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Istituto Avventista di Cultura Biblica Villa Aurora Facoltà di Teologia Tesi di Laurea Il senso di colpa. Un confronto teologico con il pensiero di Freud Laureanda Direttore di tesi Lisa Jean Verona Hanz Gutierrez Settembre 2004

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Istituto Avventista di Cultura Biblica Villa Aurora Facoltà di Teologia

Tesi di Laurea

Il senso di colpa. Un confronto teologico con il pensiero di Freud

Laureanda Direttore di tesi Lisa Jean Verona Hanz Gutierrez

Settembre 2004

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INDICE

Introduzione ....................................................................................................................... pag. 3

parte prima

LA PROBLEMATICA DEL SENSO DI COLPA IN FREUD

1. La struttura della personalità ................................................................................... pag. 5

a. Lo psichico e l’inconscio ......................................................................................... pag. 5

b. L’Es, l’Io e il Super-Io .............................................................................................. pag. 6

L’Es ......................................................................................................................... pag. 6

L’Io .......................................................................................................................... pag. 8

Il Super-Io ................................................................................................................ pag. 10

c. Coscienza morale e Super-Io .................................................................................... pag. 11

2. Il senso di colpa, l’interpretazione freudiana ........................................................... pag. 15

3. Il senso di colpa e la religione ..................................................................................... pag. 19

a. Freud e la religione ................................................................................................... pag. 19

b. La religione: una nevrosi ossessiva ........................................................................... pag. 21

c. La religione frutto della colpevolezza edipica............................................................ pag. 22

d. La religione come illusione ........................................................................................ pag. 25

parte seconda

IL CONFRONTO CON LA TEOLOGIA

1. La coscienza e il Trascendente ................................................................................... pag. 28

a. La coscienza come elemento interiore ...................................................................... pag. 28

b. La coscienza come elemento eteronomo ................................................................... pag. 30

c. La coscienza come angoscia di sé ............................................................................. pag. 34

2. La coscienza e la colpa ................................................................................................ pag. 36

a. Il concetto di peccato ................................................................................................ pag. 36

b. Dal senso di colpa all’esperienza del peccato .......................................................... pag. 39

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3. La colpa e l’esperienza della riconciliazione ............................................................. pag. 41

a. L’azione salvifica di Dio ............................................................................................ pag. 41

b. La salvezza accolta .................................................................................................... pag. 44

Considerazioni di carattere conclusivo ....................................................................... pag. 45

Bibliografia ......................................................................................................................... pag. 47

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Introduzione

Il tema del senso di colpa si è imposto all’attenzione della teologia morale dall’evoluzione delle

idee moderne e contemporanee, soprattutto delle idee prodotte al di fuori dell’ambito teologico. Ma

questo tema è imposto anche dall’evoluzione del costume, e dalle caratteristiche complessive che

l’esperienza morale dell’uomo assume, un’esperienza ormai sempre meno ancorata alla civiltà

cristiana e sempre più laica, nel senso ampio del termine.

In ogni caso, le teorie secondo le quali in qualche modo si parla di senso di colpa nella

comunicazione pubblica odierna, sono fondamentalmente quelle psicoanalitiche. La loro diffusione

è tale da essere diventate ormai tra gli argomenti più noti alle masse, in maniera così evidente che

esse non possono più essere considerate appartenenti soltanto al cosiddetto sapere «scientifico». E,

in effetti, se il senso di colpa ha un ruolo centrale in psicologia (e particolarmente in psicanalisi: per

quanto riguarda lo sviluppo affettivo, la formazione della personalità, i suoi esiti psicopatologici e il

loro trattamento, rappresentando dunque un assioma per la psicoanalisi), anche alla diffusa

coscienza comune l’interpretazione psicoanalitica del senso di colpa appare plausibile e veritiera,

innanzitutto nella sua visione del senso di colpa come «disagio». Tale rappresentazione del senso di

colpa quale disagio, o sofferenza psicologica (al limite quale malattia), è d’altra parte coerente con

la più generale rappresentazione dell’esperienza emotiva quale sensazione interna di uno «stato

d’animo»; d’altra parte, tale visione non sembra essere esclusiva della psicoanalisi, piuttosto essa è

tendenzialmente comune a quell’ambito in cui ci si occupa empiricamente del vissuto umano: la

religione.

Il senso del sentimento di colpa è manifestato dalla rivelazione cristiana attraverso un duplice

procedimento: la rivelazione della giustizia di Dio e la denuncia insieme della condizione storica

dell’uomo, che è condizione universale di peccato. In realtà, la denuncia della condizione storica

dell’uomo si produce contestualmente rispetto alla rivelazione della giustizia di Dio, e questa

seconda avviene nell’annuncio del perdono.

Con il presente lavoro vorremmo perciò prendere in considerazione la problematica del senso di

colpa, quale disagio, sofferenza dell’essere umano, delineando i tratti principali della visione

psicoanalitica, per poi passare alle linee tematiche teologiche che riguardano la condizione

dell’uomo e la soluzione divina alla problematica del disagio dell’essere umano.

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parte prima

LA PROBLEMATICA DEL SENSO DI COLPA IN FREUD

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1. La struttura della personalità

a. Lo psichico e l’inconscio

Fatto centrale nell’opera medica svolta da Freud fu senz’altro la scoperta dell’inconscio. Tale

scoperta avvenne in seguito a degli studi sull’isteria che egli svolse con J. Breuer (1842-1925) a

Vienna. Utilizzando la tecnica dell’ipnosi, essi aiutavano i pazienti a richiamare alla memoria

avvenimenti dolorosi dimenticati, come nel caso di Anna O.1; richiamando alla memoria tali eventi,

il paziente viveva una scarica emotiva («abreazione»), tale che il paziente era liberato dai suoi

disturbi. Ponendosi il problema delle motivazioni dell’isteria, Freud giunse alla scoperta che le

cause delle psiconevrosi fossero da ricercare in un conflitto tra forze psichiche inconsce, ossia

operanti al di là della sfera di consapevolezza del soggetto. La scoperta dell’inconscio quale realtà

psichica primaria2, segna l’atto di nascita della psicoanalisi, che adotterà l’inconscio come punto di

vista privilegiato da cui studiare l’uomo, tanto che essa si configurerà come psicologia del

profondo.

Nel contrapporre l’inconscio a ciò che risulta essere cosciente, Freud si discosta da un utilizzo

puramente descrittivo dei termini, quasi in polemica con i filosofi del tempo3, volendo invece

indicare lo psichico come una realtà «dinamica»4. Con il termine inconscio, infatti, Freud non

voleva definire qualcosa di statico, come se esso fosse una specie di dimenticatoio in margine alla

coscienza; bensì, l’inconscio rappresentava qualcosa di dinamico, dotato di una sua autonomia5 e

suscettibile di sperimentazione:

Non indica soltanto i pensieri latenti in genere, ma specificamente pensieri latenti con un

determinato carattere dinamico, quelli cioè che si mantengono lontano dalla coscienza

malgrado la loro intensità e capacità di diventare operanti6.

Freud divide l’inconscio in due zone7: la prima comprende l’insieme dei ricordi che pur essendo

momentaneamente inconsci, possono, in virtù di uno sforzo, divenire consci («preconscio»); la

1 Freud S., Studi sull’isteria e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1967, pag. 189-212. La paziente presentava diversi sintomi isterici: paralisi motorie, turbe della vista e dell’udito, tosse nervosa, anoressia, afasia, e altri ancora; in un periodo la paziente soffrì anche di idrofobia le cui cause per la prima volta Breuer riuscì a conoscere proprio attraverso l’ipnosi. Interessante è notare che l’idrofobia scomparve appena il ricordo della causa scatenante tornò alla mente della paziente. 2 Freud S., Al di là del principio di piacere (nella nostra bibliografia in L’Io e L’Es e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1996), pag. 220. 3 Freud S., L’Io e L’Es e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1996, pag. 476-477. 4 Ibidem, pag. 477. 5 Freud S., Nota sull’inconscio in psicoanalisi (nella nostra bibliografia in Casi clinici e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1974.), pag. 579. 6 Ibidem, pag. 578.

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seconda zona, invece, comprende quegli elementi psichici stabilmente inconsci e che sono

mantenuti tali da una forza specifica, la «rimozione»8. Precisamente, anzi, l’inconscio coincide con

il rimosso9 e gli elementi dell’inconscio possono essere riportati alle mente solamente mediante

tecniche apposite (Freud utilizzerà l’ipnosi, ma soprattutto la tecnica delle associazioni libere).

In L’Io e L’Es Freud esporrà poi la teoria sulla personalità psichica, in cui il termine inconscio viene

ora esteso all’istanza dell’Io:

[...] può essere, e anzi indubitabilmente è inc [inconscio]. E questo Inc dell’Io non è latente

nel senso del Prec [preconscio], giacché se così fosse non potrebbe diventare attivo senza

farsi c [conscio], né il suo farsi cosciente dovrebbe dar luogo a difficoltà così grandi.

Costretti quindi a istituire una terza specie di Inc non rimosso, dobbiamo riconoscere che il

carattere dell’essere inconscio viene a perdere per noi in significato10.

Freud supera così la sua esposizione della teoria della personalità secondo sistemi (inconscio,

preconscio e conscio), senza peraltro rinnegarla, per giungere a quella più complessa di teoria delle

istanze psichiche (Es, Io e Super-Io), correlate fra loro11.

b. L’Es, l’Io e il Super-Io

L’Es

Il termine Es non è stato coniato da Freud, ma, come lo stesso Freud afferma12, egli lo prende in

prestito da Groddeck, medico che si interessò particolarmente alla psicoanalisi e che riprese il

termine a sua volta da Nietzsche. Negli scritti di quest’ultimo il termine Es (che nella lingua tedesca

esprime il pronome neutro di terza persona singolare) è utilizzato per denotare quanto nel nostro

essere vi è di impersonale e di indeterminato in riferimento alla dimensione istintuale. Per Freud

l’Es costituisce la matrice originaria, la base più profonda della nostra psiche; l’Es abbraccia «tutto

quello che (nel settore psichico) viene trasmesso e apportato al momento della nascita e fissato nella

costituzione corporea: quindi, anzitutto, gli istinti (Triebe) che si radicano nell’organismo

corporeo»13. Possiamo trovare una chiara esposizione di ciò che l’Es rappresenta nello scritto

7 Freud S., L’interpretazione dei sogni. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1996, pag. 559. 8 Freud S., Metapsicologia (nella nostra bibliografia in Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1996), pag. 64. 9 Freud S., L’Io e L’Es, pag. 480. 10 Ibidem, pag. 481. 11 Lambertino A., Psicoanalisi e morale in Freud. Guida editori, Napoli, 1987, pag. 192. 12 Freud S., L’Io e L’Es, pag. 486. 13 Freud S., Nachlass. Gesammelte Werke, XVII, pag. 67-68. Citazione tratta da Nuttin J., Psicanalisi e personalità. Edizioni Paoline, Roma, 1984, pag. 78.

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Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), di cui vorremmo presentarvi uno stralcio,

forse un po’ lungo, ma quanto mai esemplificativo:

È la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità; il poco che ne sappiamo,

l’abbiamo appreso dallo studio del lavoro onirico e della formazione dei sintomi

nevrotici; di questo poco, la maggior parte ha carattere negativo, si lascia descrivere solo

per contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos,

un crogiuolo di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto all’estremità

verso il somatico, da cui accoglie i bisogni pulsionali, i quali trovano dunque nell’Es la

loro espressione psichica, non sappiamo però in quale substrato. Attingendo alle pulsioni,

l’Es si riempie di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà

unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali

nell’osservanza del principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i

processi dell’Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione. Impulsi contrari

sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda; […] si osserva

pure con sorpresa un’eccezione all’assioma dei filosofi che spazio e tempo sono forme

necessarie dei nostri atti mentali. […] Com’è ovvio, l’Es non conosce né giudizi di

valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo,

strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti

pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro14.

Il contenuto dell’Es è ereditato geneticamente, esso è il deposito della storia della specie umana15:

«L’essenza più profonda ed eterna dell’umanità […] è costituita da quegli impulsi della vita

psichica che hanno le loro radici nell’età infantile, divenuta poi preistorica»16. Possiamo così vedere

che non solo la personalità individuale, ma anche quella collettiva trova le sue radici più profonde

nella vita istintuale, che rimane per tutta la vita il fattore determinante. Freud, infatti, nel dare una

definizione dell’essere umano: «un individuo è per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale

poggia nello strato superiore l’Io»17. L’uomo, nella sua essenza fondamentale, è caratterizzato

dall’Es, e solo successivamente emerge l’istanza dell’Io (che, tra l’altro, è derivazione dell’Es);

l’esistenza dell’uomo appare perciò completamente immersa nel raggiungimento dello scopo

mutuato dal principio di piacere, principio che sostiene e alimenta l’Es18.

14 Freud S., Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), (nella nostra bibliografia in Freud S., L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1995.), pag. 185-186. 15 Lambertino A., op. citata, pag. 193. 16 Freud S., L’Io e L’Es, pag. 486. 17 Ibidem, pag. 486. 18 Lambertino A., op. citata, pag. 194.

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L’Io

L’Io rappresenterebbe un momento evolutivo dell’Es, una «parte» dell’Es che si è modificata per

contatto e per influenza del mondo esterno. Abbiamo visto che l’Es è caratterizzato dal caos, dalle

pulsioni istintuali non organizzate; l’Io rappresenta, invece, la parte coerente e organizzata dell’Es,

essa controlla la motilità dell’organismo, e ha la facoltà di recepire o di respingere gli stimoli che

giungono dal mondo esterno. Come la pulsione è la funzione propria dell’Es, così la percezione-

coscienza è la funzione dell’Io; l’Io, cioè, percepisce le sensazioni e gli stimoli che giungono

dall’esterno, per mezzo di rappresentazioni verbali (che «sono residui mnestici»19), ma anche le

sensazioni che provengono dal mondo interno. L’Io non è niente di più di un organo di senso20, ed è

«anzitutto un’entità corporea»21; l’Io perciò

[...] è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti

dalla superficie del corpo. Esso può dunque venir considerato come una proiezione

psichica della superficie del corpo, e inoltre […] il rappresentante degli elementi

superficiali dell’apparato psichico22.

Nell’Io è la realtà a costituire la legge suprema (principio di realtà), e non più il piacere come nel

caso dell’Es. Infatti, mentre l’Es tende all’appagamento immediato e totale delle pulsioni libidiche,

l’Io cerca di ritardare la gratificazione della pulsione, o di adattare le tensioni dovute alle pulsioni

istintuali in base alle esigenze imposte dal mondo esterno. L’Io è «ciò che può dirsi ragione e

ponderatezza», e «si sforza altresì di far valere l’influenza del mondo esterno sull’Es e sulle sue

intenzioni tentando di sostituire il principio di realtà al principio di piacere, che nell’Es esercita un

dominio incontrastato»23. A questo punto ci si imbatte nel problema del rapporto tra Io ed Es: se l’Io

costituisce una derivazione dell’Es24, del mondo istintuale, come può esso divenire ragione? Viene

difficile postulare che dal caos derivi l’ordine, dall’istintualità pura la razionalità. Come fa notare

Lambertino, «il pensiero di Freud oscilla tra l’intento di ancorare il mondo strutturale e funzionale

dell’Io a quello dell’Es e l’intento opposto di svincolarlo da ogni incidenza normativa di esso, per

poter, così, conferire all’Io l’autorevolezza richiesta dalla sua funzione intermediaria tra principio di

piacere e principio di realtà»25. Freud tenta di illustrare il rapporto tra Io ed Es nell’immagine più

volte ripresa del cavallo e del cavaliere; in quest’immagine, in cui l’Io è rappresentato dal cavaliere

19 Freud S., L’Io e L’Es, pag. 483. 20 Freud S., L’interpretazione dei sogni, pag. 560. 21 Freud S., L’Io e L’Es, pag. 488. Più avanti (pag. 490) Freud parla di “Io-corpo”. 22 Ibidem, nota 2. Questa nota non esiste nel testo tedesco, ma appare nella traduzione inglese del 1927 che si pretende autorizzata da Freud. 23 Ibidem. 24 L’Es è “l’elemento psichico in cui l’Io si continua”, e l’Io “non è nettamente separato dall’Es, ma sconfina verso il basso fino a confluire con esso” (Freud S., L’Io e L’Es, pag. 486-487). 25 Lambertino A., op. citata, pag. 198.

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e l’Es dal cavallo, Freud afferma che l’Io «deve domare la prepotente forza del cavallo, con la

differenza che il cavaliere cerca di farlo con mezzi propri, mentre l’Io lo fa con mezzi presi a

prestito»26. Queste energie sono fornite all’Io nient’altro che dall’Es; questi, infatti, «dà l’energia

per la locomozione», mentre l’Io «ha il privilegio di determinare la meta»27. A questo punto si può

muovere una critica all’illustrazione di Freud, dal momento che risulta difficile immaginare che la

razionalità attinga la sua capacità di controllare gli istinti dalla stessa istintualità28. Dalla descrizione

del Nostro si desume che l’Io è allo stesso tempo momento evolutivo dell’Es e suo antagonista. Ma

va altresì ricordato che sebbene l’Io tragga la propria origine dall’Es, risultando così essere parte di

esso, è comunque una parte modificata, uno strato superficiale, e «gli strati superficiali, si sa,

debbono le loro caratteristiche specifiche all’influenza modificatrice del mezzo esterno con cui sono

a contatto»29.

Il problema, comunque, rimane dal punto di vista teleologico, perché da un lato l’Io deriva dall’Es e

da ciò consegue che esso ricerca il piacere, ma dall’altro, adeguandosi al principio di realtà, esso

«persegue scopi diversi e con differenti mezzi»30 di quelli dell’Es. La difficoltà che si pone perciò

di fronte all’Io è quella di porsi come intermediario tra le esigenze dell’Io e quelle del mondo

esterno. Sembra qui che Freud privilegi un «intento edonistico, seppure di un edonismo raffinato e

contenuto»31. Ciò che, infatti, si può notare è che sebbene l’Io non tenda alla ricerca del piacere in

maniera incondizionata come l’Es, esso tuttavia, mira in ogni caso all’appagamento delle pulsioni

istintuali, seppur sottostando alle esigenze della realtà esterna. L’Io, infatti, nell’assoggettarsi al

principio di realtà, non esige comunque rinuncia, ma, tutt’al più, una riduzione o una

posticipazione. Il principio di realtà diventa così soltanto una modificazione del principio di piacere.

Inoltre, l’Io, nell’avvalersi delle esperienze passate, si rivolge al mondo esclusivamente per trovare

il modo meno rischioso e penoso per raggiungere l’appagamento delle pulsioni libidiche, evitando

così di incappare negli insuccessi nella ricerca del piacere; infatti, l’Io «osserva il mondo esterno

per cogliere il momento opportuno per una soddisfazione esente da pericoli»32. Come inoltre fa

ancora notare Lambertino, il fatto che l’Io non trova in sé la forza per domare le pulsioni dell’Es,

non può conferire efficacia alla sua iniziativa33; infatti, nella sua immagine del cavallo e del

cavaliere, Freud è costretto a dire che «come il cavaliere, se non vuole essere disarcionato dal suo

26 Freud S., L’Io e L’Es, pag. 488. Cfr. anche Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), (nella nostra bibliografia in Freud S., L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1995), pag. 188. 27 Freud S., Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), pag. 188. 28 Lambertino A., op. citata, pag. 199. 29 Freud S., Il problema dell’analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale (nella nostra bibliografia in Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1997), pag. 363. 30 Ibidem. 31 Lambertino A., op. citata, pag. 202. 32 Freud S., Il problema dell’analisi…, pag. 368. 33 Lambertino A., op. citata, pag. 204.

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cavallo, è costretto spesso a ubbidirgli e a portarlo dove vuole, così anche l’Io ha l’abitudine di

trasformare in azione la volontà dell’Es come se si trattasse della volontà propria»34. Diviene così

evidente come per Freud sia inevitabile, nella sua visione decisamente pessimistica, lo «scacco

dell’istanza razionale dell’uomo di fronte all’irrompere indomabile dell’istanza istintuale»35.

Il Super-Io

Dietro alla formazione del Super-Io «si cela la prima e più importante identificazione

dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria»36. Questa identificazione, oltre a

rivestire un’importanza non indifferente nella formazione del carattere dell’Io (che è «sedimento

degli investimenti oggettuali abbandonati»37), riveste una notevole importanza per la formazione del

Super-Io. Freud, infatti, afferma che le scelte oggettuali del primo periodo sessuale, che riguardano

il padre e la madre, si risolvono in genere nel rafforzamento dell’identificazione primaria. Questo

periodo, caratterizzato da ciò che è noto come complesso edipico, rappresenta «La più importante

situazione conflittuale che il bambino si trova a dover risolvere»38. Innanzitutto, bisogna premettere

che due sono per Freud i fattori responsabili della complessità delle relazioni che si instaurano

durante il complesso (e che quindi influiscono nella formazione del Super-Io): il primo fattore è il

carattere triangolare della situazione edipica, e il secondo la bisessualità costituzionale

dell’individuo.

Il carattere triangolare della situazione edipica fa sì che nel bambino siano compresenti due legami

psicologicamente diversi: da un lato, infatti, egli si identifica con il padre («visto come

anticipazione della sua virilità e assunto come ideale»39), e dall’altro vive l’investimento oggettuale

sessuale nei confronti della madre. Dall’aumentare dei desideri sessuali per la madre deriva che

l’identificazione nel padre si carichi di ostilità, per la consapevolezza che il padre rappresenta un

ostacolo alla realizzazione del proprio investimento oggettuale: «L’impostazione ambivalente verso

il padre e l’aspirazione oggettuale esclusivamente affettuosa riferita alla madre costituiscono per il

maschietto il contenuto del complesso edipico nella sua forma semplice e positiva»40. Il normale

superamento del complesso prevede che l’aspirazione sessuale nei confronti della madre decada e

che si rafforzi l’identificazione sessuale con il padre.

Il secondo fattore, la bisessualità strutturale dell’individuo, fa sì che la risoluzione del complesso

edipico non sia però così semplice. Secondo Freud, il carattere bisessuale è originario e anteriore al

34 Freud S., L’Io e L’Es, pag. 488. 35 Lambertino A., op. citata, pag. 205. 36 Freud S., L’Io e L’Es, pag. 493. 37 Ibidem, pag. 492. 38 Freud S., Contenuto della psicoanalisi (nella nostra bibliografia in Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1997), pag. 227-228. 39 Lambertino A., op. citata, pag. 232. 40 Freud S., L’Io e l’Es, pag. 494.

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modo in cui si risolve il complesso edipico; in questo sembrerebbe che egli attribuisca al complesso

un ruolo di accentuazione dell’uno o dell’altro carattere sessuale41. Il carattere bisessuale, infatti, fa

sì che il bambino in genere viva un complesso «più completo»42 di natura duplice, nel quale egli

«non manifesta soltanto una impostazione ambivalente verso il padre e una scelta oggettuale verso

la madre, ma si comporti contemporaneamente come una bimba, rivelando un’impostazione di

femminea tenerezza rivolta al padre e la sua corrispondente impostazione gelosa-ostile verso la

madre»43. Da ciò, quindi, risulterebbe che il bambino ha vissuto un’identificazione non soltanto con

il padre ma anche con la madre e che «Si può dunque supporre che l’esito più comune della fase

sessuale dominata dal complesso edipico sia il costituirsi nell’Io di un lascito di queste due

identificazioni in qualche modo fra loro congiunte. Questa alterazione dell’Io conserva la sua

posizione particolare contrapponendosi al restante contenuto dell’Io come ideale dell’Io, o Super-

Io»44.

c. Coscienza morale e Super-Io

Il Super-Io appare da un lato come «una potente formazione reattiva»45 nei confronti delle scelte

oggettuali dell’Es, e dall’altro esso però deriva dalla sostituzione dei primi investimenti oggettuali

dell’Es rivolti ai genitori, e risulta essere l’erede del complesso edipico. Per tal motivo, esso

esprime i più potenti impulsi libidici dell’Es, al quale resta permanentemente legato e di cui è

rappresentante presso l’Io. Perciò si può dire che il Super-Io è «più dell’Io lontano dalla

coscienza»46. Il Super-Io sprona il bambino da un lato a far proprio il modello del padre, e allo

stesso tempo, però, lo ammonisce di non fare tutto ciò che il padre fa, dal momento che alcune

facoltà sono prerogativa esclusiva del padre47. Da qui l’esistenza di un «doppio volto»48 del Super-

Io, che se da un lato contribuisce alla rimozione del complesso edipico, dall’altro deve la sua

esistenza proprio al crollo di questo stesso complesso. In questo modo il Super-Io esercita il suo

dominio sull’Io «sotto forma di coscienza morale»49. Freud descrive la coscienza morale come

«voce della coscienza» che esercita una «censura morale»50. E nel momento in cui il Super-Io si

trova a dovere dominare l’Io, assume un carattere «severo», addirittura «coattivo» fino a diventare

41 Lambertino A., op. citata, nota 36 di pag. 233. 42 Freud S., L’Io e l’Es, pag. 495. 43 Ibidem. 44 Ibidem, pag. 496. 45 Ibidem. 46 Ibidem, pag. 511. 47 Lambertino A., op. citata, pag. 236. 48 Freud S., L’Io e l’Es, pag. 497. 49 Ibidem. 50 Ibidem, pag. 499.

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un «imperativo categorico»51 (così come lo intendeva Kant; lo stesso Freud affermerà questo nel

suo scritto Il problema economico del masochismo52). È importante sottolineare che la coscienza

morale «mantiene il suo imperio anche sull’Io maturo»53; il carattere autoaggressivo, perciò, non è

prerogativa solo della coscienza del nevrotico ossessivo, ma, al contrario, il Super-Io va considerato

anche per la funzione che riveste «nello sviluppo normale, soprattutto nello sviluppo del

comportamento morale normale»54. Anche Plè fa notare che nella concezione freudiana questa

coscienza morale è vista nella sua normalità e non nella patologia55.

Mentre in L’Io e l’Es la coscienza morale veniva identificata molto semplicisticamente con il

«secondo volto» del Super-Io, in Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni) l’istanza

superegoica viene definita attraverso tre diverse funzioni: l’autoosservazione, la coscienza morale e

l’ideale dell’Io. La prima funzione, quella dell’autoosservazione si presenta come un momento di

preparazione, e solo successivamente si passa al giudicare e al punire, prerogative queste della

coscienza morale56. Appare perciò, che «la coscienza morale non imporrebbe e non proporrebbe un

valore positivo da attuare, ma si limiterebbe a non permettere di agire»57. La terza funzione poi che

si presenta è quella dell’ideale dell’Io, «al quale l’Io si commisura, che emula, e la cui esigenza di

una sempre più ampia perfezione si sforza di adempiere»58. Questa funzione non si presenterebbe

come negativa, essa ha immagazzinato l’istanza parentale, e i genitori appaiono al bambino come

modelli perfetti; ma l’argomento non sembra essere molto chiaro. Freud riprende infatti

l’argomento della severità del Super-Io più volte, e non sempre coerentemente; ne Il disagio della

civiltà egli afferma che «la severità del Super-Io [...] prosegue semplicemente la severità

dell’autorità esterna, alla quale è succeduta e che in parte ha sostituito»59, e qualche pagina dopo

scrive:

L’esperienza insegna però che la severità del Super-Io sviluppata dal bambino non

corrisponde affatto alla severità del trattamento che egli stesso ha subito. Sembrano due

cose indipendenti: da un’educazione molto mite un bambino può derivare una coscienza

molto severa60.

51 Freud S., L’Io e l’Es, pag. 497. 52 Freud S., Il problema economico del masochismo (nella nostra bibliografia in Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1997): «l’imperativo categorico di Kant si rivela così il diretto erede del complesso edipico», pag. 13. 53 Freud S., L’Io e l’Es, pag. 510. 54 Citazione tratta da Lambertino A., op. citata, pag. 239. 55 Plè A., Freud e la morale. Città Nuova, Roma, 1977, pag. 31. 56 Freud S., Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), pag. 172. 57 Lambertino A., op. citata, pag. 242. 58 Freud S., Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), pag. 177. 59 Freud S., Il disagio della civiltà (nella nostra bibliografia in Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1997), pag. 614. 60 Ibidem, pag. 616.

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E, in Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), Freud precisa:

Il Super-Io sembra aver preso, con una scelta unilaterale, solo il rigore e la severità dei

genitori, la loro funzione proibitrice e punitiva, mentre la loro sollecitudine e il loro amore

non vengono ripresi e continuati. Se i genitori hanno applicato realmente un regime di

severità, diventa facilmente comprensibile che anche nel bambino si sviluppi un Super-Io

severo; tuttavia l’esperienza mostra, contrariamente alle nostre aspettative, che il Super-Io

può acquistare lo stesso un carattere di inesorabile rigore anche se l’educazione era stata

indulgente e benevola e aveva evitato minacce e castighi61.

Proprio riguardo questa citazione Plè fa notare come la morale del Super-Io risulti essere sempre

severa, anche quando gli educatori non sono stati altrettanto severi62. Ritroviamo però nelle pagine

de Il disagio della civiltà la seguente conclusione:

Ma sarebbe anche sbagliato esagerare questa indipendenza; non è difficile convincersi che

anche la severità dell’educazione esercita un forte influsso sulla formazione del Super-Io

del bambino. Ciò significa che nella formazione del Super-Io e nel sorgere della coscienza

morale convergono fattori costituzionali innati e influssi ambientali del mondo reale, il che

non è affatto strano, anzi è la condizione etiologica universale di tutti i processi di questo

genere63.

Ma, ritornando alle funzioni prima indicate, possiamo notare che la coscienza morale, in qualche

modo, ingloba le altre due funzioni del Super-Io (l’autoosservazione ne è un presupposto; e anche

l’ideale, dal momento che avendo la coscienza morale il compito di giudicare e condannare l’Io, si

commisura, come appunto fa l’ideale, al modello parentale)64. Bisogna inoltre far notare che

secondo Freud la facoltà di distinguere il bene e il male non è né «originaria» né «naturale»65. La

coscienza morale risulta essere, come abbiamo precedentemente affermato, di tipo kantiana; essa è

basata sulla rinuncia alle pulsioni, sulla repressione, e sulla sublimazione66. Da tale configurazione

della coscienza morale risulta il carattere piuttosto negativo, limitativo e repressivo che essa sembra

rivestire nella prospettiva freudiana.

61 Freud S., Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), pag. 175; il corsivo è nostro. 62 Plè A., op. citata, pag. 32. 63 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 616. 64 Lambertino A., op. citata, pag. 244. 65 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 611. 66 la repressione e la sublimazione rappresentano, insieme alla regressione, alla formazione reattiva, all’isolamento, all’annullamento retroattivo, alla proiezione, all’introiezione, quei meccanismi di difesa al quale l’Io debole e infantile ricorre per sfuggire all’angoscia data di fronte a certi processi che si verificano nell’Io e di cui il momento decisivo è il superamento del complesso di Edipo.

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Vi è inoltre da prendere in considerazione il fatto che esiste, come fa notare Plè67, oltre al Super-Io

individuale anche un Super-Io della civiltà: «Il Super-Io della civiltà, al pari di quello individuale,

affaccia severe esigenze ideali, il cui mancato adempimento viene punito con l’angoscia morale»68;

la morale del Super-Io è perciò una «morale sociologica»69, i cui ideali e le cui esigenze

costituiscono l’etica. Attraverso le esigenze dell’etica, come conseguenza di una morale imposta

dalla società all’individuo, si ha che «l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di

felicità per un po’ di sicurezza»70, in contrapposizione al fatto che «l’uomo primordiale stava

meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale»71. Il Super-Io, perciò, in questa prospettiva

sociologica, avrebbe il compito di assicurare, di fornire la garanzia di poter essere amato restando

nella conformità ai desideri e alle norme forniteci dagli altri. Esso, così come lo descrive C.

Bresciani, «impone delle azioni “morali” in modo tassativo; è il custode del sentimento del valore di

sé»72; la non positività del Super-Io risiederebbe nel fatto che il valore di sé verrebbe identificato

con l’essere accettato nell’ambito di una comunità (familiare e sociale), e a valorizzare perciò

fortemente ed esclusivamente il senso dell’appartenenza. Certo il Super-Io è una funzione

indispensabile nel periodo dello sviluppo primitivo del ragazzo, «è però una struttura radicalmente

insufficiente in quanto si ricollega solo ai livelli più primitivi della vita psichica (protezione dell’Io

e bisogno di essere amato) »73.

Super-Io individuale e Super-Io civile non sembrano essere due modalità qualitativamente diverse,

quanto, piuttosto, due fasi di un unico Super-Io, provocato in un primo momento dalla comunità

parentale, in un secondo momento dalla comunità civile. Essi presentano anche non poche

somiglianze. Entrambi si basano sull’impressione di forti personalità: il primo su quella del modello

parentale, il secondo su quello dei modelli culturali, religiosi e politici.

67 Plè A., op. citata, pag. 34. 68 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 627. 69 Plè A., op. citata, pag. 35. 70 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 602. 71 Ibidem. 72 Manenti A., C. Bresciani, a cura di, Psicologia e sviluppo morale della persona. Edizioni Dehoniane, Bologna, 1996, pag. 38. 73 Ibidem, pag. 39.

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2. Il senso di colpa, l’interpretazione freudiana

È in L’Io e l’Es che Freud identifica primariamente il Super-Io, o coscienza morale, come inconscio

senso di colpa:

Il Super-Io conserverà il carattere del padre, e quanto più forte è stato il complesso edipico,

quanto più rapidamente si è compiuta la sua rimozione, tanto più severo si farà in seguito il

Super-Io nell’esercitare il suo dominio sull’Io sotto forma di coscienza morale, o forse di

inconscio senso di colpa74.

Il Super-Io, o coscienza morale, sembra dunque coincidere con il senso di colpa; più avanti, il

Nostro affermerà, infatti, che «il Super-Io si esprime essenzialmente come senso di colpa e

manifesta una così straordinaria durezza e severità nei confronti dell’Io»75. Ciò che fa

principalmente il Super-Io, infatti, è quello di condannare l’Io, e lo stesso senso di colpa si presenta

perciò come una condanna76; ne risulta quindi che «la tensione fra le esigenze della coscienza

morale e i comportamenti dell’Io viene avvertita come senso di colpa»77. L’idea del senso di colpa

come tensione fra l’Io e il Super-Io non sarà misconosciuta da Freud che riprenderà la stessa

immagine nella trattazione de Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni):

Il Super-Io impone all’Io inerme, che è in sua balía, criteri morali rigorosissimi; è in

generale il rappresentante delle esigenze della moralità, e d’un tratto ci rendiamo conto che

il nostro senso morale di colpa esprime la tensione fra l’Io e il Super-Io78.

Risulta da tale dinamica che l’Io «patisce o addirittura soccombe sotto gli attacchi del Super-Io»79, e

diventa perciò «la vera e propria sede dell’angoscia»80. Ciò che è importante qui rilevare, come

anche lo stesso Freud fa, è il ruolo del senso di colpa per le nevrosi:

Nella nevrosi ossessiva [...] il senso di colpa è fortissimo, ma non riesce a giustificarsi a

cospetto dell’Io. L’Io del malato tenta perciò di difendersi dall’imputazione di essere

colpevole81.

74 Freud S., L’Io e l’Es, pag. 497. 75 Ibidem, pag. 514. 76 Ibidem, pag. 512. 77 Ibidem, pag. 499. 78 Freud S., Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie…), pag. 174. 79 Freud S., L’Io e l’Es, pag. 518. 80 Ibidem. 81 Ibidem, pag. 513.

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Per tale motivo Freud afferma:

Data la grande importanza che assume nelle nevrosi il senso di colpa, non possiamo

neppure escludere che la comune angoscia nevrotica, quando si tratta di casi gravi, venga

rafforzata per il fatto che si sviluppa angoscia fra l’Io e il Super-Io82.

Questi primi studi portarono Freud a poter scrivere, nel suo scritto Il problema economico del

masochismo, che sono specificamente il sadismo del Super-Io e il masochismo dell’Io a spiegare il

senso di colpa83. La questione riguardo all’aggressività della coscienza morale sarà ripresa anche

nell’opera successiva, Il disagio della civiltà:

L’aggressività viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata là donde è

venuta, ossia è volta contro il proprio Io. Qui viene assunta da una parte dell’Io, che si

contrappone come Super-Io al rimanente, e ora come “coscienza” è pronto a dimostrare

contro l’Io la stessa inesorabile aggressività che l’Io avrebbe volentieri soddisfatto contro

altri individui estranei84.

Secondo questa interpretazione si ha perciò che «la repressione di una pulsione determini […] un

sentimento di colpa» e che «la coscienza morale diventi tanto più severa e suscettibile quanto più il

soggetto si astiene dall’aggredire altre persone»85.

Ed è sempre ne Il disagio della civiltà che Freud fornisce la maggiore chiarificazione riguardo allo

sviluppo della coscienza morale e del conseguente senso di colpa. Egli riscontra due stadi: nel

primo il bambino si sottometterebbe all’influsso estraneo dei genitori a causa della sua debolezza e

dipendenza, ossia per paura di perdere l’amore dei genitori e per timore delle punizioni:

[...] egli [il bambino] deve avere un motivo per sottomettersi a tale influsso estraneo. È

facile scoprire questo motivo nella debolezza dell’uomo e nella sua dipendenza dagli altri;

può essere indicato meglio come paura di perdere l’amore. Se l’uomo perde l’amore degli

altri da cui dipende, ci rimette anche la protezione contro molti pericoli e soprattutto si

espone al rischio che la persona più forte mostri la sua superiorità punendolo86.

In questa fase di sviluppo, dato che il bambino evita il male soltanto quando e perché può essere

sorpreso dai genitori, non si può parlare propriamente di coscienza morale e di sentimento di colpa,

82 Freud S., L’Io e l’Es, pag. 520. 83 Freud S., Il problema economico del masochismo, pag. 16. 84 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 610. 85 Freud S., Il problema economico del masochismo, pag. 16. 86 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 611.

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quanto di «angoscia sociale»87. È soltanto nella seconda fase che si può parlare propriamente di

coscienza morale e di sentimento di colpa, perché è in questa fase che viene interiorizzata l’autorità

con l’erigersi del Super-Io. Al timore suscitato dall’autorità esterna subentra ora il timore suscitato

dal Super-Io. Per questo motivo, non è più sufficiente, per evitare il male, la paura di essere

scoperti, essendo il censore sempre presente («niente può rimaner celato al cospetto del Super-Io,

neppure i pensieri»88), né vale la differenziazione tra attuazione e intenzione, desiderio del male.

Mentre prima l’autorità si limitava ad interdire l’atto del soddisfacimento pulsionale, ora la stessa

autorità, divenuta interiore, condanna l’«Io peccatore»89, colpevole già per il suo semplice tendere

verso il male, e ciò fa insorgere in lui il bisogno di autopunizione. Ciò che è rilevante sottolineare è

che la coscienza morale, così come essa si presenta nella seconda fase, rimane essenzialmente

ancorata alla dipendenza dell’autorità parentale; non dispone, cioè, di capacità autonoma di

riconoscere il valore dal disvalore, infatti «tutto rimane in sostanza come era all’origine» e il

«Super-Io fa provare le stesse paure»90. Secondo quanto fa notare Lambertino, nel passaggio dalla

prima alla seconda fase, non si dà nell’ambito dell’autonomia e dell’originalità del discernimento,

una vera e propria maturazione della coscienza morale91. Infatti, sarebbe sempre e soltanto l’autorità

parentale il costitutivo della coscienza morale, con la differenza che, mentre nella prima fase essa

era esterna, nella seconda diviene interiore o psichica. Si presuppone perciò una differenza per

quanto riguarda la modalità della presenza, non per quanto concerne il soggetto o la fonte che

instaura e costituisce la coscienza morale.

Inoltre, mentre nella fase infantile il timore dell’autorità esterna basta a determinare la rinuncia

pulsionale, con la quale viene sedato un primo senso di colpa, con l’instaurarsi della coscienza

morale, persistendo il desiderio inoccultabile del male e la tendenza all’aggressività, la rinuncia

pulsionale non è più sufficiente a non fare avvertire il senso di colpa:

La prima fonte obbliga a rinunciare al soddisfacimento pulsionale, la seconda, oltre a ciò e

poiché è impossibile nascondere al Super-Io che i desideri proibiti continuano a persistere,

preme per la punizione92.

Non risulta perciò più sufficiente l’astinenza virtuosa per non sentirsi in colpa, ed è proprio questo

ciò che avrebbe meritato un ulteriore approfondimento, come anche mette in risalto Lambertino:

87 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 611. 88 Ibidem, pag. 612. 89 Ibidem. 90 Ibidem. 91 Lambertino A., op. citata, pag. 266. 92 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 614.

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Donde deriva nell’uomo la tendenza radicale al male? Perché essa è costitutiva del senso di

colpa? Il problema va ben al di là del semplice rapporto con l’autorità parentale.

L’intenzione malvagia, infatti, cioè la tendenza radicale all’aggressività, non si spiega più –

neppure per Freud – con la semplice inibizione da parte dell’autorità esterna: essa non deve

rispondere più ai genitori, sussiste ugualmente nella loro assenza. La coscienza morale,

allora, nella misura in cui riveste un’intima connessione con la tendenza al male da

contenere, non dovrebbe, neppur essa, essere spiegata semplicemente mediante il

riferimento all’autorità parentale introiettata93.

93 Lambertino A., op. citata, pag. 268.

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3. Il senso di colpa e la religione

a. Freud e la religione

Come ben fa notare il prof. Aletti, «Di fatto, nel complesso dell’opera freudiana l’analisi e la

riflessione sulla religione occupano un posto di grande rilievo»94. Vorremmo dunque cercare di dare

uno sguardo a questo tema con specifico riferimento alla nostra tematica del senso di colpa.

Per ciò che riguarda le origini della religione, Freud non sembra offrire spiegazioni univoche. Da un

lato la dichiara una mera istituzione civile, una «rappresentazione della civiltà»95, «il più alto

valore» che la civiltà abbia potuto offrire agli uomini96, «la parte più importante dell’inventario

psichico di una civiltà»97. Dall’altro lato però, ne Il disagio della civiltà e in L’uomo Mosè, in cui si

propone di indagare sulle fonti più profonde del sentimento religioso, riprendendo le conclusioni cui

era già giunto in Totem e tabù, egli attribuisce l’origine del sentimento religioso alla tesi dei

«ritorni». Tale tesi propone l’idea che vi siano dei ritorni di eventi significativi della storia

primordiale della comunità umana98, cioè un ritorno colpevolizzante dell’esperienza primordiale

dell’uccisione del padre, elevato successivamente a divinità. L’evoluzione della religione si

potrebbe perciò definire, secondo la teoria freudiana, come un lento ritorno del rimosso nella vita

dei popoli, che, iniziando con il totemismo, prosegue con l’umanazione, fino a raggiungere, dopo la

fase politeistica, la forma più evoluta del monoteismo, che ricostituisce «la maestà del padre

dell’orda primitiva»99.

La divinità, fin dalla fase politeistica, risulta assolvere ad un triplice compito:

[...] esorcizzare i terrori della natura, riconciliarci con la crudeltà del fato, specialmente

quale si manifesta nella morte, risarcirci per le sofferenze e per le privazioni imposte dalla

civile convivenza100.

Man mano che le spiegazioni dei fenomeni naturali si sottraggono all’intervento soprannaturale, il

terzo potere, quello consolatorio, si impone con sempre maggiore forza. Così, quanto più la natura

si rende autonoma dal dominio dagli dèi, «tanto più seriamente tutte le aspettative si concentrano

sulla terza facoltà ad essi attribuita, e tanto più il loro dominio proprio diventa quello della

94 Aletti M., Psicologia, psicoanalisi e religione: studi e ricerche. Edizioni Dehoniane, Bologna, 1992, pag. 75. 95 Freu S., L’avvenire di un’illusione (nella nostra bibliografia in Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1997), pag. 444. 96 Ibidem, pag. 450. 97 Ibidem, pag. 444. 98 Freud S., L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1995, pag. 382. 99 Ibidem, pag. 449. 100 Freu S., L’avvenire di un’illusione, pag. 447-448.

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morale»101. Il nesso, perciò, tra religione, morale e civiltà diventa sempre più inscindibile. Il

compito che ora spetta agli dèi è quello di «compensare le manchevolezze e i mali della civiltà», di

rimediare alle «sofferenze che gli uomini si infliggono reciprocamente nella vita in comune», di

«vigilare sull’attuazione delle norme civili cui gli uomini si attengono tanto malamente»102. In altre

parole, la religione diventa garante della vita morale e della gratificazione dell’uomo, e «alle stesse

norme civili viene attribuita un’origine divina»103. Con le parole di Lambertino potremmo perciò

affermare che «al di là di ogni altra motivazione, la vera unica spiegazione del formarsi della

religione risiede dunque, per Freud, nella debolezza infantile dell’uomo, acuita dalle carenze della

società civile»104.

Nel tentativo di spiegare per intero l’evoluzione della religione, Freud non manca di prendere in

considerazione la genesi della religione ebraica quanto di quella cristiana. Così come il monoteismo

avrebbe ricondotto alla luce il «nucleo paterno che da sempre era rimasto nascosto dietro ogni

figura divina»105, così l’esigenza di una «intimità» e «intensità del rapporto fra il bambino e il

padre» avrebbe dato luogo ad un «unico bambino amato, il popolo eletto»106. Con tale

interpretazione, il nesso tra religione ed etica assume connotazioni ancora più profonde. La

religione ebraica avrebbe conferito all’etica una dimensione sempre più rinunciataria e repressiva, e

imposto riti e cerimonie sempre più formalistici. Infatti, a causa del rapporto ambivalente con il

padre, si sarebbe ridestata nel popolo ebraico l’ostilità repressa contro di lui, espressa mediante il

peccato. Il conseguente senso di colpa, «ininterrottamente tenuto desto dai profeti», avrebbe dato

luogo a comandamenti «sempre più severi, penosi e anche meschini», a «sempre nuove rinunce

pulsionali, raggiungendo, almeno nella dottrina e nel precetto, vertici etici che erano rimasti

inaccessibili agli altri popoli antichi»107. È per tale motivo che Freud potrà quindi affermare che

«questa etica non riesce […] a disconoscere la sua origine dal senso di colpa causato dall’ostilità

repressa verso Dio» e che addirittura «essa ha lo stesso carattere incompiuto e incompibile che è

proprio delle formazioni reattive nevrotico-ossessive; s’indovina anche che essa serve a intenzioni

segrete di punizione»108.

L’evoluzione religiosa deteriora man mano che dal giudaismo si passa al cristianesimo, il cui

fondatore Freud ritrova in Saulo di Tarso; fu con quest’ultimo che, secondo lo psicanalista, si

sarebbe fatta strada per la prima volta la nozione del «siamo così infelici perché abbiamo ucciso

101 Freu S., L’avvenire di un’illusione, pag. 448. 102 Ibidem. 103 Ibidem. 104 Lambertino A., op. citata, pag. 342. 105 Freu S., L’avvenire di un’illusione, pag. 449. 106 Ibidem. 107 Freud S., L’uomo Mosè…, pag. 450. 108 Ibidem, pag. 451.

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Dio»109 insieme alla visione «delirante della buona novella: “siamo redenti da ogni colpa dacché

uno di noi ha sacrificato la sua vita per assolverci”»110. Per tale motivo si poteva affermare allora

che «al posto della beatitudine di essere gli eletti subentrò ora la liberazione di essere i redenti»111.

Un’importante considerazione che Freud, infine, fa a riguardo del cristianesimo concerne il fatto

che il figlio avrebbe preso il posto del padre:

È degna di nota la maniera in cui la nuova religione s’acconciò all’antica ambivalenza nel

rapporto con il padre. Il suo contenuto principale fu sì la riconciliazione con Dio Padre,

l’espiazione del delitto commesso contro di lui, ma l’altro lato della relazione emotiva

compariva nel fatto che il figlio, che aveva preso su di sé l’espiazione, divenne egli stesso

Dio accanto al padre e propriamente al posto del padre. Scaturito da una religione del

padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi

sbarazzare del padre112.

b. La religione: una nevrosi ossessiva

La prima opera in cui Freud si occupa esplicitamente dello studio della religiosità è Azioni ossessive

e pratiche religiose. In questo breve scritto Freud sottolinea le analogie e le similitudini tra i

comportamenti religiosi rituali e i cerimoniali propri della nevrosi ossessiva.

La nevrosi, secondo la definizione che ne da Aletti, è un «disordine mentale funzionale,

contraddistinto da un turbamento più o meno grave della sfera emotivo-affettiva e motivazionale,

che si esprime soprattutto in stati d’ansia, sentimenti di insicurezza e di colpa»113. Nelle nevrosi

ossessive si instaurano dei comportamenti «compulsivi», detti anche «cerimoniali», in quanto

obbediscono a determinate e minuziose regole (come lavarsi sempre le mani, il ripetere delle

filastrocche, o il compiere delle azioni in un ordine ben preciso, senza possibilità di variazione o di

interruzione), la cui mancata osservanza genera ulteriore ansietà114, anzi «ogni scostamento dal

cerimoniale è punito con un’angoscia insopportabile»115, come sottolinea Freud. E proprio secondo

quest’ultimo si possono riscontrare analogie tra le pratiche religiose e i cerimoniali delle nevrosi:

109 Freud S., L’uomo Mosè…, pag. 451. 110 Ibidem. 111 Ibidem. 112 Ibidem, pag. 452. 113 Aletti M., op. citata, pag. 75. 114 Ibidem, pag. 76. 115 Freud S., Azioni ossessive e pratiche religiose (nella nostra bibliografia in Il motto di spirito e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1995), pag. 342.

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È facile rendersi conto dove risieda la somiglianza del cerimoniale nevrotico con le azioni

sacre del rito religioso: nell’angoscia morale dell’omissione, nel completo isolamento da

ogni altra azione (divieto di interruzione) e nella scrupolosità dell’esecuzione dei

particolari116.

Ma soprattutto è importante il fatto che colui che compie queste azioni lo fa «senza conoscerne il

significato, o almeno senza conoscerne il significato principale» così come «il singolo fedele

compie in genere il cerimoniale religioso senza preoccuparsi del suo significato»117. La coazione di

questi atti sembra derivare da una «coscienza di colpa di cui tuttavia non sa nulla»118:

Essa ha la sua fonte in determinati processi psichici remoti, ma viene costantemente

rianimata nella tentazione rinnovatesi a ogni occasione attuale, e d’altra parte fa sorgere una

angoscia d’attesa sempre in agguato, un’attesa di sciagura, connessa, mediante l’idea di

punizione, alla percezione interiore della tentazione119.

Il motivo per cui sorgono i cerimoniali e le azioni ossessive è dunque quello di difendere dalla

tentazione e di proteggere dalla sciagura, ma qualora le misure protettive non siano sufficienti

insorgono i divieti120. Perciò è facile notare per Freud come «alla base della formazione della

religione stia la repressione, la rinuncia a certi moti pulsionali» e che «il conseguente senso di colpa

alla continua tentazione, l’angoscia d’attesa come paura della punizione divina, ci sono noti nel

campo religioso ben prima che in quello della nevrosi»121. Proprio in virtù di queste somiglianze tra

nevrosi e pratiche religiose Freud giunge a descrivere «la nevrosi come una religiosità individuale e

la religione come una nevrosi ossessiva universale»122.

c. La religione frutto della colpevolezza edipica

Come abbiamo già avuto modo di vedere, in Totem e tabù Freud affronta il problema dell’origine

psicologica della religione, individuale e sociale; l’interpretazione che egli fornisce sembra fissata

fin da questo scritto e appare rimanere definitiva nel suo pensiero123.

116 Freud S., Azioni ossessive e pratiche religiose, pag. 343. 117 Ibidem, pag. 346. 118 Ibidem. 119 Ibidem. 120 Ibidem, pag. 347. 121 Ibidem, pag. 347-348. 122 Ibidem, pag. 349. Bisogna qui notare che tale visione non verrà mai abbandonata da Freud, anzi verrà riproposta vent’anni più tardi, con la medesima espressione, ne L’avvenire di un’illusione, pag. 473. 123 Plè A., Freud e la religione. Città Nuova, Roma, 1978, pag. 15.

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Nell’interpretazione freudiana riguardo all’origine della religione confluiscono influssi di diversi

studiosi, etnografi e etnologi, quali Frazer, Darwin, Atkinson, e Robertson Smith; ma ciò che è

innovativo in Freud è che egli inquadra tutte le informazioni attinte in un modello interpretativo che

rispecchia, sul piano collettivo, ciò che a livello individuale è lo schema della strutturazione e dei

processi dell’Edipo124. Viene ipotizzato che all’inizio l’umanità fosse organizzata per nuclei di

convivenza, o per meglio dire che essa fosse costituita da un’orda primitiva dominata da un padre

assolutista e dispotico, che tenesse per sé tutte le donne, impedendo così ai propri figli di adempiere

le loro soddisfazioni sessuali. Tale situazione avrebbe portato i fratelli ad unirsi per poi abbattere il

padre e quindi divorarlo:

[...] nell’atto di divorarlo, essi realizzarono l’identificazione con il padre, ognuno si appropriò

di una parte della sua forza. Il pasto totemico, forse la prima festa dell’umanità, sarebbe la

ripetizione e la commemorazione di questa memoranda azione criminosa, che segnò l’inizio di

tante cose: le organizzazioni sociali, le restrizioni morali e la religione125.

Bisogna far notare che come nel complesso edipico, il padre era per i figli contemporaneamente

oggetto di ammirazione (per la soddisfazione libidica) e di odio (per il controllo sui loro istinti): «il

progenitore violento era stato senza dubbio il modello invidiato e temuto da ciascun membro della

schiera dei fratelli»126. Ma, una volta ucciso il padre, e soddisfatto l’odio nei suoi confronti, «sorse

un senso di colpa che coincide in questo esempio con il rimorso collettivo»127. La conseguenza di

questo rimorso collettivo fu la seguente situazione:

Ciò che prima egli [il padre] aveva proibito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora

spontaneamente nella situazione psichica dell’“obbedienza posteriore”, che conosciamo

così bene attraverso la psicanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione

del sostituto paterno, il totem, e rinunciando ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano

diventate disponibili128.

È proprio a questo «filiale senso di colpa» che si devono «i due tabù fondamentali del totemismo,

che proprio perciò dovevano coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico»129, quello

dell’omicidio e dell’incesto. È perciò per questo senso di colpa che si deve la sacralizzazione del

totem, al quale i figli cominciarono ad offrire sacrifici e riti. Da questa situazione derivò, quindi, la

124 Aletti M., op. citata, pag. 77. 125 Freud S., Totem e tabù. Editore Boringhieri S.p.A., Torino, 1969, pag. 146. 126 Ibidem. 127 Ibidem, pag. 147. 128 Ibidem. 129 Ibidem.

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formazione dei primi sistemi di religiosità, e grazie a questa analisi Freud poté affermare che «gli

inizi della religione, della moralità, della società e dell’arte convergono nel complesso edipico»130.

La proiezione dell’immagine paterna, dalla quale risulta poi la concezione di Dio, è vera per Freud

non soltanto per ciò che riguarda il piano storico, ma anche quello individuale:

[...] dalla ricerca psicoanalitica condotta sul singolo individuo risulta con particolarissima

insistenza che il Dio si configura per ognuno secondo l’immagine del padre, che il rapporto

personale con il Dio dipende dal rapporto che si ha con il padre carnale, oscilla e si

trasforma con lui, e che in ultima analisi il Dio altro non è che un padre a livello più alto131.

Per tale motivo «la psicanalisi ritiene giusto prestare fede ai fedeli, i quali chiamano Dio col nome

di Padre, così come chiamavano progenitore il totem»132.

In quest’ottica di religione del Padre si inserisce anche il cristianesimo; infatti, se «la religione

totemica era nata dal senso di colpa dei figli, nel tentativo di attenuare questo sentimento»133, ciò

non vale solo per il totemismo:

Tutte le religioni successive si dimostrano altrettanti tentativi di soluzione del medesimo

problema, tentativi che variano in relazione ai livelli di civiltà in cui vengono intrapresi

[…]; ma sono tutte reazioni rivolte allo stesso fine, reazioni al medesimo grande

avvenimento con il quale ebbe inizio la civiltà e che da allora non dà pace all’umanità134.

Non si può dunque non prendere in considerazione il cristianesimo, e neanche Freud si esime dal

farlo. Come tutte le religioni sviluppatesi nel corso della storia il cristianesimo mantiene «i due

elementi propulsori, il senso di colpa del figlio e la sua ribellione contro il padre»135; a differenza

delle altre religioni sviluppatesi, che si affidarono ai sistemi sacrificali per alleviare questo senso di

colpa, con la figura del Cristo abbiamo un nuovo elemento: «egli venne e sacrificò la propria vita,

redimendo così la schiera dei fratelli dal peccato originale»136. Ma «con la medesima azione che

offre al padre la massima espiazione possibile anche il figlio raggiunge lo scopo dei suoi desideri

contro il padre. Diventa egli stesso Dio accanto, anzi propriamente al posto del padre»137. Questa

sostituzione, così come nel totemismo veniva ricordata dal pasto totemico, ora è ricordata «in forma

di Comunione, nella quale la schiera dei fratelli consuma la carne e il sangue del Figlio non più del

130 Freud S., Totem e tabù, pag. 159. 131 Ibidem, pag. 150. 132 Ibidem. 133 Ibidem, pag. 148. 134 Ibidem. 135 Ibidem, pag. 156. 136 Ibidem. 137 Ibidem, pag. 157.

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Padre, e con questo atto si santifica e identifica con Lui»138. Nel cristianesimo, dunque, ritroviamo

ancora la figura castrante e dominante del padre da eliminare, ed è perciò ancora una volta una

religione attraversata e caratterizzata dal senso di colpa.

d. La religione come illusione

Nelle sue considerazioni, Freud tende essenzialmente a mostrare come «la nostra civiltà è edificata

sulla repressione delle pulsioni» e che tale «rinuncia è stata graduale nel corso dell’evoluzione

civile; ogni passo innanzi veniva sanzionato dalla religione; la parte di soddisfacimento pulsionale

cui si era rinunciato veniva offerta alla divinità»139.

Nell’opera L’avvenire di un’illusione Freud porta avanti l’idea che la religione, insieme alle sue

rappresentazioni, sarebbero «illusioni indimostrabili»140; egli inoltre auspicherebbe che la religione

non avesse un avvenire, che potesse scomparire dal bagaglio umano perché «l’atteggiamento attuale

verso la religione rappresenta per la civiltà un pericolo maggiore che non sostituirlo con un

atteggiamento diverso»141. Questa eliminazione del religioso potrebbe avvenire nel momento in cui

da una mentalità infantile pre-scientifica dell’uomo, si cedesse il posto ad una lucida e razionale

acquisizione della ostilità della vita: «l’uomo non può rimanere eternamente bambino, prima o poi

deve avventurarsi nella “vita ostile”»142; ciò potrebbe avvenire con il progredire del «primato

dell’intelletto» che «va collocato in un futuro molto, molto lontano, ma probabilmente non

infinitamente lontano»143. Secondo Freud, le rappresentazioni religiose costruite dall’uomo

derivano essenzialmente dalla volontà di difendersi dalle «forze elementari» con cui «la natura si

erge contro di noi, immensa, crudele, spietata»; essa ci mette di fronte all’«impotenza da cui

pensavamo di esserci sottratti mediante le opere della civiltà»144. Di fronte alla propria impotenza,

l’uomo si rifugia perciò nelle rappresentazioni religiose, che come abbiamo visto in precedenza,

conservano il loro triplice compito. Quindi, nei momenti di difficoltà, l’uomo regredirebbe ad uno

stato infantile e si rifugerebbe nella ricerca di una protezione che la divinità dovrebbe assicurare: «il

motivo del desiderio ardente del padre coincide pertanto col bisogno di protezione contro le

conseguenze della debolezza umana; la difesa contro l’insufficienza infantile si riflette, con i suoi

caratteri, nel modo di reagire dell’adulto contro la propria fatale impotenza, si riflette cioè nella

138 Freud S., Totem e tabù, pag. 157. 139 Freud S., La morale sessuale ‘civile’ e il nervosismo moderno (nella nostra bibliografia in Freud S., Il motto di spirito e altri scritti. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 1995), pag. 416. 140 Freud S., L’avvenire di un’illusione, pag. 461. 141 Ibidem, pag. 465. 142 Ibidem, pag. 478. 143 Ibidem, pag. 482. 144 Ibidem, pag. 446.

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formazione della religione»145. Una tale vita religiosa non è che un’illusione, nel significato che egli

ne dà:

[...] una credenza è un’illusione qualora nella sua motivazione prevalga l’appagamento di

desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l’illusione

stessa rinuncia alla propria convalida146.

Dal momento che la religione incarna in maniera così esauriente i desideri dell’uomo riguardo alle

esigenze di protezione, di provvidenza, di ordine morale universale e di vita ultraterrena, Freud si

domanda se non sia «molto strano che tutto ciò sia così come non possiamo fare a meno di

desiderare che sia»147.

Abbiamo dunque potuto vedere le concezioni fondamentali del pensiero freudiano riguardanti la

religione e il suo ruolo nella formazione della civiltà e dell’individuo; ciò che si può notare nel

prendere in considerazione le opere che anche noi abbiamo cercato di approfondire, è che Freud

sembra avere delle intuizioni che, al contrario del suo usuale atteggiamento, sempre volto allo

studio e ad un ulteriore sviluppo, rimangono in una certa staticità di fondo.

145 Freu S., L’avvenire di un’illusione, pag. 444. 146 Ibidem, pag. 461. 147 Ibidem, pag. 463.

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parte seconda

IL CONFRONTO CON LA TEOLOGIA

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1. La coscienza e il Trascendente

a. La coscienza come elemento interiore

Nel presente capitolo vorremmo presentare ciò che della teoria freudiana possiamo e ciò che non

possiamo accogliere riguardo all’istanza definita come Super-Io, o coscienza morale. Partiremo con

il prendere in considerazione ciò che non accogliamo della teoria freudiana, cosa che potrebbe far

pensare ad una certa diffidenza di fondo; in realtà, vorremmo poter chiarire inizialmente ciò che non

è possibile accogliere, per poi poter giovare degli elementi delle teorie psicoanalitiche che possono

aiutare a chiarire aspetti appartenenti anche alla visione cristiana.

Bisognerà innanzitutto far presente che per Freud «va scartata l’ipotesi di una originaria, per così

dire naturale capacità discriminatoria tra bene e male […]. Qui agisce, dunque, un influsso estraneo,

il quale decide che cosa debba chiamarsi bene o male»148. Come abbiamo avuto modo di vedere,

nella prima parte di questo lavoro, l’istanza superegoica altro non sarebbe se non l’assimilazione dei

divieti e dei comandi; questi non hanno origine nell’interiorità del soggetto stesso, ma sono il

prodotto del condizionamento esercitato dalle figure parentali prima e del mondo esterno poi. Ora,

se si può «attribuire a una forza esterna il potere di promuovere la prime rinunce pulsionali, non ci

pare altrettanto legittimo concludere che sarà una pressione esogena a ingenerare la coscienza

morale come tale»149. Infatti, che l’essere umano abbia la facoltà di essere condizionato dall’esterno

e che possa da esso assimilare delle norme e farle proprie, ciò non implica che egli non abbia in sé

la possibilità di percepire ciò che è un valore da ciò che non lo è. Una tale oggettivazione della

coscienza la svuota della sua identità soggettiva.

Dobbiamo inoltre muovere un’ulteriore critica alla teoria freudiana: nel momento in cui la

situazione edipica è la fonte dell’istanza morale, la genesi della coscienza morale è profondamente

legata alla realtà sessuale. Per tale motivo Freud non riesce a «dare ragione, per esempio, […] della

peculiarità di certi atteggiamenti morali, già in qualche modo operanti nella stessa infanzia»150. È

possibile notare infatti nel bambino alcune concrete intuizioni del bene e del male, del giusto e

dell’ingiusto, che, come tali, non sembrano essere riconducibili alla categoria della sessualità. Tali

intuizioni risultano essere «informali, primitive, di reazioni più psichiche che morali»151. Ma è

possibile comunque rendersi conto che il bambino sa cogliere il valore della giustizia, o che egli sa

avvertire il senso di imputabilità («non sono stato io», o «non l’ho fatto apposta»), intuisce il valore

morale della verità e condanna la menzogna; comprende il valore della promessa e dell’impegno

148 Freud S., Il disagio della civiltà, pag. 611. 149 Lambertino A., op. citata, pag. 249. 150 Ibidem, pag. 254. 151 Ibidem.

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dato, tanto che il suo atteggiamento verso coloro che non mantengono una promessa fattagli non è

in alcun modo clemente. Per tali considerazioni, dunque possiamo affermare che «Con la riduzione

della genesi del valore etico al valore sessuale viene resa problematica la possibilità di cogliere in

futuro la peculiarità di pluriformi contenuti etici»152. Con ciò vorremmo quindi affermare la

possibilità che l’uomo abbia, ancor prima della situazione edipica e quindi ancor prima di

un’interiorizzazione di una norma esterna, la facoltà di cogliere e di sentire dentro di sé le vie

perseguibili da quelle non perseguibili. Questa idea è data dall’esempio che anche l’apostolo Paolo

offre nella sua epistola ai romani:

Infatti quando degli stranieri, che non hanno legge, adempiono per natura le cose richieste

dalla legge, essi, che non hanno legge, sono legge a sé stessi; essi dimostrano che quanto la

legge comanda è scritto nei loro cuori, perché la loro coscienza ne rende testimonianza e i

loro pensieri si accusano o anche si scusano a vicenda (Rm 2:14-15).

Nell’AT l’elemento che descrive questa istanza interiore dell’uomo è il cuore, che nell’antropologia

ebraica è la sede dei pensieri, dei sentimenti, dei giudizi e degli impulsi morali. La costitutiva

interiorità dell’uomo è data dal cuore, e il suo rilievo è tale che per descrivere ogni atteggiamento

dell’uomo l’AT ne parla sempre in questi termini (tanto che «cuore» si trova più di 700 volte in

tutto l’AT). Tutta la condotta dipende dalla decisione del cuore: Dio si ama con il cuore153, e si

tradisce con il cuore154. Scrive a tal proposito Schüller:

La coscienza è in uno stato di inquietudine, ha paura di Dio, lascia diminuire la fiducia,

deve essere ritemprata, è gioiosa e impavida: tutte queste affermazioni hanno senso

soltanto se «coscienza», equivalente a «cuore», sta ad indicare l’uomo quale libero

soggetto morale e non la ragione pratica o quell’istanza interiore che comanda e giudica155.

Nella LXX troviamo il termine synéidesis156, che compare solo in tre testi: Qo 10:20, nel senso di

interiorità segreta; Sap 17:10, coscienza etica; Sir 42:18, dove «coscienza» è in parallelismo con

«cuore»157. Ritroviamo lo stesso termine nel NT, utilizzato soprattutto in Paolo. Egli utilizza questo

termine in maniera più concentrata nelle due lettere ai Corinzi e nella lettera ai Romani.

152 Lambertino A., op. citata, pag. 255. 153 «Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore» (Dt 6:5-6). 154 «I vostri superstiti si ricorderanno di me fra i popoli dove saranno stati deportati, poiché io spezzerò il loro cuore adultero che si è allontanato da me e farò piangere i loro occhi che hanno commesso adulterio con i loro idoli» (Ez 6:9). 155 Schüller B., La fondazione dei giudizi morali. Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1997, pag. 67. 156 Secondo Balz H., Schneider G., Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, vol. 2. Paideia Editrice, Brescia, 1998: consapevolezza, coscienza, convinzione. 157 Fabris R., “La coscienza nella riflessione di San Paolo” in Credere Oggi, La coscienza, n° 128, 2/2002, pag. 47-56. Edizioni Messaggero Padova, pag. 47, nota 2.

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Non volendo anticipare ciò che nel prossimo paragrafo Paolo ci aiuterà a comprendere circa un

secondo elemento della coscienza nella visione biblica, vogliamo qui soltanto far notare un testo in

cui è possibile rilevare che anche nella concezione paolina la coscienza è il centro della persona,

alla stregua del concetto di «cuore» che abbiamo riscontrato nell’AT: «…quanto più il sangue di

Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì sé stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra

coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!» (Eb 9:14). Il termine coscienza non può

essere inteso come «ragione pratica» o come «giudizio ultimo-pratico». Che senso avrebbe parlare

di purificazione della «ragione» o del «giudizio»? Il termine acquista un senso e diventa

comprensibile solo se per coscienza intendiamo il «cuore» dell’uomo, l’uomo in quanto soggetto

morale158. Ma vogliamo prendere in considerazione anche un secondo testo: «Lo scopo di questo

incarico è l'amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (I Tm

1:5). Nel testo ricorre ancora una volta il termine «coscienza», questa volta però in parallelo con

«cuore». Dal contesto non è difficile dedurre che i due termini sono equivalenti, sinonimi, hanno lo

stesso significato. Si comprenderà che non ha senso parlare dell’amore che sgorga da una «ragione

pratica» o da un «giudizio ultimo-pratico». Ha senso invece parlare dell’amore che sgorga da una

«coscienza buona», da un «cuore puro». E in Paolo è fondamentale l’idea che «coscienza» sia

collegata profondamente all’amore, ma ciò ci apre alla seconda questione che ci siamo prefissi di

prendere in considerazione, pertanto ci accingiamo ad esporla.

b. La coscienza come elemento eteronomo

Se è vero che non possiamo perdere di vista il carattere soggettivo della coscienza, è altrettanto vero

che non bisogna cadere nell’errore contrario, in una concezione, cioè, individualistica159 della

coscienza. Per tale motivazione possiamo e dobbiamo accogliere la teoria di Freud, e dobbiamo

perciò prendere in considerazione l’elemento eteronomo della coscienza, considerandolo però come

suo elemento di sviluppo, piuttosto che come presupposto alla sua esistenza.

È necessario prendere atto del fatto che l’individuo sperimenta l’imprescindibilità di un confronto

con l’esterno, e nel caso del credente il confronto è vissuto con il Creatore e la sua Parola: «La

158 Si veda anche Eb 10:22: «avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell'aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura». 159 Secondo questo approccio la coscienza, lungi dall’essere vista come fonte originaria di una identità, che prende senso e si costruisce in un tessuto di relazioni, risulta espressione di una individualità chiusa ed autosufficiente; la necessità di fare i conti con istanze derivanti dalla presenza dell’altro (e degli altri) sarebbe motivata soltanto da ragioni meramente utilitariste. La coscienza, così, non è solo criterio della moralità, ma anche il criterio unico ed esclusivo del suo esercizio. L’affermazione «decido secondo coscienza» rispecchia questa convinzione: il riferimento ad un ordine oggettivo è ritenuto superfluo. L’agire ha nell’individuo la sua sorgente e si esaurisce in esso; tutto il resto è legato esclusivamente a ragioni di convenienza o di convenzione sociale, ragioni che non intaccano la soggettività delle scelte. A questo si contrappone in maniera molto forte l’idea paolina espressa in I Cor 10:24: «Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma ciascuno cerchi quello degli altri», espressa proprio in un passaggio in cui l’apostolo prende in considerazione problemi riguardanti la coscienza.

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coscienza credente si trova […] liberata dalla chiusura in sé e obbligata ad aprirsi a un ascolto che la

salva dal suo narcisismo, nel tempo stesso che l’informa e la mette in moto»160.

Chiamato all’alleanza con Dio, anzi costituito esistenzialmente da essa, l’uomo dell’AT è in

continuo ascolto della Parola: Parola che gli si rivolge, lo penetra e lo investe, lo rende consapevole

del significato di ogni sua attività; ascolto nel quale l’uomo trova la sua sapienza e il discernimento

tra il bene e il male: «Ho conservato la tua parola nel mio cuore per non peccare contro di te» (Sal

119:11). Possiamo accogliere, quindi, in questo senso le intuizioni di Freud, secondo il quale

l’essere umano interiorizza un’autorità esterna; l’elemento però caratterizzante e che si discosta

dalla teoria psicoanalitica, è questo: mentre per Freud l’autorità esterna è data dalle figure

genitoriali e in seguito dalla società, per l’uomo che vive con Dio le norme sono date da Dio,

attraverso la sua Parola. Il credente quindi va oltre il confronto con le norme sociali, per aderire a

quelle date e fatte conoscere dalla Parola di Dio:

[…] la coscienza non si può pensare né vivere senza una relazione con un Altro che non è

essa, che è il suo Assoluto, ma un Assoluto presente nel suo stesso atto. E anche se

quest’altro si conosce, quanto alle sue esigenze, grazie alla mediazione della comunità

credente e nell’ascolto delle autorità religiose, è però pur sempre Lui a restare il referente

ultimo che giudica la coscienza e davanti al quale essa stessa si giudica161.

Nel cuore giunge la Parola di Dio ed esso diventa quindi «cuore contrito», «cuore nuovo», «cuore

convertito», se accoglie quella Parola, divenendo la fonte intima di ogni risoluzione religiosa e

d’ogni valutazione morale162; «cuore indurito», «sordo», «ottenebrato», se la Parola non vi risuona

più e i valori morali, di conseguenza, non sono più riconosciuti163.

Il rilievo del cuore continua nei testi evangelici: pensiamo al profondo processo di interiorizzazione

cui è sottoposta la vita morale nell’insegnamento di Gesù, e al ruolo che vi assume il cuore, come

testimone del valore etico e luogo in cui si intrinseca la volontà di Dio. Lo stesso discorso della

montagna richiede come fondamento dell’agire morale un’interiore decisione che va ben oltre la

160 Valadier P., Elogio della coscienza. Società Editrice Internazionale, Torino, 1995, pag. 258. 161 Ibidem, pag. 257. 162 «Dà dunque al tuo servo un cuore intelligente perché io possa amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male» (I Re 3:9). 163 «Resero il loro cuore duro come il diamante, per non ascoltare la legge e le parole che il Signore degli eserciti rivolgeva loro per mezzo del suo spirito, per mezzo dei profeti del passato» (Zac 7:12); «Oggi, se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore come a Meribà, come nel giorno di Massa nel deserto, quando i vostri padri mi tentarono, mi misero alla prova sebbene avessero visto le mie opere. Quarant'anni ebbi in disgusto quella generazione, e dissi: ‘È un popolo dal cuore traviato; essi non conoscono le mie vie’» (Sal 95:8-10).

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semplice fedeltà a determinati precetti: purezza di cuore164; occhio semplice e luminoso che

rischiari intimamente tutta la condotta165.

Non devono essere in ordine le azioni, come era la preoccupazione dei farisei, ma la sede più

profonda della nuova giustizia, il cuore: lì viene seminata e deve fruttificare la Parola di Dio166, e

solo da un cuore puro si possono trarre le buone azioni, le parole buone, il perdono misericordioso e

quanto più conta nella legge, la giustizia, la misericordia, la fedeltà167. Mentre a nulla varrebbe

osservare la legge con la precisione più minuziosa, se poi il cuore è accecato e maligno: poiché da

una simile fonte impura rigurgita ogni cattivo pensiero e ogni azione immonda che imbratta l’uomo

e, buona solo all’apparenza, è abominevole a Dio168. Da un tale messaggio balza chiaramente che il

giudizio sulla bontà o meno della nostra condotta è interiore, viene elaborato in quella profondità

personale da cui essa procede, il cuore. Ma risulta altresì chiaro che questa fonte interiore può

«inquinarsi», può lasciarsi corrompere, quest’occhio scrutatore può essere accecato (Mt 6:23ss).

Tragica ambivalenza del cuore: dà il valore etico all’azione, e insieme può farsi complice

dell’iniquità. È qui che comincia chiaramente a delinearsi l’esigenza di una continua conversione

del cuore, di un'educazione della coscienza che avvenga sotto lo sguardo di Dio, e quindi nella

verità. Possiamo dunque vedere come la coscienza non si risolve ad essere una semplice

applicazione meccanica di principi alle contingenze della vita, ma è inventare di volta in volta il

modo con cui l’uomo risponde alla sua qualità di immagine di Dio, realizzando se stesso nella

verità.

Possiamo quindi finalmente riprendere ciò che avevamo lasciato in conclusione del precedente

paragrafo: la concezione paolina di coscienza. L’apostolo utilizza il termine in molte occasioni

riguardo a episodi concernenti le carni sacrificate agli idoli (come nelle due epistole ai Corinzi);

altra occasione è quella in cui Paolo ricorre a questa categoria per difendere il suo metodo di

evangelizzazione contestato nella chiesa di Corinto (II Cor 1:12). In entrambi i contesti risulta che

la coscienza non indica solo la dimensione interiore della persona, dimensione in cui la persona

164 «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5:8). 165 «Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; anzi fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non sfondano e non rubano. Perché dov' è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebre, quanto grandi saranno le tenebre!» (Mt 6:19-23). 166 «Tutte le volte che uno ode la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada» (Mt 13:19). 167 «Razza di vipere, come potete dir cose buone, essendo malvagi? Poiché dall'abbondanza del cuore la bocca parla» (Mt 12:34); «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché pagate la decima della menta, dell'aneto e del comino, e trascurate le cose più importanti della legge: il giudizio, la misericordia, e la fede. Queste sono le cose che bisognava fare, senza tralasciare le altre. Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite il cammello. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché pulite l'esterno del bicchiere e del piatto, mentre dentro sono pieni di rapina e d'intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l'interno del bicchiere e del piatto, affinché anche l'esterno diventi pulito» (23:23-26). 168 «Ma ciò che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è quello che contamina l'uomo. Poiché dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidi, adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni. Queste sono le cose che contaminano l'uomo; ma il mangiare con le mani non lavate non contamina l'uomo» (Mt 15:18-20).

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deve rispondere delle proprie scelte e azioni. Coscienza per Paolo è anche il centro della persona,

centro in cui «si intrecciano le sue relazioni con gli altri davanti a Dio»169. È per tale motivo che

egli scriverà «Ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa è utile […]. Nessuno cerchi il proprio vantaggio,

ma ciascuno cerchi quello degli altri» (I Cor 10:23,24). È in questo senso che Paolo sviluppa il

concetto di «coscienza»: nella relazione con gli altri, nell’edificazione reciproca, nell’amore per

l’altro. Potremmo dire che Paolo «riformula il comando dell’amore del prossimo»170. E in forza di

questo amore egli stesso cerca il vantaggio di tutti: «anch'io compiaccio a tutti in ogni cosa,

cercando non l'utile mio ma quello dei molti, perché siano salvati» (I Cor 10:33). Nella teoria

psicoanalitica, invece, Il Super-Io «nega la possibilità che l’uomo possa essere sollecitato, oltre che

dal richiamo del piacere e del tornaconto personale, dall’istanza dell’alterità e dell’amore, o,

meglio, riconduce l’istanza dell’amore a quella del piacere investito oggettualmente. L’etica sociale

infatti […], come del resto la religione, è riconducibile, secondo Freud, soltanto ad un bisogno di

gratificazione e al timore del dispiacere»171. Vediamo dunque che esiste una distinzione netta tra ciò

che Freud postulava come Super-Io e ciò che qui abbiamo delineato come coscienza: il Super-Io

non prende in considerazione l’amore per il bene al quale l’individuo è chiamato, anzi esprime

esattamente la preoccupazione opposta, introversa e individualistica, di essere amabili e amati; la

preoccupazione fondamentale del Super-Io è quella di ricevere amore o di non perderlo.

Nell’epistola ai Romani utilizza il termine secondo due accezioni: la prima per dare validità al suo

discorso (come già abbiamo visto fare in Corinzi), riguardo al suo dolore per l’incredulità degli

ebrei (Rm 9:1-3); la seconda in un’accezione etico-religiosa, in due testi diversi. Un testo riguarda i

rapporti con l’autorità politica (Rm 13:5b), l’altro è Rm 2:14-15, che abbiamo già precedentemente

preso in considerazione. In questo testo Paolo associa la synéidesis alla «legge» – nómos – intesa

come torah, sulla quale si fonda il rapporto di Israele con Dio. Nel caso delle genti egli sottolinea

l’aspetto etico normativo della legge. Parla infatti di «quanto la legge comanda», che è scritto nei

cuori dei popoli estranei alla torah. Alla categoria di «cuore» viene quindi associata quella della

«coscienza»: essa, come istanza che guida la vita delle genti, è il riflesso di quella legge che Dio ha

dato ad Israele. Il contenuto normativo della torah trova conferma nella coscienza etica dei popoli.

Paolo conclude quindi la sua riflessione sullo statuto delle genti collocandolo nel contesto del

giudizio di Dio. Questa condizione etico-religiosa apparirà nel giorno in cui Dio «giudicherà i

segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio vangelo» (v. 16). Perciò vediamo

come nella visione biblica non si possa rinunciare ad un confronto del singolo con dei fattori

eteronomi: in primo luogo è il rapporto con Dio che costituisce la base di questo confronto; esso poi

169 Fabris R., “La coscienza nella riflessione di San Paolo” in Credere Oggi, La coscienza, n° 128, 2/2002, pag. 47-56. Edizioni Messaggero Padova, pag. 53. 170 Ibidem, pag. 50. 171 Lambertino A., op. citata, pag. 255-256.

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sviluppa i propri contenuti nella torah, che non risulta essere qualcosa di superfluo, tanto che

possiamo leggere: «‘ma questo è il patto che farò con la casa d’Israele, dopo quei giorni’, dice il

Signore: ‘io metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed

essi saranno mio popolo’» (Ger 31:33).

c. La coscienza come angoscia di sé

Il nostro discorso non sarebbe esauriente se concludessimo l’analisi sulla coscienza senza prendere

in considerazione la dinamica che porta l’uomo, nel porsi a confronto con l’elemento eteronomo, a

vivere ciò che Freud chiamava senso di colpa.

Secondo una visione prettamente biblica, dal confronto con la legge, con l’autorità eteronoma,

l’uomo conosce il peccato, conosce la sua situazione: «il mio peccato è sempre davanti a me. […] O

Dio, crea in me un cuore puro e rinnova dentro di me uno spirito ben saldo» (Sal 51:3,10). La legge,

la Parola di Dio, il confronto danno all’uomo la possibilità di conoscere non soltanto ciò che

dovrebbe essere osservato, ma rappresentano anche uno specchio; in questo specchio l’uomo può

vedere anche quale sia lo stato in cui si trova, e si accorge perciò di una sua non aderenza con tale

elemento eteronomo. Ora, nella visione freudiana, ciò risulterebbe essere già nevrosi, angoscia nel

senso patologico del termine, senso di colpa e bisogno di punizione; ma dobbiamo affermare

l’importanza che tale confronto ha nell’economia dello sviluppo morale dell’uomo:

[…] la psicologia del profondo ha bisogno di una antropologia più ampia per comprendere

che l’angoscia dell’uomo non scaturisce solo da determinate situazioni pericolose esteriori,

prima di essere interiorizzata psichicamente, ma che essa è essenziale all’uomo a motivo

stesso della sua libertà172.

Il confronto infatti con l’elemento eteronomo non si ferma, nella visione cristiana, al voler

sottomettere l’uomo a norme e leggi restrittive, ma a renderlo consapevole del suo stato in vista

della salvezza. In questo quadro, dunque, vogliamo portare avanti la nostra analisi, facendo anche

tesoro delle osservazioni psicoanalitiche, perché, come scrive Drewermann, «La dottrina di Dio e la

dottrina dell’anima hanno bisogno l’una dell’altra, se vogliono liberare l’uomo»173.

Nel momento in cui l’uomo si scopre di fronte al peccato egli si accorge del proprio fallimento, ma

quanto più egli si sforza di compiere il «bene» egli si rende conto altresì di essere per così dire

vittima di una forza, in balia della quale egli perpetua il fallimento: «è più forte di me, ci casco

172 Drewermann E., Psicanalisi e teologia morale. Editrice Queriniana, Brescia, 1992, pag. 11. 173 Ibidem, pag. 15.

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sempre» è affermazione tipica di situazioni in cui l’uomo si scopre mancante, situazione in cui la

parte inconscia dell’uomo sembra poter sopraffare quella conscia.

L’uomo è tragicamente aperto alla libertà del possibile, ma è proprio in virtù della possibilità

d’azione che egli prova e vive l’angoscia dell’esistenza, così come Kierkegaard l’intende.

L’angoscia di cui parla il filosofo cristiano è la condizione esistenziale generata dalla «vertigine»

della libertà e dalle infinite possibilità negative che incombono sulla vita e sulla personalità

dell’uomo. La coscienza, quale percezione delle infinite possibilità, diventa perciò presupposto

della colpa («la fallibilità è iscritta nelle strutture della coscienza»174), così come anche l’apostolo

Paolo ha esposto nella sua epistola ai Romani:

io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della legge; poiché non avrei

conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: «Non concupire». Ma il

peccato, còlta l'occasione, per mezzo del comandamento, produsse in me ogni

concupiscenza; perché senza la legge il peccato è morto. Un tempo io vivevo senza legge;

ma, venuto il comandamento, il peccato prese vita e io morii; e il comandamento che

avrebbe dovuto darmi vita, risultò che mi condannava a morte. Perché il peccato, còlta

l'occasione per mezzo del comandamento, mi trasse in inganno e, per mezzo di esso, mi

uccise Così la legge è santa, e il comandamento è santo, giusto e buono. Ciò che è buono,

diventò dunque per me morte? No di certo! È invece il peccato che mi è diventato morte,

perché si rivelasse come peccato, causandomi la morte mediante ciò che è buono; affinché,

per mezzo del comandamento, il peccato diventasse estremamente peccante (Rm 7:7-13).

Il discorso di Paolo verte sul fatto che la concupiscenza si scatena proprio perché la legge è

contraria ad essa, sul fatto che l’uomo viene eccitato alla concupiscenza egoistica proprio dalla

legge che non vuole quella concupiscenza. Ciò non dipende dalla legge in sé, bensì dalla potenza

del peccato; infatti, l’incontro fra la legge e l’uomo non avviene in modo tale che la legge provoca il

peccato o l’egoismo, bensì nel modo in cui la legge, che dovrebbe dare vita (v. 10), quale

ammaestramento che contiene la volontà divina e quindi quale fonte di vita, in realtà, nell’attuarsi

concreto dell’esistenza umana, questa legge è mutata nei suoi effetti. Il motivo di tale mutamento

non è però da ricercarsi nell’essenza stessa della legge, piuttosto nella condizione dell’uomo che

successivamente Paolo si appresterà ad esporre: la condizione adamitica di peccato. Nel suo attuarsi

la legge si è imbattuta nel regno del peccato. Ed è proprio questo aspetto dell’agire umano che

vogliamo ora descrivere.

174 Morra G., Zuanazzi G., Verga L., Fabris R., Angelici G., Hofer G., Zovatto P., op. citata, pag. 43.

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2. La coscienza e la colpa

a. Il concetto di peccato

Nel prendere in considerazione questo argomento, vorremmo partire da una distinzione di fondo;

distinzione che non solo risulta essere possibile da una data fondatezza biblica (che qui però non

presenteremo), ma che, ancor più importante, è necessaria all’analisi che in questa sede vorremmo

portare avanti. Stiamo parlando della distinzione tra peccato (si noti il singolare) e peccati (plurale).

Una tale sottigliezza di numero potrà sembra sofistica, in realtà si avrà occasione di notare che

questa differenziazione ci permetterà di connotare il nostro discorso in una prospettiva che rinuncia

alla sfera morale per inquadrarsi invece in un ambito più prettamente teologico. Così facendo,

vorremmo distaccarci dalla mera enumerazione dei singoli atti peccaminosi ed erronei dell’uomo (i

peccati), ovvero l’actus in senso morale, per poter così prendere in considerazione ciò che appare

come il loro presupposto: lo «stato di miseria», come lo definisce Pannenberg175, ovvero quello

status esistenziale che va sotto il nome di peccato.

Partendo da questo presupposto, vorremo perciò provare a delineare quale sia il carattere del

peccato, cercando di andare oltre alla definizione di trasgressione di norma, anche perché la perfetta

esecuzione di una legge non equivale alla perfetta interpretazione dell’etica: tale era la questione

che lo stesso Gesù intraprese contro il fariseismo176, e tale risulta essere la critica freudiana ad un

siffatto moralismo177. Bisogna perciò andare oltre e rimandare il nostro discorso a quel bisogno di

senso che l’essere umano percepisce. Ed è nell’ottica di questo approfondimento che si inserisce

l’idea di peccato: esso è uno stravolgimento del senso dell’essere umano, di uno stravolgimento che

ha inizio con il rifiuto del Dio Creatore per giungere ad affermare la propria identità non più nella

propria destinazione di figlio di Dio; in altre parole, «il peccato altro non è che lo stesso soggetto

umano nel suo libero dire no a quel Dio del quale, pure, ha bisogno per esistere e vivere»178. Tale è

il peccato, ad esempio, nel racconto genesiaco della coppia primordiale: se analizziamo questo

racconto, infatti, ci renderemo conto che il rifiuto da parte dell’uomo della propria creaturalità si

realizza nell’illusione, avanzata dal serpente, di pretesa dell’infinito. L’argomentazione che

convince la donna a mangiare il frutto, a rinnegare quindi la propria dipendenza a Dio, è proprio

l’illusione di poter essere come Dio, di non compiere cioè la dovuta distinzione di identità tra la

creatura e il Creatore: «Il serpente disse alla donna: ‘No, non morirete affatto; ma Dio sa che nel

175 Pannenberg W., Teologia Sistematica 2. Editrice Queriniana, Brescia, 1994, pag. 291. 176 L’oggetto di tale polemica vede affermare il fatto che si può osservare la legge con rigorosa esattezza, senza per questo entrare in comunione con Dio. Il criterio vero della comunione con Dio è da ricercare in qualcosa d’altro rispetto alla legge, qualcosa nel quale la legge trova solo poi, come conseguenza, il suo significato. 177 Colzani G., Antropologia teologica. L’uomo: paradosso e mistero. Edizioni Dehoniane, Bologna, 1988, pag. 339. 178 Ibidem.

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giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del

bene e del male’» (Gen 3:4-5). Solo sotto questa nuova prospettiva di apertura all’infinito, la donna

si accorge che il frutto è desiderabile. Il peccato, dunque, si presenta come un allontanamento da

Dio, o meglio come una pretesa di prendere il posto che solo a Dio spetta, in un processo di

autoaffermazione179. Bisognerà a questo punto precisare che l’affermazione di sé, l’affermazione

della propria identità non è già di per sé peccato. Che l’uomo potesse affermare la propria identità è

fatto voluto dal disegno divino; ciò è dimostrato anche dal fatto che l’uomo fu posto in maniera

centrale rispetto al creato: Dio creò l’uomo capace di vivere in autonomia e di esercitare un dominio

sull’ambiente che lo circondava (Gen 2:15). Il problema, allora, che si pone all’uomo è che egli,

nella propria esperienza di affermazione, stravolge il rapporto tra finito ed infinito volendo andare

al di là della propria finitezza; egli pretende di strapparsi dal potere di Dio per rivendicare

un’identità che, invece, proprio così finisce per perdere.

Questa volontà di divenire Dio, non risulta essere, quindi, tanto la violazione di una norma, quanto

il contrario della fede, l’incapacità di un abbandono a Dio, nella volontà di una autonomia umana

come assoluta e indipendente da Dio. Tale volontà di indipendenza non risulta essere sempre

manifesta ribellione contro Dio, ma si presenta «nell’angoscia che l’Io prova per sé e nella brama

che non conosce limiti»180. In questa prospettiva è dunque possibile cogliere la profonda

connessione del peccato con la natura umana. Connessione che ci rivela come il peccato sia

condizione nella quale si trova a vivere ogni essere umano: «tutti hanno peccato e sono privi della

gloria di Dio» (Rm 3:23)181. Il peccato, dunque, qualifica la persona nella sua interiorità e nella sua

individualità profonda, con linguaggio psicoanalitico diremmo «nel proprio inconscio», e con

termini paolini esso è un potere che «abita» l’uomo (Rm 7:17).

Si pone dunque, a questo punto della disamina, il problema della responsabilità riguardo al peccato.

Se infatti consideriamo il peccato come circostanza in cui l’uomo si trova a prescindere dalle

singole azioni, e piuttosto come elemento connaturato all’esistenza umana, viene alleviata, di

conseguenza, la responsabilità del singolo. Infatti, «Se è vero che il male noi lo iniziamo e lo

compiamo, è però pure vero che esso è già presente ed operante vuoi prima del nostro svegliarci alla

responsabilità della vita vuoi, anche, proprio in questo nostro diventare responsabili»182. Di fatto,

non si può negare che l’idea del peccato che abita l’uomo de-responsabilizza l’individuo; bisognerà

notare, infatti, che si può parlare di responsabilità solo nel momento in cui si fa riferimento ad una

179 Pannenberg W., op. citata, pag. 299. 180 Ibidem, pag. 300. 181 Cf. I Gv 1:8 : «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi»; Ecc 7:20 : «Certo, non c'è sulla terra nessun uomo giusto che faccia il bene e non pecchi mai»; Pro 20:9 : «Chi può dire: “Ho purificato il mio cuore, sono puro dal mio peccato?”». 182 Colzani G., op. citata, pag. 356.

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norma e il soggetto ne accetta la validità quale condizione vitale per la propria identità183. Ed è

proprio riguardo all’identità che bisognerà collocare l’idea della responsabilità del singolo. Infatti, è

solo nel prendere in considerazione l’uomo in rapporto alla propria identità che si può immaginare

la sua responsabilità: nel momento in cui egli non realizza la propria identità fondandola su Dio, di

fatto non realizza la sua vera identità. E in questo modo egli è mancante rispetto al proprio essere,

non rispetto alla norma. Se infatti, non presupponiamo la responsabilità come responsabilità nei

confronti della destinazione propria dell’uomo, essa diventerebbe solo fondata su di un fattore

eteronomo che risulterebbe imposto all’uomo. La responsabilità, dunque, sembra essere connessa

alla consapevolezza che l’individuo può avere riguardo alla propria destinazione come immagine di

Dio. Con ciò si avrebbe che se l’individuo fosse consapevole e comunque non attuasse secondo la

propria destinazione sarebbe imputabile di colpa oggettiva, e sarebbe perciò da ritenere

responsabile. Bisognerà però osservare che anche nel caso in cui egli fosse consapevole della

propria identità, potrebbe ugualmente non riuscire a realizzarla, non perché egli non si riconosca la

in rapporto a Dio, come ad esempio ci descrive benissimo Paolo in Rm 7:14-25:

Sappiamo infatti che la legge è spirituale; ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato.

Poiché, ciò che faccio, io non lo capisco: infatti non faccio quello che voglio, ma faccio

quello che odio. Ora, se faccio quello che non voglio, ammetto che la legge è buona; allora

non sono più io che lo faccio, ma è il peccato che abita in me. Difatti, io so che in me, cioè

nella mia carne, non abita alcun bene; poiché in me si trova il volere, ma il modo di

compiere il bene, no. Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio,

quello faccio. Ora, se io faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo compio, ma è il

peccato che abita in me. Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il

male si trova in me. Infatti io mi compiaccio della legge di Dio, secondo l’uomo interiore,

ma vedo un’altra legge nelle mie membra, che combatte contro la legge della mia mente e

mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi

libererà da questo corpo di morte? Io rendo grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro

Signore. Io stesso dunque con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne la legge del

peccato.

Come si può ben vedere in questo testo, il nocciolo della questione, nella prospettiva biblica, non

sembra essere la responsabilità o meno, quanto piuttosto il presentare questo stato di cose. Il

discorso biblico riguardo al peccato, infatti, è più volto a presentare la sua esistenza e le sue

183 Pannenberg W., Antropologia in prospettiva teologica. Editrice Queriniana, Brescia, 1987, pag. 128.

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connessioni con le condizioni naturali dell’uomo, che non la sua imputabilità184. Questo perché il

discorso sul peccato non è fine a se stesso, non vuole accusare e rinchiudere l’uomo in una

condizione senza vie d’uscita. Piuttosto, il dato che il peccato esiste, e che esso sia insito nella

natura umana, si presenta come il presupposto della redenzione in Cristo185. Un chiaro esempio di

ciò è proprio il brano di Paolo che abbiamo sopra menzionato: dopo una dettagliata descrizione

dell’agire umano sottoposto al potere del peccato, che gli impedisce di compiere ciò che egli

riconosce come bene, l’apostolo non conclude la pericope condannando l’uomo, non chiude il

discorso lasciando l’uomo sotto il peso schiacciante del peccato, bensì propone il sollievo e la

soluzione. Soluzione che trova il suo adempimento solo esternamente all’uomo, nella redenzione

attuata dal Cristo: «Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (Rm 7:25).

In tale prospettiva va perciò inquadrata una qualsiasi analisi riguardante il peccato, ed è in simile

prospettiva che, quindi, dirigeremo la nostra dissertazione nel prossimo capitolo.

b. Dal senso di colpa all’esperienza del peccato

Prendendo le mosse dal peccato, così come è stato trattato nel paragrafo precedente, bisognerà ora

dunque prendere in considerazione l’esperienza che l’uomo fa di questa situazione di peccato. In

quest’ottica vorremmo poi fare un confronto con il senso di colpa, così come esso è stato preso in

considerazione nella prima parte del nostro lavoro.

Abbiamo visto come il peccato non sia un atto determinato quanto una complessiva deformazione

della vita personale, nell’allontanamento da Dio. Ciò che ci interessa quindi prendere qui in esame è

l’esperienza che il soggetto fa di questa situazione, ben diverso da un senso di colpa, inteso come

consapevolezza dell’aver infranto una norma di ordine morale186.

Anche se in entrambi i casi si può parlare di angoscia, in realtà le due situazioni sono ben diverse.

Mentre nel caso del senso di colpa l’angoscia è la risultante di un prendersi cura di sé, rinchiudersi

su di sé, nel caso dell’esperienza del peccato l’angoscia è dovuta alla volontà di affermazione di sé

senza l’Altro. Perciò, «la dimensione psicologica dell’esperienza del peccato si colloca all’interno

di un sistema aperto, il quale ha per centro il rapporto con Dio»187.

Nell’esperienza del peccato si può inoltre rilevare una differenza sostanziale fra l’umiliazione,

frutto della ferita narcisistica, e l’umiltà cristiana per il peccato, strutturalmente connessa alla

184 Paolo, infatti, non si chiede come potrebbe altrimenti comportarsi l’uomo, o il perché lo faccia. Piuttosto egli è impegnato a presentare la dinamica con cui l’uomo è effettivamente lontano dalla piena realizzazione del suo essere come immagine di Dio. 185 L’idea che non si debba collegare la destinazione dell’uomo con le problematiche di tipo etico, non esclude che l’etica possa comunque trovare una sua validità. Anzi, bisognerà precisare che essa deriva proprio i suoi principi dal quadro escatologico e redentivo in cui la destinazione dell’uomo si inserisce. 186 Aletti M., op. citata, pag. 107. 187 Ibidem, pag. 103.

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finitudine dell’uomo che si rapporta a Dio. La valutazione della colpevolezza non è più rapportata

all’atto in quanto tale, ma al significato che essa assume all’interno del dialogo interpersonale con

Dio. È per questo motivo che il credente può vivere l’esperienza di conoscenza della propria

colpevolezza non su registri di depressione e di chiusura, ma in chiave di crescita nell’apertura

all’altro e nella ferma certezza della propria autorealizzazione.

Bisognerà anche precisare che esiste una patologia della colpevolezza; essa risulta però essere uno

sviluppo abnorme, un ingigantimento dei fenomeni psichici. Certamente, anche l’esperienza del

peccato è esposta a deformazioni, fissazioni, regressioni, cioè a una sua propria patologia. Ciò si

verifica quando l’impegno di un comportamento morale diventa ritualizzato, e si discosta in

maniera rilevante dalle sue motivazioni intrinseche, in modo tale che il moralismo predomina

sull’atteggiamento religioso, e la legge, anziché essere momento d’incontro con il Padre e modello

di autorealizzazione del figlio, diviene complesso normativo, la cui forza sta nella paura della

sanzione divina.

Dalla disamina che abbiamo qui presentato si può dunque dedurre che non esisterebbe,

propriamente parlando, una colpevolezza patologica, quanto una modalità patologica di viverla.

Così pure non esisterebbe un senso del peccato di per sé patologico o apportatore di patologia,

piuttosto dei vissuti di colpa segnati dalla patologia, che, possono a volte investire oggetti e

tematiche di ordine religioso.

La coscienza del peccato non si esaurisce però nella linea di una realtà che mi accusa e che fomenta

il male dentro di me, né in quella dell’angoscia che si apre alla disperazione per il proprio radicale

dipendere da Dio: la coscienza del peccato è piuttosto un’esperienza di riappropriazione della vita

che, lontana dall’affondare inesorabilmente nella colpa, si protende e si può sentire appartenente

alla realtà della grazia.

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3. La colpa e l’esperienza della riconciliazione

a. L’azione salvifica di Dio

Abbiamo visto come il discorso sull’esistenza del peccato esista e trovi il suo significato ultimo in

relazione alla redenzione per mezzo di Gesù Cristo. Ma bisognerà notare che l’annuncio evangelico

è ancor più preciso; abbiamo già visto che il peccato è condizione comune ad ogni uomo, esso è

perciò universale («tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio», Rm 3:23). E anche

l’universalità trova il suo corrispettivo nella redenzione: così come tutti sono partecipi della natura

indebolita e fallace, tutti sono partecipi dell’opera redentiva del Salvatore. Una chiara esposizione

di tale imprescindibile relazione tra i due concetti è resa nel discorso di Paolo di Rm 5:12-21:

Perciò, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del

peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato...

Poiché, fino alla legge, il peccato era nel mondo, ma il peccato non è imputato quando non

c' è legge. Eppure, la morte regnò, da Adamo fino a Mosè, anche su quelli che non

avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui

che doveva venire. Però, la grazia non è come la trasgressione. Perché se per la

trasgressione di uno solo, molti sono morti, a maggior ragione la grazia di Dio e il dono

della grazia proveniente da un solo uomo, Gesù Cristo, sono stati riversati

abbondantemente su molti. Riguardo al dono non avviene quello che è avvenuto nel caso

dell’uno che ha peccato; perché dopo una sola trasgressione il giudizio è diventato

condanna, mentre il dono diventa giustificazione dopo molte trasgressioni. Infatti, se per la

trasgressione di uno solo la morte ha regnato a causa di quell’uno, tanto più quelli che

ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia, regneranno nella vita per

mezzo di quell' uno che è Gesù Cristo. Dunque, come con una sola trasgressione la

condanna si è estesa a tutti gli uomini, così pure, con un solo atto di giustizia, la

giustificazione che dà la vita si è estesa a tutti gli uomini. Infatti, come per la disubbidienza

di un solo uomo i molti sono stati resi peccatori, così anche per l’ubbidienza di uno solo, i

molti saranno costituiti giusti. La legge poi è intervenuta a moltiplicare la trasgressione;

ma dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata, affinché, come il peccato regnò

mediante la morte, così pure la grazia regni mediante la giustizia a vita eterna, per mezzo

di Gesù Cristo, nostro Signore.

Qui Paolo mette chiaramente in parallelo le due figure di Adamo e del Cristo. L’uso della tipologia

Adamo-Cristo serve a Paolo per illustrare la sovrabbondanza della grazia di Cristo nel quadro di

due processi, a conseguenza dei quali per l’azione di un singolo si ha un effetto sull’umanità intera.

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Possiamo infatti notare una forte opposizione tra «uno solo» e «tutti gli uomini» che serve a

sottolineare la singolarità della causa e, allo stesso tempo, l’universalità delle conseguenze. Ma,

bisogna precisare, che il rapporto tra Adamo e l’umanità serve solo a prefigurare e affermare la

solidarietà umana in Cristo.

Nel suo amore Dio insegue coloro che si sono da lui allontanatati e vuol restare con loro, perché in

lui possano ritrovare se stessi. E la missione di Gesù Cristo è come il movimento di Dio verso le

creature umane. La via di Cristo all’umanità è quella della rivelazione di un amore di Dio che

riconcilia, che cerca gli uomini che vivono nella lontananza di Dio e nella profonda miseria: «Dio

invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora

peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5:8). Cristo Gesù si è spogliato della sua uguaglianza con

Dio, e, nella sua solidarietà con l’uomo, egli non ha rifuggito neanche la morte:

[...] pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui

aggrapparsi gelosamente, ma spogliò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo

simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi

ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce (Fil 2:6-8).

Perciò, è la croce di Cristo a distruggere la radice ultima del peccato e a riportare in luce le ragioni

vere dell’esistenza del mondo e della persona umana.

È per tale motivo che possiamo affermare, insieme ad Aletti, che «l’interpretazione freudiana della

religione sembra mancare di coerenza interna e di consequenzialità logica. Perché in Dio-Padre

l’uomo dovrebbe proiettare solo gli aspetti della rinuncia e non anche quelli della promessa e di

sviluppo? La proiezione dell’esperienza edipica non è completa se limitata al momento della legge

castrante, dell’interdetto»188. E, infatti, Dio si rivela in altre spoglie all’uomo, come il Dio della

promessa: una promessa che si compie nel Figlio, la promessa dell’Emanuele così come era già

presente in Is 7:14 («Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà

un figlio, e lo chiamerà Emmanuele») e che viene riportata in Mt 1:21-23 alla nascita di Gesù. La

nascita di Cristo è il riavvicinamento tra cielo e terra: in Gesù «Dio è con noi», e Dio-con-noi

significa salvezza. Così viene spiegato il nome Gesù, qui posto in relazione con il nome

Emmanuele. Gesù significa «Yahweh salva»189, e stabilendo un parallelo tra il nome di Gesù e

quello di Emanuele, Matteo intende dire chiaramente che ogni salvezza consiste proprio nel fatto

che Dio è con noi e che Gesù di Nazareth è la presenza salvifica tra noi. E Cristo ha realizzato la

sconfitta del peccato attraverso lo spargimento del suo sangue: «questo è il mio sangue, il sangue

del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati» (Mt 26:28).

188 Aletti M., op. citata, pag. 91. 189 AA. VV., Dizionario di Dottrine Bibliche. Edizioni AdV, Falciani (Fi), 1990, pag. 177.

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Gesù Cristo è mandato ad annunciare la pace, e per mezzo di lui noi abbiamo pace con Dio:

«Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore»

(Rm 5:1). E pace con Dio non sta ad indicare un sentimento interiore (anche se questo possa esserne

il risultato ultimo), quanto piuttosto, uno stato di fatto. A tal proposito scrive C. Cranfield:

Là dove si tratta della giustificazione di Dio, giustificazione e riconciliazione, per quanto

diversi, sono inseparabili. Mentre fra un giudice umano e l’accusato che gli sta di fronte

non ci può essere un vero incontro umano, né ostilità personale se l’accusato viene

giudicato colpevole, né l’instaurarsi di rapporti di amicizia se l’accusato è riconosciuto

innocente, fra Dio e il peccatore si instaura un rapporto personale, e la giustificazione di

Dio comporta da parte sua un reale impegno personale verso il peccatore (non è un caso

che questa sottosezione contenga un paragrafo riguardante l’amore di Dio, vv. 6-8). Dio

non ci conferisce uno status di giustizia su di noi senza, nello stesso tempo, darci se stesso

come amico e instaurando pace fra lui e noi, un’azione che, in base alla spaventosa realtà

della sua collera contro il peccato e della fiera ostilità del nostro egoismo nei confronti di

Dio che chiede la nostra amicizia, viene compiuta soltanto a un prezzo indicibile da parte

sua190.

Dio non rimane impassibile e distaccato, Egli si lascia coinvolgere completamente, a costo anche

della vita di Suo Figlio. Dio non è il Dio lontano dei deisti, Dio è colui per il quale noi siamo suoi

amici, se accettiamo che Lui ci renda tali. È in virtù di questo che possiamo affermare che «Dio è

con noi».

Segno tangibile dell’amore del Padre e del peccato di ognuno: la riconciliazione con Dio è incontro

con quell’amore e coscienza di quel peccato. È importante la considerazione della croce da parte del

credente, perché il nostro cammino di riconciliazione deve necessariamente passare attraverso di

essa; è solo in virtù della croce di Cristo che viene purificata la nostra immagine di Dio, che

vengono distrutte le nostre distorsioni di un Dio che è giudice severo, padre-padrone dal perdono

difficile ed esigente. Finché non c’è un’esperienza piena del perdono, il peccato o la paura del

peccato, continueranno a disturbare il nostro presente e deformare il passato, inimicandoci la vita. Il

perdono che ci viene dal Padre, invece, ci riconcilia con la nostra storia, non solo con Dio; ci fa

scoprire non semplicemente il nostro male, ma anche il nostro bene. Così «Nell'amore non c'è

paura; anzi, l'amore perfetto caccia via la paura, perché chi ha paura teme un castigo. Quindi chi ha

paura non è perfetto nell'amore» (I Gv 4:18).

L’iniziativa della riconciliazione è esclusivamente di Dio: « E tutto questo viene da Dio che ci ha

riconciliati con sé per mezzo di Cristo» (II Cor 5:18). Se dunque l’uomo si era, per sua propria

190 Cranfield C. E. B., La lettera di Paolo ai Romani (cap. 1-8). Claudiana Editrice, Torino, 1998, pag. 132.

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scelta, allontanato da Dio, con l’illusione di vivere così la vera vita e cadendo in realtà nello stato

più misero, ora, grazie al riavvicinamento operato da Cristo il figlio può tornare nella casa del Padre

(Lc 15:11-32). E nel ritorno a casa il Padre non può che gioire: «Vi dico che così ci sarà più gioia in

cielo per un solo peccatore che si ravvede, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di

ravvedimento» (Lc 15:7).

b. La salvezza accolta

Abbiamo dunque visto quanto sia grande l’amore che Dio manifesta per l’uomo, quali siano le

conseguenze della sua opera di redenzione e riconciliazione. Abbiamo rilevato l’iniziativa di Dio, e

vogliamo ribadire che il ricongiungimento tra cielo e terra è stato possibile solo attraverso la croce,

quella croce che mette al bando ogni pretesa di autogiustizia da parte dell’uomo. Ma, va anche detto

che se è Dio che ha compiuto la redenzione dell’uomo, è anche vero che l’uomo è chiamato ad

accettare la salvezza offertagli: «Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito

Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna» (Gv 3:16). L’iniziativa di

Dio esige un destinatario capace di accoglierla.

Certo, la riconciliazione non è la semplice eliminazione del peccato. L’amore di Dio, nel sacrificio

di suo figlio, ci pone su un altro piano di esistenza. Chi è avvinto dall’amore di Cristo (II Cor 5:14),

non vive più per se stesso, non cammina più secondo la carne, ma vive per colui che è morto e

risorto per noi (II Cor 5:15) e cammina secondo lo Spirito (Rm 8:4), da creatura nuova. Nel cuore

dell’uomo è stata operata la giustizia, perché in chi è unito a Cristo, lo Spirito è il nuovo principio

vitale, opposto alla carne (Gal 5:17). Ciò non vuol dire che venga tolta in noi la possibilità di

cadere, di peccare, in ultima analisi non è ancora stato estirpata dalla nostra natura il peccato: la

nostra debolezza rimane; tuttavia è nel vivere quotidianamente l’esperienza del rapporto con Dio,

della richiesta di perdono e quindi della riconciliazione, che l’uomo può già vivere la realtà della

pace con Dio. Il giusto, biblicamente parlando non è colui che è retto, senza peccato, piuttosto colui

che, sotto la grazia, è spinto a confessare le proprie mancanze per confidare totalmente nel perdono.

Tale è l’atteggiamento dei santi così come si può ritrovare nella descrizione che ne viene fatta

nell’epistola agli Ebrei nel celeberrimo capitolo dedicato alla fede: ciò che muove i santi, infatti,

non è la rettitudine ma la fede (Eb 11). Ricevere il perdono non è un fatto di un episodio, qualcosa

di accidentale, ma qualcosa che ci cambia dentro e che ci rivela la nostra origine e la nostra

destinazione.

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Considerazioni di carattere conclusivo

L’«universo uomo» è sorprendente e affascinante. Andare alla scoperta dei suoi meandri più

nascosti significa, allo stesso tempo, rendersi conto di quanto egli sia profondamente legato a un

quid che gli permette di percepire l’infinito, pur non riuscendo a comprenderlo completamente; egli

lo coglie, più nel suo cuore che con l’intelletto: «egli ha perfino messo nei loro cuori il pensiero

dell’eternità, sebbene l’uomo non possa comprendere dal principio alla fine l’opera che Dio ha

fatta» (Ecc 3:11). Ed è proprio con questo cuore, nel quale percepiamo l’Eternità, l’Infinito,

l’Assoluto che però conosciamo anche, come in una schiacciante morsa, la nostra miseria, la nostra

tendenza egoistica. L’uomo conosce e sperimenta la propria capacità di compiere il male, di ferire

gli altri; e nel momento in cui egli vorrebbe fare il bene, si vede pur tuttavia capace soltanto di

commettere sempre gli stessi errori.

Nel presente lavoro, però, abbiamo visto come il percorso in cui si inscrive la consapevolezza della

propria tendenza al male non arriva a essere paralizzante, o addirittura fuorviante, al punto da

divenire malattia nevrotica, se tale esperienza è vissuta nella sua completezza: l’esperienza del

richiamo di un Padre che vuole ritrovare il proprio figlio, che vorrebbe per lui imbandire un

banchetto, una gran festa, se solo lui volesse tornare a casa. La rivelazione biblica non ha come

scopo il rinchiudere l’essere umano in rituali il cui significato riportano ad una colpa che attanaglia,

bensì il suo scopo è l’andare a fondo dei comportamenti umani, senza disincanto, per lasciar

scoprire all’uomo la sua necessità dell’Altro.

In questo percorso di conoscenza dell’uomo l’ambito religioso deve molto alla teoria psicoanalitica,

innanzitutto per la sua scoperta dell’inconscio, e degli atteggiamenti formalistici e moralistici in cui

a volte alcuni credenti si rinchiudono. Ma, sia la psicoanalisi che la rivelazione cristiana, in realtà

hanno affermato la stessa cosa: hanno ravvisato un disagio, che più che della civiltà, come lo

interpretava Freud, riteniamo sia dell’uomo in generale. Il senso di colpa, perciò, non è qualcosa di

puntuale, ma risulta essere di più ampio respiro. Per tali motivazioni, possiamo affermare che non

sono le singole norme a far vivere la sensazione di una reale mancanza, quanto un malessere più

intimo e più profondo, ed è quello che noi abbiamo intravisto nel peccato.

A tale disagio, cui Freud vorrebbe porre termine con il primato dell’intelletto, noi non possiamo

porre rimedio: soltanto Colui che è morto per noi può compiere questo miracolo. E allora si vedrà

come, nella consapevolezza non solo della propria tendenza al male, ma anche del grande amore

che il Padre ha per noi, che si comprenderà come la nostra vita non è una mera applicazione di

regolucce, ma è l’adesione totale a quel Dio che vorrebbe la nostra completa realizzazione. E questo

perché «I valori morali non sono inscritti in un cielo platonico ma l’uomo li sente nel suo cuore,

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meraviglioso miscuglio di grazia e zavorra»191, e in questo miscuglio l’uomo può avvertire la calda

carezza di Colui che non è venuto per puntare il dito, ma per rialzare il capo dell’afflitto: «Eleviamo

le mani e i nostri cuori a Dio che è nei cieli» (Lam 3:41). Dio è pronto a vivere una piena relazione

con i suoi figli, relazione in cui Egli li aiuta a comprendere i loro errori, ma in cui, soprattutto, egli

vuole dischiudere la meravigliosa esperienza della riconciliazione. I credenti cristiani falliscono nel

momento in cui non presentano la verità biblica in quest’ottica di redenzione, ed è importante, oggi

più che mai, che il cristiano proclami e porti la riconciliazione di Dio agli uomini: “E tutto questo

viene da Dio che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo e ci ha affidato il ministero della

riconciliazione” (II Cor 5:18).

191 Vergote A., La teologia e la sua archeologia. Citato in Mazzocato G., Patire ed agire. L’insuperabile profilo morale dell’Io e le aporie della teoria psicologica. Edizioni Glossa, Milano, 1995, pag. 82, nota 205.

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