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LA CASA COLONICA A MBIENTE E LA CULTURA Le tipologie attuali della casa contadina italiana possono essere tutte ricondotte a tre epoche storiche ben definite, che coincidono con le tre grandi ondate di colonizzazione urbana delle campagne della penisola, e cioè a quella del tardo Medioevo, del Rinascimento e infine dell’epoca dell’Illuminismo. Il primo grande slancio di colonizzazione agraria fu opera della piccola nobiltà e della borghesia di nuova formazione dei rostro medievali, cioè dei villaggi agricoli fortificati. Come ha osservato lo storico medievalista Philip Jones, uno degli effetti principali di questo “inurbamento” fu quello di aumentare il numero dei proprietari fondiari cittadini, i cui possedimenti, organizzati secondo le forme regolari dei campi chiusi, formavano una cerchia di breve raggio attorno al costrum. E’ dunque l’ambiente urbano dei castra a dare impulso alla colonizzazione delle terre ed è a questo fenomeno che va ricollegata l’origine immediatamente urbana dell’architettura rurale tra l’XI e il XIV secolo. Il modello più diretto di questa tipologia è la torre d’abitazione dei cavalieri inurbati(fig. in alto a destra), detta anche palatium, come possiamo vedere ancora oggi a San Gimignano, “la città delle belle

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LA CASA COLONICA

AMBIENTE E LA CULTURA

Le tipologie attuali della casa contadina italiana possono essere tutte ricondotte a tre epoche storiche ben definite, che coincidono con le tre grandi ondate di colonizzazione urbana delle campagne della penisola, e cioè a quella del tardo Medioevo, del Rinascimento e infine dell’epoca dell’Illuminismo. Il primo grande slancio di colonizzazione agraria fu opera della piccola nobiltà e della borghesia di nuova formazione dei rostro medievali, cioè dei villaggi agricoli fortificati. Come ha osservato lo storico medievalista Philip Jones, uno degli effetti principali di questo “inurbamento” fu quello di aumentare il numero dei proprietari fondiari cittadini, i cui possedimenti, organizzati secondo le forme regolari dei campi chiusi, formavano una cerchia di breve raggio attorno al costrum. E’ dunque l’ambiente urbano dei castra a dare impulso alla colonizzazione delle terre ed è a questo fenomeno che va ricollegata l’origine immediatamente urbana dell’architettura rurale tra l’XI e il XIV secolo. Il modello più diretto di questa tipologia è la torre d’abitazione dei cavalieri inurbati(fig. in alto a destra), detta anche palatium, come possiamo vedere ancora oggi a San Gimignano, “la città delle belle torri. Questa tipologia consiste in un parallelepipedo regolare sviluppato in altezza. Al nucleo originario della torre si aggiungono talvolta altri elementi e volumi edilizi come la scala esterna, il portico e la loggia. Questo blocco edilizio, nato all’interno del borgo murato, e trasferito sia dal punto di vista tipologico che formale in aperta campagna, costituisce il nucleo primitivo di molte antiche fattorie toscane, attorno al quale si sono venuti ad aggiungere nel corso del tempo altri corpi edilizi, parallelamente all’ampliarsi delle attività agricole e all’aumento della popolazione contadina.

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Nella maggioranza dei casi, questo processo di crescita non avviene però casualmente, senza regole precise. Analizzando il fenomeno, Claudio Greppi osservava che dopo la prima ondata di colonizzazione rurale, quando la casa di campagna si identificava sia nella tipologia che nella forma con la casa di città, si verificò un progressivo allontanamento dell'abitazione agricola dalla tipologia urbana, cioè un lento e continuo adattamento del tipo originario alle funzioni del lavoro sui campi.

Al momento della colonizzazione rinascimentale l’edilizia di campagna stava già avviandosi verso un suo sviluppo autonomo. Il problema delle stalle, degli spazi di deposito e d’immagazzinamento, per citarne solo alcuni, aveva spinto ad alterare sensibilmente l’impianto originario nato nel borgo per esigenze urbane. E’ questo il momento in cui, secondo il Greppi, si verificò uno scollamento all’interno dell’edilizia rurale fra tipologia e forma o, in altri termini, tra organizzazione funzionale degli spazi e aspetto formale della costruzione. E’ questo, anche, il momento in cui nasce la teorizzazione della villa da parte degli architetti rinascimentali, come l’Alberti(fig. a lato), che da un lato doveva sempre più adattarsi alla funzionalità del lavoro agricolo e dall’altro, cioè sul piano formale, doveva costituire l’idealizzazione delle forme dell’architettura che non potevano essere realizzate nella città per mancanza di aree edificabili. La villa rinascimentale, centro organizzativo del “bel paesaggio all’italiana”, rappresenta dunque una sorta di anello di congiunzione tra mondo rurale e mondo urbano; non si tratta cioè di una pura e semplice trasposizione dell’architettura urbana nelle campagne, bensì dell’architettura ideata dai cittadini per la campagna: da una parte era espressione degli ideali estetici formulati dalla cultura della città, e dall’altra era centro di produzione, realizzato con capitali mercantili e finanziari, abbastanza rispondente alla propria funzione economica. Apparentemente si tratta di due aspetti antitetici. In realtà, la funzionalità produttiva e il piacere estetico possono coesistere e anzi raggiungono proprio nel modello della villa rinascimentale un punto di straordinario equilibrio.

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La regolarità degli impianti planimetrici e la distribuzione gerarchica degli spazi (la residenza signorile, la casa dei lavoratori agricoli e i servizi) costituivano agli occhi dei contemporanei una garanzia di produttività, oltre che la soluzione formale più adeguata. Il gusto per il blocco unitario, la ricerca delle simmetrie e il razionalismo delle soluzioni, presenti nelle case coloniche toscane tra il XVI e il XVII secolo, tradiscono le potenti influenze delle architetture colte, delle ville-fattorie di un Michelozzo o di un Buontalenti, ad esempio, di ville, come quella di Artimino o dell’Ambrogiana, che ebbero un notevole peso nella determinazione del modello di fattoria toscana, anche a livello formale. Le forme chiuse e compatte della costruzione rurale sembrano dunque essere caratteristiche originarie della casa contadina nelle diverse epoche. L’alterazione di questa primitiva regolarità è frutto di interventi successivi che il contadino, per necessità, ha dovuto operare onde far fronte rapidamente a nuove impreviste esigenze. Quel che si vuole sottolineare è che il processo di crescita dell’originario blocco edilizio regolare con ripetute aggiunte di volumi minori disposti irregolarmente (cioè quel che oggi viene definito “spontaneità” dell’architettura rurale) non può considerarsi una scelta libera e intenzionale dell’agricoltore (sia di ordine funzionale che solo estetico), bensì un modo di operare a cui il costruttore è costretto per contingenze materiali quali la povertà, la scarsità di materiali e via dicendo, là invece dove egli può iniziare una nuova fabbrica o ha modo di pianificare l’ampliamento, troviamo nella maggioranza dei casi volumi architettonici chiusi e organizzati geometricamente secondo schemi derivati, sia pure con qualche ritardo e semplificazione, dai modelli colti teorizzati e realizzati dagli architetti urbani.

Un fenomeno analogo a quello verificatosi nel Rinascimento è quello relativo alla terza grande ondata di colonizzazione delle campagne durante l’età illuminista. Ancora una volta è l’architettura colta a proporre e imporre i propri modelli alla classe subalterna, politicamente e culturalmente più debole e perciò più facilmente acculturabile anche sul piano stilistico e formale. Come gia prima Michelozzo, Alberti, Palladio e Buontalenti, per citare solo alcuni nomi dei principali teorici e costruttori di ville ed edifici rurali, anche nel Settecento sono numerosi gli architetti o gli ingegneri che progettano e realizzano case-fattorie nelle campagne, e non solo abitazioni signorili, ma anche strutture edilizie per fattori e salariati. Ad esempio, nell’Archivio di Stato di Firenze è conservata un’abbondante documentazione relativa alle case coloniche costruite in Toscana durante il XVIII secolo. Il fatto

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interessante che si ricava da questi documenti è che i progettisti non solo costruivano le fattorie secondo i nuovi principi di igiene e di organizzazione della produzione agricola che gli agronomi del tempo avevano teorizzato, ma anche trasformavano radicalmente le vecchie costruzioni e non con aggiunte posticce, ma con interventi radicali e coordinati, che rendono oggi molte volte difficile l’identificazione della parte antica da quella più recente. Non così avviene invece nelle costruzioni ampliate nel corso del tempo in condizioni economiche più precarie, dove è spesso possibile identificare chiaramente il nucleo originario, ad esempio la primitiva casa- torre, nel mezzo di altri volumi edilizi aggiunti posteriormente. Possiamo dunque affermare che il gusto per il pittoresco e per l’irregolarità, interpretati oggi come spontaneità della costruzione contadina, non è certo la caratteristica principale dell’edilizia rurale, ma, al contrario, che è la semplicità e la regolarità delle forme ciò che in primo luogo ricerca l’architettura rurale, e non tanto per un motivo di ordine estetico, ma per praticità, funzionalità ed economia costruttiva.

LA DISTRIBUZIONE PLANIMETRICA DELLA CASA RURALE

In generale la casa contadina è il risultato di un progetto unitario e gli eventuali corpi di fabbrica aggiunti nel corso del tempo, talvolta disordinatamente, al nucleo originario, sono dovuti non a una precisa volontà di asimmetria o di “organicismo”, come oggi si direbbe, ma a motivi di ordine essenzialmente economico, che costringono in un certo senso il contadino o il proprietario terriero ad adottare le strutture preesistenti alle necessità del momento in modo rapido, rozzo ed economico.

L’idea della costruzione della casa a partire dal suo interno, cioè dalla pianificazione funzionale degli ambienti, è di origine abbastanza recente e dobbiamo forse a Frank Lloyd Wright la sua più compiuta e coerente teorizzazione. In linea di massima l’architettura del passato nasce invece a partire dall’involucro esterno, il cui spazio racchiuso viene successivamente ripartito nei diversi ambienti funzionali, e che quindi costituisce un confine invalicabile per i locali d’abitazione e di servizio. Una conseguenza diretta di questo principio progettuale, che anche costruttivamente presenta innegabili vantaggi, è appunto il geometrismo delle forme e la simmetria dell’involucro esterno, che spesso comporta anche un’analoga simmetria degli ambienti interni. Progettati, infatti, non in base alle specifiche funzioni e interrelazioni tra di loro, gli ambienti possono essere distribuiti all’interno dei muri perimetrali solo in base a criteri concettuali estranei alla loro specifica natura

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utilitaria, derivati cioè da idee come quella di bellezza, di praticità, di economia (sia costruttiva che progettuale), o infine dai rapporti sociali riprodotti all’interno del nucleo familiare contadino. E’ questo il motivo della predilezione dei costruttori di case rurali (ma non solo di queste) per la simmetria delle piante e degli alzati, e per una distribuzione dei locali interni spesso indifferente alle singole funzioni, se non su un piano in genere piuttosto elementare. Certamente vi sono vari livelli o gradi d’attenzione alle esigenze funzionali nella distribuzione degli ambienti interni, corrispondenti in genere al diverso grado di benessere economico della famiglia contadina e quindi al diverso fabbisogno di spazi specializzati (cucina, ripostigli, camere, stalle e via dicendo) per un adeguato funzionamento dell’azienda agricola.

All’estremo più basso ed economicamente più povero abbiamo il locale singolo destinato a tutte le funzioni abitative della famiglia, dal dormire al mangiare, al ricovero degli animali; al lato opposto abbiamo invece le strutture più complesse delle grandi aziende agricole con i numerosi spazi specializzati in uno o più corpi di fabbrica. Al primo gruppo di case rurali appartengono, ad esempio, le case-grotte di Matera, in cui il monolocale, ricavato nel tufo nel primo caso e costruito nel secondo, funge contemporaneamente da abitazione, magazzino e stalla. Esempi di questo genere di dimore erano molto frequenti nelle campagne italiane ed europee fino ai primi decenni del nostro secolo.

Per tutti questi esempi può valere la descrizione fatta da Rudolf Virchow a metà Ottocento: “Ovunque andiate, troverete case relativamente piccole, costituite di una sola stanza per famiglia, con una cameretta laterale e un cucinino. Saliti alcuni gradini di pietra, si entra in un minuscolo vestibolo, dietro il quale sta la cucina e uno spazio per la vita comune lungo uno o entrambi i lati; sopra, una soffitta adibita a magazzino. In una dimora del genere vive invariabilmente una famiglia con numerosa figliolanza. Comunissimo, in queste dimore, il parentado secondario, a sua volta dotato di figli. I pochi letti, sempre sudici e talora ammassati in fila e sudaticci, si trovano sia nella stanza principale sia nella camera laterale, oscura e fetida: sicché, di norma, dormono nel medesimo letto due o tre persone, anche di sesso diverso”. Per assicurare un minimo di privacy tra genitori e figli o tra coppie diverse, spesso si usava calare tende tra letto e letto, sistema ancora utilizzato talvolta nei “bassi” napoletani. La soluzione migliore per le giovani era quella di dormire nella stalla o nei granai (sia interni, se la casa era più grande, che esterni, se ce n’erano), dove potevano ospitare i corteggiatori senza dover svegliare l’intera famiglia. Queste condizioni di vita, estremamente

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precarie dal punto di vista materiale e, forse, anche psicologico, ovviamente miglioravano parallelamente all’ampliarsi delle dimensioni e dell’importanza dell’azienda agricola.

La planimetria della casa rurale è, infatti, un indice abbastanza attendibile delle condizioni economiche dell’agricoltore. Il primo passo verso la specializzazione degli spazi interni dell’abitazione è senza dubbio la separazione delle stalle dai locali abitati, dapprima il ricovero delle bestie viene solo distinto, ma non ancora allontanato dai locali d’abitazione. Il calore fisico degli animali, la possibilità di svolgere le veglie notturne nella stalla e, non ultimo, il diretto controllo di quest’ultima onde evitare furti di bestiame, debbono aver suggerito di disporre inizialmente questo locale fianco a fianco alle stanze abitate dalla famiglia.

Solo quando l’azienda cresce di dimensioni, e con essa il numero dei capi di bestiame, diventa indispensabile allontanare il blocco delle stalle, ma in modo tale da essere ancora facilmente controllabile dall’abitazione del fattore, e quindi in genere abbastanza lontano dagli ingressi dell’azienda, nel caso si tratti di una “corte” o di una fattoria recintata, o molto vicino alla casa dell’agricoltore.

Un discorso analogo, anche se i casi sono molto meno frequenti, vale per i fienili, allontanati dall’abitazione per il pericolo di incendi e collocati spesso al di sopra delle stalle e i magazzini, nel caso di aziende agricole di grandi dimensioni, perché altrimenti le derrate da immagazzinare vengono in genere custodite sotto chiave nei pressi delle camere da letto all’interno dell’abitazione. Anche il deposito delle sementi e di prodotti analoghi, unica ricchezza e garanzia di sopravvivenza per l’anno successivo, è rigorosamente tenuto sotto il diretto controllo del contadino, vicino alla sua camera da letto.

Analizzando la planimetria di una casa di campagna, va sempre tenuto presente che il principio fondamentale della funzione (e quindi anche della progettazione) della dimora rustica è quello, già teorizzato da Leon Battista Alberti, di “contenere, disporre e conservare i prodotti raccolti nei campi”. Perso di vista questo obiettivo di fondo, è molto difficile riuscire a comprendere le ragioni progettuali che governano l’organizzazione spaziale e la distribuzione interna della casa contadina. Solo nelle feste o durante la pausa dei lavori la casa viene abitata e vissuta dall’intera famiglia, e di questa essenzialmente una sola parte: la cucina. “Occorre che vi sia un luogo dove costoro (i componenti della famiglia rurale)”, prescriveva l’Alberti, “possano riscaldarsi quando hanno freddo, si rifugino quando i temporali impediscono

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loro di lavorare nei campi, si nutrano, si riposino, si procurino quanto è loro di utilità. Si rappresenterà quindi una cucina ampia, ben illuminata, al sicuro dagli incendi, provvista di forno, focolare, acqua, canali di scarico”. Come zona d’incontro e di soggiorno la cucina è sempre posta all’ingresso dell’abitazione: o al primo piano riservato alla famiglia, oppure a piano terreno, a diretto contatto con l’esterno, protetta da una tettoia o porticato, volta a mezzogiorno. Il nucleo centrale della cucina è il focolare, lungo la parete o d’angolo, leggermente sopraelevato sul pavimento e attorniato da panche sia fisse che mobili. In Alto Adige, accanto alla cucina è presente la stube, locale ampio, rivestito in legno e con una grande stufa quadrangolare in cotto e ceramica, che d’inverno serve anche da camera da letto.

“A contatto con la cucina si colloca il locale dove dormono i padroni”, continua l’Alberti, “e dove sono riposti la cesta del pane, la carne salata, il lardo, per uso quotidiano”. La dislocazione delle camere da letto rispetto al centro della casa, cioè la cucina, e rispetto ai vari piani dell’abitazione, costituisce un elemento importante nella pianificazione della dimora rustica. Le soluzioni adottate variano notevolmente secondo il benessere della famiglia, l’allontanamento o meno delle stalle dal blocco edilizio abitato e infine secondo la tradizione del luogo.

Nel caso di una costruzione a solo piano terreno, come quella prevista dall’Alberti, la cucina è sempre collocata accanto alla camera da letto. Le stalle sono poste in una costruzione esterna. Quando la costruzione si innalza di uno o due piani, abbiamo di norma due varianti principali:

cucina a piano terra insieme alla stalla, la cantina e raramente i magazzini; cucina al piano superiore con le camere, il fienile e il magazzino.

Nella casa a più livelli le camere sono di norma collocate al piano superiore. In questo caso un problema importante e costituito dal riscaldamento degli ambienti notturni, che in genere viene risolto ponendo la camera sopra la cucina e accanto al fienile o al granaio. Una disposizione simile è diffusa specie nelle basse Alpi piemontesi e lombarde e nel Veneto.

La seconda soluzione prevede lo spostamento della cucina al piano superiore accanto alla zona letto, ed e diffusa nel Trentino con propaggini in Valcamonica, in Toscana e in genere nelle case della mezzadria. La netta separazione tra zona di lavoro a piano terra e zona d’abitazione al livello superiore lascia intendere una specializzazione più accentuata degli ambienti interni. Questo aspetto può significare anche l’esistenza di un rapporto di lavoro

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dipendente tra contadino e proprietario terriero, che non consente un’effettiva integrazione della famiglia colonica con l’attività agricola svolta sul fondo, e anzi tende a sottolineare anche fisicamente il senso di provvisorietà del legame tra il mezzadro e il terreno agricolo o il proprietario.

Nelle case della piccola proprietà, invece, sembra esserci un più diretto rapporto tra l’attività agricola e la vita del contadino, e la presenza della cucina, cioè del luogo di riunione, a piano terra accanto ai locali di lavoro sancisce questo stretto legame. Nel caso del Trentino, dove il fondo e coltivato in genere dagli stessi proprietari, il motivo dello spostamento della cucina al piano superiore risiede da una parte nella necessità di riscaldare più intensamente la zona letto e dall’altra nel fatto che le abbondanti nevicate in quelle regioni bloccano spesso gran parte del piano terreno, per cui, sfruttando i dislivelli del terreno montagnoso, si pone l’ingresso della zona centrale della casa direttamente al livello superiore dell’abitazione.

L’ambiente della cucina costituisce spesso l’unico ingresso per gli altri locali del piano d’abitazione. Essa e il punto di passaggio attorno a cui ruotano gli ambienti della casa. Soltanto i locali di lavoro posseggono ingressi indipendenti. Il motivo di questa soluzione si spiega con le caratteristiche della famiglia contadina e con la necessità di controllare sempre l'andamento interno della vita della comunità familiare. Le camere da letto sono in genere locali piuttosto angusti, a cui si accede direttamente dalla cucina, nel caso siano posti sullo stesso piano, o dalle scale. Un ultimo elemento importante della distribuzione per l'etica della dimora rustica e la scala, che può essere disposta internamente o esternamente alla costruzione. Di norma nelle case di antica data la scala esterna è un indizio di minore agiatezza della famiglia contadina, poiché implica minori difficoltà costruttive e quindi minori dispendio di risorse. Nell'edilizia più recente, anche se modesta, la scala è invece quasi sempre interna. Esternamente, la scala porta sulla facciata o nelle sue immediate vicinanze, in modo che risulti ben visibile l'accesso al piano superiore, e sfocia in un ballatoio di servizio o su un

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loggiato da cui se tieni in cucina o, nel caso che quest'ultima sia a piano terra, nelle varie camere disposte longitudinalmente al loggiato o ballatoio. Da queste osservazioni sulla planimetria della casa rurale possiamo notare come la sua organizzazione spaziale e funzionale abbia precisi riferimenti con la distribuzione della casa urbana, almeno sino agli inizi del nostro secolo. La posizione centrale della cucina rispetto alla zona letto è infatti un elemento ricorrente nella bella abitazione di città: solo in questi ultimi decenni si è verificata una progressiva trasformazione e specializzazione degli spazi interni a svantaggio dell'ambiente della cucina sempre più relegata in una posizione di secondo piano, che ha fatto emergere il soggiorno quale nuovo centro dell'abitazione. In questo processo di specializzazione funzionale anche la zona notte è stata allontanata dal centro della casa verso aree periferiche più tranquille. Si tratta di un principio distributivo introdotto già nella casa-torre dei borghi medievali, applicato con grande successo nella casa rurale a due piani, con la zona notte a livello superiore, come nella tipologia del tradizionale della casa unifamiliare statunitense, e ora riproposto su un unico livello nella pianta del moderno appartamento di città. Il tipo, fissate in ambito urbano, torna, dunque, dopo un lungo percorso nelle campagne, ancora al punto di partenza, con una versione senza dubbio inedita, ma pur sempre riconoscibile nei suoi principi originari. Il processo d’acculturazione tra città e campagna nel corso del tempo non è mai una strada a senso unico, perché anche i colonizzati finiscono per diventare colonizzatori, anche solo passivi, per inerzia, quando la spinta propulsiva della cultura urbana si esaurisce e ci si volge alla tradizione e alla campagna nella ricerca di soluzioni già sperimentate e rispondenti anche ai nuovi bisogni.

LE APERTURE

Uno dei tratti caratteristici della tradizionale architettura rurale e la scarsità di aperture nelle cortine murarie. Nella maggior parte dei casi, le finestre si presentano di piccole dimensioni e in numero oltremodo limitato. Dal punto di vista strettamente funzionale, le aperture, ossia finestre e porte d’accesso, assolvono il compito di consentire a persone, aria e luce il passaggio dall’esterno all’interno della costruzione e viceversa. Nel caso delle finestre si tratta dunque di una funzione diametralmente opposta a quella dell’intera scatola edilizia, che è appunto quella di difendere gli

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abitanti dagli agenti atmosferici. Con le finestre, infatti, il costruttore spezza l‘isolamento dell’interno dell’abitazione e instaura un rapporto “controllato” con la natura circostante e precisamente con quegli elementi indispensabili alla vita come l’aria e la luce. I teorici del XV secolo, come l’Alberti, ci informano che nella costruzione di abitazioni civili è sempre necessario tenere conto di queste prescrizioni igieniche, e alla diffusione nelle campagne di questa medicina “naturale”, non c’è motivo per dubitare che anche i piccoli costruttori di case rurali si adeguassero in linea di massima a questi accorgimenti nella distribuzione e orientamento delle finestre.

Naturalmente, come vedremo tra breve, queste soluzioni teoriche ottimali dovevano fare i conti con esigenze spesso contrastanti, quali la povertà dei materiali impiegati nella costruzione, la posizione del sito e via dicendo, che spesso costringevano a edificare abitazioni di assai scarsa salubrità. Ma nel complesso si può affermare che questa situazione dipendeva non tanto da un’estraneità di quella cultura medica nella tradizionale edilizia rurale, quanto invece dalle condizioni di estrema indigenza che in molti casi impedivano un puntuale adeguamento a quelle regole. Abbiamo già osservato che in genere le finestre delle case rurali sono di numero e dimensioni ridotte. Questa caratteristica dipende in primo luogo dai fattori climatici e dalle tecniche costruttive. Paradossalmente, la finestra può considerarsi in un certo senso come il primo rudimentale condizionatore d’aria utilizzato in edilizia. Attraverso di essa il costruttore può modificare le condizioni climatiche degli ambienti interni, rendendole più adatte alle esigenze di vita dell’uomo. Tuttavia non è sempre e solo il fattore del clima a determinare le dimensioni e la disposizione delle aperture in una parete.

Le tecniche costruttive e i materiali edilizi costituiscono spesso le cause più immediate di queste scelte dimensionali. Mentre il legno consente di aprire grandi aperture nelle pareti perimetrali di una costruzione, proprio per le caratteristiche tecnologiche del materiale impiegato, capace di sopportare notevoli sollecitazioni a flessione, la pietra non consente di raggiungere luci di notevole ampiezza, sia per la debolezza strutturale del materiale rispetto a quelle sollecitazioni (a meno di utilizzare sistemi ad arco più complessi e costosi), perché aperture di dimensioni notevoli finirebbero per indebolire eccessivamente le stabilita della struttura, affidata quasi in modo esclusivo alla gravita e quindi alla compattezza del blocco murario. Questa motivazione tecnologica spiega perchè anche nei climi temperati, la casa rurale, costruita

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generalmente in pietra, presenti aperture assai più piccole di quanto sarebbe necessario per le condizioni climatiche locali.

Ma, al di là di queste ragioni facilmente individuabili e dipendenti in parte dalle ristrettezze delle risorse economiche a disposizione dei costruttori nelle campagne con conseguente utilizzo di materiali edilizi con proprie tecnologiche scadenti e di tecniche costruttive piuttosto rozze, e molto importante considerare anche la tradizionale coltura edilizia per quanto riguarda la disposizione e il dimensionamento delle aperture rispetto all’orientamento della costruzione, ossia i criteri “tradizionali” in base ai quali le finestre, come scrive l’Alberti, venivano adattate “allo scopo cui il luogo e adibito e all’ampiezza del muro: sicché risultino in numero non eccessivo ne insufficiente e forniscano una quantità di luce ne maggiore ne minore di quanto sia necessario”.

Sembra molto probabile che questa “normativa” faccia parte di una tradizione edilizia che dall’inizio del Millennio, e anche prima, sino a circa il Settecento, ha dominato gran parte dell’architettura rurale italiana e forse anche quella di altri paesi, seppure, plausibilmente, tali norme dovevano costituire soltanto indicazioni “teoriche” di massima, a cui tendevano le singole costruzioni, piuttosto che prescrizioni integralmente e pedissequamente osservate.

Il problema dell’orientamento del regime e delle qualità igieniche o terapeutiche dei venti locali era particolarmente sentito e comportava nei vari casi precise soluzioni nella distribuzione delle finestre nella cortina muraria. ‘Quelle(le finestre) infatti che accolgono venticelli salutari”, scriveva Leon Battista Alberti, “si potranno fare anche molto ampie da ogni lato: e sarà bene allargarle in modo tale che l’aria giunga a circolare tra i corpi degli abitanti: il che avverrà soprattutto facendo il davanzale cosi basso che chi si trovi all’interno possa esser visto dalla strada e vedere a sua volta i passanti. Invece le finestre che siano esposte in direzione di venti non sempre salubri, saranno situate in modo da non illuminare meno del dovuto, ma neppure di più. Si collocheranno in alto, perché il muro frapposto difenda gli abitanti dai venti: in tal modo questi vi penetreranno per quel tanto che basti al ricambio d’aria, ma perdendo la loro forza e riuscendo quindi meno nocivi”.

E’ spesso sorprendente l’intelligenza delle osservazioni dell’Alberti o di quanto la cultura del progetto aveva tramandato per tradizione, come pure l’attenta individuazione funzionale di ciascun elemento architettonico in base alla posizione da esso occupato nell’edificio. L’immagine di costruzione che scaturisce da questi

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brevi passi è di estrema e straordinaria modernità. La monumentalità e l’aulicità, che in genere siamo abituati a leggere nella teoria albertiana, qui lascia decisamente il passo a un “umanesimo” architettonico straordinariamente vicino a quello di alcuni maestri del Movimento Moderno di architettura, tutto centrato sulla figura dell’uomo che vive la casa, sulla salubrità e anche sulla piacevolezza della vita negli spazi costruiti.

Pari attenzione è, infatti, dedicata anche al problema del soleggiamento dei locali interni. “E pure da prevedere in quali modi il sole dovrà entrare in casa attraverso le finestre, le quali si faranno più o meno ampie a seconda del tipo di abitazione. Negli appartamenti estivi si faranno finestre ampie in ogni direzione nelle pareti rivolte a nord, basse e strette in quelle rivolte al sole di mezzogiorno: le une saranno meglio ventilate, le altre meno vulnerabili al sole; anche così l’illuminazione, per il risplendere continuo del sole all’intorno, sarà sempre sufficiente in luoghi come questi, dove si va in cerca, assai più che di luce, di ombra. Negli appartamenti invernali, invece, si faranno finestre molto ampie, in modo da accogliere il sole direttamente all’interno, ma poste in alto in modo da non esporsi troppo ai venti, che non devono investire direttamente gli abitanti nemmeno quando stanno in piedi. Ma, comunque si voglia immettere la luce all’interno”, conclude l’autore, “è ovvio che si deve poter guardare liberamente il cielo: nessuna apertura avente il fine di dare luce deve essere posta troppo in basso, dal momento che la luce si percepisce con gli occhi, non con i piedi; inoltre avviene che il frapporsi di questa o quella persona sia sufficiente ad interrompere la fonte luminosa, oscurando gran parte dell’ambiente; il che non succede se questo è illuminato dall’alto”. Tutte queste indicazioni, seppure non sempre seguite letteralmente, in quanto condizionate da esigenze di carattere opposto (ad esempio le dimensioni delle finestre in climi settentrionali, che sono il risultato di un compromesso tra due necessità contrastanti: l’ampliamento delle dimensioni per facilitare il passaggio della luce e la loro diminuzione per impedire l’eccessiva dispersione termica dei locali), sono tuttavia presenti in vario grado in molte soluzioni architettoniche tradizionali.

Di particolare interesse è, ad esempio, la soluzione delle finestre poste ad altezza superiore alla media, con conseguente illuminazione diffusa dall’alto, il cui principio può essere individuato, tra l’altro, anche nella tipica disposizione delle tende a mezzo vetro con la parte superiore a luce libera, diffusa in molte regioni alpine. Come inciso, è opportuno sottolineare che questa soluzione corrisponde a quanto teorizzato per molte tipologie

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edilizie nell’architettura moderna. Analoghi riscontri nella pratica costruttiva della tradizione rurale possono essere individuati anche per le altre soluzioni indicate dall’Alberti.

In queste osservazioni di carattere generale abbiamo tralasciato diversi altri aspetti del problema delle aperture, tra i quali la loro tipologia, di cui parleremo più avanti, trattando dei diversi tipi di casa rurale. Per il momento e sufficiente osservare che, salvo le costruzioni più raffinate e costose, la forma delle finestre nell’edilizia rustica è in genere costituita da un’apertura quadrangolare architravata. Le tipologie più complesse ad arco o a bifora compaiono in linea di massima solo là dove è superiore la qualità architettonica e più spiccata è la derivazione da modelli urbani.

PORTICI E LOGGIATI

“Diverse sono le case di campagna abitate dagli uomini liberi e quelle abitate dai contadini. Queste vengono costruite essenzialmente per motivi d’interesse, quelle piuttosto per semplice diletto”. Mi sembra utile tenere sempre a mente questa frase dell’Alberti, quando si osserva e si studia un’architettura contadina, semplicemente per il fatto che il suo significato dipende, in ugual misura, sia dalla natura materiale, “archeologica”, cioè rilevabile geometricamente, dell’edificio realizzato, sia dal suo funzionamento interno, dalla vita che vi si svolgeva, in genere nascosta, invisibile ai nostri occhi. E forse, anche lo sfrenato e cinico funzionalismo dell’Alberti, secondo il quale “nella costruzione della casa di campagna si provvederà alle esigenze dei bovini e degli ovini non molto meno che a quelle della propria moglie”.“Funzione tipica di questo genere di edifici è di contenere, disporre e conservare i prodotti raccolti nei campi; a meno di voler sostenere che quest’ultimo ufficio, cioè per l’appunto di conservare il raccolto, si debba attribuire, piuttosto che ai poderi di campagna, alle case padronali site in città”.

I rapporti economici, di proprietà e di lavoro, sono qui estremamente chiari e non è possibile farsi illusioni a tale riguardo:

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la casa di campagna, non solo dove è presente la proprietà urbana, ma anche dove vige la piccola proprietà contadina, costituisce il nucleo di una bottega o di un’azienda agricola è sottoposta alle regole della produzione e dell’economia: “E appunto per trarne profitto, non per puro piacere, si provvederà a dotare la casa di campagna di piccionaia, vivaio ecc.”. Coerentemente economiche e pratiche sono anche le preoccupazioni per le condizioni igieniche della casa e la salute dei contadini da parte di pochi illuminati architetti come l’Alberti o l’Ammannati o i riformatori agrari settecenteschi, consci che le spese supplementari per una maggiore igienicità e salubrità degli edifici, lungi all’essere a fondo perduto, costituivano il migliore investimento e la garanzia più certa di buoni rapporti di lavoro e di una più alta produttività e redditività dei campi.

“Ma più ancora che alla convenienza pratica e al profitto”, scriveva l’Alberti, “è necessario aver l’occhio alla salute. D’altra parte è bene conferirle (alla casa di campagna) quel tanto di comodità che permettano a una madre di famiglia di trattenervisi piacevolmente e di accudire con diligenza ai lavori domestici”. Praticità, salubrità e piacevolezza: sono questi i tre obiettivi principali del programma funzionalista dell’Alberti, posto, per quanto riguarda le case contadine, all’insegna dell’economia. Mi sembra che questa griglia interpretativa, riportandoci sul piano di realtà del mondo rurale, sia l’unica che consenta di ricostruire un quadro convincente dell’architettura contadina, delle sue motivazioni e dei suoi obiettivi.

Proprio per la loro caratteristica di essere elementi architettonici esterni e quasi estranei al vero e proprio blocco edilizio della casa rurale, spesso si è tentati di leggere e interpretare i portici e i ballatoi come motivi decorativi di facciata. Nelle aree turistiche e “deruralizzate”, infatti, i molti ballatoi di case montane sono ornati con fioriere di gerani invece che con attrezzi e prodotti agricoli. In realtà, il ballatoio non è affatto una sovrastruttura, quanto, invece, una parte integrante della costruzione in alcune tipologie edilizie rurali, con compiti ben definiti. Nel Vocabolario toscano dell’arte del disegno, del 1681, Filippo Baldinucci, letterato e scrittore d’arte, definiva questo elemento architettonico “come una strada alta, situata o fuori delle facciate degli edifici, o nella parte dentro annessa al muro dei cortili, con sponde attorno; e serve per passare dalla parte di fuori da una a un’altra abitazione, o per girare attorno al medesimo edificio”.

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La funzione principale del ballatoio è quella di mettere in comunicazione diversi locali e abitazioni, onde limitare o eliminare del tutto corridoi e scale interne, che diminuirebbero la superficie utile coperta e costituirebbero, di conseguenza, un aggravio economico. Per questo motivo la casa a ballatoio ha rappresentato nell’ultimo secolo e agli inizi del Novecento, una delle tipologie predilette dalla speculazione edilizia, in quanto consentiva a parità di condizioni igieniche e di superficie coperta il massimo sfruttamento dello spazio e una più alta densità abitativa. Questa esigenza di economia di spazio ha certamente dato un ruolo importante nella diffusione del ballatoio nella casa contadina sia unifamiliare che plurifamiliare di certe aree rurali, ma il motivo decisivo sembra sia stato la facilità costruttiva di questo elemento architettonico, che ha origine sostanzialmente dalla sporgenza, oltre il muro perimetrale dell’edificio, dei travi su cui poggiano le solette dei piani. Con una minima spesa aggiuntiva, dovuta a travi più lunghe dello stretto necessarie per gli ambienti interni, si poteva ottenere così, facilmente, un corridoio di disimpegno, godendo nel contempo di spazi interni pienamente sfruttabili. D’altra parte, nelle abitazioni di due o più piani è sempre necessario costruire impalcature lignee, sia pure limitate e rudimentali per la posa delle pietre o per mattoni ai livelli superiori, e quindi risultava abbastanza semplice trasformare la rozza e incerta impalcatura di servizio in un camminamento permanente per gli abitanti. E’ difficile affermare con certezza se la tipologia della casa a ballatoio abbia avuto un’origine urbana per poi diffondersi nelle campagne, o viceversa. E’ probabile, comunque, che si tratti di una tipologia non rurale. Qualche indicazione in questo senso ci viene fornita dalla parola ballatoio, anche se occorre la massima cautela nell’utilizzare questi riscontri. Essa deriva dal latino medievale balatorium, documentato nel 1184 e 1199 di probabile derivazione da bellatorium cioè la galleria di combattimento di una nave; ballatoio è anche il corridoio sporgente all’esterno delle mura e delle torri delle fortezze, usato fino al Trecento e quattrocento, da dove il difensore lasciava cadere materiali infiammabili sugli assalitori. Se si accetta questo etimo, come sembra ragionevole, risulta evidente l’estraneità di questo elemento architettonico al mondo contadino e la sua diffusione a partire dal castrum

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medievale, forse nel periodo della prima grande colonizzazione delle campagne dopo il Mille.

Non sappiamo dire però con certezza se già nei “castra” fosse avvenuto questo trasferimento di tipologia dal mondo militare a quello civile. Sulla base delle caratteristiche edilizie di questo elemento si potrebbe forse avanzare una risposta affermativa a questo interrogativo. In genere la casa a ballatoio si sviluppa in lunghezza e non su pianta quadrata. I locali, disposti trasversalmente alla direzione del ballatoio, sono uno o due, intercomunicanti, e si affacciano direttamente sulla facciata interna oppure esterna. In generale non ci sono, quindi, corridoi interni tra gli ambienti, e la costruzione, progenitrice delle case a schiera, si sviluppa stretta lungo un asse viario, per l’appunto il ballatoio. Tutto questo lascia supporre che l’edificio fosse in qualche modo impedito a svilupparsi in profondità e, viceversa, che fosse costretto ad allungarsi lungo direttrici in qualche modo obbligate e forse legate agli assi viari della città o degli agglomerati rurali. In un modo o nell’altro, si potrebbe supporre che la casa a ballatoio non sia nata isolata, bensì in relazione ad altre costruzioni e quindi in un centro di scambi commerciali, come appunto potevano essere i castra medievali, oppure le città dopo l’inizio del Millennio.

Oltre ai vantaggi distributivi già illustrati, il ballatoio costituiva anche un ottimo ambiente coperto dove far maturare i prodotti della terra in climi umidi, alto-collinari e montani, che venivano colti ancora acerbi poco prima dell’inizio delle piogge autunnali. Questa usanza risale senza dubbio al periodo medievale. Negli Statuti della città di Torino del 1360, che riguardano regolamentazioni edilizie e urbanistiche, leggiamo al capitolo 256 che “è stabilito che nessun portico sospeso (ossia il ballatoio) nella pubblica strada, cioè da porta Fibellona fino a porta Secusina, sia ricoperto di paglia. E chiunque contravverrà o non toglierà di lì quella paglia entro otto giorni dalla pubblicazione, paghi due soldi, e da allora in avanti per ogni giorno fino a quando non la rimuoverà, denari 12”. Probabilmente la prescrizione era motivata dal timore degli incendi, in effetti tragicamente ricorrenti nelle città medievali, costruite essenzialmente in legno, oppure da una semplice misura di ordine igienico, onde evitare la caduta di polvere e paglia sui passanti.

Resta comunque il fatto che all’interno di una città de XIV secolo i ballatoi si sviluppavano lungo la strada pubblica ed erano utilizzati come luogo per essiccare fieno e altri prodotti agricoli sopra graticci assicurati alla ringhiera o agganciati ai due montanti del

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ballatoio e protetti dalla pioggia dall’ampia sporgenza del tetto così come ancora oggi si può osservare in molte zone montane, dove sopravvive una certa attività agricola e pastorizia. In alcune regioni questo particolare utilizzo del ballatoio divenne predominante, fino a eliminare la sua primitiva funzione di corridoio esterno e, quindi, a trasformarlo in una sorta di balconata coperta, cioè luogo di deposito più che di passaggio. Questa trasformazione d’uso e tipologica è evidente, ad esempio, nelle cascine piemontesi ottocentesche, in cui, oltre al ballatoio in legno lungo la facciata, organizzato con tralicci per l’essiccazione dei raccolti, esisteva la scala interna di comunicazione ai due piani degli alloggi.

Ancora più accentuata che nel ballatoio è la funzione di passaggio denotata dal termine portico, di origine latina e derivato da porto, cioè passaggio. Il portico è propriamente un passaggio coperto a piano terra, con almeno un lato costituito da un colonnato o da una pilastrata. Esso rappresenta un elemento edilizio usato in tutti i tempi nelle regioni di clima temperato, come ambiente di passaggio e di disimpegno. Questa duplice funzione è rimasta praticamente inalterata sino ai nostri giorni e la casa contadina non sembra aver apportato alcuna modifica sostanziale a questa tipologia.

Parlando dì mezzi di trasporto, di utensili in ferro e altri attrezzi, l’Alberti prescriveva di erigere “presso la cucina, che è l’ambiente centrale della casa contadina, una grande tettoia, sotto la quale verranno riposti carretti, erpici, aratri, giochi, gerle da fieno e cosi via”. Sotto di essa dovevano essere aperti anche un locale libero e ben pulito per la pressa e il frantoio e un magazzino-officina per la riparazione di secchi, tazze, ruote, cordami e altri strumenti analoghi. Scrive ancora l’Alberti: “Sulle travi traverse che tengono insieme la tettoia si applicheranno dei graticci, e su di essi si collocheranno picconi, pertiche, stanghe, verghe, rametti, fronde, foraggio per i buoi, canapa e lino grezzo, e simili”. Questa immagine di portico contadino non è affatto mutata dalla metà del Quattrocento, quando scriveva l’Alberti, sino ad oggi.

Come abbiamo osservato, il portico svolge qui la duplice funzione di passaggio verso locali isolati e disposti l’uno accanto all’altro in schiera, e di ambiente di deposito, come ricovero temporaneo di attrezzi usati nei campi o come luogo di essiccazione dei prodotti agricoli. Va qui ricordata anche l’utile e provvidenziale funzione di riparo offerta dal portico contro i temporali, come pittorescamente e con realismo ci dipingeva l’Alberti, quando parla dell’aia per il grano, “che dovrà essere aperta al sole e ai venti, e di ubicazione

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non lontana dalla tettoia di cui s’e parlato in precedenza, in modo che all’apparire improvviso di nubi tempestose si possano in pochi istanti riportare al coperto i lavoranti e i covoni radunati”.

Coerentemente con il proprio programma architettonico, oltre alla praticità e salubrità, il nostro autore accenna anche alla piacevolezza degli spazi costruiti nella casa rurale, sottolineando l’aspetto ricreativo e rilassante del portico per la famiglia contadina, una volta libera dalle attività agricole. Seguendo le indicazioni di Columella, agronomo latino del I secolo, l’Alberti consigliava infatti di rivolgere il portico verso mezzogiorno, “sicchè d’estate, allorchè il sole percorre un’orbita più alta”, i suoi raggi non potessero penetrarvi, e vi potessero penetrare invece durante l’inverno, in modo che la famiglia possa trascorrere sotto di essa (la tettoia-portico) le giornate festive al sole”. Originariamente annesso al fabbricato principale, il portico s’è trasformato, con lo sviluppo delle attività agricole, anche in costruzione separata, spesso di notevoli dimensioni, come in Lombardia e in Emilia Romagna, e formata da una tettoia doppia generalmente sorretta da pilastri centrali, coperta con tetto a due o anche quattro spioventi, e delimitata longitudinalmente da un locale aperto, da una parte, e un porticato ad archi o architravato, dall’altra. Non e infrequente in queste regioni che il portico sia trasformato in pura e semplice tettoia isolata, a impianto quadrangolare, aperta su tutti i quattro i lati della costruzione, e adibita esclusivamente a spazio di ricovero per macchine e raccolti, perdendo così definitivamente l’originaria funzione di passaggio coperto.

IL TETTO DELLA DIMORA RURALE

A differenza di altre parti esterne dell’abitazione, alla copertura viene dedicata molto spesso un’attenzione minima, quasi si trattasse di un elemento estraneo alla costruzione o una fastidiosa necessità da risolvere

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rapidamente senza troppe preoccupazioni di carattere formale. E in effetti, dal punto di vista del costruttore, il tetto è un qualcosa di scarsamente utilizzabile da parte di chi abita la casa: in genere esso non risulta agibile e a distanza ravvicinata dall’edificio scompare addirittura alla vista, tanto da dimenticarsi facilmente della sua presenza fisica.

Ma, come del resto tutto l’involucro esterno dell’abitazione, il tetto, per così dire, non appartiene solo al costruttore o all’abitante della casa: esso appartiene anche, e forse in misura maggiore, alla cultura e al patrimonio della comunità a cui si presenta, perché è verso di questa che il tetto e l’involucro esterno della costruzione si rivolgono principalmente. Infatti, non appena ci allontaniamo dall’edificio rurale, il tetto, prima nascosto, si mostra sempre più in tutte le sue forme e caratteristiche cromatiche, sino a diventare uno dei principali protagonisti del paesaggio, un punto di riferimento e una presenza fisica e formale molto importante per la cultura della comunità locale.

Per la loro estensione, che spesso ricopre un terzo o anche due terzi della superficie esterna di un corpo di fabbrica, i tetti sono indubbiamente uno degli elementi più vistosi e caratteristici di un paesaggio edilizio rurale e la loro frequente omogeneità tipologica in più o meno vaste aree del paese rende senza dubbio molto interessante un’analisi della diffusione locale dei tipi. Anzitutto va sottolineato che, come per molti altri elementi architettonico-costruttivi, anche per i tetti non esiste un rapporto immediato, quasi meccanico, tra funzione, condizioni ambientali e forma. Cioè, le cause di una certa tipologia non sempre derivano interamente dalle particolari condizioni climatiche locali.

Certamente si possono osservare alcune costanti tipologiche nei climi freddi e nevosi o in quelli caldi e asciutti, tuttavia, all’interno di queste costanti, la gamma di variazioni è in genere abbastanza ampia, e per di più sono talvolta possibili anche clamorose smentite a queste regole, come nel caso dei tetti di scandole a spioventi molto inclinati di Agerola e Tramonti,

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e qualche altro comune limitrofo, solo a pochi chilometri di distanza dal mare del Golfo di Napoli, dove invece domina incontrastato il tetto a terrazza o a volta. In questo caso singolare, l’uso delle scandole trova una giustificazione ragionevole nella presenza locale di estesi castagneti, nella mancanza di argilla sul luogo e nella difficoltà e alto costo del trasporto di laterizi sino a quei paesi, sprovvisti di strade carrozzabili fino al nostro secolo. Tuttavia, per quanto riguarda l’eccezionale inclinazione degli spioventi dei tetti di Agerola, non sembra possibile motivarla con le abbondanti precipitazioni locali, sia pur talvolta di carattere nevoso, quanto piuttosto probabilmente con un’innovazione culturale introdotta dall’esterno nella zona in un dato periodo storico e accolta favorevolmente dalla comunità locale, a differenza di altri paesi limitrofi. A meno di ipotizzare, con pari plausibilità, l’insediamento nell’area di una folta comunità di provenienza alpina, che con la difesa delle proprie tradizioni autoctone ha finito per acculturare i più antichi residenti.

Questo caso chiarisce molto bene le complesse origini di una tipologia costruttiva e il fatto che l’ambiente geografico costituisce in moltissimi casi nient’altro che una sorta di palcoscenico naturale, sia pure di limitate dimensioni, in cui sono gli uomini e le loro scelte culturali a determinare lo spettacolo. In generale, comunque, più che le precipitazioni atmosferiche, contro cui la copertura deve difendere gli ambienti interni della casa, è la qualità del legname impiegato nell’orditura del tetto e soprattutto il tipo di manto a delimitare e restringere questo scenario. Le forti pendenze sono possibili solo con quei materiali edilizi che possono essere inchiodati o legati alla sottostante orditura. I più ripidi sono dunque i tetti di paglia o di canne (oggi sempre più rari): poi vengono quelli di scandole e quelli di pietra perforabile, come le ardesie, che se disposte con lastre in corsi orizzontali, consentono di aumentare sensibilmente l’inclinazione delle falde; e infine, di minore pendenza, sono i tetti in cotto e in lastre di pietra semplicemente appoggiate l’una sull’altra.

Non è possibile elencare analiticamente tutte le diverse tipologie di copertura presenti nelle regioni italiane. Tanto più che, in una stessa zona d’ampiezza limitata, sono contemporaneamente utilizzate forme di copertura differenti, rendendo molto problematica una chiara e precisa definizione delle loro rispettive aree di influenza. Dove le condizioni climatiche si fanno più estreme, o troppo fredde o troppo calde con relativa abbondanza di precipitazioni nevose o scarsità di piogge, in genere è più facile trovare una certa uniformità tipologica, con tetti a falde abbastanza inclinate, coperti di scandole o lastre di pietra nel

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primo caso, o con tetti a terrazza nel secondo, come nella tipologia della cuba dell’isola di Pantelleria vicino alla Sicilia, ossia la piccola casa a forma di cubo di derivazione araba, o nella casa tradizionale pugliese o partenopea, dove si ha necessità assoluta di non allontanare il più rapidamente possibile le precipitazioni atmosferiche, ma, al contrario, di raccoglierle e convogliarle in cisterne, collegate alla copertura, per il loro uso domestico.

Tra queste due condizioni estreme esiste una gamma di soluzioni intermedie molto ampia, in cui i fattori climatici son meno problematici, prendono il sopravvento tutt’altri fattori, come l’economia costruttiva e dei materiali, le scelte culturali della comunità e via dicendo.

Anche in questo caso è interessante leggere il trattato di Leon Battista Alberti che, come abbiamo già osservato, dimostra una profonda conoscenza, oltre che un dichiarato interesse, non solo dell’architettura aulica, ma anche di quella rurale del suo tempo. Il problema principale delle coperture, egli afferma, è quello di far scorrere le acque piovane lontano dall’edificio. La forma del tetto dipende da quella dell’edificio che deve ricoprire, per cui abbiamo una grande varietà morfologica delle coperture. Esistono delle tipologie “loro proprie ed esclusive”, e precisamente le coperture emisferiche, a crociera, a batte, ad archi, a carena di nave e infine ‘a displuvio”. Tutte queste forme hanno l’obiettivo di coprire con la propria ombra il pavimento della casa, in modo “da escludere completamente l’acqua piovana dall’intero edificio che ricopre”. E’ necessario, quindi, incanalare l’acqua lungo una via in cui possa scorrere liberamente senza mai arrestarsi o penetrare in qualsiasi luogo. “Perciò nelle zone dove cade molta neve, gli architetti più esperti, fanno tetti soprattutto del tipo ‘a displuvio’, molto inclinati e ad angolo acuto, per fare scorrere via più facilmente la neve ed evitare che, cadendo in continuazione, vi si accumuli sopra: mentre nei paesi più caldi dispongono i tetti con una inclinazione meno ripida”.

La soluzione ottimale sarebbe di costruire un unico tetto, “compatto e regolare”, che ricopra l’intero edificio da ogni lato. Occorre evitare di costruire una copertura che sgoccioli sopra un’altra, contigua. Quando la superficie del tetto è molto vasta e quando, durante le piogge abbondanti, le acque traboccano dai canali delle ultime tegole, bagnando le pareti dell’edificio, è bene suddividere il tetto in diverse falde, in modo che la pioggia possa scorrere in più direzioni. Quest’ultima soluzione, secondo l’Alberti, è “raccomandabile sia dal punto di vista pratico che da quello estetico”.

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Basandosi su quanto riferito da Vitruvio e da Plinio a sulla sua personale esperienza, l’Alberti ricorda, tra le diverse tecniche di copertura, quella in canne, usata in Asia Minore(fig. a alto), quella in terra battuta mista a paglia di Marsiglia, in Francia, i rivestimenti in gusci di tartaruga sulle rive del Golfo Persico, quelli in lastre sottili di pietra bianca nella regione del Belgio, quelli in lavagna della Liguria e della Toscana, e altri ancora. Tuttavia, provate tutte le soluzioni possibili, l’ingegno umano nulla ancora ha trovato che sia più conveniente della tegola di terra cotta”, il cui inventore, secondo Plinio, fu un certo Cinira di Cipro, figlio di Agriope.

Due sono i tipi principali di tegole: quello piano (l’embrice), lungo 44,4 cm circa e largo 29,6 cm circa, con i bordi longitudinali rialzati di un nono della larghezza; e l’altro ricurvo (il coppo), come ‘gli schinieri che proteggono le gambe”: “l’uno e l’altro hanno più larga la parte destinata ad accogliere il flusso dell’acqua, più stretta quella che la deve scaricare”.

L’Alberti giudica “più convenienti” gli embrici, in quanto consentono una copertura perfettamente complanare o regolare, senza inclinazioni, avvallamenti o sporgenze che potrebbero ostacolare il flusso delle acque. Per evitare il sollevamento della copertura in caso di vento, l’autore consiglia, specie nelle opere pubbliche, di assicurare le tegole al tetto per mezzo di calce, mentre negli edifici privati è sufficiente assicurare solo le grondaie, perché in tal modo è più agevole la sostituzione delle tegole in caso di danneggiamento. In realtà, anche oggi si evita di murare le tegole, tranne che quelle prossime alla gronda, ma ciò soprattutto per assicurare una ventilazione sufficiente contro l’umidità del sottotetto e, quindi, della casa.

Nella tipologia della copertura “a spioventi” occorre ricordare il tetto a una falda, quello a due falde e il tetto a padiglione, cioè con spioventi lungo tutti e quattro i lati della costruzione, Il tipo a falda unica è diffuso particolarmente nell’Italia centrale, in zone

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montagnose. Lo spiovente è inclinato nella direzione del pendio e questo motivo fa supporre che l’origine di questa soluzione sia dovuta al vantaggio di poter sviluppare ad altezza pressoché identica i muri perimetrali della casa sia a monte che a valle, dove appunto erano collocati i due ingressi indipendenti dell’edificio: quello per l’abitazione e per il rustico.

Il tipo è particolarmente diffuso nell’Abruzzo e nell’Umbria montagnosa. Nel Cabreo (catasto) della Santa Casa di Loreto nelle Marche, ad esempio, un tipo di mappa che rappresenta la parte di suolo che costituisce un possedimento o tenuta privata, e da cui oggi possiamo ricavare le forme delle case rurali nei secoli XVII- XVIII, ma risalenti spesso anche a periodi più antichi, la dimora risulta in genere appoggiata a una torre di carattere difensivo di tre o quattro piani con copertura a falda unica, mentre l’abitazione vera e propria, a pianta rettangolare, ha il tetto a due spioventi con ingresso sul lato corto dell’edificio.

Generalmente è la copertura a due falde a dominare nettamente in tutte le regioni italiane, con gli spioventi disposti nella direzione della facciata. La falda doppia assicura una protezione più uniforme della costruzione e un equilibrio dei carichi gravanti sulla struttura dell’edificio, particolarmente utile in caso di zone ventose a regime irregolare. Infatti, nel caso di un’unica falda, la parete più alta dell’edificio, colpita dai venti, comportandosi come una vela, può dare origine a pericolosi movimenti di ribaltamento sulla parete perimetrale opposta.

Questo pericolo di squilibri dei carichi gravanti sulla copertura è comunque presente anche nel tetto a due falde, specie nelle regioni nevose. Il disuniforme scioglimento delle nevi sul manto delle due falde può portare talvolta anche al crollo della struttura lignea del tetto, sicché è diffusa l’abitudine in molte zone di arrestare lo scivolamento del manto nevoso, specie quando le pendenze delle falde non sono molto accentuate, con una sorta di arginatura, formata spesso da barre verticali di ferro disposte regolarmente lungo alcune quote della falda.

Infine, il tetto a padiglione è diffuso specialmente nei corpi edilizi isolati e in caso di ampie estensioni di copertura, come già l’Alberti aveva consigliato. Il sistema consente di ripartire più uniformemente soprattutto i carichi della neve. Le quattro falde sono

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in genere a due a due di dimensioni differenti: quelle minori scendono sul fronte dell’abitazione, mentre le maggiori lungo i fianchi.

Un ultimo aspetto inerente al problema talvolta un valore decorativo e distintivo molto interessante nella costruzione e nel paesaggio rurale.

Negli edifici contadini più primitivi (e più antichi) è rara la presenza della canna fumaria esterna: il fumo non aveva altro sbocco che attraverso la porta d’ingresso dell’abitazione, come avviene nelle più antiche case dei boscaioli dell’Altopiano dei Sette Comuni, denominate dai tedeschi Hiitten, con tetto acuminato e smussato di scandole o paglia, o come nei primi casoni della bassa pianura veneta. Nelle costruzioni più recenti la presenza della canna fumaria, che fuoriesce dal muro perimetrale dell’edificio, o meglio dal tetto, per facilitare il tiraggio del camino, diventa la norma, sia come motivo d’ordine igienico, per evitare il ristagno del fumo all’interno dell’abitazione, ma soprattutto per limitare al massimo il pericolo degli incendi, molto frequenti specie nelle costruzioni dove il legno e la paglia sono i principali materiali edilizi. In questi casi la prima preoccupazione dei costruttori è quella di innalzare il più possibile la canna fumaria al di sopra del colmo del tetto e di spostarla verso l’esterno dell’edificio(vedi figura), collegandola nel modo più diretto possibile con il focolare della cucina.

Ma anche nelle forme meno monumentali il comignolo costituisce sempre un elemento architettonico molto importante nella “personalità” di una costruzione edilizia. Questo fatto era ben conosciuto sia dal semplice costruttore sia dagli architetti più celebrati, che nelle case di campagna utilizzarono spesso l’elemento del comignolo, quale mezzo di decorazione della copertura, come possiamo ancor oggi osservare, ad esempio, nella straordinaria, realizzata da Bernardo Buontalenti nel 1594, o in tante altre costruzioni più modeste delle campagne italiane.