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ACCORDO DI PROGRAMMA MUR-CNR “Sviluppo delle esportazioni di prodotti agroalimentari nel Mezzogiorno” ANALISI ECONOMICO STRUTTURALE DELLE DIVERSE FILIERE AGROALIMENTARI NEL MEZZOGIORNO Il settore agroalimentare in Campania Quaderno ISSM n. 130-B Napoli, 2008

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ACCORDO DI PROGRAMMA MUR-CNR “Sviluppo delle esportazioni di prodotti agroalimentari nel Mezzogiorno”

ANALISI ECONOMICO STRUTTURALE DELLE DIVERSE FILIERE AGROALIMENTARI NEL MEZZOGIORNO

Il settore agroalimentare in Campania

Quaderno ISSM

n. 130-B

Napoli, 2008

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Quaderno realizzato nell’ambito dell’accordo di programma MUR-CNR rela-tivo al progetto “Sviluppo delle esportazioni di prodotti agroalimentari del Mezzogiorno” Responsabile scientifico del progetto: Maria Rosaria Carli

Realizzazione: Network Consulting

Elaborazione e impaginazione a cura di: Aniello Barone e Paolo Pironti

Copyright © 2008 by CNR-ISSM Tutti i diritti riservati. Parti del lavoro potranno essere riprodotte

previa autorizzazione citando gli autori e il CNR-ISSM

Edizione fuori commercio

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INDICE

1. Il settore agroalimentare in Campania Pag. 5

1.1. Caratteristiche del sistema agroindustriale calabrese » 5

1.2. Le filiere produttive regionali » 16

1.2.1 La filiera vitivinicola » 16

1.2.2 La filiera lattiero casearia » 26

1.2.3 La filiera ortofrutticola » 40

1.2.4 La filiera delle produzioni zootecniche della carne » 55

1.2.5 La filiera olivicolo - olearia » 59

1.2.6 La filiera cerealicola e delle paste alimentari » 71

1.3. I distretti agroalimentari della Regione Campania » 76

1.3.1 Il distretto di Nocera Inferiore-Gragnano » 76

1.4. Flussi commerciali con l’estero dell’agroalimentare campano » 78

1.4.1 Le caratteristiche del commercio estero dei prodotti agroa-

limentari campani

» 79

1.4.2 Export per aggregati merceologici » 81

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1. Settore Agroalimentare in Campania1

1.1. Caratteristiche del sistema agroindustriale campano

Il sistema agroindustriale campano2 è un componente di rilievo dell’economia

regionale e manifesta luci ed ombre la cui origine è talvolta lontana nel tempo. Ol-

tre che dei processi di cambiamento in atto nelle società e nelle economie più svi-

luppate, il sistema agroalimentare campano risente delle specifiche dinamiche so-

cio-demografiche operanti nella regione, con processi di forte differenziazione fra

le aree rurali interne e quelle urbane e costiere.

La riduzione dell’importanza dell’agricoltura ed il contemporaneo rafforza-

mento dell’industria alimentare delineano le tendenze di fondo, su cui influisce

sempre più direttamente la crescente rilevanza delle componenti associate della

logistica ed alla dinamica del sistema distributivo. Ad una serie di caratteristiche

strutturali ed economiche deboli del suo apparato produttivo, il settore agroali-

mentare regionale contrappone alcuni elementi distintivi basati su un ampio pa-

niere di prodotti, di cui molti oggetto di tutela con marchio comunitario o nazio-

nale. La Campania infatti si distingue, rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno,

per la presenza di ben 28 prodotti tra Doc, Docg ed Igt, 6 Dop e 5 Igp, a cui van-

no aggiunti oltre 300 prodotti tradizionali delle diverse realtà territoriali. La valo-

rizzazione sui mercati nazionali e internazionali di questo grande patrimonio

produttivo è uno degli obiettivi da perseguire nei prossimi anni, in modo da con-

solidare i risultati positivi che la regione ha ottenuto in termini di esportazioni.

Il sistema agroalimentare nell’economia campana è dunque importante, sebbene

la sua incidenza nella formazione del valore aggiunto regionale vada affievolendosi

1 Fonte: Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013 Allegato 1 - Le principali

filiere agroalimentari regionali; Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto Annuale I-SMEA 2007 - Vol. II; POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali INEA; Pianificazione delle attività a supporto del sistema agroalimentare della Campania 2008/2009 – Assessorato all’agricoltura ed alle attività produttive della Regione Cam-pania.

2 Fonte: Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013 versione 2 (p.12-p.21);

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nel tempo, soprattutto per la componente agricola. Nel corso degli ultimi anni (dal

1995 al 2003), il valore aggiunto agricolo è cresciuto molto meno (circa il 6%) di

quello dell’industria alimentare (circa il 13%) ed entrambi sono cresciuti meno del

valore aggiunto regionale in complesso (+17,7%). Ciò ha portato al ridimensiona-

mento, seppur di lieve entità, della quota del settore agroalimentare che, in com-

plesso, si attesta intorno al 5,6% del valore aggiunto regionale (ISTAT, 2003).

Più in particolare:

1) l’agricoltura, con un valore aggiunto a prezzi correnti pari a circa 2.500 mi-

lioni di euro (2004), spiega il 3% valore aggiunto regionale, contro il 4.2% a

livello di Mezzogiorno e il 2,4% nazionale. Va inoltre segnalato che dal

2000 al 2004 il valore della produzione agricola regionale a prezzi costanti è

in leggera flessione (-1,8%), in controtendenza rispetto sia alla dinamica

della produzione italiana (+0,5%) che a quella meridionale (+1,9%);

2) l’industria alimentare, con un valore aggiunto a prezzi correnti pari a circa

2.100 milioni di euro (2003), costituisce il 2,6% del valore aggiunto regio-

nale, un peso superiore al 2.3% che si registra nel Mezzogiorno e al 2,2% a

livello nazionale. Va inoltre sottolineato che nell’ultimo decennio il valore

aggiunto dell’industria alimentare campana ha mostrato una crescita robu-

sta (+12,7%), molto superiore a quella media nazionale (+4,9%) e del Mez-

zogiorno (+9,9%).

Sul fronte dell’occupazione, il sistema agroalimentare in complesso contribuisce

per circa il 9,5% all’occupazione totale campana, contro una media nazionale del

7,5%, confermando la specializzazione relativa della regione in questo comparto.

Più in particolare:

1) l’agricoltura assorbe circa 120.000 unità di lavoro16 (2004), pari al 6,7% del

totale regionale, contro una media del 5,2% a livello nazionale. L’occupazio-

ne agricola va però riducendosi drasticamente, a ritmi superiori rispetto a

quanto avviene nel Mezzogiorno e nel resto d’Italia, anche se negli anni più

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recenti questa tendenza si è attenuata. Si segnala, inoltre, che il 57,7% degli

occupati agricoli è di sesso maschile, mentre il restante 42,3% è rappresenta-

to da donne.

2) l’industria alimentare occupa quasi 41.000 unità di lavoro18 (2003), pari al

2,7% del totale regionale. Tale valore è superiore al dato nazionale (2,3%),

ed anche ciò conferma la specializzazione relativa della regione nel compar-

to agroalimentare. Inoltre, nel corso del periodo 1995-2003 si è registrato

un significativo incremento dell’8,4%.

Nel complesso, il peso relativo dell’agroalimentare campano rispetto a quello

nazionale rimane abbastanza significativo per entrambe le variabili considerate: tre

il 7,6 e l’8% per il valore aggiunto e tra l’8,4 e il 9,6% per gli occupati. Il fatto che il

peso dell’agricoltura e dell’industria alimentare sia maggiore sul fronte occupazio-

nale rispetto a quello produttivo denota una ridotta produttività del fattore lavoro,

specie nel settore primario, anche se con dinamiche differenziate. In particolare: la

produttività del lavoro agricolo è pari a 20.842 euro per addetto, con un notevole e

costante incremento derivante dal concomitante effetto di due tendenze: incremen-

to del Valore Aggiunto Agricolo e diminuzione nel numero degli addetti; la pro-

duttività del lavoro nell’industria alimentare è pari a 51.416 euro, con un modesto

incremento nel corso degli ultimi anni derivante principalmente dalle buone per-

formances di mercato del settore. Le variazioni rispetto al 1995 del VA agricolo a

prezzi costanti (prezzi 1995) mostrano per l’agricoltura regionale un trend altale-

nante sul quale hanno inciso fattori contingenti di ordine climatico o relativi ad

emergenze ambientali (sopratutto nel 2003, per l’ortofrutta e la zootecnia bovina

ed ovi caprina) in specifici contesti locali. A livello nazionale, le tendenze sono so-

stanzialmente simili, sia pure con una minore variabilità di breve periodo. Per la

trasformazione agroalimentare l’andamento del VA regionale è stato decisamente

negativo, anche rispetto alla stessa componente nazionale, fino al 1999, per poi in-

traprendere un ciclo positivo distinguendosi rispetto a tutte le altre componenti

considerate. La buona performance della trasformazione agroalimentare campana

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è spiegata soprattutto dalle esportazioni che, come si vedrà più avanti, rappresen-

tano la componente più dinamica della domanda, a testimonianza di una buona

capacità competitiva dei prodotti trasformati, verso i quali si va sempre più specia-

lizzandosi il sistema regionale. Riguardo alle strutture produttive, esse sono molto

frammentate e tale caratteristica condiziona in negativo i risultati del sistema a-

groalimentare campano, anche in considerazione della scarsa propensione a forme

di associazionismo e cooperazione, con cui si potrebbero superare i limiti struttu-

rali ed acquisire maggior potere contrattuale nei confronti del sistema distributivo.

Figura 16 - Peso % delle componenti del sistema agroalimentare campano a livello nazionale in

termini occupati e di valore aggiunto

TRASFORMAZIONE AGRICOLTURA

TRASFORMAZIONE

AGRICOLTURA

OC

CU

PATI

TRASFORMAZIONE

AGRICOLTURA

V.A

.

9,6%

8,4%

7,6%

8,0%

TRASFORMAZIONE AGRICOLTURATRASFORMAZIONETRASFORMAZIONE AGRICOLTURAAGRICOLTURA

TRASFORMAZIONE

AGRICOLTURA

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TRASFORMAZIONE

AGRICOLTURA

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TRASFORMAZIONE

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TRASFORMAZIONE

AGRICOLTURA

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TRASFORMAZIONE

AGRICOLTURA

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.

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8,4%

9,6%

8,4%

7,6%

8,0%

Fonte: Ns. elaborazione su dati del Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013

Figura 17 – Distribuzione % del valore aggiunto e degli occupati per settori (Campania e Italia)

Italia 92,5 5,2

Campania 90,6 6,7 2,7

2,3

Campania 94,4 3 2,6

Italia 95,2 2,42,4

Valo

re

Aggi

unto

Occ

upat

i

86 88 90 92 94 96 98 100

Altri settori Agricoltura Trasformazione Agroalimentare

Italia 92,5 5,2

Campania 90,6 6,7 2,7

2,3

Campania 94,4 3 2,6

Italia 95,2 2,42,4

Valo

re

Aggi

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Occ

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86 88 90 92 94 96 98 100

Italia 92,5 5,2

Campania 90,6 6,7 2,790,6 6,7 2,7

2,3

Campania 94,4 3 2,6

Italia 95,2 2,42,4

Valo

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Aggi

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Occ

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86 88 90 92 94 96 98 10086 88 90 92 94 96 98 100

Altri settori Agricoltura Trasformazione AgroalimentareAltri settoriAltri settori AgricolturaAgricoltura Trasformazione AgroalimentareTrasformazione Agroalimentare

Fonte: Ns. elaborazione su dati del Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013

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La situazione strutturale dell’agroalimentare campano si può così sintetizzare:

• in base ai dati ISTAT, l’attività agricola è esercitata da meno di 250.000 a-

ziende, con una superficie agricola totale di 878.524 ha ed una superficie a-

gricola utilizzata (Sau) di circa 600.000 ha., ma è ben noto che, come del re-

sto avviene in tutto il territorio nazionale, le unità produttive assimilabili a

vere imprese, ancorché piccole, sono molto meno. Sempre stando ai dati I-

STAT, intercensuario 1990-2000, si è assistito alla riduzione di circa 22.000

aziende (-8,1%), prevalentemente di ridotte dimensioni,con una perdita di

Sau del 9,8%. Si è quindi aggravata l’estrema frammentazione fondiaria, con

una dimensione media aziendale pari ad appena 2,4 ettari di Sau ed una pola-

rizzazione delle aziende quanto mai accentuata: circa il 56% delle aziende

agricole campane hanno meno di 1 ettaro di SAU, mentre quelle che hanno

una dimensione superiore ai 5 ettari sono meno del 10% (ed è ovviamente

soprattutto in questo 10% che vanno ricercate le unità produttive assimilabi-

li ad imprese agricole). In ogni caso, le ridotte dimensioni aziendali, se rap-

presentano un grave elemento di debolezza dell’intero sistema, contribuisco-

no a renderlo maggiormente elastico. Peraltro, stando ai risultati

dell’indagine sulle strutture della aziende agricole del 2003, vi sono segnali di

novità, con un aumento delle dimensioni medie aziendali e la crescente im-

portanza della gestione della terra in regime misto di proprietà ed affitto. Si

osserva, inoltre, una buona propensione alla specializzazione in alcuni settori

produttivi;

• riguardo alla composizione della PLV, l’incidenza delle coltivazioni erbacee e

foraggere risulta prevalente (circa il 52%, contro il 38% calcolato a livello

nazionale) anche in relazione alla forte e consolidata tradizione orticola in al-

cune aree di pianura. La zootecnia incide per il 20% (dato Italia = 33%),

mentre il peso delle coltivazioni legnose e dei servizi è allineato al dato na-

zionale (rispettivamente, 23% e 5%);

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• le tipologie aziendali più diffuse sono caratterizzate dall’utilizzo esclusivo

del lavoro del conduttore e della sua famiglia (il 79,2% delle aziende). Le a-

ziende a conduzione diretta, con prevalente utilizzo di manodopera familiare

rappresentano il 12,4% del totale. Considerando anche le aziende che utiliz-

zano prevalentemente manodopera extrafamiliare, il totale delle aziende a

conduzione diretta è pari a circa 240.000 unità, pari al 96,2% del totale. Il ri-

corso a forza lavoro esterna spesso è limitato a forme diverse di manodopera

avventizia, stagionale e extracomunitaria. La conduzione con salariati inte-

ressa appena il 3,8% delle aziende. Queste, tuttavia, rappresentano, in termi-

ni di Sau, il 16,8% del totale;

• tra gli aspetti più critici va annoverato, come vedremo, l’alto grado di invec-

chiamento dei conduttori ed il basso ricambio generazionale: il rapporto tra

imprenditori agricoli “giovani” ed anziani è stato calcolato, nel 2003, al

7,9%. Si pensi che appena sei anni prima tale rapporto era pari al 14,2%. I-

noltre, va rimarcata la forte differenziazione territoriale del “patrimonio cul-

turale” rurale, che è uno degli elementi alla base delle numerose e diversifica-

te tradizioni e tipicità locali;

• quanto alla diffusione della meccanizzazione in agricoltura, secondo il cen-

simento Istat 2000, l’85,9% delle aziende dispone di mezzi meccanici. Di

queste, il 63,7% ne dispone in proprietà ed il 3,2% in comproprietà.

L’utilizzo di mezzi forniti da terzi è diffuso tra il 60,4%;

• il valore degli investimenti fissi lordi in agricoltura è pari a 585,2 Meuro, con

una crescita, rispetto al 2000, del 26,6%24. Si tratta di un dato di assoluto ri-

lievo, tenendo conto che, nello stesso periodo, il valore degli investimenti fis-

si lordi in Campania è cresciuto del 9,4%. Inoltre, su scala nazionale, la va-

riazione (riferita al solo settore agricoli) è stata pari al 15,6%. Tali dati indi-

cano una dinamica positiva, tendente ad eliminare un gap, rispetto alle regio-

ni più avanzate, che rimane comunque notevole;

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• in ogni caso, va osservato che, fatta eccezione per alcune produzioni ad ele-

vato valore aggiunto concentrate prevalentemente lungo le pianure costiere,

il livello tecnologico che caratterizza mediamente le strutture produttive non

appare adeguato rispetto alle esigenze, con particolare riferimento

all’introduzione, ancora molto ridotta, di nuove tecnologie finalizzate al ri-

sparmio energetico ed idrico ed alla razionalizzazione dei processi produtti-

vi;

• anche il comparto della trasformazione agroalimentare appare fortemente

connotato da elementi di debolezza strutturale, determinati dalle ridotte di-

mensioni aziendali e dalla scarsa utilizzazione della capacità produttiva e fi-

nanziaria. Nel complesso, il Censimento Istat del 2001 ha rilevato oltre 7.100

Unità Locali, di cui quasi il 46% a carattere artigianale. Circa la metà rientra

nella classe con 1 solo addetto, oltre l’85% non assorbe più di 5 addetti,

mentre la classe di imprese con oltre 100 addetti è pari ad appena lo 0,5% del

totale;

• il valore degli investimenti fissi lordi nel comparto della trasformazione ali-

mentare è pari a 474,2 Meuro25, con una crescita, rispetto al 2000, del 24,4%.

In questo caso, è utile raffrontare il dato con quello dell’intero comparto

manifatturiero campano, che nello stesso periodo ha fatto registrare una con-

trazione pari al -10,9%, nonché con il dato nazionale che, nel comparto della

trasformazione agroalimentare, ha registrato una contrazione del -6,8%;

• anche nel caso del comparto della trasformazione agroalimentare (seppure in

forma più attenuata rispetto al settore agricolo) si rilevano livelli tecnologici

non sempre adeguati alle esigenze dei mercati e della società. Le criticità più

evidenti riguardano sopratutto la disponibilità di tecnologie finalizzate ad in-

trodurre nuovi prodotti (in linea con le richieste dei consumatori), nuovi

processi (più elastici rispetto alle evoluzioni dei mercati ed agli standard di-

stributivi) nonché soluzioni atte a favorire il risparmio energetico ed idrico

ed il miglioramento delle condizioni di sicurezza alimentare e sul lavoro;

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• l’industria alimentare campana mostra una forte concentrazione territoriale,

con il 43,2% delle Unità Locali in provincia di Napoli ed il 26,2% in provin-

cia di Salerno. A tale concentrazione corrisponde una elevata specializzazio-

ne, come nel caso dell’industria conserviera nell’Agro Nocerino-Sarnese o

della trasformazione casearia nella Penisola Sorrentina. La presenza nelle al-

tre realtà provinciali è molto scarsa anche se vi sono alcuni nuclei tradizionali

importanti che si sono tramandatisi nel tempo, come la produzione di torro-

ni a S. Marco dei Cavoti (BN) ed Ospedaletto d’Alpinolo (AV) o la pasta a

Gragnano (NA);

• per quanto concerne il titolo di studio e le attività di formazione continua cui

si sottopongono gli addetti al settore agricolo, l’indagine Istat (SPA 2003) ri-

leva che il 2,9% dei capi azienda è in possesso di diploma o di laurea ad indi-

rizzo agrario, mentre il 4,9% ha seguito corsi di formazione professionale. Si

tratta di dati che indicano con immediatezza un fabbisogno diffuso di ag-

giornamento e di riqualificazione professionale della componente manageria-

le del settore. I fabbisogni formativi, naturalmente, variano in considerazione

del comparto produttivo e del territorio di riferimento. In generale, tuttavia,

appare evidente la necessità di trasferire conoscenze in materia di condizio-

nalità, sostenibilità, nuove tecniche produttive, ma anche di gestione com-

plessiva dell’azienda, con particolare riferimento al marketing ed alla com-

mercializzazione. Inoltre, il ruolo che gli scenari politici e di mercato attri-

buiscono all’agricoltore vanno ben al di là della funzione meramente produt-

tiva, avvicinandosi a quella di “gestore del territorio”. In tal senso, il settore

agricolo regionale esprime un forte fabbisogno di formazione e di trasferi-

mento delle conoscenze. Non da ultimo, si rileva la necessità di sostenere a-

deguatamente i collegamenti tra ricerca scientifica, sperimentazione ed attivi-

tà produttive, allo scopo di favorire l’introduzione di soluzioni tecnologiche

innovative, la cui diffusa carenza è stata poc’anzi commentata.

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Il commercio estero agroalimentare della Campania evidenzia dinamiche abba-

stanza interessanti. Le importazioni si sono stabilizzate negli ultimi su livelli infe-

riori a quelli della metà degli anni novanta, facendo però registrare modifiche nella

propria struttura interna, con una quota consistente di materie prime agricole che

si è andata col tempo ridimensionando, fino ad essere superata dai prodotti tra-

sformati nell’ultima fase. Le esportazioni, invece, mostrano un trend in crescita

trainato quasi esclusivamente dalla componente dei prodotti trasformati a testi-

monianza della forte specializzazione della regione nei prodotti a più elevato valo-

re aggiunto e di una loro buona capacità competitiva. Questi risultati positivi sono

dovuti soprattutto al settore conserviero, a cui negli anni più recenti si sono af-

fiancati il caseario e il vinicolo, i quali evidenziano dinamiche relative interessanti,

sebbene con quote più modeste, soprattutto per il secondo. Il peso della Campa-

nia nel commercio estero italiano di prodotti agricoli è pari al 7,6% per le espor-

tazioni ed al 6,9%, per le importazioni. Tutti i comparti del settore primario (a-

gricoltura, silvicoltura e pesca) mostrano saldi negativi, che concorrono ad un de-

ficit complessivo stimato in circa 2 miliardi di euro (Istat, 2004) ed in ulteriore

peggioramento. Tuttavia, guardando all’intero settore agroalimentare, compren-

dendo quindi anche l’industria di trasformazione, il risultato si inverte: la Campa-

nia, infatti, partecipa, per ben l’8,5% alle esportazioni agroalimentari nazionali e

solo per il 4,7% alle importazioni, con un saldo normalizzato ampiamente positi-

vo (5,8%), che rappresenta un dato ormai strutturale e che si ripropone da diversi

anni in controtendenza con l’aggregato nazionale che nel 2004 fa registrare un

saldo normalizzato negativo che supera il 17%. Come osservato poc’anzi, la

Campania dispone di un paniere piuttosto ampio di produzioni di qualità stretta-

mente legate alle tradizioni ed alle specificità dei territori di provenienza, molte

delle quali hanno ottenuto il riconoscimento di un marchio comunitario ai sensi

dei Regolamenti CE 2081 e 2082 del 1992, o ai sensi della legge 10 febbraio del

1998 n. 164 (Doc, Docg e Igt). Occorre inoltre tener conto delle numerose do-

mande di riconoscimento della denominazione d’origine che attualmente hanno

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raggiunto fasi più o meno avanzate dell’iter procedurale previsto per la registra-

zione del marchio.

Il quadro si completa, infine, con ben 305 produzioni incluse nell’elenco dei

Prodotti agroalimentari tradizionali elaborato dal MiPAAF (D.M. 18 luglio 2005).

La tabella 6 sintetizza lo stato attuale in materia. Tuttavia, non sempre l’ambito ri-

conoscimento comunitario del marchio d’origine produce gli effetti sperati, tal-

volta a causa di una scarsa adesione, da parte dei produttori, ai consorzi di tutela e

di valorizzazione e, in ogni caso, a causa di una scarsa attenzione rivolta ad attività

di commercializzazione e di marketing gestite in forma collettiva. Inoltre, il suc-

cesso dei prodotti con riconosciute connotazioni di tipicità dipende non solo da

fattori economici e dalle capacità manageriali che le singole imprese sono in grado

di esprimere, ma anche da variabili di contesto e relazionali che si sviluppano

all’interno ed all’esterno della filiera e del territorio di origine.

Del resto, come mostrato da recenti studi, il tessuto produttivo delle filiere a-

groalimentari campane appare il più delle volte disgregato, poco aperto alle solle-

citazioni del mercato e condizionato, al suo interno, dal tendenziale individuali-

smo del management locale e dallo scarso clima di fiducia, che rappresentano o-

stacoli di origine culturale alla implementazione di forme collettive di valorizza-

zione dei prodotti. In sostanza, la diffusa presenza di marchi a denominazione

d’origine non sempre rappresenta la reale capacità degli operatori delle filiere pro-

duttive a “fare sistema”. Anzi, accade talvolta che le potenzialità di sviluppo

commerciale delle produzioni di riconosciuta qualità siano minate alla base dalla

scarsa adesione dei produttori ai disciplinari produttivi e, di conseguenza, dalla ri-

dotta “massa critica” di prodotto necessaria all’implementazione di adeguate a-

zioni di valorizzazione commerciale. L’analisi dello scenario relativo alle produ-

zioni connotate da marchio d’origine evidenzia scenari piuttosto disomogenei, ri-

conducibili alle seguenti tre situazioni:

marchi di successo: è il caso di alcuni prodotti la cui denominazione, oltre

ad avere un particolare legame storico con la Campania, è rinomata ben oltre i

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mercati regionali e, in alcuni casi (Mozzarella di Bufala Campana Dop) assume

una posizione di rilievo nel panorama competitivo nazionale, con una crescente

presenza anche sui mercati esteri. In tale ambito è possibile ricondurre anche la

denominazione del Pomodoro S. Marzano, per la quale, tuttavia, a dispetto delle

enormi potenzialità derivanti dalla immediata riconoscibilità del prodotto tra un

vasto pubblico di consumatori, nazionali e non, e dalla presenza di una storica at-

tività di trasformazione integrata con la produzione agricola, si registra una quan-

tità certificata non in linea con le attese. Per altri versi, sono riconducibili in tale

categoria anche le denominazioni relative alle produzioni limonicole, che traggo-

no ampia fonte di successo, tra l’altro, dall’immagine, consolidata a livello inter-

nazionale, dei territori d’origine;

marchi con ridotta massa critica: molte denominazioni, gran parte delle

quali di recente registrazione in sede comunitaria, attualmente non riescono a de-

collare dal punto di vista commerciale a causa della limitata adesione ai Consorzi

di Tutela e, conseguentemente, dei ridotti volumi di produzione. Molti di questi

prodotti, tuttavia, presentano significative potenzialità legate all’integrazione con

le attività turistiche, che alimentano significativi flussi di domanda anche attraver-

so la ristorazione locale, o al radicato consumo sui mercati regionali. Il più delle

volte, manca (tra i produttori stesso, oltre che tra i consumatori) l’immediata per-

cezione del valore aggiunto conferito al prodotto dal riconoscimento del marchio.

In altri casi, la pur rilevante produzione trova comunque (a prescindere

dall’adesione al disciplinare) sbocco sui mercati regionali, sebbene con un posi-

zionamento poco competitivo. Infine, alcuni territori sono interessati da marchi

extra-regionali (Vitellone bianco dell’Appennino Centrale, Caciocavallo Silano),

con diffusione relativamente scarsa a livello locale;

marchi con posizionamento consolidato o in via di sviluppo: in alcune aree

regionali si registra la presenza di filiere ben consolidate, supportate da una diffu-

sa adesione a strutture associazionistiche, o dalla presenza di aziende leader. E’ il

caso della filiera vitivinicola del Sannio, che si presenta particolarmente robusta ed

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organizzata, e dell’Irpinia, che propone ben tre Docg e nella quale operano azien-

de di interessanti dimensioni con prodotti di eccellenza destinati in buona parte ai

mercati esteri. Di sicuro interesse, anche perché radicate su scala locale e con buo-

na capacità produttiva, ma il cui processo di valorizzazione non ha ancora svilup-

pato tutto il suo potenziale, risultano essere alcune produzioni di qualità nei set-

tori della frutta in guscio. Nel complesso, a questa categoria possono essere ri-

condotti alcuni prodotti il cui legame con le aree di provenienza è molto evidente

e che possono avvantaggiarsi, tra l’altro, da azioni di integrazione con una concre-

ta e crescente domanda manifestata in loco dal turismo enogastronomico.

1.2. Le filiere produttive regionali

1.2.1 La filiera vitivinicola 3

L’arena competitiva mondiale per i vini vede primeggiare i Paesi europei in par-

ticolare la Francia, l’Italia e la Spagna partecipano per il 53% della produzione

mondiale complessiva. Dal confronto dei valori produttivi negli anni dal 2003 al

2004 si evidenzia un ulteriore sviluppo della produzione italiana; incrementi signi-

ficativi sono stati realizzati anche dalla Francia, dalla Cina e dall’Australia; gli Sta-

ti Uniti rimangono stazionari ma si riconfermano al quarto posto nella graduato-

ria mondiale. Il mercato evidenzia negli ultimi anni un assestamento del boom dei

consumi a cui si era assistiti negli anni addietro.

A fronte delle tendenze di mercato e delle caratteristiche dell’arena competitiva,

la filiera vitivinicola regionale si presenta abbastanza ben strutturata per posizionar-

si in nicchie di mercato di qualità medio alta, tuttavia azioni volte all’aggregazione

dell’offerta ed alla valorizzazione commerciale potrebbero meglio far cogliere le

3 Fonte: Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013 Allegato 1 - Le principali

filiere agroalimentari regionali (p.2 – p.3); Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto An-nuale ISMEA 2007 - Vol. II (p. 95-p.96); POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali INEA (p.32 e p.37); Pianificazione delle attività a supporto del sistema agroalimentare della Campania 2008/2009 – Assessorato all’agricoltura ed alle attività produttive della Regione Campania (p.15-p.18).

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opportunità di sviluppo. La contribuzione regionale alla produzione nazionale è

piuttosto importante, con la presenza di molti marchi a denominazione d’origine.

Allo stato attuale, grazie alla riqualificazione produttiva degli ultimi anni, si

contano in regione tre DOCG, sedici DOC, con oltre settanta tipologie, e nove

IGT. Va segnalato, tuttavia, che al 2005 (dati Istat) la produzione di vini comuni

da tavola rappresenta, in Campania, il 76,2% del totale, mentre la media italiana è

pari al 41,9%.

In linea con la presenza di produzioni vitivinicole d’alta qualità si riscontra la

presenza discreta di aziende con marchio proprio riconosciuto a livello nazionale

ed internazionale o, seppure di ridotte dimensioni, presenti in nicchie di qualità sui

mercati regionali. Per queste realtà produttive si riscontra un comportamento stra-

tegico chiaro ed un percorso di sviluppo coerente con le caratteristiche strutturali

di partenza del settore, con le condizioni di mercato e con l’arena competitiva.

Nella maggioranza dei casi, però permangono, nell’anello della filiera a monte,

realtà aziendali di piccola dimensione, caratterizzate da una scarsa organizzazione

interna e da una bassa capacità di approntare strategie competitive vincenti. In

particolare, sotto l’aspetto qualitativo ed organizzativo, le aree produttive si pre-

sentano differenziate.

Nella provincia di Salerno ancora molte sono le aziende che rimangono su pro-

duzioni di vini comuni prodotti con uve di vitigni di provenienza extraregionale e,

pur in presenza di produzioni viticole autoctone di pregio, non vengono sfruttate

a pieno le opportunità derivanti dalla valorizzazione produttiva locale. Le aree in-

terne, nelle province di Avellino e di Benevento (in particolare, nella macroarea

C), rimangono quelle con maggiore vocazione viticola di qualità, e con maggiori

capacità organizzative (interne all’azienda e/o attraverso forme associative per

l’integrazione verticale ed orizzontale) per affrontare il mercato e per competere

con altri produttori nazionali ed internazionali.

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Le aree costiere del Napoletano (Campi Flegrei, Vesuviano, Penisola Sorrenti-

na e Isole di Capri ed Ischia, nelle macroaree A2 ed A3) presentano anch’esse del-

le produzioni viticole di rinomata qualità ma soffrono di estensioni fondiarie limi-

tate e, conseguentemente, di un basso potenziale produttivo. Anche nella provin-

cia di Caserta ci sono produzioni viticole tipiche e di buona qualità quali il Gal-

luccio, l’Asprinio di Aversa, ma anche qui le produzioni sono limitate e la tenden-

za alla riqualificazione varietale è più recente rispetto ai processi avviati nelle pro-

vince di Benevento e di Avellino.

In definitiva, la filiera vitivinicola risulta caratterizzata da una struttura polariz-

zata. Da una parte, poche grandi aziende o associazioni di produttori e di trasfor-

mazione che collocano con un proprio marchio i loro prodotti sui mercati nazionali

ed internazionali, hanno un buon rapporto con la GDO e presentano una capacità

gestionale che le consente di affrontare in maniera appropriata le sfide di mercato.

Dall’altra, ci sono una miriade di piccole aziende agricole, poco collegate con la

GDO a causa della debolezza strutturale, con una cultura imprenditoriale scarsa-

mente orientata al mercato e verso forme d’associazionismo. Carenze che impedi-

scono di valorizzare e promuovere il prodotto in modo più incisivo e diretto ed

assicurargli un posizionamento più competitivo rispetto ai prodotti concorrenti.

La struttura della filiera: produzione, trasformazione e distribuzione

La produzione vitivinicola regionale è essenzialmente una produzione di “nic-

chia” con spiccata tipicità e specificità. Per tale motivo, la filiera del vino si può

classificare come filiera “tipica”, cioè caratterizzata da prodotti accomunati da una

produzione e trasformazione realizzata nel rispetto della tradizione dei diversi

ambienti rurali regionali.

La tipicità nelle produzioni vitivinicole è tutelata da una serie di normative na-

zionali e comunitarie che costituiscono delle barriere all’entrata per tale settore

(DOC, DOCG, IGT).

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In figura viene sinteticamente illustrata la “struttura” della filiera del vino cam-

pana, nella quale si evidenziano gli attori coinvolti (settore primario, settore della

prima e seconda trasformazione, distribuzione), per i quali saranno successiva-

mente analizzate le strutture e le caratteristiche tecnico – produttive, sia in rela-

zione all’intero ambito territoriale campano, sia, più in dettaglio, alle singole aree

di produzione individuate.

Figura 18 – Struttura organizzativa della filiera del vino campana

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

L’organizzazione della produzione

Statistiche congiunturali 2005 rilevano che la superficie agricola destinata alla

vitivinicoltura in Campania è pari ad ettari 27.249, in costante contrazione e con

una resa produttiva media pari a 110 q.li/ha. In termini di superficie, la vite occu-

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20

pa il 16,1 % della superficie regionale destinata alle legnose agrarie. Si illustra di

seguito in tabella la produzione campana di prodotti vitivinicoli in valore rispetto

alle altre regioni italiane.

Tabella 10 – Produzione ai prezzi di base dei prodotti vitivinicoli (milioni di euro)

2005 2006 2005 2006Piemonte 389 379 Abruzzo 140 134Valle D'Aosta 2 2 Molise 10 11Lombardia 119 116 Campania 82 88Trentino Alto Adige 70 71 Puglia 690 662Veneto 337 361 Basilicata 19 20Friuli Venezia Giulia 99 93 Calabria 32 27Liguria 7 6 Sicilia 367 372Emilia Romagna 229 236 Sardegna 58 54Toscana 328 326 Italia 3.219 3.188Umbria 49 52 Nord 1.252 1.264Marche 70 56 Centro 569 556Lazio 122 122 Sud 1.398 1.368

Prodotti Vitivinicoli Prodotti VitivinicoliRegioni Regioni

Fonte: Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto Annuale ISMEA 2007 - Vol. II

Dal punto di vista strutturale la produzione risulta molto frammentata: sulla

base dei dati censuari, nella classe di ampiezza con meno di 1 ettaro ricadono oltre

il 45% delle aziende e il 21% della superficie investita. Le aziende che effettuano

la dichiarazione di raccolta sono circa 8.000, su oltre 86.000 rilevate nel censimen-

to e conducono una superficie che è pari a circa il 75% della SAU a vite totale,

con vigne la cui superficie media è di circa 3 ettari.

La provincia campana con la maggiore estensione vitata è quella di Benevento,

seguita da Avellino e Salerno. Nel 2005 la produzione di uva è stata di 1.825.764

ettolitri per un valore pari a 62.520.000,00 di euro correnti. La regione, pertanto,

partecipa alla formazione del valore nazionale con il 3,41% e a quello del Mezzo-

giorno con il 12,57%. La dimensione media delle aziende viticole si colloca tra

“inferiore di 1 ettaro e 2- 10 ettari”. Nel salernitano, infatti, il 46% delle imprese

ha una superficie inferiore ad 1 ettaro, mentre nelle altre province si aggira intor-

no al 40%con l’eccezione del napoletano con l’80% del totale provinciale. La clas-

se di ampiezza 2- 10 ettari è presente nel beneventano con il 37%, nell’avellinese

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con il 33% e nel salernitano con il 28% del totale provinciale. Dopo una lunga fa-

se di contrazione,tuttavia, a partire dal 2000 la produzione ha raggiunto una so-

stanziale stabilizzazione. La produzione biologica è presente, ma non è partico-

larmente rilevante.

L’organizzazione della trasformazione e distribuzione

La produzione di vino nel 2005 è stata di poco superiore a 1.800.000 ettolitri.

La dinamica della produzione di vino ha seguito, ovviamente, quella della produ-

zione di uva e ha raggiunto nel nuovo decennio una stabilizzazione.

La produzione vitivinicola regionale, con un valore complessivo pari a 72,7 mi-

lioni di euro, contribuisce alla formazione della PLV regionale per il 3% e alla

formazione della PLV vitivinicola nazionale per il 3,6% collocandosi quale quarta

regione del Mezzogiorno per quantitativi e per valore di produzione alle spalle di

Sicilia, Puglia e Abruzzo.

Tabella 11 – Produzione industriale nel settore vitivinicolo per Regione (2004)

REGIONE Produzione vino (quintali)

Quota % produzione

Valore della produzione

(Keuro)

Quota sul valore produzione REGIONE Produzione vino

(quintali)Quota %

produzione

Valore della produzione

(Keuro)

Quota sul valore produzione

Piemonte 2.645.000 5,6% 341.141 16,9% Abruzzo 3.522.670 7,5% 77.674 3,8%

Valle D'Aosta 17.330 0,0% 1.548 0,1% Molise 307.670 0,7% 1.596 0,1%

Lombardia 1.080.000 2,3% 113.994 5,6% Campania 1.710.000 3,6% 72.714 3,6%

Trentino Alto Adige 1.120.000 2,4% 58.133 2,9% Puglia 6.182.000 13,2% 133.707 6,6%

Veneto 7.620.000 16,2% 299.517 14,8% Basilicata 328.000 0,7% 15.282 0,8%

Friuli Venezia Giulia 1.070.000 2,3% 89.215 4,4% Calabria 630.330 1,3% 32.128 1,6%

Liguria 101.000 0,2% 6.740 0,3% Sicilia 6.637.000 14,1% 145.602 7,2%

Emilia Romagna 6.034.330 12,8% 117.458 5,8% Sardegna 810.000 1,7% 43.837 2,2%

Toscana 2.270.000 4,8% 289.173 14,3% Italia 46.970.660 100,0% 2.021.331 100%

Umbria 822.330 1,8% 30.851 1,5% Nord 19.687.660 41,9% 1.027.746 50,8%

Marche 1.293.670 2,8% 46.517 2,3% Centro 7.155.330 15,2% 471.045 23,3%Lazio 2.769.330 5,9% 104.504 5,2% Sud 20.127.670 42,9% 522.540 25,9%

Fonte: Ns. elaborazione su dati Istat, 2004

Sotto il profilo qualitativo, si osserva che la quota dei vini venduti con

un’attestazione d’origine è pari a circa il 25% del totale, quota tuttavia ancora in-

feriore a quella che si calcola a livello nazionale (60%).

In Campania sono prodotti 3 vini Docg, 18 vini DOC e 9 vini IGT. I vini Docg

e Doc rappresentano circa il 12% della produzione regionale, così come gli IGT.

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La trasformazione dell’uva avviene in circa 2.000 cantine, il 5% del totale na-

zionale. Le cantine con capacità produttiva inferiore a 100 ettolitri sono circa

1.600, l’84% del totale. Quelle di tipo artigianale (produzione compresa tra 100 e

500 ettolitri) sono circa 370, il 9% del totale, mentre le cantine medio-grandi (pro-

duzione maggiore di 500 ettolitri) sono circa 140, quindi il 7%, e tra queste solo 10

hanno una produzione potenziale annua superiore a 5.000 ettolitri. Tra le cantine

artigianali la quasi totalità è di tipo agricolo; tra le cantine medio grandi quelle agri-

cole sono solo il 61%, quelle industriali il 35% e le cantine sociali il 4%.

La provincia di Benevento accoglie la maggior parte delle cantine sociali (4 su

6) e delle cantine legate ad aziende agricole (45% del totale). La provincia di Na-

poli, invece, si caratterizza per la maggiore presenza di cantine industriali (53%

del totale). La cooperazione nel settore vitivinicolo ha in Campania un peso mi-

nore che nel resto d’Italia e controlla una quota significativa della trasformazione

solo in provincia di Benevento.

L’attività di trasformazione ha un livello di integrazione a monte abbastanza e-

levato: almeno il 90% delle strutture di trasformazione ha un collegamento stabile

con la produzione viticola, anche se non sufficiente a coprire il fabbisogno.

L’85% delle strutture di trasformazione è, tuttavia, collegato con un vigneto infe-

riore a 5 ettari.

Le aziende campane che agiscono sul mercato con un marchio proprio sono,

nel 2006, 236, mentre ancora nel 2003 il loro numero era stato valutato in solo

176. Si può rilevare, inoltre, che diverse aziende commercializzano con marchio

proprio solo una parte della propria produzione; tra queste si segnalano le coope-

rative che, sebbene abbiano progressivamente accresciuto la quota della produ-

zione imbottigliata, destinano una parte significativa della produzione alla vendita

dello sfuso, in parte al pubblico e in parte a terzi imbottigliatori. Nella regione

sono stati costituiti 3 consorzi di tutela ai sensi della legge 164/92.

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La filiera del vino e le aree di localizzazione

La vitivinicoltura campana si presenta estremamente variabile con connotazioni

differenti nei diversi ambienti di coltivazione e produzione del vino.

Sono state individuate tre grosse aree di concentrazione produttiva (si veda fi-

gura) e all’interno delle stesse, sono state individuate delle zone omogenee sotto

l’aspetto organizzativo.

Una prima area di concentrazione produttiva comprende la zona del Beneven-

tano e dell’Avellinese. Una seconda area vitivinicola è presente nella provincia di

Salerno. La terza area è rappresentata dalle provincie di Napoli e di Caserta.

Figura 19 – Le aree di localizzazione delle produzioni vitivinicole campane

V1: Solopaca, Taburno, S. Agata dei Goti, Sannio, Guardiolo.

V2: Taurasi (DOCG), Fiano di Avellino, Greco di Tufo.

V3: Asprino di Aversa, Falerno del Massico, Galluccio.

V4: Castel S.Lorenzo.

V5: Cilento e Costa d’Amalfi.

V6: Penisola Sorrentina, Campi Flegrei, Capri, Ischia, LC del Vesuvio.

V1: Solopaca, Taburno, S. Agata dei Goti, Sannio, Guardiolo.

V2: Taurasi (DOCG), Fiano di Avellino, Greco di Tufo.

V3: Asprino di Aversa, Falerno del Massico, Galluccio.

V4: Castel S.Lorenzo.

V5: Cilento e Costa d’Amalfi.

V6: Penisola Sorrentina, Campi Flegrei, Capri, Ischia, LC del Vesuvio.

V1: Solopaca, Taburno, S. Agata dei Goti, Sannio, Guardiolo.

V2: Taurasi (DOCG), Fiano di Avellino, Greco di Tufo.

V3: Asprino di Aversa, Falerno del Massico, Galluccio.

V4: Castel S.Lorenzo.

V5: Cilento e Costa d’Amalfi.

V6: Penisola Sorrentina, Campi Flegrei, Capri, Ischia, LC del Vesuvio.

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

Analisi SWOT

La filiera vitivinicola campana presenta numerosi punti di forza, ma anche signi-

ficative debolezze. I punti di forza del sistema vitivinicolo campano possono tro-

vare una robusta valorizzazione nell’evoluzione del mercato del vino, considerato,

da un lato, il crescente interesse di segmenti importanti del pubblico e della distri-

buzione per vini originali e con una forte identità territoriale e, dall’altro, la dimen-

sione relativamente contenuta della produzione vinicola regionale attuale e futura.

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24

Per cogliere questa opportunità appare necessario intraprendere numerose a-

zioni a vantaggio della produzione e della capacità di sviluppare relazioni con il

mercato. Sul piano della produzione, è necessario valorizzare e migliorare nel suo

complesso la piattaforma varietale, ampliando la quota dei vitigni più interessanti,

ottimizzare i costi in viticoltura ed enologia e livellare verso l’alto la qualità dei

prodotti nelle diverse fasce di prezzo. Sul piano dei rapporti con il mercato, oc-

corre migliorare, in generale, l’orientamento al mercato delle imprese e rafforzare

il legame con un mercato regionale molto ampio rispetto all’offerta, dove la con-

correnza dei vini di altre regioni è forte. Inoltre, è da sviluppare il rapporto con il

mercato nazionale e internazionale, dove maggiore può essere la capacità di assor-

bimento dei vini di pregio e a prezzi superiori e dove i vini provenienti dalle varie-

tà storiche campane hanno grandi potenzialità non ancora colte.

La maggior parte delle imprese potrà avere convenienza ad allargare la gamma

di produzione per sfruttare tutte le risorse, incrementando produzioni IGT da

collocare nel segmento popular premium soprattutto per il mercato regionale, do-

ve gli svantaggi di costo di produzione rispetto a competitor di grandi dimensioni

di altre regioni possono essere compensati da minori costi di trasporto e altri van-

taggi di prossimità.

Si illustrano di seguito, in breve, i principali punti di forza e le criticità della fi-

liera vitivinicola campana.

Punti di forza

Tradizioni vitivinicole diffuse

Presenza di professionalità, capacità tecniche e propensione all’inno-

vazione

Buona cooperazione tra produttori in alcune zone

Vigneti ammodernati e razionalizzati

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Diffusa riqualificazione produttiva ed adesione ai disciplinari di produ-

zione

Natura del territorio e presenza di ecotipi locali che conferiscono tipicità e

qualità al prodotto

Condizioni pedoclimatiche favorevoli e patrimonio ampelografico ricco e

variegato

Presenza di tecniche di coltivazione tradizionali ma rivisitate

Funzione paesaggistica delle aziende viticole

Elevata presenza di aziende produttrici di vini pregiati (DOC/DOCG)

con marchi famosi su scala locale ma anche nazionale

Presenza di poli di trasformazione orientati al mercato dei vini di pregio

integrati con le fasi a monte della filiera

Discreta penetrazione nella GDO dei vini di pregio

Azioni di valorizzazione del vino locale attraverso le vecchie cantine

Vini DOC conosciuti sui mercati nazionali ed internazionali

Criticità

Scarse capacità manageriali e di approccio innovativo al mercato; scarsa

diffusione di strumenti di gestione/controllo economico finanziaria

dell’attività agricola; scarsa diffusione di utilizzo di servizi di consulenza

gestionale ed a supporto delle vendite

Bassa dimensione media aziendale

Impianti promiscui in alcuni casi e non adeguati ai disciplinari

Scarsa diffusione della tecnica di difesa integrata

Scarsa diffusione di associazionismo tra produttori

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Tecniche di coltivazione spesso irrazionali, consociate e/o poco meccaniz-

zabili

Competizione in alcune aree nell’utilizzo dei terreni tra viticoltura, urba-

nizzazione ed attività terziarie

Mancanza di collegamenti con gli stadi a valle della filiera

Carenze strutturali nelle fasi del processo di trasformazione

Scarsa diversificazione del portafoglio prodotti delle aziende

Scarsa standardizzazione qualitativa

Scarsa diffusione di sistemi innovativi di gestione delle imprese vinificatrici

In molti casi il mercato di riferimento è soltanto locale o al massimo re-

gionale

1.2.2 La filiera lattiero casearia4

Nell’ambito dell’Ue sono cinque gli stati membri più importanti per la produ-

zione lattiera, che detengono i 3/4 del mercato totale: Germania, Francia, Regno

Unito, Paesi Bassi e Italia. Nel 2004 in Europa il settore lattiero e caseario, nono-

stante le misure restrittive della Commissione riguardo alla gestione dei mercati,

ha avuto un decorso abbastanza positivo smentendo le più pessimistiche previsio-

ni degli analisti di settore.

Per il futuro però ci sono motivi di preoccupazione per quanto si dovrà decide-

re nell’ambito della WTO. Si prevede, infatti, che l’Ue sarà chiamata a fare impor-

tanti concessioni e il settore lattiero europeo rischia di essere in primo piano ri-

guardo l’accesso al mercato e la concorrenza all’export, con la temuta soppressio-

ne a breve termine delle relative restituzioni. Per quanto riguarda i consumi, i dati

4 Fonte: Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013 Allegato 1- Le principali fi-liere agroalimentari regionali (p.20 – p.21); Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto An-nuale ISMEA 2007 - Vol. II (p. 95-p.96); POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali INEA (p.71 e p.75); Pianificazione delle attività a supporto del sistema agroalimentare della Campania 2008/2009 – Assessorato all’agricoltura ed alle attività produttive della Regione Campania (p.21-p.24).

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sugli acquisti domestici di latte confermano nel 2004 la tendenza negativa degli ul-

timi anni; in controtendenza soltanto la tipologia di latte fresco alta qualità. Il

consumo di formaggi in Italia si mantiene stabile nel medio-lungo periodo.

In Campania la filiera lattiero casearia rappresenta un importante segmento

dell’economia agroalimentare regionale, sia in termini di valore economico attiva-

to sia come immagine delle produzioni apprezzate sui mercati nazionali ed inter-

nazionali.

Il potenziale produttivo, soprattutto per quello della trasformazione lattiero-

casearia, si presenta generalmente ampio ed è caratterizzato da elementi di tipicità

territoriale. Le specificità di punta sono la Mozzarella di Bufala Campana DOP, il

Caciocavallo Silano DOP, il Fiordilatte appennino meridionale DOP. La produ-

zione zootecnica regionale dei comparti bovino e bufalino rappresenta circa il 4%

in quantità ed in valore della produzione nazionale.

Anche per la trasformazione, i dati del Censimento indicano chiaramente che

l’industria lattiero-casearia è quella più numerosa nell’ambito dell’industria ali-

mentare regionale. Questo dimostra da una parte la tradizione e la vocazione del

territorio per questo tipo di attività e dall’altra suggerisce che esistono consistenti

opportunità economiche per le imprese impegnate nel trattamento igienico, nella

conservazione e nella trasformazione del latte.

Valutando le caratteristiche delle imprese casearie si nota una compagine molto

eterogenea che comprende caseifici e centrali del latte, stabilimenti di aziende a-

gricole, cooperative e centri di raccolta.

In generale, però, il minimo comune denominatore dei diversi soggetti produt-

tori è la ridotta dimensione che si accompagna ad una gestione di tipo familiare,

spesso con impianti di trasformazione caratterizzati da una scarsa automatizza-

zione e dal ricorso a tecnologie a prevalente carattere artigianale. Ciò rende il set-

tore sempre più vulnerabile alle problematiche relative all’adeguamento delle

strutture produttive ai sempre più stringenti standard igienico sanitari.

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In generale, le caratteristiche organizzative, la robustezza dell’apparato produt-

tivo e la capacità di valorizzazione produttiva si presentano in maniera differente

nelle filiere bovina e bufalina.

La filiera bovina, maggiormente diffusa sul territorio regionale, presenta ele-

menti di maggiore eterogeneità, sia riguardo le dimensioni aziendali, sia riguardo

l’organizzazione dei fattori produttivi, la componente tecnologica e la struttura-

zione dei rapporti relazionali nei singoli contesti locali. In particolare, ci sono aree

(Alto casertano, Avellinese, Piana del Sele e Vallo di Diano) che presentano un pa-

trimonio bovino con vacche da latte, una dimensione degli allevamenti superiore

alla media regionale, ed un discreto numero di caseifici. In queste aree si riscontra

un buon livello tecnologico negli allevamenti, con la diffusione di moderne tecni-

che di mungitura e di refrigerazione del prodotto; uno stretto collegamento tra la

produzione primaria e la trasformazione; un’ampia offerta di prodotti caseari,

molti dei quali di elevata qualità e buone potenzialità di sviluppo legate alla pre-

senza di marchi DOP.

Ma ancora ampi rimangono i margini di miglioramento, considerato che bassa è

la diffusione dell’associazionismo, scarsa è la standardizzazione nelle caratteristi-

che qualitative delle produzioni, ridotta è l’adesione ai disciplinari di produzione,

limitata è la penetrazione dei prodotti sui mercati extraregionali.

In altre aree, caratterizzate da una bassa attività zootecnica ma con numerosi

caseifici spesso di dimensioni interessanti (Piana del Volturno e Giuglianese, area

metropolitana di Napoli, area urbana di Salerno), si riscontrano buone potenziali-

tà legate proprio alla trasformazione casearia, che presenta dimensioni degli im-

pianti consistenti ed infrastrutture a supporto. Le debolezze sono da ricercarsi

nella parte a monte della filiera, determinate dalla forte pressione antropica che ne

riduce il potenziale produttivo, dalla presenza di standard qualitativi disomogenei

delle produzioni, dalla tenuta di condizioni igieniche non ottimali per molti alle-

vamenti.

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Al contrario, la filiera bufalina presenta caratteri di maggiore omogeneità ed è

concentrata in specifici ambiti territoriali dove operano, salvo sporadiche eccezio-

ni, prevalentemente aziende di dimensioni medie o medio-grandi, con dotazioni

tecnologiche maggiormente avanzate. Inoltre, appaiono più evidenti e consolidati

i processi di integrazione verticale tra gli attori della filiera, come testimonia, pe-

raltro, la diffusa adesione al Consorzio per la tutela della Mozzarella di Bufala

Campana.

Tuttavia, soprattutto in alcune aree, nonostante le dimensioni aziendali media-

mente elevate e le buone competenze professionali degli operatori, si riscontrano

ancora problemi di natura sanitaria ed ambientale (specie nel casertano), ancora

alta è la stagionalità della lavorazione e scarsa è la standardizzazione del prodotto

(incostanti nel tempo e tra le diverse unità produttive).

La struttura della filiera: produzione, trasformazione e distribuzione

La filiera lattiero-casearia in Campania è caratterizzata dalla notevole eteroge-

neità delle situazioni aziendali e dei soggetti coinvolti. Ad allevamenti razionali si

contrappongono realtà arcaiche e pastorali; a prodotti caseari di notevole pregio

(mozzarella, provola, bocconcini, caciocavallo silano, podolico e di Sorrento), si

affiancano situazioni aziendali nelle quali sono ancora irrisolte le questioni legate

agli aspetti qualitativi ed igienico-sanitari.

In figura si illustra la struttura della filiera lattiero-casearia campana ed i relativi

segmenti, per i quali di seguito saranno analizzate le singole strutture e le caratte-

ristiche tecnico-produttive, sia in riferimento al complesso regionale che alle sin-

gole aree di produzione individuate.

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30

Figura 20 – Struttura organizzativa della filiera del latte in Campania

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

In particolare, per quanto riguarda il settore primario, l’allevamento zootecnico

è diffuso in quasi tutto il territorio, dalla pianura costiera alla collina interna ai pa-

scoli demaniali montani, e presenta una configurazione molto articolata ed una

struttura etnica animale complessa, con la presenza contemporanea in azienda di

più specie e, tra queste, di più tipi genetici. Riguardo al settore della raccolta e del-

la trasformazione, sono presenti grandi centrali del latte ed una miriade di caseifici

il più delle volte annessi alle aziende agricole, di piccole dimensioni ed a gestione

familiare.

La commercializzazione si presenta non organizzata e la collocazione del pro-

dotto avviene per lo più sul mercato locale. Sebbene numerosi sono i limiti e le

difficoltà del settore, tra i punti di forza vanno ricordati la rilevanza socioecono-

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mica assunta dall’allevamento bufalino e la produzione di un formaggio, la moz-

zarella, competitivo su tutti i mercati. E’ inoltre nutrita la presenza di altri prodot-

ti tipici che derivano da un’antica tradizione e sono tutelati da marchi che ne ga-

rantiscono la qualità. (DOP e IGP).

Organizzazione della produzione

Le caratteristiche della base produttiva a livello regionale sono piuttosto diffe-

renziate in relazione al tipo di specie allevata.

Per quanto riguarda i bovini, sulla base dei dati censuari le aziende interessate

sono 15.350 con una consistenza di capi allevati pari a poco più di 212 mila unità.

Nell’ambito di questo insieme gli allevamenti da latte ammontano a 8.368, con 68

mila capi allevati. Questi dati consentono una prima distinzione in base alle carat-

teristiche strutturali tra allevamenti da carne, mediamente più grandi (anche se,

comunque, in generale si tratta di allevamenti di piccole dimensioni), ed alleva-

menti da latte, per i quali la consistenza media risulta pari a 8 capi/azienda.

Si illustra di seguito in tabella la produzione campana di prodotti lattieri in va-

lore rispetto alle altre regioni italiane.

Tabella 12 – Produzione ai prezzi di base dei prodotti latte (milioni di euro)

2005 2006 2005 2006Piemonte 306 287 Abruzzo 32 31Valle D'Aosta 20 19 Molise 39 37Lombardia 1493 1398 Campania 188 177Trentino Alto Adige 237 222 Puglia 111 105Veneto 384 360 Basilicata 25 25Friuli Venezia Giulia 124 116 Calabria 35 34Liguria 12 11 Sicilia 86 84Emilia Romagna 684 641 Sardegna 321 333Toscana 84 86 Italia 4.529 4.299Umbria 32 31 Nord 3.260 3.054Marche 25 24 Centro 432 419Lazio 291 278 Sud 837 826

Regioni Prodotti Latte Regioni Prodotti Latte

Fonte: Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto Annuale ISMEA 2007 - Vol. II

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La particolare debolezza strutturale della zootecnia da latte è evidenziata anche

dai dati sulle produzioni. Nel 2005 la produzione di latte di vacca in Campania è

stata pari a 2,8 milioni di quintali pari al 2,7% del totale nazionale a fronte di un

patrimonio in termini di vacche da latte che, sulla base dei dati censuari del 2001,

rappresentava poco meno del 4% della consistenza di capi a livello nazionale. Il

diverso peso della regione in termini di capi e di quantità prodotte evidenzia il

basso livello delle rese degli allevamenti campani. Ciò è legato in particolare alle

caratteristiche delle aziende che sono poco specializzate e, come visto, di dimen-

sioni molto ridotte. Si rileva, infatti, che in Campania oltre il 16% del numero di

vacche da latte ricade in aziende che allevano al di sotto dei 5 capi, a fronte del

3,9% registrato per l’Italia nel complesso; di fatto, quasi il 50% dei capi è allevato

in aziende che non raggiungono una consistenza degli allevamenti di 10 capi.

La scarsa specializzazione si accompagna in molti casi ad una carenza struttura-

le degli allevamenti. Produzioni quantitativamente limitate e non standardizzate

hanno ripercussioni a livello di trasformazione, in termini di costi medi e di quali-

tà del prodotto finale, e sull’organizzazione della filiera nel suo complesso.

Dal punto di vista produttivo la specificità del comparto a livello regionale è

rappresentata dall’allevamento bufalino che coinvolge quasi 1.300 aziende e poco

meno di 132 mila capi, il 72% dei capi bufalini allevati in Italia.

La localizzazione degli allevamenti è concentrata quasi esclusivamente nelle

due province di Caserta e Salerno e all’interno di queste province vi è una forte

specializzazione produttiva in pochi comuni, soprattutto di pianura: nella provin-

cia di Salerno i tre quarti dei capi sono allevati nella zona di Eboli, Capaccio, Al-

tavilla Silentina e Albanella; nella provincia di Caserta oltre 48 mila capi, la metà

di quelli allevati nella provincia, sono localizzati nei comuni di Cancello e Arno-

ne, Castel Volturno e Grazzanise.

Dal punto di vista strutturale, al contrario di quanto si verifica negli allevamenti

bovini, le aziende hanno una dimensione medio-grande con una consistenza me-

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dia pari a circa 100 capi. L’evoluzione che ha caratterizzato il comparto bufalino

negli ultimi anni ha portato ad un aumento dei capi allevati e ad una crescita del

comparto, trascinato da una domanda di mozzarella di bufala che è stata molto

sostenuta, anche per effetto del riconoscimento della DOP avvenuto nel 1993.

Rimangono, tuttavia, alcuni problemi nella sfera produttiva legati alla concentra-

zione dei parti e alla stagionalità della produzione di latte di bufala che è massima

nel periodo invernale, quando minore è la domanda di mozzarella, ed è invece in-

feriore nel periodo estivo, in corrispondenza delle punte di consumo.

La crescita degli allevamenti bufalini ha comportato anche l’esigenza di trovare

uno sbocco di mercato per la carne di bufala. Negli ultimi anni, diversi programmi

di informazione sulle sue caratteristiche qualitative e di valorizzazione di questa

produzione hanno agito in tal senso, ma è indubbio che vi siano ulteriori esigenze

di intervento in questo campo.

Organizzazione della trasformazione e della distribuzione

Si rileva che nel 2005 (Istat) erano presenti in Campania ben 346 tra caseifici e

centrali del latte: si tratta di un numero di strutture del 35% superiore a quello

della Lombardia. Nel complesso le strutture campane sono il 22% di quelle esi-

stenti a livello nazionale, percentuale che rapportata al peso della produzione di

latte regionale mostra in tutta la sua evidenza la polverizzazione della fase di tra-

sformazione.

Tabella 13 – Aziende settore lattiero caseario per Regione (2004)

REGIONE Casefici e centrali del latte

Stabilimenti az. Agricole e centri

raccolta

Totale Unità produttive REGIONE Casefici e centrali

del latte

Stabilimenti az. Agricole e centri

raccolta

Totale Unità produttive

Piemonte 74 24 98 Abruzzo 36 8 44

Valle D'Aosta 7 16 23 Molise 36 4 40

Lombardia 144 132 276 Campania 320 38 358

Trentino Alto Adige 10 31 41 Puglia 224 24 248

Veneto 94 74 168 Basilicata 53 12 65

Friuli Venezia Giulia 23 53 76 Calabria 54 3 57

Liguria 16 3 19 Sicilia 44 5 49

Emilia Romagna 140 380 520 Sardegna 48 27 75

Toscana 45 15 60 Italia 1.465 879 2.344

Umbria 21 6 27 Nord 508 713 1.221

Marche 12 4 16 Centro 142 45 187Lazio 64 20 84 Sud 815 121 936

Fonte: Ns. elaborazione su dati Istat, 2004

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In questo contesto, nella filiera della mozzarella di bufala per molte strutture di

lavorazione è in atto un processo di crescita e si stanno facendo molti passi avanti

sia in termini di quantità prodotte sia in termini di rete commerciale e di collega-

mento con la distribuzione organizzata. Ancora, tuttavia, il problema della depe-

ribilità del prodotto e degli investimenti necessari per una commercializzazione a

lunga distanza rappresentano un vincolo all’allargamento del mercato e ad una più

ampia diffusione del prodotto al di fuori dei confini regionali.

Sul fronte della produzione industriale di latte, burro e formaggi, la Campania

con un volume complessivo di circa 2.000.000 di quintali si colloca al primo posto

per volume tra le regioni del Mezzogiorno (27,5%) seguita da Puglia (23,1%) e

Sardegna (21,7%) ed al sesto posto in Italia (4,8%).

Tabella 14 – Produzione industriale nel settore lattiero caseario per Regione (2004)

REGIONE Latte alimentare Burro Formaggi Totale (quintali) REGIONE Latte alimentare Burro Formaggi Totale (quintali)

Piemonte 2.444.302 58.795 899.208 3.402.305 Abruzzo 109.364 3.474 94.502 207.340

Valle D'Aosta 4.079 1.267 26.099 31.445 Molise 375.150 9.312 173.528 557.990

Lombardia 6.167.088 414.890 4.005.816 10.587.794 Campania 1.333.462 45.610 617.696 1.996.768

Trentino Alto Adige 622.063 44.451 310.703 977.217 Puglia 1.193.828 31.990 467.407 1.693.225

Veneto 2.406.620 157.942 1.040.509 3.605.071 Basilicata 40.000 2.731 47.348 90.079

Friuli Venezia Giulia 575.203 8.798 253.366 837.367 Calabria 77.365 6.914 124.732 209.011

Liguria 913.634 281 3.129 917.044 Sicilia 754.376 5.517 221.695 981.588

Emilia Romagna 5.952.123 285.685 1.532.768 7.770.576 Sardegna 921.007 11.831 657.148 1.589.986

Toscana 967.154 2.564 364.455 1.334.173 Italia 28.714.705 1.110.797 11.387.301 41.212.803

Umbria 337.632 1.053 70.603 409.288 Nord 19.085.112 972.109 8.071.598 28.128.819

Marche 624.088 3.170 70.648 697.906 Centro 4.825.041 21.309 911.647 5.757.997Lazio 2.896.167 14.522 405.941 3.316.630 Sud 4.804.552 117.379 2.404.056 7.325.987

Fonte: Ns. elaborazione su dati Istat, 2004

La filiera lattiero casearia e le aree di localizzazione

Come già accennato, l’attività zootecnica è presente in tutte le province della

Regione Campania e da’ luogo a realtà produttive estremamente diversificate, do-

vute alla grande variabilità di situazioni in cui operano gli allevatori.

Volendo evidenziare le principali problematiche ad essa connesse occorre ana-

lizzare singolarmente le diverse aree di produzione. A questo riguardo è possibile

definire tre zone caratterizzate da una certa omogeneità interna sul piano tecnico,

economico ed organizzativo (si veda figura).

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Figura 21 – Aree di localizzazione delle produzioni della filiera lattiero casearia campana

L1 - Zona a parziale produzione lattiero-casearia

L2 - Zona a rilevante produzione lattiero-casearia

L3 - Zona a prevalente produzione lattiero-casearia

L1 - Zona a parziale produzione lattiero-casearia

L2 - Zona a rilevante produzione lattiero-casearia

L3 - Zona a prevalente produzione lattiero-casearia

L1 - Zona a parziale produzione lattiero-casearia

L2 - Zona a rilevante produzione lattiero-casearia

L3 - Zona a prevalente produzione lattiero-casearia

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

L1) Zona a parziale produzione lattiero-casearia. Tale zona comprende il lito-

rale napoletano, la Penisola Sorrentina, il Piano campano Acerrano Nolano e il

Vallo di Diano. In alcune aree comprese in tali zone, il ruolo svolto dal comparto

zootecnico è del tutto secondario rispetto alle colture ortoflorofrutticole. Si prati-

ca soprattutto l’allevamento stallino del bovino da latte, con una prevalenza di al-

levamenti di piccole e piccolissime dimensioni (più del 70% delle aziende presenta

meno di dieci capi). Tali rilevanti vincoli strutturali si accompagnano a vincoli di

natura tecnico-produttiva: scarsa è la conoscenza delle tecniche di produzione,

soprattutto riguardo l’alimentazione,fondamentale per ridurre i costi e per miglio-

rare le performance produttive dei singoli capi; non si pratica la selezione, dato

l’esiguo numero di capi presenti in azienda; il sistema di tenuta è prevalentemente

quello stallino poco razionale, meno fisiologico e molto costoso. Il sistema di

mungitura adottato è razionale e si attua la refrigerazione in stalla, ottenendo un

latte di buona qualità con buone caratteristiche igienico sanitarie. La trasforma-

zione e la commercializzazione seguono un andamento uniforme nel corso

dell’anno con punte nel periodo estivo in coincidenza con i maggiori flussi turisti-

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ci. Le modalità di vendita più diffuse sono la vendita diretta presso i caseifici e la

fornitura ai dettaglianti.

L2) Zona a rilevante produzione lattiero-casearia. Comprende la media valle

del Volturno, il basso Volturno e Garigliano, le colline di Benevento, la valle

Caudina e Telesina, la zona centrale di Avellino e la piana del Sele. Tale area è de-

finita a rilevante destinazione zootecnica, perché qui si è sviluppato notevolmente

l’allevamento intensivo del bovino da latte e della bufala. Per quanto riguarda

l’allevamento del bovino da latte, ad eccezione dei piccoli allevamenti dove i vin-

coli strutturali, di natura tecnico produttiva ed i sistemi di tenuta sono molto si-

mili a quelli della zona a parziale produzione zootecnica (L1), si riscontra la pre-

senza di aziende di maggiori dimensioni la cui organizzazione consente si affron-

tare in termini di maggior efficienza i vincoli di natura strutturale. Infatti il siste-

ma di tenuta è prevalentemente a stabulazione libera, più razionale, fisiologico e

meno costoso di quello stallino, l’alimentazione è più razionale e meno costosa, la

mungitura è correttamente praticata con la refrigerazione in stalla e il rapido tra-

sporto del latte al caseificio. Per il comparto bufalino, che rappresenta il segmento

forte ed in espansione della zootecnia campana delle aree di pianura, notevoli so-

no ancora i limiti sia della produzione, che della trasformazione e della distribu-

zione. Per quanto riguarda l’allevamento molto si deve ancora fare per migliorare

e razionalizzare le tecniche di alimentazione, di selezione e per il miglioramento

igienico sanitario degli allevamenti. Allo stato attuale non viene assolutamente

considerata la possibilità di sviluppare la produzione di carne di bufala. La carat-

teristica dell’allevamento bufalino è rappresentato dalla concentrazione dei parti

nel periodo autunnale. Ciò determina una maggiore produzione di latte nel perio-

do autunno inverno, nel quale la domanda di mozzarella è ridotta, ed una produ-

zione scarsa nel periodo estivo quando il consumo di mozzarella è più sostenuto.

La maggior offerta di latte bufalino in un periodo in cui la domanda di mozzarella

è ridotta, mette la maggior parte delle aziende bufaline (> 56 capi) in una posizio-

ne di debolezza contrattuale nei confronti dei caseifici, in ragione del fatto che, il

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latte bufalino, a differenza di quello bovino, non può essere destinato all’alimenta-

zione umana, ma solo alla caseificazione. La discontinua disponibilità di latte di

bufala, associata ad un’estrema frammentazione delle strutture di trasformazione,

determina anche l’estrema variabilità del prodotto finale, condizionando la pene-

trazione commerciale in mercati diversi da quello regionale. A fronte dei problemi

sopra citati, bisogna evidenziare sia che la vicinanza tra i luoghi di produzione e di

trasformazione permette di lavorare in tempo reale il latte, sia che c’è una consoli-

data tradizione nella tecnica di trasformazione con grande disponibilità di mano-

dopera specializzata. Ciò consente di presentare un prodotto di alta qualità che

sempre più incontra il favore dei consumatori e, con la definizione della D.O.P.

esistono concrete prospettive di affermazione commerciale della mozzarella di

bufala anche su mercati extra regionali.

L3) Zona a prevalente produzione lattiero-casearia. Comprende l’area del Ma-

tese, la montagna di Benevento, gli Alburni, la montagna di Avellino, l’alto Sele,

l’Arianese, l’alta Irpinia ed il Cilento. Si tratta di un territorio molto vasto e non

territorialmente contiguo, ma caratterizzato da medesime condizioni strutturali

delle aziende e da caratteristiche omogenee dei canali commerciali. Infatti, la zoo-

tecnia costituisce il comparto trainante dell’economia agricola in quanto la strut-

tura orogeografica non consente tecnicamente delle diverse utilizzazioni del suo-

lo, se non, in qualche caso, la coltivazione dell’ulivo e talvolta quella della vite, in

forme non specializzate. In tali zone assume particolare interesse l’allevamento del

bovino da carne, sia stallino (Marchigiana), che allo stato brado (Podolica), men-

tre è marginale il ruolo svolto dall’allevamento intensivo del bovino da latte. An-

che qui, si riscontrano scarse conoscenze delle tecnologie di produzione, sia ri-

guardo l’alimentazione (in alcune di tali zone per la Podolica si pratica l’alpeggio),

sia riguardo la mungitura e la prima conservazione del latte. Il settore della tra-

sformazione, costituito prevalentemente da piccoli caseifici locali, lamenta spesso

una scadente qualità del latte che determina una minore resa alla caseificazione e

maggiori problemi per la conservazione dei prodotti trasformati.La difficoltà di

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costruire un rapporto diretto tra produttori e trasformatori è motivo di isolamen-

to, di frammentazione dell’offerta con la conseguente perdita delle tradizioni pro-

duttive locali. Questa situazione di debolezza dell’allevamento zootecnico appare

ancora più preoccupante se si considera che tale attività ha una notevole funzione

di salvaguardia ambientale e territoriale e di gestione razionale delle risorse endo-

gene (culturali, biologiche e paesaggistiche). In sostanza, in queste aree, il compar-

to zootecnico è destinato a svolgere un ruolo insostituibile che va ben al di là della

mera funzione economica e sociale, contribuendo a dare maggiore sostenibilità al-

lo sviluppo dei territori di riferimento.

Analisi SWOT

Lo sviluppo del comparto dei prodotti zootecnici ed in particolare dei prodotti

lattiero caseari va inquadrato all’interno di un processo di cambiamento che si va

realizzando sotto la spinta di due forze trainanti.

In primo luogo, la domanda di prodotti lattiero caseari, ha mostrato negli ultimi

anni un notevole dinamismo legato ad alcuni segmenti specifici quali quello del lat-

te fresco a più alto livello qualitativo, dei formaggi freschi e di prodotti innovativi,

frutto dei processi di ricerca e sviluppo intrapresi soprattutto da multinazionali.

Altrettanto importante è l’evoluzione che ha avuto la domanda di prodotti tipici e

di prodotti a denominazione che nel caso della Campania rappresentano un ele-

mento rilevante della produzione, sia per il numero di specificità presenti nella Re-

gione, sia per il peso economico, ancora in crescita, della mozzarella di bufala.

Il secondo fattore di cambiamento è rappresentato dalle modifiche all’OCM del

comparto che si sono realizzate con la Mid Term Review.

Entrata in vigore nel 2006, gli effetti della riforma degli aiuti alla filiera lattiero-

caseario saranno evidenti solo nei prossimi anni. Dall’abbassamento dei prezzi i-

stituzionali di burro e di latte scremato in polvere e dall’introduzione del disac-

coppiamento e del pagamento unico aziendale, c’è comunque da attendersi l’avvio

di un processo di riorganizzazione strutturale della fase agricola che nel medio

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ungo periodo potrebbe portare a dimensioni aziendali e ad un’efficienza della

produzione maggiori.

Punti di forza

Buona diffusione delle tecniche di allevamento razionale

Discreta diffusione di caseifici artigianali, con produzione tipica di eleva-

ta qualità

Buona penetrazione per alcune produzioni locali nei circuiti della GDO

Buona valorizzazione delle produzioni casearie

Ampia presenza di produzioni casearie di elevata qualità e caratterizzati

da elementi di specificità territoriali

Ampia presenza di marchi DOP

Buona presenza di alcune produzioni di qualità sui mercati nazionali ed

internazionali

Valorizzazione delle produzioni nell’ambito dei circuiti di turismo rurale

Fitta rete di produzione lattiera e casearia, in molti casi caratterizzata

dalla presenza di impianti di discrete dimensioni e con tecnologie inno-

vative

Diffusione di più moderne tecniche di mungitura e di refrigerazione del

prodotto

Dimensioni aziendali mediamente elevate

Disponibilità di materia prima e di manodopera specializzata

Miglioramenti nelle tecniche di conservazione e trasporto dei prodotti

Elementi di collegamento tra le fasi della filiera

Criticità

Diffusione di problemi di natura sanitaria ed ambientale

Stagionalità della disponibilità della materia prima e dunque della lavora-

zione non in linea con le esigenze di mercato; stagionalità della domanda

Scarsa standardizzazione del prodotto (standard incostanti nel tempo tra

le diverse unità produttive)

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Alta deperibilità delle produzioni

Difficoltà nella valorizzazione di alcune produzioni

Ridotta adesione ai disciplinari per alcune produzioni

Utilizzo della materia prima extra regionale

1.2.3 La filiera ortofrutticola5

Il secondo produttore a livello mondiale dell’ortofrutta è il continente europeo.

Il bacino maggiormente fertile in Europa è rappresentato dall’area mediterranea:

in particolare Italia, Spagna e Francia.

In Italia le superfici investite nelle produzioni ortofrutticole risultano pari a

circa 1,3 milioni di ettari nel 2004, in sostanziale stabilità rispetto all’anno prece-

dente. In particolare, non si è arrestata la diminuzione degli agrumi e neppure

quella delle patate, flessioni, seppure più lievi, sono state registrate anche per le

produzioni frutticole; al contrario aumentano gli investimenti per il pomodoro da

industria e continua l’impennata degli ortaggi in serra. Dal lato del mercato si evi-

denzia un trend negativo nella dinamica dell’ultimo triennio dei consumi orto-

frutticoli italiani.

In Campania questo settore è d’importanza strategica, nel 2004 rappresentava il

37% del valore della produzione agricola complessiva; questo risultato va attribuito

soprattutto alla categoria “patate ed ortaggi” e, quindi, alla categoria “frutta fresca e

in guscio”.

Il comparto è ai primi posti nel paese, rappresentando il 10% circa della PLV

italiana, (si veda tabella) con un’incidenza particolarmente elevata per una serie di

prodotti quali noci, loti, nocciole, fragole, fagioli, ciliegie, pesche, susine, melan-

zane, patate, asparagi, agli.

5 Fonte: Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013 Allegato 1- Le principali fi-liere agroalimentari regionali (p.6 – p.7); Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto An-nuale ISMEA 2007 - Vol. II (p. 95-p.96); POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali INEA (p.107-108 e p.116); Pianificazione delle attività a supporto del sistema agroalimentare della Campania 2008/2009 – Assessorato all’agricoltura ed alle attività produttive della Regione Campania (p.30-p.35).

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Grazie alla presenza di varietà autoctone ci sono molte produzioni di qualità

apprezzate, alcune delle quali con riconoscimenti comunitari d’origine (limone di

Sorrento e Costa d’Amalfi, albicocca Vesuviana, carciofo di Paestum, pomodoro

S. Marzano, ecc.).

L’ortofrutta consente, inoltre, alla regione di avere una posizione di tutto ri-

spetto nel panorama dell’agroalimentare internazionale esportando sia frutta e or-

taggi freschi che trasformati.

La struttura produttiva a monte della filiera si caratterizza per la presenza di a-

ziende generalmente di dimensioni molto contenute (spesso al disotto dell’ettaro),

con una conduzione diretta del coltivatore e con ricorso quasi esclusivo alla ma-

nodopera familiare. La fase di conservazione e trasformazione presenta anch’essa

un’ampia diffusione d’imprese operanti in segmenti di varia natura, con una con-

centrazione nelle aree maggiormente urbanizzate o ad agricoltura più intensiva.

Il segmento più importante è quello dei derivati del pomodoro, si distinguono

anche quelli delle conserve ortofrutticole (fagioli, piselli e fagiolini, etc.), dei suc-

chi e nettari di frutta, delle marmellate e confetture, della frutta allo sciroppo e al-

l'acqua e delle conserve in olio e aceto.

In generale, le tecnologie necessarie per questo tipo di produzioni non sono ec-

cessivamente dispendiose, pertanto definiscono una dimensione minima efficiente

particolarmente ridotta tale da rendere possibile ad una moltitudine di piccole e

medie imprese di affrontare il mercato.

Un elevato numero di imprese conserviere si ritrova concentrato soprattutto

nei tradizionali bacini produttivi ortofrutticoli, laddove lo sviluppo e la diffusione

dell’ampia base imprenditoriale è stata favorita dall’elevata disponibilità di materia

prima. Per la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli, si stima che circa il 45% dei

volumi commercializzati sono veicolati dalla GDO, il dettaglio ambulante con-

serva una quota consistente di mercato, circa il 25%, mentre la restante quota è

appannaggio del dettaglio specializzato con sede fissa e dei minimercati.

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Sul piano internazionale si evidenzia l’ottima posizione regionale per gli scambi

con l’estero. L’esame della bilancia commerciale, mostra per il comparto ortofrut-

ticolo una performance che si mantiene a livello nettamente superiore alle altre re-

gioni italiane e che rappresenta il settore maggiormente significativo nell’export

agricolo regionale. Nelle esportazioni agricole primeggiano i prodotti quali la

frutta fresca, gli ortaggi freschi ed i legumi, per i quali il principale mercato di

sbocco è la Germania.

La struttura della filiera: produzione, trasformazione e distribuzione

Le caratteristiche pedoclimatiche ed orografiche della regione Campania, oltre

a fare di essa una delle principali aree di produzione di frutta ed ortaggi per il con-

sumo fresco, offrono un’importante base per lo sviluppo dell’industria di trasfor-

mazione di questi prodotti.

A dimostrazione dell’importanza di tale settore per la regione basti pensare che

la più alta concentrazione d’imprese operanti nella trasformazione dell’ortofrutta

è proprio in Campania seguita dall’Emilia Romagna.

La filiera ortofrutticola è piuttosto complessa da analizzare in quanto ogni

prodotto può essere considerato sia un prodotto finito, destinato al mercato di

consumo, che una materia prima per l’industria di trasformazione. Per cui a se-

conda della destinazione dei prodotti si possono distinguere differenti percorsi di

filiera che presentano caratteristiche e criticità diverse.

In figura sono schematizzati i diversi percorsi delle filiere in oggetto.

Il primo stadio della filiera (si veda figura) può essere identificato con l’attività

del produttore agricolo che direttamente o tramite grossista immette il prodotto

in circolazione, nel sistema distributivo per il consumo fresco o in quello indu-

striale per la trasformazione. Da questo punto in poi il prodotto segue due per-

corsi diversi che presentano caratteristiche differenti.

Per i prodotti freschi entra in gioco la distribuzione (i mercati locali, la grande

distribuzione ed grossisti) e la prima lavorazione che consiste nella fase di primo

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trattamento e di manipolazione (le operazioni di selezione, lavaggio, calibratura e

confezionamento dei prodotti freschi). Nel momento in cui il bene è avviato alla

trasformazione industriale, i trattamenti possono riguardare i processi di conserva-

zione (surgelazione, ecc.) e/o di vera e propria trasformazione del prodotto agrico-

lo, in questo caso si avrà un prodotto alimentare totalmente diverso da quello

dell’origine (succhi di frutta, passate di verdura, confetture, ecc.). In questo caso, la

qualità del prodotto finale dipenderà sia dalla qualità della materia prima sia dal

processo di trasformazione da parte dell’industria e dalla movimentazione

all’interno della filiera (logistica).

Figura 22 – Struttura organizzativa della filiera ortofrutticola in Campania

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

Inoltre, la filiera ortofrutta presenta delle caratteristiche distinte a seconda della

tipologia di prodotto, e cioè se si tratta di ortive o di frutta. Per tale motivo,

nell’analisi successiva, si è proceduto ad una distinzione tra la filiera frutticola e la

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filiera orticola, individuando all’interno delle due filiere quei prodotti che presenta-

no rilevanza economica e produttiva per la regione. Dopo una breve descrizione

delle caratteristiche generali dell’ortofrutta si è proceduto, dunque, all’individua-

zione delle filiere maggiormente rappresentative del comparto ortofrutticolo cam-

pano, esse sono:

a) filiera della pesca ed albicocco;

b) filiera del nocciolo;

c) filiera delle ortive: patata e pomodoro.

Per queste filiere sono state individuate le zone di localizzazione ed analizzate

le caratteristiche che esse presentano così da proporre delle strategie differenti per

filiera e per zona.

L’organizzazione della produzione

La filiera dell’ortofrutta è la più importante a livello regionale in termini econo-

mici.

Nel 2005 il valore della produzione di patate ed ortaggi è stato pari a circa 1.101

milioni di euro, mentre la produzione di frutta (agrumi esclusi) ammontava a 421

milioni di euro.

Tabella 15 – Produzione ai prezzi di base dei prodotti ortofrutticoli (milioni di euro)

2005 2006 2005 2006Piemonte 390 407 Abruzzo 353 360Valle D'Aosta 3 3 Molise 65 62Lombardia 292 275 Campania 1.482 1.554Trentino Alto Adige 479 429 Puglia 1.032 1.011Veneto 943 924 Basilicata 254 244Friuli Venezia Giulia 56 57 Calabria 804 736Liguria 43 43 Sicilia 1.840 1.830Emilia Romagna 1.275 1.309 Sardegna 405 394Toscana 196 217 Italia 11.008 11.102Umbria 50 52 Nord 3.481 3.447Marche 208 215 Centro 1.292 1.464Lazio 838 980 Sud 6.235 6.191

Regioni Prodotti ortofrutticoli Regioni Prodotti ortofrutticoli

Fonte: Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto Annuale ISMEA 2007 - Vol. II

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L’evoluzione che ha caratterizzato questi due segmenti della produzione è stata

sostanzialmente diversa: negli ultimi dieci anni le patate e gli ortaggi hanno avuto

una dinamica molto positiva in valore corrente (+59% nel periodo), grazie all’an-

damento dei prezzi sostenuti, ma anche in termini reali (+12.6%); l’andamento

della produzione di frutta è stato meno vivace con un aumento legato essenzial-

mente alla dinamica dei prezzi (dal 1995 al 2005 +15% in valori correnti ma -3%

in termini reali).

In totale questi due aggregati rappresentano il 47% della PLV regionale e con-

tribuiscono per il 15% alla produzione nazionale della filiera.

La tabella che segue riporta il valore dei principali prodotti ortofrutticoli della

regione, il peso che essi hanno sulla PLV regionale e l’incidenza sul valore della

produzione a livello nazionale. Se si considera che, nel complesso, la produzione

campana pesa per il 7% sulla PLV italiana, si nota la rilevanza strategica che han-

no molti di queste filiere rispetto alla produzione nazionale. In particolare va sot-

tolineata l’importanza della produzione di pomodoro che rappresenta oltre il

17% della produzione nazionale in valore. Entra in questa categoria sia la produ-

zione di pomodoro da mensa che quella di pomodoro da industria.

La produzione ortofrutticola campana poggia su una base aziendale molto am-

pia rappresentata, sulla base dei dati censuari, da 57 mila aziende che coltivano 26

mila ettari ad ortive (di cui 18 mila concentrati nelle aree di pianura) e poco più di

79 mila aziende frutticole, su 69 mila ettari investiti, di cui 43 mila ettari a frutta

fresca. Nell’insieme si tratta di circa il 16% della SAU regionale. Questa base pro-

duttiva raccoglie in realtà situazioni molto diverse tra loro: si va dalle aziende pic-

colissime che producono esclusivamente per autoconsumo, ad aziende di carattere

prevalentemente familiare, a quelle specializzate ad altissima produttività, grazie

anche alle condizioni pedoclimatiche particolarmente favorevoli, fino ad aziende

ad alto livello di investimenti, come le aziende con superficie protetta che interes-

sano quasi il 12% della superficie ad ortive. Non tutte queste tipologie aziendali

appaiono in grado di confrontarsi con un mercato che, in questo comparto, sta

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mostrando una notevole dinamicità, dietro la spinta dei cambiamenti che si stanno

verificando dal lato dei modelli di consumo e nella stessa struttura di mercato,

all’interno del quale si vanno ridefinendo le gerarchie degli operatori e le scale di

priorità degli elementi di competitività.

Tabella 16 – I principali prodotti ortofrutticoli della Regione Campania (migliaia di euro, 2005)

PRODOTTI Valore della produzione (K€)

% sulla PLV regionale

% sul val. della prod. nazionale PRODOTTI Valore della

produzione (K€)% sulla PLV

regionale% sul val. della prod. nazionale

Patate 111.060 3,4% 20,4% Peperoni 55.201 1,7% 24,9%

Fagioli freschi 79.103 2,4% 33,3% Pomodori 199.031 6,1% 17,2%

Cavolfiori 37.817 1,2% 15,9% Zucchine 42.579 1,3% 10,5%

Indivia 18.655 0,6% 15,1% Fragole 97.410 3,0% 32,3%

Lattuga 122.748 3,8% 30,3% Pesche 116.261 3,6% 28,8%

Melanzane 44.627 1,4% 24,3% Nocciole 73.196 2,2% 40,6%

Fonte: Ns. elaborazione su dati Istat, 2005

L’organizzazione della trasformazione e della distribuzione

Ortofrutta fresca

Nel caso dell’ortofrutta fresca la struttura della distribuzione appare molto ar-

ticolata; convivono, infatti, canali commerciali più tradizionali accanto a forme

moderne di distribuzione. E’ possibile, in generale, individuare due percorsi di

commercializzazione paralleli, uno tradizionale, che alimenta prevalentemente il

piccolo dettaglio alimentare e i negozi di frutta e verdura, e uno moderno, che ha

prevalentemente come sbocco finale la Grande Distribuzione Organizzata

(GDO). Nel caso del canale tradizionale il rapporto tra produttore e consumatore

può essere diretto o può coinvolgere uno o più operatori intermedi (intermediari,

grossisti e dettaglianti).

L’approvvigionamento del piccolo dettaglio avviene attraverso un canale lungo

che comporta il passaggio del prodotto attraverso i mercati all’ingrosso e, in taluni

casi anche attraverso i mercati alla produzione riforniti direttamente dai produtto-

ri che vendono a commercianti ed esportatori. Nel percorso tradizionale operano

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quindi diversi operatori: oltre ai grossisti, titolari di vere imprese strutturate con

appositi impianti, magazzini e capacità logistiche, opera un insieme composito di

mediatori che, secondo consuetudini consolidate, collegano i piccoli produttori

con gli operatori commerciali in senso stretto. Nel caso dei canali più moderni, il

rapporto tra produzione e GDO è mediato soprattutto dalle associazioni dei pro-

duttori AP, dalle unioni di associazioni di produttori (AOP), dalle Cooperative di

commercializzazione. Più raramente vi è un contatto diretto tra produzione e

GDO, soprattutto a causa della frammentazione della produzione e delle esigenze

logistiche che richiedono una maggiore strutturazione della produzione e una se-

rie di servizi che coinvolge operatori esterni alla fase produttiva. Il percorso mo-

derno si basa su una contrattualizzazione dei rapporti che modifica lo stile tradi-

zionale delle transazioni nei mercati agricoli e che spesso vede la parte agricola

subire regole, standard e prezzi imposti dalla GDO. Per avere un’idea del peso di

questi due canali nella commercializzazione dell’ortofrutta fresca e delle tendenze

in atto si può fare riferimento ai dati rilevati a livello nazionale: nel 2004 il canale

di acquisto largamente prevalente è stato quello degli iper e dei supermercati nei

quali passa il 47% delle vendite. Il dettaglio specializzato, rappresentato dai nego-

zi di frutta e verdura, ha coperto il 16% delle vendite; presso gli ambulanti viene

commercializzato, invece, il 16% della produzione in valore. La tendenza degli

ultimi anni è quella di un progressivo aumento della quota della GDO e di un ar-

retramento della vendita presso i canali più tradizionali.

Ortofrutta trasformata

La trasformazione di ortofrutta in Campania si riferisce in misura prevalente

alla lavorazione del pomodoro e delle altre conserve vegetali, seguita da quella dei

succhi di frutta.

In Campania é presente il 9% delle unità locali del settore conserviero operanti

in Italia e il 36,6% del Mezzogiorno, con un valore di contribuzione sul totale na-

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zionale pari a circa il 12%, nonché il 43,4% dell'occupazione complessiva dell'in-

dustria conserviera nazionale, come di seguito illustrato in tabella.

Tabella 17 – Aziende settore conserviero per Regione (2005)

REGIONE N. Aziende % N. Aziende % contrib. Tot. REGIONE N. Aziende % N. Aziende % contrib. Tot.

Piemonte 159 6,2% 5,2% Abruzzo 55 2,1% 2,0%

Valle D'Aosta 3 0,1% 0,0% Molise 16 0,6% 0,4%

Lombardia 325 12,7% 18,1% Campania 230 9,0% 11,9%

Trentino Alto Adige 79 3,1% 3,5% Puglia 86 3,3% 1,8%

Veneto 187 7,3% 6,5% Basilicata 26 1,0% 0,3%

Friuli Venezia Giulia 72 2,8% 2,7% Calabria 68 2,6% 1,8%

Liguria 54 2,1% 1,5% Sicilia 106 4,1% 2,3%

Emilia Romagna 691 26,9% 27,5% Sardegna 41 1,6% 0,9%

Toscana 153 6,0% 3,5% Italia 2.569 100% 100,0%

Umbria 44 1,7% 1,0% Nord 1.570 61,1% 65,0%

Marche 96 3,7% 2,6% Centro 371 14,4% 13,6%Lazio 78 3,0% 6,5% Sud 628 24,4% 21,4%

Fonte: Ns. elaborazione su dati Istat, 2005

Focalizzando l’analisi sul comparto conserve vegetali, la Campania ha una

leadership indiscussa a livello nazionale sia sul fronte del numero di aziende ope-

ranti nel settore, sia in termini di percentuale di contribuzione sul totale nazionale.

Nella regione é infatti presente il 23,6% delle unità locali del settore conservie-

ro operanti in Italia ed il 51,4% del Mezzogiorno, con un valore di contribuzione

sul totale nazionale pari al 26,7% come di seguito illustrato in tabella. In tale am-

bito l'industria del pomodoro riveste un ruolo di primo piano con oltre il 90%

delle imprese conserviere regionali dedite principalmente, o in modo esclusivo, al-

la lavorazione dello stesso.

Tabella 18 – Aziende del settore delle conserve vegetali per Regione (2005)

REGIONE N. Aziende % N. Aziende % contrib. Tot. REGIONE N. Aziende % N. Aziende % contrib. Tot.

Piemonte 36 4,7% 3,6% Abruzzo 14 1,8% 3,0%

Valle D'Aosta 0 0,0% 0,0% Molise 6 0,8% 0,5%

Lombardia 64 8,3% 8,8% Campania 181 23,6% 26,7%

Trentino Alto Adige 18 2,3% 3,4% Puglia 67 8,7% 3,9%

Veneto 55 7,2% 6,6% Basilicata 9 1,2% 0,5%

Friuli Venezia Giulia 5 0,7% 1,5% Calabria 37 4,8% 2,1%

Liguria 31 4,0% 1,3% Sicilia 31 4,0% 1,7%

Emilia Romagna 90 11,7% 22,3% Sardegna 7 0,9% 1,1%

Toscana 41 5,3% 2,8% Italia 767 100,0% 100,0%

Umbria 15 2,0% 0,7% Nord 299 39,0% 47,5%

Marche 26 3,4% 2,2% Centro 116 15,1% 13,0%Lazio 34 4,4% 7,3% Sud 352 45,9% 39,5%

Fonte: Ns. elaborazione su dati Istat, 2005

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La tipologia prevalente di prodotto trasformato, e' rappresentata dai pelati, che

viene realizzato da tutte le unità produttive, e che copre il 51% del quantitativo

trasformato. Al secondo posto si collocano i concentrati, i quali rappresentano il

35% della intera quantità trasformata. Il settore regionale, comunque, appare in

costante crescita. Lo confermano, infatti i dati sulle quantità prodotte: da 4,5 mi-

lioni di tonnellate del 2003 a 5,3 milioni di tonnellate nel 2004, con un incremento

pari al 23 %.

La localizzazione attuale è rappresentata nelle aree tradizionali di produzione

della materia prima, e dunque nelle province di Napoli e Salerno, anche se allo

stato attuale il legame con le aree di produzione è meno netto in quanto nel tempo

si è assistito ad uno spostamento delle aree di produzione primaria, come è avve-

nuto per il pomodoro da industria, per la gran parte proveniente da aree al di fuo-

ri della regione. Anche per questa filiera le industrie di trasformazione sono pre-

valentemente di piccole dimensioni. In molti casi le aziende hanno un carattere

poco più che artigianale: in media ciascuna impresa occupa 15 addetti, ma va sot-

tolineato che oltre il 30% delle imprese ha solo un addetto e nel complesso due

terzi di esse si collocano al di sotto dei 10 addetti. Molte delle industrie campane

lavorano per conto terzi, ma esistono anche imprese che hanno una rilevanza na-

zionale e che commercializzano con un loro marchio. La produzione trasformata

è destinata prevalentemente al mercato del Nord Italia e ai mercati esteri. In

quest’ultimo caso il rapporto è diretto con le imprese di distribuzione oppure è

mediato da società di trading straniere (INEA, 2001).

La localizzazione delle filiere frutticole

La filiera delle pesche e delle albicocche

La peschicoltura in Campania rappresenta senz’altro una delle colture più diffu-

se, essa, infatti, esprime quasi il 60% del quantitativo totale di pesche e nettarine

prodotto nel Mezzogiorno ed il 27% circa del quantitativo nazionale. La produ-

zione di pesche e nettarine si concentra principalmente nella provincia di Caserta

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(circa il 70% del totale regionale), seguita dalle provincie di Napoli e Salerno (15%

e 10% circa del totale regionale). Le aree di localizzazione s’individuano nel Piano

Casertano con le colline del Sessano – Teanese, l’area Flegrea e Regi Lagni, la Piana

del Sele. Nelle stesse aree si concentra anche la coltura di albicocco. In particolare,

la coltivazione dell’albicocco si concentra soprattutto nell’area vesuviana, dove la

coltura vanta di antica tradizione e dove trova le migliori condizioni climatiche e di

suolo per realizzare produzioni quantitativamente e qualitativamente elevate.

Figura 23 – Aree di localizzazione della filiera del pesco e dell’albicocco in Campania

FPA1 – localizzata nella zona del casertano (Agro Aversano, SessanoCarinolese e Teanese) e nel napoletano (area Flegrea, dei Regi Lagni, dell’Acerrano – Giuglianese)

FPA2 – localizzata nella zone dei comuni vesuviani

FPA3 – localizzata nella zona del salernitano Piana del Sele

FPA1 – localizzata nella zona del casertano (Agro Aversano, SessanoCarinolese e Teanese) e nel napoletano (area Flegrea, dei Regi Lagni, dell’Acerrano – Giuglianese)

FPA2 – localizzata nella zone dei comuni vesuviani

FPA3 – localizzata nella zona del salernitano Piana del Sele

FPA1 – localizzata nella zona del casertano (Agro Aversano, SessanoCarinolese e Teanese) e nel napoletano (area Flegrea, dei Regi Lagni, dell’Acerrano – Giuglianese)

FPA2 – localizzata nella zone dei comuni vesuviani

FPA3 – localizzata nella zona del salernitano Piana del Sele

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

La filiera del nocciolo

La coltura si concentra nelle provincie di Avellino, Napoli, Caserta, e Salerno.

In particolare le aree di maggiore interesse sono principalmente la Valle di Lauro

– Baianese e Partenio (AV), Agro Acerrano - Nolano (NA), i Monti Picentini e la

Valle dell’Irno (SA).

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Figura 24 – Aree di localizzazione della filiera del nocciolo in Campania

FS1 – localizzata nell’avellinese e comprendente la zona del Monte Partenio e Pizzo d’Alvano, Valle di Lauro e Baianese, le colline di Avellino;

FS2 – localizzata nella zona geografica dell’Agro Acerrano –Nolano;

FS3 – localizzata nel salernitano, nella parte dei Monti Picentini e della Valle dell’Irno;

FS4 – localizzata nella zona del casertano (zona Sessanese, Teanese e AltoCasertano)

FS1 – localizzata nell’avellinese e comprendente la zona del Monte Partenio e Pizzo d’Alvano, Valle di Lauro e Baianese, le colline di Avellino;

FS2 – localizzata nella zona geografica dell’Agro Acerrano –Nolano;

FS3 – localizzata nel salernitano, nella parte dei Monti Picentini e della Valle dell’Irno;

FS4 – localizzata nella zona del casertano (zona Sessanese, Teanese e AltoCasertano)

FS1 – localizzata nell’avellinese e comprendente la zona del Monte Partenio e Pizzo d’Alvano, Valle di Lauro e Baianese, le colline di Avellino;

FS2 – localizzata nella zona geografica dell’Agro Acerrano –Nolano;

FS3 – localizzata nel salernitano, nella parte dei Monti Picentini e della Valle dell’Irno;

FS4 – localizzata nella zona del casertano (zona Sessanese, Teanese e AltoCasertano)

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

Analisi SWOT

Le problematiche che la filiera dell’ortofrutta si trova a fronteggiare possono

essere ricondotte, da un lato, alle sfide che vengono da altri paesi concorrenti sui

mercati nazionali ed internazionali, dall’altro lato, ai cambiamenti che si stanno

verificando dal lato della domanda.

Rispetto al primo fronte, la Campania ha registrato negli ultimi anni forti per-

dite sui mercati interni e sui mercati tradizionali di sbocco esteri, quali quelli

all’interno dell’UE, risentendo in particolare della concorrenza delle produzioni

spagnole. A questa concorrenza si va aggiungendo anche quella piuttosto aggres-

siva dei paesi emergenti, quali la Cina, che allo stato attuale appare solo embriona-

le rispetto alle sue potenzialità.

Dal lato della domanda le tendenze in atto vanno ricondotte ai cambiamenti

nelle caratteristiche e nelle modalità di consumo. Tali tendenze si riferiscono in

primo luogo al contenuto di servizi aggiunti al prodotto fresco finale, con

un’importanza sempre maggiore di operazioni di selezione, lavaggio, prima lavo-

razione che comportano anche cambiamenti nel canale di distribuzione e nei rap-

porti tra operatori all’interno della filiera. Altri due elementi che possono avere

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un’influenza notevole sulla struttura del mercato riguardano la crescita della quo-

ta del prodotto trasformato (quarta e quinta gamma) su quella del consumo fre-

sco, coerentemente con l’evoluzione dei comportamenti alimentari, e la crescita

del ruolo della grande distribuzione nel commercio al dettaglio. Un ultimo aspet-

to di cui tener conto è la crescente attenzione dei consumatori alla qualità dei

prodotti, laddove il concetto di qualità va assumendo accezioni sempre più ampie,

includendo sia il riferimento alle caratteristiche organolettiche, sia aspetti che ri-

guardano la salubrità, l’impatto delle tecniche di coltivazione sull’ambiente, il le-

game con il territorio e con le tradizioni locali.

La capacità dell’ortofrutta campana di adattarsi al nuovo scenario è molto lega-

ta alle caratteristiche delle aziende del comparto. Strategie di valorizzazione e di

qualificazione della produzione richiedono in molti casi un’organizzazione della

produzione maggiormente strutturata. Nell’offerta delle aziende campane si pos-

sono individuare due categorie principali di prodotti: i prodotti identificabili co-

me prodotti di largo consumo di qualità realizzati in volumi importanti e quelli a

forte tipicità che fanno riferimento a volumi più ridotti.

Per i primi, che comprendono anche i prodotti trasformati, è indubbio che si

debba, in primo luogo, fare leva sulla competizione di prezzo e, dunque, vi è

l’esigenza di agire sui processi produttivi e sulla razionalizzazione della filiera, ma

anche sull’organizzazione commerciale e la logistica, su cui la Spagna, ad esempio,

ha basato gran parte della sua capacità di penetrazione sui mercati esteri.

L’altro fronte di azione è quello della qualificazione della produzione. La nor-

mativa offre una gamma molto ampia di strumenti relativi a marchi e certificazio-

ni. A questo proposito il ruolo che può svolgere l’uno o l’altro tipo di certifica-

zione e di marchio dipende dal volume di prodotto interessato e dalle caratteristi-

che delle aziende. Per le aziende più professionali e specializzate sempre maggiore

importanza vanno assumendo le certificazioni che riguardano la rintracciabilità

della filiera o altri tipi di certificazioni europee, implementate dalle catene della

grande distribuzione, che possono facilitare il collegamento tra produzione e di-

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stribuzione. I marchi e le attestazioni di origine sono sicuramente maggiormente

adatti alla valorizzazione di produzioni molto specifiche e possono rappresentare

una strategia di intervento a favore di imprese che non sarebbero in grado di por-

tare avanti un’autonoma politica commerciale o che sono inserite in circuiti com-

merciali più tradizionali. In ogni caso, un intervento di valorizzazione delle produ-

zioni tipiche e di qualità deve accompagnarsi ad un’attività di promozione e di in-

formazione del consumatore che consenta di riconoscere ed apprezzare la qualità.

Punti di forza

Produzioni tradizionali che hanno consentito una buona accumulazione

delle conoscenze tecniche

Disponibilità di manodopera specializzata

Ambiente pedoclimatico favorevole che rendono le aree pianeggianti

particolarmente vocate alla produzione ortofrutticola sia in pieno campo

che in serra

Possibilità di praticare un’ampia diversificazione di gamma, rendendo

l’offerta potenzialmente elastica alle esigenze e variazioni di mercato

Buona diffusione di sistemi di produzione in coltura protetta (serre, tun-

nel, ecc)

Ampia offerta di prodotti ortofrutticoli tipici derivanti dalla combina-

zione di particolari vocazionalità agronomiche e ricche di tradizioni lo-

cali (pomodoro, limoni, albicocche, nocciole, ecc.)

Diffusa presenza di industria di lavorazione e trasformazione ortofrutti-

cola (conserve vegetali e trasformazione frutta)

Elevata qualità e forte concentrazione produttiva

Presenza di collegamenti con il settore a monte e a valle

Buon livello tecnologico delle aziende di trasformazione

Discreta presenza di marchi Dop/Igp per alcune produzioni

Presenza di un numero limitato ma significativo di imprese agricole che

intrattengono rapporti con la GDO

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Positivo trend di crescita delle produzioni esportate dalle aziende regio-

nali e buona collocazione sui mercati internazionali

Miglioramento delle tecniche di conservazione e trasporto dei prodotti

(specie per le patate)

Criticità

Invecchiamento delle classi imprenditoriali

Scarse capacità manageriali e di approcci innovativi al mercato

Scarso ricorso alla consulenza esterna specializzata per il sostegno alla

gestione aziendale

Non chiara strutturazione del marketing mix più adeguato all’azienda ed

al mercato di riferimento

Ridotte dimensioni aziendali e polverizzazione dell’offerta agricola

Scarsa presenza di associazioni (OP) e cooperative che determinano

forme di concentrazione dell’offerta

Scarsa meccanizzazione delle operazioni colturali

Bassa diffusione di pratiche agricole a ridotto impatto e biologiche

Scarsa standardizzazione qualitativa di alcune produzioni

Basso livello qualitativo di alcune produzioni che rovinano l’immagine

di mercato di produzioni simili di più alta qualità (patate)

Insufficienti o inesistenti strutture di lavorazione e di confezionamento

gestite dagli operatori agricoli

Scarsa presenza di vivai locali (specie per le patate)

Strutture di lavorazione di ridotte dimensioni e non sempre in grado di

realizzare standard qualitativi elevati

Strutture di trasformazione generalmente di piccole e medie dimensioni

Scarsa competitività sui costi

Presenza di impianti di lavorazione e condizionamento obsoleti e poco

innovativi

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Diffusa ricorso all’intermediazione non interessata alla valorizzazione

delle produzioni e che si appropria di gran parte del valore aggiunto a-

gricolo (canale lungo)

Bassa adozione di sistemi di garanzia della qualità e tracciabilità della fi-

liera

Presenza forte sui mercati locali a scapito del rapporto diretto con la

GDO

1.2.4 La filiera delle produzioni zootecniche della carne6

Il panorama Europeo per il comparto bovino da carne evidenzia, oramai da

qualche tempo, un latente stato di sofferenza, scontando sia difficoltà interne (la

progressiva riduzione dei consumi, le modificazioni strutturali indotte dalle re-

centi crisi sanitarie), sia quelle derivanti dal comparto del latte con il quale, inevi-

tabilmente, esiste un indissolubile legame (la riduzione della mandria, legata ad un

progressivo aumento delle rese in un contesto di produzione contingentata).

Il comparto in Campania, negli ultimi anni, ha mostrato evidenti segnali di

cambiamento. Si è manifestata una progressiva diminuzione degli allevamenti bo-

vini con conseguente riduzione nel numero di capi. Tuttavia, la riduzione dei capi

allevati è stata proporzionalmente inferiore, sintomo di una tendenza all’aumento

delle dimensioni aziendali. Anche l’orientamento produttivo è mutato tra i due

censimenti, si è passati da un tessuto produttivo imperniato soprattutto su aziende

con specializzazione lattiera ad aziende con orientamento zootecnico misto.

Il comparto bovino è il più importante dei comparti carnei; esso, infatti, supera

di circa il 70% il valore della produzione di carne suina e del pollame; gli si avvi-

cina soltanto il valore della produzione del latte di vacca e di bufala.

6 Fonte: Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013 Allegato 1- Le principali fi-

liere agroalimentari regionali (p.16-p.17); Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto An-nuale ISMEA 2007 - Vol. II (p.95-p.96).

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L’incidenza regionale sull’offerta nazionale è pari al 4,4% come di seguito illu-

strato in tabella.

Tabella 19 – Produzione ai prezzi di base dei prodotti zootecnici da carne (milioni di euro)

2005 2006 2005 2006Piemonte 955 981 Abruzzo 190 193Valle D'Aosta 28 28 Molise 111 110Lombardia 2.019 2.085 Campania 377 385Trentino Alto Adige 150 151 Puglia 156 158Veneto 1.242 1.236 Basilicata 106 109Friuli Venezia Giulia 181 186 Calabria 160 164Liguria 67 69 Sicilia 295 296Emilia Romagna 1.154 1.170 Sardegna 351 350Toscana 313 320 Italia 8.631 8.782Umbria 171 175 Nord 5.796 5.906Marche 252 257 Centro 1.089 1.111Lazio 353 359 Sud 1.746 1.765

Regioni Carni Regioni Carni

Fonte: Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto Annuale ISMEA 2007 - Vol. II

In relazione, poi, alle diverse categorie di bovini e bufalini macellati, si registra

un dato positivo per la carne di bufala ed una crescita più contenuta per la carne

bovina. I capi macellati sono per lo più vitelloni maschi e manzi, seguiti dai vitelli;

per i capi bufalini si è avuto, un aumento considerevole di bufale macellate.

Sul mercato, a livello nazionale, così come a livello regionale, la forte perdita

d’immagine determinata dalla crisi BSE è stata recuperata solo in parte; ciò nono-

stante la proliferazione di marchi, compresi i sistemi di etichettatura, la quale non

ha favorito la piena ricostruzione del rapporto fiduciario tra prodotto e consumato-

re ma spesso ha alimento una crescente confusione nella percezione della qualità.

Tuttavia, in alcune aree, le esperienze riguardanti la "rintracciabilità" delle carni,

volte ad una maggiore fidelizzazione del consumatore, hanno raggiunto risultati

positivi.

Un elemento di frattura rispetto al passato potrebbe essere il cambiamento del-

la Pac che, anche per il comparto bovino da carne, ha implicato il disaccoppia-

mento totale tra la quantità prodotta e l’aiuto percepito dagli operatori. Gli effetti

dell’applicazione della nuova PAC in Campania per i settori oggetto di riforma

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sono stati valutati in un recente lavoro. I risultati dello studio consentono di af-

fermare che l’impatto sull’organizzazione produttiva del settore bovino da carne

sarà molto più blando rispetto agli altri settori riformati. In particolare, si è evi-

denziata una tendenza a non modificare l’attuale consistenza di bestiame, soprat-

tutto da parte degli allevamenti di dimensioni più elevate, il che offre una garanzia

di presidio del territorio delle aziende e di una tenuta degli attuali rapporti di for-

za all’interno della filiera regionale.

La struttura della filiera: produzione, trasformazione e distribuzione

Si illustrano in figura i principali flussi della filiera delle carni nella Regione

Campania.

La localizzazione delle filiere zootecniche da carne

L’allevamento zootecnico è diffuso in quasi tutto il territorio regionale, dalla

pianura costiera alla collina interna, ai pascoli demaniali montani e presenta una

configurazione molto articolata e spesso complessa.

L’allevamento zootecnico è praticato in tutte le province della regione, quello

bufalino, invece risulta concentrato a Caserta e Salerno.

Riguardo il comparto bufalino nel casertano è presente la maggior parte dei ca-

si; più del 75% del totale regionale sono allevati in solo quattro comuni: Cancello

Arnone, Castelvolturno, Grazianise e Santa Maria La Fossa. Altre aree di rilievo

sono la bassa valle del Garigliano e la media valle del Volturno.

Nella provincia di Salerno, dove prevalgono allevamenti di grandi dimensioni,

la bufala è presente soprattutto nei comuni di Albanella, Altavilla Silentina, Ca-

paccio ed Eboli. Poco presente nel napoletano ed ancor meno nel beneventano ed

avellinese.

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Figura 25 – Analisi dei flussi della filiera delle carni

Fonte: documento Internet

Analisi SWOT

Punti di forza

Buona qualità della materia prima per la macellazione

Funzione della zootecnia locale di presidio e di salvaguardia del territo-

rio

Presenza di un discreto tessuto di attività di trasformazione

Presenza di marchi DOP

Penetrazione nei circuiti della GDO

Buona diffusione di tecniche di allevamento razionali

Presenza di manodopera specializzata

Valorizzazione delle produzioni nell’ambito dei circuiti del turismo ru-

rale

Presenza di infrastrutture a supporto

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Criticità

Scarsi collegamenti con i settori a valle

Sistemi di tenuta e condizioni igienico sanitarie non ottimali per molti al-

levamenti

Ridotta adesione ai disciplinari produttivi delle DOP locali

Standard qualitativi disomogenei

Presenza di produzioni indifferenziate

Difficoltà nella valorizzazione commerciale delle produzioni

Scarsa presenza sul mercato extraregionale dei prodotti

Frammentazione degli allevamenti e bassa redditività

Rischio ambientale elevato

1.2.5 La filiera olivicolo – olearia7

Nel panorama competitivo mondiale, i principali Paesi produttori ed esportato-

ri di olio d’oliva sono, nell’ordine, la Spagna, l’Italia, la Grecia, la Siria e la Tur-

chia. E’ dunque l’Unione Europea la principale area produttiva del mondo, con

2.154 milioni di tonnellate che rappresentano quasi l’80% del totale.

Per i consumi, si evidenziano negli ultimi anni riduzioni che rispecchiano le

macro tendenze in atto. Si sono instaurati comportamenti di consumo che risen-

tono del clima economico negativo il quale è percepito dai consumatori con

l’erosione del proprio potere d’acquisto. Questo contesto spiega l’adozione, da

parte dei maggiori operatori del comparto, di politiche di prezzo aggressive che,

nella maggior parte dei casi, non favoriscono l’apprendimento di una giusta cultu-

ra nei confronti del prodotto ed, in parte, provocano disorientamento negli acqui-

renti. Tuttavia, nella composizione dei consumi dell’olio d’oliva è l’extravergine a

prevalere, con una quota di circa il 60%. Pertanto, gli extravergini con il riconosci-

7 Fonte: Programma di Sviluppo Rurale PSR Campania 2007/2013 Allegato 1- Le principali fi-

liere agroalimentari regionali (p.11-p.12); POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali INEA (p.51-p.56); Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto Annuale ISMEA 2007 - Vol. II (p.95-p.96).

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mento di marchi Dop e Igp rappresentano un patrimonio d’eccellenza che va difeso

e valorizzato in considerazione dei margini di mercato consistenti e delle diffuse

scelte di consumo basate sul riconoscimento del livello qualitativo del prodotto.

Nel panorama olivicolo nazionale, la Campania si colloca ai primi posti tra le

regioni produttrici e diversi territori della regione sono fortemente caratterizzati

dall’ampia diffusione di oliveti. Pertanto, la produzione olivicola, tradizionalmen-

te presente nelle realtà rurali regionali, occupa un posto di rilievo non solo in fun-

zione dell’opportunità competitiva offerta alle aziende agricole, ma anche per il

ruolo ambientale che spesso ricopre, svolgendo in molti territori un compito di

salvaguardia del paesaggio e di protezione del suolo.

Inoltre, grazie alle condizioni pedoclimatiche favorevoli, ad un patrimonio va-

rietale ricco e diversificato ed alle capacità professionali degli operatori del settore,

si producono oli qualitativamente buoni ed in grado di soddisfare la crescente

domanda di oli pregiati.

Nel 2006, le statistiche congiunturali rilevano sul territorio regionale circa

80.000 ettari ed una resa produttiva media pari a 30 q.li per ettaro. La produzione

di olive si aggira intorno ai 2.400.000 quintali per annata, con una resa in olio del

16-17%, pari a circa 400.000 ettolitri. Il valore della produzione di olio nel 2005 è

stata pari a 168.028.000,00 di euro correnti.

Sono presenti tre Dop di oli extravergini quali Cilento, Colline Salernitane e

Penisola sorrentina; oltre alle Dop di oli di oliva che sono in attesa di riconosci-

mento, come Sannio caudino-telesino, Sannio colline beneventane e Irpinia. Dun-

que, una riqualificazione delle superfici olivate, con il recupero di varietà autocto-

ne di pregio, si è realizzata in molte aree produttive, ma ancora ampi rimangono i

margini di miglioramento qualitativo del potenziale produttivo. Inoltre, si presen-

ta una diffusa debolezza dell’apparato produttivo, caratterizzato dalla piccola di-

mensione aziendale e dalla conduzione gestionale spesso poco innovativa.

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Scendendo più a valle lungo le fasi della filiera, si può constatare la presenza di

un nutrito numero di imprese di molitura e spremitura delle olive, sorte in conse-

guenza dell’ampia disponibilità di prodotto. Sono presenti anche esempi, seppure

non nella stessa consistenza, di sansifici e di raffinerie. Queste strutture sono ge-

neralmente più grandi e presentano dei mercati d’approvvigionamento più ampi.

In particolare, potendo contare su un ciclo produttivo più lungo, denotano una

più elevata utilizzazione degli impianti ed una maggiore offerta occupazionale. La

distribuzione dell’olio di oliva avviene in maniera analoga a tutto il resto d’Italia,

privilegiando la grande distribuzione, anche se la vendita diretta di olio di oliva,

vergine ed extravergine, presso i frantoi, venduto per lo più in confezioni artigia-

nali (lattine), detiene una quota rilevante rispetto agli altri canali; tale modalità di

vendita non incentiva certo azioni di valorizzazione del prodotto.

La struttura della filiera: produzione, trasformazione e distribuzione

L’olivicoltura campana, in termini di superfici investite, riveste un ruolo rilevan-

te tra i comparti agricoli regionali. Essa, pur non contribuendo in maniera significa-

tiva alla formazione della PLV regionale agricola costituisce un’importante occa-

sione di lavoro e di reddito per numerose aziende, soprattutto quelle situate nelle

zone collinari e montane, nelle quali la coltivazione dell’olivo è quella che meglio

riesce a valorizzare le risorse ambientali geopedologiche e climatiche locali.

La rilevanza di questa filiera è funzione soprattutto di aspetti sociali legati alla

diffusione territoriale di piccole imprese olivicole familiari e ad aspetti paesaggi-

stici in quanto assolve un importante ruolo di protezione del suolo e di conserva-

zione del paesaggio.

Inoltre si tratta di una coltura che richiede bassi investimenti iniziali e bassi co-

sti di gestione ed una relativa semplicità delle tecniche agronomiche utilizzate, ca-

ratteristiche queste che attirano l’interesse di agricoltori localizzati nelle zone in-

terne e collinari della regione.

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Il ruolo che l’olivicoltura può avere nel rilancio delle aree interne e collinari

della Campania poggia, però, necessariamente su un’adeguata valorizzazione delle

produzioni “tipiche” di ciascuna zona olivicola regionale. Si dovrà, pertanto, im-

plementare una politica che punti a modificare strutturalmente l’offerta al fine di

portare sul mercato un prodotto qualitativamente elevato passando attraverso la

“tipicizzazione” degli oli prodotti, tutelando e ripristinando le varietà autoctone

della Campania, e ovviamente razionalizzando le tecniche sia di coltivazione che

di estrazione e conservazione degli oli.

Gli attori coinvolti nella filiera sono: le aziende olivicole del settore primario; i

frantoi, i raffinatori e gli imbottigliatori – miscelatori, che realizzano la I e la II

trasformazione; la distribuzione ed i consumi di olio, come illustrato in figura.

Figura 26 – Struttura organizzativa della filiera olivicolo olearia

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

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63

La produzione agricola regionale

La diffusione dell’olivicoltura su gran parte del territorio regionale è dovuta sia

a motivi storico culturali, sia per la capacità dell’olivo di dare un reddito superiore

a quello di altre colture praticabili negli stessi luoghi; si aggiunga anche la dispo-

nibilità di manodopera a basso costo diffusa negli ambienti marginali la quale è es-

senziale per la raccolta diretta (brucatura) delle olive, che è uno dei requisiti fon-

damentali per la produzione dell’olio di qualità.

Tabella 20 – Produzione ai prezzi di base dei prodotti dell’olivicoltura (milioni di euro)

2005 2006 2005 2006Piemonte 0 0 Abruzzo 140 134Valle D'Aosta 0 0 Molise 20 17Lombardia 2 2 Campania 155 120Trentino Alto Adige 1 1 Puglia 819 571Veneto 7 6 Basilicata 21 16Friuli Venezia Giulia 0 0 Calabria 925 743Liguria 29 32 Sicilia 279 242Emilia Romagna 5 4 Sardegna 32 28Toscana 90 86 Italia 2.691 2.219Umbria 43 69 Nord 44 45Marche 19 18 Centro 256 303Lazio 104 130 Sud 2.391 1.871

Regioni Olivicola/olearia Regioni Olivicola/olearia

Fonte: Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto Annuale ISMEA 2007 - Vol. II

Nella provincia di Salerno la coltura occupa circa il 60% della superficie olivi-

cola campana, praticata da aziende concentrate soprattutto nel Cilento, nell’Alto e

Medio Sele e nel Calore. Seguono nell’ordine le provincie di Benevento con il

15% circa della superficie olivetata campana (aree Valle Telesina e nel Titerno).

Il Casertano concentra la produzione nella zona Sessana Teanese, sulle colline

Casertane, Monte S. Croce e Monte Maggiore. Infine, l’olivicoltura è poco rap-

presentata nel Napoletano, concentrata soprattutto nella Penisola Sorrentina.

Dal punto di vista altimetrico la coltura è praticata prevalentemente in collina

(circa il 70%) ed in montagna, ciò è dovuto al fatto che la coltura dell’olivo ben si

adatta ad essere coltivata in condizioni di estrema marginalità, ovvero su terreni

che altrimenti rimarrebbero con buone probabilità abbandonati. Alcune interes-

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santi considerazioni si possono trarre dall’analisi della distribuzione delle aziende

per classi di superficie. Innanzitutto, in Campania le aziende che praticano la col-

tura dell’olivo sono per la grande maggioranza dei casi al disotto di 5 ettari, vale a

dire una dimensione che non consente l’adozione di moderni sistemi di coltiva-

zione intensivi con un conseguente abbattimento dei costi di produzione.

Alla limitata dimensione aziendale si aggiunge la modesta specializzazione, data

l’elevata presenza di impianti promiscui; la scarsa possibilità dell’impiego delle

macchine, date le caratteristiche orografiche dei luoghi di coltivazione (forte dif-

fusione nei terreni collinari e montani), la scarsità di risorse idriche in alcuni am-

bienti, la cui disponibilità rappresenta un importante fattore per il raggiungimento

di livelli qualitativi ottimali.

Vi è da considerare inoltre l’età avanzata di molti impianti. Tale situazione non

è però generalizzata, per cui si può affermare che, in generale, il comparto olivico-

lo regionale risulta caratterizzato dalla coesistenza di strutture produttive estre-

mamente diversificate che vanno dagli uliveti secolari, spesso ubicati in aree mar-

ginali, ai nuovi impianti impostati secondo i criteri della moderna olivicoltura di

tipo intensivo.

La Campania possiede un patrimonio varietale estremamente ricco, rappresen-

tato da decine di varietà di olivo la cui sopravvivenza è legata soprattutto alle cure

degli olivicoltori locali ma, a causa della scarsa valorizzazione delle produzioni o-

livicole regionali e della inadeguatezza delle strutture vivaistiche, in Campania si

sono diffuse varietà extra regionali come il Frantoio ed il Leccino (Toscane) con

perdita di tipicità delle produzioni.

La trasformazione: aspetti tecnici – economici

La prima trasformazione delle olive è rappresentata dalla molitura presso i

frantoi i quali rappresentano il luogo in cui ha inizio il processo di oleificazione,

da cui si ottiene già un prodotto commestibile (olio vergine ed extra vergine), op-

pure l’olio lampante e le sanse, i quali prima di essere consumati necessitano di ul-

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teriori fasi di lavorazione. In Campania i frantoi attivi si distribuiscono in gran

parte nelle provincie di Salerno, Benevento e Avellino.

In tabella i volumi ed il valore di produzione di olio di oliva nelle regioni del

Mezzogiorno.

La Campania, con un volume di 383.728 quintali e un valore di 135,9 milioni di

euro, si posiziona quale quarta regione in Italia e nel meridione produttrice di olio.

Tabella 21 – Produzione industriale nel settore olivicolo oleario per Regione (2004)

REGIONE Produzione olio (quintali)

Quota % produzione

Valore della produzione

(Keuro)

Quota sul valore produzione REGIONE Produzione olio

(quintali)Quota %

produzione

Valore della produzione

(Keuro)

Quota sul valore produzione

Piemonte 29 0,0% 0 0,0% Abruzzo 235.642 3,8% 116.900 5,1%

Valle D'Aosta 0 0,0% 0 0,0% Molise 50.058 0,8% 12.898 0,6%

Lombardia 4.969 0,1% 1.528 0,1% Campania 383.728 6,2% 135.930 5,9%

Trentino Alto Adige 1.610 0,0% 585 0,0% Puglia 2.388.455 38,6% 634.790 27,6%

Veneto 12.149 0,2% 4.611 0,2% Basilicata 72.579 1,2% 14.016 0,6%

Friuli Venezia Giulia 687 0,0% 389 0,0% Calabria 1.926.246 31,1% 873.774 38,0%

Liguria 41.421 0,7% 31.435 1,4% Sicilia 487.342 7,9% 218.292 9,5%

Emilia Romagna 7.050 0,1% 3.171 0,1% Sardegna 90.493 1,5% 20.061 0,9%

Toscana 151.462 2,4% 78.962 3,4% Italia 6.187.068 100,0% 2.299.939 100%

Umbria 67.364 1,1% 34.565 1,5% Nord 67.915 1,1% 41.719 1,8%

Marche 40.415 0,7% 17.879 0,8% Centro 484.610 7,8% 231.559 10,1%Lazio 225.369 3,6% 100.153 4,4% Sud 5.634.543 91,1% 2.026.661 88,1%

Fonte: Ns. elaborazione su dati Istat, 2005

La classe dimensionale più frequente dei frantoi, in termini di potenzialità pro-

duttive, è quella fino a 4 tonnellate con una percentuale di olive molite pari al

37% del potenziale produttivo. In relazione all’utilizzo dei frantoi, è importante

sottolineare che la maggior parte degli impianti è in attività solo in un periodo li-

mitato dell’anno, la massima concentrazione di attività si registra nei mesi di rac-

colta delle olive ed in quelli immediatamente successivi.

I frantoi, possono utilizzare tecniche di lavorazione diverse per la separazione

della parte oleosa. I frantoi della Campania utilizzano per il 60% circa il processo

di trasformazione “continuo”, che prevede una macinazione delle olive e

un’estrazione continua con centrifughe orizzontali dalle quali si ottiene il mosto e

la sansa. Questa tecnica permette un risparmio di manodopera ed una riduzione

dei tempi di lavorazione rispetto alla tecnica tradizionale o “discontinuo”. Nella

provincia di Napoli si riscontra la più alta percentuale di frantoi a ciclo continuo

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(circa 70%). Circa il 5% della trasformazione è eseguita in impianti collettivi e per

la restante parte in aziende private; sono molto frequenti le lavorazioni per conto

terzi eseguite dal 91% dei frantoi.

In generale, in Campania anche nella prima trasformazione è presente una ele-

vata frammentazione che, però, data la peculiarità delle tecniche adottate, può es-

sere considerata un’occasione di sviluppo. Difatti, data la deperibilità delle olive

raccolte (la qualità dell’olio dipende non solo dalla varietà dell’olivo, ma soprat-

tutto dalla vicinanza del momento della raccolta con quello della trasformazione),

la grossa diffusione territoriale dei frantoi può rappresentare non solo un abbat-

timento dei costi di trasporto ma soprattutto l’ottenimento di un prodotto quali-

tativamente superiore. In altre parole, l’esistenza di un elevato numero di impianti

può rappresentare la premessa essenziale per l’ottenimento di oli pregiati, la cui

domanda si presenta da alcuni anni in continua crescita. Inoltre i piccoli produtto-

ri, o ancora meglio le cooperative, possono migliorare le strutture commerciali e

le forme di valorizzazione dei propri prodotti attraverso lo sviluppo di marchi e

certificazioni di processo, accrescendo le proprie quote di mercato.

La seconda trasformazione nel comparto delle olive consiste nella lavorazione

delle sanse e degli oli lampanti al fine di renderli idonei all’uso alimentare. In par-

ticolare, la fase di raffinazione rende commestibile l’olio lampante eccessivamente

acido, la sansificazione trasforma i residui della prima lavorazione delle olive in

sottoprodotti per l’impiego alimentare. Le raffinerie ed i sansifici lavorano, dun-

que, l’olio lampante e le sanse al fine di produrre olio commestibile e trasferirlo ai

miscelatori e confezionatori. I miscelatori utilizzano anche olio vergine prove-

niente dalla lavorazione dei frantoi oltre all’olio raffinato. Sia i raffinatori che i

miscelatori e confezionatori ricorrono anche agli approvvigionamenti esteri. Le

fasi di raffinazione si realizzano in impianti industriali, talvolta di dimensioni no-

tevoli e con capacità produttive consistenti.

La produzione di olio regionale è superiore alla capacità di confezionamento

dell’olio stesso. E’, allora, evidente che ci sono dei grossi margini d’intervento

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proprio in questa fase della trasformazione olearia regionale, in quanto il compar-

to industriale non sembra sfruttare a pieno la produzione agricola, il che in termi-

ni economici significa mancato sfruttamento delle potenzialità occupazionali e

commerciali che la fase “industriale” della filiera può determinare.

Mettendo a confronto la produzione di olio con il mercato estero si dimostra

ancora una volta una scollatura tra la capacità produttiva della regione e le fasi in-

dustriali e commerciali a valle del settore primario. Difatti, mentre per le regioni

del centro nord il peso delle esportazioni sulla produzione raggiunge circa il

162% (queste regioni coprono circa l’80% del totale complessivo esportato

dall’Italia), la Campania ha solo il 10% dell’intera produzione. Il grado di coper-

tura (dato dal rapporto export ed import), invece, evidenzia un valore superiore

all’unità, in pratica la Campania esporta per un valore poco superiore a quello im-

portato (Antimiani, Henke, 2000).

La distribuzione

La commercializzazione dell’olio avviene attraverso tutti i canali commerciali

normalmente utilizzati per i prodotti alimentari. Per la vendita dell’olio d’oliva

vergine ed extra vergine, in Campania come del resto in Italia, è prevalente la ven-

dita diretta presso i frantoi ai consumatori finali. Questa forma di distribuzione

diretta rappresenta un’importante area d’affari per moltissime imprese di piccole

dimensioni diffuse capillarmente sul territorio, e non consente di sviluppare la

vendita tramite la grande distribuzione se non in una quota abbastanza contenuta.

Si ravvisano, dunque, grossi margini di intervento per quanto riguarda la fase di

imbottigliamento, confezionamento e valorizzazione del prodotto finale. Queste

fasi giocano un ruolo fondamentale se si considera che, la reputazione della marca

in termini di qualità del prodotto è molto importante per la fase di acquisto, difat-

ti il consumatore è poco informato sui caratteri intrinseci del prodotto (composi-

zione chimoco – fisica) ma è molto condizionato dalla marca, dall’imballaggio,

l’etichetta e tutto ciò che determina l’idea di prodotto di qualità (Caiati, 1994).

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Il consumo di olio in Italia, dopo un sensibile aumento realizzato negli anni ot-

tanta, si presenta stazionario. In sintesi il mercato dell’olio d’oliva si presenta co-

me un mercato maturo dove l’unica possibilità di sviluppo è rappresentata dal

prodotto di alta qualità per il quale si può parlare di “rivitalizzazione” (Mambria-

ni, Intini, 1995). Difatti, sia per l’effetto della diffusione della “dieta mediterrane-

a”, sia per la più elevata informazione del consumatore riguardo alle caratteristi-

che nutrizionali e salutistiche attribuite all’olio di oliva vergine ed extra vergine, il

prodotto olio di questa tipologia si può considerare in fase crescente.

Il mercato internazionale si presenta con un potenziale di crescita molto eleva-

to, dato che l’olio d’oliva è in molti Paesi esteri ancora nella fase di sviluppo del

proprio “ciclo di vita”. Il canale di distribuzione attualmente usato per le esporta-

zioni dell’olio italiano è rappresentato dalla ristorazione, soprattutto i ristoratori

italiani che propongono la nostra cucina all’estero. Una discreta presenza dell’olio

d’oliva c’è anche nei negozi al dettaglio che vendono prodotti “made in Italy”. In

generale, l’andamento positivo all’estero del consumo di olio è stato determinato

dal rilancio della dieta mediterranea anche all’estero che ha evidenziato le proprie-

tà nutrizionali oltre che gastronomiche dell’olio di oliva rispetto agli altri tipi di

oli. In particolare, il consumo di olio di oliva nei Paesi non tradizionalmente con-

sumatori di olio d’oliva (Regno Unito, Germania, Belgio e Lussemburgo) si pre-

senta con un trend positivo esponenziale, evidenziando delle grosse potenzialità

di penetrazione degli oli italiani su tali mercati.

La localizzazione

Le caratteristiche dell’olivicoltura campana risultano essere ampiamente diver-

sificate nell’ambito regionale e ciò non solo per la presenza di un ampio ventaglio

varietale che caratterizza le diverse zone della regione, ma anche per le diverse

tecniche agronomiche praticate in esse e delle soluzioni tecnologiche prevalenti in

ciascuna area produttiva.

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Sulla base della consistenza produttiva di ciascuna area geografica del territorio

regionale è possibile individuare tre grosse aree di concentrazione produttiva con-

tenenti le provincie di Salerno, di Benevento ed Avellino, di Napoli e Caserta.

Nella prima area, localizzata nella provincia di Salerno, l’attività olivicola si

concentra soprattutto nelle “Colline Salernitane” e nel “Cilento” le quali hanno

dato vita a due DOP di oli extra vergini di oliva. Queste due zone sono caratte-

rizzate da un differente grado di “innovatività” dei settori dando così vita a due

diverse zone omogenee.

La seconda area di concentrazione produttiva dell’olivicoltura campana è loca-

lizzata nel Beneventano e nell’Avellinese, dove si individuano due zone omogene-

e: quella del Sannio (Beneventano e Valle Caudino e Telesina) e quella dell’Irpinia

(Tricolle, Aeclanum e Vallo di Lauro e Baianese).

La terza area olivicola è rappresentata dalla provincia di Caserta e dalla provin-

cia di Napoli, che presentano al loro interno due zone omogenee: della “Penisola

Sorrentina” e dell’”Alto Casertano”.

Figura 27 – Le aree di localizzazione delle produzioni olivicole campane

01 – Colline Salernitane

02 – Cilento

05 – Penisola Sorrentina

OLI DOP CAMPANI

01 – Colline Salernitane

02 – Cilento

05 – Penisola Sorrentina

OLI DOP CAMPANI

Fonte: POR Campania 2000-2006 Linee di indirizzo per gli interventi di filiera e per le aree rurali

INEA.

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70

Analisi SWOT

Punti di forza

Capacità tecniche degli imprenditori e lavoratori agricoli buone ed ade-

guate ad una produzione di qualità in alcune aree

Ammodernamento degli oliveti

Condizioni pedoclimatiche a varietali favorevoli ad una produzione di

qualità

Presenza di varietà autoctone apprezzate sia per la produttività in olive

che per la resa in olio

Presenza in alcune zone di cooperative di servizi che svolgono azioni di

valorizzazione del prodotto

Difesa del territorio e funzioni paesaggistiche

Utilizzo di un buon livello di tecniche di conduzione degli oliveti, rac-

colta e trasporto verso i luoghi di trasformazione

Tradizioni legate alla coltura dell’olivo

Presenza di impianti di trasformazione anche innovativi con estrazione

“continua”

Ampia presenza di frantoi

Criticità

Elevata frammentazione aziendale

Grossa diffusione di varietà extra regionali

Carenze di tecniche agronomiche adeguate in alcune aree

Scarsa irrigazione

Ancora presenti impianti vetusti e consociati ad altre coltivazioni

Ancora scarsa la cooperazione per la valorizzazione del prodotto in al-

cune aree

Scarso il livello di associazionismo tra i produttori

Presenza di piccoli frantoi a carattere artigianale senza adeguato livello

tecnologico ed igienico degli impianti di estrazione

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Presenza di cooperative di piccole dimensioni che non consentono la

formazione di una adeguata massa critica per l’offerta produttiva.

Diffusa attività di molitura per conto terzi rivolta per lo più all’autocon-

sumo

Basso grado di meccanizzazione nella trasformazione e confezionamento

dell’olio

Scarso uso di marchi industriali

Ampia diffusione della vendita dell’olio allo stato sfuso

Scarsa presenza di impianti di imbottigliamento, confezionamento e pa-

ckaging

Ambito locale per la vendita dell’olio con scarsa presenza sui mercati re-

gionali

Scarsa conoscenza delle produzioni di oli regionali di qualità sui mercati

nazionali ed internazionali

1.2.6 La filiera cerealicola e delle paste alimentari8

La superficie italiana destinata a cereali (32% della superficie agraria utile) è su-

periore ai 4 milioni di ettari. Il 56% della superficie investita a cereali è concentrata

nel Centro-Nord mentre il 44% è distribuita nel Sud e nelle Isole. In termini di va-

lore, i cereali si attestano mediamente attorno al 10% della produzione lorda ven-

dibile (PLV) agricola, con un importo monetario prossimo a 4 miliardi di euro.

L'industria molitoria campana può vantare un numero di imprese di poco su-

periore alle 300 unità. Il 60-70% di queste sono interessate alla macinazione di

grano tenero e il restante 30-40% alla trasformazione del grano duro in semola. In

Campania si producono oltre 150 milioni di pacchi di pasta negli stabilimenti ri-

8 Fonte: Pianificazione delle attività a supporto del sistema agroalimentare della Campania 2008/2009 – Assessorato all’agricoltura ed alle attività produttive della Regione Campania (p.52); Outlook dell’agroalimentare italiano-Rapporto Annuale ISMEA 2007 Vol. II (p.95-p.96); Rappor-to Congiunturale settore agroalimentare; Accordo Quadro PRUSST Calidone. Programma di ri-qualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio campano. Progetto pilota per l’implementazione delle filiere agroalimentari (attuazione allegato 16 all’Accordo Quadro “Adem-pimenti posti a capo del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali BURC n. 33 del 15-07-02).

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cadenti nella fascia storica di Gragnano, Torre Annunziata e Castellammare di

Stabia, piccole e medie imprese con una produzione artigianale ed una cultura che,

nel corso degli anni, ha creato un forte radicamento sul territorio.

L'industria della pastificazione regionale rappresenta il comparto più interes-

sante quanto a dimensione media degli impianti e a concentrazione. Più del 90%

degli addetti lavora nelle unità locali di dimensioni maggiori dislocate per lo più

nelle provincie di Napoli, Salerno e Benevento.

Quasi tutti gli stabilimenti di grandi dimensioni si approvvigionano presso i

grossisti della materia prima (per la maggior parte di provenienza extraregionale o

addirittura extra comunitaria) che viene molita in impianti annessi agli stabilimen-

ti. I piccoli e medi stabilimenti di trasformazione si riforniscono, di norma, presso

molini esterni.

Anche a livello associazionistico la Campania muove passi registrando la costi-

tuzione del Consorzio Gragnano città della pasta, con gli attuali nove soci, che ri-

coprono da soli circa il 7% della produzione nazionale. La pasta di Gragnano, i-

noltre, rappresenta circa il 10% di export di pasta italiana ed è destinata princi-

palmente nei mercati USA, Gran Bretagna, Giappone e Germania.

In linea generale, le PMI pastarie della regione hanno una quota di mercato che

le colloca al 4° posto dietro le regioni a forte industrializzazione (Emilia-

Romagna, e Puglia) e la GDO, con il 10% del totale. Nella graduatoria per com-

petitività sono collocate al 3° posto con una quota di mercato superiore al 14%,

molto vicino alla Puglia.

In termini di imprese, la Campania ha molte aziende presenti sul mercato con

marchi propri, molte delle quali presentano una buona capacità competitiva grazie

al continuo miglioramento della produzione. La produzione pastaia campana si

collocata in segmenti di mercato abbastanza differenziata per livello di prezzo.

Alcune imprese tendono ad utilizzare le leve competitive basate sulla conve-

nienza del prezzo, mentre altre tendono a differenziarsi attraverso una produzio-

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ne di elevata qualità, legata in primis alla classica lavorazione artigianale (trafilatu-

ra in bronzo ed essiccatura naturale a temperature medio basse).

Il prodotto, in questo caso, tende ad essere proposto più come specialità ali-

mentare che come un bene di largo consumo che - di fatto - è la pasta.

Le paste alimentari costituiscono il secondo prodotto in quanto ad importanza

sulle esportazioni campane: l'11,5% del valore complessivo delle stesse.

La struttura della filiera: produzione, trasformazione e distribuzione

In tabella la ripartizione della produzione primaria di cereali in valore su base

regionale.

Tabella 22 – Produzione ai prezzi di base dei prodotti cereali (milioni di euro)

2005 2006 2005 2006Piemonte 473 541 Abruzzo 59 66Valle D'Aosta 0 0 Molise 40 50Lombardia 633 729 Campania 84 82Trentino Alto Adige 0 0 Puglia 259 264Veneto 453 477 Basilicata 137 113Friuli Venezia Giulia 115 140 Calabria 25 25Liguria 124 116 Sicilia 164 186Emilia Romagna 376 415 Sardegna 51 50Toscana 136 121 Italia 3.485 3.707Umbria 100 101 Nord 2.174 2.418Marche 172 153 Centro 492 453Lazio 84 78 Sud 819 836

Regioni Pr. Cerealicola Regioni Pr. Cerealicola

Fonte: Outlook dell’agroalimentare italiano - Rapporto Annuale ISMEA 2007 - Vol. II

Per quanto attiene la struttura organizzativa di filiera, il punto di partenza del

processo produttivo è rappresentato dalle aziende produttrici di cereali che confe-

riscono la materia prima o ad un grossista, che la raccoglie e la consegna ad un

centro di stoccaggio, o direttamente all’azienda di stoccaggio.

Qui avviene la fase più delicata e la più critica dell’intero processo.

Difatti le aziende di stoccaggio dovrebbero selezionare la granella, suddividerla

in funzione dei parametri qualitativi ed immagazzinarla nei silos.

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Tuttavia, a causa dell’inadeguatezza delle strutture di stoccaggio, avvengono

miscelazioni tra le diverse qualità, facendo così perdere informazioni sulla prove-

nienza delle partite.

La figura di seguito illustrata fornisce l’identità di tutte le aziende coinvolte nel-

la filiera identificando il percorso del prodotto dall’azienda produttrice di materia

prima principale fino ad arrivare all’azienda di distribuzione al dettaglio.

Figura 28 – Struttura della filiera cerealicola

Fonte: Accordo Quadro PRUSST Calidone

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La fase successiva è rappresentata dalle aziende molitorie che si occupano di pu-

lire e molire il prodotto. A questo livello il processo produttivo si scinde, infatti, la

farina, ottenuta dal frumento tenero, viene utilizzata per la panificazione, mentre la

semola, ottenuta dal frumento duro, viene utilizzata per la pastificazione.

In tabella i dati relativi al numero di pastifici, di dipendenti ed al volume di

produzione in quintali di pasta alimentare industriale (secca e fresca).

Tabella 23 – I numeri dell’industria delle paste alimentari nelle regioni d’Italia (anno 2005)

REGIONE N. pastifici N. dipendenti Produzione (quintali)

Produzione % su tot. Nazion. REGIONE N. pastifici N. dipendenti Produzione

(quintali)Produzione % su

tot. Nazion.

Piemonte 11 590 2.624.400 8,0% Abruzzo 15 652 2.340.000 7,1%

Valle D'Aosta 0 0 0 0,0% Molise 5 332 1.380.000 4,2%

Lombardia 19 813 2.805.000 8,6% Campania 16 970 5.594.000 17,1%

Trentino Alto Adige 3 176 356.000 1,1% Puglia 11 539 2.893.200 8,8%

Veneto 21 1.019 2.365.400 7,2% Basilicata 2 36 240.000 0,7%

Friuli Venezia Giulia 2 130 1.150.000 3,5% Calabria 1 25 120.000 0,4%

Liguria 2 88 606.000 1,8% Sicilia 17 365 2.181.800 6,7%

Emilia Romagna 12 1.384 5.838.000 17,8% Sardegna 0 0 0 0,0%

Toscana 7 413 1.120.000 3,4% Italia 159 7.904 32.793.800 100,0%

Umbria 2 97 440.000 1,3% Nord 70 4.200 15.744.800 48,0%

Marche 8 161 530.000 1,6% Centro 22 785 2.300.000 7,0%Lazio 5 114 210.000 0,6% Sud 67 2.919 14.749.000 45,0%

Fonte: Ns. elaborazione su dati Unione Industriali Pastai Italiani, 2005

La Campania con una produzione complessiva stimata in 5,5 milioni di quintali

annui pari al 17,1% del totale nazionale, si colloca al secondo posto quale maggior

produttore di pasta in Italia dopo l’Emilia Romagna (17,8%) e al primo posto tra

le regioni meridionali seguita dalla Puglia (8,8%), dall’Abruzzo (7,1%) e dalla Si-

cilia (6,7%).

Vi è, infine, la fase di commercializzazione presso la grande o la piccola distri-

buzione.

La localizzazione delle filiere

Per quanto attiene la Regione Campania l'adattabilità pedologica ed ambientale

delle diverse specie cerealicole permette la presenza delle coltivazioni in numerose

aree, tanto da poter affermare che tutto il territorio campano è interessato da tale

tipo di coltivazione.

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Ambienti cerealicoli campani tipici per tradizione e per caratteristiche agro e-

conomiche sono gli areali interni delle province di Avellino e Benevento, dove è

garantito non solo l'ottenimento di produzioni quantitativamente soddisfacenti,

ma anche una qualità della granella che soddisfa le aspettative delle industrie di

trasformazione e lavorazione. Specialmente nel Sannio il frumento duro è il cerea-

le più coltivato, sia come coltura tradizionale, sia come biologica; ciò dipende dal

fatto che si tratta di una coltura “facile” e relativamente sicura.

Analisi SWOT

Punti di forza

Territorio tipico per tradizione e per caratteristiche agro-economiche ed

ambientali

Buona qualità della granella

Coltura facile e relativamente “sicura”

Tradizione nei processi produttivi

Criticità

Inadeguatezza delle strutture di stoccaggio

Orientamento alla produzione anziché al mercato (scarsa diffusione degli

strumenti di marketing)

1.3. I distretti agroalimentari della Regione Campania9

1.3.1 Il distretto di Nocera Inferiore – Gragnano

Il Distretto di Nocera Inferiore - Gragnano si estende su una superficie di 293

kmq per 377.895 abitanti complessivi, comprendendo 20 Comuni delle province

di Salerno e Napoli.

La specificità produttiva dell’Agro Nocerino Sarnese riguarda il settore agroa-

limentare e in particolare: il comparto delle conserve vegetali, con una rilevante

concentrazione di industrie dedite alla trasformazione del pomodoro, e la qualità

9 Fonte: Portale distretti industriali italiani (http://www.clubdistretti.it).

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di pasta famosa in tutto il mondo che si produce a Gragnano, la ‘città dei macche-

roni’. Importante anche la produzione di vino.

Alla data del 31 dicembre 2002, nel Distretto di Nocera- Gragnano risultano

registrate 32.599 imprese di cui ben 27.628 attive, ossia l’84,8% del totale. Le im-

prese nel comparto Agricoltura, caccia, silvicoltura e pesca con 5.404 aziende atti-

ve, rappresentavano il 19,6% del totale. In figura la ripartizione percentuale per

settore di appartenenza delle aziende attive nel distretto.

Figura 29 – Distribuzione delle aziende attive nel distretto di Nocera – Gragnano nel 2002

Fonte: Elaborazioni Istituto G. Tagliacarne su dati Infocamere

La presenza dell’acqua e la peculiare qualità dei suoli hanno infatti reso l’area

particolarmente adatta alla produzione agricola e nel corso dei decenni, da uno

sviluppo delle attività rurali e dalla coltivazione del pomodoro, del tabacco e delle

fibre tessili, è nato un nucleo forte di imprese manifatturiere collegate alla produ-

zione agricola. Si è venuta così a costituire una vera e propria filiera del settore a-

groalimentare.

Il territorio è caratterizzato dal cosiddetto ‘oro rosso’, vista l’importanza del

settore sviluppatosi intorno alla lavorazione del vegetale, di recente anche ricono-

sciuto come prodotto DOP, in particolare la sua qualità più pregiata, ovvero il

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San Marzano. Le aziende presenti nell’area dell’Agro Nocerino Sarnese sono pre-

valentemente di piccole dimensioni e spesso a conduzione familiare, dedite sia alla

produzione diretta, sia alla costruzione di macchinari, di materiali per l’inscatola-

mento ed imballaggi vari per il trasporto di materia prima e prodotto confeziona-

to, affidato infine ad aziende specializzate. Accanto a esse vi è un ridotto numero

di imprese di medie e grandi dimensioni, a carattere industriale, le quali produco-

no una quota prevalente di fatturato e caratterizzano maggiormente il mercato.

1.4. Flussi commerciali con l’estero dell’agroalimentare campano10

L’agroalimentare campano è uno dei sistemi produttivi più reattivi e tra i più

performanti.

La bilancia agroalimentare è in attivo (163 milioni di euro nel 2006) frutto della

compensazione tra il deficit sistematico (se non endemico) del settore primario e il

surplus piuttosto cospicuo dell’industria alimentare.

La Campania occupa il quinto posto nella graduatoria delle esportazioni nazio-

nali di prodotti trasformati e il settimo per quelle del settore primario, come di se-

guito illustrato in figura.

Gli scambi agroalimentari, nel loro complesso, contribuiscono alla bilancia

commerciale regionale con un peso intorno al 20%, peso simile tanto per le espor-

tazioni quanto per le importazioni, ma tale contributo è completamente sbilancia-

to a favore dell’industria alimentare.

Le vendite all’estero sono dominate dall’aggregato “conserve di frutta e verdu-

ra” che rappresenta quasi la metà delle vendite all’estero di prodotti agroalimenta-

ri campani. Il resto riguarda prevalentemente “altri prodotti alimentari” ed i pro-

dotti dell’agricoltura.

10 Fonte: Pianificazione delle attività a supporto del sistema agroalimentare della Campania

2008/2009 – Assessorato all’agricoltura ed alle attività produttive della Regione Campania (pp. 12-14); Rapporto INEA 2006 sul commercio con l’estero dei prodotti agroalimentari italiani (pp. 5-6).

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Gli scambi commerciali nel 3006 della nostra regione si concentrano essenzial-

mente nell’area UE (Regno Unito 18,9%, Germania 13,2%, Francia 6,8%, Spagna

3,0%), mentre tra quelli non europei, i migliori clienti risultano USA (10,5%), la

Svizzera (3,2%) e il Giappone (3,2%). E’ evidente che questi sette mercati assor-

bono oltre la metà delle esportazioni agroalimentari campane.

1.4.1 Le caratteristiche del commercio estero dei prodotti agroalimentari campani

La Campania, dunque, svolge un ruolo centrale negli scambi agroalimentari ita-

liani. Ne è prova il fatto che essa è l’unica regione del Centro-Sud che riesce a col-

locarsi a fianco delle grandi regioni del Nord in cui si concentra prevalentemente

la produzione, la trasformazione ed il commercio estero di prodotti AA, quali la

Lombardia, l’Emilia Romagna, il Piemonte ed il Veneto.

Il commercio AA. della Campania, infatti, rappresenta una quota del totale na-

zionale di circa l’8% per le esportazioni e del 5% per le importazioni. Ciò pone la

regione immediatamente dietro le su citate regioni e al primo posto tra quelle del

Centro Sud per le esportazioni, in guisa da confermare l’importanza che la regio-

ne svolge nell’ambito del commercio agroalimentare in termini di export piuttosto

che di acquirente di prodotti dall’estero.

Figura 30 – Esportazioni agroalimentari dell’Italia per regioni, 2006

Fonte: Il commercio con l’estero dei prodotti agroalimentari, INEA 2006

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Figura 31 – Importazioni agroalimentari dell’Italia per regioni, 2006

Fonte: Il commercio con l’estero dei prodotti agroalimentari, INEA 2006

La Campania contribuisce con il 6% all’esportazioni del settore primario con

l’8% per quanto riguarda l’export dell’industria alimentare. Dati, questi che la-

sciano configurare la Campania come una regione più specializzata sul fronte del-

le esportazioni di prodotti trasformati che non dei prodotti freschi, differenzian-

dosi in tal modo da le altre regioni forti del Sud come la Puglia e la Sicilia. Nel

2006 la Campania ha esportato beni agroalimentari per oltre 1.700 milioni di euro,

rappresentando in valore il 44% del totale agroalimentare esportato dal Mezzo-

giorno. Questo dato riveste un’importanza fondamentale specie se comparato a

quello della Puglia, seconda regione in ordine di importanza del Sud che copre

con il proprio commercio con l’Estero il 20% delle esportazioni del Sud. Ciò con-

forta e autorizza nel dire che la Campania concentra in sé una parte molto consi-

stente non solo degli scambi del Sud ma anche del totale nazionale.

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81

Figura 32 – Variazione 2005/2006 degli scambi agroalimentari per regione

0-10-20-30 302010 6050400-10-20-30 302010 6050400-10-20-30 302010 6050400-10-20-30 302010 605040

Fonte: Il commercio con l’estero dei prodotti agroalimentari, INEA 2006

1.4.2 Export per aggregati merceologici

Come già precedentemente riferito, nel 2006 circa l’85% delle esportazioni in

valore della Campania riguardano prodotti trasformati (1458 milioni di euro su un

totale di 1716 milioni). In particolare, circa il 50% dell’export regionale riguarda

la voce “preparati e conserve di frutta e verdura” , che a loro volta coprono il 58%

delle vendite all’estero dei soli prodotti trasformati. E’ chiaro che in questa voce

ricadono essenzialmente i pomodori pelati e le conserve di frutta. Segue un altro

aggregato definito in modo residuale “altri prodotti alimentari” ma che assume

enorme importanza in quanto in questo ricadono le paste alimentari. Nel com-

plesso i due aggregati rappresentano oltre il 50% dell’export campano.

Non secondario, tuttavia, il peso dei prodotti agricoli freschi pari a circa il 14%

del totale. Interessante è notare che gli aggregati principali dell’industria alimentare

mostrano variazioni 2000-2006 positive che oscillano dal 24% delle conserve al 91

% degli oli e grassi animali e vegetali. A livello di destinazione per aree geografiche,

è da evidenziare che oltre il 50% dell’export di prodotti a base di frutta e verdura

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sia destinato all’U.E. e l’8% nel Nord America; più ampia risulta la quota di desti-

nazione Nordamericana per altri prodotti dell’industria alimentari pari al 16%. Per

quanto concerne, infine, prodotti agricoli, la quota comunitaria sale al 68%.

La peculiarità merceologica e la spinta specializzazione delle esportazioni a fa-

vore di prodotti fortemente riconoscibili come “made in Italy”, è il caso del po-

modoro S. Marzano DOP, della Mozzarella di Bufala Campana DOP, delle paste

alimentari ecc., consentono di affermare senza alcun dubbio che il sistema agroa-

limentare della Campania oltre ad essere significativamente presente sui mercati

tradizionali più forti abbia grandi potenzialità di acquisizioni di nuove quote sui

mercati “più giovani” che di anno in anno assumono peso crescente nella bilancia

agroalimentare della regione.