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LA RONDA Scavalcavano all’angolo del canneto. Saltavano nell’erba. Le braccia del ragazzo si allungavano a tastare i fichi. Il gatto balzava da un tronco all’altro. Dritto. Sbilenco. Capovolto. Artigliando le cortecce. Lei. Lei veniva avanti. L’andatura sinuosa. Dondolante. I capelli sciolti sulle spalle. Il ragazzo la seguiva. Lanciava in aria qualcosa. Poi in bocca. Masticava. Lei nuda a bordo vasca. L’alone delle luci sott’acqua a illuminare la pelle. Si spogliava anche lui e si tuffava con un piccolo salto. L’eleganza di un pesce. Lei si voltava. Ruotava piano piano sulle gambe lunghe. Si accarezzava i fianchi. I suoi occhi puntavano lì, alla finestra. Rimaneva così, immobile. Soltanto le mani levigavano le cosce. Il ventre. Il seno. Poi il ragazzo la chiamava in un sussurro. Lei sorrideva. Sorrideva lì, alla finestra. Scuoteva la testa, un massaggio circolare delle mani sulle natiche. E si tuffava. La naturalezza di un animale nel suo elemento. Dietro i vetri, l’uomo scrutava l’acqua. Le piccole onde intorno al suo corpo. La vedeva nuotare fin laggiù, dove il ragazzo l’attendeva. Si immergevano allacciati. Riaffioravano baciandosi. Lei si aggrappava alla scaletta e lui si spingeva tra le sue cosce. Divenivano figura unica nel buio. Lo sciabordio lieve si propagava con l’eco del loro piacere. L’uomo tremava, incapace di distogliere lo sguardo. Poi nuotavano. I visi in alto a contare le stelle. I capezzoli di lei a fior d’acqua, mentre lui cercava la sua mano. La teneva così, senza distogliere lo sguardo dal cielo nero. Dalle cime degli alberi ondeggianti nella brezza. Lei sorrideva. L’uomo sapeva che quel sorriso era per lui. Per i suoi occhi insaziabili. Per la voglia che aveva di lei. E se ne andavano. Usciva prima il ragazzo. I muscoli di un animale giovane. L’occhiata assatanata con cui la invitava ad uscire. La risata assassina con cui accoglieva gli spruzzi che lei gli lanciava. Un uomo giovane. Energia allo stato puro. Un pagliaccio, che si portava incise sulla pelle due parole, da una parte all’altra dell’inguine. Persino l’uomo riusciva a leggerle. Cuando quieres. Pagliaccio. Facile parlare, quando sei giovane. Facile ottenere. Senza chiedere. Senza elemosinare. Poi lei si issava lenta. L’acqua gocciolava dal suo corpo. Strizzava i capelli. Guardava su, verso la finestra. Sorrideva. Protendeva il seno in un’offerta. Allargava le gambe. Le dita a frugare la propria carne, lì in mezzo. I denti candidi tra le labbra schiuse. Indolente raggiungeva il ragazzo. Le canne flettevano. Due sagome scivolavano nella notte. E l’uomo restava solo. Di nuovo solo. UNO Per dire la sfiga. Mio cognato Adelaide. Già il nome. Si può avere una nonna talmente fissata con una nipote femmina, da imporre un nome da femmina al nipote maschio? - Si può, certo che si può. - dice lui. Infatti ce l’ha e se lo tiene. - Cambialo. - gli suggerisce ogni tanto qualcuno. - Troppo casino.

LA RONDA - writingshome.com · - Poteva starci secca. - hanno detto al pronto soccorso. - Delinquente! - urlava ma’. - Sarà colpa mia. - Disgraziato! L’abbiamo portata via di

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LA RONDA

Scavalcavano all’angolo del canneto. Saltavano nell’erba. Le braccia del ragazzo si allungavano a

tastare i fichi. Il gatto balzava da un tronco all’altro. Dritto. Sbilenco. Capovolto. Artigliando le

cortecce.

Lei.

Lei veniva avanti. L’andatura sinuosa. Dondolante. I capelli sciolti sulle spalle.

Il ragazzo la seguiva. Lanciava in aria qualcosa. Poi in bocca. Masticava.

Lei nuda a bordo vasca. L’alone delle luci sott’acqua a illuminare la pelle.

Si spogliava anche lui e si tuffava con un piccolo salto. L’eleganza di un pesce.

Lei si voltava. Ruotava piano piano sulle gambe lunghe. Si accarezzava i fianchi. I suoi occhi

puntavano lì, alla finestra. Rimaneva così, immobile. Soltanto le mani levigavano le cosce. Il ventre.

Il seno.

Poi il ragazzo la chiamava in un sussurro. Lei sorrideva. Sorrideva lì, alla finestra. Scuoteva la testa,

un massaggio circolare delle mani sulle natiche. E si tuffava. La naturalezza di un animale nel suo

elemento.

Dietro i vetri, l’uomo scrutava l’acqua. Le piccole onde intorno al suo corpo. La vedeva nuotare fin

laggiù, dove il ragazzo l’attendeva. Si immergevano allacciati. Riaffioravano baciandosi. Lei si

aggrappava alla scaletta e lui si spingeva tra le sue cosce. Divenivano figura unica nel buio. Lo

sciabordio lieve si propagava con l’eco del loro piacere.

L’uomo tremava, incapace di distogliere lo sguardo.

Poi nuotavano. I visi in alto a contare le stelle. I capezzoli di lei a fior d’acqua, mentre lui cercava la

sua mano. La teneva così, senza distogliere lo sguardo dal cielo nero. Dalle cime degli alberi

ondeggianti nella brezza. Lei sorrideva. L’uomo sapeva che quel sorriso era per lui. Per i suoi occhi

insaziabili. Per la voglia che aveva di lei.

E se ne andavano. Usciva prima il ragazzo. I muscoli di un animale giovane. L’occhiata assatanata

con cui la invitava ad uscire. La risata assassina con cui accoglieva gli spruzzi che lei gli lanciava.

Un uomo giovane. Energia allo stato puro. Un pagliaccio, che si portava incise sulla pelle due

parole, da una parte all’altra dell’inguine. Persino l’uomo riusciva a leggerle.

Cuando quieres.

Pagliaccio. Facile parlare, quando sei giovane. Facile ottenere. Senza chiedere. Senza elemosinare.

Poi lei si issava lenta. L’acqua gocciolava dal suo corpo. Strizzava i capelli. Guardava su, verso la

finestra. Sorrideva. Protendeva il seno in un’offerta. Allargava le gambe. Le dita a frugare la propria

carne, lì in mezzo. I denti candidi tra le labbra schiuse. Indolente raggiungeva il ragazzo. Le canne

flettevano. Due sagome scivolavano nella notte.

E l’uomo restava solo. Di nuovo solo.

UNO

Per dire la sfiga. Mio cognato Adelaide. Già il nome. Si può avere una nonna talmente fissata con

una nipote femmina, da imporre un nome da femmina al nipote maschio?

- Si può, certo che si può. - dice lui.

Infatti ce l’ha e se lo tiene.

- Cambialo. - gli suggerisce ogni tanto qualcuno.

- Troppo casino.

E se lo tiene. Però si tiene anche la sfiga. Per dire, con mia sorella. Non che Concetta sia una

sciagurata, ma è una donna. Per cui.

- Vacci piano. - gli raccomando sempre.

- È una parola. Tua sorella se le tira dietro.

Insomma, quel giorno va mica a centrare uno spigolo in cantina?

- Ma quale spigolo. Un chiodo. Per appenderci roba. – ha precisato lui.

- Ma piuttosto appendi a ‘sta minchia. - mi sono incavolato.

- Io t’appendo alla forca. - gli ha gridato ma’.

- Sarà colpa mia. - ha mugugnato lui nel corridoio dell’ospedale.

Sì, perché gliele stava suonando di santa ragione, a Concetta. E lei va a sbattere contro il chiodo.

Con la tempia.

- Poteva starci secca. - hanno detto al pronto soccorso.

- Delinquente! - urlava ma’.

- Sarà colpa mia.

- Disgraziato!

L’abbiamo portata via di peso.

- Fortuna che c’era uno straccio attaccato. - ha ragionato pa’.

- La ghigliottina, per quell’assassino!

Glielo ripeto da un po’. Quando la spupazzi, sempre in territorio conosciuto. Io, ad esempio. La

Licia mica si azzarda a fare la furba. Io non rischio. In cantina, poi, mai. Intanto non c’è la luce

giusta. Poi ci penzolano i salami che ci portano i suoi dal paese. E che lei può usare tipo arma

impropria. E, come non bastasse, in terra s’inzeppano le cassette della frutta, che ci puoi inciampare.

In definitiva, io gliele meno in cucina. O in salotto. O in camera da letto, dove preferisco. So come

farla rimbalzare, dove incantonarla eccetera. Inoltre, se non sono troppo incazzato, dopo ci scappa

pure qualcosa. Altrimenti se le prende e basta.

Comunque, la sfiga. L’occhio, a Concetta, è diventato storto dalla botta. Guarda in fuori.

- Tanto non si vede. - le ha sussurrato Coriolano, che le fa il filo.

Lei gli ha sorriso.

- Io lo ammazzo. - ha stabilito l’Adelaide.

- Sarà meglio che stai calmino. E sarai geloso di uno di settant’anni?

- Ce l’ha anche lui come gli altri.”

L’Adelaide è irragionevole, a volte.

Cercavano di non scavalcare mai allo stesso punto, ma il canneto li riparava meglio. Una barriera

naturale. Però anche il cespuglio del sempreverde funzionava a meraviglia. Solo che dentro c’erano

le bisce e a lei facevano senso. Le altre zone erano un po’ più a rischio, ma era proprio quello che li

eccitava. Cautela. Precauzione. Ridevano delle loro parole.

- Certo, ogni attenzione. E poi si va di sfrodo.

- È una scelta di vita.

- Certo.

- Se una cosa ti piace di notte, perché essere obbligato a farla di giorno?

- Giusto.

- In orari stabiliti, poi.

- Giusto. - sorrideva lei.

Giosua sentiva la voce bassa. Quel tono.

- Giusto? - chiedeva con il respiro affannato.

Lei apriva le braccia. Lo allacciava. Si premeva contro il suo cazzo duro.

- Sono in trappola. - sospirava baciandola.

- Una trappola speciale.

- Speciale, sì.

Ridevano. Lei chiudeva gli occhi. Premeva le mani contro le sue natiche. Se lo spingeva dentro. Lo

sentiva scivolare e salire in lei e poi scendere e risalire. Allora sbirciava tra le ciglia.

Era là. L’ombra. L’ombra che li spiava ogni notte dalla finestra. Senza rumore. Senza un gesto. Era

un uomo, ne era sicura. Gli piaceva guardare. E a lei piaceva essere guardata. Godeva di più.

Mugolava nel buio. Le rispondeva il fruscio degli alberi. E l’oscillare dell’erba alta la mandava in

estasi. Le pareva che la terra ondeggiasse sotto il guizzare convulso dei suoi muscoli.

Dopo nuotavano. Giosua si tuffava per primo. Lei indugiava un attimo. Raccoglieva i capelli in alto

sulla testa, tenendoli così con le mani. Le gambe larghe. Il seno proteso. Scoccava occhiate ai vetri

scuri, dove c’era lui. Ne indovinava la sagoma. Immobile. Allora sorrideva, liberava i capelli dalle

dita. Le solleticavano le spalle. Si voltava, fissando la piscina azzurra, trasparente negli aloni delle

luci incastonate tra le piastrelle. Si tuffava. L’acqua la accoglieva, fresca. Le gambe a rana,

pagaiando con le braccia, emergendo a respirare. Rideva.

- Che ti ridi, scema? - chiedeva Giosua.

- Ti rendi conto di quanto è bello vivere così?

- Sì. Sì, mi rendo conto.

Nuotavano fino alla scaletta. Lei si appoggiava con la schiena, allargando le gambe. Giosua la

penetrava, sospirando sul suo collo. Lei si inarcava, pensando all’ombra. Che di sicuro era ancora là

alla finestra.

DUE

Si esce per sfizio e per noia. E per disperazione. Almeno l’Adelaide e Concetta abitano in un

alloggio da soli. Nello stesso condominio, ma un piano più su. Io e la Licia stiamo con i miei. Per

forza. Ottime persone, per carità, ma sempre rompicoglioni sono.

“Un uomo deve garantire un minimo di comodità alla sua donna.”mi rinfaccia ogni tanto, proprio

quando le vuole secche.

Così gliene faccio subito una giacca – parola di mio padre – e per quel giorno se ne sta muta.

- Prima o poi, tu finisci in galera. - mi rimbrotta ma’.

- Assì? E come mai?

- Non si picchia una donna.

- Tua madre ha ragione. – interviene mio padre – Non si picchia a ‘sto modo.

- Assì? E come si picchia?

- Marè, si mena più piano. Ma hai visto che lividi?

- Pa’, se lei sta ferma e tacita, io non continuo.

- Questo è vero. - ammette lui.

Mia madre, invece, non demorde.

- Un uomo non mena una donna. Mai.

- Mai?

- Mai. - dice con le mani sui fianchi.

- Ma’, ti posso fare una domanda?

- No.

E le conviene. Le voglio sempre chiedere se non le ha mai prese dal marito. Manco mi regala la

soddisfazione della domanda.

- Che vorrà dire, eh? - strizzo l’occhio a pa’.

- Tu pensa a non andare in gattabuia, che io non ci sono mai stato. Mai.

Lei lo guarda di sguincio. Poi va a controllare la Licia, che si chiude in camera o in cesso a fare la

scena.

- Quale, scena, depravato? Le hai messo su dei bolli che manco una raccomandata. – s’incazza ma’.

- Difatti le raccomando sempre di non fiatare.

Ha solo da stare zitta, no?

Appunto si esce, comunque. Per non dover dare spiegazioni sull’operato e per toglierci di torno le

donne. Le nostre.

- Almeno tu hai solo Conce. Io pure mia madre. E mio padre che commenta. – dico.

- Tuo padre deve darti man forte.

- Macchè man forte. È già tanto se sta ancora in piedi.

- Eddài, mica è vecchio.

- Come Coriolano, no. - ridacchio.

- Ohè, Marè, hai lo spirito maligno, tu.

- Come sta mia sorella?

- Ancora viva.

- Allora sta bene.

Cominciamo a guardarci attorno. Belle fighe ce ne sono. Eccome.

- Tutte troppo magre. - si lagna l’Adelaide.

- Tieni buona mia sorella, allora.

Concetta non è grassa, ma prosperosa. Come piace agli uomini, in definitiva. Per dire, anche la

Licia ha le tette come si deve e un bel culo. In giro si vedono certe cionfeche da misericordia.

- Guarda quella. Uscita da un campo di concentramento, sembra. – dice mio cognato.

Poi ne adocchiamo qualcuna davvero da schianto e la seguiamo. Di solito va malaccio, perché ci

adocchiano subito loro, che siamo dei morti di fame.

- Sentono l’odore dei soldi che manco un cane da tartufi. - dice l’Adelaide.

- E poi scrivono alla posta del cuore, a parlare di sentimento.

- Baldracche nate, sono. Menarle, bisogna. E non ti sbagli mai.

Annuisco. Gran bel parlare, mio cognato.

Quella notte erano arrivati gli altri. Gli altri. Quelli che facevano casino, che non sapevano

comportarsi e meno che mai parlare a bassa voce.

- Scimmie urlatrici. - brontolava Giosua.

- Vuoi vedere che per colpa di ‘sti stronzi, ci pizzicano?

Anni, che entravano a sbafo e mai che li avessero presi.

- Sono dappertutto, ormai.

- Merda, anche qui.

- Ma qui è il nostro territorio. - si era alzato Giosua.

Gli era andato incontro, nudo.

Erano appena saltati giù dalla parte del campo da calcio. Le dita ancora impigliate nelle maglie

della recinzione.

- Non potete. - aveva detto.

Lo fissavano, gli occhi ridenti.

- Non possiamo cosa?

- Entrare qui.

- E perché?

- Perché apre di giorno, non sai leggere?

- E perché tu ci sei?

- Perché è mio territorio.

Erano quattro. Diciassette, forse diciotto anni. Fissavano il suo tatuaggio. Sorridendo.

- È grande, qui. Mica ti diamo fastidio. – aveva detto uno.

- Voi date fastidio dappertutto.

- Facciamo il bagno e ce ne andiamo, okay?

- No. Ve ne andate subito.

- Siamo tutti nuotatori, no?

- Non nello stesso mare.

- Il mare è immenso. Come il cielo. C’è posto per tutti. - aveva detto quello che sembrava più

grande.

Lei stava pensando che era solo più alto. Anche se da lì, dove stava distesa, non poteva distinguere

bene i volti.

- Voi state occupando troppo spazio. Come i topi. Siete ovunque. - aveva detto Giosua.

Lei guardava in su, verso la finestra. Parlavano troppo forte, o era un’impressione, soltanto perché

c’era quel silenzio. E tutto quello spazio intorno. La sagoma era là. Immobile.

Poi Giosua le era tornato vicino. Gli altri stavano sparendo nella notte. Oltre il recinto.

- Se ne vanno? - si era stupita.

- Gli ho detto che chiamavo la Polizia.

- E ci hanno creduto?

- Magari no, ma gli conviene crederci.

- Beh, non è che a noi farebbero complimenti.

- Noi rischiamo poco. Una multa? Manco quella. Sono loro che rischiano il culo.

- Marocchini di merda.

- Clandestini. Chiamali clandestini e se la fanno sotto.

- Magari non lo sono.

- Fa niente. Il fatto di esibire documenti, di farsi prendere i nomi. Già è un deterrente.

- La sai lunga, tu. - gli aveva bisbigliato all’orecchio, trascinandolo nell’erba.

- Sì, baby. - aveva risposto Giosua in un sussurro

Glielo aveva preso in bocca. Voleva sentire il suo sapore. Aveva il gusto di sale. Di erba fresca.

Questo pensava succhiandolo. Girando la lingua dall’alto in basso, a spirale, mentre Giosua gemeva

a occhi chiusi. Stringendole i capelli tra le mani. Dicendo qualcosa che lei non capiva. Parole senza

senso, forse, ma poco importava. Le importava sentirlo godere. Leccare lo schizzo tiepido. Sentirgli

dire ‘come te non lo fa nessuna.’

E credergli.

TRE

E quindi era una di quelle sere. Si ciabattava su e giù per Lungo Po Antonelli e il ponte della

Colletta. A un certo punto ci siamo ficcati nel parco a caccia di trans e mignotte varie, giusto per

rompere le scatole.

- Avete nient’altro da fare? - hanno gridato.

- Stiamo cercando l’anima gemella. - ha risposto il Domenico.

- Vieni, amoruccio, sono io.

- Mi sa di no, con ‘sta voce da baritono.

- E allora vaffanculo.

- Quello è lavoro tuo.

Poi sono spuntati i magnaccia.

- Raga, o vi togliete dai coglioni, o sono dolori.

- Via, che c’è da spaccarsi le ossa. - ha detto l’Adelaide.

- Più che altro il culo, mi sa. - ha ghignato il Vincenzo.

- E pure le corna. - ha aggiunto il Domenico.

- Le corna ce le avrai tu. - ho risposto.

- Ma, dico, si potrà scherzare?

- Certo che si può, ma ognuno sulle corna sue.

Così si stava. Questa era la serata. Ho pensato di rientrare e spassarmela con la Licia, quando.

- Eccoli là, i nostri bei rondoni. - ha detto il Domenico.

Avanzavano a passo lento e sicuro. Autorevoli. A due a due. I giubbotti catarifrangenti. Un basco

amaranto in testa. E, in prima fila, un cane lupo a trascinarli tutti affanculo.

- Che forti.

- Ci va tanto a vestirsi da imbecilli.

- Ma chi sono?

- Ma non li leggi i giornali?

- No, io guardo solo il Grande Fratello.

- Che minchiata.

- Mica tanto. C’è una con due angurie…

- È una ronda.

- No, è un gran pezzo di figa.

- Questa è una ronda, scemo.

- Sarebbe.

- Ma proprio dove vivi.

- Dove vivi tu.

- Girano a proteggere la città che dorme.

- Noi mica dormiamo.

- Noi non abbiamo bisogno di protezione.

- Giusto. Noi siamo noi.

Hanno cominciato a scazzottarsi e tirare calci. Il lupo ci ha puntati. Quello grosso che teneva il

guinzaglio, anche.

- Ehilà, ragazzi, tutto bene?

- Fatti i cazzi tuoi. - gli ha rimandato il Vincenzo.

Si sono avvicinati. Il cane tirava e ansimava. La lingua penzoloni.

- Eh, ragazzi, non rispondete così a una ronda. - ha detto il caporione.

Aveva la faccia severa.

- E perché?”ha domandato il Domenico.

- Perché possiamo insospettirci.

- E che succede, se vi insospettite?

- Molliamoli, sono dei tiratardi. - ha detto piano uno dei loro.

- Siamo chi cazzo ci pare e tiriamo ‘sta minchia dove ci pare.

- Statemi bene, ragazzi. – ha detto il capoccia attorcigliando il guinzaglio intorno alla mano.

- Stiamo come cazzo ci pare.

Se ne sono andati senza più guardarci. Solo il lupo, con la scusa di alzare la zampa contro il

lampione, ci ha ancora sgamati di storto.

- L’unico che capisce qualcosa. - ha detto l’Adelaide.

- Assì?

- Sì, mordervi nelle chiappe, doveva.

- A noi?

- Certo. Si risponde così a una ronda, eh?

Poi ci siamo presi a pedate in culo e via discorrendo. Ululando che manco un lupo vero.

Questi siamo noi. Il meglio della città.

Naima. Lei e i suoi profumi da dare di testa.

- Unguenti. Da spalmare e vedi i risultati.

Pelle liscia, assicurava, da sogno. L’ultimo era alla rosa qualcosa. Glielo stava spalmando sulla

schiena.

- Voltati.

Lei si era messa a pancia in su. Le mani scivolose di Naima lente sulla pelle.

- Chiudi gli occhi e sogna.

- Sogno cosa?

- Arts martiaux.

- E sarebbe un sogno? - aveva riso.

- Dobbiamo difenderci.

- Da che?

- Dagli uomini, mon amour.

- Hai ragione. Sono pericolosi, a volte.

- Sempre. Sempre.

- Mi fai venire i brividi.

Naima sorrideva. Sprofondava le dita tra le sue gambe.

- Che male c’è? Se non ci aiutiamo tra noi donne.

- È un aiuto?

- Dipende. Se preferisci da sola, non ti serve. Se hai un uomo che funziona, non ti serve. Dipende,

mon amour.

- Tanto vale provare.

Naima inzuppava le dita in mezzo alle sue cosce. Lei era bagnata e sospirava. Allora Naima

rallentava, scivolando con delicatezza le dita sottili.

- Fammi gridare. - aveva detto lei.

- Che bisogno c’è di gridare.

- Non gridi, tu?

- No, io no. In silenzio.

Lei aveva provato in silenzio. Trattenendo l’urlo in gola. Mordendosi le labbra. Stringendo le

palpebre fino a spremere lacrime. Un’implosione, mentre si contorceva sul tappetino. Puntando i

talloni e sollevando il ventre. E le era sfuggito un rantolo. Finale. Definitivo.

- Gente strana, siete. - l’aveva baciata sulle labbra Naima.

- Noi?

- Dovete sempre alzare la voce. Il silenzio è preghiera.

- Me ne frega un cazzo di pregare.

- Non dico a Dio. Preghiera è la vita.

- Non ci capiamo, Naima. Strana sei tu. E la tua gente.

Naima aveva riso. L’algerina. Lei no. Lei le osservava le mani. Lei voleva ancora quelle mani.

QUATTRO

- Però che idea.”ha continuato a ripetere l’Adelaide, finché mi ha fatto una testa così..

- Sai che idea.”

- Per quel che abbiamo da fare…”

Aveva rischiato di finire arrosto nell’acciaieria. E adesso era a casa. Con gli incubi e l’incazzatura.

Con lo stordimento e tutto il resto. E io. Io il lavoro ce l’avevo, ma Coriolano faceva il furbo. Anzi,

il bastardo, a dirla tutta.

- Marè, abbi pazienza, sono tempi di crisi.

Crisi un cazzo. Vecchio stronzo. Prendeva un romeno. Un ucraino. Un egiziano. In definitiva, li

pagava a giornata con la scusa della prova e poi li mandava a spasso. E chi si è visto si è visto.

- Che ti frega. Per il lavoro che è. – ha fatto spallucce mio cognato.

- Magari non è la massima aspirazione, ma è un lavoro.

All’Adelaide non è mai andato a genio pitturare le case. Dice che non regge la puzza della vernice,

ma non è vero. È che devi cercarti tu il lavoro. Si sentiva al sicuro, l’Adelaide. Già sognava la

pensione. Altro che pensione. Cotto al forno, a momenti si ritrova. Comunque, il vecchio Corio, da

quando ha compiuto settant’anni, spedisce sempre gli altri, in cima alla scala.

- Vai tu che sei giovane. Io ormai ho le vertigini.

Sì, le vertigini. Qui ha ragione la Licia. Avanza il tempo per curare le donne. Quelle di casa, quelle

che passano in strada. Addirittura quelle che gli telefonano. Ma che c’avrà, il vecchiaccio? Il

cellulare all’orecchio tipo seconda pelle.

- Come, che c’avrà? C’ha il grano, ecco che c’ha. – commenta mio padre.

- Vecchio porco. - dice la Licia.

- Non sono i porci che diventano vecchi. - rincara ma’.

Non gliene scappa una. Al Corio, dico. Sgalletta con tutte. Anche se bisogna ammettere che ha un

debole per Conce. Da quando mio cognato le ha storto l’occhio, Coriolano le fa trovare i dolcetti

fuori dalla porta.

- Chi è che te li manda? - chiede l’Adelaide.

- Un ammiratore. - mangia lei.

- C’è proprio del bello da ammirare.

E qui dovrebbe starsene zitto.

- Qualcuno mi rovina e qualcuno mi apprezza. - risponde Conce.

E dovrebbe starsene zitta pure lei. Ma le donne mica imparano.

- Io lo spedisco in galera. - dice mia madre.

- Tu ti fai i fatti tuoi. - ribatte mio padre.

- Dovrò vederla morta?

- Per adesso è bella viva.

In effetti. L’Adelaide ha un segno rosso sotto l’occhio destro.

- Ringrazia che tua sorella respira ancora. - mi ha detto.

- Adelaide, guarda che c’è la prigione, se ammazzi uno.

- Non se ammazzi una.

- Sicuro?

- Non del tutto.

- Non c’è giustizia. - dice Conce sbafando l’ultimo dolcino.

È un periodo che ogni due giorni ha un livido nuovo.

- E faglieli dove non si vede, no? - gli suggerisco.

- Lo fa apposta a farsi colpire dove vuole. Dove si vede, ‘sta stronza.

Non imparano e sono tremende.

Comunque. All’Adelaide è venuta la fissa di fare una ronda. Noi con gli amici.

- Te lo vedi il Domenico. - ho detto.

- Se per questo, te lo vedi il Vincenzo.

- Appunto, Adelaide, lasciamo perdere.

- Guarda che per l’autostima sarebbe grandioso.

- Auto che?

- Marè, se ti senti utile, ti senti importante.

- E l’utilità sarebbe?

- Ma vuoi mettere? A zonzo per la città a difendere chi dorme?

- Mi sa che patisci il caldo.

Inizio estate e da sciropparsi temperature record, come spaparanzano i giornali. Trenta gradi e passa,

che di notte scendono a ventotto.

- Marè, è la soluzione alla rottura di coglioni.

- La vogliamo dire la verità? Almeno tra noi. - ho detto a bassa voce.

- Carogna. - ha riso.

È che un bel culo lo guardi volentieri. E due li guardi ancora più volentieri. Le avevamo notate,

eccome, quella sera. Ma mica potevamo zomparle in mezzo a tutti gli altri, no? Erano in ultima fila

e una si era voltata a sorriderci, quando il caporione si era rimesso in marcia. E da allora, sia io che

l’Adelaide pensavamo a quelle belle chiappe.

- Tu quale preferisci?”mi ha chiesto.

- Mah…Se per te è lo stesso, sai che mi piacciono le bionde.

- E perché ti sei preso una mora?

- Boh.

Vallo a capire perché mi sono preso la Licia. Mica me lo ricordo più.

Non era tranquilla, quella notte.

- E calmati. Di cos’hai paura? - le diceva Giosua.

- Se sono in tanti. Noi siamo solo due.

- Due tosti spaventano tutti.

Non aveva risposto. Il sesto senso delle donne. Lo inquietava. Captano cose che gli uomini non

sentono.

- Mai cedere territorio. - le aveva detto.

Lei girava gli occhi intorno. L’asfalto che esalava calore.

- Che c’è. Hai visto qualcosa?

- No. Ma è come se ci fossero.

- Non c’è nessuno. Forza, baby.

Si era issato per primo. Saltando dall’altra parte, si era accorto che lei non era ancora salita sulla

cancellata. Restava in ascolto.

- Sentito qualcosa?

Aveva scosso la testa, cominciando ad arrampicarsi. In cima si era fermata.

- Giù di lì, cazzo. Sei troppo in vista.

Allora si era catapultata nel prato, atterrando sulla punta dei piedi.

- Se non ti va… - aveva detto lui.

- Ho detto che non mi va?

Non aveva più parlato. Le donne, valle a capire. Giosua palpava la frutta. Le prugne succose. I fichi

grassi. Il gatto gli soffiava. Lui e i suoi occhi gialli tra i rami del pero. Poi era balzato nell’erba.

Scatti nervosi come prendesse a testate qualcuno.

- Ha in bocca qualcosa.

Un topo. Si dimenava. Finché non si era più mosso.

E lei che guardava sempre in alto.

- La luna, baby?

- La luna.

- Niente luna, stasera.

- Pazienza.

Ma Giosua sapeva che guardava altro.

Poi lo avevano visto. Lei si era irrigidita. Giosua aveva inghiottito l’ultimo pezzo di frutta.

- Sono solo. - aveva detto avanzando verso di loro.

Lei gli era andata incontro.

- Cosa fai qui. - con aria di sfida.

- Cosa fai tu.

- Non ti permettere, marocchino di merda.

Era impazzita. Le donne. Che avesse le sue cose?

- Mi chiamo Kamal. Madre marocchina. Padre italiano. Nato in Italia. In Italia da sempre.

- Resti un marocchino.

- E tu un’italiana. Forse.

- Nessun forse. Italiana da generazioni.

- Lo diranno i figli dei miei figli.

- Per adesso, tu non puoi dirlo.

- Occupo così tanto posto?

- Occupate troppo spazio. Non voglio finire come gli indiani d’America.

Davvero impazzita. Il ciclo. Quando hanno il ciclo, togliti di sotto.

- E come sono finiti?

- Nelle riserve.

- A nessuno piace stare nelle riserve. E neanche nei centri di accoglienza.

- E chi vi chiama?

- Chi ci spinge fuori dalla nostra terra, vuoi dire.

- Non me ne frega un cazzo. Fuori dalla mia, terra.

Kamal si era guardato intorno. Lo sguardo che oltrepassava Giosua, come non lo vedesse. Come

non esistesse.

- È una piscina immensa.

- È nostra. Di notte. Tu puoi venirci di giorno.

- Insieme a tutti gli altri, vuoi dire.

- Vedi che capisci.

- Ma a me piace di notte.

- Di notte è nostra. Fuori.

Kamal le aveva sorriso.

- Sei bella.

- E tu sei un marocchino.

- Okay.

Si era spogliato. Gli abiti a terra. Pochi secondi ed era in acqua. Bracciate cadenzate, eleganti. In un

attimo era laggiù, al fondo della vasca. Cinquanta metri d’un fiato.

Giosua si era avvicinato a lei. La sentiva fremere. E digrignare i denti.

- Stronzo. Stronzo. – sibilava rabbiosa.

CINQUE

Quando l’Adelaide si mette in testa qualcosa. Tenace, l’uomo.

- Fosse tenace così col lavoro. - dice ma’ che non lo sopporta.

- Perchè è colpa sua. Tu non lo reggi. - lo difendo.

- Che c’è da reggere? Un peso morto. - aggiunge imperterrita.

Il brutto è che lo dice davanti a lui. E lo dice forte.

- Che c’avrà da ridire, ‘sto sfaticato? - aggiunge spietata.

L’Adelaide tace. Morde il freno e tace.

- Ha solo da andare a cantare in un’altra corte. - infierisce ma’.

E per fortuna lui tace.

- Mica posso picchiare la suocera. - ha sorriso un giorno.

- Suocera? Hai sposato mia figlia, tu? – l’ha rimbeccato lei.

E l’Adelaide è diventato smorto. Manco questo gli fa passare. Glien’è mai fregato niente, che non si

sposassero. Ma vanno mica a lasciarlo in cassa, dopo l’incendio. Da allora, mia madre non perde

occasione per rinfacciargli che è un mangiapane a tradimento e un concubino. Così: concubino.

- Lascia perdere. - le dico sottovoce.

- Molla. – le dice mio padre.

- Già, eh? Ti fa comodo un uomo in più in famiglia.

Bisogna dire che l’Adelaide è stato furbo, qui. Ha capito che pa’ è allergico ai lavori di casa. Di

qualunque tipo. E li fa lui. L’Adelaide. Per dire: la tinta ai muri, alle porte, l’impregnante alle

tapparelle. Insomma, i lavori che nessuno vuole fare. Io per primo. E poi ha il coraggio di affermare

che patisce gli odori delle vernici e compagnia bella.

- Lo vorrei, un figlio come l’Adelaide. - dice mio padre, per zittire ma’.

Comunque, a parte il fatto di volersi ingraziare pa’, l’Adelaide è tenace davvero. E quando si mette

in testa qualcosa. Adesso ce l’ha pure con il cane immagine.

- Hai visto, no?, che figura, con quel lupo.

- Adelaide, abbi pazienza. Almeno tra noi, siamo sinceri. Per recuperare gnocca, dobbiamo mettere

su un’impresa?

- Marè, essere autorevoli è tutta un’altra cosa.

- Senti bene. Sappiamo dove vanno, con chi vanno. Ci aggreghiamo anche noi ed è fatta.

- Nossignore. Vuoi mettere, se ci vedono con il nostro corteo?

- Quelli sono organizzati.

- E che ci va?

- Adelaide. E molla, no?

- Marè, spiegami che ci va.

- Punto primo: la divisa.

- La divisa. Ce la facciamo.

- Il giubbotto?

- Fatto. Un bel gilè.

- Dev’essere uguale per tutti.

- C’è.

- C’è?

- Uguale per tutti. La madre del Domenico fa la sarta, lo sai.

- Ma che c’entra. Cuce costumi per le ballerine.

- Appunto.

- Ci vestiamo da ballerine? Io voglio il tutù rosa.

- Marè, non fare lo stronzo.

- Faccio la checca, ti va?

- Ma ti pare che ti farei fare brutta figura? Gilè cuciti da lei. Come si deve. Tutti uguali che sono

una meraviglia.

- Aspetta un po’. Alle mie spalle. Tutto alle mie spalle.

- Una sorpresa e guarda tu come la prendi.

- Traditore d’un cognato. - gli ho mollato un pugno sul braccio.

- Coglione d’un cognatissimo. - me l’ha reso.

- Dài, racconta.

- Marè, te li faccio vedere stasera. Li porta il Domenico. Neri con una stella gialla.

- Ma siamo ebrei?

- Marè.

- Hai detto stella.

- Stella da sceriffo.

- Cazzo, che figo.

- Vedrai che roba. Quelli se la sognano, una stella così.

Ero elettrico.

- Minchia, Adelaide, ti offro da bere.

- Lo sapevo. - ha riso.

E c’era da saperlo sì. L’aveva capito, che non vedevo l’ora di conoscere la bionda.

- La divisa è a posto. - ha detto.

- Allora si può cominciare.

- Ci manca il cane.

- Possiamo farne a meno.

- Te l’ho spiegato, no?, che è importante.

- Non abbiamo soldi da spendere in un cane.

- Mica lo dobbiamo comprare.

- Manco al canile te lo danno gratis.

- Ma quale canile. - mi ha strizzato l’occhio.

- Embè?

- C’è il Fufi, no?

- Il cane di ma’? Tua suocera manco morta che te lo impresta.

- Mia suocera no, a me no di sicuro.

- Quindi.

- Ma tua madre sì. Sì che te lo impresta.

Mi ha lasciato a bocca aperta. È tenace, l’Adelaide.

Era già lì ad aspettarli.

- Entrate anche a fare la doccia?

Non gli avevano risposto. Quel tono ironico. Che stronzo. Si erano diretti sull’altro lato della vasca,

dov’erano accatastate le sdraio.

- Dobbiamo togliercelo dai piedi. - aveva detto Giosua.

- Non sai più dove stare. Sono peggio dei topi.

- Calma. Vedrai che lo convinco.

Lei si era denudata, mentre lo guardava andare verso Kamal. E aveva scrutato su, alla finestra.

L’ombra era là.

- Bel custode. - aveva riso tra sé.

Ma era il custode?

- Chissenefrega. - aveva alzato le spalle.

Intanto Kamal stava aggirando la piscina in modo da non incontrare Giosua.

- Bastardo. - aveva detto lei abbastanza forte perché sentisse.

- Ehi. - diceva Giosua.

Ma Kamal non si fermava. Camminava calmo nella sua direzione. Incontro a lei. A pochi passi, le

aveva sorriso.

- Buona sera.

- Vaffanculo. - gli aveva risposto.

Allora si era seduto sul bordo, le gambe penzoloni, i piedi nell’acqua. Senza guardare il suo corpo.

Sono nuda e non mi guarda.

- Ci facciamo una nuotata? - le aveva proposto.

- Tu non fai proprio niente.

Questo lo aveva detto Giosua, arrivandogli accanto.

- Una gara. Dài, io e te. Cinquanta metri in velocità. - gli aveva proposto Kamal.

- Sta’ a sentire…

- Perché no?

- Perché te ne devi andare. - aveva detto lei.

- Vuoi gareggiare tu con me?

A occhi bassi, per non guardarmi.

- No.

- Giusto. Potrei farti vincere.

- Vedi? Lo abbiamo tollerato e adesso alza la cresta. - si era incazzata.

Kamal aveva riso forte. Echeggiava nella notte, quella risata. Allegra. Lei aveva alzato gli occhi. La

sagoma era sempre là. Dietro i vetri.

- Ci stai? - gli aveva di nuovo chiesto.

E Giosua stavolta aveva detto di sì.

Si erano messi sull’attenti. Un po’ piegati sulle ginocchia, le braccia indietro.

- Via. - aveva detto Giosua.

Si erano tuffati insieme, forando la superficie senza quasi smuoverla. Nuotavano bene tutti e due.

Bracciate distese, la schiuma dei piedi in sincronia. Lei tifava per Giosua, stringendo le mani a

pugno. Doveva sconfiggerlo, quel marocchino. Ma perché aveva accettato la sfida. Una cosa

stupida. Se vinceva, Kamal si montava la testa. Avrebbe raccontato a tutti di avere battuto uno di

loro. Merda. Erano pari. Le teste allo stesso livello. Mancavano alcuni metri. Una spanna, da dove

vedeva lei. E all’improvviso, tutto fermo. Eppure non erano arrivati al fondo. Cazzo stavano

combinando quei due? Svelta, in punta di piedi, aveva raggiunto la scaletta. Poteva sentirli.

Parlottavano. Si erano accorti di lei. L’avevano guardata un attimo, uscendo dall’acqua e sedendosi

sul bordo. Lontani da lei. La rabbia che aveva provato. Solidarietà maschile. Merda. Qualunque

cosa fosse, merda. Era tornata sui suoi passi. Rivestendosi. Lanciava occhiate verso la sagoma buia.

Poi si era diretta alla cancellata e aveva iniziato a scalarla.

- Cazzo vai?

Giosua le era dietro. Gocciolante. Kamal si teneva a distanza, fissandola.

- Visto che sono di troppo, tolgo il disturbo. Io.

Aveva scavalcato e se n’era andata di corsa. Giosua le gridava dietro qualcosa, ma non si era

fermata.

SEI

- Ma siete scemi. Figuriamoci se vi do il Fufi.

- Ma perché?

- Ha sedici anni, un occhio con la cataratta, zoppica e ha l’asma. Ti basta?

Diventa aggressiva, quando si tratta del Fufi.

- Il mio terzo figlio. - sospira ogni tanto sgamandomi.

Fortuna che ho il Fufi, vuole dire. Niente soddisfazioni, da me. Da lui, invece. Sai un cane.

- Un cane, sì. Gli manca la parola. - si adombra.

- Essì, ma’, c’avesse la parola, saremmo ricchi. - sghignazzo.

- Quanto sei fesso, figlio mio.

E comunque non ce lo voleva dare.

- Voglio che venga di vent’anni.

- Sì, di trenta. - si è lasciato sfuggire mio cognato.

- Quello di Jessica è arrivato a venti.

- Ma li ha contati solo lei.

- Vuoi dire che Jessica conta storie?

- Per carità. Solo balle. - ha risposto lui, rischiando di compromettere tutto.

- Lasciatelo morire in pace a casa sua.

- Ma perché deve morire di noia, quando può vivere da capofila?

- Capoché?

- Capofila. Hai visto la foto sul giornale? – ci ha dato dentro l’Adelaide.

- No.

- Sì che l’hai vista. Hai detto ‘che bel lupone’.

- E non mi ricordo.

Non vuole mai dargliela vinta.

- E dàgli ‘sta soddisfazione.

- Sarebbe?

- Vivere da eroe.

- Farsi ammazzare, vuoi dire.

- Vogliamo dire, ma’. Lo portiamo a spasso, mica in guerra. E poi, non ti piacerebbe una foto del

Fufi sul giornale? – mi sono intromesso.

- Ma perché, gli fanno la foto?

- L’hai vista, no?, quella del lupo.

- Vabbè, ma quello è un cagnone.

- Vuoi che non facciano una foto al Fufi, appena sanno quanti anni ha?

Ha tentennato. Ha esitato ancora un secondo.

- Però, povera bestiola…

- Ma’, guarda che a noi conviene che lui stia benone.

- Per fare bella figura noi, no? - ha rimarcato l’Adelaide.

- Sai quanto schiatterà la Jessica. Ce l’ha, lei, una foto del suo cane sul giornale?

E qui mi sono sentito un genio. Bastardo, ma pur sempre un genio.

C’è poco da fare. Nessuno resiste all’idea di una foto. Sul giornale, dico. Già ti vedi a sventolarlo

sotto il naso di tutti quelli che conosci. E anche di quelli che non conosci.

E l’abbiamo spuntata. Ci ha mollato il Fufi.

- Tai Do e non si avvicina più nessuno.

In posizione, flessuosa.

- Ma serve davvero?

- Che dubbi hai?

- Mah. Se uno ha un coltello o una pistola.

- Lo disarmi. Garantito.

- Se si avvicina troppo.

- Lo disarmi. Non se lo aspetta. Sono mosse veloci, lo prendi contropiede.

La osservava affascinata. Scatti e volteggi. Sembrava una farfalla impazzita.

- Ti senti in pericolo? - le aveva chiesto.

- Siamo tutte in pericolo.

- Tutte. Gli uomini no?

- La donna. La donna di più.

- Meno muscoli.

- Più violenza, contro le donne. E quasi mai sono soli. Il branco è terribile.

Aveva intenzione di chiederglielo da tempo. Ci pensava e rimuginava. Era una domanda personale.

- Ti è già successo qualcosa di brutto? - alla fine si era decisa.

Naima l’aveva scrutata, fermandosi in una torsione del busto.

- Sono nata donna. - aveva risposto.

Poi aveva riso forte.

- Non mi va di parlarne.

- Scusa.

- Di cosa?

- La domanda…

Aveva fatto spallucce. Ma in quel momento le era sembrata fragile. Come una farfalla.

Aveva continuato per alcuni minuti a saltare e contorcersi. Poi si era seduta vicina.

- E solidali. La solidarietà tra loro sconfigge ogni cosa. Anche la giustizia. Possono farti credere

qualunque cosa. Fare qualunque cosa. E sfangarla. Alla grande.

C’era amarezza nella voce. Il tono profondo. Cupo.

- Non ti puoi fidare, di loro. Les hommes. Trovano il modo di fare quello che vogliono. Alle spalle

o addirittura sotto il naso. Tanto sono d’accordo. Sempre.

Aveva sospirato, accarezzandole una guancia.

- Contro le donne. Sempre. Disposti a giurare il falso, pur di salvarsi.

Il suo alito caldo sul collo.

- Vieni qua. – aveva bisbigliato.

SETTE

- Ce n’hai un’altra?

La Licia a volte mi stupisce. Non si preoccupa, se io e l’Adelaide usciamo a nidi – nidi di uccelli,

dice mia madre.

- L’essenziale è che tornino. - si dicono lei e Conce.

Se però una mi intriga, allora è all’erta. Manco avesse un radar.

- Licia, ma come fai a chiedere ‘ste cose?

- Se non le chiedo a te.

- Sarebbe.

- Mica posso chiederle all’Adelaide.

Giusto.

- Ma ti pare che con tutti i pensieri che ho, vado dietro alle sottane?

- Che pensieri hai, tu?

- Ma senti che stronza. Coriolano mi lascia a casa un giorno sì e uno anche, e io non ho pensieri.

- Comunque non ho parlato di sottane, Marè. Ti ho chiesto se ne hai una.

- Cos’è ‘sto tono, stamattina?

- ’Sta storia che portate a spasso il Fufi.

- E che c’entra averne una?

- Quando mai ti è fregato qualcosa degli altri.

- Si vede che invecchiando divento sensibile.

- Diventi più infingardo, poco ma sicuro.

- E tu hai voglia di prenderle, poco ma sicuro.

- Però non mi rispondi.

- Però hai proprio voglia di botte.

- Vengo anch’io.

- Dove?

- La sera, a fare la ronda.

- Ma come ti vengono certe idee?

- Che c’è di strano?

- C’è che io e l’Adelaide ce ne andiamo da soli.

- E perché?

- Perché l’abbiamo deciso noi.

- E noi decidiamo diverso.

- Noi chi?

- Io e Concetta.

- Mi sa che anche mia sorella ha voglia di prenderle.

E così, tanto per non perdere l’abitudine, e per tapparle quella boccaccia, le ho fatto una fracanda –

parola di mio padre. I miei erano già usciti, così sono andato disinvolto.

- Però gli altri vengono. – ha poi passato il ghiaccio sulla guancia.

“Gli altri sono gente come noi. Con un ideale.

- Ma quando mai… - ha cominciato, mordendosi subito la lingua.

- Licia, questa città sta diventando una fogna. Vogliamo solo tenere a bada i topastri.

Si è tamponata l’occhio. Poi è andata davanti allo specchio.

- Guarda con che faccia vado al lavoro.

- Mica lavori con la faccia.

Fa la pettinatrice, no? Per cui.

- E alle clienti cosa dico?

- Di farsi i cazzi loro.

- La gente chiede…

- E tu rispondi.

Il bello della Licia è che ha la pellaccia dura. Sembra di picchiare sulla gomma. Non gonfia un

granché e le pacche le nasconde con il trucco.

- Che ci va a mettere i bigodi? Le dita le hai buone. - ho sottolineato.

Ha sospirato forte, aprendo il fondotinta. In due minuti era un’altra. I bozzi si vedevano appena. È

che c’è gente di un curioso. Le donne, poi.

- Insomma, non ne hai un’altra. - è ripartita alla carica.

- Licia, ma ti pare che se voglio uscire con una, trovo una scusa così stupida?

- Ne trovate anche di più stupide.

E lì ho sospirato io, girandole la schiena.

Ce l’aveva con lui, lo capiva. Gli camminava un po’ dietro, non accanto come al solito.

- Dovevo vincere.

Lei stava guardando in giro, i capelli sparsi nell’aria tiepida.

- Dovevi vincere?

- Lo chiedo a te. Sei incazzata.

Senza aspettarlo, si era tirata su. Un piede dopo l’altro, veloce. Atterrando dall’altra parte.

Fermandosi. Anche Giosua era saltato giù. Lei stava respirando profondamente, a occhi chiusi.

- Senti…

Giosua era rimasto in ascolto.

- Non sento niente.

- Il profumo della notte.

L’erba era tagliata di fresco. Dovevano avere aggiunto disinfettante nella piscina.

- “Erba e cloro. - aveva detto Giosua.

- Non solo. La notte ha un profumo particolare.

- Romantica. - le aveva sfiorato il viso con le dita.

Lei aveva sfilato la maglietta. Le mani di Giosua erano giunte adagio. Due coppe morbide cui aveva

affidato le sue tette. E Giosua le accarezzava. Togliendo i pantaloni, lei guardava in su, verso la

finestra.

- C’è qualcuno? - aveva chiesto Giosua.

Senza rispondere, aveva guidato la sua mano tra le gambe.

- Qui. - aveva sospirato.

E le dita si erano mosse lì, dove voleva lei. Come voleva lei. Aveva gridato senza ritegno,

spalancando la bocca. Il gatto era balzato da qualche parte. Li spiava dalla cima di un albero.

Allarmato. O divertito. E poi avevano corso fino alla vasca, ridendo. L’acqua ad avvolgerli come

seta. I capelli molli come alghe a coprire le orecchie. Fuggiva da Giosua. Dalle sue mani che la

cercavano nell’acqua. Rideva e fuggiva.

Era là.

Si era fermata a metà vasca, le gambe a rana, le braccia a remare.

Era là.

Giosua l’aveva raggiunta nuotando sott’acqua. Emergendo vicino. Inspirando una boccata d’aria e

sorridendole.

Era là.

- Ancora arrabbiata?

- Non l’hai visto, eh?

Giosua aveva girato gli occhi attorno, ruotando fluido. E l’aveva visto.

Era là.

- Oramai ci aspetta. Ci precede.

- È colpa mia, vuoi dire. Perché non ho vinto.

- Devo capire perché vi siete fermati a parlare.

Giosua aveva distolto lo sguardo.

- Perché. Ci è sembrato assurdo.

- Cosa?

- Una gara. Assurdo.

- Si fanno gare tutti i giorni. E quella era assurda.

- Per te andava bene?

- Non c’era niente in palio.

- Chissà.

- Cosa vuoi dire?

- Magari è stato proprio questo a fermarci tutti e due. Niente in palio.

- Quindi.

- C’è sempre qualcosa in palio, anche se non si dice.

- Hai avuto paura di perdere.

- Magari ho avuto paura di vincere.

Era stata zitta qualche secondo.

- Coglione. - aveva sussurrato riprendendo a nuotare.

Ma lontana. Sempre più lontana. E Kamal si era tuffato.

Allora era uscita dalla vasca. In piedi sul bordo. Un brivido sulla pelle. Loro nuotavano abbastanza

vicini da parlarsi. La finestra. La sagoma scura che Giosua non aveva visto. O aveva finto di non

vedere. Si era voltata proprio da quella parte, scostando i capelli dalla faccia con le dita. Stringendo

gli occhi per tentare di mettere a fuoco l’ombra. Che non si era mossa, come sempre. Allora si era

rivestita, andandosene da sola. Mollando lì quei due, che nuotavano insieme.

OTTO

E così siamo usciti con il Fufi. Per l’occasione, ma’ gli ha fatto il bagnetto. Lo ha spazzolato. Lustro

che luccicava. Lui annusava aria di novità, per cui era frizzante e scodinzolava. Aveva anche un po’

di fiatone, tanto era agitato.

- Fai conto di metterlo a mollo tutte le sere? - ho chiesto.

- Ma no. Ma questa è la prima volta. Metti che gli fanno subito la foto…

- Speriamo che non gli facciano anche l’intervista. - ha riso mio padre.

- E perché?

- Con l’alito che si ritrova, manda al tappeto il giornalista.

- Pensa al tuo, di alito.

- Che c’ha il mio alito che non va?

E lì mi sono defilato, che era meglio. Si sono azzuffati per un po’ e poi hanno smesso.

La Licia si era volatilizzata. In casa di Concetta, col muso lungo tutte e due. Le sigarette accese e le

microgonne sulle gambe accavallate, per farci capire cosa perdevamo a uscire.

L’Adelaide, il Domenico e il Vincenzo avevano fatto il tam tam. La voce era circolata e sotto casa

c’era una trentina di amici e amici degli amici. Quando siamo usciti in strada, hanno applaudito. Il

Fufi frullava l’aria con la coda, la lingua in fuori dall’emozione.

- Sarebbe il cane immagine! - si sono sganasciati dalle risate.

- Esatto. - ho risposto.

L’Adelaide era felice. I gilè li ha distribuiti prima. Eravamo impettiti che manco i tacchini. Ci siamo

pavoneggiati uno con l’altro, col naso in su alle finestre aperte, dove la gente si era affacciata.

- Bravi! - ha gridato qualcuno.

Hanno battuto le mani.

- Meno male che si può dormire tranquilli. - ha detto quello del piano rialzato.

- Capirai. - gli ha fatto eco una.

Brutta carampana.

- Si va? - mi ha chiesto l’Adelaide

Furbo, mio cognato. Ha combinato tutto lui a mia insaputa. Mi ha convinto a mia insaputa. E poi mi

offre lo zuccherino, per farmi contento.

- Si va. - ho detto.

Ero contento davvero. Cazzo, una ronda tutta mia. Tutta nostra. Se incontravamo quelle due fighe –

e magari anche altre – era un figurone assicurato.

Si sono accodati a due a due. L’Adelaide gli aveva fatto lezione. Il guaio è stato che non gli aveva

tappato la bocca. O i becchi. Le donne. Erano entusiaste di un’occasione del genere. Ma erano

allegre allegrissime. E non stavano zitte un attimo.

- Senti qua dietro che pollaio. - ha mugugnato l’Adelaide.

- Abbi pazienza. - ho detto.

- Ci sentono fino a Grugliasco.

- Lascia perdere. - ho detto io, che avevo paura di perdere il codazzo.

- E basta! - ha gridato invece lui.

Tutti zitti a fissarlo.

- Ohè, siamo una ronda, mica un casino ambulante. - ha gridato di nuovo.

- Deve sembrare un funerale? - ha chiesto una.

- Deve sembrare una cosa seria.

- Ma vaffanculo. - ha detto uno.

- Se non vi va, andatevene voi affanculo.

E si è rimesso in moto. Ingrugnito.

Dietro di noi c’era un silenzio. Solo passi strascicati. A un certo punto mi sono voltato. Eravamo

rimasti in pochi.

- Pochi ma buoni. - ha commentato l’Adelaide.

- Continuate così e vi ritrovate da soli. - ha ridacchiato qualcuno.

- Meglio soli che male accompagnati.

E dopo un po’ eravamo davvero da soli, io, l’Adelaide e il Domenico. Persino il Vincenzo aveva

disertato.

- Per dire il senso di responsabilità. - ha borbottato l’Adelaide.

- Dài, non te la prendere. - ho cercato di consolarlo.

È che avevo avvistato i rondoni dell’altra volta e, a questo punto, il Domenico era di troppo.

- Concorrenza. - ha sghignazzato.

- Chi teme qualcosa, non è per noi. - ho detto.

Mi è venuta così, su due piedi. Il Domenico mi ha fissato, incerto se ridere o meno. Io sono stato

serio. Serissimo. Anzi: stronzo.

- Tolgo il disturbo. – si è allontanato.

- Mi sa che abbiamo perso tutti gli amici. - ha borbottato l’Adelaide.

- Si deve rinunciare a qualcosa, no?

- Per un ideale, eh?

Il Fufi e il lupo si puntavano da lontano.

- Ehilà! - ha salutato il capoccia.

Ci aveva riconosciuti.

- Che fate di bello, stasera? - ha fissato le stelle gialle sui nostri gilè.

- Una ronda. - ha risposto mio cognato.

Lui ci ha squadrati da capo a piedi. Ha compreso al volo.

- Approvo. Gente che mi piace. Piena di volontà. Perché non vi unite a noi?

- A voi? - ha chiesto l’Adelaide guardandosi alle spalle, dove c’era il vuoto.

- Disturbiamo mica. - ho detto sottovoce, sgamando quelle due belle tipe che ci osservavano da

distante.

- Scherzi? Più siamo, meglio è.

Ha teso la mano.

- Orlando.

- Marè.

- Ido.

- Benvenuti.

Intanto gli altri ridevano e non capivo perché. Il Fufi. Ha approfittato della mia distrazione e si è

ficcato sotto il lupo. Gli annusava le palle. E quello ringhiava basso, guardando il suo padrone.

- Un cane finocchio, vi portate appresso? - hanno ridacchiato.

Lo avrei ammazzato. Il Fufi, dico.

- No, è solo affettuoso. - l’ho difeso.

Fortuna che abbiamo ripreso a marciare. Noi in fondo alla fila, con la scusa che eravamo gli ultimi

arrivati. Davanti a noi, due bei culi. E la bruna che si girava a sorriderci, ogni tanto. La bionda,

manco morta.

- Codardi.

Le vene del collo gonfie. I muscoli delle cosce un insieme di fasci tesi. Le braccia serrate lungo i

fianchi. Si sollevava sulle ginocchia e si abbassava lentamente.

- Non so se è la parola giusta. - diceva lei.

- Codardi. Une alliance. Piuttosto di mettersi in gioco. Rischiare.

- Tra loro due. Possibile?

- Tutto è possibile.

- E io?

- Tu. Una donna tra loro. Tienti pronta a tutto.

- Giosua non è geloso.

- Sicura?

-Non mi metterei mai con un marocchino.

Naima. La sua risata.

- Scusa. Con un uomo è diverso. – lei era arrossita.

- Ti metteresti con un algerino?

- No.

Naima aveva riso di nuovo.

- Siete il popolo più razzista del mondo.

- Tu no, eh?

- No. Io non chiedo agli altri né razza né religione.

- Neanch’io. La razza la vedo. E la religione. Sono atea.

Naima stirava un polpaccio, la mano a stringere la caviglia.

- L’unico razzismo concesso è contro gli uomini.

Lei si era stretta nelle spalle.

- Non sei convinta.

- Con te vado d’accordo.

Naima aveva smesso gli esercizi. L’asciugamano sul collo.

- Ti metteresti con me? - aveva sorriso.

- Siamo amiche, no?

- L’amicizia è un’altra cosa.

Naima aveva allungato le mani. Le dita sottili sul suo volto. Attirandola a sé.

- Baciami.

NOVE

Mio cognato si presenta sempre così: Ido. Siamo in pochi a sapere il suo vero nome.

- Mica ha torto, anch’io mi vergognerei. - dice mio padre.

- Sono altre, le cose di cui vergognarsi. - sentenzia la Licia quando ha la vena intellettuale.

- Tipo? - chiedo io che so dove va a parare.

- Tipo alzare le mani su una donna.

- E su due?

Mio padre sghignazza. Ma’ prepara la moka.

- Un bel caffè. - declama.

- Il caffè non fa guarire i lividi. - continua la stronza.

- Però te ne può avanzare altri. - minaccio.

Mio padre si nasconde dietro il giornale.

- Ragazzi. Qui siete i benvenuti, ma i panni vostri lavateli tra voi. – sbuffa a volte ma’.

C’è un silenzio di ben tre minuti. Li ho contati, orologio alla mano. È il tempo che serve alla Licia

per radunare le pensate e prendere coraggio.

- Prima o poi tuo figlio vede il sole a quadretti. - recita solenne.

Mica sono parole sue. Lo so io, chi gliele mette in bocca. Le sue clienti, ecco chi.

- È una malattia degli occhi? - domando.

Mi fissa con aria di sfida.

- Mi consigliano sempre di denunciarti.

- E tu diglielo, che sai sbagliare da sola.

- C’è poco da scherzare. Ci sono donne incattivite da anni di oppressione. E non sono innamorate

come me.

- Ma senti che concetti profondi. Scommetto che te li sei imparati a memoria tra uno shampoo e una

permanente.

- Vuol solo dire una cosa: che io lavoro. Io.”

E qui vado in ebollizione.

- Sarà colpa mia se il vecchio Corio prende romeni e roba varia.

- Roba, eh?, mica persone.

- Hai clienti romene, tu?

- Non chiedo la nazionalità. E comunque ne ho di tutti i colori. E pagano.

- Ecco, al momento del conto, aggiungi la percentuale dovuta a tuo marito.

- Sì?

- Sono disoccupato per colpa dei loro uomini, che lavorano sotto paga.

- Bella scusa. - ha bofonchiato quel giorno.

- Sì?

- Ho incontrato Corio. - ha detto adagio.

- E?

- E mi ha spiegato perché sei a casa in punizione.

- Io?

E qui ma’ ha spento la moka e pa’ ha abbassato il giornale.

- La batti a tutte. Ma non tutte ci stanno.

- E io sì, che lo denuncio. Questa è privacy violata. - mi sono innervosito.

- Ma quale privacy, stronzo. Sul posto di lavoro.

E stronzo a me non te lo devi permettere. Le ho tirato una pizza che si è rovesciata la sedia e lei è

caduta di schiena. Niente di rotto. Pa’ è fuggito al galoppo. Ma’ ha giunto le mani in preghiera,

sgranandomi gli occhi addosso.

- Ma’, fammi il favore, vai a fare la spesa. - ho detto.

Anche se è domenica, quella è la frase d’inizio di una giacca coi fiocchi e le frange – espressione di

mio padre. Perciò mia madre è uscita a farsi un giro e io ho ridimensionato la furbetta.

Quando è così, persino il Fufi sparisce. Si rintana sotto il divano, che poi dobbiamo aiutarlo a

disincastrarsi. Oppure sotto il mobile del lavello, che dobbiamo ancora capire come fa a passarci.

Oppure sotto il letto dei miei. E trema. E ci piscia. Così poi mi tocca pulire, perché la Licia è chiusa

nel cesso a bagnarsi i bozzi. E a proteggersi da altri manrovesci. In definitiva, ci rimetto io.

- E ci mancherebbe che fai pulire lei. – si indigna ma’.

- Brava. Devo dormire nel piscio, per colpa di chi non sa stare muta. – dice pa’.

Grande pa’.

Non si erano incontrati, quella sera. Lei lo aveva fatto apposta. Che capisse l’aria che tirava.

Erano le tre del mattino, quando aveva scavalcato proprio di fronte all’ingresso principale. Una

specie di sfida. Ed era sola. I jeans si erano impigliati in una punta della cancellata. Uno strappo.

Non si era nemmeno arrabbiata. Era troppa l’eccitazione di essere lì, sola. Nuotare sola. Sotto il

cielo nero che prometteva pioggia.

- Ciao.

Si era voltata di scatto, lanciando la gamba in avanti, i pugni pronti. Kamal aveva riso piano, i palmi

verso di lei in segno di resa.

- Ancora. - aveva detto rauca.

- Non volevo spaventarti.

- E allora cosa vuoi?

- Ti ho aspettata per nuotare.

- E io ho aspettato quest’ora per nuotare da sola.

- Non è vero. Hai aspettato fino a quest’ora per fare dispetto a Giosua.

Era andata alla vasca. C’era qualcosa, nel centro. Una coppia di anatre. Si lasciavano cullare,

attaccate una all’altra.

- Visto? Loro non litigano. - aveva detto Kamal.

- Vattene.

- Dammi un motivo.

- Io non ti voglio qui.

- È un buon motivo?

- È un motivo e basta.

- Quindi.

- Quindi vattene.

Kamal aveva sospirato, sorridendole. Poi si era tuffato e solo allora si era resa conto che era nudo.

Non se n’era accorta. Presa com’era dalla discussione.

Aveva guardato la finestra. Era certa che non ci fosse nessuno. A quell’ora. Invece era là.

Incredibile. L’ombra era là. Per un attimo aveva dubitato dell’autenticità di quell’apparizione. Che

fosse frutto della sua fantasia. O del desiderio di essere guardata sempre. Di esistere negli occhi di

qualcuno.

- È tiepida. - stava dicendo Kamal.

Appariva e scompariva sott’acqua. La figura snella di un pesce. Il volto lucido quando emergeva in

superficie.

- Non nuoto con te. - aveva detto lei.

Si era fermato ai suoi piedi, muovendo le gambe e le braccia adagio, senza rumore.

- L’acqua è un liquido. Le molecole si spostano. Tu nuoti nelle molecole degli altri, senza pensarci.

Fingendo di non saperlo.

- Cazzo dici.

- Come l’aria. Tu respiri la stessa aria che respiro io. E io respiro la tua.

- Lasciamene un po’, appena un po’, tutta per me.

- E quando espiri, io respiro la tua anima.

- Niente anima.

- Non ci credi?

- Non ho anima.

- Io sì. E quando espiro, tu ne respiri un po’.

- Mi hai rovinato gli unici momenti belli della vita.

Era rimasto in silenzio.

- Okay. Fai da sola, visto che preferisci. – era uscito dalla vasca.

Lo aveva ignorato.

- Sono del parere che in due sia meglio. Ma è un parere del tutto personale. - aveva aggiunto Kamal.

Si era rivestito in fretta ed era scomparso nell’oscurità. Lei ne percepiva i movimenti. Lo aveva

sentito scavalcare. I passi che si attutivano fino a svanire.

Allora si era svestita. Improvvisamente sentendosi sola. Troppo sola.

DIECI

Mica è andata alla grande, quella notte.

- Gilda. - si è presentata la bruna.

Una gnocca pazzesca, piena di curve. L’Adelaide sembrava persino più alto. Le camminava a

fianco, dicendole non so che cazzate. Comunque lei rideva. E donna ridente…

L’altra. Sì, la bionda, quella che piaceva a me. Che stronza. Manco mi ha salutato. Anzi, non ha

salutato proprio nessuno, come non fossimo arrivati. Però ha accarezzato il Fufi, quel ruffiano. Si è

messo a pancia in su, spazzando l’asfalto con la coda.

- Ti piacciono i cani. - ho detto.

Manco un’occhiata. Ha ripreso a camminare in fila con gli altri. E io dietro, tipo minchione. Intanto

l’Adelaide faceva progressi. Gilda gli parlava, eccome. E scrollava i capelli. Tutto un ricciolo. La

bionda li aveva lisci, tenuti indietro da una fusciacca blu. Come i suoi occhi. Le sbirciavo le tette,

che premevano contro la camicetta. E riempiva bene i jeans.

- Marè, ma lo sai che anche loro sono solo due volte che vanno di ronda. - mi ha detto mio cognato

vedendomi in difficoltà.

- Non rompete le righe! - ha gridato uno davanti.

- E tu non rompere i coglioni. - ha risposto l’Adelaide.

Quello ha continuato a marciare scuotendo la testa.

- Severi, eh? - ci ho riprovato con la bionda.

Come non avessi parlato.

- Che sia sorda? - mi sono chiesto a bassa voce.

Zero. Che fosse sorda davvero?

- Lei si chiama Roberta. - mi ha sussurrato Gilda.

Non era sorda. Infatti si è fermata di botto, girandosi verso l’amica. Incazzata nera. Mica ha parlato.

L’ha fissata con due occhi. Da incenerire. Che fosse muta? Per tutta risposta, Gilda ha riso forte.

- Bel nome, Roberta. - ho sorriso.

Ha ricominciato a camminare. Veloce, in modo da distanziarmi. L’Adelaide mi ha dato uno

spintone.

- E non mollarla, no?

Gilda ha di nuovo riso. Mi sono appaiato alla bionda. Il Fufi saltellava, altro che zoppicare.

- Ma il cane ha l’asma. – si è fermata Roberta.

- Sì, un po’. È che ha diciotto anni.

Lei è rimasta a bocca aperta. Bella bocca.

- Diciotto. – si è chinata ad accarezzarlo.

- Diciotto! - ha gridato Gilda, chinandosi anche lei a dargli una pacca sul culo.

E l’Adelaide mi ha strizzato l’occhio. Tanto il Fufi non parlava. E poi, che gli fregava di due anni in

più?

- Allora non trascinarlo così. Deve camminare più adagio, poverino. - ha detto Roberta.

Veramente era lui che trascinava me, tanto era contento. Ma non ho replicato.

- Ehi, che fate? Dobbiamo restare uniti.

Di nuovo quello di prima.

- Guarda dove metti i piedi, che noi ci siamo. - ha risposto Roberta.

Gilda ha riso. Mio cognato anche.

- Il Fufi è contento. - ho detto.

Lei lo ha guardato.

- Dammelo, vuoi? - mi ha chiesto.

E certo che te lo darei. Ma mica il Fufi. Comunque le ho lasciato il guinzaglio. Col cuore che

batteva. Quando mai una donna mi faceva quell’effetto. In quel momento ho provato l’emozione

della prima volta, la prima in assoluto. Quando mi ero cotto di Martina, in seconda elementare.

- Problemi?

Orlando era lì, lui e il suo lupone.

- No, nessuno. - ha risposto Roberta.

Lo spione era corso avanti a soffiargli nelle orecchie. Ma si può?

- Ragazzi, sono contento delle amicizie che nascono tra noi, ma una ronda è una cosa da prendere

sul serio. Perciò, mi raccomando, disciplina.

- Rallentiamo solo un po’, perché Fufi ha diciotto anni. - ha spiegato Roberta.

- Complimenti. - ha detto Orlando, tenendo corto il lupo.

- Spero di non dare fastidio. - ho detto io, modesto.

- Per niente.

Ho capito – ma proprio l’ho capito – che non si era bevuto la balla dell’età del Fufi. E nemmeno la

mia finta modestia, si era bevuto.

- Lui è Igor. - ha presentato il lupo.

- Una bella bestia. - ho commentato.

- A proposito, ragazzi. Tutto l’ambaradàn che avete addosso, ve lo potete togliere. Vi farò avere la

roba uguale alla nostra, okay?

- Okay. - ha detto l’Adelaide.

- Sempre che abbiate intenzione di continuare con noi.

- Hai dei dubbi? - gli ha strizzato l’occhio quel fetuso di mio cognato.

Hai capito?

- A più tardi. - ci ha salutati Orlando.

Abbiamo proseguito per ore senza più parlare. Io, ogni tanto, buttavo lì una cazzata, ma Roberta era

tornata sorda. Aveva attenzioni solo per il Fufi, che ansimava soltanto se lo guardavo io.

In definitiva, due palle così. Gilda che rideva con l’Adelaide. Roberta che aveva occhi per

l’asmatico e basta. I piedi che mi facevano male, perché non ero abituato a camminare tanto.

Insomma, quando ci siamo divisi per tornare ognuno a casa sua, non avrei saputo dire il giro che

avevamo fatto. Roberta mi ha restituito il guinzaglio senza una parola. Una carezza al Fufi e via.

Via per la sua strada, con Gilda che la seguiva a ruota, ma almeno ha salutato l’Adelaide.

- Ciao, Ido.

E lui mi ha dato di gomito.

- Infingardi e vigliacchi.

Le braccia aperte, seduta sui talloni, Naima si era sollevata lenta richiudendo le braccia come ali.

- Ti ha messo gli occhi addosso.

- Deve togliersi di torno. Punto e basta.

- Attenta. Può darsi che ti piaccia, prima o poi.

- Un marocchino invadente?

- Un uomo. Nient’altro che un uomo.

- Sai che onore.

Naima volteggiava emettendo grida soffocate. A gambe tese. A pugni chiusi.

- Dovresti anche tu.

- Cosa?

- Allenarti. Può essere utile.

- Mi sa che hai ragione.

- Perciò.

- Perciò non deve permettersi di tornare.

Il sacco dondolava. Naima continuava a colpirlo.

- Vuoi provare?

- Perché no?

Le porgeva le mani perché gliele fasciasse.

- Mani delicate. Da fata. Une fée.

La fissava negli occhi. Le toglieva una fascia. Portava la mano nuda sul suo seno.

- Sul cuore. - bisbigliava.

Lei stringeva piano.

- Più forte.

Lei aveva stretto più forte.

- Di più.

Naima aveva avuto un gemito. Lei aveva allentato.

- Non avere paura. Se fa male, piace.

- Ho i miei dubbi. - lei aveva tolto la mano.

- Hai già provato?

- Nessuno si permette.

Naima aveva riso. Lei colpiva il sacco.

- No, senza protezione no. - aveva detto Naima.

- Hai appena sostenuto che più fa male più piace, no?”

Colpiva. Colpiva ancora. Le nocche sanguinavano. Continuava a colpire. Vedeva il sangue. Rosso.

- Basta.

Naima aveva fermato il sacco.

- Sei tu a decidere?

- Prego. – Naima aveva mollato il sacco.

Lei aveva ripreso a colpire. Faceva male e sapeva che Naima lo sapeva. L’aveva guardata. Aveva

le labbra tirate nella parvenza di un sorriso.

UNDICI

Manco sanno di cosa parlano. Mai che colleghino la lingua al cervello.

Pangea. Il nodo di Pangea.

- Ma almeno lo sai cos’è? - le ho chiesto.

- Certo che lo so. Me lo hanno spiegato bene, le mie amiche.

- Quelle che ti consigliano di denunciarmi.

- Loro. Ma non solo. Anche altre.

- Altre coglione in astinenza da cazzo.

- Quanto sei volgare.

- Sei fine tu, che ti appendi Pandora al collo.

- Pangea.

- Quella.

- Comunque, Marè, le ho tenute a stento.

- Volevano buttarsi a Po?

- Volevano chiamare la Polizia.

- La Polizia getta la gente a Po?

- Volevano farti arrestare.

- Ma dài.

- Mi contano i lividi, ormai.

- Di’ che contino tutti i cazzi che prendono. Se riescono.

- Sono donne come si deve, che credi?

- Donne che vogliono la Polizia, non sono come si deve.

- Eggià, comodo così, eh?

- Mica hai voglia di prenderle?

- Mica vuoi guai?

- Mi sa che è una sfida.

- Mi sa che è la coscienza sporca.

Lo vedi che se le cercano?

- Licia, non mi provocare.

- Marè, non ci provare.

E così le ho fatto un bel paltò – altra espressione di mio padre.

E siccome non avevo intenzione di smettere, si è chiusa in bagno. A chiave.

- Ecco, resta dove sei. È il tuo posto. Il cesso.

- Marè, sei un infame.

- No, sono un uomo. E farai bene a ricordartelo, quando esci. Anzi, se vuoi uscire, mi consegni il

nodo del cazzo.

- Pangea.

- Quello. Altrimenti stai lì che nessuno ti cerca.

- Voglio vedere, quando vi prende da cagare.

E purtroppo aveva ragione. Un bagno in quattro è poco. Ma non potevo dargliela vinta.

- Non ti preoccupare per noi. C’è sempre l’alloggio di Concetta e Adelaide.

- Allora vai pure a cagare da un’altra parte.

Lo vedi che se le tirano dietro?

Era al solito angolo, tra via Fontanesi e la piazzetta.

- Dài, facciamo pace.

- Abbiamo litigato? - si era incamminata.

- No, ma allora aspettami.

- Perché dovrei? Hai i tuoi amici, tu.

- E non saresti incazzata, eh?”

- No. Ma prendo atto.

- Eddài, per una nuotata.

- È il principio.

- Cosa devo fare, buttarlo fuori? Già viene solo…

- Non deve nemmeno lui.

- Dài…

- Non era terra nostra?

- Miii…Parli come…

- Come chi pensa con la sua testa?

- Io non penso con la mia.

- Direi di no, visto con che facilità cambi idea.

- Ho capito. Non è serata.

Lei aveva aumentato l’andatura.

- Perché non mi hai aspettata? - aveva chiesto all’improvviso.

- Quando?

- Ieri.

- Ma se non c’eri.

- Però non mi hai aspettata.

- Ma che cazzo…

- Però hai nuotato con Kamal.

- Dico, sei gelosa? - aveva riso Giosua.

- Non mi hai aspettata.

- Eddài. Se non c’eri. Sono rimasto due ore, poi sono andato a dormire. Non eri neanche per strada.

Credi che non ho guardato?

Kamal mi ha aspettata.

- E poi, scusa, vuol dire che ci sei andata più tardi?

- Può darsi.

- Ma a che ora?

- Non lo so, non ho guardato l’orologio.

- Ci siamo sempre incontrati nel solito posto. Tu non c’eri.

- Kamal c’era. E avete nuotato insieme.

- Ma cos’hai? Sembri gelosa…

- Sono scazzata da impazzire.

- Vuoi che cambiamo piscina?

- È il marocchino che deve cambiare.

- E se provassimo a convivere?

Di fronte. Gli aveva messo le mani sulle spalle.

- Non provarci più, eh? - gli aveva sibilato in faccia.

- Mi sa che dovremo imparare a condividere.

- Ci sono sogni solo nostri.

- Si deve crescere, prima o poi.

- Senza sogni?

Giosua aveva sollevato una mano, per accarezzarla.

- Io non vivo senza sogni. - aveva detto lei.

Poi era corsa via.

DODICI

- Il saggio dice: quando torni a casa, picchia tua moglie. Tu non sai perché, ma lei sì.

- Parole sacrosante.

È un piacere, discutere con l’Adelaide.

- Marè, non pentirtene mai. Se l’hai menata, avevi un buon motivo.

- È la faccenda della denuncia, che mi ha scrollato.

- Invidiose e frustrare.

- Vai a farlo capire a Licia.

- Se la contano tutto il giorno. Si riempiono la bocca di paroloni.

- Di altro, devono riempirsela.

- Ben detto, ma il guaio è che non c’hanno un cazzo manco a pagarlo.

- Mi secca che la Licia si faccia mettere su da ‘ste stronze.

- Marè, lasciale parlare. L’essenziale è che i pantaloni li portiamo noi.

- Con la scusa della praticità, li portano pure loro.

- Marè, che ci frega. Tanto glieli togliamo, no?

- Giusto.

- Marè, scusa se mi permetto. Lo sai qual è il tuo guaio grosso?

- Sarebbe.

- Che abitate con i tuoi.

- Lo sai che non posso pagare un affitto.

- Lo so, lo so, dicevo per ragionare.

Bel ragionare, tu che puoi, c’era da dirgli. Ma sono stato zitto.

- Io e Concetta facciamo i salti mortali per arrivare a fine mese. Eppure non cambierei per tutto

l’oro del mondo. La libertà personale innanzitutto.

Come no, c’era da dirgli, tanto ma’ vi passa sotto banco la busta. Ma lui non sapeva che io sapevo,

per cui mi sono tenuto acqua in bocca.

- Comunque, non ti scomporre mai più di tanto, quando fanno certi discorsi. Cazzate che lasciano il

tempo che trovano. – ha aggiunto.

- Hai ragione, ma devo reagire, altrimenti mi mette i piedi in testa.

- Ah, no, quello mai. Una bella battuta e via.

- Ci capiamo, io e te.

- Tra uomini ci dobbiamo sempre dare sostegno.

Un piacere, discutere con l’Adelaide.

- Kamal. Kamal, sei qua?

Lei si guardava intorno, un’occhiata veloce alla finestra.

- Non c’è. Visto che non c’è? - aveva detto Giosua.

- Può esserci e non rispondere.

- Se si è sempre fatto vedere.

- Si diverte con noi.

- Ma no.

- Vuole spiarci.

Giosua aveva scosso la testa.

- Paturnie. - aveva mormorato spogliandosi.

Lei passeggiava sul bordo della vasca. Giochi d’ombra nell’acqua, quasi sul fondo, come ci fossero

pesci. Forse davvero Kamal non c’era. Avrà avuto ben altro da fare, no? Poi li aveva visti arrivare.

In quattro. Scavalcavano agili, là dietro la siepe grande. Quella che ospitava bisce e chissà quante

altre bestie. Erano avanzati in silenzio, le maglie nere con scritte bianche, i pantaloni a vita bassa

troppo larghi. Anche Giosua li aveva visti e si era fermato a metà vasca.

- Buona sera. - aveva salutato Kamal.

- Parla piano. - gli aveva detto Giosua.

- Perché?

- Meglio che non ci sentano, no?

- Noi non abbiamo paura.

- No? Non siete clandestini o non leggete i giornali? – lei si era seduta sui talloni.

Anche i quattro si erano seduti sui talloni, esattamente dalla parte opposta alla sua. E Giosua in

mezzo, nell’acqua, lo sguardo che girava da loro a lei.

- Siamo italiani come te. - aveva risposto Kamal.

- Come me non lo sarete mai.

- Questione di pelle, dici?

- Questione di razza.

Kamal sorrideva. Gli altri non si muovevano.

- Cosa ti sei fatta alle mani? - aveva chiesto Kamal.

Lo aveva notato. Come aveva fatto?

- Hai preso a pugni qualcuno?

Lei non rispondeva. Era arrossita.

Giosua non l’ha notato.

- Magari hai picchiato un marocchino. - stava sorridendo Kamal.

Gli altri avevano sogghignato. Giosua non fiatava.

“Una nuotata. – Kamal si era tolto la maglietta.

Gli altri lo avevano imitato. Gli abiti a terra. Poi le avevano sorriso. Nudi. Lei era rimasta immobile.

Si mordeva le guance, dentro. Si erano tuffati. Nuotavano verso Giosua.

- È la tua donna? - gli aveva domandato Kamal, forte.

- Non esiste una mia donna o un suo uomo. Ognuno… - aveva risposto Giosua.

Ma Kamal non lo ascoltava già più. Nuotava a rana sott’acqua, seguito dagli altri. Lei si era alzata.

Un gorgoglio in gola, come un respiro faticoso. O un lamento. Giosua era in mezzo alla piscina. La

stava fissando. Giochi d’ombra sotto i suoi piedi, come fossero pesci.

TREDICI

Pa’ e ma’ non erano ancora tornati dal mercato. Succede, se è giorno dei pensionati alla chetichella.

Quelli veri. Quelli che alla fine del mese col cavolo che ci arrivano. E non vogliono farlo sapere ai

figli. O ai vicini di casa. E non vogliono chiedere l’elemosina. Perché poi ci sono i soliti furbi, che

si vestono male e l’elemosina la chiedono senza paura. E dammi gli ultimi pomodori. E che te ne fai

di quelle mele malandate. E guarda quelle banane marce. Questi sono da mandare a stendere. Ma è

difficile distinguerli per bene dagli altri. Rischi di sbagliare. Così i miei. Insomma, si lasciano

commuovere.

- Marè, non è commuoversi. È fare quello che si può.

- Quella roba la possiamo mangiare noi. Oppure venderla un po’ a meno. Ma regalarla…

- Un egoista, sei. - si azzarda la Licia.

Così, ora di mangiare la frutta, gliela tolgo dal piatto.

- Risparmia, no?, pensando ai poveri.

- Ma quanto sei stronzo.

Mio padre ride. Mia madre abbozza un sospiro.

- Però tu non andartele a cercare. - le dice sottovoce.

E io, per il momento, mi ritengo soddisfatto.

- Una galera è, la mia. - invece sbotta quando ha le sue cose.

La Licia, dico. Si accende una sigaretta e ruota il piede, quello della gamba accavallata.

- Sì? E chi ti tiene? – dico.

- Marè, davvero non vali la pena. Io soffro perché ti amo.

- Tu soffri perché le buschi secche.

- Io, davvero, hanno ragione a dirmi di mollarti.

- E tu da’ retta alle tue consigliere, no?

- Ah, certo, tanto tu hai già la sostituta. - ha detto acida quella sera.

Aveva il ciclo, appunto.

- Licia, ho misericordia perché non sei nel tuo. Ma non ne approfittare.

- Una donna non è nel suo, se ha il mestruo, eh?

- Non è così?

- È ora di sfatare tutte ‘ste baggianate su di noi.

- Assì? Scusa l’errore. - e mi sono alzato per dare potenza alla mano.

È andata di schiena, tanto per cambiare.

- Bastardo. – si è rialzata.

- Licia, vedi bene che te la sei cercata. – ho tenuto la mano pronta per un’altra sberla.

Ma’ lavava i piatti e non ha visto niente. Pa’ leggeva il giornale e non ha sentito niente. Il Fufi era

già sotto il divano e non ha raccontato niente.

Successo qualcosa?

- Non dobbiamo litigare noi due. È assurdo.

- Abbiamo litigato?

Giosua si era fermato in mezzo alla strada, le mani sui fianchi.

- Ascolta. Se tu te ne vai quando ci sono loro, è cedere terreno. Devi rimanere.

- E nuotare con loro.

- Hanno la nostra età, anno più, anno meno.

- E cosa vuol dire?

- Sono ragazzi come noi.

- Se erano bambini? O vecchi?

- Cazzo…Non è quello che voglio dire.

Lei aveva attraversato la strada.

- In questo modo, ci dividono. E uniti rimangono loro.

- È persino riuscito a farti dire quello che voleva. - aveva sussurrato lei.

- Occazzo…

- Gli hai detto esattamente quello che voleva sentire. Perché?

- Senti. Fermati e ascolta. Non lo abbiamo stabilito noi due…?

- Ma non è il caso che lo sappiano gli altri. Appunto perché sono cose tra noi.

Parlava a voce alta, con rabbia.

- Cosa ti sei fatta alle mani?

- Non cercare di rabbonirmi.

- Sbaglio sempre, eh?

Gli aveva girato le spalle.

- Okay. - aveva detto Giosua.

- Okay, cosa?

- Li ucciderò. Sei contenta?

Si era fermata. La bocca un po’ aperta. Sapeva che la provocava.

- Lo faresti?

Si era avvicinato di un passo. La voce talmente bassa che a malapena la sentiva lei.

- Vuoi che lo faccia?

- Lo faresti.

- E tu? Tu lo faresti?

- Non lo so.

- Ma resteresti a guardare?

Si era voltata. Pochi passi lenti.

- Non lo so. Non lo so.

QUATTORDICI

- A proposito. Ci vuole incontrare da soli. - ha detto l’Adelaide tipo cospiratore.

- Chi?

- Orlando.

- Il caporione?

- Lui.

- E perché?

- Boh, ci vuole parlare. Solo a noi due.

- Scusa tanto, ma come ha fatto a contattarti?

- La Gilda. - mi ha strizzato l’occhio.

Hai capito, mio cognato. Nome in codice, ma indirizzo vero.

- E magari pure il telefono.

- Sei matto. Cioè, sì, ma abbiamo degli orari.

- Li fregano tutti con i tabulati e vuoi che non freghino te? - ho riso.

- Di chi parli?

- Molliamo.

Non che l’Adelaide sia scemo, ma non è molto attento, ecco.

- Comunque, di cosa vuole parlare?

- Non so. Dice solo noi.

- Mi sa che minaccia di buttarci fuori, se non smettiamo di stare incollati a quelle due.

- Ha poco da minacciare. Noi camminiamo dove e con chi ci pare.

- Giusto.

- E comunque dobbiamo stare in campana.

- Sì?

- Le nostre donne.

- Beh?

- Hanno mangiato la foglia.

- Sarebbe.

- Si parlano all’orecchio e diventano mute se arrivo io.

- Che vuol dire?

- Ieri Concetta mi ha chiesto se è vero che ci sono donne nella ronda.

- Sai che domanda. Abbiamo mai detto che è solo di uomini?

- Stiamo in campana in ogni caso. Sai le donne, quando si insospettiscono.

- Se rompono, sai come va a finire.

- Giusto.

E ci siamo dati il cinque.

- Benarrivati.

Lei, a denti stretti. Kamal si era inchinato. Lei lo aveva superato, fendendo la notte a grandi passi.

Si era spogliata e si era tuffata. Nuotava sott’acqua. I polmoni al limite, bruciavano. Quasi

scoppiavano. Allora emergeva per lunghe boccate d’aria. Di nuovo s’immergeva finché il suono

dell’acqua tra i capelli si mescolava ai pensieri. Poi allungava le braccia e batteva la superficie. A

pancia in su il cielo si avvicinava, pieno di stelle. E una luna da fiaba sopra la basilica di Superga.

Era rimasta così, aspettandoli. E non aveva sentito i tuffi. Difatti erano sul bordo. I puntini rossi

delle sigarette. Lei si era ricordata dell’ombra. Uscendo dall’acqua e camminando sull’altro lato, per

rimanere lontana da quei due, si era messa in dirittura della finestra. Di lì non era sicura di

distinguerla bene. Aveva persino il dubbio che non ci fosse. Che fosse soltanto immaginazione.

Però aveva sollevato i capelli lo stesso, lasciandoli ricadere. Alzando le braccia e incrociando le

mani sulla testa. Divaricando un po’ le gambe. E guardando in su, là dove niente si muoveva. Dove

magari non c’era nessuno.

- Se hai finito lo spettacolo, possiamo nuotare.

Giosua le era giunto dietro in silenzio.

- Se hai finito di coltivare la tua amicizia, possiamo nuotare.

- Sei disposta a presenziare, ma non a partecipare.

- Vaffanculo.

Si era allontanata svelta, raccogliendo i vestiti. Rivestendosi mentre andava alla recinzione.

- Perché non rimani?

Lei aveva sussultato.

- Come ti permetti? - aveva detto con il cuore in gola.

- Non volevo spaventarti. Vorrei capire. - si era scusato Kamal.

- C’è niente da capire.

Aveva scavalcato e, quando era saltata sul marciapiedi, Kamal aveva il viso tra le sbarre.

- Torna indietro. Per favore.

Lei aveva cominciato a correre.

QUINDICI

Tipo cospiratori davvero. In riva al Po. O tipo pensionati. O pusher. O culattoni. I vecchietti della

bocciofila che ci scrutavano tirando a cazzo le bocce.

- Secondo te? - ha chiesto l’Adelaide.

- A me, lo chiedi? Se ha parlato con te.

Era nervoso. Io ero convinto che ci sbattesse fuori, che ci dicesse di non andare più di ronda

eccetera. Mica piacevano le mie convinzioni, all’Adelaide. A lui piaceva Gilda.

- Eccolo.

Orlando è venuto verso di noi. Occhiali neri e giubbotto mimetico.

- E che è?

- Vuoi vedere che è un agente segreto.

- Come no. Mica si nota uno così.

- Ragazzi. - ha salutato.

- Orlando.

- I nomi no, per cortesia.

E già me ne sarei andato. Che roba era?

- Prudenza. Ho da dirvi cose importanti. Perciò, prudenza. Okay?

- Okay. - ha detto l’Adelaide.

Io non ho parlato. Li avrei buttati a Po tutti e due.

- Camminiamo. - ha detto.

E noi dietro.

- Vi ho notati subito, quella sera. – ha detto a bassa voce.

- Noi due? - ha domandato l’Adelaide.

- Sì. Siete tipi decisi, sapete cosa volete.

Proprio noi. Cioè, era vero, più che figa non volevamo.

- Perciò ho apprezzato l’iniziativa. Una ronda vostra. Bravi. Peccato che non avevate buona

compagnia. Anzi, meno male.

- Assì? - ha detto mio cognato.

- Eh, sì. Se avevate una ronda per voi, mica potevo proporvi niente.

- Ci vuoi proporre cosa? - ho chiesto.

Si andava verso il ponte della Gran Madre. Un caldo della malora.

- Qui. - si è inoltrato sotto gli alberi.

Si è tolto gli occhiali.

- Siamo all’ombra e in disparte.

- Quindi. - ha detto l’Adelaide, tutto contento che non ci buttava da nessuna parte.

- Quindi siete i tipi giusti.

- Per cosa?

- Per azioni energiche.

Lo abbiamo fissato. Manco l’Adelaide respirava più. Saremo buzzurri – definizione di Concetta e

Licia quando sono in vena di prenderle di santa ragione – ma qualcosa capiamo.

- E svegli. Avete già fiutato la faccenda. – ha sorriso Orlando.

- Io no. - ho detto.

- E bravo. Tosto.

- Neanch’io. - ha detto subito mio cognato.

- Tosti tutti e due. Come servono a me.

Ci siamo lanciati un’occhiata.

- Vi piace uscire di ronda?

- Sì. - abbiamo risposto insieme.

- Cazzeggiare, gettare fumo negli occhi, sciupare la notte… - è rimasto in sospeso guardandoci.

- A te no? - gli ho chiesto.

- No. A me no.

- E allora perché ci vai?

- Per reclutare gente giusta.

Mi si è accapponata la pelle. A me, doveva capitare un legionario. Io che ero riuscito a evitare la

naja. E l’Adelaide pure, grazie a mio padre che ha le conoscenze giuste. Gente giusta sì, quella.

- Io amo davvero la mia città. La mia nazione. La parola patria per me ha un significato profondo,

dal cuore. E so che anche per voi è lo stesso.

E da cosa lo aveva capito? Anzi, inventato. E di sana pianta. Io mai mi sognavo di pensare alla

patria, salvo ai mondali di calcio.

- Non c’è bisogno di tante parole. Ci si capisce al volo. - ha detto guardando me.

Che mi leggesse nella mente? Poi ha fissato l’Adelaide.

- Fermo restando che continueremo con la ronda. Vi piacerebbe partecipare a qualcosa di serio?

E quello ci leggeva davvero dentro. Ne aveva per tutti e due.

- Tipo? - ho chiesto.

Ha girato gli occhi intorno. Ci ha fissati per almeno due minuti. Uno a testa.

- Una pattuglia.

Per poco non rido.

- E che differenza fa? - ha chiesto l’Adelaide.

- Una ronda è una cosa per scherzo. Un gioco.

- Ma non è la stessa cosa di una pattuglia?

Orlando ha scosso la testa.

- E la differenza? - ho domandato.

- Fondamentale.

Mi sono sentito i brividi giù nella schiena. E Orlando ha capito che io avevo capito.

- Avremo mezzi veri. - ha bisbigliato.

Adesso aveva capito anche l’Adelaide.

- Avremo armi?

- Roba seria.- ha annuito Orlando.

- Roba che spara? - ho chiesto incredulo.

Lui mi ha sorriso.

- Roba che ammazza.

- Fanno branco. Si sentono invincibili.

- A noi non succede.

- Noi donne siamo diverse. Per fortuna.

- A volte vorrei essere un uomo.

Naima aveva abbandonato i pesi.

- E perché?

- Mi pare che abbiano la vita più facile. E più felice.

- Io non li invidio. E non vorrei essere uomo per niente al mondo.

Si era avvicinata e la guardava, carezzandole i capelli.

- Com’è che stai con lui?

Lei aveva alzato le spalle, andando alla sbarra. Ma non aveva intenzione di fare esercizi.

- Non ti chiedi perché stai con una persona? - aveva insistito Naima.

Non aveva risposto. Si era spostata verso il quadro svedese e si era arrampicata sul primo quadrato.

- Abitudine? Mica siete sposati.

- Infatti.

- Però stai con lui.

- Non è che ci sto proprio. Se mi va. Se ci va.

- Non è una cosa seria.

- Cos’è una cosa seria?

- Non avete progetti in comune?

Lei aveva di nuovo alzato le spalle.

- Oltre quello di nuotare di notte. - aveva sorriso Naima.

- Fra un po’ nemmeno quello.

- Per un intruso. Vedi che non aspettano altro?

- Per?

- Per sottrarsi alla stabilità di una relazione. Alla noia della routine.

Lei era salita di due quadrati. Naima seduta a terra, le gambe incrociate.

- Una donna è diversa. Noi sappiamo essere fedeli. Se vogliamo.

Lei era salita fino all’ultimo quadrato, dove poteva toccare il soffitto, se si sporgeva allungando il

braccio.

- Scendi. O preferisci che ti raggiunga io?

Ma lei non aveva risposto. Guardava giù, dove Naima era piccola. Una nanerottola. Tutto diverso,

da lì. Forse era tutto diverso comunque. Bastava cambiare prospettiva.

SEDICI

Inutile. Dopo un po’ che non le prende, la Licia entra in astinenza. E se le va a cercare.

- Allora, bel tomo. - ha iniziato.

E a me, bel tomo non lo dice nessuno. Nemmeno lei.

- Dimmi pure. - mi sono messo in posizione.

E lo sa, che se mi metto coi pugni chiusi che battono uno contro l’altro, prima o poi le battono sul

grugno.

- Mi hanno riferito che ci sono certe donnine, nella ronda...

- Dài, che novità. Sì, è vero. Certe stanghe che devono venire in ronda per caricare.

- Fa’ pure lo spiritoso.

- Non dovrei?

- Parlo sul serio.

- Ah. Vuoi dire che vuoi prenderle sul serio. O sul muso?

- Marè, così non va bene. Il nostro rapporto è da rivedere.

E qui c’entra lo zampino delle comari. Cioè delle clienti.

- Mi sa che, se continui con ‘sto tono, va a finire che hai da rivederti i connotati.

- Assì? E come mai?

- Perché te ne faccio un fracco. Non te li ricordi già più, gli occhi gonfi?

- Marè, non ci provare, che stavolta finisce malaccio.

- Per te, di sicuro.

- Per te, mio caro. Gli occhi me li hanno aperti le mie amiche.

E questo davvero è stato troppo.

- Lo immaginavo. Perciò è meglio se te li chiudo per una settimana.

E ho cominciato a menare da orbi, tanto per stare in argomento. Si è difesa, la schifosa. E anche

quello devono averglielo consigliato le amiche. Così mi sono incazzato ancora di più e l’ho menata

come un uomo. Come se stessi menando un uomo, dico. Perché bisogna ammetterlo, e questo

nessuno lo può negare, che con la Licia faccio un minimo di attenzione. Per dire, mica la colpisco

sotto la cintura. O sulle tette. Ma quel che è troppo è troppo. E quel giorno mi è scappato un diretto.

Dritto sul naso. Ho vinto per kappaò tecnico.

Quando ma’ e pa’ sono rientrati, si sono guardati un attimo. C’era sangue dappertutto, che manco

una macelleria. La Licia col naso coperto di garze garzine garzone, che se ne stava morta sul letto.

E io nero in faccia, che manco un nero vero. Alla fine, è riuscita a piazzarmene uno sullo zigomo.

La schifosa.

- Cazzi loro. - ha sentenziato mio padre.

E finita lì.

Erano entrati cantando. Una canzone degli U2 storpiata dalle risate. Lei aveva paura. Non lo

avrebbe mai ammesso, ma aveva paura. Facile che fossero ubriachi o strafatti, no? Aveva rivolto gli

occhi in alto, a lui. L’ombra alla finestra. Lui. Si era chiesta se sarebbe intervenuto in caso di

pericolo. E perché, poi? Ma avrebbe almeno chiamato la Polizia? Si era morsa le labbra, a quel

pensiero. Lei che sperava nella Polizia.

Al bordo, li avevano salutati con un grido, sventolando le mani. Loro non avevano risposto. Ma lei

tremava. Era nuda. Come Giosua. La fragilità della pelle esposta. Poteva succedere di tutto. Di tutto.

E all’improvviso li aveva detestati. Per quella paura. E aveva desiderato vederli sconfitti.

- Rivestiamoci. - aveva bisbigliato Giosua.

Lo avevano fatto in fretta, simultaneamente. E di nuovo lei aveva guardato in su, verso la finestra.

- Nessuno ci aiuterà. Dobbiamo arrangiarci. - aveva detto Giosua.

- Che ne sai?

- Un guardone non interviene. Un guardone guarda e gode.

Era avvampata nel buio, al pensiero che Giosua aveva sempre saputo. E aveva sempre taciuto.

- Perché non me l’hai detto prima? - aveva chiesto stizzita.

- Cosa?

- Di lui. - aveva accennato in alto con il mento.

- Cosa c’è da dire?

- Che lo sai. Che lo hai sempre saputo.

- Cambiava qualcosa?

Li avevano interrotti i tuffi. Lo spumeggiare dell’acqua in ondate irruente. Le grida.

- Idioti. Arriverà qualcuno. – aveva ringhiato Giosua.

- Meglio.

- Meglio un corno.

- Almeno ce li facciamo fuori.

- Se succede che fanno fuori anche noi?

- Bastardi! - aveva gridato lei.

Si erano zittiti. Ridevano, fissandola. L’acqua che si calmava.

- Dici a noi? - aveva domandato Kamal.

- A chi, se no?

- Ci sarebbe da discutere, su quel termine.

- Andate a discutere da un’altra parte. Ci rovinate tutto.

- Noi?

- È il nostro mondo e voi lo state rovinando.

Kamal si era avvicinato a nuoto.

- Anche su questo ci sarebbe da discutere. Siamo noi a rovinare il mondo?

- Il mio, sì.

E si era resa subito conto dell’errore della sua risposta.

- E il tuo? - Kamal infatti aveva chiesto a Giosua.

- Anche.

Kamal aveva chinato la testa, appoggiando il viso sulle mani ancorate alle piastrelle. Gli altri si

erano avvicinati nuotando adagio.

- Siete fuorilegge tanto quanto noi, qui dentro. - aveva detto uno.

- Vaffanculo. - aveva sibilato lei.

- Una signora non parla così.

- Ne conosci tante, tu.

- Hai ragione. Qui da voi non ne ho conosciute molte. - aveva sghignazzato quello.

- Allora tornatene al tuo paese.

- Se potessi, lo farei.

- È che stai meglio qui. Fai quello che vuoi, qui.

- Basta. Volete litigare. E noi no. Dovete ammettere che noi non veniamo a rompervi le scatole. –

era intervenuto Giosua.

- Si vive tutti insieme, fratello.

- Non sono tuo fratello.

- Siete dei selvaggi, dei primitivi. - li aveva investiti lei.

- Oh, davvero? - ridevano forte.

- Non sapete comportarvi, mai.

- Mentre tu e il tuo amico…

- Fatti i fatti tuoi.

- Ma tu ti fai i miei.

- A casa tua, no.

- Lui vuole dire questo: che per cannarsi o rotolarsi nell’erba non c’è bisogno di essere italiani o

marocchini. – si era intromesso Kamal.

- È un linguaggio universale, capisci? - aveva ridacchiato l’altro.

Poi si erano allontanati battendo i piedi, spruzzandoli. Kamal era rimasto ancora un attimo a

guardarla. Quindi aveva raggiunto gli altri, sull’altra sponda. Avevano nuotato avanti e indietro per

un’ora, ridendo, scherzando nella loro lingua. Ignorandoli. Poi erano usciti dalla vasca, rivestendosi.

E si erano inchinati nella loro direzione, prima di raggiungere la recinzione di corsa e scavalcarla,

riprendendo a cantare quella canzone. Andandosene.

- Bisogna risolvere. A qualunque costo. – aveva mormorato lei.

DICIASSETTE

Il Fufi ha l’orologio. Di sicuro. Dunque, sbafa la pappa tranquillo. Si accuccia sulla sua brandina e

si addormenta. Arriva l’ora ics – parola di mio padre – e chi lo tiene più. Una bella sbadigliata e giù

dalla branda. Si piazza davanti alla porta e mi fissa.

- Si va, si va. - gli dico.

- Guarda l’intelligenza degli animali. - ha detto una sera ma’.

- Sarebbe. - ha chiesto pa’.

- Sa che deve uscire. Mica nessuno gliel’ha detto.

- Ci va una scienza, a capirlo. Esce tutte le sere.

- Anche tu esci tutte le mattine, ma se non ti butto io giù dal letto, mica ti alzi.

- Grazie tante. Io vado a lavorare, lui a divertirsi.

- Divertirsi. Povera bestia. È un lavoro anche il suo.

- Come no. Ieri notte ha catturato un delinquente. Vero Marè? - mi ha schiacciato l’occhio mio

padre.

- Il Fufi è il beniamino di tutti. – ho annuito.

- Anche delle donne? - si è permessa la Licia, ancora piena di lividi.

Bisogna dire una cosa. Che corteccia. Battila finché vuoi, risorge che manco Lazzaro.

- Soprattutto delle donne. Le figone vengono apposta in ronda per lui.

- Ah. Credevo per il padrone. – ha osato.

Era ora anche per lei. Ma di prenderle secche. Lei ha l’orologio segnabotte. Quando si avvicina

l’ora ics – lividi in via di estinzione – fa in modo di procurarsene altri.

- Per il padrone non c’è pericolo. Lui è un somaro, mica un cane. - ha riso ma’, per sdrammatizzare.

Mio padre ha ridacchiato. Io ho abbozzato. La Licia è rimasta seria. Proprio voglia di botte, ma

mica posso sempre perdere tempo.

Intanto il Fufi ticchettava con le unghie, per mettermi fretta.

- Dài, amico, la notte è lunga. - gli ho detto.

- E le lingue pure. - ha aggiunto la Licia.

Mia madre è diventata viola.

- Tipo. - ho affrontato quella specie di moglie.

- Qualcuno dice che hai un debole per le bionde.

- Difatti sto con una bruna.

Qui c’era di mezzo la linguaccia del Domenico. Un bell’amico davvero. Spione del diavolo.

- Sempre così. Vi mettete con le brave ragazze, ma sgamate le altre.

- Le bionde non sono brave?

- Non ho detto questo e mi hai capita.

- Sai, Licia, io ho capito una cosa. Che tu hai voglia di prenderle secche.

Mia madre ha alzato le braccia.

- Per carità!

- Sentitemi bene, voi due. A casa vostra fate quello che vi pare. A casa mia portate rispetto. – si è

imposto pa’.

La Licia si è indispettita, ma non ha osato protestare. Le scoccia, che le ricordino che non è a casa

sua. Ma, d’altra parte, le viene comodo essere difesa. E a me viene comodo che tenga la boccaccia

chiusa.

- Si va. – mi sono rivolto al Fufi.

Lui ha roteato sulle zampe posteriori, tipo ballerina.

- Guarda quant’è vecchio e malandato! - ha esclamato pa’.

- Come gli uomini. Se qualcosa vi entusiasma, ringalluzzite. – ha borbottato la Licia.

E l’ultima parola l’ha detta forte, lanciandomi un’occhiata. Le avrei lanciato uno schiaffone. Invece

ho preso il guinzaglio e l’ho agganciato al collarino. Il Fufi non stava più nella pelle. E nemmeno io.

Finalmente si usciva.

Naima era tesa dalla forza di gravità. Si spostava lungo il muro appesa agli anelli.

- Li ho avvitati io, uno a uno.

Lei era sdraiata su un fianco. La testa in una mano. Il gomito indolenzito.

- Esercizio. Nient’altro. - Naima si lanciava verso l’anello successivo.

Dondolava, raccoglieva le ginocchia al petto, allungava le gambe in avanti e restava così.

- Ho l’impressione che Giosua sia dalla loro parte. - aveva detto lei sottovoce.

Naima era scesa con un salto leggero. Si era accovacciata di fronte.

- Non è un’impressione. Sono sempre dalla stessa parte. Il fatto di essere uomini.

- Non è mai successo. Con molti non va d’accordo.

- È diverso. Quello è un branco a sé.

- E lui che c’entra?

- Gli piacerebbe. Ne sono convinta.

- E io?

Naima aveva sorriso, sfiorandola con i polpastrelli. Un tocco lieve, che l’aveva fatta rabbrividire.

- Tu. Tu sei con me. Non ti basta?

- Voglio risolvere la faccenda. Voglio eliminarli dalla mia vita.

Naima aveva ritratto le mani.

- Eliminare.

- Esatto. Non li voglio più vedere.

- Per questo basta chiudere gli occhi. O evitare la piscina.

- Non volevo dire quello.

- Et alors?

Lei si era alzata ed era andata alla spalliera. Attaccata con le mani, aveva slanciato le gambe, prima

una, poi l’altra.

- Questione di allenamento.

- Esatto. – si era avvicinata Naima.

- Questione di abitudine.

- Sì.

Naima aveva posato i palmi sulle sue cosce. Fissando i suoi occhi. Stringendola. Le mani

scivolavano ad avvolgere i muscoli. Poi, come avessero vita propria, s’insinuavano tra le gambe,

slacciavano i pantaloni. Lei si era lasciata cadere. Una davanti all’altra. I respiri che acceleravano.

Le dita delicate che frugavano nel suo sesso. I suoi occhi che si chiudevano in un sospiro.

DICIOTTO

L’appuntamento sul ponte Isabella.

- Si va per ville, signori. - ha detto Orlando.

Igor ha fiutato il Fufi da lontano, accucciato ai piedi del suo padrone. Il Fufi tirava da fermo,

fischiando con tutta l’aria che aveva nei polmoni.

- Dammi, vuoi?

Roberta. Le ho ceduto il guinzaglio senza parole. In effetti la stavo cercando tra gli altri, ma non

vedevo né lei né Gilda.

- Ehi, leone! - ha riso Gilda accarezzando il Fufi.

- Signore, buona sera. - si è inchinato l’Adelaide.

È diventato più coglione, da quando abbiamo conosciuto quelle due. L’inchino. Quando mai. Gilda

ha scosso i capelli. Roberta sorrideva al Fufi e lui, quel grandissimo ruffiano, le faceva gli occhi

dolci.

- Sei un cagnolone da meraviglia. - gli ha bisbigliato.

Lui scodinzolava talmente che temevo se la staccasse, la coda.

- In marcia! - ha gridato il solito rompiballe, che già ci guardava di storto.

- Dobbiamo battere i tacchi? - ha chiesto l’Adelaide sorridendo a Gilda.

Lei ha riso forte.

- Basta camminare senza fare gli stronzi. - ha risposto quello.

- Cosa vuoi da me? - ha detto mio cognato.

Ci siamo messi in marcia. Anche a noi avevano dato il giubbotto catarifrangente e il berretto

amaranto. Beh, mi sentivo importante, poco da dire. Dai balconi ci guardavano sfilare. Le

automobili si sono fermate sul corso Moncalieri, anche se avevano il verde. Solo per lasciarci

passare. Abbiamo guadagnato la strada della collina. I passi che rimbombavano.

- Se riusciamo a cadenzarli, sembriamo davvero un plotone. - ha ghignato l’Adelaide.

Gilda si è sganasciata.

- Quello d’esecuzione, ci andrebbe. - ha commentato lo stronzo davanti.

Sempre il solito.

- Dici per me? - lo ha sfidato l’Adelaide.

Nessuna risposta. Ho dato un’occhiata a Roberta. Procedeva con mille attenzioni per il Fufi. Manco

mezza per me. Minchia, sono io il padrone del Fufi, no?

- Sono geloso. - le ho mormorato.

- Vuoi tenere il cane?

- No. Voglio almeno un’occhiata anch’io, ogni tanto. Guardi solo lui.

Mica ha sorriso. Ha proseguito fissando avanti. Un nastro nero nei capelli, che risaltavano di più. E

anche gli occhi.

- Com’è che vi siete decise per la ronda? - ho domandato.

- E voi?- -lei di rimando.

Se era la Licia, già avrei pensato a una sberla. Ma era Roberta.

- Be’, devo dire che siamo preoccupati per tutta questa criminalità.

L’Adelaide si è girato un secondo a guardarmi. Quando mai?, voleva dire.

- Questa, quale? - ha chiesto Roberta.

- Quante ce ne sono?

Lei non ha risposto subito.

- Ma sei sicuro di uscire proprio per quel motivo?

- E per quale, altrimenti?

Si è fermata a fissarmi. Che begli occhi. Due stelle luccicanti.

- Ma mi prendi per fessa?

Poi ha ricominciato a camminare. E chi si credeva, quella?

- Scusa, ma tu mi fai parlare e mica dici perché tu esci di ronda. - ho detto.

- Vuoi saperlo?

- Certo.

- Perché ne ho i coglioni pieni di tutto.

Bella risposta, ma io ne sapevo quanto prima.

- E quindi?

- E quindi esco, per ammazzare la notte.

Eravamo gli ultimi, io e Roberta. Davanti c’erano l’Adelaide e Gilda. Ridevano e parlavano fitto.

Quei due procedevano bene.

- Che parola, ammazzare la notte. - ho detto.

- È la parola giusta. La vorrei saltare a piè pari.

- Ma perché non ti piace? Hai paura del buio?

- Ho paura dei fantasmi.

- Ma non esistono! - ho esclamato un po’ troppo forte.

Si sono girati in molti. E finalmente si sono rigirati.

- Dico, credi davvero ai fantasmi?

- Io li ho. - ha risposto.

- Ragazzi, adesso silenzio assoluto, o svegliamo qualcuno. - ha detto Orlando passando vicino alle

file.

Non ci ha degnati di sguardi particolari, me e l’Adelaide.

Insomma, tra le ville della collina. Si scorgevano i tetti o soltanto i giardini. Parchi, quelli. Cancelli

alti con le punte aguzze. Qualche cane abbaiava. Le finestre occhi ciechi. Un lume in qualche

angolo.

- Visto, Marè? Noi poveri proteggiamo i ricchi. – ha ghignato l’Adelaide.

Gilda ha riso con una mano sulla bocca.

Roberta no, lei non ha riso.

- Credi che siano armati?

- Ma scherzi? - aveva detto Giosua.

Però poi aveva abbassato un po’ la testa, senza fermarsi.

- Potrebbero, no?

- Ma no.

- Chi te lo dice?

- Dài, sono ragazzi come noi. Figurati se vanno in giro armati.

- Non sono ragazzi come noi.

Giosua aveva sospirato.

- Senti, anche a me stanno in culo, ma hanno la nostra età. Okay?

- Okay cosa?

- Dài, non litighiamo tra noi. Ignoriamoli.

- Sì? Io mi metto a nuotare nuda. Li ignoro, sì?

Era rimasto in silenzio, mentre svoltavano nella via deserta.

- Ascolta. Hai ragione. - le aveva messo una mano sul braccio.

- Sì?

- Ho pensato. Hai un costume?

- Cosa?

- Dico, mica ci sono sempre. Non tutti, dico. Quando ci sono tutti, puoi nuotare in costume.

L’aveva fissato a bocca aperta. La rabbia che cresceva come una marea, pronta a travolgerla.

- Vaffanculo vaffanculo vaffanculo.

Lo aveva mollato lì, sul marciapiedi, arrampicandosi veloce, strappando di nuovo i jeans, saltando

nell’erba, il gatto che sfrecciava tra gli alberi, correndo alla vasca, togliendosi tutto di dosso,

tuffandosi. Sprofondando a occhi chiusi. Gambe divaricate, braccia spalancate. Riemergendo. Le

stelle su in alto. La luna gonfia. L’acqua che sciabordava nelle orecchie. La figura immobile alla

finestra.

Uomini. Uomini. Hommes, seulement des hommes.

DICIANNOVE

E ci mancava solo lui. Lionello. Il Tirabaci. Un boccolone biondo che fa impazzire le donne,

mettendole tutte d’accordo. Le madri, perché lo vorrebbero come genero.

E non solo – parole di mio padre.

Le figlie, perché lo vorrebbero come marito.

E non solo – ripetizione ammiccante di mio padre.

- L’uomo ideale. - dice ma’.

- Sì? - la spizzico.

- Essì. Lo avessi io, un figlio del genere.

- E invece ne hai uno degenere. - sghignazza pa’.

- Niente da ridere. Niente da ridere. – mugugna lei.

- Siamo concordi. C’è da piangere. – s’intrufola la Licia.

- Hai voglia di piangere? - le domando.

- Per carità! - urla ma’

- Marè, ma possibile che devi essere tanto scioperato? - ci prova pa’.

- Abbi pazienza, romeni e compagnia bella mi rubano il lavoro.

- È che uno non dovrebbe gridare ‘scappa lavoro, che io arrivo’, eh? - infierisce ma’.

- Smettiamola. Sono momenti difficili. Vedete quanta gente in cassa integrazione o licenziata

dall’oggi al domani. - pa’tenta di rappacificare la famiglia.

Macchè rappacificare, con quello lì tra i piedi. Lionello, dico.

- A prescindere che è un brutto momento per tutti. Non date la colpa a Marè. – ha detto il Sommo.

- Grazie. Tra uomini ci capiamo. - ho annuito.

Ma a prescindere, che c’azzecca?

Ma’ preparava la moka, sorridendo all’uomo ideale.

- Brava, signora. Il calumet della pace nostrano. - le ha reso il sorriso il Tirabaci.

Ma’ non ha capito, povera donna.

- Caluchè? - ha domandato.

Il Dotto ha di nuovo sorriso. Io l’avrei buttato fuori a calci. Ma chi si credeva?

- Ma’, come gli indiani. - le ho detto, incasinandola ancora di più.

Difatti lei ha aggrottato la fronte, la moka tra le mani, che a ‘sto punto non sapeva che farne.

- Insomma, la pipa che fumano nei film, quando fanno la pace, no? - si è spazientito pa’.

- Ah! – lei ha continuato a preparare il caffè.

- Marè, scusa, ma perché non ti proponi a qualcun altro? - mi ha domandato il Grande.

E tu, perché non ti fai i cazzi tuoi?, c’era da rispondergli.

- Bravo, bella domanda. - ha detto la mia specie di moglie.

- Brava, bella risposta per prenderle subito. - ho restituito.

- Davvero? Avresti il coraggio, davanti a Lionello?

- Non è coraggio. È autodifesa. - mi sono alzato dalla sedia.

- Misericordia, davanti a Lionello! - ha quasi pianto ma’.

- A che santo ti sei votata? - ho chiesto.

- Non ci sono santi, per noi. - ha piagnucolato la stronza.

- Comunque, Marè. Perché non ti metti coi tuoi? Guarda che rende bene. – Lionello mi ha fermato

con una mano.

Anche lui è in piazza. Banco dei formaggi.

- Sono già in tanti. - mi sono giustificato.

- Mica vero. Mica disturbi. Anzi. – ha detto pa’.

E col cavolo. Alzarsi alle quattro del mattino. Mettere su il banchetto. Aggiustarci sopra frutta e

verdura. Pulire dal marcio. Scartare l’appassito. Sopportare la gente. Farsi un mazzo tanto sempre

dando ragione a tutti. Rompersi la schiena a togliere tutto. Rompersi i marroni con i rompimarroni.

E tornare a casa, per ricominciare il mattino dopo.

- Già, comodo. Lui preferisce farsi mantenere dalla moglie. - ha detto la fessa.

- Chi è che mantieni tu?

- Misericordia! - ha gridato ma’.

- Tu, al massimo, mantieni la depilatrice. Sai quanti soldi per farsi pelare la figa? – mi sono girato

verso Lionello.

Lui ha riso chinando gli occhi. Il Discreto.

- Dico, Marè. A prescindere. Tu non devi abbatterti. Devi reagire.

E chi si abbatte, scemo?

- Mica si abbatte, lui. Lui batte. - ha sorriso la Licia.

Ma lo vedi che se le merita?

- Tu, Lionello, la picchi Rossella? - gli ha chiesto mielosa.

Lui non ha risposto, rimestando il caffè. Il Magnanimo.

- Su, prendiamo il caffè in allegria. - ha proposto ma’.

- C’è poco da stare allegri. - ha brontolato la Licia.

- Ma non te lo ricordi dov’è la porta? - le ho detto.

- Su, Marè, non davanti a Lionello. - ha implorato ma’.

- Tu, Lionello, non bisticci mai con tua moglie? - ho domandato all’Esimio.

- Ma si capisce, che bisticcio! - ha esclamato tutto contento di darmi ragione, il Generoso.

- Visto?

- Marè, i tuoi bisticci lasciano il segno. Sempre. - ha seguitato la stronzissima.

- Misericordia di Dio!

- Non è che porta sfiga, nominare l’Altissimo a ‘sto modo? - si è incupito pa’.

Io ho riso. Il Benevolo ha sorriso.

- E comunque. Lui può chiamarla moglie, la Rossella. – si è permessa la Licia.

- Vuoi che ti chiami moglie? Moglie. - l’ho accontentata.

- Lui l’ha sposata, la sua donna. Mica come te, che non vuoi responsabilità.

- Difatti sei in casa mia, tanto non voglio responsabilità.

- Sono in casa tua e pago.

- Cosa fai tu?

- Mangio a sbafo, io? Io lavoro.

- Quindi sono io a mangiare a sbafo?

- Ma che dite! - ha gridato mio padre.

- Marè, sei giovane e robusto. Mettiti in società con i tuoi. Fate soldi a palate. La gente avrà sempre

bisogno di frutta e verdura. - ha sentenziato l’Egregio.

- Ha ragione. - ha annuito ma’.

Sai che pensiero profondo.

- A prescindere dal contingente, tutti devono mangiare, dal poco al tanto.

Nessuno c’aveva capito un cazzo, ma tutti dondolavano la testa avanti e indietro. Io no.

- Vero. - ha detto pa’.

- “Questo è un uomo. - ha sospirato la Licia.

- Però. C’avevo mai pensato, che la gente mangia. – ho meditato a voce alta.

Mio padre ha riso. Lionello ha sorriso, ovvio. Il Sapiente.

- Ma che figlio mi ritrovo. - si è sconsolata ma’.

- E io che dovrei dire? - ha domandato la Licia.

- Tu, più stai zitta, più fai affari. - le ho suggerito.

- Tu non faresti un affare manco ti cucissi la bocca. - ha ribattuto.

Come dire che sono un incapace. E lì, Tirabaci o non Tirabaci, le ho tirato una pizza come si deve.

Mica è caduta dalla sedia. No. L’ha tenuta su il Boccolone d’oro. Pure i riflessi pronti. Tutto un

pregio, lui. A prescindere.

Budokon. Volteggiava nell’aria scalciando. Leggiadra, ma pericolosa.

- Se ti difendi, non si avvicinano.

- Loro.

- Oui, loro. Les hommes.

- Hanno paura di te.

- Non c’è bisogno di mettere in pratica, se non sei costretta. Basta che sappiano che non sei indifesa.

- Non attaccano, dici.

- Non ci provano. Garantito.

Ancora scalciava, ruotando su se stessa. Saltava in lungo a gamba tesa, l’altra piegata indietro.

Cadeva soffice, le piante dei piedi morbide.

- Prova. Devi provare.

Lei non si era mossa. La osservava. I movimenti lenti e d’un tratto veloci. Un fulmine. Poi

immobile all’improvviso, il respiro trattenuto a stento.

- Non credo che serva a molto. È tutta scena. - aveva detto d’un tratto.

Naima si era fermata, raddrizzandosi lentamente.

- Come?

- Se hai in mano una pistola è meglio. - aveva detto lei.

Naima si era messa a piedi uniti, adagio. Le braccia abbandonate lungo i fianchi.

- Non puoi un cazzo contro due o più uomini. - aveva insistito lei.

- Puoi non lasciarli nemmeno avvicinare.

- Balle. La forza bruta si batte con la forza bruta.

- Ma cos’hai?

- Io volo per aria e, quando atterro, trovo loro che mi afferrano, che…

Non aveva terminato la frase. Si era alzata da terra di scatto.

- Balle, Naima. La forza, ci vuole. Quella vera.

VENTI

Per dire, l’ingratitudine umana. E con tutto il rispetto. Mia madre. Come ho trovato il Fufi.

Ero insieme a quell’invornito di Tano. Ragazzini tutti e due. Tutti e due annoiati dalle vacanze

estive. I compiti da fare che manco ce lo sognavamo. Un caldo da schiattare. Un Jaguarino solo

soletto davanti al bar dei Turchi.

- Tanto è già rubato, no? - mi ha detto Tano.

- Giusto.

E me lo stavo filando con le pinzette di sua invenzione. Che lasciamo perdere.

- Cosa state facendo? - ha detto la voce.

Ora, Tano doveva fare da palo. E invece si faceva una canna. Tutti e due a spron battuto, con quello

dietro che urlava ‘fermi fermi!’. Col cavolo. Poi Tano ha attraversato. Le auto che inchiodavano. Il

tram che scampanava. I clacson impazziti. Ma ce l’ha fatta a seminarlo. Così quello era dietro di

me.

- Fermo!

Stai fresco.

Ansimava, ma correva come un dannato. E non mollava. Prima o poi molla, pensavo per farmi

coraggio e correre più forte. Siamo arrivati alla vecchia ferrovia, quella di Barriera Milano. E io giù

dalla scarpata, tutta rovi e erbacce. Figurati se mi segue. E invece mi ha seguito. Le gambe graffiate

e torturate dalle ortiche. Mannaggia ai pantaloncini corti.

- Fermo!

‘Sto cazzo.

In definitiva, un dolore atroce al fianco sinistro. La milza che scoppia, diceva sempre ma’. Ho

rallentato. Quello pure. Allora ho deciso il tutto per tutto. Mi sono tuffato nella discarica. Una puzza

da svenire. Topi e cornacchie che si azzuffavano. E l’ho visto. Un quattrozampe millefiori rachitico

alto una spanna e mezza, circondato da certi ratti. E lì mica scherzano. Per dire, i gatti non si

arrischiano. Girano al largo, altrimenti li spolpano vivi. Insomma, guaiva e tremava. Ho dovuto

prendere a calci le pantegane. L’ho raccolto.

- Fermo.

Anche lui aveva la mano premuta sul fianco.

- Ti scoppia la milza, sai? - gli ho detto.

- I tuoi genitori?

- Stanno bene, grazie.

- Bravo, sei spiritoso. Adesso andiamo a trovarli.

- Non è il caso di disturbarli.

- Mica li disturbiamo. Saranno contenti di rivederti.

- Ho i miei dubbi.

- Anch’io, ma tanto vale tentare.

- E tentare solo tu, mentre io ti aspetto in strada?

- Meglio se ci sei anche tu a presentarmeli.

- Mia madre è una strega. Se ti acchiappa il malocchio…

-Forza, bamboccetto.

Ora, a quei tempi, ma’era ancora più forte di me. Mollava lecche da tramortirmi.

- Che ha fatto? - ha chiesto agguerrita appena ci ha visti.

- Tentato furto e resistenza a pubblico ufficiale.

- Ma sei in borghese. - lo ha redarguito.

- E di suo figlio che mi dice?

- Che è un deficiente. Farsi prendere.

- Non doveva scappare.

- Sarà mica scemo.

- No, ma è sulla buona strada per diventare un delinquente.

Via quello, ho cominciato a cercare l’ultimo angolo di mondo. Lecche da paura. Usavo il cane come

scudo, ma non funzionava. Ma’ riusciva a infilare lecche dappertutto. Di sotto, se lo tenevo alto. Di

sopra, se lo tenevo basso. A destra e a sinistra. In definitiva, le beccavo e basta. Ragion per cui mi

sono chiuso nello sgabuzzino. Seduto sopra un sacco di patate, ho dettato le mie condizioni per

uscire.

- Fuori di lì.

- Se non meni più.

- Non ho nemmeno iniziato.

- Hai visto che ho un cane, no?

Era un casino, che lei voleva un cane.

- Possiamo soffocare, qui dentro. - ho boccheggiato.

- Passami la bestia. Tu puoi asfissiare.

- Lo sai che lo hanno morsicato i topi? Dobbiamo portarlo in fretta dal veterinario.

Silenzio.

- Prima il veterinario, poi ti do il resto. - ha deciso.

Cammino facendo, abbiamo fatto pace. E lo abbiamo battezzato Fufi, dalla fantasia che ci

ritroviamo. Io volevo chiamarlo Pippo, ma non era il momento di impuntarmi. E Fufi è stato.

E, per tornare all’ingratitudine, lei mi rinfaccia di continuo che un cane le dà più soddisfazioni di un

figlio.

Sarà mia madre, ma è anche lei una donna. Per dire.

- Se ci procuriamo una pistola, non li vediamo più.

- Non siamo in guerra. - aveva detto Giosua.

- È una guerra psicologica. Vuoi dargliela vinta?

- Possono procurarsele anche loro, delle armi.

- Se ci vedono armati, basta una volta. Non tornano.

- Chi te lo dice? Magari la prendono come una sfida.

- La dichiarazione di guerra è partita da loro, quando sono entrati nel nostro regno.

Giosua aveva riso. Lei si era inalberata.

- Che c’è da ridere?

- Il nostro regno. Guarda che fa ridere.

- Non avresti riso, una volta.

- Ehi. Lo prendi come un affronto personale.

- Non lo è?

- Sono solo dei poveracci tipo noi, che vogliono nuotare senza pagare.

- Non è vero. Non è quello.

Si era fermato a guardarla.

- Una volta era il nostro regno. Adesso non lo è più, vero? – aveva mormorato lei.

- Dài…

- Per te non lo è più.

- Un bel gioco dura poco. Mica siamo bambini.

- Era il nostro gioco.

- Era un gioco…

- Vi stufate in fretta.

Camminava svelta senza aspettarlo. E lo aveva visto in lontananza. Kamal era là tra gli alberi. Si era

accostato alla cancellata, quando lei aveva sollevato il piede.

- Ti posso aiutare?

- Devi sparire.

Aveva scavalcato. Ancora uno strappo ai jeans. Kamal che sorrideva.

- Fatta male?

- Vaffanculo.

- Non sta bene.

- Cosa?

- Che una ragazza parli così.

- Non sta bene che tu sia qui.

- Se ci sei tu, posso esserci anch’io.

Lei correva guardando in alto. La finestra buia le rendeva un’occhiata indifferente. L’acqua era

increspata dall’aria che stava arrivando dalle montagne. Fresca.

- Profumo di neve. - aveva sussurrato Kamal.

- Come no. Nevica domani.

Si era tuffata, nuda. Nuotando fino in fondo senza fermarsi. Cinquanta metri di rabbia.

Si era aggrappata alla scaletta, per prendere fiato. E li aveva sentiti. Erano in quattro. Stavano

ridendo e non capiva cosa combinavano. Kamal passava da uno all’altro mollando pugni sulla

schiena e in testa. Loro ridevano, accovacciati sul bordo della vasca. Ridevano e Kamal ne spingeva

uno in acqua. Gli altri ridevano di più. Quello si era issato fuori dalla piscina. Poi correva verso la

recinzione, tenendo i pantaloni con le mani. Gli altri tre lo avevano imitato, mentre Kamal gridava

qualcosa nella loro lingua. Il tono tagliente. Quando erano spariti nel buio, Kamal si era diretto in

fretta da lei.

- Esci. - le aveva ordinato.

E, prima che lei potesse dire o fare qualcosa, l’aveva afferrata sotto le ascelle e l’aveva tirata su. Un

gesto inatteso. Inaudito. Inconcepibile. Presa alla sprovvista, si era trovata in piedi, sulle piastrelle

lisce. L’acqua che scivolava su di lei come una carezza sensuale.

- Vai. È meglio se vai. E non guardare in vasca.

Le stava porgendo i vestiti.

- Vai.

- Come ti permetti? - aveva detto lei.

E aveva sferrato un pugno, sicura che si sarebbe difeso. Invece lo aveva colpito in pieno viso.

Kamal era rimasto immobile.

- Come ti permetti? - aveva ripetuto.

Kamal le aveva spinto contro il corpo i vestiti.

- Vai.

Come non sapesse dire altro.

Allora li aveva presi ed era corsa via, guardando di sfuggita nell’acqua. Si era fermata attonita. E

aveva capito.

VENTUNO

Dopo l’incontro a quattr’occhi con Orlando – per dire, perché di occhi ce n’erano sei – eravamo

elettrizzati. Io mi sono sentito lusingato, anche se ero sicuro che fosse una grandissima presa per il

culo. Il fatto di averci notati eccetera, dico. Però non capivo a che serviva, quel discorso. Era

rimasto in sospeso.

- Ci vediamo un’altra volta, per chiarire meglio le posizioni.

Che posizioni, non è chiaro.

- Appunto bisogna chiarire. - sostiene l’Adelaide.

- Ma ti sembra un discorso sensato?

- Quello di Orlando?

- E quale, sennò?

- Marè, mi pari nevrotico, da quando ci ha parlato.

- E magari lo sono. Tu ci hai capito qualcosa?

- Qualcosa che mi piace poco, sì.

- Tipo.

- La faccenda della roba che ammazza.

- Embè?

- Ma tu, sei disposto a uccidere qualcuno?

- Eh, che domanda.

- Eh, che risposta.

- Oh, Adelaide, mi fai il verso?

- Oh, Marè, t’incazzi?

- No che non m’incazzo, ma vorrei sapere cosa ti gira per la testa.

- Io vorrei sapere cosa gira nella sua, di testa.

E ha ragione. Ma ci godiamo, a crederci scelti dal grande capo chissà per cosa. E non ci andiamo

troppo per il sottile, sul cosa. È un po’ di scena giusto per la facciata, la nostra. L’Adelaide lo sa e lo

so anch’io. Fare fregnacce, insomma, giusto per.

- Ma, secondo te, ‘sta proposta la fa a tutti? - mi ha chiesto.

- Ma no. Se prende solo gente che lo ispira…

- E noi che gli ispiriamo?

- Fiducia. Affidabilità. Sicurezza.

- Marè, mi sa che ci beviamo il cervello.

- Per quello che abbiamo da fare…

All’Adelaide hanno consigliato – consigliato – di cercarsi un altro posto. È tra i pochi che fa causa

all’acciaieria. Chiamala acciaieria. Una rosticceria, è. Si sono salvati in pochi, talmente pochi da

non spaventare nessuno. Però si rompono lo stesso le balle, i signori, a sentirsi chiamare in causa.

Per cui. E l’Adelaide, poveraccio, che insisteva sempre perché lavorassi con lui, adesso è

mortificato. Oltre che terrorizzato. Incubi di notte e ricordi di giorno.

- Non è un buon motivo. - ha comunque scosso la testa.

- Stiamo discutendo di nulla. Non ci è ancora chiaro un bel niente.

- Giusto. Quindi.

- Quindi stasera si va di ronda, come niente fosse, no?

- Sì. - ha sorriso.

Lui e Gilda vanno a gonfie vele.

- Guarda che Conce non la mollo. - mi ha rassicurato.

E ci credo, c’era da dirgli, come mangi sennò? Gli ho dato una pacca sulla spalla.

- Perché, io la mollo, la Licia?

Un po’ di solidarietà maschile.

- Chiusa per atti vandalici. A tempo indeterminato.

- Vergognoso. - aveva sospirato Naima librandosi nell’aria.

Il nastro rosso serpeggiava intorno al suo corpo, snodandosi sulla testa e attorcigliandosi ai suoi

piedi. E tutto questo con due dita.

- La comunità ci rimette, per colpa di una minoranza.

- Ma come gli vengono in mente? - aveva riso Naima.

- Sono incivili.

- Senz’altro. Ma non solo.

- Maleducati. Volgari.

- Cattivi. - aveva sibilato Naima stringendo gli occhi.

- Sì, anche cattivi.

- Surtout. Soprattutto cattivi. Un danno a chi li ospita, a chi si fa carico delle loro persone.

- Sono stronzi e basta.

- Troppo buona. Troppo semplice. Non devono cavarsela così a buon mercato.

- Non la pagheranno.

- Ma perché?

- Nessuno li denuncerà.

- Ma tu hai visto chi sono.

- Certo. Io che, come loro, ero lì di sfrodo.

- La mossa giusta per essere dalla parte giusta.

- Cazzo dici?

Naima rideva arrotolando il nastro.

- Cagare in acqua è un gesto dispregiativo. Gliene frega a nessuno, del danno. La piscina chiusa

qualche giorno e tutto torna come prima.

- Il comune ci rimette. Non incassa.

- Sai al comune cosa importa.

- E allora.

- Allora è il gesto. Un messaggio. Ci caghiamo sopra, alle vostre regole. A voi.

- Quindi.

- Verrà il giorno che cagheranno in testa a chi non è dalla loro parte. Per questo è importante essere

dalla parte giusta.

- E tu, da che parte sei?

Naima si era avvicinata sorridendo.

- Dalla tua parte, sempre. Ti va? - le aveva scostato i capelli dal collo.

Poi l’aveva carezzata con le labbra. Sotto l’orecchio.

- Sempre dalla stessa parte, vuoi?

Lei non aveva risposto. Aveva sospirato chiudendo gli occhi, lei.

VENTIDUE

Aveva le palle girate. O era nel suo periodo. E valle a capire. E non ti sforzare troppo, che tanto è

un’impresa impossibile. Poi vogliono le pari opportunità. E sono sotto l’influsso della luna. O del

flusso. Insomma, nemmeno ha chiesto il guinzaglio. E se n’è stata per i fatti suoi. Da sostenuta . O

da stronza.

- Tutto bene? - ho chiesto, per attaccare discorso.

Muta come un pesce.

- A me doveva capitare l’intorcinata. - ho buttato lì.

- E stammi lontano. - ha risposto scocciata.

- Ohè, chi ti cerca?

- Tu.

La Gilda si è sganasciata dalle risate. Alle mie spalle. Non che mi fosse dietro, no. Al solito, al

fondo della fila c’eravamo io e Roberta. E la Gilda e l’Adelaide appena davanti.

- Le donne… - ha detto forte mio cognato.

- Ce lo ricordiamo, sì?, che siamo di ronda? - ha detto il rompicoglioni di sempre.

- Ce lo ricordiamo, sì?, di farci i cazzi nostri? - ha risposto l’Adelaide.

- Problemi?

Orlando era già lì.

- È che non si può nemmeno scherzare. - ho detto.

- Ragazzi, non si esce per scherzare, con noi.

- Non siamo mummie. - ha detto a voce bassa Roberta.

- Lo so. Me ne sono già accorto. - ha sorriso lui.

- Vorresti dire? – lei lo ha affrontato.

- Le belle donne si notano e si guardano volentieri.

- Perciò.

- Perciò, tesoro, resto del parere che siamo in ronda.

- Se siamo di troppo, dillo pure. Tesoro.

E nessuno dei due abbassava gli occhi.

- In definitiva. È da quando sono entrati questi qua, che è cominciato tutto. – si è impicciato il rompi

marroni.

- Cominciato cosa? - ho chiesto.

- Il casino.

- A me non pare che ci sia casino.

- Siamo gente da casino, noi? - si è risentito l’Adelaide.

- O è per dare delle puttane a noi? - ha chiesto Roberta.

- Insomma, basta. - ha detto Orlando.

- Gli ordini dalli a casa tua. - lo ha rimbeccato Roberta.

- Forse è meglio chiarire il concetto di ronda.

- Chiarisciti il cazzo e smenalo da un’altra parte. Mi hai rotta.

- Non ti ho rotto ancora niente, tesoro.

- Ehi. Non ti permettere. – ho fatto la voce fonda.

- È la tua donna?

- Lo spero.

Poi ho trattenuto il respiro, deglutendo. Evitando di guardare Roberta.

Orlando ha scrollato la testa, allontanandosi. O almeno, tentando di allontanarsi. Il guinzaglio di

Igor lo ha tenuto praticamente sul posto. Gli altri attorno che ghignavano.

- Che frociazzo di un cane.

Il Fufi. Quel grandissimo fetente. Avevano ragione. Si stava inchiappettando il lupo. Certo che non

ci arrivava, ma la figura di merda era quella. E come si dava da fare. La lingua tipo bistecca.

Ansimava che arrivederci all’asma. E ci dava dentro. Mentre Igor fissava il suo padrone con

sguardo implorante.

- Togliamoci di qua. E ci seguano i migliori. – Orlando ha tirato via il lupo.

- Stiamo perdendo di vista la realtà. È una ragazzata e ne facciamo una tragedia.

- Non è una ragazzata. È un gesto di disprezzo.

- Ma quale disprezzo. Ma chi ti mette in testa ‘ste cose?

- Non posso pensarle io, no?

- Mi sembri sciroccata.

- Perché m’incazzo. Se t’incazzi tu, scommetto che è a ragion veduta.

- Ehi, quanto siamo polemiche.

Cercava la sua bocca, tentando di afferrarla. Lei lo aveva spinto via.

- Ci hanno tagliati fuori dal nostro territorio.

- Talmente fuori che siamo qui, difatti. - rideva Giosua.

Avevano scavalcato, saltando giù pesanti. Il gatto che sfrecciava dinanzi a loro, arrampicandosi sul

fico. Giosua tastava la frutta, ne offriva a lei. Poi mangiava da solo.

- Esageri.

Non lo aveva aspettato. La vasca azzurra. Solo il frusciare delle foglie. Si era guardata intorno. In

alto. Alla finestra c’era lui. Lui. Un’ombra. Si era denudata. Passeggiava indolente tra le sdraio

impilate una sull’altra.

La superficie dell’acqua come quella di un lago cristallino.

- Vieni qui. - le aveva bisbigliato.

Anche Giosua era nudo.

- Non essere arrabbiata con me. Ma ragioniamo.

- Cosa c’è da ragionare?

- Se era disprezzo, non ti tirava via dall’acqua. Ha mostrato rispetto. Lui non ne sapeva niente. Una

ragazzata degli amici e paga anche lui.

- Lo difendi.

- No. Penso. Ti ha trascinata via dalla sporcizia. Poteva lasciarti nuotare nella merda.

- Devo ringraziarlo?

- Dovresti. Sì, secondo me, sì.

- Vaffanculo. Sono dei selvaggi e tu li difendi.

- Ne difendo uno. Kamal. Difendo un ragazzo come noi.

Poi lo avevano visto quasi contemporaneamente. Si stava avvicinando. Adagio. Ancora abbastanza

lontano perché potessero rivestirsi o tuffarsi. O staccarsi, scollando la loro pelle, mentre la sua

erezione affondava tra le sue gambe. Lei aveva sorriso.

- Vieni qua. - gli aveva mormorato.

Giosua l’aveva abbracciata. L’aveva baciata. Lei gli aveva leccato il collo sbirciando Kamal. Era

fermo a pochi metri. Li osservava.

- Non guardare lui. Guarda me. Guarda me.

Giosua aveva percorso il suo corpo con la punta della lingua, inginocchiandosi ai suoi piedi.

- Guardami.

Ma lei guardava Kamal, mentre Giosua continua a insinuarsi tra le sue gambe. Lei sorrideva e per

un attimo aveva chiuso gli occhi, scrollando piano i capelli. Di nuovo aveva guardato Kamal. Era

sempre immobile.

- Guardami.

Giosua si era rialzato e l’aveva penetrata stringendo le sue natiche, chinandosi un po’ sulle

ginocchia.

- Guardami.

Ma lei guardava Kamal.

- È eccitante, vero?, davanti a lui.

Lei lo aveva abbracciato forte. E aveva guardato su, verso la finestra.

VENTITRE

Ci ha degnati di un’altra visita, il Magnifico. L’uomo dai mille pregi e zero difetti. Per dire, lui mica

le mette, le corna alla moglie. Moglie vera – come ama sottolineare la Licia.

- Marè, a prescindere, se non ti offendi, vorrei parlare della ronda.

Wow. Informato su tutto, l’Onnisciente.

- Scommetto che conosco chi te l’ha detto. - ho sorriso.

- Mi sa che sbagli, per stavolta. C’è sul giornale.

Vero, verissimo. Non si scrive d’altro.

- E tu, non partecipi alle ronde? - gli ha chiesto ma’.

- No, io no. - ha scosso la testa con disdegno.

- Lui, magari, sta a casa con la moglie. Lui. - ha detto la Licia, che le marcava dal mattino.

- Non è per nessuno, che non mi accodo. - ha precisato il Divino.

Ho sgamato il Fufi e lui ha sgamato me. Con che coda ce l’aveva?

- Bravo. Non segui il gregge, tu. - ha detto la Licia.

Ma sanno di cosa parlano?

- Scusa se mi permetto, Marè. Ma io non sono d’accordo con l’idea delle ronde. – ha proseguito

l’Esperto.

E cacchio me ne fotte?, c’era da dirgli. Invece l’ho fissato soffiando il fumo della sigaretta al

soffitto.

- Vedi, si spostano le pedine dove servono. Sembra un gioco innocuo. Poi, d’improvviso, arriva

l’ordine. E le pedine eseguono, da bravi soldatini. - ha detto lo Scacchista.

Nessuno ci ha capito un cazzo, eppure persino mio padre ha annuito deciso. Teste vuote, ma tutte

tipo cavallo a dondolo. E bocche aperte di ammirazione.

- Sai che non ho capito? - ho avuto l’ardire di pronunciare.

Mi hanno fissato tutti con lo schifo in faccia. Meno lui, ovvio – il Savio.

- Marè, a prescindere che hai compreso benissimo. Rifiuti di accettarlo, come la maggior parte.

- Sarebbe?

- Ci sono le basi per un colpo di stato. E tutti fingiamo di non accorgercene.

Sarei scoppiato a ridere. Ma mi scrutavano tutti – i miei, dico. L’infante demente della famiglia.

Ragion per cui, ho dato una bella tirata alla sigaretta.

- Ma ti pare logico che in una città ci siano più poliziotti che cittadini?

- I poliziotti non sono cittadini?

Mi hanno ri-guardato tutti – tutti – con desolazione.

- Certo che lo sono. Ma tu hai capito benissimo. - ha sorriso il Capopopolo.

Alla fine, ero scemo il doppio. Capivo, ma non capivo di capire. Da rompersi il cranio.

- Marè, pensare è fatica e la gente non ha voglia di pensare.

Grandioso. Cominciava a venirmi mal di testa.

- La sai l’ultima? L’hai letto, no?, il giornale.

No, non lo avevo letto. E me ne sbattevo assai.

- Figurati. Lui se lo fa raccontare, il giornale. – si è inserita la Licia.

Ma lo vedi che se lo vanno a cercare, il bollito?

- Leggilo sempre, Marè. Con rispetto parlando, ti devi fidare soltanto di te stesso. - mi ha

consigliato l’Ottimo.

Ma che era ‘sta ramanzina?

- Insomma. Alla piscina Colletta è successo un fattaccio. Sarebbe da ridere, se non fosse che adesso

se ne sta chiusa per qualche giorno. In attesa del responso dell’ufficio d’igiene. – il Massimo ha

accettato il caffè dalle umili mani di ma’.

E qui ha riso un poco, il Bonario. Una dentatura da cento carati. Pure i denti perfetti.

- A prescindere che ragazzi siamo stati tutti. Qualcuno è entrato di notte e…splash!, ci ha fatto

dentro la popò.

Risatina sguicciando intorno con gli occhi.

- Come sarebbe? Ci hanno cagato dentro? – ha parlato chiaro pa’.

- Che schifo. - ha detto la Licia.

- Che vergogna. - ha commentato ma’.

- Che ludibrio. - ho gridato con la voce in falsetto.

Mi hanno fissato un attimo con misericordia.

- Dico che ci sarebbe solo da ridere, perché è semplicemente una ragazzata. Ma qui ci marciano. -

ha proseguito Lionello.

- Chi? - ho domandato.

- Lorsignori.

- Lor chi?

- Marè, lo sai come terranno sotto controllo la situazione? Manderanno i vigili. Ordinanza del

sindaco in persona.

- Finalmente uno con le balle! - ha esclamato pa’.

Il Tirabaci era scontento.

- Non va bene, no. - ha scosso la testa, l’Infelice.

- Ma come? Cagano in casa tua e tu non reagisci? - ha chiesto pa’.

- È un’occasione in più per imporre il coprifuoco.

- Macchè coprifuoco! Ordine e nient’altro!

Le donne erano tristissime. L’Idolo stava perdendo terreno. Possibile?

- Vi chiedo scusa. Ma quando si chiede l’intervento dell’autorità armata, non va mai bene. – ha

detto lui.

- Dài che novità. E perché la richiedono? Perché le signore vanno troppo a messa o i signori

giocano troppo a carte? Non mi pare. – ho fatto cigolare la sedia.

Lionello mi guardava serio.

- Perché ci hanno rotto le balle. - ho schiacciato la cicca nella tazzina vuota.

Ha aspettato qualche minuto, a rispondere. Rifletteva, il Sublime.

- E chi ci ha rotto le balle? - mi ha chiesto calmo.

- La gentaglia arrivata tipo valanga. Non voglio farmi travolgere. E, se a te sta bene, affoga pure

nella loro merda.

Mio padre ha sbattuto gli occhi un paio di volte. Segno che era stanco e se ne andava a dormire.

Difatti si è alzato, ha salutato e buona notte al secchio. Mia madre ha dato una controllatina alle

unghie, per non dover guardare qualcuno. La Licia mi ha fissato truce, mordendosi il labbro

inferiore. Minchia, ho demolito il suo uomo ideale.

L’unico che mi ha tenuto le parti è stato il Fufi. Ha zampettato fino alla sedia di Lionello e ci ha

pisciato contro.

- Che porco… - la Licia è corsa a prendere lo straccio.

- Che mito. - gli ho strizzato l’occhio.

Al Fufi, dico.

- Vuoi? Dimmi solo che vuoi. Credi sia difficile procurarsela?

Lei aveva pensato. Poi aveva annuito.

- Sì. Sì, la voglio.

- E cosa te ne farai?

- La porterò con me.

- Sempre.

- No, non sempre. Quando vengo qui, nel mio territorio.

Giosua aveva sospirato rollando.

- Finché è un gioco, va bene. Ma parlando sul serio. Il mondo è territorio di tutti. Dev’essere così.

Aveva tirato a occhi socchiusi.

- Non dicevamo che i confini non dovrebbero esistere?

- Ho cambiato idea. - aveva risposto lei.

Giosua l’aveva fissata a lungo.

- Da quando?

- È vietato cambiare idea?

- No. Ma mi stupisci.

- Anche tu mi hai stupita.

- Eddài, ancora con ‘sta storia.

- Ero convinta di avere un complice.

- Un complice.

- E invece.

- Cazzo, ma sai cosa significa, un complice?

- Uno dalla tua parte. Nel bene e nel male.

- E magari uno che ti fa ragionare? O ci prova.

- Sono irragionevole, io?

- Come tutte le donne. Quando vi mettete una cosa in testa…

- Magari ogni tanto la usiamo, la testa.

Giosua si era avvicinato sorridendo. Toccandola.

- Altro, dovete usare. Sempre.

Lei si era negata, piroettando su se stessa.

- La voglio. - aveva detto decisa.

- Anch’io la voglio. - aveva riso Giosua.

- Ho detto che la voglio.

- E in cambio?

- Quello che vuoi tu. – lei aveva risposto sfilando la maglietta.

- Va bene. Sia fatta la tua volontà.

VENTIQUATTRO

- Ma quello è tutto scemo! - ha ridacchiato l’Adelaide.

- Ti pare?

- È fuori come un balcone! Ma quale colpo di stato…

- E vedessi come pendono tutti dalle sue labbra.

- Minchione nato, è.

- Non dirlo forte. Lo adorano, a casa mia.

- Concetta ci ha provato una volta, a osannarlo. Lionello di qua, Lionello di là. Non si prova più.

E lo capisco, mio cognato. È un fastidio, sentirti ‘sto paragone addosso.

- Marè, il guaio grosso è che tu hai a che fare con troppe persone. Cercati due stanze tutte per voi.

- ’Na parola. Adesso, poi, che il vecchio Corio fa il furbo.

- Quello torna a cercarti, vedrai.

Non ne sono sicuro. Fa il giro dei romeni e roba varia. Via uno, avanti l’altro. Li paga un cazzo e

loro sono contenti. A fine mese si bevono la paga.

- Marè, di’ la verità, eh? - se l’è risa l’Adelaide.

- Va bene, anch’io ho i miei torti, ma chi non ha difetti?

- Il tuo difetto si chiama figa.

In effetti c’era stata una discussione, con il Coriolano.

- Fai ancora lo stronzo e ti mollo per strada. - mi aveva minacciato.

- Ma chi fa lo stronzo? - mi ero arrampicato sugli specchi.

- Marè, la baccagli a tutte. Ma possibile?

- Ma che dici?

- Di nuovo ti ho lasciato solo con la padrona di casa e tu, invece di pensare a tirare di pennello sui

muri, ti sei preoccupato di pucciare il tuo, pennello.

- Ma una che ha sessant’anni, non dovrebbe essere contenta se le proponi una botta?

- Non sul lavoro, Marè.

- Ma non sei tu che dici che ogni lasciata è persa?

- Ma non sul lavoro, orcocazzo!

Insomma, ho attaccato il soffitto arrancando sulla scala. Da che pulpito viene la predica. Proprio lui,

che fa la corte a mia sorella.

- Concetta non è sposata. - si giustifica.

- Però sta con mio cognato.

- Quella specie di uomo non è un marito.

- Scusa, Corio, ma tu lo sei, un marito.

- E allora?

- Tu sei impegnato.

- Mica mi disimpegno. Mi piace Concetta e basta.

Che faccia di tolla – parola di mio padre.

- Poi, Marè, tu dovresti essere dalla mia parte.

- Io?

- Certo. Quello picchia tua sorella, mica quella di un altro.

- Tra moglie e marito…

- Ennò! Mica è valido, per loro!

C’era da rispondergli male. Invece me ne sono stato zitto, strisciando il pennello a destra e a manca.

- Comunque. L’occhio ce l’ha di nuovo dritto, Concetta. – ho detto.

- E meno male. Una bella ragazza così. Ma a me piaceva anche con l’occhio storto.

- L’amore è cieco.

- Fesso che non sei altro. Però hai ragione. Con la moglie giovane e carina che ti ritrovi, tu vai a

baccagliarla alle vecchie.

- Giovane sì. Carina, se si aggiusta bene. Ma non sta mai zitta.

- Le donne sono così. Bisogna lasciarle parlare e poi fare come ci va.

- Appunto.

- Ma non sul lavoro, orcocazzo!

In definitiva, l’Adelaide l’ha saputo, il vero motivo per cui. E adesso ghigna sotto i baffi.

- Direttamente da Porta Palazzo con furore.

Le aveva mostrato la pistola. Seduti sul marciapiedi all’angolo del parco, dove il prato declinava

incontro all’oscurità.

- Funziona? - aveva sussurrato lei.

- Certo che funziona.

- Coma fai a saperlo?

- L’ho provata.

- Davvero?

- Vero. L’ho provata.

- È divertente, sparare?

- A me è piaciuto.

- Contro cosa l’hai provata?

- Lattine vuote. Bottiglie.

- Hai sparato a qualcuno?

- No, non ancora.

Lei aveva preso in mano la pistola. Era leggera. Un oggetto subito suo. A pelle.

- Comunque mi è piaciuto davvero. Ti senti…potente.

Lei la girava e rigirava tra le mani. I palmi sudati d’emozione.

- Hai intenzioni serie?

- No. Voglio solo che sappiano che ce l’ho. Che posso usarla, se lo decido.

- E se decidi…

Lo aveva guardato. Stava sorridendo.

- Non ci credi, eh?, che sarei capace?

Giosua l’aveva fissata.

- Purtroppo ho paura di sì. Che saresti capace.

- Purtroppo?

- Ti rendi conto di cosa comporta tirare il grilletto?

- Non ce ne sarà bisogno.

- E se?

- Se? Beh, chi se la cerca…

- E tu? Te la cerchi, tu?

Lei gli aveva sorriso. Improvvisamente felice. L’arma stretta in pugno.

- Io cerco un uomo con cui fare l’amore.

Si era chinata e lo aveva baciato. Giosua non si era mosso, i gomiti puntati nell’erba. Le labbra di

lei sapevano di vaniglia. I suoi capelli gli solleticavano il viso.

- Eccolo, lo hai trovato. - ansimava attirandola a sé.

VENTICINQUE

- Ecco qua.

E io e l’Adelaide siamo balzati indietro. E Orlando ha riso.

- Ehi, che coraggio.

- Mica è questione di coraggio… - si è scusato l’Adelaide.

- La sorpresa. - ho detto.

- Eravamo d’accordo, no?

- Certo. - abbiamo detto insieme noi due.

- Ragazzi, se avete cambiato idea…

- Ma chi ha cambiato idea? - ho chiesto.

Mio cognato fissava le pistole.

- Beretta. Facili e sicure. - ha spiegato Orlando.

- Sicure per chi? - ha riso l’Adelaide.

Era nervoso e lo capivo. A immaginare Concetta con un ferro del genere in mano, c’era da

sbiancarsi i capelli.

- Avete mai sparato?

- Io una volta. A una lepre, col fucile di mio nonno. – ho risposto.

- E l’hai beccata?

- Certo che l’ho beccata.

Era una balla enorme. Non ho mai avuto mira, manco a pregare. Orlando ha riso, guardando poi

l’Adelaide. Quello mi legge nel pensiero.

- No, io mai. - ha ammesso mio cognato.

- Non preoccupatevi. Ci sarà l’addestramento.

- Addestramento?

- Sicuro. Credete che vi manderei allo sbaraglio? I miei uomini devono saper centrare al primo

colpo.

L’Adelaide si è inumidito le labbra. Io ho deglutito.

- Comunque. Ripeto, ragazzi. Se cambiate idea, ditelo. Non c’è niente di male.

- Noi non cambiamo idea. - ho detto.

L’Adelaide mi ha guardato senza parlare.

- Anche tu la pensi così? - gli ha chiesto Orlando.

- Eccome. Ma non ci hai ancora spiegato cosa faremo.

- A suo tempo. Per ora voglio capire se ho scelto gli uomini giusti. Finora non mi sono mai

sbagliato.

- Quanti siamo? - ho domandato.

- Lo saprete a tempo debito.

E cominciava a starmi sulle balle, con tutti ‘sti misteri. Ma la voglia di quella pistola era troppo

forte.

- La teniamo noi? - ho sussurrato.

- Se siete decisi, sì. - ha annuito.

E io ho scoccato un’occhiata a mio cognato.

- Siamo decisi sul serio. - ha detto lui.

Ma si capiva che lo diceva per farmi contento. Orlando ha esitato.

- Sediamoci un attimo.

Riva del Po deserta. Sediamoci. Per terra. Sotto un salice. Manco dei barboni.

- Ho molta fiducia in voi.

- E perché? - ha chiesto l’Adelaide.

Domanda più che legittima, visto che non ci conosce per niente. O meglio, visto che, chi ci conosce,

ha perso anche quella pochissima fiducia che ci aveva concesso. Però non mi è andato a genio, che

lo chiedesse. Non volevo che Orlando s’imbizzarrisse contro di noi. Poche palle: volevo la pistola.

Me ne sono innamorato a prima vista. Tipo una donna. La voglio, senza sapere perché. La desidero

e basta. Tipo Roberta.

- Perché siete tosti. Avere l’iniziativa di una ronda propria, non è da tutti.

Per quel che è durata, la nostra ronda…

- E perché rispondete a tono, tenete testa. Insomma, avete carattere.

Ci ha scrutati, divertito dalle nostre espressioni, che non dovevano essere il massimo

dell’intelligenza.

- Che dici, Marè? - ha chiesto a bruciapelo.

- Dico niente, perché ci capisco niente.

- Bravo. Riservato e prudente.

Allora, gli piacevo se rispondevo a tono e gli piacevo se rispondevo alla cazzo. Mi sembrava di

girare una frittata. E mi convinceva poco.

- Perciò. Sono vostre. – ci ha dato le pistole.

Le abbiamo prese al volo. Le abbiamo intascate veloci.

- Bravi. Decisi. - ha commentato Orlando.

Mi sapeva tanto di presa per il culo. Una sensazione fastidiosa. E quelle armi. Proprio a noi.

- A proposito. Occhio a dove le tenete. In casa, voglio dire. Niente incidenti domestici, mi

raccomando. Chi abita con voi non deve assolutamente saperne. E non deve trovarla nemmeno per

sbaglio.

L’Adelaide ha deglutito due volte, pensando a Conce. Ci avrei giurato.

- Sapete com’è. La vedono, vogliono provarla, ci scappa un colpo…”

- E ci scappa il morto. - ho concluso rivolto a mio cognato.

- Bravo. Sveglio e audace. - ha detto Orlando.

Gli avrei dato un calcio nei coglioni, perché quella era una presa in giro bella e buona. Ma era

troppo panoramica la faccia dell’Adelaide. Pallida. La prospettiva di Concetta con un’arma, mica

gli sconfinferava.

Un samurai. Ecco a chi somigliava. La solennità di un samurai. Era concentrata sul muro di fronte.

Forse.

- Ma tu, uccideresti qualcuno? - le aveva chiesto.

Naima si era voltata lenta, senza spostare i piedi. Le piante ben salde sul pavimento.

- Per legittima difesa, sì.

Si era girata di nuovo verso il muro. Le braccia piegate ad angolo ai gomiti. Le mani tese, le dita

unite.

- E non solo per legittima difesa?- aveva insistito.

Forse non l’aveva sentita. Non un movimento, non la contrazione di un muscolo, nemmeno un

fremito. Invece era balzata davanti a lei. Manco avesse le molle sotto i piedi.

- È a me, che lo chiedi? O a te stessa? – le aveva sfiorato il mento con un dito.

Un brivido le era sceso lungo il collo. Giù. Lungo il ventre. In mezzo alle gambe.

- Ora si scioglie in un piacere liquido, tiepido come il calore del tuo corpo. - le aveva sorriso Naima.

Lei si era tirata indietro.

- Rispondi.

Naima si era raddrizzata, fissandola.

- Ti ho risposto. Piuttosto sei tu, che devi ancora rispondere. A te stessa.

Lei passeggiava per la stanza. La palestra. Una stanza di lusso, con tutti gli attrezzi adatti.

- Mi ha fatto un effetto strano. Non credevo. – si era sollevata sulle parallele.

- Di cosa parli?

Le braccia le tremavano, i muscoli gonfi. Non osava immaginare il suo collo. Le vene sembravano

esplodere. Un calore al viso. La testa coagulata in un grumo ottuso.

- Ho una pistola. – si era lasciata cadere.

E aveva sperato che il tonfo avesse soffocato le sue parole. Forse Naima non le aveva udite.

- Una pistola. - aveva detto invece Naima.

Si erano guardate. Lei aveva annuito.

- Allora fai sul serio.

- Se ce ne sarà bisogno…

- E chi decide se ce n’è bisogno?

- Io, cazzo. Che domanda è?

Naima aveva allungato le braccia.

- Oh, mon trésor nerveux.

- Vaffanculo. - si era allontanata in fretta.

Aveva sbattuto la porta. Respirato a pieni polmoni.

VENTISEI

Quanto ero figo, con la pistola. Davanti allo specchio. Cazzo, se mi donava. Manco 007. James

Bond, e chi era?

- Io l’ho nascosta che manco il Padreterno la trova. - mi ha detto l’Adelaide per la seconda o terza

volta.

- Ohè, confessalo un po’, che te la fai sotto, a pensare Conce con il ferro in mano. - ho riso.

- Quello da stiro, deve usare. E nemmeno quello, se ci sono io.

- Coscienza sporca.

- Senti chi parla.

- Sarebbe?

- Mica conosci una certa Roberta, no?

- Che c’entra?

- Già, che c’entra.

- Guarda che io e Roberta non abbiamo ancora combinato niente.

- Niente?

E lì ho capito che lui, invece. E bravo l’Adelaide.

- Ah, così tu… - ho mormorato.

Non che qualcuno ci sentisse. Eravamo da lui e Conce era al mercato con i miei. Ancora due ore di

pace.

- Be’, già che c’ero. - ha confessato.

- Ma senti…

- Ma tu, davvero non ci hai fatto niente?

- E come potevo? Siamo sempre stati in ronda. E tu…

Lui ha ridacchiato versando le birre.

- Sai com’è. Sono a casa, io. Conce al mercato tutto il giorno…

- Ma senti senti…

Ho bevuto la birra. Bella fresca.

- Marè, se ti serve un alibi…

Bello, avere un cognato così.

- Grazie, ma non so se Roberta ci sta.

- Come sarebbe?

- Non vedi come mi tratta? È superiore, lei.

- Marè, mi pari un bambino, con le donne. Ma lo fa apposta, per farsi correre dietro.

- Sicuro?

- Tu devi corteggiarla.

- E che faccio tutte le volte?

- Il fesso.

- Tu no?

- Gilda è un altro tipo.

- Beato te, che hai una che ride sempre.

- Meglio una stupida che un’intelligente, questo è vero, ma non ti arrendere. Quella non vede l’ora

di arrendersi lei.

- Magari non sono il suo tipo.

- E continua a venire in ronda?

- Magari ha un ideale di giustizia, di…

- Di ‘sta minchia. Marè, sveglia!

- Dici?

- Fatti sotto e vedrai.

Ho annuito. L’Adelaide, niente niente ha già concluso. Io, che sembro tanto furbo, sono ancora al

pian dei babi – espressione di mio padre.

- Credi che ci farà sparare davvero? - ha chiesto all’improvviso.

- Mi sa di sì. Ma non so dove va a finire, tutto il suo discorso.

- Marè, io non c’ho capito un cazzo. Perché se, per caso, è giusto quello che ho capito per sbaglio,

allora non mi piace, ‘sta storia.

- E che hai capito?

- È un po’ fanatico, eh?

- Fanatico?

- Non vedi come si…atteggia?

- Tipo pavone.

- Direi…tipo uomo forte.

Avevo capito benissimo. Ma ho scartato la possibilità di toglierci dalla sfera d’azione di Orlando.

Vorrebbe dire perdere i contatti con la ronda, anche se lui lo ha escluso. Io invece sono sicuro che,

se ci tiriamo indietro, non lo vediamo più. E io non vedo più Roberta.

- Facciamo così. Aspettiamo se davvero ci addestra eccetera. Poi decidiamo. – ho proposto.

- Non è che sarà poi troppo tardi?

- E perché? Siamo noi a decidere, mica lui.

L’Adelaide mi ha guardato annuendo. Ma non l’ho convinto. Figuriamoci. Non ero convinto

nemmeno io.

C’erano andati lo stesso, per dimostrare di non temere niente e nessuno.

- È la volta buona che ci arrestano. - aveva detto Giosua.

Lei non aveva risposto, mettendo la pistola nella cintura dei jeans, nascondendola in parte con il

giubbotto smanicato.

- Ci sarà polizia.

- E perché?

- Come, perché? Ci hanno cagato dentro. Vorranno prendere provvedimenti.

- Scommetto che non c’è nessuno.

Aveva avuto ragione lei. Da lontano si erano fermati a scrutare la zona. I capannoni bui, gli uffici

chiusi, i magazzini spenti. E in mezzo, addormentata, la piscina. E il grande polmone verde del

parco, che traspirava aria fresca.

- Hanno troppo da fare con i pusher. - aveva detto Giosua.

- Non gliene frega niente. Ci potrebbero cagare dentro tutte le notti.

- Mai sottovalutare l’avversario.

Però aveva ragione lei. Non c’era anima viva. Soltanto il gatto li aspettava tra le sbarre della

cancellata. Gli occhi a sfanagliare la notte.

- È troppo tranquillo. Troppo tranquillo. – si era immobilizzato lui.

- Quando mai c’è stata agitazione a quest’ora.

- Strano, che sia così incustodita, no?

- Hai paura.

- Tu no?

- No.

Giosua aveva scrutato il rigonfiamento sotto la sua cintura.

- Fai conto di entrare sparando?

- Perché no?

- Ehi. Scherzi.

- Sì, sta’ tranquillo, sto scherzando.

- Mi rincresce.

- Cosa?

- Non sono l’uomo per te.

- Cazzo dici?

- Lo vorresti, un uomo forte, coraggioso, che entra mitragliando tutto e tutti. E ti protegge mentre

nuoti. Nuda.

- Ma vaffanculo. Ma chi ti chiede qualcosa?

E si era diretta a grandi falcate verso la recinzione.

- Cazzo. - lo aveva sentito imprecare.

Quella parola, un secondo prima di gettarsi a terra. Strisciando verso l’angolo dove il canneto si

piegava quasi fino all’asfalto. Cercando con gli occhi. L’aveva visto anche lei. Poi lo avevano

sentito ridere.

- Spaventati?

Kamal era emerso dal buio. Il passo calmo. I denti bianchi. Gli occhi lucenti.

- Stronzo. - aveva detto lei rialzandosi.

- Sei matto. - aveva riso Giosua.

- Okay. Chiedo scusa. - aveva alzato le mani Kamal.

- Ti è andata bene. Non sai quanto ti è andata bene. – e Giosua aveva guardato lei.

Lei che si arrampicava, mentre il gatto correva e artigliava un tronco. Era saltata giù, il gatto in

cima, tra i rami che oscillavano. Lei scuoteva i capelli. Il sudore sulla fronte. Si era spaventata. Che

stronzo. Si divertiva a mettere paura a loro. A lei. La pistola. Dove poteva nascondere la pistola.

Non voleva rinunciare a tuffarsi. Era la sua piscina, quella. Il suo mondo notturno. Si era spogliata

cercando con gli occhi un posto. Un posto sicuro, dove nessuno vedesse la pistola. Era ormai nuda e

teneva l’arma contro il grembo. Con tutte e due le mani la premeva contro la pelle. Rabbrividiva.

Nessuno. Aveva guardato verso la finestra, ascoltando il silenzio spezzato dal richiamo di qualche

animale. E li aveva visti. Stavano entrando da dove si entrava di giorno. Dall’ingresso principale.

Era rimasta immobile. Una statua, e li guardava avanzare tranquilli.

- Ehi, siamo noi. - aveva sussurrato Giosua.

Lei aveva deglutito. Il sudore scorreva sotto le ascelle, lungo la schiena.

- Kamal sa entrare senza scavalcare.

Ammirazione, nella voce di Giosua. Lei aveva serrato i denti. Aveva posato la pistola

semplicemente sotto i pantaloni afflosciati a terra. Si era tuffata. Aveva nuotato fino in fondo.

Respirando. Nuotando sott’acqua e ogni volta riaffiorando già cercandoli con lo sguardo. Loro.

Vicini. Stavano parlando. Come due amici. Due ragazzi qualunque.

VENTISETTE

E ci ha addestrati per davvero. Altro che storie.-

- Più su. – mi toccava il polso.

In piena campagna. I bersagli laggiù, che non credevo di colpirne uno. E invece.

- Tu ce l’hai nel sangue. Un talento. – diceva.

Centro. E centro. E ancora centro.

- Mai sparato in vita tua?

- Alle lepri, te l’ho detto.

- Ma mi hai contato una frottola. Non le hai colpite, quella volta.

L’ho guardato stupito. Ha riso forte.

- Marè, sei limpido. Ti si legge in faccia quello che pensi.

- Un bel guaio.

- Se continui così. Ma se impari a dominare le espressioni…

- E come si fa?

- Basta provare. Davanti allo specchio.

Centro. Di nuovo centro. E centro. Persino l’Adelaide mi osservava senza parole.

- Marè, ma ti alleni quando?

- Sparo in sogno, che vuoi che ti dica.

Ero stupefatto di me stesso. Com’era possibile? Una schiappa come me.

- Una donna può fare miracoli. - ha mormorato Orlando.

- O rovinarti. - ha aggiunto mio cognato.

Li ho guardati tutti e due.

- Mica devi vergognarti. Siamo tra uomini. – ha detto Orlando.

- E chi si vergogna? - mi sono difeso.

- Sei diventato rosso.

- Io?

Hanno riso, quei due.

- Roberta è una bella donna. Un po’ problematica, ma una che vale la pena. – ha mormorato

Orlando.

- Non c’è problema. Tanto non sono il suo tipo.

- E da cosa l’hai capito?

- Non mi fila.

- Marè, lo sai come si dice. Chi disprezza, ama.

Intanto erano arrivati dei fuoristrada, sei in tutto, là sullo sterrato. Avevano sollevato un nuvolone di

polvere bianca. Nessuno scendeva. Ci guardavano dai finestrini. Tutti con gli occhiali scuri.

- Chi sono? - ha domandato l’Adelaide.

- Il resto della truppa. Sono qui per voi. Vogliono vedere come ve la cavate con le armi.

- Ce li presenti? - ho chiesto.

Lui mi ha fissato qualche istante.

- Non oggi.

- Perché?

- Siete ancora in prova.

- E quanto dura la prova?

- Quanto basta a fidarsi”

- Tu di noi o noi di te?

Ha riso.

- Sei un ragazzaccio, Marè. Strafottente e testone. Ma in gamba.

Però mica ha risposto.

- Dài, fagli vedere cosa sai fare. - mi ha incitato l’Adelaide.

Mi sono messo in posa, proprio come ci aveva insegnato Orlando. Ero cissato. Cissatissimo. Vuoi

vedere che adesso sbaglio e mi faccio una figura di merda, pensavo. Invece. Tre centri consecutivi.

Come non avessi mai fatto altro. Mi sentivo bene. Benissimo. Una goduria, sparare. L’Adelaide mi

ha strizzato l’occhio. Anche lui è andato a bersaglio, ma non in centro. Gliene fregava assai. La

gloria era comunque in famiglia.

Poi mi sono girato verso Orlando. Guardava le auto. Un sorriso sulle labbra.

- Bravo, Marè. - ha detto voltandosi.

Sorrideva ancora. Lui, che mi leggeva dentro, mi fissava manco volesse trapanarmi, con quegli

occhi.

- Bravi tutti e due. - ha concluso.

I fuoristrada sono ripartiti, proseguendo per la stessa strada, che scendeva un po’ verso il prato

prima di sparire dietro gli alberi. I finestrini chiusi. Magari per la polvere, ho pensato. Ma sapevo

che era per non farsi vedere in viso. Neanche un po’.

- È uno a posto.

Lei non aveva detto niente, limitandosi ad accelerare l’andatura.

- Guarda che vuole esserci amico. Davvero.

Ancora non parlava, guardando la luna circondata da un alone di pioggia.

- Domani piove, l’ha detto anche Kamal. - aveva aggiunto Giosua.

- C’è bisogno che lo dica lui, per saperlo.

Giosua taceva, le mani in tasca. Dinoccolato.

- Il vero motivo per cui ce l’hai con lui.

Si era girata di scatto.

- E dunque adesso lo devo spiegare proprio a te. Siamo a un buon livello. Complimenti.

Di nuovo si era voltata e quasi saltellava.

- Ehi, nevrastenica. Se hai le tue cose non è colpa mia.

- Cretino. Razza di cretino.

- Ecco, vedi, il guaio è questo. Di tutto facciamo una questione di razza.

- Ma vaffanculo.

- Ascolta. Lui non c’entra, con quello che hanno combinato i suoi amici. Lo hai visto anche tu, no?

Li ha cacciati e gli ha proibito di tornare. Di notte.

Lo aveva fissato, ansimando.

- Lui. Lui decide chi entra e chi no.

- No no. Parla dei suoi amici. Di nessun altro. Hanno sbagliato e lui chiede scusa. Capisci? Lui

chiede scusa.

Adesso stava correndo, lei.

- È inutile. Lo so che non vuoi sentire. Però non è giusto. – gridava Giosua.

Era tornata indietro di corsa.

- Cosa, non è giusto?

- Non puoi giudicarlo, se non come persona.

- Merda a te. Una vita che voi maschietti dite ‘voi donne’.

Giosua aveva riso piegato in due. Lei. Il suo sguardo cupo.

- Mi arrapi, baby. - le aveva cinto i fianchi.

- E tu no. - lo aveva spintonato lei.

Lo fissava con rabbia.

- Dovremo fare i conti con loro, ci piaccia o no. Non tornano indietro. - le aveva mormorato.

- Dovranno farlo. Che gli piaccia o no.

Giosua aveva scosso il capo adagio.

- Saranno costretti. - aveva insistito lei.

- Non si torna indietro.

- E invece sì.

No. No, se non puoi.

VENTOTTO

- Da’ retta. Lascia a casa il Fufi. – mi ha consigliato l’Adelaide.

- E perché?

- Sarà obbligata a chiederti notizie, no?

Mica scemo, mio cognato. Così ho deluso il povero animale. E non solo lui.

- Ma come, non lo portate, stasera? - ha chiesto ma’.

Lui – il Fufi – aveva capito da un pezzo che non era serata, appunto. E se n’è stato a fare la vittima,

pancia a terra, zampe lunghe, muso accasciato da una parte. Pupille a tergicristallo. Non ha perso

una mossa. E una parola. Una bella sceneggiata.

- No, ma’. Ho notato che zoppica un pochettino. Per stavolta lo lascio riposare.

Lei ha annuito preoccupata.

- Eh, sì, è vecchierello. - se l’è accarezzato in grembo.

- Eh, sì. Così sono tutti liberi come l’aria. – ha sospirato la mia specie di moglie.

- Dicevi? - mi sono avvicinato con mezzo sorriso stampato in faccia.

- Oh, dicevo per dire. Un cane è impegnativo.

- Brava, l’hai detto. E siccome hai detto mille parole di troppo, puoi cucirti la bocca.

- Mica le ha dette, mille parole. - si è sbalordito mio padre, che, quando è in vena, sa essere bastardo

meglio di me.

- Infatti. Vale già per il futuro.

Lui ha ghignato. Mia madre ha finto di non sentire, spazzolando il Fufi.

Alla fine, siamo usciti senza il cane immagine.

- E la vostra bestiolina? - ha domandato Gilda.

L’Adelaide l’ha presa per un braccio, incamminandosi veloce davanti a noi. Io e Roberta, dico.

Sempre gli ultimi due, noi.

- Sta male, Fufi? - ha chiesto Roberta sottovoce.

- Niente di grave. È vecchio e ho preferito lasciarlo a riposo.

Lei non ha aggiunto altro, mentre quei due davanti continuavano a ridere a più non posso.

- Almeno ho un concorrente in meno. - ho detto.

Mi ha guardato sorpresa.

- Sarebbe?

- Be’, hai occhi solo per lui. Io non esisto.

- E basta mollarlo in un angolo, per brillare ai miei occhi?

- Beh, io ci provo.

- A fare che?

- A farmi guardare.

- Marè. Tu devi provare a non fare lo stronzo.

E, detto questo, si è messa a marciare di gran passo.

- Ma sarebbe? - ho quasi gridato.

- Di nuovo, là in fondo? - ha detto il rompiballe.

- Fatti i cazzi tuoi. - ha rimandato l’Adelaide.

- Sarebbe? - ho ripetuto.

- Mai un discorso che sia un discorso.

- Ma senti…

Ero scazzato. E mica poco. Ma chi si credeva?

- Mai pretendere troppo da un uomo. - ha riso Gilda che aveva orecchie per tutto.

- Hai ragione. - le ha detto Roberta.

- Assì? E da una donna, si può pretendere, sì? – ha scherzato l’Adelaide.

Gilda ha ridacchiato scostandolo.

- È che pretendete troppo, forse. - ho riprovato.

- Non credo. - riecco la Roberta.

- Tipo?

- Tipo è inutile, tanto siete in estinzione! - ha urlato ridendo Gilda.

- Chi, è in estinzione?

- Il cromosoma ipsilon, mio caro.

Sadica, la Gilda.

- Magari non sanno cos’è. - ha detto piano Roberta.

- Essì, che lo sappiamo. E il mio funziona benissimo. Vuoi provare? – mio cognato è corso dietro a

Gilda che scalpitava ridendo.

- E tu, Marè, lo sai cos’è? - ha chiesto Roberta.

L’ho fissata. Non sorrideva. E nemmeno io.

- No, non lo so. E me ne frega un cazzo.

Poi le ho voltato la schiena e me ne sono andato.

- Pensa alle amazzoni.

- Roba passata.

- Sempre attuale.

Lei faceva tintinnare gli anelli, lanciandoli uno contro l’altro.

- Sono loro, ad avere bisogno di noi, per riprodursi. Noi no.

Lei si era sdraiata per terra. Un bel respiro e via le gambe in aria. Aiutandosi con le mani, i fianchi

in alto. Candela.

- Lo vorrei, un mondo sans les hommes. - mormorava Naima tra una capriola e l’altra.

Lei pensava a Giosua. A Kamal. All’uomo della finestra.

- E tu? - aveva domandato Naima inginocchiandosi accanto.

Lei aveva abbandonato la presa sui fianchi, scendendo lenta. Le gambe a terra. Il respiro regolare.

- Non so.

Naima si era chinata su di lei.

- Non so. Non sarebbe una noia? – lei aveva detto.

- Sono divertenti?

- Qualche volta.

- Così poche volte, credo… - aveva detto Naima a bassa voce, spiando la sua reazione.

- Naima, patti chiari. Non mi interessano le donne. Non in maniera predominante, almeno.

- Sono stata un’avventura. Una volta lo diceva la donna all’uomo.

- Io non sono un uomo e non voglio esserlo.

- Non intendevo quello.

- Beh, fa niente.

- Mi spiace.

- Cosa?

- No, niente. Pensieri da donna.

- Come dire che io non sono una donna?

- Certo che lo sei. Ma hai il modo di pensare…diverso.

- Da uomo?

Naima l’aveva fissata.

- La tua mente segue quella dell’uomo.

Adesso era stizzita, lei. Naima continuava a sorridere. Quel sorriso del cazzo.

- Cosa dovrei fare? Pensarla come te, per sentirmi donna?

Naima scuoteva la testa. Ma non aveva risposto.

- Non me ne frega un cazzo di cosa pensi tu. Di cosa pensa lui. Di cosa pensate tutti.

- E di cosa ti frega, allora?

Lei aveva riflettuto. Rivedeva la superficie dell’acqua, azzurra nelle luci soffuse. Le piastrelle

lucide. Quel silenzio carico dei suoni della notte. E lei, in mezzo al buio.

- Del mio angolo di mondo, mi frega. E non voglio rinunciarci.

VENTINOVE

E meno male, che quella sera non abbiamo portato il Fufi. La sera dopo si era di pattuglia. Ordine

di Orlando. Per cui, vista la buona scusa della vecchiaia, il Fufi si è dovuto rassegnare di nuovo. Mi

lanciava certi sguardi. E certi sospiri. Da farmi sentire in colpa.

- Sei emozionato, Marè?

- Curioso. Voglio vedere cosa combinano. – ho risposto all’Adelaide.

Insomma, almeno ci siamo risparmiati altre domande. E l’ironia del cazzo della Licia.

- Si è raccomandato i ferri - ”ha bisbigliato l’Adelaide.

E chi se lo dimenticava, il ferro? Era il motivo principale per cui uscivo di casa col batticuore ogni

volta. Abbandonare la pistola, anche se nessuno sapeva dove l’avevo nascosta, mi dava un attimo di

apprensione. E, quella notte, addirittura la tremarella, avevo. Ero sicuro che non ce l’avrebbe fatta

usare. Anzi, che nessuno avrebbe usato un’arma, se non per pavoneggiarsi di fronte agli altri del

gruppo. Un po’ come facevo io davanti allo specchio, quando ero solo. Degli sbruffoni, erano,

sorridevo tra me. Figuriamoci se si mettevano nei guai per chissà che motivo.

- Salute. - ha detto Orlando.

L’appuntamento era al sottopassaggio di corso Regina. Lui aveva detto che lì non ci notava nessuno.

- Alla faccia dell’anonimato. - ho commentato all’orecchio dell’Adelaide.

I fuoristrada erano parcheggiati tutti insieme. E loro sopra, con tanto di occhiali scuri.

- Niente presentazioni e niente domande. E il silenzio più assoluto su quello che vedrete e sentirete.

Oltre che su quello che farete, ovvio. - ha proseguito Orlando.

Ma che era, una setta segreta?

- In definitiva… - ha tentato l’Adelaide.

- In definitiva, da questo momento, ubbidite agli ordini. Consideratevi militari.

C’era da tornarsene a casa. Se non fosse stato per quella sensazione di potenza che mi dava la

pistola addosso.

- Naturalmente siete ancora in tempo a cambiare idea. - ha aggiunto Orlando.

- E chi cambia idea? - ho detto.

L’Adelaide era perplesso. E lo capivo. Però gli ho dato di gomito e lui mi ha seguito. Noi dovevamo

salire nel primo fuoristrada. Dietro. Davanti, vicino al posto di guida, sedeva Orlando. Alla guida,

Testa Pelata, che manco si è dato la pena di voltarsi, di fare un cenno di saluto.

- Si va. - ha detto Orlando.

Pareva una processione.

- Dici che non diamo nell’occhio, no? - ho sogghignato.

- Tranquillo. Siamo benvoluti, noi. – si è degnato Orlando.

Testa Pelata ha stirato la bocca in su, verso l’occhio. Magari era un sorriso. Io e l’Adelaide ci

scoccavamo occhiate. Siamo usciti dalla città, come dovessimo andare in gita. E poi ci siamo

rientrati dall’altra parte, che già quasi mi stavo rompendo.

- Non bisogna avere fretta. Le strade si svuotano per bene. Tutti a nanna. - ha spiegato Orlando al

parabrezza.

L’Adelaide ha alzato le spalle sbuffando. Le aveva piene. Io, che versavano. Una banda di coglioni,

erano. E noi con loro.

- Ci siamo. Tenetevi pronti. – Orlando si è sistemato ben dritto sul sedile.

Ma pronti a che? Ho toccato la pistola. Anche l’Adelaide. Fondina ascellare. Ce l’aveva fornita

Orlando.

- Un regalo in più.

E adesso eravamo a San Salvario, dove persino i cani si guardano alle spalle mentre pisciano.

Gente sui marciapiedi. Pusher, senza ombra di dubbio. E ce la vediamo brutta, ho pensato. Invece.

Abbiamo accelerato, tutti insieme. Un rombo della malora. E quelli se la sono data a gambe. Il

vuoto intorno.

- Mi sa che siete conosciuti. - ho ghignato scendendo.

- Mi sa che parli troppo. - mi ha rimbeccato uno.

- Pazienza. Sono nuovi. – lo ha rimproverato Orlando.

Quello ha grugnito qualcosa. No, non per modo di dire. Ha grugnito davvero. Un suino calzato e

vestito.

- Forza. - ha soffiato Orlando.

Dai bagagliai sono spuntate le mazze. Una ciascuno.

- Forza!

Si sono scaraventati contro un negozio. La saracinesca piangeva ancora prima di incassare le

mazzate. Io e l’Adelaide come due idioti a fissare quel casino. Le mazze in mano. Un bordello che

di sicuro si finiva in galera. La saracinesca sventrata, rumore di vetri. Una cascata di schegge tutto

attorno. E la luce. Improvvisa, abbagliante. Uno scoppio. Fumo e lingue di fuoco.

- Via! - ha urlato qualcuno.

Siamo saltati sui fuoristrada. Ripartiti a razzo, sgommando. In silenzio fino a Moncalieri.

- Ma questi, cazzo sono venuti a fare? - ha detto Testa Pelata.

Orlando si è girato. Ha riso. Dovevamo avere due facce da babbei.

- La prima volta è sempre la prima volta.

Io e l’Adelaide muti come muti veri.

- Almeno chiudete la bocca. - ha riso Orlando.

Testa Pelata ha stirato la bocca in su, ma verso l’altro occhio. Io ho chiuso la mia, deglutendo. Ci

hanno mollati a pochi isolati da casa.

- La prossima volta vi voglio attivi. – Orlando ci ha battuto la mano sulla spalla.

Ho sentito grugnire dietro di me. Il Suino scuoteva il crapone. Disapprovava in pieno. Noi due,

ovvio.

- Ci vediamo. - ci ha salutati Orlando.

Un secondo ed erano lontani. Ho tirato un bel respiro. Anche l’Adelaide si è rianimato.

- Marè, ma tu ci hai capito qualcosa?

- No, io no.

Salivamo le scale in silenzio, quasi in punta di piedi.

- Buona notte. - gli ho detto alla mia porta.

- Non so se riesco a dormire.

- Neanch’io. Neanch’io.

L’ho guardato andare su, gradino dopo gradino. Pensavo a Concetta, che lo aspettava. E alla Licia,

che aspettava me. Ignare di tutto. Mi sono sentito crescere dentro una sensazione strana. Per niente

bella. Ho aperto la porta e il Fufi mi è venuto incontro, sbadigliando. Sono rimasto lì con lui,

grattandogli il mento. Chiedendogli scusa della vigliaccata che gli avevo fatto. Rivedendo la scena

di quel casino. Senza darmene un motivo.

Era accovacciato all’angolo, dove iniziava il pendio del prato.

- Ciao.

Giosua aveva battuto cinque con Kamal. Lei aveva proseguito senza guardarlo.

- Se vuoi, possiamo entrare dalla porta. - aveva detto Kamal.

Si era ferma ed era tornata indietro.

- E come fai?

- Ho la chiave. – Kamal le aveva mostrato la chiave.

- Io entro come si deve entrare. - aveva risposto lei.

Kamal aveva scrutato Giosua con aria interrogativa.

- Lei vuol dire che è più divertente.

- Non c’è bisogno che spieghi il mio pensiero.

Kamal si era avviato. Lei lo aveva lasciato andare un po’ avanti. Ma Kamal non era salito sulla

cancellata. Aveva proseguito oltre.

- Dove?

- Alla porta. Quella della palestra. - le aveva spiegato Giosua.

Allora lei aveva capito. Era una costruzione unica, divisa da muri e corridoi comunicanti. Dalla

palestra si poteva entrare in piscina. Non di giorno. La sorveglianza non permetteva di accedere da

quella parte. Chiudevano alcune porte. Però la chiave.

In fretta aveva posato il piede sulla sbarra e sull’altra e sull’altra ancora. Le mani frenetiche la

tiravano in alto. Aveva scavalcato. Lo squarcio dei jeans come un lamento. Quando era saltata giù,

Kamal era già lì. Tranquillo. Sorrideva.

- Dove l’hai presa, la chiave?

- Me la sono procurata.

Lo aveva superato correndo. Aveva tolto i pantaloni, nascondendoci sotto la pistola. Poi la maglietta.

Le mutandine. Si era fermata sul bordo. Lo sguardo alla finestra. C’era. Ne distingueva la sagoma.

C’era. Il formicolio nella pancia si spandeva allo stomaco. Scivolava tra le gambe. Lei spingeva

avanti il bacino, scrollando i capelli.

- Non ti dà fastidio, lui?

Kamal le era dietro. Gli occhi neri. L’aria grave.

- Sei tu che mi dài fastidio.

- Perché?

- Lui è parte del tutto. Tipo il gatto, o un albero.

- Tutti siamo parte del tutto.

- Tu sei un intruso.

- E tu? Non sei un’intrusa, tu?

- Io sono arrivata per prima.

Kamal aveva sorriso. Lei si era tuffata e aveva nuotato a rana fino al punto in cui le sdraio

sembravano mucchi di ossa sotto la luna. Si era voltata. Kamal era seduto accanto ai suoi vestiti.

Giosua stava arrivando e mangiucchiava qualcosa. Frutta. Lei aveva nuotato nella loro direzione.

Affondava e riemergeva respirando a bocca spalancata, sdraiata sul dorso, le gambe che muovevano

lente. Le braccia che colpivano la superficie con piccoli spruzzi.

- Comunque. Non va bene. – Kamal le aveva fatto segno di avvicinarsi.

- Cosa? – lei si era accostata.

- Una pistola addosso, non va bene.

Giosua sorrideva tirando lontano una buccia.

- Può sparare davvero, sai? - aveva continuato Kamal.

Si era issata sul bordo. Era nuda e non gliene importava. Kamal fissava la vasca. Lei aveva

controllato sotto i jeans. La pistola era lì.

- Se non c’è bisogno, non sparo.

Kamal aveva messo i piedi nell’acqua.

- Però decidi tu, se c’è bisogno.

- Sì, decido io.

- È questo che spaventa.

- Vero, un’arma in mano a una donna è un pericolo. - aveva riso Giosua.

Lei lo aveva guardato senza sorridere.

- In mano a un uomo, no?

- Anche. - aveva risposto subito Kamal.

- Quindi.

- Quindi con le armi non si gioca.

- Io non gioco.

- Per chi, quella pistola?

Gli occhi erano agganciati ai suoi. Come se il suo corpo non esistesse.

- Per quelli come te. Che mi rubano spazio. Che mi rubano vita.

Kamal aveva annuito in silenzio.

- Siamo disonesti allo stesso modo. Ma io un po’ di più, eh?

- Io non sono disonesta.

- No? Entrare quando è proibito non è disonesto?

- Perchè sei qui, se sai che non va bene?

- Tante cose non vanno bene.

- Però le fai anche tu.

- E non possiamo farle insieme.

- Questo è il mio mondo. Kamal, vaffanculo. La piscina di notte è nostra.

- Nostra?

- Mia e sua. - aveva indicato Giosua.

Kamal aveva sorriso.

- Ma lui mi ha detto che siamo amici. – aveva bisbigliato.

Ironico. Quel sorriso del cazzo.

- Davvero? Sei amico suo. Non mio.”

- Quindi.

- Quindi ve ne andate tutti e due.

- No. Noi siamo in due e tu una. La maggioranza…

Non gli aveva lasciato finire la frase. Aveva infilato la mano sotto i jeans. Impugnato la pistola. Il

cuore che batteva a martello.

- Adesso. - aveva detto rauca, in piedi, a gambe larghe, scostata da loro, dietro di loro.

- Ehi. - aveva mormorato Giosua.

- Ve ne andate subito.

Kamal si era alzato con calma.

- Altrimenti?

- Altrimenti sparo.

- Sei impazzita. - aveva detto Giosua.

- A chi spari per primo? - aveva chiesto Kamal.

Lei lo aveva fissato con odio.

- Non puoi ucciderci tutti e due insieme. Perciò, a chi spari per primo?

- Basta. Stiamo scherzando col fuoco. – era intervenuto Giosua.

- Nel vero senso della parola. - aveva sorriso Kamal.

Quegli occhi neri che non la abbandonavano. Che rifiutavano di scivolare sul suo corpo.

- Al primo che si muove verso di me. Dovete andare verso l’uscita. E io non sparo.

Sentiva il sudore sulla fronte. Aveva paura. Improvvisamente lei aveva paura.

- Okay. - aveva sussurrato Kamal.

E aveva fatto un passo avanti. Verso di lei. Senza abbandonare i suoi occhi.

- No. - aveva detto Giosua.

Aveva trattenuto Kamal per il braccio.

- No. Ce ne andiamo.

- E lei rimane qui, da sola?

- Lei non è mai sola. Nemmeno qui.

Lei aveva abbassato la pistola. Se ne andavano. Davvero se ne andavano. Lassù qualcosa si era

spostato da un vetro all’altro. Là alla finestra. Un’ombra. Una sagoma scura. Forse soltanto un

gioco di luci della luna.

TRENTA

- Non ti offendere, ma mi è sembrata una cazzata.

Eravamo di nuovo soli con Orlando.

- Va a finire che ci prendono per froci. - si è lamentato l’Adelaide.

E dàgli torto.

- Hai ragione. - mi ha detto Orlando.

- Allora perché partecipare a una cosa del genere?

- Io non l’ho capita. - ha bofonchiato l’Adelaide.

- Te la spiego subito. Il kebab devono farlo a casa loro. Qui no.

- Ohè, ma che c’entra. Il kebab è buono.

Orlando ha storto il naso.

- Può darsi, ma devono farlo a casa loro.

- Abbi pazienza, siamo in tanti a questo mondo. - ha riso mio cognato.

Orlando l’ha guardato di brutto.

- E ci sono tanti altri posti, in questo mondo.

- Ma poi cosa c’entra con l’altra notte? – ho chiesto.

- Ragazzi, statemi a sentire. Punto primo, non siete obbligati. Se cambiate idea, liberi come l’aria.

Ma se rimanete, è perché avete anche voi l’ideale di pulizia che sentiamo noi.

- Pulizia in che senso? - ho domandato.

- Marè, ma ti piace com’è adesso la nostra città? Non c’è lerciume e disordine?

- Vabbè, ma c’è sempre qualcosa che non va. Dappertutto.

- Marè, non fare finta di non capire.

Un brivido mi è corso giù per la schiena. Come dice l’Adelaide, se per caso è giusto quello che ho

capito per sbaglio, c’è poco da scherzare.

- Sarebbe bello avere le strade sicure, anche senza ronde, non ti pare?

- Sì, certo che sì.

- Allora non bisogna stare a guardare e lamentarsi e aspettare la manna dal cielo.

- Orlando…

- Marè. Noi abbiamo deciso di agire. Se siete dei nostri, siamo i primi a esserne felici.

Ci sono stati dei minuti di silenzio. L’Adelaide si fissava le scarpe. Io fissavo Orlando. E Orlando ci

squadrava tutti e due.

- Ma allora. Spacchiamo tutto? – ha detto mio cognato.

- No. Solo dove va spaccato. - ha risposto Orlando.

- Però avete spaccato il lavoro di gente che lavora. - ho detto d’un fiato.

Orlando ha chinato la testa un po’ da una parte. Una specie di sorriso sulla faccia dura.

- Abbiamo, Marè. Abbiamo spaccato.

- Krav Maga. Usata per l’addestramento dell’esercito israeliano.

Rotolava sul pavimento, si metteva in guardia contro un nemico immaginario.

- Non considerarlo mai immaginario, il nemico. Esiste davvero. Ma non sai quando te lo troverai

davanti.

- E se uno non ha nemici?

Si era fermata nella posizione in cui era. Pugni alzati al cielo, gambe piegate al ginocchio.

- Una donna ha sempre dei nemici.

- Tutte?

Naima si era rilassata, drizzandosi con un movimento fluido e lento, quasi impercettibile.

- Non ti è bastato nascere. E crescere. E adesso. E chiedi se una donna.

Lei le aveva voltato le spalle. Provava un senso di malessere, quando parlava con Naima. Non la

sapeva decifrare, ma era una sensazione sgradevole.

- Tu rifiuti l’evidenza, perché vorresti una vita diversa. - aveva mormorato Naima.

Continuava il suo allenamento. Lei la osservava saltare, gettarsi a terra a gamba tesa, rialzarsi di

scatto.

- Sembri invincibile.

Naima aveva sorriso.

- Devo essere invincibile. Altrimenti faranno di me ciò che vogliono. Sempre.

Non le aveva chiesto di chi stava parlando. A chi alludeva.

- Tu vivi in un mondo tutto tuo. - aveva sorriso Naima.

- In un mondo tutto mio.

- Quando ti accorgerai che ti hanno derubata del paradiso proibito, allora ti arrabbierai. E sarai

tremenda.

Lei aveva pensato alla pistola. Al suo mondo notturno. Avrebbe sparato, se Kamal avesse fatto un

altro passo?

- A chi pensi?

Le era giunta vicino.

- A qualcuno. Sarà davvero un pericolo?

- Se è un uomo, è di sicuro un pericolo.

Lei aveva riso.

- Ti fa ridere?

- No. Mi faccio ridere io. Forse hai ragione tu. Il mio mondo. Forse non esiste mondo dove

nascondersi.

- Vedi? Parli di nasconderti. È segno del disagio che senti.

Disagio era la parola giusta. Ma anche in quel momento si sentiva a disagio.

- Se ci pensi un attimo, capisci che ti sei sentita sempre a disagio, in tutta la tua vita. A noi donne

succede così, perché non possiamo esprimere la nostra carica di energia. La nostra violenza.

Lei non aveva risposto.

- Analizza i tuoi anni passati. Mettili sotto un microscopio.

- Ma perché? Anche se fosse. Oggi è oggi. Posso ricominciare tutto da capo.

- Sarebbe bello, ma non è così. E tu lo sai, anche se vuoi ingannare te stessa. Il passato ti segue

come un’ombra.

Lei improvvisamente aveva sorriso.

- Sai perché sorrido? Sto pensando che, al buio, le ombre non si vedono. Soltanto se c’è luce,

esistono le ombre, no? E la notte è il mio regno e nel mio mondo le ombre sono sfumature del buio.

Naima l’aveva fissata.

- Però dev’essere nero, mon amour, nero come l’inferno.

TRENTUNO

Di ronda, quella sera.

- Allora viene anche il Fufi?

Ma’ era preoccupata per il suo figlioletto adorato.

- Sì, non vedi che ha voglia di uscire?

Infatti il Fufi non stava più nel pelo. Si era messo davanti alla porta e zampettava da un’ora. La

lingua in fuori che pareva gli taccasse un coccolone. Addirittura gli occhi che sporgevano dalle

orbite. E mi fissava mugolando.

- Fufi, calma, che sei dei nostri.

E dicono le bestie. Si è calmato sul serio. Pancia a terra tipo sfinge, scodinzolava allegro.

- L’intelligenza degli animali… - ha sospirato ma’.

- Ne avesse la metà tuo figlio. - ha sussurrato la Licia.

- Guarda che ho sentito. - ho gridato.

- Mica devi urlare. Ci sento benissimo.

Mio padre ha riso.

- Siete la coppia del secolo.

- Piantala, tu. - lo ha ammonito ma’.

- La pianto se mi dài da mangiare. Sarà un cane intelligente, ma che lui mangi prima di me, mi sta

proprio sul culo.

- Che c’entra. Lui deve uscire.

- Deve. Se non gli concedevi il permesso, lui non usciva.

- E perché non dovrebbe, povera bestiola?

- Ah, già, la foto sul giornale. Quand’è che gliela fanno? – ha strizzato l’occhio a me.

- Presto. - ho risposto.

- Perché ve lo hanno detto, eh? - ha di nuovo blaterato la Licia.

- Sì, un giornalista ci segue, ogni tanto. Una di queste sere arriva il fotografo.

- Davvero? - ha esclamato mia madre.

Le brillavano gli occhi, povera donna. E io mi sono sentito lo stronzo che sono. Una balla simile.

Mio padre ha sghignazzato.

- Che ti ridi? La Jessica schiatta, finalmente. Lei e il suo cane di qua, lei e il suo cane di là. Ma mica

ce l’ha, una foto in prima pagina. – ma’ lo ha aggredito.

Diosantissimo.

- Ma che dici? A pagina intera! L’eroe della notte! – ha riso lui.

- Ma vaffanculo! - gli ha gridato nelle orecchie servendogli i tortiglioni al ragù.

Per tagliare corto e tagliare la corda, ho agganciato il guinzaglio al Fufi, che mi ha leccato le mani.

- Filiamocela, che fra un po’ qua c’è battaglia.

E mica esageravo. Nessuno mi ha mai spiegato i maccheroni appiccicati al lampadario, dall’epoca

dell’ultima discussione accesa – come ama definirla mio padre.

Comunque avevo poco da stare allegro. Dico, mica ci eravamo lasciati da amici, no? Io e Roberta,

insomma. Così, quando ci siamo uniti agli altri, me ne sono stato per i cazzi miei, con la scusa che il

Fufi tirava verso Igor.

- È proprio innamorato pazzo. - ha riso uno.

- Che ci vuoi fare. Almeno i cani sono sinceri. – ho detto.

- Essì. - ha ghignato quello dando di gomito a un altro.

- Sì. Gli uomini sono infingardi. Se sono froci, mica tutti lo dicono. Fanno finta di niente. – ho

continuato.

Mi hanno guardato male.

- Qui nessuno è frocio.

- Sicuro?

- Sicurissimo.

- Sicuri di cosa? - ha domandato Orlando.

- Questo dice che qualcuno potrebbe essere frocio, qui tra noi.

- Marè scherza sempre. È un tipo allegro. - ha riso Orlando.

- A proposito. Qual è il tuo vero nome? – ha preso la palla al balzo il cretino di prima.

- Ah, già. Anche il tuo amico. Com’è che si chiama? – gli ha dato man forte l’altro furbone.

- Io sono Marè e lui è Ido. Vengo a chiederti i documenti, io? - ho risposto.

- È quello che propongo sempre a Orlando. I documenti e la firma. Sarebbe una cosa molto più seria.

Tutti annuivano e quello mi ha fissato, come dire che.

- Problemi? - ha chiesto l’Adelaide arrivandomi al fianco.

- No, no, nessun problema. Forza, ragazzi, marciamo in silenzio. - ha concluso Orlando.

- Roberta mi ha chiesto di te. - ha bisbigliato l’Adelaide.

- Soffrire, deve, ‘sta montata di testa.

- Eddài, non fartela scappare.

- Deve corrermi dietro, se mi vuole.

- Ma sei diventato scemo? Una tipa così…

- Che c‘ha di speciale?

- Marè, minchia…

E mi sono rifiutato di tornare al mio posto di sempre, in ultima fila. Si può migliorare, no? Sentivo

Gilda ridere e non mi voltavo. Anche gli altri – gli altri stronzi, dico – si erano accorti che c’era

qualcosa di diverso. Si giravano alle risate di Gilda, mi lanciavano delle occhiate, parlottavano tra

loro. Poi una chiattona tanta mi ha sorriso accarezzando il Fufi. Aveva del verde pennellato sugli

occhi e il giubbotto lo doveva tenere aperto, dalla larghezza che aveva. Ho deciso che era troppo e

sono andato avanti, praticamente vicino a Orlando.

- Ehi, stai in fila. Ordine. - ha detto qualcuno.

Orlando mi ha guardato. Ha mormorato qualcosa a quello che gli era accanto. Quello è

indietreggiato senza protestare.

- E così vuoi la prima fila. - mi ha detto.

- Meglio in prima che in ultima, no?

- Beati gli ultimi… - ha brontolato una befana.

- Se i primi saranno onesti. - ha completato lui.

Hanno riso tutti. La befana no. Menarle, bisogna. A qualunque età. Ha ragione l’Adelaide.

- Vorrei sapere che intenzioni hai.

- Sarebbe.

- Guarda che sei tu che devi servirti della pistola. Non il contrario.

- Cazzo dici?

- Ti sei fatta prendere la mano.

- Non mi pare proprio. Siete ancora vivi tutti e due. Tu e il tuo amico.

- Non ti va giù, eh?, che si possa essere amici…

- Esatto. Mi sta proprio qui. - e si era portata la mano alla gola.

Giosua aveva scosso la testa.

- Così fai il suo gioco.

- E qual è il suo gioco?

- Si diverte a farti incazzare.

- E tu stai al suo gioco. Ti diverti anche tu.

- Ma non è vero. - aveva protestato allargando le braccia, lì in mezzo alla strada.

- No? Allora cosa aspetti a spaccargli la faccia?

- Ma perché…

Lei stava raggiungendo la cancellata. Gli occhi del gatto brillavano sul muretto. Per un attimo,

mentre scavalcava, era convinta che Kamal non ci fosse. Convinta di avere vinto. Poi lo aveva visto.

Era già in acqua e aveva continuato a nuotare anche quando lei era stata in piedi sul bordo, a

osservarlo.

- Conti le vasche che faccio? - le aveva chiesto fermandosi e appoggiando le braccia.

- Spero sempre che tu capisca, ma mi sbaglio sempre.

- La pistola. Lasciala a Giosua. Non sotto i pantaloni.

- E perché?

- Se arriva qualcuno e tu non te ne accorgi, può prenderla.

- Ma senti solo. Proprio tu parli di qualcuno che può entrare.

- Proprio perché so quanto è facile entrare qua dentro.

- Sì, eh? Sei un esperto, tu.

- È molto vulnerabile, questo posto.

- Davvero?

- Come una donna. Bella e vulnerabile.

- Vaffanculo, Kamal. Con una pistola non sono tanto vulnerabile.

Si era denudata, tuffandosi. La pistola abbandonata in bella vista. Bracciate vigorose. A un tratto era

senza fiato. I nervi le giocavano un brutto tiro. Da dov’era ora – sotto la panchina dei bagnini, lungo

uno dei due lati più corti della vasca – le sembrava di levitare su aria fluida, azzurra e limpida. Onde

fluorescenti fluttuavano in disegni intrecciati sulle piastrelle lisce. Uno spettacolo esaltante. Il suo

mondo. Poi Giosua aveva raccolto la pistola, mettendosela tra la cintura e la camicia.

- Chi te l’ha detto? - gli aveva gridato.

- Il buon senso.

Kamal rideva. Lei aveva stretto i denti. Si era diretta verso Giosua nuotando a rana, respirando

rumorosamente.

- Rimettila qui.

Giosua aveva obbedito, chinandosi.

- Se entra gente e la prende, non so come va a finire.

- Male. - aveva detto Kamal.

Lei lo aveva guardato immergersi con una capriola. Le gambe per aria che affondavano veloci.

Scivolava intorno a lei, senza sfiorarla.

- Ti secca, ma ha ragione lui. Prova a immaginare uno chiunque con questa in mano. Magari puntata

contro di te.

- E con due cavalieri dovrei avere paura?

- Due cavalieri disarmati possono ben poco, contro una pistola. - aveva risposto Kamal.

Lei si era girata di scatto. Kamal di nuovo si era immerso.

- Ha ragione. Non scherzare. Decidi cosa farne, ma decidi.

- Decido cosa cazzo mi pare. - era risalita sul bordo.

Aveva afferrato la pistola, puntandogliela contro.

- Stai sclerando. - bisbigliava Giosua.

- Alla fine, sarebbe una soluzione. Prima te e poi lui. E finalmente ho risolto la questione.

- E quale sarebbe la questione? - aveva chiesto Kamal uscendo dall’acqua.

- Eliminare elementi indesiderati dal mio mondo.

- Anche lui è indesiderato?

- Sì, da quando è passato dalla tua parte.

- Eva elimina il suo Adamo. E il cattivo serpente che lo ha tentato.

- E rimane padrona del suo paradiso. - aveva detto Giosua.

- E dire che me l’hanno sempre raccontata in un altro modo, la storia. - aveva sorriso Kamal.

- Andate affanculo tutti e due. - aveva bisbigliato lei scrollando la testa.

Kamal aveva riso. Le gocce scendevano sul suo corpo lucido. Dietro di lui, la superficie azzurrina

fremeva, s’increspava come pelle sottile.

Ed era successo. Con un balzo le era stato addosso. L’aveva gettata a terra. Le aveva afferrato il

polso. La pistola era scivolata sulle piastrelle. Lei lo aveva morsicato. Scalciava. Lo graffiava.

Kamal aveva lasciato la presa, rialzandosi. Aveva dato un calcio alla pistola. Si era allontanato di

qualche passo, ansimando. Lei si era rialzata attonita. Massaggiando il polso.

- Brutto bastardo.

- Sì. Pensa se ero un malintenzionato.

Giosua non si era mosso. Li guardava a bocca aperta. Poi si era accorto che lei lo stava fissando.

Uno sguardo di puro odio. O disprezzo. Allora era andato tra gli alberi, le mani sui fianchi. Lo

aveva visto scavalcare la recinzione con calma.

- Sei contento? - aveva sibilato a Kamal.

Kamal non aveva risposto. Aveva preso i suoi vestiti e si era avviato dall’altra parte. Dove si usciva

dalla porta principale.

TRENTADUE

Non me ne può fregare di meno, della ronda, se non sono vicino a Roberta.

Per cui sono stato di malumore tutto il giorno, anche grazie al Coriolano, che ormai mi evita come

la peste.

- Stavolta ha un somalo. - mi ha informato l’Adelaide.

- Un somaro, sarà.

- Un profugo somalo. Somaro sarai tu.

Per intanto sono senza soldi, mentre la Licia continua a fare permanenti e tinte. E meno male.

- Da’ retta, stasera torna in fondo alla fila con noi.

- Stasera non vengo.

- Sei matto. E io cosa racconto a Concetta?

- Hai bisogno di dirle cosa? Comunque mica rimango in casa.

- Ahò, Marè, statti calmo. Guarda che le donne sono tutte uguali.

Non ho risposto.

- Sei tu che sbagli. Trattala come tutte le altre, no?

Una parola. Con Roberta.

- Comunque non vengo. Tu ascolta cosa dirà.

Così sono uscito di nuovo deludendo il Fufi. Mica posso portarlo al Dinosauro, no? Avevo voglia di

starmene solo. Alla fine, ero solo davvero, nel tavolino d’angolo che nessuno vuole perché è la

parte più calda del bar. Poi un’ombra è apparsa dinanzi a me.

- Sono la nerd della serata. Se non ti offendi, ti spiego cosa vuol dire.

E io tipo un babbeo, la bocca aperta.

- Disturbo? - ha aggiunto.

Non l’avevo vista entrare.

- Se vuoi, me ne vado.

- Ma no… - ho balbettato.

Bravo, bella figura da idiota. Quale sei. Altro che somaro.

- Posso sedermi?

- Ma… certo.

Roberta si è seduta. Lei e i suoi occhialoni con la montatura bianca. E quella bocca color ciliegia.

Tutta da mordere.

- Ti stanno bene. - ho indicato gli occhiali.

Se li è tolti.

- Sei arrabbiato con me.

- Figurati…Sì.

Ha riso. Non l’avevo mai vista ridere. Bellissimo, guardarla ridere. Quei dentini bianchi.

- Devi ridere di più, Roberta. Sei…

- Bellissima.

- Sì. Ma sei bellissima anche quando sei seria. Cioè sempre.

Ha sorriso. Ho chiamato il cameriere. Gelato per due. Quando mai lo mangio. Pistacchio. Solo

pistacchio, le piace. Be’, anche a me. Anzi no, ma cosa importa.

- Perché non sei venuto, stasera?

- E tu, come hai fatto a trovarmi?

- Ido sa dove vai.

In silenzio l’ho osservata. Mi sembrava più bella che mai.

- Però non mi hai risposto.

Ho alzato le spalle.

- Mi pareva di essere di troppo.

Sono arrivati i gelati. E tutti e due a continuare a fissarci.

- Marè. Ma tu, cosa vuoi?

- Io?

- Sei venuto in ronda per cuccare o perché ci credi?

- Dimmi una cosa. Che ne pensi di Orlando?

- Ho idea che sia un po’ fanatico.

- Non ti piace l’uomo forte?

- Che forza sarebbe?

- Non so… Uno che comanda, che usa la forza.

- Armi, vuoi dire?

- Sì, anche armi, per dire.

- Mi fa paura.

- Un uomo così ti fa paura?

Ha annuito.

- Però ti potrebbe difendere, un uomo del genere. - ho detto.

- Da chi?

- Come, da chi? Con tutta la gentaglia che c’è.

- Ho avuto un uomo, una volta.

- E non ha funzionato?

- Mi difendeva da tutti. Tranne che da se stesso.

Non sapevo cosa dire. L’ho fissata e basta. Tranne che da se stesso.

- E adesso…sei libera?

- Libera da che?

- Roberta, hai un uomo, adesso?

- No. E non so se ne voglio ancora uno. – si è alzata.

- Ehi, dove vai? Resta. Il gelato…

- Ci devo pensare.

- Al gelato?

Ma perché mi viene così facile fare il fesso?

- Voglio pensarci con calma.

Non volevo dire altre fesserie, perciò ho annuito, mentre lei si allontanava un po’.

- Ehi. Ma quelle, non sono scarpe da tipo? – non ho resistito.

Mi ha guardato con la testa piegata di lato. La bocca contratta.

- Non sono zarra, io. Comunque sono scarpe da donna.

Hai capito? Lei non è zarra. Lo zarro sono io, chiaro lampante. E ben mi sta. Poi si è riavvicinata.

Un sorriso triste su quella bocca da mangiare. Sporgendosi verso di me. Il suo viso sempre più

vicino. Ho chiuso gli occhi. Immobile. La sua bocca contro la mia. Morbida. La sua lingua che

entrava tra le mie labbra. Se fosse stata un’altra donna, l’avrei afferrata per i capelli, attirandola,

spingendole la lingua in gola. Ma era Roberta. Sono rimasto fermo, a occhi chiusi. Quando li ho

riaperti, lei non c’era più. Sul tavolino, due gelati al pistacchio si squagliavano. In bocca, un sapore

di ciliegia.

- Tai jutsu, combattimento a mani nude.

- Merda. Non so difendermi.

Naima aveva sorriso.

- Toccando certi punti dell’avversario, puoi ucciderlo.

- Magnifico. Devo ammettere che mi ha risparmiato la vita. Un vero signore.

- Mirano sempre a qualcosa, quando ti fanno un favore.

- Ma che favore sarebbe? ‘Sto stronzo…

Naima si era asciugata. Un asciugamano grande, giallo, che metteva in risalto la pelle scura.

- Mi sa che gli piaci. - aveva detto con la voce soffocata dalla spugna.

- E per questo mi sbatte a terra e mi disarma? No. Voleva umiliarmi. E davanti a Giosua.

- Allora.

- Allora ci vuole dividere, per vincere.

- Cosa c’è da vincere?

- La piscina.

Naima rideva. Aveva preso un botticino.

- Mi spalmi?

Lei aveva svitato il tappo. E annusato.

- Buono. Cos’è?

- Olio di rosa musqueta.

Aveva cominciato a spalmare le spalle.

- Se ci divide, per lui è una vittoria.

- Credi che abbia bisogno di dividervi? Basta che arrivi con i suoi amici. Magari tanti. E voi siete

spiazzati.

- Non è una questione di forza fisica.

- Sicura?

- Kamal non vuole vincere così. Lui…

Spalmava la schiena. Naima inclinava la testa indietro. I capelli lunghi, neri. Lei li aveva scostati

con una mano.

- Aspetta. Ecco. Continua. Hai le dita leggere. – aveva raccolto i capelli sulla nuca.

- Kamal vuole vincere con la testa. È questo che mi indispone.

- Più pericoloso. Sì, sono d’accordo.

Lei scivolava lungo i fianchi. I palmi indugiavano in movimenti lenti.

- Abbracciami. - aveva bisbigliato Naima.

L’aveva avvolta con le braccia, incrociandole sul suo seno, mentre Naima chiudeva gli occhi e

sospirava. La baciava sul collo. La sentiva fremere. Aspirava il suo profumo. E anche lei aveva

chiuso gli occhi. Si era svestita. La mano di Naima la sospingeva giù, sul tappeto. Aveva obbedito,

sdraiandosi supina. E le mani di Naima le rendevano i brividi che le sue le avevano provocato poco

prima. Respirava e si abbandonava. I muscoli rilassati. Le dita di Naima che frugavano in lei. Tra le

sue gambe, strappandole un gemito. Più a fondo, infilandosi adagio nella cavità della suo corpo.

Sentiva le dita salire. Scivolavano lievi, aprendola al piacere. Gettava il bacino in avanti,

sollevandosi un po’. Naima arretrava le dita e le riaffondava. Arretrava e riaffondava e ancora,

finché quel mormorio di carne era diventato liquido e silenzioso. Lei aveva aperto gli occhi. Naima

aveva la testa completamente all’indietro. La massa dei capelli ondeggiava. Con l’altra mano stava

facendo a se stessa quello che aveva appena fatto a lei.

- Possiamo farne a meno. - aveva sussurrato Naima.

- Di questo?

- No. Degli uomini.

TRENTATRE

- Questa volta vi voglio vedere in azione. - ha detto Orlando.

Ho toccato la pistola nella fondina sotto l’ascella. L’Adelaide non si è mosso. Guardava fuori.

Stavamo viaggiando in un’altra direzione, rispetto l’altra notte. Mi dava sollievo il pensiero di non

andare nello stesso posto.

- Voglio dire, ragazzi. Azione. Partecipazione attiva. Chiaro? – si è girato verso di noi.

- Alla fine. Dobbiamo darci sotto a spaccare saracinesche e vetrine. – ha detto mio cognato.

- No, stasera si cambia.

Quello al volante ha grugnito.

- Tipo. - ho detto.

- Si spaccano ossa.

Lo stomaco mi ha dato una stretta.

- Ossa? - ha chiesto l’Adelaide.

Aveva un tono spaventato.

- Sì. Fanno meno rumore e si ottiene più effetto.

Il Porco ha riso. Come può ridere un porco, ma ha riso.

- Problemi? - ha chiesto Orlando senza guardarci.

- No. - ho risposto dando di gomito a mio cognato.

- No. - ha ripetuto lui.

- Ricordatevi che avete le armi. E le potete usare.

E così si poteva sparare. Bella scoperta. Che si esce a fare, sennò, con le armi? Però mi si è

accapponata la pelle.

- Tu, Marè, potresti dimostrare la tua mira.

- Al buio sarà la stessa?

- È l’unico modo per scoprirlo. Provare.

Il Porco ha di nuovo riso.

- Vale anche per te, naturalmente. – Orlando ha ammiccato all’Adelaide.

Lui ha annuito. Non riusciva a parlare. Io lo capivo. Ma lo capiva anche Orlando.

- Se si crede in un ideale, bisogna dimostrarlo. Altrimenti a cosa servono gli ideali? A riempirsi la

bocca di paroloni. Noi siamo diversi. Noi facciamo. È l’unico modo per salvare se stessi e gli altri.”

- Gli altri. - ho detto.

- Certo. Anche quelli che dormono e non sanno cosa succede per strada, finché non lo vedono in

televisione o lo leggono sul giornale o glielo racconta qualcuno. Quelli ci dovrebbero ringraziare. E

non sanno nemmeno che ci siamo.

- Le nostre donne, per dire. - ha ridacchiato l’Adelaide.

- Esatto. Ma di quali donne parli? - gli ha sorriso Orlando.

Mio cognato mi ha lanciato un’occhiata.

- Di tutte quelle che vivono per noi. - ho risposto.

Orlando ha riso. Il Porco ha ancora grugnito.

- Bravo, Marè. Sei forte.

E io mi sono sentito forte davvero, con loro e la pistola. Invincibile.

- Ci siamo. - ha mormorato a un certo punto Orlando.

Abbiamo rallentato. Via Passo Buole. Il deserto intorno. Due ragazzi che camminavano sul

marciapiedi, parlando tra loro.

- Che puntualità. - ha gorgogliato il Porco.

- Forza, una bella lezione. - è scattato Orlando.

Mica c’è stato tempo di chiedere spiegazioni. Erano già tutti in strada, a correre dietro a quei due.

- Forza! Tocca a voi! – ci ha urlato Orlando.

Correvamo con gli altri, difatti. Ma intanto pensavo ‘cazzo, due ragazzini, che avranno

combinato…’

- Dài!

E gli hanno dato sì. Le solite mazze. Come ce le avevamo in mano anche noi due, non lo so. Eppure

le avevamo. E l’Adelaide mi guardava con una faccia che peggio non si può. I ragazzi hanno tentato

di scappare. Correvano come lepri. Mica li prenderemo, no?, pensavo correndo anch’io. L’Adelaide

ansimava. Io forse anche. Li hanno presi. Un attimo ed erano a terra. Si riparavano la testa come

potevano. Quindi, niente. E quelli a dare mazzate.

- Be’, basta. Era solo una lezione, no? - ho sentito dire a mio cognato che mi stringeva il braccio.

- Basta, cazzo, basta! - ho sbraitato.

Nessuno mi ha dato retta. Solo respiri affannati, tanto gli davano addosso. Un incubo. Poi,

finalmente, la sirena.

- Via! - ha gridato qualcuno.

In un secondo eravamo sui fuoristrada. Ho scoccato un’occhiata fuori. I ragazzi erano immobili a

terra.

- Cazzo, li avete ammazzati. - ha sussurrato l’Adelaide.

Una sgommata e via, mentre la sirena si avvicinava.

- Ma questi ci seguono. - ha grugnito il volante.

- Sono due auto. Si vede che qualcuno vuole diventare un eroe.

- Il coglione che vuole fare carriera lo trovi sempre.

Allora è successo. Orlando ha abbassato il finestrino. Ha sporto la mano. La pistola in pugno. E ha

sparato.

- Grande! - ha grugnito forte lì davanti.

- Non c’è bisogno di sciupare colpi. Uno ben messo e sono sistemati.

- Hai ammazzato un poliziotto? - ha annaspato l’Adelaide.

Orlando si è girato adagio. Lo ha fissato con disprezzo.

- No. Ho soltanto rotto il parabrezza.

E nessuno ha più parlato. Si andava come il vento, inchiodando e svoltando con le ruote che

facevano scintille. E alla fine ci siamo fermati.

- A me non piacciono i traditori. - ha grugnito il Porco quasi faccia a faccia con me.

Non ho reagito. Ero inebetito.

- Non sono traditori. - ha detto Orlando.

- Non ancora. - gli ha risposto quello.

- Scendete. - ci ha detto Orlando.

L’Adelaide non se lo è fatto ripetere. Io ero appena riuscito ad aprire la portiera. Le mani che

tremavano.

- Tu aspetta. - mi ha detto Orlando, facendo cenno al Porco di togliersi dai piedi.

Ha obbedito.

- Marè, voglio parlarti, tu solo, domani. Solito posto. Solita ora.

Ho annuito stringendo i denti. E sono sceso in fretta. Eravamo a qualche isolato da casa. Il

fuoristrada si è allontanato.

- Cazzo, Marè, io… - ha cominciato l’Adelaide.

Sono corso dove c’erano i bidoni del pattume. Ne ho aperto uno e ci ho vomitato dentro.

L’Adelaide ghignava.

- So mica se hai centrato quello giusto. Quello è della carta.

Era uscita prima dell’ora stabilita, per non incontrarlo. Dover fare la strada insieme. Chiacchierare.

Cos’avevano da dirsi, ormai. Forse Giosua sì, avrebbe voluto dirle qualcosa. Voleva sempre

spiegarsi.

Lei aveva scoperto di non volerlo nemmeno ascoltare. Per non dire parlare. Di cosa, poi.

- Sola?

In un istante si era messa in posizione. Le mani avanti, di taglio. Le gambe una dinanzi all’altra.

- E questo cosa sarebbe? - aveva riso Kamal.

- Non importa il nome. Importa lasciarti il segno.

Si era seduto sull’erba. Fiori bianchi occhieggiavano nella notte. Il frastuono dei grilli, se si stava

zitti.

- Il segno, su un uomo, lo puoi lasciare in altro modo.

- Ti piace fare il saccente, eh? Il furbo.

- No. Non mi sento furbo. Non voglio sembrare diverso da quello che sono.

- E come sei? Stronzo e basta?

Kamal aveva sorriso. Lei aveva distolto lo sguardo.

- Magari hai ragione, magari sono davvero un povero stronzo. Ma io sono proprio così. Non fingo

niente, io.

- Lo dici tu. Magari invece sei talmente furbo da prendere per i fondelli il mondo intero.

- Addirittura. Sarei un fenomeno.

- Kamal, cazzo vuoi?

Lui aveva aspettato un attimo.

- Domanda giusta.

- E la risposta sarà altrettanto giusta?

- Chissà. Bisogna vedere se ho coraggio, oltre che faccia tosta.

- Una risposta coraggiosa? E quale sarebbe?

C’era stato un lungo silenzio. Lei aveva ripreso a camminare senza voltarsi. I passi di Kamal erano

silenziosi, confusi nel fruscio intorno. Ormai erano quasi alla cancellata.

- Se dicessi di volere te?

Lei aveva finto di non aver sentito e si era arrampicata. Altro strappo nei jeans.

- Perché non te li togli, prima di andare su tipo scimmia?

- Perché non ti fai i cazzi tuoi?

Era già dall’altra parte. Saltellava con il gatto alle calcagna. L’acqua era più liscia della notte

precedente. Se calava l’aria, nulla muoveva la pellicola trasparente. Sembrava seta.

- Che meraviglia… - sospirava togliendo la canotta.

Aveva posato la pistola in una scarpa, coprendola con l’altra scarpa.

- Sei tu una meraviglia. - aveva detto Kamal alle sue spalle.

Lei aveva voltato la testa. Il gatto stava facendo le fusa, strusciandosi contro le gambe di Kamal.

- Hai ottenuto quello che volevi. Dividerci. - lo aveva accusato.

- No. Quello che volevo era altro.

- Cioè?

- Diventare amici e condividere qualcosa.

- Una piscina.

- Perché no?

- Perché ce ne sono altre. E questa era nostra.

- È ancora vostra, tanto quanto posso dire che è mia.

- O dividere una donna?

- No. Io una donna non la divido con nessuno.

Lei aveva sfilato i pantaloni e gli slip. Si era tuffata. L’acqua l’aveva accolta come una culla. O

come un ventre materno. Si era lasciata trasportare, inerte. Era emersa e lo aveva visto. Si stava

spogliando. I vestiti cadevano accanto ai suoi. Kamal si era tuffato. A bracciate lente e sicure si

avvicinava a lei. Si attaccava al bordo. La fissava. Aveva gli occhi lucenti.

- Ma tu stai con lui? - le aveva domandato.

- Sono cazzi miei. Nel vero senso della parola.

- Saresti fedele a un uomo?

- No. Non lo meritate.

Lui aveva alzato le gambe, i piedi bucavano la superficie. Sparivano.

- Tutti non lo meritano? - aveva chiesto.

Lei aveva ricominciato a nuotare. Sentiva l’acqua muoversi in onde lunghe, attorno. Era Kamal che

le nuotava a fianco, un po’ discosto.

- Potresti cambiare idea. - le aveva detto.

- Sulla fedeltà?

- Sugli uomini.

- E come?

- Magari ne conosci uno che vuole una donna sola.

- Per quanto tempo?

Kamal non aveva risposto. Nuotavano in silenzio. Fino in fondo, là dove si toccava. In piedi, uno di

fronte all’altro.

- Se fosse per sempre? - le aveva detto.

- Non esiste per sempre.

- Eppure.

- Eppure un cazzo. Spergiuri che non siete altro.

- E non sei tu che ami il rischio?

- Che c’entra?

- Pensa un po’. Il rischio assoluto. Le parole più sovversive mai pronunciate.

- Ma che cazzo dici?

Kamal la fissava. L’acqua rabbrividiva nella brezza della notte.

- Finché morte non vi separi. - aveva sussurrato.

Lei era scivolata sott’acqua, raggiungendo il bordo e salendo su. Si era vestita. Lui non si era mosso.

- Mi lasci campo libero? - le aveva domandato.

Quel tono di scherno velato.

Infilando le scarpe, lei aveva appoggiato la pistola, ben in vista.

- Non parlare di morte. Non parlarne. – gli aveva detto.

Poi se n’era andata. Il cuore in gola.

TRENTAQUATTRO

Mi ero seduto davanti al Circolo Canottieri, su una canoa rovesciata. Speravo che qualcuno mi

cacciasse. Così avrei avuto una scusa per non incontrare Orlando. Una scusa stupida, ma a me

bastava. E invece, manco un cane.

È arrivato puntuale e si è seduto vicino a me.

- Allora, i tuoi commenti su ieri notte.

- Una gran cazzata. - ho risposto guardandolo negli occhi.

Ha riso battendomi una mano sul ginocchio.

- Bravo. Così si parla.

- Orlando, ma se ci scappava il morto. Un poliziotto.

- Dovevo permettergli di fermarci?

Ho scosso la testa sospirando.

- Marè, noi stiamo offrendo un servizio alla città.

- Ma nessuno ce lo ha chiesto.

- È il discorso che facevamo l’altro giorno. Salvare anche chi non sa il rischio che corre. Anche chi

non comprende il pericolo.

- Orlando, ma quei ragazzi…

- Erano indiani. Li tallonavamo da un po’. Troppa arroganza. E volevano aprire un negozio, tanto

per cambiare.

- Ma se la gente ha voglia di lavorare…

- Marè, ma ti accorgi che ci stanno rubando tutto? Lo spazio, i quartieri, anche il lavoro, sì. Ci

stanno rubando la vita.

- Orlando, ma tu ce l’hai con tutti.

- No. Io ce l’ho con chi minaccia il mio mondo.

Ci siamo scrutati un po’.

- Orlando, anch’io ce l’ho con chi mi ruba il lavoro, ma da qui a uccidere un ragazzo…

- Ecco l’errore. Loro non esitano.

- Non esitano perché hanno fame.

- Marè, non esitano mai. Ma le Torri Gemelle non ti hanno aperto gli occhi?

Non ho avuto parole.

- Ti piace il mondo, così come sta andando?

- È crisi dappertutto.

- E continuerà, se non facciamo qualcosa.

- Ma li vuoi ammazzare tutti?

- Nel mio piccolo, farò quello che posso.

- A me pare che sparare nel mucchio non vada bene.

Mi ha battuto una manata talmente forte sulla spalla che mi sono spaventato.

- Finalmente, Marè! - ha esclamato.

- Finalmente che?

- Sono le parole che speravo di sentire.

Ma chi ci capiva qualcosa.

- Per questo mi hai voluto vedere da solo?

- Mi servono uomini come te. Uomini veri.

E ci capivo sempre meno.

- Guarda che anche Ido… - ho cominciato, sentendomi in colpa verso mio cognato.

- No, scusa. Non voglio offendere nessuno, ma lui è di un’altra pasta.

Era un complimento per me, speravo.

- Il nocciolo è proprio quello che hai detto tu. Colpirne uno, ma quello giusto.

- Veramente io non ho detto quello…

- Hai detto la stessa cosa con altre parole.

Boh, può darsi.

- È un sacco che ci penso. Pochi ma buoni.

- La pattuglia, dici?

- No.

- E quindi.

- E quindi siamo in troppi, nella pattuglia. E troppo caciaroni.

- Orlando, scusa, ma mica ti seguo. La ronda non ti va. E adesso manco la pattuglia.

Si è messo a guardare il fiume. Acqua verde che trasportava rami. Anatre che viaggiavano veloci.

Due gabbiani che litigavano chissà per cosa.

- Tu hai una grande mira. Hai anche la testa per capire.

Però seguitavo a non capirci un cazzo.

- Ti faccio un esempio. La piega che sta prendendo il mondo intero. Uomini di potere che sono dei

rammolliti. Si piegano. Scendono a patti con i criminale. Tu approvi?

- Be’, no, ma che ci posso fare?

- Quando mai si mette un nero al potere?

Sono rimasto senza fiato.

- Tutto cambia… - ho detto.

- Gli fracassano l’America e lui tende la mano. Bello, eh?

Ero allibito. Ma dove voleva arrivare?

- Non devi pensare di arrivare in alto. Pensa al tuo livello. Al nostro livello.

E davvero mi ha letto nella mente.

- Al mio livello posso sparare in faccia al vecchio Corio, che mi ha mollato per strada.

Orlando mi ha scrutato in silenzio.

- E lo faresti?

- Ma no. Non sparerei mai a Coriolano. E poi, magari lo farei pure io, di prendere manovalanza che

costa meno.

- Lo vedi che ragioni?

- Ti sembra?

- Certo. Solo che hai scelto il bersaglio sbagliato, perciò non ti va di sparare.

- Sarebbe.

- Il bersaglio giusto è chi ti ruba il lavoro.

L’ho fissato a bocca aperta.

- Nel tuo piccolo. Nel nostro piccolo. Così possiamo fare molto. - ha detto.

- Tu dici…

- Dico di fare pulizia, con calma. Gradualmente. Solo alla nostra portata.

- Ma nostra, chi?

Ha ancora guardato il fiume.

- Lo saprai, Marè. Lo saprai. Ma non parlarne a Ido.

- No.

Di sicuro non gli avrei detto di quelle idee. Già gli pareva fissato così, figuriamoci se vado a

raccontargli la novità.

- A proposito. Dovrai dire tutto di te. Nome e cognome eccetera. Siamo una cosa seria. Non si gioca

più.

- Alla faccia del gioco.

- Vedrai la differenza.

- Tipo.

- La pattuglia è una sega mentale, a confronto.

A posto, siamo.

- Siamo gente a posto, noi. - mi ha buttato lì, insieme a una manata sulla schiena.

E dimmi che non mi legge nella mente.

- Niente caciara, eh? - ho ghignato.

- No. I silenziatori non fanno rumore.

Posizione dello scorpione.

- Non so come riesci.

- Questione di allenamento.

- Mi sconcerta.

- La posizione?

- La piega che hanno preso le cose.

Naima era scesa pianissimo. Adesso sedeva a gambe incrociate.

- Non te l’aspettavi.

- Proprio.

- Non devi farti impressionare. Sono maestri di parola.

- Ha usato parole che non mi sarei mai aspettata.

- Ma è sempre la stessa musica. Promesse e poi ancora promesse.

- Per sempre non esiste.

- Renditi conto dell’astuzia. Tutto calcolato.

- Il motivo, secondo te?

- Prendere possesso. Di una donna. Di un luogo. Di tutto. Dominare.

- Secondo te, è una faccenda di dominio?

- Amano sentirsi dominatori. È l’unica cosa che amano davvero. E per sempre.

- È nel loro dna.

- Esatto.

- Homo sapiens docet.

- Brava. Ha ucciso Neandertal ed è rimasto lui.

- Merda.

Avevano riso insieme.

- Comunque. Non scordare che la pistola ce l’hai tu.

Lei non aveva risposto. Fissava qualcosa lontano Forse soltanto un pensiero.

- Ce l’hai ancora tu, vero?

- Certo che ce l’ho io. Ma non basta averla. Bisogna essere decisi a usarla.

- Decise. Decise a usarla. – l’aveva corretta Naima.

TRENTACINQUE

Col mio nome ho smesso di litigarci.

- Ingrato, sei. - dice ogni volta mio padre.

- Grazie, allora. Davvero da essere grato per ritrovarmi Marechiaro.

- Tua madre ha voluto eternare un momento sublime. E tu.

- Ma tutti lo devono sapere, dove avete scopato quella notte?

- Ti abbiamo concepito, volgaraccio. - si offende ma’.

- Dillo come vuoi, ma’. Un nome del cazzo resta.

- Ma perché non siamo andati al cinema, quella volta? - chiede mio padre esasperato.

Ma’ sospira squadrandomi da capo a piedi.

- E mi sa che hai ragione.

E Marechiaro resto. Almeno permettetemi Marè, no? E adesso ci si mette pure Orlando. I

documenti, vuole? Ma che roba è? All’Adelaide non posso dire niente. E più ci penso, più mi ripeto

‘ma chi l’ha detto che non posso dirgli niente? Orlando.’ Botta e risposta da solo, che mi sembro

rinco. Poi ho deciso.

- Adelaide, devo raccontarti una cosa.

E gli ho spiattellato tutto.

- Minchia, Marè, quello è pazzo furioso. - è stato il suo commento.

E dàgli torto.

- Sai cosa dobbiamo fare? Mollarli tutti. – ha detto.

L’ho guardato con la mia faccia da sbalordito tanto.

- Essì, Marè. A ‘sto punto, il gioco diventa pesante.

Ho annuito poco poco.

- E poi. Roberta la puoi incontrare da solo, no?

Ho seguitato ad annuire.

- E sai cosa dobbiamo fare, per prima cosa? Liberarci delle pistole.

- E perché? – mi sono allarmato.

- Come perché? Ma te lo immagini, se ce le trovano?

- Ma chi, le trova?

- Marè, mi pari un bambino attaccato al giocattolo preferito. Guarda che quello ci può denunciare

per dispetto.

- Orlando? E si dà la zappa sui piedi?

- Perché, chi lo può dimostrare che ce le ha date lui?

Ho alzato le spalle, per non dargli ragione.

- Non lo farebbe mai. - ho borbottato.

- Sicuro? Guarda che ha sparato contro un poliziotto. Chi può dire che non ho sparato io? O tu?

E questo non mi è proprio garbato. Ennò.

Però anche l’idea di liberarmi della pistola mi manda fuori di mela. Ma come, mi dona così tanto,

addosso, e io a liberarmene? Però, ripensando al discorso di Roberta sull’uomo forte, mi sono

persuaso che non mi serve poi a molto, se non posso mostrarla a lei. E se non ho intenzione di

sparare a qualcuno.

- Dammi retta, per una volta. Gettiamole, finché siamo in tempo.

Ho tentennato, ma ho dovuto ammettere che era la cosa giusta da fare. Prima di finire nei guai.

- Un traditore. Un vigliacco. Ecco quello che sei.

- Addirittura.

- Mi hai lasciata sola a difendere il territorio.

- Addirittura.

Si era fermata, piazzandosi di fronte a lui.

- Sai dire solo quello? Sta’ zitto, allora. Addirittura.

Aveva ripreso a camminare in fretta.

- C’era Kamal?

- Certo. Lui c’era.

- Ascolta. Evitiamo queste sciocchezze.

- Sarebbe.

- Sarebbe che non mi va di litigare per qualcosa che non è nemmeno mio.

Lei si era avvicinata.

- Tipo.

- Tipo una piscina di notte. Mica è mia.

- Tipo una donna. Mica è tua. – gli aveva sussurrato.

- Cos’è ‘sta smania di possesso?

- Tu non hai voglia di difendere niente e nessuno.

- Ma cosa c’è da difendere? Tu sai difenderti benissimo da sola.

- È una colpa?

- Ma no, cazzo, non dico questo.

- Tu non hai niente da dire. Tu non hai idee. Nemmeno ideali.

- Sentiamo un po’, che ideali hai, tu?

Lei stava ansimando. Stringeva i pugni.

- Credevo di avere un complice e scopro che sei un traditore.

- Ma tu sei fuori come un balcone. Ma che discorsi…

- Quella cancellata. Cosa separa, per te?

- Occazzo. Andiamo sulle metafore adesso…

- Manco per idea che ci saliresti, sulle barricate, eh?

- Barricate? Ma di che cazzo parli?

- Ti va bene così. Come va, va.

- Tu sei stonata. O ti sei fatta di roba grama.

- Lui non ha mollato.

- Kamal? E ha fatto bene. Si vede che ci tiene un casino, alla piscina.

- E a me, magari. E all’idea che rappresenta una piscina di notte.

- Senti, parliamo seri. È un bel gioco, okay, ma resta un gioco. Okay?

- Okay un cazzo. Non sei in grado di difendere nemmeno te stesso.

Gli aveva girato le spalle. Si era messa a correre. Ma sapeva che non la stava seguendo. Sapeva che

non l’avrebbe seguita mai più.

TRENTASEI

Alla fine. Abbiamo deciso per una notte senza luna.

- Da quando ti interessi alla luna? - si è stupita mia madre.

- Da quando ho intenzione di organizzare un orto sul balcone. - ho risposto.

Persino mio padre ha smesso di mangiare.

- Ma stai bene, Marè?

- Finalmente qualcosa di costruttivo. - lo ha zittito ma’.

- Gatta ci cova. - ha strafalcionato in una forchettata di spaghetti quella fetenzia nata della Licia.

- Grazie per l’entusiasmo. Ma ho intenzione di proseguire nella mia impresa.

- Ma se manco l’hai cominciata. - ha inghiottito la Licia.

- Chi ben incomincia è a metà dell’opera. - ha menato il dito per aria ma’.

- E che c’entra? Lui mica ha ancora iniziato. – ha detto pa’.

- Per intanto inizio a interessarmi della luna.

- Assì. Per i pomodori o per le melanzane? - ha chiesto la Licia sarcastica.

- Ho un amico contadino che mi consiglia.

- Però è vero. I contadini guardano la luna. – ha esclamato pa’.

- I contadini si spaccano la schiena sulla terra. - ha osservato la Licia.

- Io mi sa che comincio a spaccare qualcosa sulla tua testa.

- Ma no, ma perché? Per una volta che ha un’idea che sembra furba. – ha detto ma’ alla Licia.

- Grazie, ma’.

- Prego. Sai che è davvero un’idea? Potremmo venderle al mercato. Pensate un po’. Le verdurine di

Marè. Biologiche, appena raccolte.

- Per il momento, manco piantate. - ha riso pa’.

- In definitiva, c’è luna o non c’è luna, stanotte? - ho domandato.

Ma’ si è alzata. Ha consultato il calendario.

- Luna nuova. Che pianti?

- Devo chiedere a Poldo.

- Sarebbe?

- Il mio amico contadino.

Si sono guardati tra loro. A mio padre scappava da ridere. Ma’ era preoccupata. La Licia mi fissava

torva.

- Basta che non ci coltivi la canapa indiana. - ha detto la stronza.

- Non sarebbe una cattiva idea. Quella sì che rende. – ha ghignato pa’.

- Rende la galera. - ha detto ma’.

- Io dico che gatta ci cova. - ha insistito la Licia.

- Assì? E che cova? - l’ho guardata duro.

- Vedremo i micini che ne escono.

- Ma senti.

- Magari esce una bella gattina… - ha bisbigliato piegando il tovagliolo.

- Tu non ci esci di sicuro, col culo che ti ritrovi.

- Ti è sempre piaciuto, il mio culo.

- Mica avevi ‘sta stazza, una volta.

- Una donna deve avere le curve al posto giusto. - è intervenuto pa’.

- Giusto. Tutte anoressiche da fare paura. - lo ha sostenuto ma’.

- Magari ha cambiato gusti, tuo figlio. - ha detto la Licia.

- E succhia ossa? Bel fesso!

- Lo sapete che siete deprimenti? Mi demotivate. Ma perché parlo con voi? - mi sono scazzato per

finta.

Mi sono alzato di scatto, offesissimo – sempre per finta.

Poi sono uscito in fretta. Per davvero.

- Le amazzoni. Mai sentito come vivevano?

Naima si tirava su a forza di braccia. Le gambe unite.

- Ti piacciono proprio, le amazzoni.

Naima scendeva con un sospiro.

- Si può. Sans les hommes, dico.

- Ma anche loro avevano uomini.

- Sì, ma solo per certi usi. Erano comunque in minoranza.

- Minoranza, ma oggi siamo qui a parlarne, io e te.

- Non tutte saremmo d’accordo a mutilarci. Te lo taglieresti, tu, il seno destro?

- Non credo.

- Nemmeno per tirare meglio con l’arco?

- E se sono mancina?

Naima le aveva lanciato una clava. Lei l’aveva presa con la mano destra.

- Visto? - aveva riso Naima.

Lei roteava la clava con la sinistra.

- Potrei imparare, però.

- E che senso avrebbe?

- Ha senso tagliarsi una tetta?

- Dipende. Per un ideale, magari.

- Sei matta. No. Io per nessun ideale.

Naima la guardava. Di nuovo afferrava gli anelli. Ripeteva l’esercizio.

- L’ideale è dei folli. - diceva lei.

Naima saltava sul tappeto. Continuava a saltellare sulle punte dei piedi.

- O dei visionari. - aveva ansimato.

- Non è la stessa cosa?

Naima respirava a fondo tre volte di seguito. Ferma. Inclinava il busto indietro.

- No, non è la stessa cosa. - aveva risposto con voce rotta.

Lei aveva fatto spallucce.

- Sono stufa di tutti i distinguo. Sono una creatura terra terra. Poche parole, ma chiare.

Naima aveva riso forte.

- Cosa sei?

- Una creatura terrestre. Nel vero senso della parola.

Naima si era avvicinata. Quel sorriso.

- Tu sei una creatura da sogno. Il mio sogno.

Le dita affusolate tra i suoi capelli.

- Se qualcuno minacciasse il tuo sogno? - le aveva chiesto.

Naima premeva le labbra calde contro le sue.

- Lo ucciderei.

Lei si era scostata.

- Davvero?

Naima aveva annuito attirandola a sé.

- Oui, vraiment.

TRENTASETTE

Qui cominciava a fetere. Non vedevo l’ora di partire per il mare.

- Sì? E con quali soldi? - mi ha chiesto la Licia.

È di nuovo in astinenza da botte da orbi. Lo vedi, che sono tipo una droga?

- Con i tuoi. - le ho risposto calmo.

- Sì?

-Sì. Altrimenti, chi si muove da qua?

Questi discorsi li facciamo quando siamo soli in casa. Mia madre ha detto che non vuole più

saperne, di guardarci menare le mani.

- Essì, figlio mio. L’ultima volta ti sei beccato un cazzotto che manco Tyson. – mi ha detto pa’.

Alla fine, è una questione di orgoglio parentale.

- D’accordo, pa’. Ma poi lei è rimasta rintanata per due giorni.

- D’accordo anch’io, ma se lei non lavora, mi dici come si campa?

E lì divento pensoso. Non penso proprio a niente, tranne a come batterla tipo cotoletta senza

lasciarle i segni.

- Con un asciugamano. - mi ha suggerito l’Adelaide.

- La Licia manco lo sente, un asciugamano. I pugni, deve percepire.

- Ma no. Se tu le metti un asciugamano in faccia, puoi menare e i segni non si vedono.

Ma dove l’ha presa, ‘sta cosa?

- In un film. Facevano così per picchiare i prigionieri.

E io ci ho provato sì. Solo che con la Licia non funziona. Già lo sapevo. Mi ha fregato

l’asciugamano e lo ha usato lei, per sbattermelo in faccia con tutta la sua forza. E non è poca. Avrà

il culo grosso, ma le braccia sono forzute tipo sollevatore di pesi.

- Perché lavoro. Io. - mi sottolinea ogni volta.

- Certo. I bigodi pesano.

- Pesa portarsi addosso uno scansafatiche.

Le risposte che si permette, da quando il vecchio Corio le ha confidato il motivo per cui non mi

vuole più.

- Ma si capisce! Ma certo! Io difendo l’onore della famiglia in silenzio e tu credi a cosa racconta

quello sporcaccione!

- Non ti arrampicare sui muri, Marè.

- E tu vedi di non sbatterci il muso contro.

- Marè, sei tu un porco.

- Davvero? Perché non voglio vedere insidiata mia sorella?

- Perché la baccagli a tutte!

- Quello che lo sporcaccione chiama baccagliare, io lo chiamo promuovere il lavoro.

- Col cazzo, che lo promuovi!

È anche spiritosa, se vuole.

- Licia, tu credi pure a lui, invece che a me. Io, comunque, mia sorella la difendo.

- Difendila dall’Adelaide, che è meglio.

Di nuovo se l’è prese, Concetta.

- Se stava zitta, non succedeva. - risponde l’Adelaide a mia madre.

L’ultima volta gliel’ha risposto proprio quel giorno. Proprio mentre io e la Licia avevamo lo

scambio di opinioni. Quando ma’ è rientrata inviperita ululando improperi su quella specie di

genero, si è fatta muta di colpo. La Licia aveva il ghiaccio premuto sulla guancia e sul labbro.

- Santo cielo. - ha sospirato ma’.

Ed è corsa in cucina a preparare la cena.

In definitiva. Io e l’Adelaide siamo usciti imbronciati. Offesi per come le nostre donne si

comportano.

- Almeno non abbiamo dovuto dire dove come quando. - ha sghignazzato lui.

Ho accarezzato la pistola, camminando adagio verso il ponte.

- Marè, diamoci una mossa, che prima lo facciamo e meglio è.

Lui non si è affezionato come me. Per lui è sempre stata un pensiero molesto.

- Qui va bene. - ha detto.

Sul ponte di corso Vittorio. Con noncuranza, dopo essersi guardato attorno, ha lasciato cadere giù

qualcosa. Solo io sapevo cos’era.

- Dài, Marè.

Con la mano che tremava, ho stretto per l’ultima volta la mia carissima compagna. Ho chiuso gli

occhi e ho aperto la mano. L’Adelaide dice che è impossibile, ma io sono sicuro di avere sentito un

tonfo nell’acqua. Mi si è spezzato il cuore.

- Quando sai usare bene una cosa. Liberartene. - ho piagnucolato tornando sui nostri passi.

- Come con una donna, dici?

- Ma lo sai che sei balordo forte, se ti metti?

Lui ha riso, sollevato da quell’ingombro.

- Marè, vedrai che mi darai ragione. Presto o tardi saremo contenti di non averle più con noi.

- Come con una donna, dici?

Abbiamo riso. Io un po’ a denti stretti.

- A proposito… - ha cominciato lui.

E ho capito che stavamo per parlare di Gilda e Roberta. Ma si è bloccato. E poi dici la sfiga. Roba

da non credere.

- Ma cos’è? - ha detto piano.

Automobili della polizia messe di traverso nel controviale. Proprio dove eravamo diretti.

- Ci hanno visti. - ha mormorato.

Il cuore a mille.

- Quel bastardo ha fatto la spia.

- Ci hanno tenuti d’occhio, finché ci hanno cuccati.

La paura fa davvero brutti scherzi. Il panico li raddoppia. E noi due eravamo fuori di mela, ormai.

Dalla strizza, dico. Un barlume di buon senso mi ha suggerito la mossa giusta.

- Adelaide, torniamo indietro con calma. Stiamo passeggiando in cerca di fresco, no?

- In cerca di guai, vuoi dire. E al fresco ci sbattono loro, sta’ pure tranquillo.

Era nel panico più di me. E mi ha trasmesso quel poco che gli strabordava. Ormai eravamo in pari e

continuavamo ad andare avanti.

- Giriamo qui. - l’ho tirato per un braccio.

Bastava svoltare nella via a sinistra ed era fatta.

Ma lui era come ipnotizzato.

- Cazzo combinano? - ha sussurrato.

- Che ti frega? Non li guardare e vieni con me.

Difficile spiegarlo anche adesso. Mi ha preceduto a grandi passi. E quelli lo hanno visto.

- Fermi. - ha gridato una voce.

Ora, dopo la sparatoria di quella notte, c’era l’allerta generale. Meglio dire: l’isteria generale. E

proprio noi che dovevamo saperlo per forza, non lo sapevamo manco per immaginazione.

Comunque.

- Fermi.

Bastava fermarsi e raccontare la balla del caldo eccetera. Ma all’ordine di una donna si fermava

l’Adelaide?

- Fermi.

E l’Adelaide non si è fermato che mi pareva un incubo. Una donna che urla comandi. Sì. A lui.

- Fermi.

Erano isterici e uno che ti cammina contro non fa bella impressione.

- Fermi o sparo. - ha urlato una voce di donna.

- Cazzo fermati! - ho avuto il tempo di dire.

L’Adelaide. La sfiga che ti porti addosso. O ti vai a cercare. Mica si è fermato. E quella ha sparato.

L’aria era diversa, quella notte. Lo respirava camminando adagio, quel misto di tensione e pericolo

mai avvertito prima.

Avrebbe voluto non essere sola. E la certezza di trovare Kamal ad attenderla, era insopportabile.

- Merda. - aveva soffiato tra i denti osservando il baluginare delle luci azzurre.

Era successo qualcosa. Automobili della polizia sfrecciavano. Pneumatici che sgommavano. E il

suo cuore. Batteva forte. Ragionare. Non c’era motivo. Non c’entravano con la sua direzione. Con il

suo mondo. La inquietavano soltanto. Doveva controllarsi e proseguire per la sua strada. Non le

importava, delle strade degli altri.

- Ma tutte le strade si intersecano, prima o poi. - diceva sempre Naima.

L’aveva scacciata dalla mente. Si era fermata un attimo. Era tutto alle sue spalle. Là, dove stava

guardando, era buio fitto. Il suo mondo era al sicuro, immerso e avvolto nell’oscurità. Nel verso di

qualche animale. E nell’angolo sotto il canneto, ci poteva scommettere, c’era la piccola sagoma di

un gatto con gli occhi gialli. E poi. Lui. L‘uomo alla finestra. Cosa pensava di lei e Kamal. Un

guardone non pensa.

Si sentiva quasi tranquilla. Ma poi.

Una linea nera strisciava sul marciapiedi. Si allungava, distendendosi in forma umana. E subito

appariva il suo riflesso ingrandito e ribaltato, sul muro. Era così immobile, adesso, sembrava un

angolo in cui rifugiarsi. Lei si sentiva paralizzata dalla paura. Nonostante la pistola. Qualcuno era là,

ad attenderla. Poi Kamal le era venuto incontro.

- Niente tuffi, stanotte. - aveva detto.

- E perché?

- Vieni a vedere.

Kamal aveva ignorato la pistola che lei stringeva in mano. Si era incamminato volgendole la

schiena. Non aveva paura di lei. Lui. Kamal. E lei lo stava seguendo. Aveva visto subito che c’era

qualcosa di strano. Quel nastro bianco e rosso e delimitare. Cosa. Non avevano scavalcato la

cancellata. Kamal l’aveva condotta oltre la porta della palestra.

- Chi ti ha dato la chiave?

- Qualcuno l’ha dimenticata appesa, un giorno.

- E tu hai fatto la copia. Bravo.

- No, mi sono tenuto quella.

- Non è più eccitante scavalcare?

Non le aveva risposto. Le aveva preso la mano. Con dolcezza. E lei l’aveva abbandonata nel suo

palmo caldo. Lui camminava guardingo, ma senza esitazioni. Come vedesse nel buio o conoscesse a

memoria il percorso. Erano sbucati alla piscina. La sua piscina. Devastata.

- Cazzo è… - aveva iniziato lei.

Era ammutolita. Fissava la vasca vuota. Vuota. Le piastrelle a nudo. Poche luci splendevano crude.

- Sono entrati ieri notte. Appena dopo di noi, è evidente.

- E?

- Hanno spaccato tre luci sommerse. I vetri al fondo. Dei ragazzi si sono fatti male.

- Chi è stato?

- Non lo so. Davvero.

Lei aveva ingoiato parole cattive.

- Resta chiusa diversi giorni. Devono sostituire le luci, ripulire e riempire di nuovo.

- Qualcuno che ci ha lasciati uscire. - aveva detto lei sedendo sul bordo, le gambe ciondoloni nel

vuoto.

- Già. Arrivati dopo di noi.

- O hanno semplicemente agito, dopo di noi.

Kamal la guardava. Lei respirava a denti stretti. Non aveva il coraggio di voltarsi, di alzare gli occhi

lassù, alla finestra.

- A cosa pensi? - le aveva chiesto.

- Niente.

Poi si era alzata e aveva camminato tutto intorno.

- Mi spiace. - aveva detto Kamal.

Lei aveva alzato le spalle.

- Ti assicuro che non sono stati i miei amici.

- Sicuro?

- L’ho chiesto personalmente. Me lo avrebbero detto.

Lei aveva sceso la scaletta, piano, guardandosi attorno. Qualcosa luccicava sul fondo. Schegge di

vetro.

- È impressionante, eh? – lui l’aveva seguita.

Non gli aveva risposto. Il suo mondo violentato.

- Hanno tolto il più grosso, oggi. Da domani fanno pulizia meticolosa.

- Chi te l’ha detto?

- Un bagnino. Sono venuto nel pomeriggio.

- A nuotare?

- Sì, volevo nuotare con i miei amici.

- E che ci vieni a fare anche di notte? A rompere le scatole a me, eh?

L’aveva fissata serio. Poi aveva chinato gli occhi, percorrendo tutta la distanza fino laggiù, dove

terminavano i cinquanta metri.

- No. Vengo a farti la corte. E spero.

- Cosa speri?

- Di fare l’amore con te.

Allora aveva posato la pistola giù a terra. Un passo indietro. Sotto le scarpe scricchiolavano i vetri.

Si era tolta la maglietta. E tutto il resto. Puntine aguzze le ferivano le piante dei piedi.

Kamal era sceso molto adagio, come se si aspettasse un diniego improvviso. Gli occhi affondati nei

suoi. Aveva tolto la maglia. Lei si era accorta che ansimava. Il petto magro e muscoloso. I jeans

scivolavano sulle gambe forti. Scalciava le scarpe. Gli slip lanciati più in là.

- Sei bella.

Erano ancora lontani, ma lei sentiva il profumo della sua pelle. Guardava la sua erezione. E si

sentiva sciogliere. Aveva sollevato i capelli con le mani. Lentamente li aveva lasciati cadere sulle

spalle, liberandoli tra le dita, senza premura. Solo per lui. I loro gesti risuonavano nella vasca vuota.

Quel ventre muto che amplificava i suoni. Anche i loro respiri echeggiavano tra i muri azzurri che

rimandavano il calore del sole. Kamal aveva teso la braccia. E allora lei aveva raccolto la pistola.

Impugnandola bene. Puntandogliela contro. In silenzio Kamal avanzava. Le braccia si aprivano per

accoglierla. Le era vicino. Di fronte. Lei aveva alzato la pistola all’altezza del suo viso. Kamal

continuava a tenere gli occhi nei suoi. Neri. Brillavano. Lei sentiva le sue braccia avvolgersi intorno

al suo corpo, lentamente. Le mani si posavano sulla sua pelle. Rabbrividiva. Scivolavano

pianissimo sui suoi fianchi. Lei si spingeva avanti, schiacciando il pube contro quel cazzo duro.

Deglutiva ancora e metteva la pistola contro la bocca di Kamal. E lui schiudeva le labbra. La

accarezzava con delicatezza. Le dita scivolavano sotto i suoi glutei. Leggere. La esploravano. Lei

spingeva la pistola e lui la assecondava, prendendola in bocca. Fissandola negli occhi. Lei ansimava. Decisa a usarla.

TRENTOTTO

Un’interrogazione. Ma chi ti interroghi? La polizia che indaga sulla polizia. Da morire dal ridere. E

per poco ci muore davvero, l’Adelaide. Un polmone perforato. Mica uno scherzo. Persino mia

madre ha dato di testa. Per dire, lei dice sempre che le sta sullo stomaco, l’Adelaide.

- Non lo digerisco. - borbotta.

Comunque. Più che altro era preoccupata per Concetta, disperata che manco una vedova.

- Appunto. Ci è andata vicino. E le è andata male. – mio padre ha ridacchiato.

Si tirava i capelli, mia sorella. Giurava che un uomo più buono non esisteva. E parlava

dell’Adelaide, quello che da poco le aveva storto un occhio.

Chi è causa del suo mal, pianga se stesso – frase di mio padre.

Alla fine, nessuno ci aveva visti buttare le pistole. Nessuno ce l’aveva con noi. Nessuno si è mai

sognato di fermarci. In definitiva, due minchioni nati, io e l’Adelaide.

- Li faccio marcire in galera! - gridava mia madre nei corridoi dell’ospedale.

L’abbiamo trascinata via di forza. La Licia non aveva parole. Ed è tutto detto. Mi scrutava quando

io non vedevo. Ero pallido, lo sapevo. Mi sentivo in colpa. E mi sentivo pure male, ripensando a

quello che era successo. E poi ero sicuro che l’Adelaide morisse. Non smetteva di sputare sangue. E

non mi rispondeva.

- Cosa vuoi che ti risponda, che è incosciente? - mi aveva detto qualcuno.

Tre giorni sono andato avanti e indietro, consumando il marciapiedi davanti all’ospedale. E il

corridoio, dove ogni tanto ci facevano vedere l’Adelaide. Dai vetri. Tirando su la tapparella per

qualche attimo.

Un mattino non ho resistito ad aspettare gli altri. Sono corso all’ospedale, da solo. Non era orario di

visita e me ne fregavo.

- Oh, eccolo qua! - mi sento dire.

L’infermiera, quella carina. Aveva finito il turno e stava tornando a casa.

- Lo sa che suo cognato sta meglio?

E io con la bocca aperta.

- Avanti, venga che glielo faccio vedere.

Mi ha impaludato con una roba verde e quatti quatti siamo entrati nella stanza. Che impressione.

L’Adelaide era intubato dappertutto. Tubi tubetti e tubicini che entravano o uscivano da tutti i buchi

possibili. Poveraccio. Dormiva. E sul monitor lo zigzag non smetteva mai. Con un dito sulla bocca

lei mi ha fatto segno di tacere. Ha alzato l’altro dito. Un minuto. È uscita in punta di piedi.

Non osavo muovermi. Era bianco come un lenzuolo, povero diavolo. Ma ha aperto gli occhi. L’ho

salutato con una mano. E lui, con la sua – quella libera dalla flebo – ha raggrinciato l’indice.

Dovevo avvicinarmi. Mi sono accostato facendo attenzione a non pestare o toccare o schiacciare

checazzonesò. Lui muoveva le labbra. Voleva dirmi qualcosa. Allora mi sono chinato. L’orecchio

attaccato alla sua bocca.

- Menarle, bisogna. - ha sibilato.

Ho annuito grave. Sante parole. Menarle bisogna. E non ti sbagli mai.

Non lo avrebbe mai raccontato a nessuno. Bastava convincersi che fosse stato un sogno. O un

incubo. C’era da immaginarlo, no? O non era così semplice.

Soltanto il soffio dell’aria li raggiungeva, vorticando tra le pareti della vasca. Carezzando la pelle

nuda. Lo aveva sentito tremare, mentre le sue mani non si fermavano. Calme, continuavano a

sfiorare ogni centimetro del suo corpo. Occhi negli occhi. D’improvviso lei aveva pensato di non

avergli mai accarezzato i capelli. Neri e ricci, dovevano essere soffici. Poteva inanellarci le dita.

Poi.

Non avevano recepito subito. Sembrava un rumore lontano, magari un’eco trasportata dall’aria che

si era levata su di loro, come a cercarli. O ad avvertirli. Ma in realtà era troppo vicino, troppo

incessante. E allora se n’erano accorti. L’acqua. Colava dai bocchettoni. Dapprima un filo timido.

Poi un getto. Uno scroscio. Qualcuno aveva aperto l’acqua. Assurdo. A quell’ora. E non si poteva

ancora riempire. La pulizia mica era stata fatta. Lei aveva tolto la pistola dalla bocca di Kamal e lui

l’aveva presa per mano, tirandola fuori di lì.

- Chi…? - aveva detto lei.

- Rivestiti.

E lei gli aveva dato retta, senza ribattere. Qualcosa non quadrava. C’era uno scalpiccio oltre le

vetrate che dividevano la vasca dai locali interni. E nel buio si distingueva una figura muoversi.

D’istinto lei aveva alzato gli occhi alla finestra. Ma era stato un secondo, neppure un secondo..

- Fuori. - aveva gridato la voce.

- Siamo fuori. - aveva risposto Kamal mettendosi davanti a lei.

Davanti a lei.

- Sta arrivando la Polizia. Fuori.

- E perché l’hai chiamata? - aveva chiesto Kamal.

- Perché è tempo di toglierci dai piedi la gentaglia che spacca tutto. Che rovina la roba degli altri.

- Non siamo stati noi.

- Però voi siete qui.

- Siamo stupidi da tornare, se siamo stati noi?

- Però siete qui. Qualcuno deve pagare.

Kamal aveva riso piano.

- Siamo qui tutte le notti. E tu a guardarci. Perché proprio stanotte?

- Te l’ho appena detto.

Kamal aveva scosso lento la testa.

- Non è quello il motivo. Tu sai che non siamo stati noi.

- Io so niente. Fuori.

- Se hai chiamato la polizia, perché ci mandi fuori? Non vuoi che ci arrestino?

Li avevano sentiti arrivare. Veloci e silenziosi. Le auto senza fari che accostavano all’edificio. Le

portiere spalancate e non richiuse. Passi frettolosi. E le luci. Abbaglianti.

- Sono loro? - aveva chiesto una voce.

- No. Lui. La ragazza non c’entra. – aveva risposto l’uomo.

Lo avevano trascinato via, senza che Kamal protestasse.

Senza che lei si muovesse. O dicesse qualcosa.

Non era una sua idea. Ne era sicura. Quando era corsa alla cancellata e quelle braccia l’avevano

trattenuta, lei aveva visto la testa di Kamal voltarsi. E i suoi occhi cercarla in un luccichio. Avevano

acceso i fari, per ripartire. E anche i lampeggianti.

- Perché l’hai fatto? - gli aveva urlato dandogli uno schiaffo.

L’uomo aveva riso.

- Dovresti essere contenta.

- Che bisogno c’era? - lo aveva spinto lei.

Lui continuava a ridere.

- Calmati, piccola stupida. Il tuo mondo è di nuovo tuo.

Lei singhiozzava, ravviando i capelli con le dita tremanti.

- Non sei contenta?

- Kamal non c’entra niente.

- E perché non lo hai detto? Perché non lo hai difeso?

L’uomo si era avvicinato alla vasca.

- Dovrò svuotarla. Il fondo non è pulito.

- L’unico che non c’entra. - diceva lei calciando l’erba.

- E allora. Perché non lo dici? Vai. Vai a raccontare cosa facevate qui ogni notte, tu e il tuo amico.

L’altro, dico. O cosa avevi intenzione di fare. Tu. Con Kamal.

Si era avvicinato. Lo vedeva. Lui che era sempre stato un’ombra. Era un uomo. Uno dei tanti. Quel

sorriso. Lo sguardo lascivo.

- Dovresti ringraziarlo, il custode notturno. Ho vigilato su di te.

L’aveva toccata. Le aveva messo le mani sul seno. Lo stringeva sorridendo. Allora lei si era

ricordata. Divincolandosi, era corsa dove aveva abbandonato la pistola. Sul secondo gradino della

scaletta. L’aveva impugnata. Gliela puntava addosso, da dentro la vasca.

- Bella gratitudine. Ti rendo il tuo mondo e tu. Siete tutte uguali. Puttane e basta.

- Non ti avvicinare.

Lui camminava adagio. Scendeva la scaletta verso di lei.

- Non è questo, che volevi? Il tuo mondo. Eccolo, ripulito, libero, solo tuo.

- Ma Kamal non c’entra.

- Stupida. Non ragionate manco a pagarvi. Che importanza può avere. L’importante è ottenere

quello che si vuole.

- Sei un porco tanto quanto gli altri.

- Può darsi. Ma ti ho reso un buon servizio. Da sola, mi dici cos’avresti combinato?

- Bastardo.

- Te lo dico io, cos’avresti combinato, puttanella da quattro soldi. Avresti scopato con il marocchino.

Come con quell’altro e chissà quanti altri.

- Schifoso.

- Io? Io sono uno dei tanti. Che differenza fa, per te?

E si era avvicinato svelto, sicuro. Sempre più vicino. Sorridendo. Allora. Allora aveva sparato.

Epilogo

Li ascoltava parlare. I loro discorsi. Le lamentele di lei. Il suo modo di muoversi. Di atteggiarsi.

Non si scordava mai. Mai. Della sua presenza. La rendeva vanitosa. Una donna.

Ogni notte l’uomo si immergeva, quando lei se n’era andata. L’acqua conservava il suo profumo e il

calore del suo corpo. Respirava in superficie l’odore della sua pelle. Udiva le sue parole. I suoi

sospiri. Ogni notte. Sognava di fare l’amore con lei, avvinghiati nell’acqua. Nuotando.

E quella notte gli era venuta l’idea.

Abbandonavano sempre lattine e bottiglie vuote. A lui toccava riordinare. Togliere gli oggetti

contundenti, come si diceva. Per la salvaguardia degli altri. Anche di chi non la merita,

un’attenzione simile.

Si era tuffato mirando alle luci sott’acqua. In pugno il tubo staccato da una doccia. Avevano fatto

un rumore sordo. I vetri schizzavano e affondavano lenti. Quei teppisti avrebbero fatto così, no? Li

aveva sentiti tante volte, raccontare le loro bravate.

Aveva osservato il suo lavoro, sorridendo.

Due ragazzini, alle quattro del pomeriggio, si erano feriti le gambe, uscendo dall’acqua tirandosi su

dal bordo. Aveva visto i bagnini tuffarsi, per scoprire il motivo di quei tagli ai polpacci e ai piedi.

Avevano dovuto chiudere la piscina, ovvio. Tutti che smadonnavano.

- Io lo so, chi sono. Vandali. - dicevano.

- Ma sì, quel gruppetto di selvaggi.

- Marocchini, sono.

- Ma no, sono i romeni che abbiamo rimproverato ieri. Quelli che si tuffavano con la rincorsa.

- No, quelli che nuotavano senza cuffia.

- Sia chi sia. Finché abbiamo certa gente tra i piedi, non si può vivere tranquilli.

E sospiravano scuotendo la testa. Incazzati.

E lui pensava a lei. A quello che lei chiamava il suo mondo. Voleva proporle di dividerlo insieme.

Ogni notte. Nuovi Adamo ed Eva. Per la notte. Solo per la notte.

E invece aveva sparato. Una sciocca, poco più di una bambina. L’uomo le aveva afferrato il polso,

sventando il colpo. Aveva stretto forte e lei aveva mollato la pistola. Allora l’aveva raccolta, per

tirarla lontano. Voleva lei, soltanto lei. Ma gli si era gettata addosso, piantandogli le unghie negli

occhi. Non sapeva come fosse partito il colpo. Certo non da lui. Non dalla sua volontà. Ma le dita

frenetiche dell’uomo avevano perso quasi la sensibilità, tutta concentrata sugli occhi. Che lei stava

graffiando.

Aveva sentito la pressione delle sue unghie allentarsi. Aveva visto lo stupore nel viso bello. L’aveva

sostenuta, mentre cadeva al rallentatore. E chiudeva gli occhi con un sospiro breve.

Nella vasca, l’acqua sgorgava ritmica, con un frastuono di cascata. Sciabordava intorno con un

senso di inesorabilità. Le aveva tenuto la mano. Sotto il seno si allargava una macchia rossa,

dilatandosi e diluendosi nell’acqua. Sollevandosi in piedi, ancora aveva tenuto la mano piccola nella

sua. I suoi capelli si stavano aprendo a ventaglio e la bocca aveva l’abbandono del sonno. Allora le

aveva lasciato la mano, risalendo la scaletta.

Una linea luminosa contornava le montagne. Il nuovo giorno arrivava. Senza parole. Senza

proclami. Prendeva possesso della sua parte di vita. Del suo mondo.