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Marco Pozza L’IMBARAZZO DI DIO

L'imbarazzo di Dio di Marco Pozza - estratto

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Una rilettura meditata e piena di passione dei vangeli, dell’inesauribile sorpresa che racchiudono, dell’imbarazzo che suscita il Dio che in essi sceglie gli ultimi per farne destinatari dell’amore più grande. Un sussurro d’anima che si legge con il pudore di una confidenza e lo stupore di una poesia di vita e di speranza.

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€ 10,00

Sfavillano d’una luce tumultuosa e selvag-gia: nel mattino scarmigliato di Nazaret e in quello arruffato di Cafarnao, come nel

meriggio riluttante del Golgota e in quello len-to di Emmaus. Su trame tormentate, una ciurma d’umani dispiega un’avventura profondamente e disperatamente seria, quella dell’essere braccati dal Cielo: sorpresi dalla Grazia, sorprenderanno la disgrazia. Tra vigne dorate, confusione di po-poli e palme di dattero, un anticipo d’Eterno su trame d’imbarazzo.

Il Cielo li sorprese acquartierati sulla soglia del loro daffare quotidiano: pescatori, fonditori, tessi-tori e portatori d’acqua. Coloro che in essi s’im-batterono dopo quell’incontro li annusarono col rossore sulle gote e la fretta come mantello: imba-razzati e imbarazzanti.

Tutto cominciò a Nazaret, un pugno di capan-ne impastate d’argilla secca: «Lo chiamerai Im-barazzo». Un giorno si fece carne e scompigliò la storia. Imbarazzandola nel colorato bailamme di periferia.

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Marco Pozza

L’IMBARAZZO DI DIO

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Seconda edizione 2015

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2014 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)

ISBN 978-88-215-9301-7

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Subito, per la seconda volta, un gallo cantò.E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto:«Prima che due volte il gallo canti,tre volte mi rinnegherai».E scoppiò in pianto.(Mc 14,72)

Imbarazzo [im-ba-ràz-zo] n.m. [pl.-i] 1. stato di disa-gio, di perplessità, di confusione: mettere, essere, sentirsi in imbarazzo 2. difficoltà, impaccio, intralcio: quest’abito troppo stretto mi dà imbarazzo | imbarazzo di stomaco, diffi-coltà di digestione > Dallo sp. embarazo.

Imbarazzo della scelta n. incertezza di dover sceglie-re tra cose egualmente realizzabili o desiderabili: le so-luzioni possibili sono molte: non hai che l’imbarazzo della scelta.

* sin. disagio, difficoltà, turbamento, confusione; soggezione, vergogna contr. disinvoltura, scioltezza, spi-gliatezza, decisione, sicurezza * sin. impedimento, dif-ficoltà, intralcio, impaccio; appesantimento (di stomaco).

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Preludio

D’una presenza imbarazzante.Stazionava lì da chissà quanti anni. Muta, silenziosa,

innocua: appena dopo il pesante cancello che delimita il mondo di fuori dal mondo di dentro. Lo spazio della libertà e la zona della prigionia. Quasi a dare il benve-nuto a chi varcava quella soglia. Ambigua soglia di civiltà.

«Prego, nome e cognome?» – chiede l’agente prepo-sto al controllo degli ingressi. Il nome scarabocchiato nel freddo registro: per sempre, a imperitura memoria. Come traccia di un passaggio di là. Nel mondo degli uomini ristretti. Degli uomini ombra.

Subito dopo appare lei, stretta e costretta tra mura di ferro e di cemento. Rattrappita, secca, sgangherata nel suo portamento. Alquanto spinosa. Tante stagioni, tanti ingressi, altrettanti visi imbarazzati. Qualcuno ci-nico, forse spietato.

«Benvenuto! – sembra porgere al viandante di pas-saggio – Memorizzati la mia faccia. Se hai bisogno, chie-di aiuto!». Sincera, quasi affettuosa, amabile: piccolo sprazzo di natura dentro un mondo cementificato. An-che nell’anima.

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Lo spazio di due mattonelle: un sottovaso e un vaso adornato di polvere. È una pianta rattristatasi nel tem-po: le passano accanto e non le badano, i pesanti scar-poni delle guardie la spostano senza degnarla di un’at-tenzione, lo sguardo distratto dei viandanti ne banaliz-za la vergine età di un tempo. È una pianta secca, spinosa, disgustosa: ostico immaginarsela pennellata di colori e vestita di fiori.

L’ho sfiorata per un pugno di mattine, come si sfiora la crosta di ciò che esiste. Eppure lei sembrava non prendersela per quel disprezzo travestito di fretta. In piedi, dritta a coccolare il ferro della porta, muta pre-senza di un mondo muto.

Dentro il carcere il caldo d’agosto s’accanisce sulle carni segregate nelle celle. E sulle piante prigioniere del cemento. Solo la vastità immensa del corridoio – intervallato da cancelli possenti, nudi e solitari – sem-bra tagliare l’afa di quest’anno. Appena dopo il cancel-lo, una donna con l’annaffiatoio in mano. Si chiama Pina, è un agente della Polizia Penitenziaria: quelli che defendere spem munus nostrum lo hanno stampato come motto sulla divisa. Qualcuno anche nel cuore. Sta ab-beverando la pianta secca.

«Guarda che meraviglia! – mi sussurra felice – Tre mesi fa era morta, adesso quasi germoglia». Mi indica un invisibile anticipo di germoglio custodito tra spine gigan-tesche: serviva quasi una lente d’ingrandimento per dar-le ragione. Tanto secco, un’invisibile puntino di verde, un pugno d’acqua in mano. Guardo la pianta, guardo la Pina: guardo quell’imbarazzante attenzione di donna.

«Mi ci sono affezionata. L’annaffio ogni mattina». E la bagna con cura: attende che l’acqua scenda nella

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terra, ne pulisce il vaso, la risistema come dovesse farla sfilare su una passerella. Lei è una donna dalle moven-ze evangeliche.

Approfitto di una disattenzione fugace: mi nascondo in una saletta adiacente. Niente telecamere in quell’an-golo di prigionia: io e lei, il viandante e la pianta secca, l’imbarazzo e la Natura. Lei è lì, appena dietro il cancel-lo: sparge benvenuti con spassionata gratitudine. Li vede entrare tutti, uno a uno.

La immagino con una memoria di ferro. Dentro quella corteccia secca di dolore, si sono andati regi-strando mille suoni: le sirene delle camionette e il sin-ghiozzo dei detenuti, le risa della gente e le chiavi nei cancelli, il suono del citofono e le urla della Polizia, il bip del metal detector e le bestemmie dei viandanti. Suoni e colori: quelli delle divise e dei vestiti, dei capel-li e della barba, dei berretti e delle manette. Degli oc-chi, delle scarpe, degli sguardi. Suoni, colori, nostalgie: del mare di Calabria, delle arance di Sicilia, del volto della donna e della mano di un bambino. Dell’azzurro del cielo e della tempesta marina, del gusto di casa e della brezza di montagna. Dei fiori, delle stelle, dei vo-li delle rondini. Della libertà. Lei vede il mondo dal basso, eppure lo chiama per nome. Dai passi ricostruisce le storie e le destinazioni: passi lenti, pesanti, tristi. Fur-tivi, di ritorno, in andata. In fuori, in dentro. Desti, mattutini, feriali e domenicali. I passi e le ruote: dei carrelli che portano cibo, di quelli dei medicinali, di quelli degli aggiustatori. La vita è un trambusto.

Tanti sono distratti, lei è attentissima: è la memoria storica di un carcere di massima sicurezza del Nord-Est. Ti parla se le parli, ti racconta se l’accosti, t’affascina se

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la contempli. Eppure è solo una pianta secca: «Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: sapre-te che io sono il Signore» (Ez 37,6).

Pina l’annaffia testarda: «Un giorno fiorirà» – si giu-stifica con chi ne irride la femminile speranza. Oggi, ieri, l’altro ieri. Domani. Acqua e attenzioni.

Mi ci ero affezionato alla fine.

«Buona giornata, don!» – e sembrava quasi chinare il capo al mio passaggio. Una tavolozza di colori in un mondo in bianco e nero.

Come risposta la degnavo di un sorriso. Pungeva, ma i suoi racconti stregavano. Racconti di uomini e di ferite, di croci e di sepolcri spalancati, di terre e di stagioni. Di innocenti, di colpevoli e di miscredenti. Di truffatori, di imbianchini e di pittori. Mi narrava storie condite di amore, senza giudizio, al netto delle inter-pretazioni. La toccavo e lei mi tratteneva: come a far entrare nelle vene quello sguardo di misericordia ver-so i falliti, gli ultimi, la periferia. Mi narrava di Vincen-zo, di Luciano e di Valentino. Di Isaak, di Boateng e di Mario. Della banda, del branco, dell’associazione. Po-che mattine mi parlò di gente cattiva: per lei, tutt’al più, erano storie infelici. Treni deragliati, binari morti, esistenze spezzate.

Acqua e annaffiatoio, mattini e confidenze, piante e uomini. Era una pianta che raccontava la vita. Che am-maestrava sulla vita.

«Togliete quella pianta. Ormai è morta!». L’ordine venne dall’alto: la pianta venne tolta. Al suo posto due fredde mattonelle e una vecchia porta ferrosa.

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Stamattina sono entrato e più non c’era. Ho lasciato nome e cognome: poi mi son voltato a destra e a sinistra e mi son sentito triste. Solo, dentro un mondo sovraffol-lato: si può essere soli anche nel mezzo del caos.

Si apre il cancello e lo oltrepasso. Senza il mio feria-le buongiorno.

Quella pianta era una presenza imbarazzante. Forse un anticipo di umanità. Là in fondo urla scomposte di piante secche: tanti accenti, tracce di cicatrici, aria di contesa. Ci sarà qualcuno con l’annaffiatoio in mano anche laggiù?

M’inabisso nel ventre della galera con addosso la no-stalgia dell’acqua e dell’annaffiatoio di Pina: strumenti primordiali della terra e dei giardini.

Nella mia memoria giace quella pianta. L’imbarazzo di quella pianta.

Eppure stava per fiorire.

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