreso della morte di mio padre dalla telefonata di unacugina che l’aveva visto in televisione. Stavo giocando con mio figlio piccolino. Ho acceso la tivù e ho visto che in sovraimpressione, mentre

mandavano in onda altre cose, scorrevano i titoli con la notiziadell’omicidio. Non ci avvertì nessuno. Rita venne informata da un suoamico giornalista. Simona dalla prefettura di Palermo: “È successo

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qualcosa di grave a suo padre... ”, poi le dissero che era morto. Perònon ci furono organi istituzionali che ci avvertirono, né al telefono, nédi presenza».

Simona: «Quella sera chiamai papà per dargli la buona notte. Ilcentralinista della prefettura tentennava e poi, prendendo fiato, mi disseche c’era stato un attentato. Mi suggerì di accendere la tv. Una strisciacon la notizia dell’uccisione di mio padre scorreva sotto il programma». 

Rita: «Nessuno ci avvisò. Nessuno ci disse: “C’è un aereo che sta partendo per Palermo”. Così in aeroporto mi fecero sapere che c’erano

difficoltà per andare a Palermo: “Sa, per via di dalla Chiesa... ”, così per partire dovetti dire: “Sono la figlia”». 

Anche Antonia Setti Carraro apprende la notizia dalla televisione:«Rimango senza parole. Guardo mio figlio Gian Maria che si alza dalla poltrona. E d’improvviso mi ritrovo in piedi. Istintivamente afferro lastatuetta di sant’Antonio che tengo sull’inginocchiatoio. Stringendolanella destra, percorro il lungo corridoio che porta dalla stanza da lettoallo studio, dove c’è il telefono. E continuo a mormorare: “Emanuelano, Emanuela no... ”. Arrivo al telefono. Chiamo il comando dellaLegione Carabinieri di Milano. Parlo col colonnello Vitale. Dico: “Hasentito cosa è successo? Ma è vero?”. Vitale: “No, non ho sentito, nonho nessuna notizia”. Chiamo la prefettura di Milano. Mi fanno aspettarequalche secondo, ma questo non mi turba. Ecco il prefetto: “Nosignora, io non so nulla”. Allora comincio a tranquillizzarmi: se icarabinieri non sanno, se il prefetto non sa, magari la notizia non saràcerta, l’avranno data in maniera un po’ affrettata. Ma non sono del tuttotranquilla. Chiamo il comando della divisione “Pastrengo”. Chiedo delgenerale Boldoni, carissimo amico di Carlo Alberto. Centralinista: “Mispiace signora, ma è a Bologna”. Domando: “Ritornerà stasera?”.Centralinista: “Non lo so, signora”. E io: “Per favore, mi facciarichiamare, a qualunque ora, anche all’una o alle due di notte; io sonoSetti Carraro”. Il centralinista della “Pastrengo” stette zitto un attimo.Poi disse: “Le faccio le mie condoglianze, signora”. Allora io: “È vero

che hanno ucciso Carlo Alberto dalla Chiesa?”. Centralinista: “Sì, maanche sua moglie”»6.

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Intanto sul luogo dell’eccidio una mano anonima scrive su uncartello: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti». Otto paroleche spiegano efficacemente cosa rappresenta dalla Chiesa per i palermitani, quali speranze ha suscitato. Ma anche un misuratore dellivello di «onestà» di una parte della città.

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Ricordo...

I giornalisti delle testate palermitane si riversano in via Carini per

fare i loro resoconti. Fra questi Saverio Lodato, giovanissimo cronistade «L’Ora» e de «l’Unità», che ricorda così quei momenti: 

«Nota personalità... nota personalità... nota personalità...».Gracchiarono a lungo le autoradio, quella sera del 3 settembre, in viaCarini. Non si pronunciava il nome di dalla Chiesa in quei dispacci, nonsi facevano i nomi di Emanuela Setti Carraro e dell’agente DomenicoRusso, che stava agonizzando sventrato dai colpi dei kalashnikov.

Apparve infatti subito chiaro quella sera che la bestia mafiosa avevasuperato il segno, e che sarebbero venuti ancora giorni ben più neri, ben più difficili. Era un venerdì. Mi trovavo come di consueto nellaredazione de «L’Ora» in compagnia del collega che si occupava di politica regionale. Stavamo facendo le ultime telefonate di controllo prima di andarcene a casa. A un tratto il mio collega assunse un coloritospettrale, e riuscì solo a farfugliare «dicono che hanno ammazzato dallaChiesa». In portineria, anch’egli stravolto, incontrammo un poliziotto

che sentiva ripetere nella sua rice-trasmittente: «hanno ammazzato nota personalità... hanno ammazzato nota personalità...». Ricordoun’autobotte dei pompieri messa di traverso in via Carini, per impedirel’afflusso di automobilisti curiosi. Ricordo un impressionantedispiegamento di forze. Mai viste tante pistole che spuntavano dallecinture dei pantaloni come quella sera. Ricordo il grottesco carosello didecine e decine di volanti, per l’intera nottata, in ogni via di Palermoquando il peggio era accaduto. E sirene, sirene, sirene: sembrava che

tutti gli uomini di tante polizie, sbalorditi di fronte all’ennesimadimostrazione di potenza del nemico, cercassero di darsi confortoalzando il volume, quasi a non voler sentire l’eco ancora assordante diquei colpi che avevano messo in ginocchio lo Stato italiano. Ricordo ilcardinale Pappalardo  –   il capo della Chiesa siciliana  –   giungere sulluogo del delitto, a piedi, da solo, stralunato, lo ricordo che fendeva lafolla consapevole d’un carisma che qualche giorno dopo, durante ifunerali nella chiesa di San Domenico, gli avrebbe dato la forza, mentre

tutti erano deboli e smarriti, di pronunciare la potente omelia suSagunto che veniva espugnata mentre a Roma si discuteva. Ricordo lecrocerossine in camice bianco giunte lì per l’estremo saluto a

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La cassaforte svuotata

 Nella residenza del generale intanto accadono cose gravissime. La

 presenza dei servizi segreti per prendere le lenzuola non è casuale.

«Il mattino dopo», ricorda Nando, «arrivammo a Palermo e andammoa Villa Paino. Vedemmo la cassaforte e cercammo di capire cosa cifosse dentro. Cercammo la chiave, non si trovava. Allora chiedemmo al personale: “Dov’è la chiave?”. Qualcuno ci disse che la cassaforte erastata aperta, ma non era stato trovato niente. “Dov’è la chiave?”. Cimostrarono un cassetto nel quale io e Rita avevamo già guardato, ed era

vuoto».

Cosa era successo? «La cassaforte era stata aperta e richiusa la nottedell’omicidio, poi fu fatta sparire la chiave, che ben tre giorni dopo(con un bigliettino con su scritto “chiave della cassaforte”) fu fattaritrovare nel cassetto dove avevamo guardato. Un classico dei servizisegreti».

«Quando viene ucciso un esponente istituzionale di grandeimportanza», spiega Giuseppe Ayala, «c’è sempre qualcosa chescompare: la borsa dell’on. Moro (mai trovata), i dati nel computer diFalcone (mai trovati), l’agenda di Borsellino (mai trovata), e ilcontenuto della cassaforte di dalla Chiesa (mai trovato). È una costanteche vede sempre coinvolti i poteri occulti».

Francesco Accordino: «Si parlò di poliziotti che entrarono, didipendenti della prefettura un po’ chiacchierati che furono protagonistidi questa vicenda, in particolare si parlò dell’economo, che ammise diaver preso le lenzuola. A Palermo mi sono fatto circa mille omicidi. Ènormale che nell’immediatezza si faccia la perquisizione a casa dellavittima per cercare delle cose che possono essere utili alle indagini.Però spessissimo accadono queste strane vicende. Come nel casodell’agente Agostino che, dopo il fallito attentato all’Addaura, aveva

detto: “Nel caso mi accada qualcosa, andate a vedere nell’ar madio dicasa mia”. La polizia fece la perquisizione e non trovò niente. Il padre

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sostiene che in quell’armadio c’erano delle cose che sono state fattesparire. In tutti gli omicidi eccellenti sono successe queste cose.Quando con Cassarà arrestammo uno dei cugini Salvo, trovammonell’agendina un numero di telefono privato, c’era scritto Giulio, era il

numero di Andreotti. Quell’agendina fu sequestrata, trasmessa algiudice Falcone, ma successivamente sparì. Dopo la mia deposizionel’agendina improvvisamente saltò fuori, ma col nome “Giulio” e colrelativo numero di telefono depennati. Ci sono spesso queste stranecoincidenze. Nell’occasione di dalla Chiesa entrarono nella suaresidenza e pare che non abbiano preso soltanto le lenzuola».

 Nando dalla Chiesa: «Al maxiprocesso un poliziotto con grandeimbarazzo cominciò a raccontare perché quella notte era entrato, e chigli aveva dato l’ordine. Nel momento cruciale, un detenuto venne coltoda una crisi epilettica e il processo fu interrotto. Incredibilmente lavicenda non fu mai ripresa».

Diversi anni dopo, il figlio del generale chiederà ai magistrati disvolgere delle indagini approfondite «per appurare se la sera del delitto,

nella residenza di mio padre, abbia avuto accesso il dottor BrunoContrada, funzionario del Sisde, lo stesso che fu coinvolto nelleindagini sul fallito attentato all’Addaura contro il giudice Falcone».L’appello cade nel vuoto. 

Ecco allora che la storia si ripete anche stavolta.

Riccardo Orioles: «Chi aprì la cassaforte di dalla Chiesa? Allora si parlò anche del coinvolgimento di un ambizioso funzionario di Poliziacatanese che era addetto alla persona del generale. Questo nome l’horitrovato nell’agenda di Gelli, il famoso tabulato 2bis, una P2 allargatache conteneva 1.500 nomi di cui si parla nella “Relazione Anselmi”.Costui era in ottimi rapporti con Mario Rendo, uno dei quattroCavalieri catanesi. Denunciai il fatto su “I Siciliani”, nessuno lo ha maismentito». Ma anche questa pista viene abbandonata.

Dice lo storico Umberto Santino, presidente del Centro di

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documentazione «Giuseppe Impastato»: «La sparizione di cartecompromettenti e il successivo mancato accertamento delleresponsabilità, è opera di soggetti del mondo istituzionale interessati acancellare le tracce e a depistare».

«La storia della cassaforte è un’altra cosa misteriosa», affermaAlfredo Galasso. «Prima che arrivasse la magistratura, qualcuno arrivòe tirò fuori qualcosa. Cosa? Non siamo riusciti mai a saperlo». Si èsaputo chi è stato? «Ci sono stati molti sospetti, ma in realtà non si èmai saputo con precisione. Ma che qualcuno ci fosse stato è certo, cisono diverse testimonianze. C’era la preoccupazione evidente che

dentro quella cassaforte si potesse trovare qualcosa di particolarmentecompromettente».

Avvocato Galasso, quello di dalla Chiesa è solo un delitto di mafia?«Non credo proprio. Credo che, come in tutti i delitti eccellenti, ci siaun mix impressionante e spaventoso di interessi criminali, ma anche diinteressi di tipo politico ed economico. È sempre stato così, ed è questoche ha rappresentato la vera forza della mafia. La criminalità

organizzata esiste da tempo in ogni parte del mondo, ma quello che hacaratterizzato la mafia siciliana e italiana è stato questo intrecciofortissimo con i poteri economici e politici che non esiste in nessuna parte del mondo».

«Dalla Chiesa», prosegue Santino, «è caduto per la sua competenza evolontà d’azione e per l’isolamento in cui viveva la sua vicenda palermitana. Lui stesso, il 20 agosto, nella cerimonia di Ficuzza aricordo del colonnello Russo, aveva detto: “La mafia uccide chi èlasciato solo”». 

«L’assassinio di mio padre è avvenuto sull’asse Palermo-Roma»,dichiara Nando dalla Chiesa. «Qualcuno ha chiesto un favore equalcuno ha eseguito. La Dc temeva di vedere sconquassato,scombussolato il forziere di voti conquistato a vantaggio del generale

che si diceva sarebbe diventato ministro dell’Interno con Bettino Craxi.È stato un delitto politico nel senso pieno».

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«Ho parlato spessissimo del delitto dalla Chiesa con Cassarà eMontana», ricorda l’ex capo della Mobile Accordino. «Lo Stato glidisse di fare il proprio dovere fino in fondo, di non guardare in faccianessuno, lui questo ha cercato di fare e per questo è stato ucciso».

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I funerali a San Domenico

Alle tre del mattino del 4 settembre 1982 le bare di mogano del

generale e della giovane moglie vengono esposte nella sede della prefettura. Nel corso della mattinata affluiscono le corone di fiori delleistituzioni. Rita dalla Chiesa fa rimuovere quella della RegioneSiciliana e sulla bara del padre fa depositare il berretto di generale deiCarabinieri, la sciarpa d’ordinanza e la sciabola. 

Il pomeriggio nella chiesa di San Domenico si svolgono i funerali. Auno a uno arrivano le autorità dello Stato, della Regione, del Comune e

dei Comuni del Palermitano coi loro gonfaloni. Si piazzano nelle primefile, le famiglie delle vittime fanno fatica a prendere posto.

San Domenico è gremita di centinaia di palermitani, la piazzaantistante è stracolma. Per un giorno si rinuncia al mare. L’afa si èimpadronita nuovamente della città, l’umidità si appiccica sulla pelle, sisuda, l’odore acre dell’incenso si espande fra le volte e le navate dellachiesa, le signore fanno aria con i ventagli, gli uomini si detergono colfazzoletto, la messa sembra che debba prendere la solita, noiosa,scontata piega delle messe celebrate per i funerali di Stato. E poi c’è ladiretta televisiva, la Tv non può permettersi fuori programma.

Ma stavolta il fuor i programma c’è, intenso e drammatico comel’esponente più alto della Chiesa siciliana che se ne rende protagonista,di quella Chiesa che con i cardinali precedenti  –   ricordate Ruffini

quando diceva che la mafia è un’invenzione dei social comunisti? –  tradizionalmente nega l’esistenza di Cosa nostra. Ma questa volta laChiesa vuole cambiare.

Stavolta il fuori programma lo fa lui, il rappresentante di una Chiesanuova, il cardinale Salvatore Pappalardo. Ed è un pugno nello stomaco per tutti, perché tutti, in quel momento, aspettano la scintilla per fareesplodere la rabbia che si portano dentro.

La risposta dello Stato non arriva dallo Stato, ma da quel cardinale

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che in pochi minuti consuma la rivolta. Non solo della Sicilia onesta madi un Paese intero che assiste attonito alla rivoluzione silenziosa esplosanelle teste e nei cuori poche ore prima in via Carini. Quel popolo chefinalmente apre gli occhi e per la prima volta si identifica con i siciliani,

quel popolo che aspetta solo che qualcuno gli dia voce per esplodere.

A un certo punto Pappalardo pesca dalla sua memoria un frammentolatino, «di Sallustio mi pare». Quel brano invece è di Tito Livio.Apparentemente è un discorso a braccio, sostanzialmente è un discorsoeretico. Cioè non sappiamo se perfino quella titubanza sull’autore dellafrase latina sia costruita ad arte per innescare la rivolta o se sia del tutto

spontanea.

Dum Romae consulitur...

E la televisione inquadra il cardinale con lo sfondo del Cristo incroce. E poi il volto sdegnato di Pertini, quello rubicondo di Spadolini,quello impenetrabile di Rognoni, quello inferocito della folla.

Ma tutto è ancora sigillato nell’anima di ognuno, il sentimento e ilrisentimento, la rassegnazione e la rivolta, la speranza e la paura.

Saguntum expugnatur...

Rapidi colpi d’occhi fra chi mastica di latino, specie nelle prime file

dove qualcuno spera che il cardinale si fermi.

E invece Pappalardo quella rivoluzione vuol farla davvero. Sennò sisarebbe limitato al solo latino. Vuole andare avanti, vuole che la gentesappia, vuole che la gente comprenda, vuole che le cose cambino. Eallora traduce. E mentre traduce, un brivido percorre San Domenico eanche la piazza, e dalla tivù quel brivido viene trasmesso a tutti. Per la prima volta lo stomaco di questa Nazione non metabolizza il male

 perché il pugno del cardinale fa più male del male, fa piegare in due, favomitare strati di ingiustizie sedimentate da secoli.

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Mentre a Roma si discute sul da farsi...

La città di Sagunto viene espugnata...

È come se dalle viscere della terra si levasse la collera dei giusti, c’èchi applaude, chi piange, chi stringe i pugni, il vecchio, la casalinga, lostudente, il professore, il barbiere.

Ma il crescendo non finisce. Adesso Pappalardo non parla come

uomo di Chiesa ma come leader politico. In un Paese normale  –   alcospetto di un assassinio del genere –  un uomo di Chiesa avrebbe dettoquelle cose, in Sicilia no. Perché in Sicilia anche le cose normalidiventano pazzie. In Sicilia pochi, pochissimi hanno osato tanto. E sonomorti ammazzati.

E stavolta non è Sagunto ad essere espugnata...

Ma Palermo...

Povera Palermo nostra...

Adesso non sembra la voce di Pappalardo a scandire quelle parole.La suggestione è talmente intensa che sembra davvero che ci sia lamano del Cristo in croce a guidare il cambiamento.

Il cardinale scende dall’altare per fare le condoglianze alla famiglia.Si sposta, porge la mano solo a Pertini e torna sull’altare, mentre unanuvola d’incenso avvolge la sua figura ieratica. 

Le bare escono lentamente. Dietro c’è Pertini, c’è Spadolini, c’èRognoni, c’è Craxi, c’è La Malfa, c’è Colombo, c’è Formica, c’è

D’Acquisto, c’è Martellucci. Non c’è Andreotti. Tutti, tranne Pertini,vengono clamorosamente contestati. Monetine a Spadolini, fischi a

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Rognoni che rischia di essere colpito da una bottiglietta, insulti per glialtri. E poi ci sono i rappresentanti dell’opposizione, Berlinguer, Lama,Emma Bonino, Almirante.

I figli del generale salgono sul taxi sommersi dagli applausi. Unasignora infila la testa nel finestrino e dice piangendo: «Scusate ragazzi,non siamo stati noi».

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Un delitto firmato

Dice Buscetta: «Dietro delitti di questo livello io vedo altre cose.

Come nell’omicidio del giudice Falcone. Sì, per dalla Chiesa un’entità,forse italiana. Perché era ingombrante, molto ingombrante. Lo ripeto: per lo Stato. E per un politico. Ne parlai con Gaetano Badalamenti inBrasile. Nell’81 me ne aveva già parlato Stefano Bontate»1. 

«Quando Giovanni Falcone subì l’attentato all’Addaura,fortunatamente non andato in porto», spiega Giuseppe Ayala, «dopo pochi giorni rilasciò un’intervista a “La Stampa” di Torino in cui parlò

di “menti raffinatissime” e di “centri occulti di potere”, capaci diorientare le scelte della mafia, e disegnò questo come (uso le sue parole) “lo scenario” che lui ipotizzava a proposito di quell’attentato, efece un riferimento: “C’è lo stesso scenario che sta dietro la morte diCarlo Alberto Dalla Chiesa”. Quindi Giovanni pensava che dietrol’attentato all’Addaura e dietro il delitto dalla Chiesa non ci fosse solola mafia. Siccome tutti conoscevamo la grande cautela di Giovanni, perdecidere di dire una cosa del genere in una intervista, vuol dire che era

 pienamente convinto di questo fatto. E in realtà, a mio parere, avevaragione».

«Sono stati i funerali più veloci della storia», dice Nando dallaChiesa. «Nemmeno ventiquattro ore dopo, mio padre era già a Milano.Lui venne ucciso alle 9:10 di sera, i funerali furono fatti appenal’indomani. Alle otto del mattino seguente mio padre era già atterrato aMilano. Questa fretta folle di liberarsene anche fisicamente, anche da

morto, mi è rimasta in testa, negli occhi».

«Non mi aspettavo che lo avrebbero ucciso. Dicevo: se loammazzano è un delitto firmato. Mi illudevo, non pensavo che indemocrazia si potessero fare delitti firmati. Invece è così, le firmeservono a zittire. A questo ricollego anche la voglia di liberarsi subito,anche fisicamente, di quel corpo».

«Non era mai successo nella storia d’Italia», seguita Nando, «che un

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 prefetto andasse nelle scuole a parlare di mafia. Il messaggio che èarrivato al Paese è stato netto: i carabinieri e gli uomini dello Stato possono essere i nostri difensori. Un mese dopo, i ragazzi di Napoli inuna manifestazione contro la camorra gridavano: “Dalla Chiesa ce l’ha

insegnato, via la mafia dallo Stato”. La stessa cosa i ragazzi di Palermo.Cioè i ragazzi, in una manifestazione, inneggiavano a un carabiniere.Questo non era mai successo. Chi non ha vissuto quelle cose non puòmisurare la profondità del cambiamento: c’è stata una generazione disedicenni, di diciassettenni dell’epoca che è stata con i carabinieri e imagistrati. I loro fratelli maggiori del ’77 e del ’78 non l’avrebbero maifatto. Difatti faticarono a capire».

«Uccidendo dalla Chiesa», dice Umberto Santino, «i mafiosi pensavano di aver avuto partita vinta, e invece quel delitto ha avutol’effetto di un boomerang. Dieci giorni dopo, il 13 settembre, vienevarata la legge antimafia Rognoni-La Torre sul controllo bancario esulla confisca dei beni mafiosi. Senza quel delitto non sarebbe stataapprovata. Come senza le stragi in cui sono morti Falcone, la moglie eBorsellino con gli agenti di scorta, non ci sarebbero stati altri

 provvedimenti antimafia. Tutta la legislazione anti-mafia del nostroPaese viene dopo i grandi delitti e le stragi».

Il regime adesso cerca di cancellare il misfatto con la retorica. Èimpressionante lo scarto tra la vita reale e le parole utilizzate pernascondere l’essenza dei fatti. E così, come per l’agente di scortaDomenico Russo, anche per dalla Chiesa arriva la Medaglia d’oro, conquel profluvio di rarissima ipocrisia che l’accompagna: «Già strenuo

combattente, quale altissimo Ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, dellacriminalità organizzata, assumeva anche l’incarico, come Prefetto dellaRepubblica, di respingere la sfida lanciata allo Stato Democratico dalleorganizzazioni mafiose, costituenti una gravissima minaccia per ilPaese. Barbaramente trucidato in un vile e proditorio agguato, tesoglicon efferata ferocia, sublimava con il proprio sacrificio una vitadedicata, con eccelso senso del dovere, al servizio delle Istituzioni,vittima dell’odio implacabile e della violenza di quanti voleva

combattere».

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Frattanto una telefonata anonima alla redazione del quotidianocatanese «La Sicilia» rivendica: «L’operazione Carlo Alberto èconclusa».

Il giorno dopo si svolgono i funerali privati a Milano nella chiesa diSanta Maria delle Grazie. L’orazione funebre viene celebrata dalcardinale del capoluogo lombardo, Carlo Maria Martini. Un mare difolla applaude al passaggio dei feretri. «Poi le bare vengono portate alcimitero di Parma, sepolte accanto a Dora Fabbo, la prima moglie didalla Chiesa»2.

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Il dopo dalla Chiesa

«Pochi giorni dopo la strage di via Carini», ricorda Giuseppe Ayala,

«venne fuori un presunto testimone oculare, Giuseppe Spinoni, il qualeraccontò le modalità dell’eccidio, e dichiarò di avere visto tra gliassassini un certo Nicolò Alvaro, uno ’ndranghetista di sua conoscenza perché era stato in carcere con lui. Disse di aver visto sparare dalfinestrino di una macchina che affiancò la A112. In un primo momentoi colleghi ritennero credibile questa versione. Poi gli atti furono mandatial giudice istruttore (come si usava fare col vecchio codice di procedura penale) e quindi questa indagine cominciai a seguirla io assieme a

Giovanni Falcone. Nel giro di poco tempo sventammo questo Spinoni:era un teste falso. Cioè trovammo un cartellino della Questura diVenezia che dimostrava che il 3 settembre 1982 questo tizio avevadormito in un albergo di Venezia. Come si fa ad essere testimoneoculare di un triplice omicidio consumato a Palermo mentre si stadormendo in un albergo di Venezia? Spinoni ammise che ce l’aveva amorte con Alvaro per aver subìto, durante la convivenza carceraria,angherie di tutti i ti-pi. E allora aveva pensato di vendicarsi».

 Non era un teste manovrato?

«In un primo momento, sia io sia Giovanni, avemmo il dubbio che ci potesse essere qualcosa dietro. Dopo ci rendemmo conto che erasoltanto un’iniziativa di questo strano personaggio». 

Intanto manovrato o no, Spinoni fa perdere diverso tempo alleindagini.

 Non solo Spinoni. Nel frattempo nelle caserme di tutta Italia vienediramata la foto di un boss che potrebbe aver preso parte all’agguato, Nitto Santapaola.

Santapaola a quel tempo è molto noto a Catania, ma fuori dalla suacittà non lo conosce praticamente nessuno, almeno dal punto di vistasomatico. Nelle caserme di tutta Italia viene diramata la sua foto con

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tanto di nome e cognome: Santapaola Benedetto detto «Nitto». Peccatoche si tratti di un falso. Il tizio della foto non è Santapaola. E si perdealtro tempo prezioso.

Un’altra coincidenza. 

Adesso è Emanuele De Francesco il nuovo messia della guerra aCosa nostra. Con un decreto legge di appena due articoli, il governo lonomina Alto commissario per la lotta alla mafia e gli dà i poteri cheaveva negato a dalla Chiesa: penetrazione nelle banche, ascoltitelefonici, coordinamento fra le forze di polizia, lavoro di intelligence

in tutto il territorio nazionale, e molto altro.

De Francesco dirige il Sisde. Secondo le ricostruzioni dellamagistratura, è colui che  –   lo abbiamo visto  –   ha avuto un ruoloimportante nei giorni del sequestro Moro. È singolare che il governoaffidi la missione di combattere la mafia a un personaggio cheappartiene agli apparati di sicurezza più chiacchierati della storiarepubblicana. Specie se si pensa che a manomettere la cassaforte delgenerale sono stati proprio i servizi segreti.

«De Francesco era un valorosissimo Alto commissario», affermaFrancesco Accordino. «Non era un militare come dalla Chiesa, peròsapeva muoversi nei meandri della burocrazia, della politica, e della polizia. Era stato vicario a Palermo e conosceva uomini e cose. Hasaputo navigare, dalla Chiesa no, non è sottostato ai diktat. De

Francesco era un uomo di potere».

«De Francesco è andato a Palermo a chiudere», dice Nando dallaChiesa.

L’8 settembre dell’82 –  ad appena cinque gior ni dall’agguato in viaCarini –  il figlio del generale rilascia una clamorosa intervista a Giorgio

Bocca che scatena le ire della Democrazia cristiana.

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È la prima volta che la Dc siciliana e il sistema di potere andreottianovengono messi sotto accusa in modo così implacabile. Neanche i figlidi Aldo Moro si erano spinti a tanto.

Ma le dichiarazioni di Nando dalla Chiesa non sono clamorose solo per questo. Sono fondamentali nella storia dell’antimafia perché apronola strada a una società civile che scopre il valore della denuncia e vuolediventare protagonista del proprio futuro.

Mentre il generale aveva fatto una lucidissima analisi sulla nuovamafia, Nando fa delle accuse precise, circostanziate, sul ruolo della Dc

nella vicenda dalla Chiesa.

«Che cosa penso dell’assassinio di mio padre? Penso che sia stato undelitto politico commesso a Palermo. Né a me né ad altri della miafamiglia interessa chi sono i killer, se venuti da Catania o da Bagheria oda New York. Interessa che siano individuati e puniti i mandanti che, amio avviso, vanno ricercati nella Democrazia cristiana siciliana».

 Nando è lapidario. Nell’intervista racconta i retroscena dell’incontrotra il generale e Andreotti; le confidenze, i dubbi, i timori che gliesprimeva suo padre, ma soprattutto fa i nomi: di Salvo Lima, di MarioD’Acquisto, di Vito Ciancimino, di Nello Martellucci, di Rosario Nicoletti.

«Io so, dalle dichiarazioni pubbliche rese alla stampa da questi

signori», prosegue Nando, «che alcuni di essi si sono opposti allaconcessione dei poteri speciali a mio padre».

«Durante la lotta al terrorismo», continua, «mio padre era statoabituato ad avere le spalle coperte, ad avere dietro di sé tutti i partitidell’arco costituzionale, Democrazia cristiana in testa. Questa volta,appena arrivato a Palermo capì, sentì che una parte della Democrazia

cristiana non solo non lo copriva, ma gli era contro»1.

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«In quella intervista», spiega oggi Nando, «parlavo di Democraziacristiana. È stata “la Repubblica”, evidentemente per proteggermi o per proteggersi, ad aggiungere palermitana. Quelli che all’interno della Dcavevano delle posizioni importanti erano Lima e D’Acquisto.

Ciancimino era bruciato dal punto di vista della presentabilità politica,ma ancora molto forte dentro il suo partito. Nicoletti era il segretarioregionale costretto all’isolamento e portato successivamente al suicidio.Martellucci faceva da copertura, l’avvocato non mafioso che dovevadire che la mafia non esiste».

Le reazioni non si fanno attendere. I maggiorenti della Dc nazionale e

 palermitana si scagliano contro, vogliono le «prove», in caso contrarioil figlio del generale «taccia».

Un altro leitmotiv che avremmo sentito spesso.

Ecco cosa dichiarano alla stampa alcuni esponenti democristiani.

Giulio Andr eotti: «Nando dalla Chiesa? Un birichino. Se l’intervistaè esatta mi sembra una cattiva azione, spiegabile solo con l’emozionedel momento».

Vito Ciancimino: «I mandanti si vogliono trovare nella Dc siciliana?Credo che questa sia una valutazione soggettiva. Siamo nel generico.Se Nando dalla Chiesa avesse avuto prove si sarebbe dovuto rivolgerenon a un giornalista ma alla Procura della Repubblica. Glielo assicuro:

è una storia fumettistica»2.

Mario D’Acquisto: «Qual è stata la mia reazione? Una reazioneimmediata, data l’assurdità della cosa. È anche questa una forma diferocia, un’aggressione morale nei cui confronti è difficile una concretadifesa [...]. La nostra richiesta è che si accerti la verità a tutti i livelli possibili, che non rimangano ombre di dubbio»3.

 Nello Martellucci: «È un attacco con fini politici da parte di un

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sociologo politicizzato. Non onora il sangue che suo padre ha versato, èil comportamento di un mascalzone»4.

Oggi Nando dalla Chiesa dice: «È stata un’eredità che ho cercato diraccogliere con tutto il senso del dovere e l’amore che c’era». 

Il sociologo fa una pausa per raccogliere i ricordi.

 Nei pochi istanti che si frappongono tra una frase e un’altra, penso aqualcosa che Claudio Fava aveva detto dopo la morte di suo padre:«Fino a quando partecipi sommessamente ai funerali facendo condisciplina la parte dell’orfano e del bravo ragazzo, tutti ti abbracciano,ti stringono la mano, ti fanno vedere le lacrime. Quando cominci a prendere posizione scatta il meccanismo di autodifesa che ti porta adiventare bersaglio».

Forse Nando in questo momento sta pensando le stesse cose.Interrompe la pausa e dice: «Da quel momento si scatenarono. Ricordo

gli attacchi da parte dei giornali non solo siciliani, ma anche milanesi.Attacchi non solo a me, ma alla memoria di mio padre. Questo miilluminò. Sono stati trent’anni pieni di insegnamenti. Il più violento èstato sicuramente “il Giornale” di Indro Montanelli. Adesso tutti fannodi Montanelli un idolo, ma quel quotidiano era terribile per chichiedeva il rispetto dei diritti fondamentali e magari aveva delle idee politiche diverse da quelle del direttore. Se eri di Sinistra non potevichiedere giustizia per l’assassinio di tuo padre. Intanto Montanelli nelle

interviste televisive dava dieci ad Andreotti come uomo politico.Bisogna averlo vissuto sulla propria pelle Montanelli prima di andare araccontare che è stato il grande maestro di giornalismo».

«Montanelli era una brava persona», ricorda Riccardo Orioles,«questo glielo dobbiamo riconoscere, ma era piuttosto debole sotto il profilo civile, non aveva una particolare brillantezza in politica. Era unottimo giornalista, uno dei pochi giornalisti italiani cresciuti nel rispetto

del lettore, ma politicamente era uno di serie C. Era di una grandeingenuità. Lo faceva in buona fede, ma non innocentemente. Lo faceva

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con una faciloneria colpevole. Un intellettuale di rango nazionale non può permettersi di essere facilone sulla mafia».

Dalla Chiesa: «Ricordo un giorno, mentre ero all’aeroporto diMilano, un titolo mi fece piangere: Il figlio comunista di dalla Chiesa.Il figlio comunista? Tutta la prima pagina così. Oppure ricordo quandoiniziò il maxiprocesso. Titolo dell’editoriale: E ora gli orfani tacciano.Tacciano? Prima mi dite che devo star zitto in attesa del processo, equando inizia il processo mi intimidite e mi dite che devo tacereancora? Oppure quando Montanelli scrisse a un lettore: “Anche algenerale non tutte le ciambelle riuscivano col buco: il figlio per

esempio”. Andando di pancia, Montanelli serviva egregiamente, senza bisogno che gli telefonassero, gli interessi di alcuni. Ricordo gliattacchi contro Falcone, anche lui amico dei comunisti. Possibile che ungiornale del Nord, un giornale della borghesia milanese, che dovevafare le nostre stesse battaglie, avesse fastidi così viscerali nei confrontidell’antimafia? La stessa cosa successe con  “Il Giorno” di Milano,allora diretto da Guglielmo Zucconi, ex parlamentare democristiano.Anche quella campagna di stampa fu indecente. Andava a intervistare la

madre di Emanuela, che purtroppo rispondeva a certe cose, e cercava diaprire tutte le crepe possibili con titoli di questo tenore: Se suo padrevedesse da lassù cosa sta facendo [suo figlio, nda], si rivolterebbe nellatomba o ne soffrirebbe in cielo. Col “Corriere della Sera” ho fatto tre processi per reati d’opinione per aver difeso Falcone e Borsellino. Hosubìto di tutto».

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I Siciliani

«Erano gli ultimi giorni del “Giornale del Sud”», ricorda Orioles, «e

io ero ancora sotto censura. Il pezzo sull’assassinio di dalla Chiesa nonmi fu pubblicato».

«Dalla Chiesa e Joe Marrazzo», seguita il giornalista, «furono quelliche portarono il caso Catania a livello nazionale. Marrazzo, grandegiornalista Rai, fu il primo cronista non nostro che tirò fuori questastoria attirandosi le ire furibonde dei catanesi importanti: rettori,giornalisti, professori. Dalla Chiesa con la famosa intervista rilasciata a

Bocca parlò per la prima volta dei Cavalieri di Catania, ma diciamo chela cosa l’avevamo scoperta ingenuamente noi». 

Intanto le indagini sull’assassinio del generale, pur concentrandosisulla «Cupola» palermitana, seguono anche la pista catanese. «Lanotizia che Santapaola era fra gli accusati del delitto fu ripresa da tutti igiornali, tranne che da “La Sicilia”, che la ignorò per quarantotto ore»,dice Orioles.

Adesso, dopo il licenziamento dal «Giornale del Sud», Fava e i suoiragazzi non se ne stanno con le mani in mano. Lo scrittore ha quasisessant’anni, una immensa carica civile, e un modestissimo conto in banca che servirà come garanzia per firmare le cambiali per il giornaleche vuole fare.

 Non un giornale con dei padroni, ma un giornale autenticamentelibero, che parli del cambiamento della politica e della società.

Fava capisce che l’avvento della P2 è un sintomo di una patologiache sta portando la Nazione al disfacimento. E Catania ne è l’epicentro. 

Prima di dalla Chiesa, Giuseppe Fava ha vissuto sulla sua pelle  –  con

l’attentato al «Giornale del Sud» e col licenziamento –  la violenza dellamafia catanese. Una mutazione genetica che nella Sicilia «babba» di

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quel tempo era inimmaginabile fino a otto, dieci anni prima.

Fava è l’unico intellettuale della città a capire cos’è il «policentrismo

mafioso». Gli altri fanno finta di non capirlo.

Poi un giorno si decide davvero di farlo questo giornale. I ragazzidicono di non essere pronti, Fava fa una risata e il giornale si fa. Ilmomento è questo. È il dopo dalla Chiesa. In Sicilia sono un giornalistadi quasi sessant’anni e una dozzina di ragazzi poco più che ventenni araccogliere l’eredità del generale. E a riprendere le sua teorie. E imissili, e Gelli, e Sindona, e Andreotti, e Santapaola, e i Cavalieri.

Alla Regione ci sono dei soldi per iniziative del genere. Si fa unacooperativa e si firmano un sacco di cambiali. Si affitta uno scantinatoin un paesino della cintura e si acquistano delle macchine tipografichedi seconda mano.

Fava decide il nome. «I Siciliani». Un giornale sì, un’iniziativa

culturale certo. Ma anche qualcosa di più. Un avamposto. Didemocrazia, di lotta alla mafia e di libertà. La dimostrazione che laSicilia possiede le risorse per coinvolgere l’intero Paese in un progettonuovo.

È una rivista mensile, viene distribuita nelle edicole della Sicilia edelle maggiori città italiane. Ha una grafica moderna, dei contenuti chesono una sapiente miscela fra il giornalismo d’inchiesta e la letteratura,

delle immagini dei migliori fotoreporter dell’isola, Letizia Battaglia,Franco Zecchin e tanti altri.

Il primo numero ha un successo senza precedenti. Titolo dellacopertina: I cavalieri di Catania e la mafia, con una foto che raffigura iquattro imprenditori mentre brindano allegramente. L’articolo deldirettore crea scandalo in una città che all’epoca incensa i Cavalieri.

Fava denuncia le loro connivenze e il loro coinvolgimento nel delittodalla Chiesa, ma con lieve ironia ne mette in luce l’aspetto più rozzo. Inedicola è un grande successo, è necessaria una ristampa.

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Dopo l’articolo di Bocca, quello di Fava è un altro pezzo diantologia, la premessa di una straordinaria attività di denuncia chequesto irripetibile e solitario giornale avrebbe fatto per alcuni anni, piantando una pietra miliare nella storia del giornalismo italiano.

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I Cavalieri dell’apocalisse mafiosa 

Scrive Pippo Fava:

Chi sono i quattro cavalieri di Catania? Perseguiti dalla magistraturacon mandati di cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati digigantesche frodi fiscali e addirittura di associazione a delinquere,assediati dalla Guardia di Finanza, che sta frugando in tutti i loro conti[...] i quattro cavalieri sono nell’occhio del ciclone, in mezzo al qualesta immobile e sanguinoso l’assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la piùferoce e tragica sfida portata dalla mafia all’intera nazione [...] Taluni di

loro sono amici del bancarottiere Michele Sindona, o del bossSantapaola ricercato per l’assassinio Dalla Chiesa, o del clan Ferlito, incui il capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta [...]Improvvisamente, nell’ultimo ventennio, sono emersi questi cavalieridel lavoro, rapaci, temerari, prepotenti, aggressivi, qualcuno anchegrossolano e ignorante, però dotati di fantasia, di straordinarie capacitàindustriali e tecniche, e di talento, precisione, velocità [...] La lorointraprendenza si spinge ormai su tutto il territorio nazionale, in

Europa, in Africa, nel Sudamerica. La loro concorrenza è spietata.Molte aziende del Nord non solo hanno perduto il loro tradizionalefeudo meridionale, ma si vedono insidiati nel loro stesso territorio [...].

Poi l’analisi dai Cavalieri si sposta su dalla Chiesa: 

Il generale aveva capito. Era uno sbirro nel senso eccellente della

 parola. Non dimentichiamo che aveva presentato domanda di iscrizionealla loggia P2. La domanda non era stata accettata poiché Gelli avevafiutato l’infido e cercato di prender tempo. E lo stesso Dalla Chiesaebbe poi a giustificarsi affermando di aver compiuto quella oscuramossa personale per scoprire alcune verità politiche all’interno dellaloggia massonica segreta. Quanto potesse essere sincero lo seppesoltanto lui. Certo era un uomo che da tempo aveva intuito laconnessione fra potere politico, ricchezza e violenza. La lunga e atroce

lotta contro le Br gli aveva fornito preziosi elementi di prova, e altri neaveva acquisiti in centinaia di interrogatori. Si stava disegnando unamappa dell’occulto. Quando arrivò a Palermo con la carica di

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superprefetto, i vertici criminali sapevano perfettamente di avere difronte l’avversario più duro e cosciente. Rispetto agli altri che eranocaduti prima di lui, egli aveva in più un prestigio mitico, ma soprattuttostava per avere in pugno gli strumenti giuridici, le armi decisive per

condurre la lotta fino in fondo: quei superpoteri che incredibilmente loStato continuava a negargli e che tuttavia alla fine avrebbe dovutoconcedergli. Dalla Chiesa commise un solo errore. Di vanità. In fondoegli restava un militare e quindi soprattutto un retore. Gli piacevatrasformare qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte le vanaglorie delcombattimento: bandiere, tamburi, proclami, applausi, dimostrazioni diamore popolare. Tutto questo contro un avversario che era sempresottoterra, un gelido, sinistro groviglio di serpenti che potevano essere

dovunque, in ogni momento sotto i suoi piedi, che potevano sedereaccanto a lui sul palco di una festa nazionale, stringergli la mano, fargliauguri e congratulazioni. Seguire poi tristemente il suo funerale, come poi certamente accadde. La guerra contro un tale nemico è oscura esenza gloria, e infinitamente più terribile di ogni altra, non si puòvincere in una serie infinita di scaramucce, poiché i serpenti restanodovunque, muoiono e si moltiplicano, ma bisogna vincerla in una voltasola, una sola battaglia, preparata con paziente perfezione in ogni

dettaglio [...] Dalla Chiesa morì, ma il suo colpo tremendo lo aveva giàvibrato, forse proprio con la sua ingenua retorica, indicando condiscorsi e proclami a tutta la Nazione, clamorosamente, quello che tantialtri, anche ministri, anche altissimi ufficiali e magistrati, sapevano e però non dicevano, cioè dov’era quel groviglio dei serpenti, e qualidunque i mezzi per portarli allo scoperto e schiacciarli1.

Uno specchio. Uno specchio immenso che fa da sfondo al palcoscenico. Sulla scena il politico corrotto, il mafioso, il terrorista e ilCavaliere del lavoro. Brigano per depredare la Nazione e uccidere. E sequalcuno si mette di traverso viene giustiziato senza pietà.

Gli attori sono in tensione. Il pubblico pure. In sala ci sono i veri politici che applaudono. E anche i veri Cavalieri del lavoro. Entrambi –   politici e Cavalieri  –  si vedono in quel grande specchio che si erge di

fronte a loro. E ascoltano le loro parole. Quelle che pronunciano ognigiorno. Altri applausi. Un trionfo per l’autore (Giuseppe Fava), per gli

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interpreti (in primis Turi Ferro), per il regista. Adesso la compagnia delTeatro Stabile di Catania è attesa da una tournée in tutta Italia. Tutto ilPaese conoscerà la storia dei quattro Cavalieri catanesi e dei loro amici.Si chiude il sipario... E siamo alla fine di novembre dell’83, quattordici

mesi dopo l’assassinio di dalla Chiesa. 

Ultima violenza è un capolavoro di Fava ma anche una provocazione. Nessuno avrebbe mai immaginato che il giornalista, oltre a denunciarecol giornale le malefatte del potere, si sarebbe spinto a rappresentarlo ateatro in modo così beffardo.

Dicembre. Fava partecipa a una trasmissione sulla mafia condotta daEnzo Biagi su Retequattro, di proprietà Mondadori, prima che passinelle mani di Berlusconi. Dice: «I veri mafiosi non sono quelli cheammazzano... quelli sono esecutori. I mafiosi stanno in Parlamento. Imafiosi talvolta sono ministri. I mafiosi sono banchieri. I mafiosi sonoquelli che in questo momento sono ai vertici della Nazione [...]. È un problema che rischia di portare al decadimento culturale e moraledefinitivo l’Italia [...]. Il generale dalla Chiesa lo aveva capito, questa è

stata la sua grande intuizione, quella che lo ha portato alla morte»2.

Pochi giorni dopo, il 5 gennaio 1984, cinque pallottole spengono lavita di Pippo Fava.

Cosa fanno gli inquirenti? Invece di indagare sul sistema denunciatodal giornalista e dal generale dalla Chiesa seguono la pista passionale.

Ma la pista passionale da sola non basta per spiegare un delitto cosìeclatante. Ed ecco allora che si fa largo un’altra ipotesi, quella delricatto.

E la storia si ripete...

Sì, certo, Fava era uno che ricattava i Cavalieri. Piano piano il

chiacchiericcio si diffonde. Trova una sponda e rimbalza alla grandequando la Procura dispone un accertamento bancario sul conto dellavittima. E poi sui conti (inesistenti) dei giovani redattori de «I

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Siciliani». Non si trova nulla, ma la notizia dell’accertamento bancario –  mozzata dall’esito negativo –  conferma la tesi del ricatto e diffondealtri veleni. Ma ancora non basta. Ed ecco i fiancheggiatori. Sì, certo ifiancheggiatori. Chi sono? Non possono essere che loro, le ultime

 persone che hanno visto Fava, i giornalisti de «I Siciliani». Sono statiloro gli ultimi a vedere la vittima, quindi sono loro i complici. Improntedigitali per tutti e un fermato, Miki Gambino, uno dei cronisti più bravie corretti del giornale, che viene trattenuto per molte ore e sottoposto aun interrogatorio carico di insinuazioni e di veleni.

Il tam tam parte dalla Procura, passa dalla prefettura, dalla questura,

dal gruppo dei carabinieri e si diffonde tra gli intellettuali. Fava? Unfimminaru, un ricattatore, e poi, signori miei, dov’è questa mafia aCatania? Al massimo gangsterismo...

Orioles: «Un sedicente intellettuale catanese, Tino Vittorio, pocodopo il delitto, scrisse un libro, La mafia di carta, per dichiarare cheFava era stato ucciso per questioni di donne, non certo per mafia. E lostampò con i soldi dell’Università». 

«Catania non voleva dire solo Catania», seguita il giornalista de «ISiciliani». «I Cavalieri erano personaggi di portata nazionale. Alcunidei politici catanesi acquisirono rapidissimamente e stranamentedimensione nazionale: ad esempio Salvo Andò diventò immediatamenteresponsabile dei servizi segreti e dei problemi dello Stato per conto delPsi. Non dimentichiamo che Rendo è l’unico imprenditore italiano cheha lavorato all’Eurotunnel sotto la Manica. Sia negli anni Novanta chenegli anni Duemila, Rendo lo ritroviamo in America, protetto dall’exPresidente George Bush  jr., il quale gli assegna d’autorità, con i poteri presidenziali, la security degli aeroporti dopo l’11 settembre. Io l’hoscritto, non sono riuscito a farmelo pubblicare in Italia, ma in Americasì. Da cinque anni in Ungheria, almeno due quotidiani sono statiacquisiti dalla famiglia Rendo. Quando parliamo di Catania parliamo dicose un po’ strane. Catania è stata una capitale, non sappiamo se lo èancora, ma di sicuro lo è stata. I Cavalieri sono stati denunciati da tre

 persone: Carlo Alberto dalla Chiesa, Giuseppe Fava e Carlo Palermo.Tutti e tre hanno subìto attentati. Carlo Palermo è stato l’unico

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sopravvissuto».

Al suo posto, il 2 aprile 1985, con un’autobomba piazzata sul

lungomare di Pizzolungo, a due chilometri da Trapani, sono stati uccisi per errore una mamma con i suoi due bambini. Si chiamavano Barbara,Giuseppe e Salvatore Asta.

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riprendo Delitto imperfetto e dico “Ma è vero? È successo questo?”,oppure delle cronache di allora o delle cronache di dieci anni dopo. Semi sento diverso? Forse no. Ognuno è fatto in un certo modo, poi èchiamato dal destino ad affrontare certe cose, ma non avrei mai pensato

di fare a vita il figlio del generale dalla Chiesa, il ragazzo, il giovane,soprattutto il giovane contestatore che pensa di affrancarsi dal pesodella famiglia. Oggi perdono di più, sono più generoso rispetto a prima, perché se cambiano i parametri per misurare le vicende umane, le piccole cose le accetti più facilmente, te le fai scivolare addosso, daigiudizi sulle persone molto più provvisori e più comprensivi.Probabilmente ho uno schifo più ragionato nei confronti di certimeccanismi della politica perché so cosa producono. No, non è lo

schifo del qualunquista, pur essendo uno che ama la politica. Ho avutoquesta doppia veste. Cercare la politica come luogo del riscatto e dellagiustizia nei confronti di mio padre e di quelli come lui, econtemporaneamente provarne tutto lo schifo ragionato possibile, perché quando vedi quali sono i punti di arrivo di certe logiche e dicerti meccanismi e vedi che continuano a ripetersi, ti indigna vedereche può essere ancora fatta così: il Paese ha già pagato tantissimo. Inquesto senso sono cambiato, ma fedele a un percorso, sono più attento

alle istituzioni, mi sento anche un po’ erede di quel senso delleistituzioni, senza barare con la gente e con la memoria».

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La storia si ripete

Umberto Santino: «Andreotti è stato processato anche per le cose

dette da dalla Chiesa, ma i processi che lo hanno riguardato sono finiti“all’italiana”: accertato ma prescritto, il reato di associazione mafiosa,fino al 1980. Da quell’anno in poi assolto e antimafioso. In realtà irapporti di Andreotti con i mafiosi erano mediati da Salvo Lima: ilrapporto con Lima è durato fino alla sua morte, avvenuta nel marzo del1992».

Fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta un nuovo

 pentito, Francesco Marino Mannoia  –   esponente dei Corleonesi e«chimico» della mafia  –   apre uno spiraglio sulla strage di via Carini:«La moglie di dalla Chiesa», dice il collaboratore di giustizia, «è statamassacrata appositamente».

Una dichiarazione che conferma che Emanuela non è stata uccisa pertragico errore.

Certo, poi Marino Mannoia si esprime da par suo, da mafioso,aggiungendo: «Era una puttana [...] che aveva sposato un generale».Quindi corregge il tiro: «Non sono parole mie [...] il commento nellecarceri era proprio quello». Ma questo non toglie nulla alla sostanza: «Èstata massacrata appositamente».

Il generale dalla Chiesa, spiega il collaborante, «è stato ucciso perché

era un vero rompiballe, uno che dava fastidio. Conduceva un lavoroinvestigativo serio contro la criminalità organizzata, rompendo lescatole in quasi tutta la Sicilia [...]. E quando è stato ammazzato, nelcarcere dell’Ucciardone si è brindato, non a champagne come hannoscritto i giornali, ma con delle buste di vino e qualcuno ha detto:“Ubriachiamoci alla faccia di dalla Chiesa”. E poi: «Se non si riesce a pensare con una mente malefica, allora non si può capire veramente lacrudeltà, quel terribile demone che regna dentro Cosa nostra»1.

Giovanni Brusca: «Per quel che riguarda gli omicidi dalla Chiesa e

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Chinnici, io credo che non sarebbe stato possibile eseguirli senzascatenare una reazione dello Stato se non ci fosse stato il benestare diAndreotti [...]. Durante la guerra di mafia c’erano morti tutti i giorni. Nino Salvo mi incaricò di dire a Totò Riina che Andreotti ci invitava a

stare calmi, a non fare troppi morti, altrimenti sarebbe stato costretto aintervenire con leggi speciali [...]. Chiarisco che in Cosa nostra c’era laconsapevolezza di poter contare su un personaggio come Andreotti».

Anche se sulla strage di via Carini non ci sono prove sulle eventualiresponsabilità penali dell’ex presidente del Consiglio, non c’è dubbioche esiste sufficiente materia processuale per chi volesse comprendere

quantomeno le responsabilità politiche di Giulio Andreotti.

Il processo di Palermo a carico del senatore a vita stabilisce infattiche i suoi rapporti con Cosa nostra diventano problematici dopol’avvento dei Corleonesi. 

Il primo segnale arriva dopo l’approvazione della legge Mancino-Violante (1987) che impedisce ai detenuti mafiosi la possibilità diessere scarcerati. È il momento in cui Salvo Lima e i cugini Salvorischiano di essere uccisi.

Secondo i pm, i proconsoli di Andreotti vengono risparmiati grazie aun intervento personale dell’ex presidente del Consiglio che si incontracon Riina mentre a Palermo è in corso la Festa dell’Amicizia che sisvolge il 20 settembre 1987. Secondo la ricostruzione dei giudici, c’è

un «buco» di quattro ore  –  dall’ora di pranzo al tardo pomeriggio  –  dicui neanche la scorta è riuscita a fornire spiegazioni.

 Nel 1989  –   a parere dei magistrati  –  Cosa nostra lancia un segnaleinequivocabile ad Andreotti: i voti che tradizionalmente venivano datialla Dc nei quartieri a più alto tasso mafioso, vengono riversati al Psi diCraxi.

La rottura tra i Corleonesi e Andreotti avviene il 30 gennaio 1992,quando la Cassazione, adesso presieduta dal dott. Brancaccio e non da

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Corrado Carnevale «strettamente collegato con il sette volte presidentedel Consiglio», secondo i magistrati, conferma le condanne delmaxiprocesso.

Riina lancia un altro segnale ad Andreotti e ordina l’assassinio diSalvo Lima, che viene eseguito il 12 marzo 1992.

Il disegno di «sterminio» degli andreottiani siciliani si conclude il 17settembre con l’uccisione di Ignazio Salvo (il cugino Nino è mortonell’86 per un mare incurabile). 

Sempre nel ’92 Cosa nostra compie le stragi di Capaci e di viaD’Amelio (in tutto dieci vittime: Giovanni Falcone, la moglieFrancesca Morvillo, Paolo Borsellino, e gli agenti della scorta). Nel ’93altri attentati in via dei Georgofili a Firenze e in via Palestro a Milano(dieci morti). La strategia della tensione continua con le bombecollocate a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro aRoma (nessuna vittima) e allo stadio Olimpico della capitale, attentatofortunatamente fallito all’ultimo momento. 

Poi le stragi improvvisamente cessano: mafia e Stato «trattano»ancora una volta.

E la storia si ripete.

***

Il 22 marzo 2002 la II sezione della Corte d’Appello di Palermo presieduta da Giuseppe Nobile  –   sulla scorta delle dichiarazioni dei pentiti Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo, condannati aquattordici anni –  condanna all’ergastolo Antonino Madonia e VincenzoGalatolo, accusati di essere stati gli esecutori materiali dell’omicidio di

Carlo Alberto dalla Chiesa, di Emanuela Setti Carraro e di DomenicoRusso. Derubricata l’accusa di strage, la Corte ha contestato l’omicidio

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 plurimo aggravato.

Le fasi dell’agguato sono state ricostruite in base alle dichiarazioni

dei due pentiti. La A112 del prefetto e della moglie è stata affiancata esuperata dalla Bmw a bordo della quale prendevano posto AntoninoMadonia e Calogero Ganci. A sparare con un kalashnikov è statoMadonia. La Fiat 131, guidata da Anzelmo, ha avuto una funzione di«scorta», pronta a intervenire se l’agente Domenico Russo avessereagito. Russo è stato assassinato da Pino Greco «Scarpuzzedda», che prendeva posto in una delle due moto.

La prima sentenza emessa nel 1989 dai giudici del maxiprocessoaveva condannato all’ergastolo, come mandanti dell’eccidio, TotòRiina, Bernardo Provenzano, Nitto Santapaola, Bernardo Brusca, NenèGeraci, Michele Greco e Pippo Calò.

Il verdetto è stato annullato in appello. Nel ’92 la Cassazione haordinato un nuovo processo conclusosi con la conferma di tutte lecondanne di primo grado, a eccezione di Nitto Santapaola, per il qualenon sono stati riscontrati elementi di colpevolezza.

Scrivono i giudici di primo grado: «Certamente all’uccisione delgenerale dalla Chiesa, insieme col quale fu sacrificata la vita dellagiovane moglie e dell’autista Russo, contribuirono fattori diversi econcomitanze d’interessi». 

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Note

Mattarella e Andreotti

1. Processo di I (23 ottobre 1999) e di II grado (20 gennaio 2003)contro Giulio Andreotti.

2. Ibidem.

3. Processo Pecorelli. Sentenza di I (24 settembre 1999) e di II grado(17 novembre 2002) dei giudici del Tribunale di Perugia.

La Torre e Sindona

1. Processo Pecorelli. Sentenza di I (24 settembre 1999) e di II grado

(17 novembre 2002) dei giudici del Tribunale di Perugia.

A Corleone contro Liggio

1. Centro studi «Chinnici-Falcone». Ricerca e documentazione sullacriminalità mafiosa.

2. Intervista di Carlo Alberto dalla Chiesa rilasciata a Enzo Biagi.

3. Ibidem.

4. Dichiarazione di Carlo Alberto dalla Chiesa alla commissione parlamentare antimafia, 1962.

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Di nuovo in Sicilia

1. Enzo Biagi intervista Carlo Alberto dalla Chiesa, archivio Rai.

2. Luciano Mirone, Gli insabbiati. Storie di giornalisti uccisi dallamafia e sepolti dall’indifferenza, Castelvecchi, Roma, 2008. 

La lotta al terrorismo

1. Archivio Rai.

2. Giorgio Bocca, su «la Repubblica», 24 ottobre 2008.

L’iscrizione alla P2 

1. Giovanni Minoli, La Storia siamo noi, Rai.

Gelli. Chi è costui?

1. Atlante generale delle connection di mafia, criminalità, affari e

 politica, Biblioteca e centro Documentazione di Mafia connection,1992, vol. I, pag. 209.

2. Antonio Roccuzzo, Gli uomini della giustizia nell’Italia checambia, Laterza, Roma-Bari, 1993.

3. Audizione di Nicolò Bozzo alla commissione parlamentared’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancataindividuazione delle stragi, 21 gennaio 1998.

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4. Audizione di Lino Salvini alla commissione P2, 12 gennaio 1982.

5. Alberto Gemelli, La P2 e il sistema politico italiano, Università

degli Studi di Torino, facoltà di Lettere e Filosofia, relatore: prof. Nicola Tranfaglia, anno accademico 1994-1995.

6. Pino Buongiorno, Maurizio De Luca, Storia di un burattinaio, inAndrea Barberi, Pino Buongiorno, Maurizio De Luca, NazarenoPagani, Giampaolo Pansa, Eugenio Scalfari, L’Italia della P2,Mondadori, Milano, 1981.

7. Alberto Gemelli, La P2 e il sistema politico italiano, Universitàdegli Studi di Torino, facoltà di Lettere e Filosofia, relatore: prof. Nicola Tranfaglia, anno accademico 1994-1995.

8. Rapporto dei Carabinieri Reali di Pistoia a Prefettura e Questura,11 novembre 1945, in commissione P2, allegati.

9. Audizione di Michele Sindona, 10 dicembre 1982, allacommissione Anselmi sulla P2. Pagg. 97 e 128.

10. Allegati commissione Anselmi.

11. Lettera di Philip Guarino a Licio Gelli, 17 agosto 1979,commissione P2, allegati.

12. Verbale della riunione del «Raggruppamento Gelli-P2», 5 marzo1971, in commissione P2, allegati, serie II, vol. III e I, pp. 457.

13. Giorgio Galli, Storia del partito armato 1968-1982, Rizzoli,Milano, 1986.

14. Informativa Sds alla Procura della Repubblica di Firenze, 9ottobre 1976.

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Il caso Moro

1. Giovanni Minoli. La Storia siamo noi, Rai.

2. Trasmissione Next, su Rainews24, intervista a Giovanni Galloni, 5luglio 2005.

3. Dichiarazioni di Giovanni Galloni, commissione parlamentare

d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancataindividuazione dei responsabili delle stragi, 22 luglio 1998.

4. Sergio Flamigni, La tela del ragno, Kaos edizioni, Milano, 2003.

5. Robert Katz, I giorni del complotto, su «Panorama», 13 agosto1994.

6. Lettera a Benigno Zaccagnini recapitata il 4 aprile.

7. Processo Pecorelli. Sentenza di I (24 settembre 1999) e di II grado(17 novembre 2002) dei giudici del Tribunale di Perugia.

8. Processo Pecorelli. Sentenza di Appello del Tribunale di Perugia,

17 novembre 2002.

9. Ibidem.

10. Dal Memoriale ritrovato l’8 ottobre 1990 in via Montenevoso aMilano.

11. Maria Fida Moro intervistata da Mario Adinolfi nella trasmissioneradiofonica Contro Adinolfi.

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12. Ferdinando Imposimato, su Brucialanotizia.it, fonte:www.lavocedellevoci.it, 5 marzo 2012.

13. Processo Pecorelli. Sentenza di Appello del Tribunale di Perugia,17 novembre 2002.

14. Steve Pieczenik, Abbiamo ucciso Aldo Moro. La vera storia delrapimento Moro, Cooper, Roma, 2008, p. 186.

15. Rapporto del Comitato di controllo, 10 ottobre 1984. Vedi anche:Giuseppe De Lutiis, La strage. Atto d’accusa dei giudici di Bologna,Editori Riuniti, Roma, 1986.

Via Montenevoso 8

1. Audizione di Nicolò Bozzo alla commissione parlamentared’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancataindividuazione delle stragi, 21 gennaio 1998.

2. Ibidem.

3. Ibidem.

Il delitto Pecorelli

1. Processo Pecorelli. Sentenza di I (24 settembre 1999) e di II grado(17 novembre 2002) dei giudici del Tribunale di Perugia.

2. Lettera di Aldo Moro su Paolo Taviani senza destinatario,recapitata tra il 9 e il 10 aprile e allegata al comunicato delle Brigate

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rosse.

3. Memoriale Moro rinvenuto dal Nucleo speciale antiterrorismo dei

Carabinieri in via Montenevoso.

4. Processo Pecorelli. Sentenza di I (24 settembre 1999) e di II grado(17 novembre 2002) dei giudici del Tribunale di Perugia.

5. Ibidem.

6. Ibidem.

Così parlò Buscetta

1. Processo Pecorelli. Sentenza di I (24 settembre 1999) e di II grado(17 novembre 2002) dei giudici del Tribunale di Perugia.

2. Ibidem.

3. Ibidem.

La vittoria sul terrorismo

1. Nando dalla Chiesa, Alfredo Galasso, Michele Gambino,supplemento ad «Avvenimenti», n. 47 del 4 novembre 1992.

2. Ibidem.

3. Ibidem.

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4. Ibidem.

5. Dal Diario di Carlo Alberto dalla Chiesa.

6. Giovanni Minoli, La Storia siamo noi, Rai.

7. Nando dalla Chiesa, Alfredo Galasso, Michele Gambino,supplemento ad «Avvenimenti», n. 47 del 4 novembre 1992.

«In Sicilia c’è bisogno di lei» 

1. Nando dalla Chiesa, Alfredo Galasso, Michele Gambino,supplemento ad «Avvenimenti», n. 47 del 4 novembre 1992.

2. Nando dalla Chiesa, Delitto imperfetto, Mondadori, Milano, 1984.

3. Ibidem.

4. Ibidem.

5. Saverio Lodato, Dieci anni di mafia, Rizzoli, Milano, 1992, pag.86.

6. Nando dalla Chiesa, Alfredo Galasso, Michele Gambino,supplemento ad «Avvenimenti», n. 47 del 4 novembre 1992.

7. Ibidem.

8. Sentenza della Corte di Assise di Palermo del 16 dicembre 1987contro Abbate+459.

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9. Ibidem.

Intanto a Catania

1. Dal rapporto del questore di Catania Luigi Rossi. E anche suClaudio Fava, La mafia comanda a Catania, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 68.

Potere

1. Carlo Alberto dalla Chiesa, In nome del popolo italiano, Nandodalla Chiesa (a cura di), Rizzoli, Milano, 1997.

2. Giovanni Falcone, sentenza-istruttoria del maxiprocesso depositatal’8 novembre 1985. 

3. Audizione di Nicolò Bozzo alla commissione parlamentared’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancataindividuazione delle stragi, 21 gennaio 1998.

4. Sentenza della Corte di Assise di Palermo del 16 dicembre 1987contro Abbate+459.

5. Giorgio Bocca, su «la Repubblica», 24 ottobre 2008.

6. Giorgio Bocca, su «la Repubblica», 8 agosto 1982.

A Palermo per morire

1. Nando dalla Chiesa, su «il Fatto Quotidiano». 27 dicembre 2011.

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7/25/2019 Luciano Mirone - a Palermo Per Morire

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2. Giovanni Falcone, sentenza-istruttoria del maxiprocesso depositatal’8 novembre 1985. 

3. Audizione di Nicolò Bozzo alla commissione parlamentared’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancataindividuazione delle stragi, 21 gennaio 1998.

4. «The Wall Street Journal», 12 febbraio 1985.

3 settembre 1982

1. «il Resto del Carlino», 5 settembre 1982.

2. Daria Egidi (a cura di), su cinquantamila.corriere.it.

3. Ibidem.

4. Ibidem.

5. Nando dalla Chiesa, Alfredo Galasso, Michele Gambino,supplemento ad «Avvenimenti», n. 47 del 4 novembre 1992.

6. Daria Egidi (a cura di), su cinquantamila.corriere.it.

Ricordo...

1. Saverio Lodato, Dieci anni di mafia, Rizzoli, Milano, 1992, pp.101-102.

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Un delitto firmato

1. Deposizione di Tommaso Buscetta alla commissione parlamentareantimafia.

2. Daria Egidi (a cura di), su cinquantamila.corriere.it.

Il dopo dalla Chiesa

1. Giorgio Bocca, su «la Repubblica», 8 settembre 1982.