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Le imprese familiari: le strade per la crescita di Riccardo Faini (Università di Roma Tor Vergata)

Le imprese familiari: le strade per la crescita · Piccole imprese e imprese familiari Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,

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Page 1: Le imprese familiari: le strade per la crescita · Piccole imprese e imprese familiari Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,

Le imprese familiari:

le strade per la crescita

di

Riccardo Faini

(Università di Roma Tor Vergata)

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Introduzione

Gli economisti sono spesso inclini a formulare previsioni sulle tendenze di fondo – le

prospettive di crescita nel medio e lungo periodo, le dinamiche strutturali - dei sistemi

economici.

Nel 1932, due economisti americani – A. Berle and G. Means – sostennero che l’impresa

familiare, in cui proprietà e controllo sono fortemente identificati, fosse destinata a

scomparire, a vantaggio dell’impresa ad azionariato diffuso, in cui proprietà e controllo

fanno capo a soggetti fondamentalmente diversi. Analogamente, più o meno negli stessi

anni, un altro grande economista, Joseph Schumpeter, formulava una previsione, per

molti aspetti affine, secondo cui il processo di sviluppo capitalistico avrebbe portato a

ridimensionare fortemente il ruolo della piccola impresa a beneficio delle grandi

concentrazioni industriali. Analoga profezia può essere rinvenuta negli scritti di Karl Marx,

quasi un secolo prima.

Entrambe queste previsioni sono state largamente smentite dalla storia, non solo quella

italiana. Sia le imprese familiari sia quelle di piccole dimensione continuano a svolgere un

ruolo di tutto rilievo nella struttura industriale dei paesi avanzati. Come si analizzerà in

queste note, il loro contributo alla crescita industriale e economica si è, per molti aspetti,

accentuato.

I recenti mutamenti del quadro economico – il processo di integrazione internazionale, la

rivoluzione tecnologica – pongono però una sfida epocale alle imprese a struttura familiare

e di dimensione più contenuta. Si schiudono nuove opportunità che, se non sfruttate,

potrebbero portare a un significativo ridimensionamento del ruolo di queste imprese. Un

utilizzo compiuto delle opportunità offerte dal processo di globalizzazione e dalle

innovazioni tecnologiche richiede sia interventi di contesto sia un rinnovato impegno

imprenditoriale.

Le difficoltà in cui versa l’economia italiana hanno natura strutturale. Esse si manifestano

nell’arretramento di reddito rispetto agli altri paesi europei, nella perdita di quote di

mercato sulle esportazioni mondiali e, soprattutto, nella crescita anemica della produttività.

Una struttura settoriale sempre più sbilanciata verso i settori tradizionali e una

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composizione dimensionale che privilegia eccessivamente la scala più ridotta di impresa

hanno per molti versi impedito alla nostra economia di sfruttare compiutamente le

opportunità tecnologiche e di mercato.

Il trasferimento di risorse verso i settori più dinamici e tecnologicamente più avanzati, il

posizionamento verso produzioni ad alto valore aggiunto e più alto contenuto innovativo, e

l’internazionalizzazione del sistema industriale sono tutti componenti essenziali di una

strategia di rilancio della competitività dell’economia italiana. Il loro conseguimento è in

larga misura funzione della disponibilità di una forza lavoro istruita e in grado di rispondere

prontamente ai mutamenti delle condizioni tecnologiche e di mercato. Un’offerta più ampia

di capitale umano richiede a sua volta un impegno del settore pubblico, volto a rafforzare il

sistema scolastico e in particolare quello universitario, e del sistema delle imprese, teso ad

accentuare gli investimenti in formazione. L’Italia è un paese che ha finora investito troppo

poco nella sua risorsa più preziosa, il proprio capitale umano.

Piccole imprese e imprese familiari

Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,

si osserva come negli anni 90 le micro imprese, quelle con meno di 10 addetti,

rappresentano il 92,6% del numero di imprese nell’Unione europea e quasi il 15%

dell’occupazione manifatturiera. L’Italia si colloca al di sopra della media europea sia per

quanto riguarda l’incidenza percentuale delle micro imprese (95,4%) sia soprattutto per il

loro peso (23,9%) nell’occupazione.

I dati della tabella 1 forniscono solo una fotografia, in un dato istante, della struttura

dimensionale del settore manifatturiero. E’ interessante però osservare come il fenomeno

si è evoluto nel tempo (tab. 2). Utilizzando i dati dei censimenti, si rileva come, negli ultimi

50 anni, il peso della piccola impresa nel settore manifatturiero abbia registrato fasi

alterne, con una diminuzione marcata tra il 1951 e il 1971 e un aumento quasi continuo nei

30 anni successivi. La previsione di Schumpeter su un ridimensionamento della piccola

impresa non si è quindi avverata, anche perché a beneficiare della contrazione del peso

della classe delle micro imprese è stata soprattutto la classe immediatamente superiore,

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quella delle imprese con 10-99 addetti. Analogamente, risulta smentita anche l’altra

previsione secondo cui il peso della grande impresa era destinato a crescere. Sempre

dalla tab. 2, si osserva come la percentuale di addetti nella grande impresa, con più di 500

addetti, abbia subito un continuo ridimensionamento lungo tutto l’arco del periodo

considerato.

Le ragioni per il rinnovato ruolo delle piccole e medie imprese sono state più volte

analizzate nella letteratura. L’inizio degli anni 70 segna la fine di un periodo di grande

prosperità economica, in cui prevalgono stabilità macroeconomica, un’offerta abbondante

e a prezzi contenuti sia del lavoro sia delle materie prime e una relativa costanza dei gusti

dei consumatori. Il nuovo contesto economico è invece caratterizzato da un aumento del

costo del lavoro e di quello delle materie prime, da una diffusa conflittualità sociale, da una

forte rigidità nell’uso della forza lavoro e da una accresciuta incertezza sulle condizioni di

domanda. In queste condizioni diventa quindi essenziale per il sistema produttivo non solo

contenere l’aumento dei costi variabili ma anche recuperare margini di flessibilità e

abbattere i costi fissi di produzione, per potere meglio fare fronte alla maggiore volatilità

del contesto macroeconomico e di domanda. Queste esigenze tendono a favorire il

decentramento produttivo a favore della media e piccola impresa. Questa tendenza è

ulteriormente rafforzata dall’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto che, al contrario

del sistema precedentemente in vigore, non favorisce le imprese verticalmente integrate.

Nello stesso periodo, anche le grandi imprese tendono sempre di più a focalizzarsi sulle

attività nelle quali hanno un vantaggio competitivo più pronunciato (“core activities”) e a

ridimensionare quindi la scala delle proprie attività. Contrariamente a quanto previsto da

Schumpeter, il peso della grande impresa nella struttura industriale tende quindi a

contrarsi.

Anche la previsione di Berle e Means sulla tendenziale scomparsa dell’impresa familiare

non trova riscontro nei dati. Le cifre anche in questo caso parlano con sufficiente

chiarezza, nonostante le difficoltà insite nel definire in maniera univoca e comparabile

l’impresa familiare e l’inevitabile cautela necessaria per leggere questi dati (tab. 3). In tutti i

paesi considerati le imprese familiari costituiscono la componente predominante della

struttura industriale. In Italia, in particolare, in un campione di imprese con più di 50

addetti, che esclude quindi le realtà più piccole, più dell’80 per cento delle imprese sono

considerate familiari. Analoghe percentuali si riscontrano negli altri paesi. Sorprende forse

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il dato degli Stati Uniti, in cui quasi il 90% delle imprese è di natura familiare, ma in questa

cifra sono incluse anche le imprese individuali, escluse invece dalle statistiche negli altri

paesi.

Per quali motivi Berle e Means si arrischiavano a prevedere la scomparsa dell’impresa

familiare? Le ragioni in realtà erano piuttosto semplici. In particolare, soprattutto negli anni

20, erano evidenti i vantaggi dell’impresa ad azionariato diffuso in cui gli azionisti-

proprietari delegano il controllo a uno o più manager specializzati. In primo luogo, le

possibilità di crescita dell’impresa non sono limitate dalle disponibilità finanziarie del

proprietario, come succederebbe invece nel caso di un’impresa familiare. In secondo

luogo, il rischio specifico d’impresa è distribuito su una pluralità di azionisti invece che su

un singolo proprietario. Analogamente, la presenza di un mercato azionario

sufficientemente ampio permette un’ampia diversificazione del rischio da parte degli

investitori. Infine, con la separazione fra proprietà e controllo, è possibile affidare la

gestione dell’impresa a un manager altamente specializzato. A fronte di questi benefici, vi

sono però diversi svantaggi. In un contesto in cui in cui non è possibile prevedere tutti i

possibili stati di natura e i contratti fra le diverse parti che operano nell’impresa (inclusi

quindi gli azionisti e i manager) sono per forza di cose incompleti, non vi è alcuna garanzia

che il manager agisca sempre ed esclusivamente nell’interesse degli azionisti. Il manager

può essere invece indotto a costruire imperi industriali e finanziari con le risorse

dell’impresa (mentre per gli azionisti sarebbe stato preferibile ricevere un congruo

dividendo), attribuirsi compensi e liquidazioni eccessivi, introdurre clausole che rendono

più difficili l’avvicendamento al vertice della società e quindi i take over e persino stornare

le risorse dell’impresa in operazioni con parti a lui correlate. I tentativi a livello legislativo e

contrattuale di risolvere il problema di agenzia fra azionisti e manager (legando la

remunerazione del manager alla redditività dell’impresa, la contendibilità del controllo

attraverso le scalate di borsa, i vincoli sulla struttura del passivo dell’impresa) non hanno

mai dato esiti pienamente positivi. In un’impresa familiare invece, anche in presenza di

incompletezza dei contratti, i diritti residuali di controllo, quelli cioè non specificati

dall’insieme dei contratti in essere, saranno attribuiti al proprietario che agirà nell’interesse

suo proprio e dell’impresa.

In estrema sintesi, entrambe le forme di governance societaria hanno i loro pregi e i loro

difetti e non è possibile quindi sostenere che una sia superiore all’altro, né da un punto di

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vista teorico, né da un punto di vista empirico. A conferma di questa tesi è possibile anche

citare l’esperienza dei recenti scandali societari, che hanno avuto caratteristiche spesso

comuni (incompletezza e infedeltà della contabilità, disclosure insufficiente di eventi

materiali, uso esteso di entità estere non consolidate per alterare il P&L della società,

inaffidabilità dei controlli interni e della revisione, manipolazioni dei risultati in vista di

insider dealing), ma si sono prodotti in paesi con regimi legali molto diversi e che hanno

riguardato imprese sia familiari sia a azionariato diffuso.

L’economia italiana di fronte alla globalizzazione

L’Italia forse più di ogni altro paese dimostra come la presenza diffusa di piccole imprese a

carattere familiare non rappresenti necessariamente un ostacolo alla crescita. Abbiamo

visto come, anche in paragone ad altri paesi, l’Italia si caratterizzi per una struttura del

sistema di imprese fortemente sbilanciata verso la piccola dimensione. Non sembra che

questo fatto abbia nociuto alla performance economica del nostro paese. Tra il 1950 e il

1974 il reddito pro capite dell’Italia aumenta infatti dal 35% al 67% del reddito statunitense

e dal 75% al 95% di quello europeo. Anche negli anni successivi prosegue il processo di

crescita e convergenza dell’economia italiana rispetto agli altri paesi industrializzati (fig. 1).

Si accresce la quota di mercato delle esportazioni italiane, pur se fortemente sbilanciate

verso i settori tradizionali, nel commercio mondiale (fig. 2). La produttività aumenta a ritmi

elevati. La flessibilità del sistema delle imprese, la capacità in particolare di sfruttare

economie di scala e di agglomerazione attraverso lo strumento dei distretti, sono alcuni tra

i fattori più evidenti dei successi dell’economia italiana in quegli anni. Il neo più evidente in

questo quadro è dato dal rapido deterioramento delle condizioni della finanza pubblica che

non a caso sfocerà nella gravissima crisi finanziaria e valutaria all’inizio del decennio

successivo. Rimangono peraltro del tutto trascurati alcuni nodi strutturali della nostra

economia, in particolare l’insufficiente accumulazione di capitale umano, evidente nel

grave ritardo dei livelli di istruzione, e il prevalere di un modello di specializzazione che

privilegia i settori tradizionali, a bassa intensità di manodopera qualificata, l’insufficiente

sviluppo dimensionale delle imprese e l’inadeguatezza degli investimenti in ricerca e

sviluppo.

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Negli anni novanta l’economia mondiale registra due mutamenti di fondo: a) il processo di

globalizzazione, in particolare la partecipazione sempre più massiccia dei paesi in via di

sviluppo ai processi di integrazione economica a livello internazionale; b) una terza

rivoluzione industriale con il diffondersi delle nuove tecnologie nel settore dell’informatica e

delle comunicazioni.

Sono mutamenti radicali per il sistema delle imprese, indipendentemente dalla loro

dimensione o dalla forma di conduzione societaria. Sono cambiamenti che mettono in luce

le carenze e, più in generale, i nodi strutturali mai risolti dell’economia italiana. Non è un

caso infatti che proprio a partire dalla metà degli anni novanta non solo si interrompe ma

persino si inverte il processo di convergenza dell’economia italiana rispetto al resto

dell’Europa (fig. 3). I sintomi dei problemi dell’economia italiana sono evidenti

nell’andamento del reddito relativo, delle quote di mercato (fig. 4) e della produttività (fig.

5).

Quali sono le cause di questa preoccupante inversione di tendenza? Molti fattori

ripetutamente citati nella letteratura – un aggiustamento fiscale squilibrato, l’introduzione

dell’Euro e l’impossibilità di ricorrere a svalutazioni competitive, l’insufficienza di

investimenti in capitale fisico, il segno troppo restrittivo delle politiche macroeconomiche –

sono state analizzati in altre sedi dove si è dimostrato che non valgono a spiegare le

difficoltà dell’economia italiana negli anni novanta. Basterà ricordare come le ripetute

svalutazioni negli anni settanta e ottanta erano appena sufficienti a correggere il

differenziale di inflazione e che il tasso di cambio reale, corretto cioè per gli effetti

dell’inflazione, risulti fortemente deprezzato negli anni novanta rispetto al periodo

precedente. Analogamente, per quello che riguarda le politiche macroeconomiche, va

sottolineato come i tassi di interesse reali si collochino su livelli molto bassi e che l’avanzo

primario corretto per il ciclo sia diminuito in Europa e in Italia, a dimostrazione

dell’orientamento espansivo della politica fiscale.

I nodi dell’economia italiana sono strutturali. Alcuni problemi sono comuni ad altri paesi

europei – la scarsa flessibilità sui mercati del lavoro, l’insufficiente concorrenzialità dei

mercati dei prodotti (soprattutto quello dei servizi) – e non valgono quindi a spiegare il

divario di crescita fra Italia e Europa. Altri fattori, già segnalati, sono invece specifici al

caso italiano: una specializzazione eccessivamente sbilanciata verso i settori tradizionali

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sempre meno dinamici, come vedremo, a livello mondiale e sempre più esposti alla

concorrenza internazionale dei paesi in via di sviluppo; l’insufficienza del grado di

internazionalizzazione del sistema produttivo; una struttura dimensionale delle imprese

fortemente sbilanciata verso le piccole dimensioni; l’inadeguatezza degli investimenti in

ricerca e sviluppo e nelle nuove tecnologie, anche a parità di settore e dimensioni, come

sottolineato in una ricerca del Centro Studi della Confindustria.

Vi è un denominatore comune a tutte queste debolezze del nostro sistema: la carenza di

capitale umano. L’Italia è un paese che ha investito poco nella sua ricchezza più

importante, la qualità della forza lavoro. Il divario è preoccupante. L’Italia è in forte ritardo

rispetto agli paesi industrializzati per quello che riguarda l’istruzione universitaria. Non

solo: il divario si è andato spesso allargando (fig. 6). Analogamente, anche per l’istruzione

media superiore (tab. 4), l’Italia registra un forte ritardo non solo per quello che riguarda la

popolazione in età lavorativa (col. 1) ma anche – ed è un dato assai preoccupante – la

fascia più giovane (col. 2), ad indicazione che il divario non verrà colmato perlomeno per

un’altra generazione. Non consola neppure la qualità dell’istruzione. I dati dei test

internazionali mettono in luce come le capacità di lettura e le attitudini scientifiche e

matematiche di uno studente quindicenne italiano siano generalmente inferiori, e

sicuramente non superiori, a quelle dei suoi coetanei in altri paesi industrializzati. Colpisce

poi a questo proposito la fortissima varianza dei risultati degli studenti italiani, a

dimostrazione delle difficoltà di mantenere standard omogenei anche nell’ambito della

scuola dell’obbligo fino a 14 anni. Sulla qualità dell’insegnamento universitario è inutile

soffermarsi.

Il capitale umano è però un fattore decisivo di competizione, il cui ruolo diventa ancora più

rilevante in un contesto, come quello degli anni novanta, caratterizzato da forti innovazioni

tecnologiche e da un processo di rapida integrazione economica a livello internazionale.

Una dotazione elevata di capitale umano:

• consentirebbe di modificare il nostro modello di sviluppo verso settori meno esposti

alla concorrenza dei paesi a basso salario. La specializzazione dell’Italia nei settori

tradizionali a bassa intensità di manodopera qualificata riflette in larga misura la

scarsità di offerta di capitale umano nel nostro paese. Il modello di specializzazione

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dell’Italia si è poi andato rafforzando negli ultimi 20 anni. In controtendenza rispetto

agli paesi europei, è cresciuta infatti la correlazione fra gli indicatori settoriali di

specializzazione e l’intensità, misurata sempre a livello settoriale, dell’utilizzo di

manodopera meno qualificata. Negli anni ottanta, questa evoluzione non costituiva

un fattore di debolezza, in quanto proprio i settori in cui l’Italia fruiva di un vantaggio

comparato si espandevano rapidamente. Negli anni novanta, invece, l’Italia si trova

sempre più specializzata nei settori in cui più debole è la dinamica delle

esportazioni mondiali (fig. 7).

• favorisce la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese. La domanda di

capitale umano cresce al crescere delle dimensioni d’impresa (tab. 5). Si facilita in

questa maniera il processo di internazionalizzazione delle imprese, accrescendo sia

la presenza sia soprattutto la stabilità sui mercati esteri. Solo l’1% delle micro

imprese è attiva sui mercati di esportazione contro il 64% delle imprese con più di

500 addetti. Le imprese esportatrici stabili, con una presenza continuativa sui

mercati esteri per almeno otto anni consecutivi, sono caratterizzate da una

dimensione maggiore (37,2 addetti) rispetto sia all’universo delle imprese

esportatrici (27,4 addetti) sia al complesso del sistema industriale (9,1 addetti).

L’effetto del capitale umano sul processo di internazionalizzazione delle imprese

non passa solo attraverso la maggiore dimensione ma è anche più diretto. La

domanda di capitale umano è non a caso più elevata per le imprese esportatrici

anche a parità di dimensione (tabella 6), con la sola eccezione delle imprese medio

grandi.

• permette di assorbire più agevolmente le nuove tecnologie. Le analisi più recenti

della Banca d’Italia mettono in luce come la disponibilità di una manodopera più

istruita sia un fattore chiave nel processo di adozione delle nuove tecnologie

informatiche. Agli effetti diretti vanno aggiunti quelli indiretti in quanto un maggior

livello di istruzione della forza lavoro è associato a una più elevata dimensione

d’impresa che a sua volta, come evidenziato ancora una volta dalle ricerche della

Banca d’Italia, costituisce un ulteriore fattore che facilita l’adozione di nuove

tecnologie.

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In larga misura la carenza di capitale umano è il denominatore comune dei nodi strutturali

che soffocano la crescita della nostra economia, nodi il cui effetto è venuto alla luce

soprattutto negli anni novanta. Proprio l’insufficienza di un’offerta adeguata di capitale

umano spiega le ragioni per cui l’economia italiana è riuscita meno di altre a sfruttare le

opportunità della rivoluzione informatica e della globalizzazione. La struttura della nostra

economia ha reso infatti più difficile l’aggiustamento a tali shocks:

– Si è erosa la posizione di rendita di cui l’Italia aveva fruito grazie al suo forte

vantaggio comparato nei settori tradizionali rispetto agli paesi industrializzati

– L’offerta relativamente scarsa di manodopera qualificata e le piccole dimensioni

delle nostre imprese hanno reso molto più arduo lo sfruttamento delle

opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione dei mercati

In estrema sintesi, quindi, l’investimento in capitale umano e formazione costituisce una

priorità centrale per il rilancio della competitività dell’economia italiana. Un’azione

esclusivamente sull’offerta, diretta a convogliare maggiori risorse verso il sistema

scolastico e quello universitario, non sarebbe però sufficiente. Per tre motivi. In primo

luogo, la scarsità dell’offerta di capitale umano in Italia è manifesta sia nei livelli di

istruzione sia nella qualità dell’educazione ricevuta, soprattutto a livello universitario. Un

semplice aumento, generalizzato e incondizionato, delle risorse verso il sistema

universitario non farebbe altro che perpetuarne le gravi inefficienze. In secondo luogo,

l’economia italiana è per molti versi caratterizzata anche da un’insufficiente domanda di

capitale umano, che riflette a sua volta la struttura dimensionale e settoriale del nostro

modello di specializzazione. Non a caso, il rendimento dell’istruzione è più basso in Italia

rispetto ad altri paesi (poco più del 6% secondo l’OCSE a fronte del 14,3% in Francia e del

18,5% nel Regno Unito) e l’Italia meno di altri paesi riesce ad attrarre immigrati altamente

qualificati (solo il 12% degli immigrati è laureato contro il 22% nella UE e il 44% negli

USA). E’ indispensabile quindi un’azione che da un lato privilegi una maggiore qualità e

efficienza del sistema d‘istruzione e che contemporaneamente agisca anche sulla

domanda di capitale umano. Si richiedono in questo quadro politiche orizzontali, dirette a

promuovere attività che rafforzano la competitività del sistema industriale nel suo

complesso, più che favorire singoli settori, quali agevolazioni agli investimenti in R&S

(soprattutto sotto forma di crediti di imposta), incentivi alla formazione, promozione

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dell’internazionalizzazione e alimentano di riflesso la domanda per una forza lavoro

sempre più istruita e aggiornata.

E il sistema delle imprese?

E’ soprattutto il settore manifatturiero a risentire, e ad essere espressione, delle difficoltà

dell’economia italiana. Il calo della produttività del lavoro risulta molto più accentuato,

malgrado l’aumento significativo dell’intensità di capitale per addetto. A livello aggregato,

utilizzando i dati del nostro Istituto di statistica, gli indicatori di redditività registrano una

forte erosione, che non trova però sempre riscontro nelle informazioni per le imprese di

maggiore dimensione censite da altre fonti. E’ difficile non concludere che le imprese di

minore dimensione siano colpite dalla situazione di ristagno dell’economia in misura

relativamente più pronunciata. Non è al contempo possibile escludere che l’aggravarsi più

recente delle condizioni economiche abbia effetti che colpiscono anche le imprese di

dimensioni più elevate, specie se operano in settori esposti alla concorrenza dei paesi a

più basso salario.

Le difficoltà delle imprese più piccole hanno natura strutturale. In primo luogo, il divario di

produttività rispetto alla media del sistema risulta, in un confronto internazionale, assai più

accentuato per le imprese italiane di più piccola dimensione. Nel nostro paese, infatti, le

micro imprese rappresentano quasi il 24% degli occupati ma solo il 10% della produzione

(tabella 7). La loro produttività relativa rispetto al sistema delle imprese nel suo complesso

è pari quindi solo a poco più del 40%. Lo stesso dato si colloca al 48% per l’Unione

Europea nel suo complesso. La situazione si rovescia per le piccole (79% il livello di

produttività relativo in Italia e 67% nella UE) e soprattutto per le medie imprese (120% in

Italia a fronte del 94% nella UE).

Anche la dinamica strutturale non sembra favorire l’Italia. Le imprese italiane stentano

infatti a crescere. Solo il 12% delle imprese più piccole, con meno di 6 addetti nel 1987,

aveva superato la soglia dei 10 addetti nel 2001. Poco più del 7% delle imprese tra i 6 e i 9

addetti erano cresciute sull’arco del periodo fino a raggiungere la soglia dei 20 addetti. La

situazione non migliora se ci concentriamo sulle nuove imprese, quelle appena nate.

Come rivela una ricerca dell’Ocse, il problema non scaturisce dal fatto che queste

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imprese nascano troppo piccole. E’ vero il contrario. Le nuove imprese italiane hanno una

dimensione relativamente più elevata se confrontata con quella delle imprese già esistenti

(fig. 8). Successivamente alla nascita, queste stesse imprese crescono però a tassi

contenuti (meno del 30% in 7 anni), contrariamente a quanto accade per esempio negli

Stati Uniti, dove in 7 anni la nuova impresa registra un aumento della propria occupazione

pari al 140%. Si confrontano quindi due modelli. Nel caso europeo, le imprese entrano su

un mercato per molti versi conosciuto, con rischi forse minori, ma senza forti prospettive di

crescita e con una dimensione quindi non lontana da quella di lungo periodo. Nel caso

statunitense, le imprese invece nascono relativamente più piccole e, dopo un periodo di

sperimentazione sul mercato, registrano una crescita accelerata.

In sintesi, quindi, le imprese italiane sono non solo più piccole, ma tendono a crescere

meno rapidamente dopo la nascita. La mancata crescita della dimensione media

d’impresa pone problemi non irrilevanti al sistema industriale nel suo complesso, come

rilevato in precedenza. Le piccole imprese infatti, a fronte dei loro indubbi vantaggi in

termini di maggiore flessibilità, alimentano una minore domanda di capitale umano, hanno

una presenza minore e meno stabile sui mercati esteri e una capacità più ridotta, anche a

causa del minore impiego di manodopera più istruita, ad assorbire le nuove tecnologie.

Il problema della crescita è legato alla prevalenza della struttura familiare? Non sembra. I

dati sia della Banca d’Italia sia di Unioncamere mettono in luce come non esista una

relazione fra diffusione dell’impresa familiare e dimensione d’impresa. In primo luogo,

l’incidenza percentuale di imprese in cui la dimensione della prima quota azionaria è

inferiore al 50% (una caratteristica dell’impresa diffusa) diminuisce all’aumentare della

dimensione. In altri termini, è proprio nelle imprese più grandi che la proprietà risulta più

concentrata (tab. 8). Analogamente, il numero di soci diminuisce al crescere delle

dimensioni (tab. 8, col. 2). Il problema della crescita dimensionale non è quindi peculiare a

quello delle imprese familiari. Al contrario, sembrerebbe che proprio le imprese familiari,

con un azionariato più concentrato, siano sovra rappresentate nelle dimensioni più alte.

Questa conclusione va presa con cautela, in quanto si riferisce alle imprese con più di 50

addetti. E’ possibile, e peraltro plausibile, che le imprese più piccole con meno di 50

addetti siano caratterizzate da un controllo fortemente concentrato e da una piena

sovrapposizione fra proprietà e controllo. Se è vero quindi che il problema della crescita

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non è unico alle imprese familiari, perlomeno nelle categorie intermedie, rimane il fatto che

le imprese italiane più piccole, prevalentemente a carattere familiare, non riescono o non

vogliono crescere.

Le imprese familiari debbono anche prepararsi al processo di ricambio generazionale, un

elemento di potenziale debolezza di tale forma d’impresa, come spesso rilevato nella

letteratura sul tema. Nel campione di imprese censito dalla Banca d’Italia, più dell’80% dei

soggetti controllanti un’impresa a conduzione familiare ha un’età superiore a 50 anni e il

53% ha più di 60 anni. Nei prossimi anni, quindi, il processo di ricambio generazionale al

vertice delle imprese familiari sarà assai pronunciato. Dallo stesso campione si apprende

però che l’impresa familiare si sta ben preparando a tale processo. Nei casi in cui tale

ricambio si è già compiuto con il passaggio della conduzione a un membro della famiglia,

e quindi con la preservazione del carattere familiare dell’impresa, il nuovo imprenditore si

caratterizza per un livello di istruzione mediamente assai elevato: il 44% risulta laureato e

un altro 16% ha seguito corsi di formazione avanzata. Per contro, nei casi in cui il controllo

dell’impresa è stato ceduto a un individuo esterno alla famiglia, il nuovo imprenditore

possiede livelli di istruzione non dissimili da quelli, piuttosto bassi, della popolazione nel

suo complesso: solo il 10% risulta infatti laureato e una percentuale irrisoria ha seguito

corsi di formazione avanzati.

Le priorità di politica economica

Un aumento dell’offerta e della domanda di capitale umano costituisce una componente

centrale di una strategia di rilancio della competitività del sistema economico italiano. Non

è però la sola priorità.

a) La riforma del sistema finanziario. Sono stati fatti progressi significativi in tale

campo. E’ aumentata in particolare la protezione degli investitori, fattore che in una

parte della letteratura viene indicato come ostacolo di fondo alla quotazione e alla

crescita dimensionale delle imprese. Non vi sono indicazioni però che, nonostante

l’accresciuta protezione dell’investitore, sia aumentata la propensione delle imprese

a quotarsi, a dimostrazione che fattori di domanda più che di offerta condizionano lo

sviluppo del mercato borsistico in Italia. Allo stesso tempo, il sistema finanziario

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italiano appare carente in quelle attività più rilevanti per la crescita e la mobilità

intersettoriale delle imprese (investment banking, aiuto all’internazionalizzazione,

corporate financing). Ad essere penalizzate dovrebbero essere soprattutto le

imprese innovative per le quali gli intangible assets costituiscono una parte

relativamente più cospicua del patrimonio e le garanzie reali prestabili sono di

riflesso minori. Troppo spesso poi, nonostante lodevoli eccezioni e lo sforzo di

alcuni istituti di credito, le banche ricorrono a pratiche di multiaffidamento, in cui il

rischio di impresa viene sì distribuito fra una pluralità di creditori ma

contestualmente la banca viene meno alla propria funzione di raccolta di

informazioni sull’impresa debitrice e quindi di sostegno al processo di crescita delle

migliori di tali imprese. Mancano poi, per carenza sia di domanda sia di offerta,

strumenti come il venture capital e il private equity che facilitino gli investimenti in

imprese ad alto rischio e ad alto rendimento. La creazione, come si è fatto negli

Stati Uniti, di un fondo di fondi di venture capital, di proprietà pubblica ma gestito

con criteri privati e l’eliminazione di alcuni dei vincoli all’operato dei fondi esistenti

potrebbe costituire un primo utile passo per rafforzare uno strumento destinato a

svolgere un ruolo di tutto rilievo in un processo di più accentuato mutamento

strutturale. Gli studi empirici evidenziano come i vincoli finanziari non siano rilevanti

per la crescita ulteriore delle imprese di media dimensione, con più di 50 addetti,

ma abbiano un effetto significativo sulla crescita del sistema delle imprese nel suo

complesso, a conferma che l’anomalia italiana risiede soprattutto nella incapacità

delle nuove piccole imprese di crescere verso dimensioni efficienti.

b) La riforma del settore dei servizi (energia, servizi professionali, commercio) le cui

inefficienze pesano sulla competitività dell’industria italiana. Uno studio della

Fondazione De Benedetti mette in luce come i servizi pesino, direttamente e

indirettamente (attraverso i legami intersettoriali), per il 38% di un’unità di valore

aggiunto del settore manifatturiero. Non si tratta solo di servizi finanziari. Anche

quelli professionali, energetici e di distribuzione incidono significativamente sulla

struttura di costo delle imprese industriali italiane. Basti ricordare come il costo di

distribuzione, soprattutto di nuovi prodotti, aumenta significativamente a causa della

frammentazione del nostro sistema distributivo, un sistema che per di più crea

meno occupazione rispetto a paesi con regolamentazioni più liberali. Come

documentato nelle analisi dell’Ocse, le inefficienze nell’offerta dei servizi alle

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14

imprese si ripercuotono anche sulla capacità dell’economia di attrarre investimenti

diretti dall’estero.

c) La riforma del mercato del lavoro. Gli studi disponibili non sembrano indicare che le

normative esistenti abbiano un effetto significativo sulla crescita dimensionale delle

imprese. In aggiunta, la flessibilità occupazionale, misurata dall’incidenza di

contratti atipici, non sembra associata a una maggiore propensione all’investimento

in nuove tecnologie. Più rilevante nell’agevolare tali investimenti è la presenza di

forme di flessibilità salariale, come i contratti integrativi aziendali. Una maggiore

flessibilità dei sistemi contrattuali, in cui il salario risponda maggiormente anche alle

condizioni del mercato locale del lavoro, permetterebbe inoltre un più rapido

assorbimento della disoccupazione soprattutto nel Mezzogiorno. Vanno però

considerati i costi legati alla possibile proliferazione dei livelli contrattuali.

d) La riforma del sistema degli incentivi. Il sistema esistente di incentivi troppo spesso

genera barriere alla crescita al di là di una certa soglia definita in via legislativa. E’

essenziale un sistema di incentivi che favorisca la crescita delle imprese (il decreto

sulla competitività ha fatto passi rilevanti in questa direzione) e soprattutto agevoli

l’internazionalizzazione (qui il decreto fa invece un passo indietro punendo la

delocalizzazione se giudicata non virtuosa).

e) La riduzione dell’onere fiscale che grava sulle imprese. Nel complesso, il peso del

fisco sulle imprese è più elevato di quello medio dei paesi industrializzati. Vanno

però considerati due fattori. In primo luogo, il divario di tassazione non è

particolarmente pronunciato. In secondo luogo, la situazione – sempre più

preoccupante - dei conti pubblici preclude una riduzione sostanziale del gettito

fiscale. Le conseguenze macroeconomiche – in particolare, l’incremento dei tassi di

interesse – di un ulteriore deterioramento dei saldi di bilancio si ripercuoterebbe

anche e soprattutto sul sistema delle imprese.

Conclusioni

La nostra economia sta attraversando un periodo difficile, caratterizzato da bassa crescita,

stagnazione dei redditi reali, peggioramento degli equilibri di finanza pubblica. La nota più

positiva in questo quadro è stata la crescita dell’occupazione e il calo della

disoccupazione. Se, come è purtroppo plausibile, nei prossimi mesi si dovesse registrare

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15

un cedimento anche sul fronte dell’occupazione ne scaturirebbe un ulteriore

deterioramento delle condizioni macroeconomiche.

I problemi dell’economia italiana hanno natura strutturale. Un modello di specializzazione,

basato sulla piccola impresa e sui settori tradizionali, che aveva peraltro fornito un

contributo decisivo nel passato alla crescita e alla convergenza dell’economia italiana

rispetto agli altri paesi industrializzati, oggi non sembra in grado di sfruttare al meglio le

opportunità offerte dalla nuove tecnologie e dal processo di globalizzazione e appare

sempre più esposto alla concorrenza dei paesi emergenti. L’arretramento dell’economia

italiana è evidente nella più bassa dinamica della produttività, nella perdita di quote di

mercato delle esportazioni e nell’allargamento del divario di reddito con gli altri paesi

industrializzati.

Il superamento di una struttura inadeguata dal punto di vista sia settoriale sia

dimensionale è essenziale per ricreare le condizioni per uno sviluppo sostenuto. Sono

indubbiamente carenti le condizioni di contesto – una pubblica amministrazione efficiente,

infrastrutture più moderne, una tassazione meno punitiva maggiore concorrenza nel

settore dei servizi alle imprese, un mercato del lavoro più flessibile – che potrebbero

favorire la crescita dimensionale delle imprese e la mobilità delle risorse verso nuovi

settori a più alto contenuto innovativo e meno esposti alla concorrenza dei paesi in via di

sviluppo. Mancano soprattutto due condizioni essenziali, che definiscono l’anomalia

dell’Italia rispetto agli altri paesi europei: un’offerta più elastica di capitale umano e un

settore finanziario in grado di accompagnare le imprese nel percorso, irto di difficoltà,

verso nuovi settori e nuove produzioni. Il sistema industriale appare in una posizione di

stallo. La domanda di capitale umano che emana da un sistema di piccole imprese

concentrate nei settori tradizionali è infatti limitata e non incentiva l’investimento in

istruzione e formazione che, non a caso, rimane assai più contenuto che nel resto

d’Europa. Analogamente, la domanda di risorse finanziarie per iniziative più innovative non

incontra vincoli significativi e non incoraggia lo sviluppo dell’offerta. E’ indispensabile, in

entrambi i casi, agire simultaneamente sul fronte dell’offerta e su quello della domanda. E’

un impegno che coinvolge non solo la responsabilità dell’esecutivo, ma anche quella degli

imprenditori.

Page 17: Le imprese familiari: le strade per la crescita · Piccole imprese e imprese familiari Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,

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Nel passato, sia il sistema economico sia quello politico hanno reagito con vigore a

momenti di crisi. Vi sono oggi due rischi. Da un lato il processo di declino, proprio per le

sue caratteristiche di intrinseca lentezza rispetto ad altri processi di cambiamento,

potrebbe non essere percepito nella sua gravità da imprenditori e policy-makers. Il rapido

deteriorarsi degli andamenti economici ha però tolto gli ultimi alibi a chi sosteneva che le

difficoltà dell’economia italiana avessero solo natura congiunturale.

Vi è però un altro rischio. I costi delle riforme, e più in generale del processo di

aggiustamento alle mutate condizioni economiche, sono spesso immediati, mentre i

benefici maturano solo nel medio periodo. Questi stessi costi possono essere distribuiti in

maniera molto diversa fra i diversi individui e soprattutto fra i diversi gruppi sociali. Vi è

quindi il rischio che proprio il timore (o la percezione) di un ulteriore peggioramento delle

proprie condizioni economiche o di un onere iniquamente distribuito dei costi

dell’aggiustamento accentui l’opposizione al cambiamento. Si perpetuerebbe quindi una

condizione di stallo, in cui la mancanza di riforme induce un ulteriore deterioramento delle

condizioni dell’economia e in cui il deterioramento alimenta l’opposizione al cambiamento.

E’ essenziale sottolineare quindi che il cambiamento, come è stato prospettato in queste

note, è soprattutto creazione di opportunità, nel mondo del lavoro, nelle professioni, nel

sistema delle imprese, nella possibilità di dotarsi di un livello di istruzione in linea con le

esigenze di un mondo sempre più integrato e sempre più mutevole.

Affinché le imprese e le famiglie possano e vogliano cogliere le opportunità offerte da

un’economia mondiale globalizzata e da un mutamento tecnologico a tratti tumultuoso

sono indispensabili due elementi. Un’azione organica di riforme, volta creare una forza

lavoro più istruita, un settore finanziario ancora più attento alle esigenze delle imprese

soprattutto di quelle innovative, a riformare il diritto fallimentare e il sistema di incentivi,

può agevolare la crescita dimensionale delle imprese e il mutamento del modello di

specializzazione. Allo stesso tempo, si impone l’esigenza di ricreare un quadro

macroeconomico, normativo, regolamentare, fiscale con caratteristiche di stabilità e di

certezza che consenta a imprese e famiglie di pianificare e investire nel proprio futuro.

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Tabella 1

Distribuzione del numero delle imprese e di addetti per classi dimensionali (valori percentuali)

Classi di addetti

Micro (1-9)

Piccole (10-49)

Medie (50-249)

imprese Occupati imprese occupati imprese occupati Francia 93,1 14,2 5,7 18,7 1,0 19,8 Germania 87,9 9,5 10,4 14,9 1,3 15,8 Spagna 94,8 22,7 4,5 28,4 0,6 21,2 Italia 95,4 23,9 4,2 30,9 0,4 19 Regno Unito

94,5 13,4 4,6 14,3 0,7 20,4

UE-15 92,6 14,6 6,3 19,9 0,9 19,4 Fonte: Onida (2004)

Tabella 2

L’evoluzione dell’occupazione manifatturiera per classi dimensionali in Italia (valori percentuali)

Classi di addetti 1-9 10-99 100-499 500+ 1951 32,1 22,1 20,4 25,4 1961 30,0 26,9 21,6 21,5 1971 22,3 28,3 18,6 30,8 1981 23,9 34,9 18,3 22,9 1991 26,2 41,7 19,2 12,9 2001 25,7 44,2 20,2 9,9

Fonte: Onida (2004)

Tabella 3

La diffusione dell’impresa familiare Paese Definizione % imprese familiari USA Ampia 89 Regno Unito Intermedia 63,7 Germania Intermedia 60 Spagna Ristretta 75 Italia Ampia 81,9 Fonte: Giacomelli e Trento (2005)

Page 19: Le imprese familiari: le strade per la crescita · Piccole imprese e imprese familiari Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,

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Tabella 4

Il divario di istruzione superiore (percentuale della popolazione con un diploma di scuola media superiore)

Diploma di scuola media superiore per classi di età (valori percentuali)

Classe di età: 25-64 25-34 35-44 55-64

Italia 43 57 49 22

OCSE 64 74 68 49

Differenza 21 17 19 27

Fonte: OCSE

Tabella 5

Capitale umano e dimensioni d’impresa

(anni medi d’istruzione degli addetti) Classi di addetti Capitale umano 50-99 10.1 100-249 10.4 250-499 10.5 > 500 11.0 Fonte: INVIND, Fabiani, Schivardi e Trento (2003)

Page 20: Le imprese familiari: le strade per la crescita · Piccole imprese e imprese familiari Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,

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Tabella 6

Capitale umano per classe di addetti e propensione all’esportazione

(percentuale di addetti con titolo di laurea)

Classi di addetti Imprese esportatrici Imprese non esportatrici 10-20 4,5 2,9 21-50 5,1 3,8 51-250 6,6 5,7 251-499 8,0 8,5

500 e oltre 9,1 4,2 totale 6,3 4,2

Fonte: Mediocredito (2005)

Tabella 7

Produttività relativa per classi di addetti

micro (1-9 addetti)

quota occupazione quota fatturato produttività relativa Italia 23.90 10.00 41.84UE-15 14.60 6.90 47.26

piccole (10-49 addetti)

quota occupazione quota fatturato produttività relativa Italia 30.90 24.30 78.64UE-15 19.90 13.30 66.83

medie (50-249 addetti)

quota occupazione quota fatturato produttività relativa Italia 19.00 22.70 119.47UE-15 19.40 18.30 94.33

Fonte: Onida (2004)

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20

Tabella 8

Imprese familiari e dimensioni d’impresa (valori percentuali)

Classe dimensionale Imprese in cui la prima

quota è inferiore al 50% Imprese in cui il numero di

soci è superiore a 4 50-199 33,4 45,5 200-499 22,9 34,1 500-999 18,2 21,5 1000 e oltre 13,3 17,9 Totale 31,2 -- Fonte: Giacomelli e Trento (2005)

Page 22: Le imprese familiari: le strade per la crescita · Piccole imprese e imprese familiari Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,

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Figura 1

Crescita e convergenza: 1974-1990

88

90

92

94

96

98

100

102

1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990-4.0

-3.0

-2.0

-1.0

0.0

1.0

2.0

3.0

4.0

5.0

6.0

7.0

Italia/UE (scala di sinistra) PIL pro capite (scala di destra)

Fig. 2La quota dell'Italia sulle esportazioni mondiali

3

3.5

4

4.5

5

5.5

1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990

Page 23: Le imprese familiari: le strade per la crescita · Piccole imprese e imprese familiari Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,

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Figura 3

Dalla convergenza alla divergenza? (rapporto fra i redditi pro capite in parità di potere d'acquisto)

62

64

66

68

70

72

1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 200496

97

98

99

100

101

102

103

104

Italia/UE (scala di destra)

Italia/USA (scala di sinistra)

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Figura 4

La perdita di peso delle esportazioni italiane

3

3.5

4

4.5

5

5.5

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

Figura 5

La dinamica della produttività (tassi di crescita, filtro di Hodrik Prescott)

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

1960

1962

1964

1966

1968

1970

1972

1974

1976

1978

1980

1982

1984

1986

1988

1990

1992

1994

1996

1998

2000

2002

Italia

Francia

Germania

Regno Unito

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Figura 6

Il divario di istruzione dell'italia(anni medi di istruzione per la popolazione adulta)

-2

-1

0

1

2

3

4

5

6

7

1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 1999

Stati Uniti

Germania

Francia

Spagna

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Figura 7

Correlazione fra la struttura settoriale dei vantaggi comparati e la dinamica del commercio mondiale

-0.5

-0.4

-0.3

-0.2

-0.1

0

0.1

0.2

0.3

0.4

0.5

1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998

Germania

FranciaSpagna

Regno Unito

Italia

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Figura 8

La dimensione relativa delle nuove imprese

(% rispetto alle imprese esistenti, totale economia, manifatturiero, altri settori)

Fonte: Ocse