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Leopardi e il vero Author(s): Alfred Bonadeo Source: Italica, Vol. 58, No. 1, '700-'800 (Spring, 1981), pp. 28-42 Published by: American Association of Teachers of Italian Stable URL: http://www.jstor.org/stable/478799 Accessed: 13/10/2009 20:12 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of JSTOR's Terms and Conditions of Use, available at http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp. JSTOR's Terms and Conditions of Use provides, in part, that unless you have obtained prior permission, you may not download an entire issue of a journal or multiple copies of articles, and you may use content in the JSTOR archive only for your personal, non-commercial use. Please contact the publisher regarding any further use of this work. Publisher contact information may be obtained at http://www.jstor.org/action/showPublisher?publisherCode=aati. Each copy of any part of a JSTOR transmission must contain the same copyright notice that appears on the screen or printed page of such transmission. JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. American Association of Teachers of Italian is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Italica. http://www.jstor.org

Leopardi e Il Vero

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  • Leopardi e il veroAuthor(s): Alfred BonadeoSource: Italica, Vol. 58, No. 1, '700-'800 (Spring, 1981), pp. 28-42Published by: American Association of Teachers of ItalianStable URL: http://www.jstor.org/stable/478799Accessed: 13/10/2009 20:12

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  • LEOPARDI E IL VERO

    Notando che Leopardi riteneva la vita un male e che essa dovesse essere vissuta con l'amara coscienza di questo male,1 Benedetto Croce sottolineava l'incapacita, o riluttanza del poeta ad adeguarsi alla realta dell'esistenza, ma esponeva soltanto una parte della verita sulla sua complessa posizione poetica ed intellettuale. II sentimento del male e della nullita della vita che pervade gli scritti attorno al 1820 rivela leggere mutazioni gia nelle pagine dello Zibaldone dei primissimi anni di quella decade, e poi cambiamenti sostanziali nelle Operette morali e nello Zibaldone di meta decade. Viene cosi preparato il terreno per una graduale accettazione del vero che culminera nella Ginestra, il simbolo dell' "insopprimibile vitalita" dell' uomo.2 Come avviene il passaggio dal ri- fiuto della dura realta all'accettazione del vero e all'esaltazione dell'esistenza?

    Attorno al 1820 Leopardi ripete con una monotonia pari alla veemenza il concetto della vanita del vivere. "Tutto e nulla al mondo," e in Italia, un paese in condizioni culturali e politiche particolarmente precarie, "la nullita di tutta la vita" si fa sentire in maniera intensa, egli insiste. Spoglia d'incentivi e pro- positi l'esistenza sembra permanere per forza d'inerzia. "La maggior parte degli uomini vive per abito, senza piaceri, ne speranze ..., senza ragion suffi- ciente di conservarsi in vita, e di fare il necessario per sostenerla." Questa con- vinzione prendeva la forma di una bella, ma tetra immagine: la vita e come "lo strascinare con gran fatica su e giu per una medesima strada un carro pesan- tissimo e v6to."3

    II tempo di queste riflessioni e quello in cui Leopardi sente per la prima volta il declino delle forze fisiche come un fatto decisivo nella sua carriera di uomo e di poeta (la prima severa afflizione oculare e del 1819); e anche il tempo in cui egli desidera ardentemente allontanarsi dall'opprimente famiglia e dall'ingrata Recanati, ma e forzato a rimanervi. Si dichiara allora 'stordito del niente" che lo circonda e "spaventato della vanita di tutte le cose." Scrive al Giordani e al Brighenti in modo particolarmente patetico della depressione che la coscienza della "nullita delle cose" e dell' "orribile nulla" nel quale esiste gli procura.4 La poesia e naturalmente infusa di questo stato d'animo. Se della vita l'essere conosce solo e sopratutto il dolore, essa forse non vale nemmeno la pena di esser vissuta. "Arcano e tutto, / fuor che il nostro dolor. Negletta prole / nascemmo al pianto," Saffo canta, e abbandona la vita. "Nostra vita a che val? solo a spregiarla," conclude Leopardi in A un vincitore nelpallone. Al poeta che non sa sottrarsi alla "infelice / scena del mondo" non resta che "il pianger sem- pre" (La vita solitaria) e vivere "giorni orrendi I in cosi verde etate" (La sera del di di festa).

    La parola che meglio descrive questo stato d'animo e la disperazione. Essa accompagna quasi costantemente le sue tetre meditazioni. Gli accenni alla vanita del tutto nelle prime pagine dello Zibaldone sono infatti accoppiate ad ac-

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  • LEOPARDI E IL VERO

    centi disperati. "Tutto e nulla al mondo, anche la mia disperazione," nota nelle prime pagine dello Zibaldone (I, 103). Medita sulla natura della facolta di "sen- tire la nullita di tutte le cose sensibili" ed irrompe in questa affermazione di sapore masochistico: "Mi diedi tutto alla gioia barbara e fremebonda della disperazione" (Z, I, 133). Insiste nel manifestare la propria disperazione a Pietro Giordani: "Vivo sempre mezzo disperato," gli scrive. Invaso da crescente spossatezza fisica, scrive ancora all'amico: "Questo [malattia] mi con- sola, perche m'ha fatto disperare di me stesso, e conoscere che la mia vita non valendo piZu nulla posso gittarla." I1 sentimento della nullita della vita sembra coesistere con la disperazione stessa poiche il poeta puo temere che sia "un niente anche la sua disperazione." Con Pietro Brighenti si proclama "l'uomo il piu disperato che si trovi in questa terra." E rivolto ancora al Giordani doman- da: "Dov'e l'uomo piu disperato di me?" Spera e si adopera per abbandonare Recanati onde trarsi fuori "da questa disperazione." La sua trista visione della vita diviene radicata e consueta: scrive di una "disperazione totale della vita" come il male piu grande che possa affliggere il genere umano.5 Il movimento in- composto che occupa il centro della Sera del di difesta e forse la manifestazione piu intensa di disperazione nella poesia leopardiana: convinto d'esser condan- nato dalla natura alla sventura ("non brillin gli occhi tuoi se non di pianto"), il poeta si domanda che sara della sua vita; incerto e angosciato esclama: "E qui per terra / mi getto, e grido, e fremo."

    Ma nello Zibaldone la disperazione rivela anche una faccia sor- prendentemente disforme. Gli antichi la conobbero pure, ma era un tipo del tutto diverso da quello che affligge l'odierna umanita. Nei loro accessi di disperazione manifestavano un odio intenso verso se stessi, ma serbavano intat- ta la "cura e stima delle cose." La disperazione moderna non produce affatto ostilita contro chi l'alberga; genera invece la "noncuranza e il disprezzo e l'in- differenza verso le cose." L'antichita, ovunque negli scritti leopardiani l'espres- sione di alti ideali, non aveva mai concepito quella disperazione da cui sono col- piti i moderni, perche essa non nutri mai il sentimento della nullita dell'esisten- za. "La disperazione .., l'odio della vita umana . . ., la miseria destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullita e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, insomma l'idea che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non e mai entrata in intelletto antico, ne in intelletto umano avanti questi ultimi secoli." I moderni invece concepiscono la vita come un male ma mantengono "un certo languido amore" verso se stessi che toglie loro persino la preoccupazione e il dolore per le proprie sventure e per quelle degli altri. Questo compiaciuto amor di se stesso distrugge il "senso dell'animo" e rende l'individuo indifferente ed egoista: volendo "conservare lo stato presente, ... nulla mutare o innovare," egli finisce con il sopprimere "l'attivita, la mobilita, la vita di questo mondo" (Z, I, 389, 458-459). Tre anni piu tardi quando si erigera a giudice severo delle male usanze morali e sociali degli italiani, Leopar- di ritornera allora all'idea della vanita dell'esistenza per accoppiarla alla disperazione ed insieme condannarle nel nome dell'elevatezza morale e

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  • ALFRED BONADEO

    dell'azione utile: "Come la disperazione, cosi ne piu ne meno il disprezzo e l'in- timo sentimento della vanita della vita, sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralita."6

    In altro contesto la disperazione non appare nemmeno piu come la manifestazione della coscienza della nullita dell'esistenza, ma semplicemente come un morbido piacere. Gia nel mezzo dei suoi accessi di disperazione il recanatese accenna, seppur enigmaticamente, al suo abbandono alla "gioia ... della disperazione." Chiarisce piu tardi l'atteggiamento osservando che la disperazione pu6 racchiudere in se la speranza di soffrir meno nel futuro, e per- ci6 di "godere qualche cosa." La disperazione estrema, propria del "giovane ardente e inesperto," propria cioe dello stesso Leopardi, pu6 esser fonte di vero, intenso piacere: e dato "goder della stessa disperazione, della stessa agita- zione, vita interiore, sentimenti gagliardi ch'ella suscita." Anche se la speranza e il desiderio del meglio si dileguano, l'infelice gode ugualmente cullandosi nel piacere della disperazione. Infatti e possibile godere "sommamente . . .della stessa disperazione," reitera il poeta e proclama che "il piacere della dispera- zione e ben conosciuto" (Z, I, 1014-1015).

    Ma il piacere della disperazione non appaga alcuna profonda aspirazione del cuore e della mente; essa e nient'altro che l'espressione di uno sterile egoismo, L'individuo che ritiene i suoi mali grandi, senza limiti, non suscettibili di alcun sollievo, che giudica la sua sventura "immensa e perfetta," senza speranza e consolazione si dispera gustando il "conforto del pianto (dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi piu infelice che pu6)." II piacere che gliene deriva e aumentato dallo stupore e dall'ammirazione ch'egli sente per se stesso, dal co- noscersi "capace di tanta sventura, di tanto dolore e tanto straordinariamente oppresso dal destino," dalla percezione di "tutta quanta la sua disgrazia." Questa sensazione di piacere procurata dalla "estrema e piena disperazione" non e che "una pura straordinaria soddisfazione dell'amor proprio" (Z, I, 1349-1350).7 Poco meno di tre anni appresso il proclamare i rfiali della vita e l'abbandono alla disperazione saranno considerati indegni dell'uomo. Eleandro nel "Dialogo di Timandro e di Eleandro" stimera "assai piu degno dell'uomo, e di una disperazione magnanima, il rider dei mali comuni, che il mettermene a sospirare, lagrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto." E Timandro di rincalzo ammonira essere "dannosissimo e ab- bominevole l'ostentare . .. disperazione" predicando la miseria e la vanita dell'esistenza.8 Gia al tempo in cui il poeta amava cullarsi nel piacere della disperazione egli ne aveva intuito e predetto l'assurdita. In tono pacato e ra- zionale notava che della sua "disperazione . . . ogni uomo anche savio, ma piu tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora piu quieta conoscero la vanita l'ir- ragionevolezza e l'immaginario" (Z, I, 103). Cinque anni piu tardi la verita dell'osservazione veniva parzialmente confermata: "L'esperienza," Leopardi scrivera al fratello Carlo, "mi ha insegnato che le mie disperazioni non sempre sono ragionevoli e non sempre si avverano."9

    Mettendo in luce le tracce di posa letteraria, esagerazione ed evasione che

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  • LEOPARDI E IL VERO

    permeano le meditazioni sulla nullita dell'esistenza e sulla disperazione, il poeta rivela un atteggiamento psicologico distintamente proclive a valutare cor- aggiosamente la realta, e fa cosi un passo, seppur breve, nel suo iter verso la rinuncia ad uno sterile pessimismo, verso una conciliazione con quel vero con cui, tuttavia, dovra lottare ancora a lungo ed ancora penosamente. L'abbandono del concetto di natura arbitra delle sorti del genere umano segna un'altra tappa nel progresso verso l'accettazione del vero.'0 Nel 1820 e ancora fermamente convinto che "l'uomo esce perfetto dalle mani della natura," e che la vita secon- do natura e felicita si equivalgono (Z, I, 228, 332). Quando in A un vincitore nel pallone il poeta canta che agli uomini "di lieti / inganni e di felici ombre soc- corse / natura stessa," e chiaro che lo slancio lirico emana dalla coscienza della felicita un giorno goduta dal genere umano, dall'immedesimazione del poeta con quel tempo remoto, con quell'esistenza "naturale," e infine dalla condanna dell' "insano costume" che ha distrutto la favolosa eta dell'oro. Poiche Bruto sa perfettamente bene come vorrebbe vivere,

    Non fra sciagure e colpe, ma libera ne' boschi e pura etade natura a noi prescrisse,

    rifiuta di vivere un'esistenza "snaturata"; orgogliosamente sceglie la morte an- ziche permanere in un mondo dove 1' "empio costume" ha avvelenato la pristina purezza dell'esistenza (Bruto Minore). L'awento della stagione primaverile e salutata dal poeta con un palpito di gioiosa speranza perche potrebbe coincidere con il ritorno dell'eta in cui l'uomo visse felice nel grembo della natura:

    Forse alle stanche e nel dolor sepolte umane menti riede la bella eta, cui la sciagura e l'atra face del ver consunse innanzi tempo?

    (Alla primavera)

    E nell'Inno aipatriarchi lo stato d'animo del poeta s'identifica, attraverso il rim- pianto e 1'ammirazione, con il ritmo di vita della bella eta della natura, "di col- pe ignara e di lugubri eventi," un'eta in cui

    ... di suo fato ignara e degli affanni suoi, vota d'affanno visse l'umana stirpe

    obbediente ancora alle "leggi... di natura." Ma gia negli anni dei canti inneggianti al regno della natura, il felice con-

    nubio del poeta con l'eta dell'oro mostra incrinature. Ne La sera del di difesta

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  • ALFRED BONADEO "l'antica natura onnipossente" e accusata d'averlo creato perche viva nell'affan- no. La Vita solitaria rivela il rimpianto per quello che un tempo era un rappor- to vitale tra il poeta e la natura ma rappresenta anche l'attuale distacco che or- mai lo separa da quella che altrove considera "reina un tempo e Diva":

    ... Alcuna benche scarsa pieta pur mi dimostra natura in questi lochi, un giorno oh quanto verso me piii cortesi!

    Disilluso notera allora che v'e un divorzio tra l'uomo e la natura: "La natura e oggi fatta impotente a facilitarci perche ha perduto il suo regno su di noi, . . .ella non e pii l'arbitro ne la regola della nostra vita." Abbandonato dalla natura ad un'esistenza indegna l'uomo farebbe allora meglio ad uccidersi (Z, I, 1360-1361)." Pochi mesi piu tardi il poeta riconosce che la natura non diede al genere umano soltanto dei beni ma anche dei mali. Vero e che l'intento nel mischiare il bene con il male era quello di rendere l'esistenza piu varia e piacevole: liberandosi dal male i mortali avrebbero provato sollievo e piacere, e questo avrebbe rinnovato in loro l'interesse e l'amore per la vita (Z, I, 1545). Quest'idea nata e accolta con favore nello Zibaldone sara alcuni anni piu tardi rigettata con particolare veemenza e la natura sara coperta di sarcasmo e ac- cusata di malvagia ingenerosita:

    O natura cortese, son questi i doni tuoi questi i diletti sono che tu porgi ai mortali. Uscir di pena e diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; ... ... quel tanto che per mostro o miracolo talvolta nasce d'affanno, e gran guadagno

    (La quiete dopo la tempesta) Gia poche settimane avanti il divorzio tra il poeta e la natura aveva assunto un carattere patetico accentuato dalla coscienza che i beni un tempo conferiti dalla natura sono andati perduti. Nelle Ricordanze i "mille diletti allor che al fianco / m'era, parlando, il mio possente errore / sempre" sono scomparsi e rimpianti. E le illusioni che rendono la vita degna di essere vissuta sono anch'esse una cosa del passato: "O speranze, speranze: ameni inganni / della mia prima eta!" I1 poeta non pu6 dimenticare le illusioni un giorno nutrite in lui dalla natura, ma non sa pii vivere secondo i loro dettami. Le Ricordanze cantano le svanite possibilita d'un'esistenza vissuta sotto l'egida delle benefiche illusioni elargite dalla natura.

    Quando, infine, Leopardi diviene convinto che la natura ha mancato verso il genere umano, la rottura tra il poeta e la mitica entita verso cui egli si era una volta dichiarato "amante ardentissimo, non corrisposto nell'amore," 12 si fa

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  • LEOPARDI E IL VERO

    peggiore. L'uomo fu creato dalla natura perfetto, ma appunto perche perfetto a guisa d'un congegno dal meccanismo perfetto e perci6 complicato e delicatissimo, egli e soggetto al notevole inconveniente di guastarsi facilmente e di perdere la sua perfezione. Puo difficilmente mantenersi nello stato di primitivo benessere morale e materiale a causa della sua spiccata disposizione ad allontanarsi dal "suo stato naturale, e quindi dalla sua propria perfezione, e quindi dalla sua felicita." L'aver creato l'uomo perfetto fu uno sbaglio (un tiro mancino?) da parte della natura poiche la primigenia perfezione fu l'autentica origine e causa della sua decadenza; assegnandogli la perfezione, la natura ha ipso facto reso l'uomo proclive alla corruzione: gli ha conferito la "naturale ... disposizione... a perdere il suo stato e la sua perfezione naturale." Egli e quindi "in natura e per natura ... pii di tutti disposto a divenire imperfetto" (Z, II, 159-160).

    Al dileguarsi dopo il 1822 dell'ammirazione e completa fiducia nel potere taumaturgico della natura corrisponde un esplicito avvicinamento al vero, l'i- nizio di una graduale accettazione dell' "atra face del ver." Filippo Ottonieri preferisce, si, il bello al vero, ma quest'ultimo occupa un posto vicinissimo al bello nella sua scala di preferenze: "Certamente il vero non e bello. Nondimeno anche il vero puo spesse volte porgere qualche diletto: e se nelle cose umane il bello e da preporre al vero, questo dove manchi il bello, e da preferire ad ogni altra cosa."13 Nel maggio del 1825 il poeta si dichiara ormai preparato a non cercare "altro piui fuorche il vero, ... gia tanto odiato e detestato," compiacen- dosi pero di "sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose." E ancora riluttante a guardare in faccia la realta con calma e com- prensione: confessa di tuttora "inorridire freddamente" davanti alle sue scoperte.14 Ma l'anno appresso non inorridisce piu, ne piu si volge alla natura per cercarvi rifugio e sollievo. In Al conte Carlo Pepoli affronta decisamente quel vero dal quale era stato a lungo confrontato, ma dinnanzi al quale aveva esitato o indietreggiato. Come impiegare questo "affannoso e travagliato sonno / che noi vita nomiam," si domanda il poeta. Gli uomini si adoperano in varie guise di occupare la vita, tutti cercando per6 di raggiungere la felicita. Questo fine, altrove considerato la meta legittima del genere umano, non e giudicato in questo canto del marzo 1826 attraente o soddisfacente. Innanzitutto la felicita e elusiva:

    Felicita, cui solo agogna e cerca la natura mortal, veruno acquista per cura o per sudor, vegghia o periglio.

    Fonte di delusione e amarezza, la tendenza alla felicita e rappresentata due volte in maniera negativa: "Aspro desire onde i mortal ... d'esser beati sospirano in- darno"; "duro morso / della brama insanabile che invano / felicita richiede." Gli uomini potrebbero fare qualcosa di meglio anziche cercare a duro prezzo un'impossibile beatitudine; potrebbero sull'esempio del conte Pepoli applicarsi allo studio e alla rappresentazione del bello che ormai "raro e scarso e fuggitivo

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  • ALFRED BONADEO

    / appar nel mondo." E un degno scopo che Leopardi stesso vorrebbe perseguire; ma la sua condizione sentimentale e morale non gli permette di mettersi sulle orme del conte; il bello non s'intende e non si rappresenta senza l'ausilio della natura, e la relazione tra il poeta e "l'amata" d'un tempo e finita: "Mancar gia sento, e dileguarsi dagli occhi / le dilettose immagini, che tanto / amai." Al gesto di liberazione dalle cure della natura corrisponde il dispiegarsi di un interesse per il vero; a differenza dall'amico Pepoli che si dedichera al bello, Leopardi intende

    ... L'acerbo vero, i ciechi destini investigar delle mortali e dell'eterne cose

    onde meglio comprendere la natura e la sorte del destino umano. I versi rivelano non certo un'accettazione senza riserva del vero; indicano tuttavia l'in- tento e lo sforzo di render chiaro a se stesso la faccia di quel vero una volta abor- rito. Dai versi e scomparso l'orrore provato ancora l'anno prima; c'e solo un tocco di ripugnanza da parte di chi si appresta a inoltrarsi su un terreno sconosciuto, minaccioso. Nella composizione non vi e pii alcun tentativo di evasione; anzi la mitica felicita altrove spesso invocata inutilmente, e qui espressamente ripudiata. Compiti pii gravi e impegnativi, ma non privi di qualche ricompensa, di "diletto," attendono il poeta. L'indirizzo verso un ap- prezzamento realistico dell'esistenza, il cammino verso il vero, sembra agevolato e stimolato da un proposito stoico e di rinuncia alla lode poetica:

    ... che conosciuto, ancor che triste ha i suoi diletti il vero. E se del vero ragionando talor, fieno alle genti o mal grati i miei detti o non intesi, non mi dorro.

    Il vero, tuttavia, non cessa, per un tratto almeno,. d'incutere timore nell'animo del poeta. In A Silvia del 1828 si ritrae raccapricciato dall'infausto evento determinato dal vero:

    All'apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano.'5

    E nel Canto notturno rimane quasi esterrefatto dalla dura realta dell'esistenza, impersonata da un "vecchierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo" che percorre affannosamente una lunga, scabra via per abbattersi al fine in un baratro. La sola, esile consolazione e allora il pensiero che qualcuno, la luna, comprenda il significato della miseria terrena, un vero spoglio di ogni vestigio razionale agli occhi del poeta: "Tu forse intendi, / questo viver terreno, / il patir nostro."

    Ma una svolta decisiva awiene nel 1832 quando Tristano, l'alter ego di Leopardi, accusa il genere umano di codardia rimproverandolo di non saper af-

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  • LEOPARDI E IL VERO

    frontare la dura realta dell'esistenza, di credere "sempre, non il vero, ma quello che e, o pare che sia, pii a proposito suo," rifiutando di riconoscere la bassezza e insignificanza della sua condizione. In un accesso di sdegno Tristano calpesta allora la "vigliaccheria degli uomini" che preferiscono celare a se stessi la grama ma vera natura dell'esistenza. Con un'espressione che prelude alla Ginestra, Tristano oppone la forza e il coraggio all'avversita: "Ho il coraggio di . . . mirare intrepido il deserto della vita . . . ed accettare tutte le conseguenze

    di una filosofia dolorosa, ma vera." E infatti in questo dialogo che con il corag- gio e la forza di fronte al vero, per la prima volta Leopardi si erige quasi in atto di sfida dinnanzi all'avverso destino. Da questa posizione da "uomini forti" Tristano si compiace di "vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudelta del destino umano."'6 II significato dell'esistenza che ancora nel Canto notturno il poeta disperava di capire ("Dimmi o luna: a che vale / al pastor la sua vita /... /... ove tende / questo vagar mio breve"), si delinea meno oscuro ora che il poeta non distoglie gli occhi dal vero messo a nudo.

    Leopardi, infine, perviene alla Ginestra e all'accettazione del vero attraverso l'elaborazione dell'idea della perfettibilita, o meglio dell'imperfettibilita. Rousseau aveva senz'altro asserito l'innata capacita dell'uomo di perferzionarsi riconoscendola come la facolta peculiare che distingue l'uomo dalla bestia; da essa faceva derivare il bene e il male che la societa procura a se stessa, e lo sviluppo della civilta.17 Leopardi nega invece al genere umano la capacita di migliorare ed eventualmente perfezionare la propria condizione. La vivace e ac- canita opposizione alla perfettibilita e di particolare interesse per le con- seguenze che toccano il suo atteggiamento verso il vero. Dal punto di vista religioso e assurdo presupporre un futuro stato di perfezione, perche tanto var- rebbe ammettere che Dio nella sua infinita potenza e chiaroveggenza ha messo al mondo la sua prediletta creatura in stato d'imperfezione assegnandole in- direttamente il compito di cercare ed eventualmente ottenere la sua perfezione in un futuro, indefinibile tempo. Nondimeno i primi padri della Chiesa sosten- nero tale assurdita; e "per aver sognata questa perfettibilita, e cercata questa perfezione fattizia" essi vanno tacciati di superbia. Piu grave ancora e l'in- congruenza tra l'idea di perfettibilita e l'intenzione della natura. Asserendo che l'uomo ha bisogno di perfezione si sostiene implicitamente che "l'opera della natura ... era imperfetta," che l'uomo primitivo, naturale non era perfetto, ma aveva necessita di migliorare la sua condizione (Z, I, 336, 338). Leopardi che nelle prime pagine dello Zibaldone e nella fase pifi acuta di esaltazione della natura, fa abbondante uso di essa nello sforzo di abbattere il miraggio della perfettibilita. Alla nozione che la perfezione richiede all'uomo di abbandonare la natura per intraprendere un lungo processo di miglioramento, il poeta replica che l'uomo era felice, cioe perfetto, proprio nello stato di natura, non quando l'abbandon6. "Io dimostro," esclama enfaticamente, "che l'uomo essendo perfetto in natura, quanto pii s'allontana da lei, piui cresce l'infelicita sua." (Z, I, 737). I1 sentiero sul quale il genere umano deve avventurarsi per raggiungere la perfezione e particolarmente disagevole; esso dovra "stentare, tentare mille

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  • ALFRED BONADEO

    strade, sbagliare mille volte, e tornare indietro, e finalmente... aspettare lunghissimo ordine di secoli, per conseguire in parte il detto fine." Ma e ragionevole supporre che dopo tanti travagli il genere umano si ritrovera felice? Non e piuttosto da temere che dopo siffatti prolungati patimenti esso avra esaurito intieramente le possibilita di condurre un'esistenza migliore? E dun- que impossibile ammettere che la natura, la quale aveva inteso conferire all'uomo la perfezione e la felicita al momento in cui lo pose nel creato, abbia decretato, come i sostenitori della perfettibilita vorrebbero, che la sua creatura venisse sottoposta a lunghe e gravi fatiche, come ad esempio il lavoro brutale ed estenuante per procurarsi metalli preziosi e la moneta, per mietere inenarrabili sofferenze anziche il miglioramento della propria condizione; tutto cio non poteva entrare "nel sistema, nel disegno, nel piano della natura" (Z, I, 564, 565, 788).18 Che, infine, le leggi della natura fossero opposte al presunto perfe- zionamento dell'umanita e provato dalla resistenza che la natura stessa erige contro gli uomini che per farsi strada sulla via del progresso e della presunta perfezione, l'abusano e sfruttano; la natura diviene "renitente, ripugnante, mal disposta a servire i bisogni e desideri degli uomini"; essa intende negare loro quello che secondo le sue leggi non hanno il diritto di esigere; di conseguenza, un divario incolmabile e pericoloso viene a separare l'umanita dal suo ambiente naturale (Z, I, 1022-1023).

    Malgrado le prove fatte e le sofferenze subite per lunghissimo tempo, il genere umano non e ancora riuscito a raggiungere la meta prefissa. Ma pur sup- ponendo che essa sara raggiunta, e plausibile che la perfezione del genere umano "fosse posta dalla natura au bout di si lunga e difficile carriera, che dopo seimila anni ancora non e compiuta?" Siccome e impossibile intravedere quan- do la perfezione diverra realta e quando i travagli avranno finalmente termine, c'e ragione di disperare. "Quando e come saremo noi perfetti, cioe veri uomini? in che punto, in che cosa consistera la perfezione umana," si chiede esasperato il poeta (Z, I, 1051-1052).19 Poiche l'essenza della perfezione ci e sconosciuta, e impossibile determinare quale sara e in che cosa consistera il presunto stato di perfettibilita. Quale grado di sviluppo del genere umano deve ritenersi lo stato di perfezione alla quale era destinato? I1 presente o un grado differente di sviluppo in tempo differente? E impossibile rispondere. II presente grado di perfezione, o ogni altro grado, e, per quanto ci e dato sapere, niente altro che "una delle diecimila diversissime condizioni a cui potevamo ridurci." Ogni stadio dell'evoluzione umana fu e sara soltanto un punto di perfezione relativa, non mai assoluta. Poiche e impossibile accertare quando e come il genere umano diverra perfetto, il suo destino e frattanto lasciato in balia dell'ignoranza e dell'incertezza. Ma la natura di certo non volle disporre che "la perfezione, cioe l'esistenza intera," fosse assegnata all'uomo dal caso (Z, I, 1028, 1029, 1052). Per esempio, gli fu assegnato un corpo la cui composizione e fun- zionamento sono quanto di piti perfetto si possa immaginare, un organismo che ben difficilmente potra essere migliorato. Ora l'idea di perfettibilita presup- pone innanzitutto la perfezione dello spirito, un'entita molto piu complessa del

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    corpo, molto piu difficile da capire e molto piu difficile da modificare. Come possono pretendere i sostenitori della perfettibilita che l'uomo possa migliorare, anzi portare a perfezione lo spirito se egli non sa neppure perfe- zionare la parte meno complessa del suo essere, il corpo? In verita lo spirito non richiede alcun miglioramento perche esso, come il corpo, e creato perfetto dalla natura. Credere nella perfettibilita dello spirito equivale a sostenere l'assurda idea che "la natura tanto perfetta maestra, tanto accurata e puntuale e finita e intera in tutto il resto, e nominatamente nel... corpo, e stata cosi stupida e manchevole e difettosa nella parte piu rilevante." Quel poco sviluppo della civilta finora avvenuto, i passi fatti verso la cosidetta perfezione, hanno deter- minato un regresso anziche un avvicinamento alla perfezione, poiche la mag- gior attivita intellettuale e spirituale ha indebolito e reso inetto il corpo;20 e questo deterioramento non e che un effetto particolare dell'errata idea di perfet- tibilita. Se il genere umano fosse vissuto secondo natura anziche soggiogarsi all'idea e al compito di divenire ci6 che non e l'esistenza fisica dei suoi membri non sarebbe stata minata. Lo squilibrio tra intelletto e corpo non era predisposto dalla natura perche in essa tutto "e armonia, ma sopratutto niente in essa e contraddizione." Una perfezione che presuppone il deterioramento fisico e un'assurdita, la negazione stessa di ogni idea di perfezione (Z, I, 322, 1043).

    Con la progressiva rinuncia al sostegno ideale della natura la perfettibilita non e piu considerata semplicemente una violazione dei piani da essa predisposti, ma appunto un valore negativo direttamente opposto all'esistenza. Questa acquista allora valore assoluto e la perfezione assoluta valore negativo; in questa nuova dimensione "la perfezione assoluta . .. e lesistenza, sono termini contraddittorii."21 Riconosciuto che le idee innate non esistono, l'idea della perfettibilita viene anch'essa meno perche non e, come tutte le idee innate, "in- dipendente dalle cose quali elle sono;" l'idea riflette piuttosto un atteggiamento inteso a negare l'attualita spiacevole della vita in nome dell'errato pregiudizio che la perfezione risiede fuori del reale, che la "perfezione non e propria delle cose create, che niente al mondo e perfetto, che le cose umane sono imperfette." L'esistente va invece riconosciuto "tutto per relativo, e relativamente vero." Se si rinuncia "alle pazze idee d'incremento," se si accetta l'idea che a questo mondo "nulla e perfetto in un modo che non e, in un modo in cui le cose non sono"; se si sostituisce all'idea di perfezione assoluta quella di perfezione "relativa," l'autentica perfezione consistera allora in "quello stato ch'e perfettamente conforme alla natura di ciascun genere di esseri," e si dovra concludere che "l'uomo e perfetto qual egli e ... e non puo se non essere im- perfetto in altro stato" (Z, I, 1054-1055, 1205-1207). L'affermazione che l'im- perfetta condizione del genere umano e la sua vera perfezione, che quindi il male nella vita e parte inscindibile della condizione umana, sostenuta dall' energico ripudio di un vano idealismo, rappresenta una tappa eccezionalmente importante nella lotta del poeta per la conquista del vero.

    II travaglio si rinnova meno di tre anni dopo nella "Storia del genere

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    umano" dove i primi uomini, pur vivendo in un creato relativamente disadorno e men che stimolante, senza mare, cielo e stelle, non si saziavano di riguardarlo reputandolo bellissimo, "e traendo da ciascun sentimento della loro vita in- credibili diletti, crescevano con molto contento." Completamente immuni da "pazze idee d'incremento, di perfezione" nell'eta giovanile, divengono pur- troppo insoddisfatti e scontenti del creato nell'eta matura. Senza plausibile ragione desiderano allora accrescere il bene che gia godono: "Contentarsi di quello che presentemente godessero, senza promettersi verun accrescimento di bene, non pareva loro di potere." L'insoddisfazione si trasmut6 in odio per l'esistenza, e indusse alcuni persino al suicidio. Giove allarmato si adoper6 per sollevare la sorte degli uomini con l'abbellire il creato e con il renderlo piu vario. II tono di vita dei mortali miglior6, ma per poco tempo, che la scontentezza della loro condizione ben presto li riprese generando, ancor peg- gio, la "disistima della vita." Giove seppe allora che gli uomini in qualsiasi stato essi siano, bramano nondimeno "l'impossibile" e "si travagliano con questo desiderio." Pure egli intese migliorare ulteriormente il loro stato disseminando tra loro il male affinche essi godessero ogni qualvolta riuscivano a liberarsene. L'intento fu raggiunto, ma di nuovo gli uomini furono ripresi dal "fastidio delle cose loro" e "dall'amaro desiderio" per un bene la cui natura essi non sapevano neppure concepire, un bene evidentemente estraneo alla natura e alla condizione umana. Quando i mortali, instancabili nel lamentarsi, rinnovarono "le antiche e odiose querele della piccolezza e della poverta delle cose loro" il re degli dei spazientito li puni inviando loro la Verita con l'esplicito intento di togliere loro le illusioni e con esse la capacita di mantenersi in un grado relativo di felicita.22 Fin dal suo principio, dunque, il genere umano cadde in errore rifiutando di accettare la condizione datagli in sorte. Quando al rifiuto si accompagn6 il costante inappagamento per ogni miglioramento ottenuto e l'insopprimibile ma sfortunata aspirazione a condi- zioni di vita successivamente tanto superiori alle attuali quanto impossibili a raggiungersi, l'errore si aggrav6 divenendo poi fatale con il persistere in esso. L'ostinato errore procur6 al genere umano il risultato esattamente opposto a quello che si riprometteva, il peggioramento del suo stato e l'infelicita perenne.

    Due mesi dopo, quando Prometeo e Momo si prefiggono di accertare se "l'uomo sia la piu perfetta creatura dell'universo" e scoprono che soltanto una piccola parte dell'umanita e progredita e che per raggiungere questo grado relativo di progresso c'e voluta "quantita innumerabile di secoli" e che pur tut- tavia l'umanita e ancora ben distante dalla perfezione, Leopardi rinviene allora prova ulteriore dell'irrazionalita del dover essere e allo stesso tempo rassicura- zione che l'essere e la vera, perfetta condizione umana. L'imperfezione e la con- dizione perfettamente consonante e naturale all'esistenza del genere umano, il quale e "veramente sommo tra i generi ... ma sommo nell'imperfezione, piut- tosto che nella perfezione." E questa imperfezione, che e la perfezione dell'uomo, include il male, anzi "tutti i mali possibili." L'esistenza non sara perfetta nel futuro in virtfi del continuo awicinarsi ad un immaginario,

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    assoluto bene; e perfetta ad ogni punto del suo sviluppo cosi com'e posseduta dal male, da "tanto male, quanto vi puo capire."23

    Smascherata la disperazione come il bisogno e il morboso compiacimento di un temperamento altamente emotivo; rinunciato a volgersi indietro al mito della natura madre benigna tradita dai figli traviati, un mito nelle cui braccia Leopardi ama abbandonarsi per meglio imprecare contro l'esistenza; rinun- ciato, infine, e condannata nel modo pii reciso l'idea della perfettibilita del genere umano, Leopardi e risolutamente fronte a fronte con l'attualita dell'esistenza, con il vero, ma ancora non ha detto come si viva con esso. Lo dira nell'imminenza della morte, davanti al vero nella sua piu dura forma. L'esistenza della ginestra sull'arida pendice vulcanica e estremamente precaria: vive in "tristi lochi" che parlano di millenaria distruzione e morte; esiste, ed e consapevole di esistere, nelle spire di un vero implacabile e mortale. Essa non depreca il suo stato, ne si abbandona alla disperazione, o al sogno di una sorte migliore di questa che gli e stata assegnata dal destino. Anzi da essa sprigiona un sentimento estetico ed umanitario che difficilmente si concilia con la sua condizione:

    ... fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola.

    Davanti all'incombente spietato vero, la morte certa, il fiore del deserto non im- plora pieta per la sua sorte, non si ribella alle forze awerse che la soprafaranno, non evade la realta. Mantiene un perfetto equilibrio interiore:

    ... E piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle.

    Questa maniera di esistere, cospicua per l'assenza di tensione tra la dura realta e un ideale che la trascenda, tra l'essere e il dover esser, presuppone un preciso atteggiamento, l'accettazione del vero. Nella Ginestra il poeta si volge con forte accento polemico contro coloro che esaltano le "magnifiche sorti e progressive" del genere umano. L'errore di costoro e duplice: fantasticano d'un immaginario destino rigettando il vero della condizione umana:

    Cosi ti spiacque il vero dell'aspra sorte e del depresso loco che natura ci die. Per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe' palese; e, fuggitivo appelli vil chi lui segue.

    L'ideale della Ginestra e l'opposto di quello del "secolo sciocco" che, ripudiato

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    il vero, aborre persino l'intelligenza che lo rivela. Nell'ultimo canto la presenza del vero genera un senso di superiorita, di distinzione morale:

    Nobil natura e quella

    ... che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale.

    L'essere poco o nulla ("l'uomo e nulla, sconosciuto e del tutto"), ma il credersi destinato ad una condizione superiore, estranea all'esistenza, al vero ("te signora e fine / credi tu data al Tutto"), e la colpa maggiore di cui i mortali possano macchiarsi, e una presunzione che Leopardi non tenta neppure piu di abbattere con argomenti razionali; altro non evoca in lui ormai che "riso" o "pieta."

    II vero e l'esistenza assumono nell'ultimo canto un significato singolare. L'uomo che non detrae nulla dal vero, che riconosce "il mal che ci fu dato in sorte" e posseduto da natura nobile. Vi e, tuttavia, una ragione piu importante a nobilitare l'individuo che vive indomito con il vero accanto. Vivendo egli sof- fre, ma la sofferenza non l'abbatte; da essa, anzi, trae forza. "Nobil natura e ... / quella che grande e forte / mostra se nel soffrir."24 Leopardi raggiunge qui una posizione che i flebili, disperati lamenti sul male della vita di anni avanti non avrebbero mai lasciato sospettare. La profonda sofferenza rende nobile, distingue l'uomo eccezionale dal volgo. Non e risaputo che la disciplina della sofferenza, della grande sofferenza, ha creato tutto ci6 che di grande l'uomo possiede? La tensione di un'anima infelice che coltiva la sua forza, la sua im- maginazione e coraggio nel sopportare, preservare, interpretare e sfruttare il dolore e reso possibile soltanto dalla sofferenza, dalla disciplina della grande sofferenza. Queste riflessioni rispecchiano fedelmente la concezione della "nobil natura" che soffre e perci6o grande formulata nella Ginestra; ma non sono di Leopardi; sono di cinquant'anni posteriori al canto leopardiano ed ap- partengono a un autore, Friedrich Nietzsche,25 il cui pensiero difficilmente si aspetterebbe di coincidere con quello del recanatese.

    ALFRED BONADEO University of California, Santa Barbara

    1 Benedetto Croce, Poesia e non poesia (Bari, 1923), p. 110. 2 Iris Origo, Leopardi, A Study in Solitude (London, 1953), p. 248. 3 Zibaldone di pensieri, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi, ed. F. Flora (Milano, 1961), I,

    103, 223, 261, 977-978. Tutte le citazioni da quest'opera sono indicate nel testo da Z seguito dal numero del volume e della pagina.

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    4 Le lettere, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi, ed. F. Flora (Milano, 1963), pp. 233, 235, 255.

    5 Ibid., pp. 203, 207, 233, 255, 260, 282, 312-313. 6 Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi:

    Le poesie e le prose, ed. F. Flora (Milano, 1959), II, 569. 7 Gli ammirati antichi erano alieni da "quel se reposer sur sa douleur, quel piacere ... per la

    stessa sventura e per la considerazione di essere sventurato" (Z, I, 115). 8 Operette morali, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi: Le poesie e le prose, ed. F. Flora

    (Milano, 1958), I, 983-985. 9 Le lettere, p. 545. '1 Sulla responsabilita dell'individuo anziche della natura nella determinazione del destino

    umano v. A. Bonadeo, "Leopardi's Concept of Nature," The Two Hesperias. Literary Studies in Honor of Joseph G. Fucilla, ed. A. Bugliani (Madrid, 1977), pp. 69-78.

    " Nel "Dialogo di Plotino e di Porfirio" (1827) Leopardi ripetera che "la natura primitiva ... non da piu legge alla vita nostra." Operette morali, p. 1011.

    12 "L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo privo della bellezza del corpo, e

    verso la natura appresso a poco quello ch'e verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore" (Z, I, 507).

    13 "Detti memorabili di Filippo Ottonieri," Operette morali, p. 946. Soltanto due anni innanzi,

    tuttavia, Leopardi scopriva che Teofrasto essendosi dedicato allo studio del "vero" anziche del "bello" fini con lo scoprire la "vanitA della vita." Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte, in Leopardi, Canti, ed. N. Gallo, C. Garboli (Torino, 1972), pp. 384-385.

    14 Le lettere, p. 527. 15 A proposito di A Silvia il poeta scrive alla sorella d'aver fatto "dei versi ... veramente

    all'antica, e con quel mio cuore d'una volta," cioe con il cuore lontano, ma atterrito dal vero. Le lettere, p. 836.

    16 "Dialogo di Tristano e di un amico," Operette morali, pp. 1019-1021. 17 La "perfectibilite ... cette faculte distinctive, et presque illimitee, est la source de tous les

    malheurs de l'homme; ... que c'est elle, qui faisant eclore avec les siecles ses lumieres et ses er- reurs, ses vices et ses vertus, le rend A la longue le tiran de lui-meme, et de la Nature." J. J. Rousseau, Discours sur l'origine et lesfondemens de l'inegalite parmi les hommes, in Oeuvres completes, ed. Gagnelin e Raymond (Paris, 1964). III, 142. Sulla perfettibilita in Rousseau v. J. Passmore, The Perfectibility of Man (London, 1970), p. 179. L'autore anglo-sassone ignora, a torto, le idee di Leopardi sulla perfettibilita.

    18 Cfr. Z, II, 663: "Io domando se e possibile, se e ragionevole, il credere che la natura abbia destinato ad una specie di esseri (e massime alla piu perfetta) una perfezione e felicita, per ottener la quale le convenisse assolutamente passare per uno e piu stati onninamente contrari alla natura sua ed alla natura universale, e quindi per uno o piu stati di somma infelicita, di somma imperfe- zione si rispetto a se medesima e si a tutto il resto della natura."

    19 Nelle Operette morali, p. 985, Eleandro notera ironicamente che "questi pochi anni che sono corsi dal principio del mondo al presente, non potevano bastare" all'acquisto della perfe- zione. E nei Paralipomeni della batracomiomachia, Le poesie e le prose, I, 226, ribadira scet- ticamente:

    Ne manco sembra che possibil sia che lo stato dell'uom vero e perfetto sia posto in capo di si lunga via.

    20 Cfr. Z, II, 307: "E dunque dimostrato e fuori di controversia che il perfezionamento dell'uomo include, non accidentalmente . . il corrispondente e sempre proporzionato deterioramento e ... imperfezionamento ... del corpo." Sul corpo e lo spirito v. A. Bonadeo, "II corpo e il vigore nello Zibaldone di Leopardi," Italianistica, V (1976), 55-56.

    21 II corsivo e di Leopardi. 22 Operette morali, pp. 811-825.

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    23 "La scommessa di Prometeo," Operette morali, pp. 861, 865-866. Sull'assurdita del sommo

    bene cfr. Z, II, 1056 (1826): "II sommo bene ... non si trova, e un'immaginazione ... l'uomo sa e sapra ben sempre che cosa desiderare, ma non mai che cosa cercare, cioe ... che cosa possa sod- disfare il suo desiderio, dargli il piacer perfetto, cioe che cosa sia il suo sommo bene."

    24 I1 poeta aveva gia rimproverato agli italiani la loro delicatezza e incapacita di sostenere la "durezza delle cose reali," e quindi la loro mancanza d'illusioni: Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, p. 585. Sul rapporto tra avversita, sofferenza e vitalita interiore in Leopardi v. Bonadeo, "Leopardi's Concept of Nature," pp. 86-87.

    25 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Bdse, in Friedrich Nietzsche Gesammelte Werke (Monaco, 1925), XV, 171-172, 245. Sui rapporti tra il pensiero di Nietzsche e quello di Leopardi, v. ora S. Solmi, Studi e nuovi studi leopardiani (Napoli-Milano, 1975), pp. 159-160 e nota 1, p. 160.

    Article Contentsp.28p.29p.30p.31p.32p.33p.34p.35p.36p.37p.38p.39p.40p.41p.42

    Issue Table of ContentsItalica, Vol. 58, No. 1, '700-'800 (Spring, 1981), pp. 1-80Front Matter [pp.1-2]Melchiorre Cesarotti, Vico, and the Sublime [pp.3-15]La tomba nel Foscolo come immagine ossessiva e mito personale [pp.16-27]Leopardi e il vero [pp.28-42]Characterization through Understatement: A Study of Manzoni's Don Rodrigo [pp.43-55]Reviewsuntitled [pp.56-57]untitled [pp.57-59]untitled [p.59]untitled [pp.60-61]untitled [pp.61-64]untitled [pp.64-66]untitled [pp.66-67]untitled [pp.67-68]

    In Memoriam: Vincent Luciani (1906-1980) [pp.69-73]Annual Meeting of the American Association of Teachers of Italian (1980) [pp.74-77]Editor's Report [pp.78-79]Items [p.80]Back Matter