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1 IL "CANNOCCHIALE ARISTOTELICO": DA RETORICA DELLA LETTERATURA A LETTERATURA DELLA RETORICA Nel primo paragrafo del Trattato della metafora - sezione centrale, topograficamente e contenutisticamente, del Cannocchiale aristotelico - Emanuele Tesauro esibisce con rilievo tipografico "la vera e non vulgar Diffinizione della Metafora ", da lui raccolta al termine di un errabondo viaggio attraverso i frequentatissimi mari della Retorica e della Poetica aristoteliche: "PAROLA PELLEGRINA, VELOCEMENTE SIGNIFICANTE UN OBIETTO PER MEZZO DI UN ALTRO" (p. 302) 1 . Salta subito all'occhio, e certamente non stupisce, la dipendenza da Poetica 1457b 8-9 ("la metafora consiste nel trasferire ad un oggetto il nome che è proprio di un altro") 2 del "sommo genere" così individuato, che dovrebbe, per definizione, essere comune a tutti gli otto tipi di metafora poco prima esaminati in forma breve dal trattatista. E, in effetti, il "trasferimento" soggiace, con appena qualche forzatura, a ciascuna delle trasformazioni metaforiche del termine Roma che il Tesauro escogita ad esempio per il lettore: "URBIUM SOL " (somiglianza o proporzione), "CAPITOLIUM " (attribuzione), "VALENTIA " (equivoco: "peroché il Greco nome ROMI, altro apunto non sonava, se non Valentia "), "POPULORUM TRIUMPHATRIX " (ipotiposi), "ALTER ORBIS " (iperbole), "R " (laconismo), "ANTICHARTAGO " (opposizione), "ROMULA " (decezione) (pp. 298-9). L'esercizio tesauriano merita davvero la qualifica di ingegnoso: non tanto per la trasformazione dello stesso tenore in otto veicoli diversi, quanto per aver raggiunto (anche - se non soprattutto - attraverso l'esibizione a priori del metaforizzato) la congruenza tra definizione ed esemplificazione. Altrove, infatti, non tutte le metafore che il Tesauro accatasta con inesorabile stacanovismo rientrano nella griglia definitoria: anche a voler assegnare al termine illatio la più ampia latitudine semantica sopportabile, risulta piuttosto problematico individuarla all'opera in esempi - appena precedenti a quelli citati - quali Carpathii leporem (decezione) o mens amens (opposizione) (p. 298). L'inadeguatezza della formula di matrice aristotelica rispetto alla divisione del genere metafora in otto specie non dovette sfuggire neppure al Tesauro: il sospetto nasce non perché egli si preoccupi di dichiarare e risolvere l'aporia, ma in quanto fornisce, subito dopo aver discusso partitamente questa definizione, un'altra causa formale (ricordo che ci troviamo all'interno del maxicapitolo - da p. 121 a p. 540 - dedicato all'analisi della "cagion formale" dell'arguzia) della regina dei tropi: "l'essenza della Metafora consiste nel farti conoscere un obietto con facilità " (p. 303). Anche questa frase, naturalmente, si appoggia ad una asserzione di Aristotele, quella che "a tutti è piacevole apprendere facilmente" 3 - che il Tesauro traduce, e certo tradisce, nell'assioma "L'IMPARAR COSE NUOVE CON FACILTA' E' DILETTEVOLE ALL'UMAN GENIO" (p. 300: la citazione nel vivagno §_recita "Faciliter discere omnibus a Natura suave est ") -, sostenuta dalla premessa minore, di identica provenienza, che "noi apprendiamo soprattutto dalle metafore" 4 . La conoscenza di cui qui si parla è, prima ancora che intellettuale, visiva: spetta al Ricoeur il merito di aver dimostrato come già il dettato aristotelico assegni alla metafora il potere di visualizzare le relazioni 5 . Uomo del Seicento, cioè del secolo nel quale, come ha brillantemente argomentato il Raimondi, il dominio

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IL "CANNOCCHIALE ARISTOTELICO": DA RETORICA DELLA LETTERATURA A

LETTERATURA DELLA RETORICA

Nel primo paragrafo del Trattato della metafora - sezione centrale, topograficamente e

contenutisticamente, del Cannocchiale aristotelico - Emanuele Tesauro esibisce con rilievo tipografico "la

vera e non vulgar Diffinizione della Metafora", da lui raccolta al termine di un errabondo viaggio attraverso

i frequentatissimi mari della Retorica e della Poetica aristoteliche: "PAROLA PELLEGRINA,

VELOCEMENTE SIGNIFICANTE UN OBIETTO PER MEZZO DI UN ALTRO" (p. 302)1. Salta subito

all'occhio, e certamente non stupisce, la dipendenza da Poetica 1457b 8-9 ("la metafora consiste nel

trasferire ad un oggetto il nome che è proprio di un altro")2 del "sommo genere" così individuato, che

dovrebbe, per definizione, essere comune a tutti gli otto tipi di metafora poco prima esaminati in forma

breve dal trattatista. E, in effetti, il "trasferimento" soggiace, con appena qualche forzatura, a ciascuna delle

trasformazioni metaforiche del termine Roma che il Tesauro escogita ad esempio per il lettore: "URBIUM

SOL" (somiglianza o proporzione), "CAPITOLIUM" (attribuzione), "VALENTIA" (equivoco: "peroché il

Greco nome ROMI, altro apunto non sonava, se non Valentia"), "POPULORUM TRIUMPHATRIX"

(ipotiposi), "ALTER ORBIS" (iperbole), "R" (laconismo), "ANTICHARTAGO" (opposizione),

"ROMULA" (decezione) (pp. 298-9). L'esercizio tesauriano merita davvero la qualifica di ingegnoso: non

tanto per la trasformazione dello stesso tenore in otto veicoli diversi, quanto per aver raggiunto (anche - se

non soprattutto - attraverso l'esibizione a priori del metaforizzato) la congruenza tra definizione ed

esemplificazione. Altrove, infatti, non tutte le metafore che il Tesauro accatasta con inesorabile

stacanovismo rientrano nella griglia definitoria: anche a voler assegnare al termine illatio la più ampia

latitudine semantica sopportabile, risulta piuttosto problematico individuarla all'opera in esempi - appena

precedenti a quelli citati - quali Carpathii leporem (decezione) o mens amens (opposizione) (p. 298).

L'inadeguatezza della formula di matrice aristotelica rispetto alla divisione del genere metafora in otto

specie non dovette sfuggire neppure al Tesauro: il sospetto nasce non perché egli si preoccupi di dichiarare e

risolvere l'aporia, ma in quanto fornisce, subito dopo aver discusso partitamente questa definizione, un'altra

causa formale (ricordo che ci troviamo all'interno del maxicapitolo - da p. 121 a p. 540 - dedicato all'analisi

della "cagion formale" dell'arguzia) della regina dei tropi: "l'essenza della Metafora consiste nel farti

conoscere un obietto con facilità" (p. 303). Anche questa frase, naturalmente, si appoggia ad una asserzione

di Aristotele, quella che "a tutti è piacevole apprendere facilmente"3 - che il Tesauro traduce, e certo

tradisce, nell'assioma "L'IMPARAR COSE NUOVE CON FACILTA' E' DILETTEVOLE ALL'UMAN

GENIO" (p. 300: la citazione nel vivagno §_recita "Faciliter discere omnibus a Natura suave est") -,

sostenuta dalla premessa minore, di identica provenienza, che "noi apprendiamo soprattutto dalle

metafore"4.

La conoscenza di cui qui si parla è, prima ancora che intellettuale, visiva: spetta al Ricoeur il merito di

aver dimostrato come già il dettato aristotelico assegni alla metafora il potere di visualizzare le relazioni5.

Uomo del Seicento, cioè del secolo nel quale, come ha brillantemente argomentato il Raimondi, il dominio

2

nella gerarchia dei sensi passa dall'udito alla vista6, il Tesauro enfatizza questa caratteristica , il che gli

permette di fornire, all'esistenza di otto tipi di metafora, da lui proposta fin dall'inizio7, una giustificazione

ben più salda e coerente di quanto non fossero le sparse citazioni da Retorica III 10 e 11 là addotte ad unico

conforto della scelta. Il trattatista pare ben consapevole della novità della propria posizione: infatti,

dall'immutabile sfondo dell'osservanza, più o meno di comodo, aristotelica, si distacca qui una presunzione

di originalità che sfocia infine nell'orgogliosa dichiarazione posta a commento dello schema conclusivo, che

raccoglie e riordina le otto metafore: "Che se questa mia teorica distribuzione non ti appagasse, provati tu di

ritrovarne un'altra migliore" (p. 305; corsivo mio). Non resta, ora, che riprodurre sia il grafo finale sia

l'argomentazione che lo introduce e spiega, facendo notare come il riconoscimento che essenza della

metafora è la conoscenza dell'oggetto, introdotto quasi di soppiatto a scapito della precedente formula, in

realtà renda ragione assai meglio di essa perché le metafore siano proprio otto e perché proprio quelle otto

(motivando così una quantità e una tipologia altrimenti al limite dell'arbitrario) e, in secondo luogo, consenta

di approdare, come visualizza lo schema, ad una sistemazione del materiale non solo chiara e distinta - se

non al livello dei referenti, almeno a quello dei segni -, ma anche rispondente all'esigenza barocca di

traduzione visiva del messaggio linguistico, di interscambiabilità tra linguaggio verbale e linguaggio

pittorico8:

"Peroché, sicome l'essenza della Metafora consiste nel farti conoscere un Obietto con faciltà: così due sole

maniere vi ha di conoscer facilmente qualunque Obietto lontano: un'ASSOLUTA, l'altra COMPARATIVA.

L'Assoluta; se l'obietto è grande sì, che l'occhio vi giunga dalla lungi: come il Colosso di Carete, che

sporgeva alto settanta gombiti : e questa è la IPERBOLE. Overo, s'egli è sì chiaro, che venga con la sua luce

a incontrar l'occhio nostro: come la Luna, che sol tanto da noi si vede; quanto è illuminata dal Sole: e questa

è la IPOTIPOSI. La Comparativa; se tu mi rapresenti alcuna cosa Simile, o Contraria, o Congiunta. Con la

Simile, io conosco un Uomo per mezzo della sua imagine: e questa è la Metafora DI SIMIGLIANZA. Con la

Contraria; io comprendo meglio il candore al confronto della Nerezza: e questo è l'OPPOSITO. Con la

Congiunta: conosco il Cervo per le vestigia: e questa è la Metafora di ATTRIBUZIONE. Ma queste tre

maniere Comparative, si sottodividono. Peroché, se la Simiglianza è nel Nome, non nell'obietto: sarà

l'EQUIVOCO. La Contrarietà, se non è fra gli obietti; ma fra l'obietto, e la Opinion mia: forma la

DECEZIONE. Ed il Congiunto, se richiede profonda riflession dell'Intelletto: è il LACONISMO. Talché, se

ti vien disiderio di veder queste otto specie diramate in un Tipo, eccolti.

3

Per la Grandezza HIPERBOLE

ASSOLUTA Per la Chiarezza HIPOTIPOSI

Nell'Obietto METAFORA DI SIMIGLIANZA

4

Per il Simile

Maniera di Nel Nome EQUIVOCO

conoscere

con facilità All'Obietto OPPOSITO

un'Obietto Per il Contrario

lontano COMPARATIVA All'Opinione DECETTIONE

Superficiale, METAFORA DI et Piano ATTRIBUTIONE Per il Congiunto

Profondo, et Inviluppato LACONISMO (p. 304).

Abbiamo dunque sorpreso accamparsi fianco a fianco, in un nodo centrale del trattato di Emanuele

Tesauro, non solo due differenti definizioni di metafora, ma anche da una parte l'ossequio, tutt'altro che

esclusivamente formale, al maestro di color che sanno, dall'altra una ricerca di originalità - atteggiamenti

entrambi tipici del secolo - che, se pur non arriva a negare l'auctoritas, non rinuncia ai propri diritti. Né si

tratta dell'unico caso, ché possiamo sorprendere qualche altra modalità di questa alternanza tra tradizione e

innovazione senza uscire dall'intersezione tra l'insieme della metafora e quello dei rapporti Aristotele -

Tesauro. E' ben noto che il filosofo greco distingue, in Poetica 21, quattro tipi di metafora ("La metafora

consiste nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro: e questo trasferimento avviene, o dal

genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia"), come viene confermato

indirettamente da Retorica III 10 ("dei quattro tipi di metafora [...]")9; ed è quasi altrettanto noto che il

Cannocchiale aristotelico ne elenca invece otto, numero conseguito tramite un lavoro che è insieme di

condensazione e di amplificazione. Le aggiunte mi paiono meno significative: conformemente alla propria

convinzione che Aristotele "usa di additarci solamente i vestigi delle sue Dottrine" (p. 446), il Tesauro

rintraccia, da accenni sparsi nei capitoli 10 e 11 del terzo libro della Retorica, quanto serve a proporre sei

tipi di metafora: equivoco, ipotiposi, iperbole, laconismo, opposizione, decezione10. Più interessante la

rielaborazione operata sulle vere e proprie metafore aristoteliche, che il Tesauro riduce da quattro a due:

innanzitutto raggruppando quelle dal genere alla specie e dalla specie al genere sotto le metafore di

attribuzione, poi trasformando il quarto tipo aristotelico - "per analogia" - in una metafora da genere a

genere (non contemplata da Aristotele) che, insieme al tipo che la precede in Poetica 21 - "da specie a

specie" - viene rubricata tra le metafore di somiglianza o proporzione ("analoga" nel primo caso, "univoca"

nel secondo).

Mentre la proposta dei sei nuovi tipi di metafora è appoggiata, ogni volta, ad una autorizzazione

aristotelica - in alcuni casi forzata, ma mai oltre i limiti consueti alle abitudini del tempo -, l'ardita

5

rimanipolazione del brano espressamente dedicato dal filosofo greco alla metafora non invoca il nume

tutelare, ma, pur citando ovviamente il passo di partenza, dà come per scontata (e, soprattutto, per

aristotelica) quella riorganizzazione del materiale: "Primieramente da lui trov'io riconosciute e celebrate

alcune metafore di SIMIGLIANZA: chiamate METAFORE DA UNA SPECIE ALL'ALTRA: E DA UN

GENERE ALL'ALTRO" (p. 281); "La seconda maniera di Metafora è quella, ch'ei chiama DAL GENERE

ALLA SPECIE: E DALLA SPECIE AL GENERE" (p. 283)11.

Una simile riarticolazione della materia metaforica presenta, come appare subito, una messe di problemi di

non facile né immediata soluzione, a partire da quello della reale estensione, in rapporto alla tassonomia

retorica attuale nonché a quella contemporanea al Tesauro, del significato del termine metafora e -

conseguentemente - dei rapporti che nel quadro tesauriano essa intrattiene con le altre figure retoriche,

nominate oppure no. Sorvolando ad alta quota, almeno per ora, questo pericoloso vespaio, sottolineerei

ancora la novità, per quantità e ripartizione, della proposta tesauriana rispetto ai testi aristotelici12, novità

evidentemente indotta dall'accentuazione del valore conoscitivo (non in senso ontologico, è opportuno

precisare) della metafora, così ben sintetizzata nello schema che abbiamo riportato, la cui euritmia

concettuale e visiva risulterebbe gravemente compromessa da una differente tassonomia. Eppure, ancora una

volta, il massimo di divaricazione dal testo tutore è incrinato da una serie di atteggiamenti che riconducono,

all'opposto, alla matrice di Poetica 21: infatti, l'opera allinea numerose dichiarazioni che sembrano postulare

una netta differenza di grado tra le prime due metafore (quelle di attribuzione e di proporzione) e le altre sei,

come ha ben visto lo Zanardi13. Ciò deriva dal fatto che il Tesauro rinuncia, in questi casi, alla propria

proposta di individuare l'essenza della figura nel "far conoscere un obietto con faciltà" (p. 303) e riprende la

definizione aristotelica di metafora come trasferimento: essa però si applica con difficoltà alle sei nuove

metafore rintracciate dal secentista, che deve quindi, volente o nolente, assegnare la preminenza a quelle di

proporzione e attribuzione (che ricoprono, ricordiamo, i quattro tipi elencati in Poetica 21). Con il che,

l'Aristotele padrone di casa, che ad un certo punto sembrava mandato fuori dalla finestra, rientra, se non

dall'ingresso principale, almeno dalla porta di servizio e il vecchio arredo convive con le nuove suppellettili.

Queste considerazioni rivestono una qualche importanza in ordine ad una più precisa caratterizzazione del

Cannocchiale aristotelico e del suo autore, che normalmente vengono assegnati a due poli opposti:

l'opinione prevalente vede nel trattato l'ultimo ed estremo frutto di una secolare subordinazione a

quell'Aristotele il cui prestigio aveva già cominciato a subire, in altri ambiti, colpi fieri e decisivi; altri

critici, invece, enfatizzano la portata del fraintendimento dell'opera dello Stagirita sino a fare del letterato

piemontese un non aristotelico sotto mentite spoglie, una sorta di quinta colonna nelle file del nemico14.

Entrambe le ipotesi, pur da rifiutare nella loro assolutezza, certamente qui enfatizzata da una necessaria ma

riduttiva schematicità, hanno tuttavia, come si accennava, del vero: non perché, aristotelicamente, la virtù

stia nel mezzo o perché, irenicamente, il Tesauro sia meno aristotelico di quanto non sembri a quasi tutti e,

al contrario, più aristotelico di quanto non paia a pochi altri, bensì perché il Cannocchiale mostra una

continua compresenza di due aspetti contraddittori, di modo che il bipolarismo critico di cui si diceva trova

il suo primo fondamento nel trattato stesso. Questa caratteristica, che abbiamo fino ad ora cercato di

6

illustrare nell'ambito del rapporto che lo lega ai testi aristotelici, si manifesta a molteplici altri livelli, tanto

da invitare a proporre l'ipotesi che essa costituisca una costante strutturale del Cannocchiale aristotelico,

come ora proveremo a dimostrare con prelievi testuali a differenti profondità.

In effetti, la convivenza di due elementi in contraddizione non si limita a sottendere il legame tra il

trattatista e il suo maestro, anche se da lì prende spesso l'avvio, ma si allarga fino ad informare di sé

l'impianto metodologico dell'opera: come notò già il Pozzi, la "ricerca dottrinale [...] è condotta come su un

doppio registro: col metodo aprioristico di tipo aristotelico-scolastico, rimesso in onore dal rifiorire della

filosofia tomistica dopo il concilio di Trento, e col metodo induttivo o, come allora si diceva, 'positivo', che

procede per osservazioni concrete su dei dati di fatto, inaugurato dai cultori delle scienze fisiche"15. Al

primo membro dell'alternanza si ascrive, naturalmente, l'ossatura del trattato, che serra nelle maglie di

un'indagine aristotelicamente condotta per causas tutta una serie di induzioni che, zampillando

dall'imponente accumulo di materiale esemplificativo, mettono continuamente in crisi la petizione

metodologica di partenza, non dichiarata ma presupposta. La contraddizione esiste anche laddove il metodo

- quello per trovar la Diffinizione della Perfettissima Impresa (pp. 628-36) - è posto a tema: si tratterà di

investigare l'"etimologia" del nome, poi di esaminare qualche impresa universalmente apprezzata, infine di

discutere i pareri comuni degli esperti per finalmente confrontare le singole imprese con la definizione così

ottenuta. All'interno di questa ossatura rigidamente deduttiva si insinua tuttavia una dichiarazione nella

quale il Tesauro pare rivendicare - naturalmente coonestandolo con il ricorso all'immancabile Aristotele -

l'uso di quello che allora si stava proclamando metodo scientifico, accoppiante induzione e deduzione:

"Laonde, sicome il nostro Autore dalle Perfezioni dell'Edippo di Sofocle investigò la Diffinizione della

Tragedia Ideale: e dalla Diffinizione ritornò con un regresso dimostrativo, a discoprir le imperfezioni del

medesimo Edippo; così noi ci serviremo delle prerogative di questa Impresa per investigar la Diffinizione

della Perfettissima Idea, riserbandoci di ritornarne all'ultimo, con la luce del discorso, a riconoscere, se in lei

si ritrovi alcun difetto" (p. 634)16. Rispetto ad un analogo passo della giovanile Idea delle perfette

imprese17 - che, come è noto, può essere considerata il brogliaccio di questo quindicesimo capitolo del

Cannocchiale aristotelico - si riscontra una maggiore enfasi: ma né in un caso né nell'altro queste

dichiarazioni ormai al limite della consapevolezza teorica trovano riscontro nell'impostazione dell'opera.

Essa continua così ad esibire, perfino nelle parti periferiche, la sua irrimediabile bipolarità, del resto

operante anche in settori assai più vasti, coincidenti con l'opera intera: basti pensare alla compresenza, già

notata dal Pozzi, di materiale "lirico, fantastico" e di una "lingua puramente espositiva"18 che, del resto,

rientra nella più generale irresoluzione tra teoria e letteratura; o all'incertezza sull'argomento stesso del

trattato, come ora vedremo meglio.

Il cannocchiale aristotelico è opera, come si sa e come recita il frontespizio19, dedicata all'"arguta ed

ingeniosa elocuzione", cioè intesa a ricercare le fonti e il segreto dell'argutezza: ne costituisce perentoria

dimostrazione, tanto per cominciare, l'intelaiatura del trattato, che, dopo un capitolo introduttivo

Dell'argutezza e dei suoi parti in generale (che vanta il titolo graficamente più maestoso, a sottolineare la

preminenza dell'argomento), si articola nella ricerca delle Cagioni Instrumentali (capitolo II), Efficienti (III),

7

Formali (IV), Finale e Materiale (X) dell'argutezza appunto; e il filo rosso della straripante esemplificazione

di arguzie di vario tipo e genere contribuisce alla compattezza del testo. Tuttavia, la messa a tema, anche

enfatizzata, di questo argomento, è contestata dall'apparizione, in lacerti ampi e non marginali del trattato, di

altri due protagonisti, la metafora e l'impresa, che tendono non tanto a sostituirsi all'arguzia quanto ad

accamparsi accanto e alla pari con essa, incrinando così irrimediabilmente la pretesa dell'opera di proporsi

come una struttura monocentrica.

La metafora rappresenta senza dubbio il polo alternativo più evidente in questa oscillazione teorica, tanto è

vero che una parte non insignificante della tradizione critica sul Cannocchiale aristotelico tende a

trasformare in un trattato sulla regina dei tropi un'opera invece esplicitamente consacrata all'esame

dell'argutezza. Lo spostamento di interessi è stato senz'altro influenzato dalla sempre risorgente attrazione

critica esercitata dalla metafora, ma ha trovato alimento nell'opera stessa del Tesauro. Assai più del pur

cospicuo numero di pagine dedicate alla metafora, contano le oscillazioni definitorie che la intrecciano

all'argutezza in un alternante rapporto di genere a specie (ad esempio, a p. 4 si arguisce che metafora è

iponimno di argutezza: "il nostro Autore, lodando l'arguta Metafora con cui da Euripide fu abellito un Verso

di Eschilo; chiamò tutto il genere delle Argutezze, COSMON, e COSMIOTIN" ; mentre altrove il rapporto

si rovescia: "la Metafora, e conseguentemente l'Argutezza, e tutti i simboli, son parti e parte della Poesia": p.

115) o, per usare l'immaginosa terminologia tesauriana, di madre a figlio e viceversa (la metafora è "prole

dell'Argutezza" [p. 9], "vera figliuola dell'ARGUTEZZA" [p. 235], per poi divenire altrove "gran Madre di

ogni ARGUTEZZA" [p. 279], "feconda genitrice [...] d'innumerabili Argutezze" [p. 116]). Tra le due entità

sembra dunque instaurarsi un gioco di rimandi reciproci che non riesce ad approdare ad una

sovrapposizione20, nemmeno quando si tocca o si sfiora l'identità lessicale: infatti, se la tripartizione delle

metafore in "metafore semplici", "proposizioni metaforiche" e "argomenti metaforici" (p. 279) ripete quella

proposta in apertura per le argutezze, divise in "Simplici Parole Ingegnose", "Proposizioni Ingegnose" e

"Argomenti Ingegnosi" (p. 8), va subito precisato che il ricalco punto per punto è improponibile: manca

infatti un esame dei primi due gradini dell'argutezza ed anche prata rident "Argutezza intera non è, ma

simplice Metafora" (p. 116). Perfino laddove pare di sorprendere una coincidenza, vale a dire alla sommità

delle scale metaforica ed arguta, il Tesauro non risolve uno dei due concetti nell'altro, me ne introduce un

terzo, l'"entimema urbano" o "concetto arguto" (p. 487)21.

L'irresoluzione presente a livello concettuale si riverbera, come è ovvio, sul disegno complessivo

dell'opera, dal quale la metafora tende irresistibilmente ad esorbitare. L'ampiezza dello spazio ad essa

dedicato (da p. 266 a p. 500, vale a dire quasi un terzo dell'intero trattato) costituisce una spia

dell'impossibilità di mantenerla nella casella inizialmente assegnatale, che era quella di una - e sia pure la

più alta (p. 266) - delle figure ingegnose (che, ricordo, assieme alle armoniche e alle patetiche articolano,

secondo il Tesauro, l'intero campo retorico). Infatti, la metafora allarga in realtà il proprio ambito di azione

fino a farlo coincidere pressoché interamente (si tratta solo di vincere la debole concorrenza, che è difficile

riportare all'ambito delle figure, delle parole "proprie" e di quelle "pellegrine": pp. 235 e 249) con quello

delle figure ingegnose, "a paragon delle quali tutte le altre Figure fin qui recitate perdono il pregio" (p. 266):

8

vale a dire con la zona di pertinenza dell'intelletto. L'allargamento e la sovrapposizione così operate

provocano il passaggio da una metafora "specie" ad una metafora "genere" (da metafora a Metafora), il che

porta seco due conseguenze: la prima è il passaggio della figura da una condizione subordinata ad una

prioritaria rispetto all'argutezza, con le già viste ripercussioni sull'organicità del trattato; la seconda è la

convivenza, nel Cannocchiale aristotelico, tra due concezioni di metafora: una "tecnica", più ristretta,

coincidente con la definizione tradizionalmente accettata; l'altra, invece, molto più ampia e generica, tesa ad

inglobare in sé non tutte le figure, come solitamente si dice, ma solo quelle, appunto, ingegnose. Basta una

semplice scorsa al Trattato della metafora per rendersi conto di questa seconda tendenza: la metafora

comprende non solo metonimia e sineddoche, ma anche anagrammi (letterali e numerici), rebus,

allitterazioni, paronomasie (pp. 365-96), antitesi di frase e di parole, ossimori, chiasmi (pp. 441-60) e così

via. Tuttavia, l'indubbia predominanza che assume ad un certo punto la "Metafora" non può farci

dimenticare la presenza della concezione antagonista, che anzi riaffiora nel corso dell'opera ogniqualvolta il

discorso si sposti sul versante teorico: l'abbiamo già vista sottesa alla definizione proposta dal Tesauro

("parola pellegrina, velocemente significante un obietto per mezzo di un altro": p. 302), ne riscontriamo la

validità almeno per i primi due tipi di metafore (proporzione e attribuzione: pp. 306 e 342) e la ritroviamo

ancora richiamata, ad esempio, in limine alla trattazione dell'impresa (la metafora consiste nel "Significare

una Cosa per mezzo di un'altra; e non per gli propri Termini": p. 636).

L'incertezza tesauriana tra l'una e l'altra concezione di metafora poteva trovare, ancora una volta, alimento

nel sacro testo aristotelico, nel quale infatti, come ha visto con chiarezza Paul Ricoeur, "lungi dal designare

una figura tra le altre, accanto alla sineddoche e alla metonimia, per esempio, come sarà nelle tassonomie

della successiva retorica, il termine metafora [...] s'applica a tutte le trasposizioni di termini. La sua analisi

prepara, così, una riflessione globale sulla figura come tale. Si può deplorare, per ragioni di chiarezza di

vocabolario, che il medesimo termine serva a designare ora il genere (il fenomeno di trasposizione, cioè la

figura come tale); ora la specie (quello che chiameremo, più avanti, tropo della somiglianza)"22. Ho fatto

ricorso alle parole di un contemporaneo per motivi di perspicuità immediata, ma l'esistenza in Aristotele di

due tipi di metafora era cosa ben nota anche nel Seicento, come si desume dal seguente passo dello Stigliani:

"Il qual rubamento di figure [...] fu da Aristotele espressamente proibito nel trattar della metafora, la quale

secondo lui le abbraccia tutte"23; e non sfuggì neppure al Tesauro, come traspare da queste righe: " Dico,

che quantunque apresso Aristotele io non trovi specialmente chiarita la Division di queste ingeniosissime

Figure Metaforiche; egli è perciò vero, ch'io ne trovo tutte le Specie, spartamente da lui raffigurate e ben

comprese" (p. 281). L'oscillazione concettuale è come sintetizzata nel fatto che il Trattato della metafora si

trasforma, nei titoli correnti, in Trattato delle figure metaforiche (pp. 266-7 e segg.); e, certo, rispetto al

modello il Tesauro enfatizza l'estensione di significato del termine metafora, forse perché la sua opera si

svolge soprattutto in margine a Retorica III 10, più che a Poetica 21. Ai fini del nostro discorso interessa

però rilevare come il trattato contrasti decisamente una tradizione (bastino due nomi agli opposti poli

cronologici: Quintiliano e Trissino) che assegnava alla metafora una ristretta e peculiare casella, delimitata

dai territori ricoperti dalle figure concorrenti , e che ne esaltava quindi la valenza specifica rispetto alla

9

generica; e la contrasti recuperando proprio la compresenza e l'oscillazione, già aristoteliche, tra i due

significati del termine24. Come in una sorta di mise en abyme viene così riprodotta, all'interno del polo

metaforico, quella indecisione strutturale tra metafora e argutezza che abbiamo visto costitutiva del trattato.

In un'opera che sembra aver fatto della decezione continuata25 una delle proprie cifre, non solo stilistiche,

il lettore che creda di poter finalmente riposare, sia pure su un'altalena perpetuamente oscillante tra la

metafora e l'argutezza, inciampa in realtà nell'impresa. Essa è introdotta dal Tesauro, tramite un sillogismo

che non riesce ad evitare il sospetto di pretestuosità, quando, dopo aver esaurito la trattazione delle

argutezze "lapidarie" (cioè, verbali), l'autore passa ad esaminare quelle "simboliche" (cioè, in oggetti e

azioni: insomma, non verbali): ma poiché non è possibile "dare un perfetto fine a quest'Arte Simbolica: se di

tutte le Specie de' Simboli partitamente non ti ragiono", e poiché l'impresa è "il più Nobile, il più Eroico, il

più Ingenioso et Arguto di tutti li Simboli" (p. 623), ecco che ad essa viene dedicato un intero capitolo,

parecchio più lungo dell'operetta giovanile (cioè la più volte citata Idea delle perfette imprese) di cui, a detta

del trattatista, dovrebbe invece costituire "un brieve compendio" (p. 628). Così costretta, sia pure piuttosto

artatamente, a specie del genere argutezza (simbolica) e ghettizzata in un capitolo apposito, il quindicesimo,

l'impresa non incrinerebbe il primato dell'arguzia, se non fosse che essa ricompare frequentemente ed

insistentemente lungo tutta l'opera, fino ad ergersene, in alcuni luoghi, a protagonista. Privilegiato settore di

emersione di questa tendenza è il capitolo secondo (Cagioni instrumentali delle Argutezze oratorie,

simboliche, e lapidarie), che non solo presenta un nutrito elenco di imprese antiche e moderne, ma anche

allinea lacerti testuali che fanno dell'impresa l'oggetto della trattazione e, inoltre, la parificano all'arguzia:

"in sei maniere adunque si può significare una Impresa, e qualunque detto arguto e figurato" (p. 16); "in

questa maniera di significare una cosa per altra, s'accoglie (come vedremo) tutto l'acume delle Imprese, e di

tutte le Arguzie" (p. 17); "non richiedendosi minor sagacità nell'esporre, che nel comporre una Impresa

arguta et ingegnosa" (p. 17)26. Alle indicazioni offerte dal testo si aggiunga l'incongruenza dell'illustrazione

in antiporta27, la quale, lungi dall'emblematizzare, come dovrebbe, l'intera opera, si attaglia invece

perfettamente al solo trattato delle imprese: infatti, il cannocchiale sorretto da Aristotele e puntato dalla

Poesia verso un sole maculato non allude nè all'argutezza né tantomeno alla metafora, ma al fatto che, con

l'aiuto della definizione della perfetta impresa, sarà possibile rintracciare difetti perfino nella famosissima e

celebratissima impresa di Luigi XII28.

E' molto probabile che la remota origine di queste oscillazioni, riguardo al fine dell'opera, tra argutezza e

impresa, vada addebitata alla genesi del Cannocchiale aristotelico, così come la descrive il Tesauro a p. 329

e come ora cerco di schematizzare: 1) il Tesauro compone un trattato latino (che non pubblica e che non ci è

pervenuto) sull'arguzia30; 2) anni dopo si accinge a darne alle stampe, in italiano, la sola parte dedicata alle

imprese; 3) ma è invitato, da "chi è Signor del suo volere", a trattare le arti simboliche e lapidarie, che

comprendono tutte le argutezze; 4) di conseguenza, recupera alcune notizie da quella sua opera latina e

stende finalmente il Cannocchiale aristotelico. Se la ricostruzione è esatta, l'oscillazione tra il teleologismo

impresistico e quello arguto riflette il coagulo tra due opere nate con intenti diversi; ma ciò che ora più

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preme sottolineare è che, qualunque sia la causa di questo andirivieni, bisogna a mio parere resistere alla

tentazione di comporlo in una superiore sintesi o di ignorarlo, risultando esso costitutivo della natura stessa

dell'opera. E il Tesauro pare proprio aver puntato, come farà poi con la Filosofia morale31, sulla possibilità

di una duplice (o anche molteplice) lettura, che muta il significato del testo al mutare del punto di vista da

cui è traguardato. Nel caso di quel "libro aperto" che è il Cannocchiale aristotelico 32, l'autore sfrutta

l'ambivalenza tra impresa e metafora mutando etichetta ad un contenuto - o, per dirla con termini che

richiamano una caratteristica barocca segnalata dal Rousset e valida anche in questo caso, facciata ad un

interno - che da una stampa all'altra resta sostanzialmente identico (l'aggiunta dei due trattati dei concetti

predicabili e degli emblemi, pur importante, non riguarda il nostro discorso) e focalizzando quindi

l'attenzione del lettore ora su un argomento ora sull'altro: infatti, il Cannocchiale aristotelico, che nella

prima edizione recava come sottotitolo Idea delle Argutezze Eroiche Volgarmente chiamate Imprese e di

tutta l'Arte Simbolica e Lapidaria, diviene, a partire dalla impressione veneziana del 1663, Idea dell'arguta

ed ingeniosa elocuzione, che serve a tutta l'Arte Oratoria, Lapidaria e Simbolica33. Non solo: nell'apologia

L'Italia vindicata, nata come risposta alle accuse mosse da Pierre La Moyne nel De l'Art des Devises, del

1666, e databile allo stesso anno (cioè ben dopo il mutamento di sottotitolo), il Cannocchiale è ancora

ricordato come "arte delle imprese"34, a riprova di una sostanziale, non accidentale, ambiguità.

E' estremamente interessante notare che le alternanze che abbiamo fino ad ora rintracciate investono tutte

due poli e non più di due: perfino l'oscillazione tra metafora, argutezza e impresa non va letta come una

relazione triangolare, ma come un doppio rapporto binario, da una parte tra metafora e argutezza, dall'altra

tra argutezza e impresa. Si tratta di una constatazione che può forse avvicinarci alla reale natura dei fatti fin

qui censiti, che vengono normalmente, e non senza impazienza, rubricati come contraddizioni. Il Friedrich,

ad esempio, dopo averne incontrata un'ennesima, esclama: "Ma che cosa significano per lui [Tesauro] le

contraddizioni!"35. Interviene opportuna, a questo punto, una ammonizione dell'Anceschi, sorta in margine

all'esame del pensiero del Campanella ma dalla portata più generale: "Non si parli, qui, di contraddizioni. In

questo caso, il rilievo della contraddizione come errore che svaluta la ricerca non giova: ci lascia vittoriosi

di un testo di una vittoria solo apparente e priva di bottino, e la verità, il senso profondo, ci sfugge"36. Se il

caso del filosofo calabrese si risolve accertando e accettando la "multipolarità" del suo pensiero, per quanto

riguarda il Tesauro occorrerà ricordare che nel Cannocchiale Aristotelico, come hanno visto in particolare il

Conte e il Raimondi37, è alla retorica (o alla metafora nella sua accezione più estensiva, che con essa

retorica tende a coincidere) che viene assegnato il ruolo di modello interpretativo di tutto il reale: di

conseguenza, le innumeri "contraddizioni" che attraversano il trattato vanno ridotte alla loro controfigura

retorica, vale a dire l'antitesi, della quale tendono infatti ad assumere forma e caratteristiche, prima tra tutte

lo statuto bimembre38.

Non credo sia il caso, ora, di elencare tutte le contraddizioni presenti nel Cannocchiale aristotelico, nè di

mostrarne la reale natura retorica di antitesi: mi limito perciò a segnalare un fatto significativo della

tendenza del Tesauro ad accostare elementi contrapposti nell'evidente tentativo di eliminare con ciò stesso la

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tensione concettuale che li divarica ed oppone. E che può anche derivare da una lunga trafila di discussioni,

come è il caso del rapporto tra delectare e docere: il Tesauro, giusta la tendenza barocca, messa in luce dal

Morpurgo-Tagliabue, a risolvere i dualismi delle epoche precedenti in soluzioni allo stesso tempo unitarie

ed artificiose39, trattando, in un citatissimo passo, delle caratteristiche della metafora accosta

aproblematicamente, come si vede anche dalla successiva disamina dei termini, il "gioviale" e il "giovevole"

(p. 266), ignorando con sovrana noncuranza il fardello teorico legato a questi due concetti: come se in realtà

il problema consistesse nel sostituire all'utile e al dilettevole due lessemi legati dalla paronomasia: la quasi

identità fonica prevarica sulla diversità di significato e costituisce insieme avvio e traguardo alla (fallace)

risoluzione del dilemma.

Questa "intima retorica disposizione all'antitesi" è emblematizzata, come hanno segnalato in parecchi, fin

dal titolo: la giuntura Cannocchiale aristotelico è in effetti già un'antitesi, "sul punto di diventare

ossimoro"40, tra "la più esaltante e significativa invenzione della scienza all'inizio del XVII secolo" e

quell'Aristotele "nel quale la moderna scienza vide il suo massimo antagonista"41. La presenza sulla soglia

di questo segnale costituisce evidentemente una precisa indicazione dell'importanza dell'antitesi nell'opera, a

livello sia di teoresi sia di scrittura (la precisazione dovrebbe essere inutile, visto che l'osmosi, sia pure

discontinua, tra teoria e prassi, è una delle peculiarità del Cannocchiale aristotelico; ma il focalizzarsi degli

interessi critici sul contenuto concettuale dell'opera, con la vigorosa ma solitaria eccezione di un articolo del

Pozzi42, restituisce attualità al richiamo). Infatti, il Tesauro insiste ripetutamente sul ruolo della "metafora

di opposizione", con una enfasi che non pare riducibile senza scarti al consueto registro elogiativo: essa è la

fonte del mirabile (p. 442) e "per sé sola basta a dar lumi al continuato discorso" (p. 441), tanto è vero che

"nelle Poesie italiane, molti Versi paion plausibilissimi per questa sola Figura; che per il Concetto (se

attento il consideri) son dissipiti, e sciocchi" (p. 445)43; e ne è attirato fino al punto da tradurre in latino il

sonetto petrarchesco Pace non trovo e non ho da far guerra44.

Al di là delle ovvie motivazioni di gusto, personale e del secolo, la predilezione tesauriana (e secentesca)

per l'antitesi si appoggia ad una importante affermazione di Aristotele, che pone la figura allo stesso livello

della metafora e del vigore; e che, poche righe sopra, individua la ragione del successo degli entimemi nella

presenza di metafore per quanto concerne il contenuto e nella maniera antitetica per ciò che riguarda

l'espressione (Retorica III 10 1410b 10-35). Da questo brano derivano, secondo il Morpurgo Tagliabue, le

due correnti nelle quali si articola l'intero barocco europeo: il marinismo italiano, il preziosismo francese, il

cultismo, l'eufuismo sarebbero caratterizzati dal prevalere, nell'entimema (o concetto) del momento

metaforico, i tragici spagnoli e francesi dalla predominanza dell'antitesi45. Lo studioso si serve del

Cannocchiale aristotelico in quanto metatesto e quindi lo utilizza, sulla scorta di una consolidata tradizione

che ne fa la controparte precettistica del marinismo, come sostegno critico del primo dei due rami

individuati. Ma nel trattato i segni di un'attenzione teorica (e, vedremo, di una frequentazione pratica)

dell'antitesi sono già numerosi ed incrinano, se non la validità della classificazione proposta dal Morpurgo

Tagliabue, almeno la collocazione in essa riservata al Tesauro. Il quale giustifica il ruolo particolare

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assegnato alle metafore di opposizione con un brano che val la pena di rileggere: " Passomi alla Metafora di

OPPOSIZIONE; riconosciuta sopra l'altre dal nostro Autore. Peroché la Contraposizione ha certa forza

entimematica; che, nonché appaghi, anzi violenta l'intendimento. Dove tu dei risovvenirti, che il

Contraposito ha duo riguardi: cioè, la proporzionata collocazione delle parole: e l'acuta significazion del

Concetto. Per l'uno ell'è figura Armonica: per l'altro, Ingegnosa: peroché le cose contrarie poste a confronto,

com'egli avvisa; più spiccano, e più risplendono nell'intelletto" (p. 292). Lo spunto iniziale è ancora fornito

dal passo di Retorica III 10 ricordato poc'anzi, ma poi il discorso slitta su un altro punto e su di esso si

sofferma, cioè l'appartenenza della metafora di opposito, unica tra tutte, a due diversi generi di figure,

l'armonico e l'ingegnoso46. Esse, come è noto, sono dedicate rispettivamente "a lusingare il Senso

dell'Udito, con l'armonica soavità della Periodo" e "a compiacer l'Intelletto con la Significazione ingegnosa"

e si dividono, insieme alle "Patetiche" (intese "a commuover l'Affetto con la Energia delle Forme vivaci"),

l'intero campo delle figure (p. 124). Ora, qui importa sottolineare che mentre le figure ingegnose rientrano

nell'ambito della elocutio, quelle armoniche, dipendenti come sono dalla "EQUALITA' delle Membra", dalla

"CONTRAPOSIZION de' Termini" e dalla "SIMIGLIANZA delle Consonanze" (p. 127) pertengono per

larga parte alla dispositio (tanto è vero che il Tesauro ne può dare una trascrizione spaziale nelle cosiddette

tavole metriche). Ne consegue innanzitutto che l'antitesi, operando a cavallo tra dispositio ed elocutio47,

può essere assunta a simbolo di una retorica non mutilata, cioè non ridotta al solo troncone elocutivo, come

vorrebbe invece l'opinione vulgata; in secondo luogo, stante l'equazione tra dispositio e docere da una parte

e elocutio e delectare dall'altra48 , l'antitesi si rivela capace se non esattamente di conciliare certo di

accogliere in sè i due fini tra i quali si dibatteva l'arte barocca, di riunire, insomma, in una figura retorica il

gioviale e il giovevole che il Tesauro si era già sentito in dovere di accostare trattando della metafora.

Queste potenzialità dell'antitesi spiegherebbero la diffusione e l'importanza della figura nella letteratura

barocca; al suo fascino non si sottrae neppure il Tesauro, che non si limita ad assegnarle un ruolo importante

nel proprio sistema teorico, ma anche la elegge a chiave di volta della propria retorica in atto, sia a livello

concettuale, come abbiamo visto, sia a livello stilistico, come ora vedremo. L'antitesi è, in effetti, una delle

figure più frequenti nella prosa tesauriana, dove può assumere varie modalità, che qui esemplifico

parcamente basandomi sulla classificazione del Lausberg49:

1. Antitesi di frase: tanto solamente è morto, quanto dall'Argutezza non è avvivato (p. 2); sognando

insegnano; e mentendo dicono vero (p. 29); insegnò ad altri ciò ch'egli non sapeva (p. 42); non sappia ciò

ch'ella insegna (p. 73); nulla è più artificioso che peccar contra l'arte: nulla più sensato che perdere il senno

(p. 95); se ti ama felice, non ti abbandona infelice (p. 88); per ridersi di color che ne ridono (p. 182); se

Roma soggiogò la Grecia col ferro: la Grecia ruinò Roma con le delizie (p. 254); Felice Apicella, che più

preziosa tomba ebbe in questi versi che nel suo elettro: peroché in quella gemma morì; in questi ella vive (p.

487); e come ambidue siano foschi, l'uno fa lume all'altro (p. 529).

2. Antitesi di gruppi di parole: nell'altra vita faranno una perpetua antitesi, lagiù i Dannati affitti a immortal

Morte: e cola sù i Beati inseparabilmente congiunti a Dio, senza vicende (p. 62); dall'orecchia sorda del

sasso, all'orecchia viva del Tiranno (p. 87); mentre questa udiva il Cielo irato; e quegli il vedeva sereno (p.

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88); onde splendidamente salirono, precipitosamente ricadono (ib.); non ne riporteresti laude d'imitatore, ma

biasimo d'involatore (p. 115-6); mettere immeritamente a catene la Prosa nata libera, come la Prosodia nata

schiava (p. 146); e quella vita che lor fu tolta in campo dalle spade, ricuperarono dagli scalpelli in una lapide

(p. 185); molti son belli nel passato, e laidi nel presente (p. 257); il qual ridicolo sentimento, partorì talvolta

non ridicoli risentimenti (p. 376); la scurrilità de' profani Teatri, e 'l decoro de' sacri Pergami (p. 503).

3. Antitesi di parole singole:

3.1. Coordinate: un chiaro Contrassegno, e una oscura Diffinizion (p. 4); fuggendo o fugando il nemico (p.

56); vecchia nella sostanza, e novella nella forma (p. 116); non più ritonda né però mozza: non metrica, né

senza metro: non ligata, né sciolta dalle poetiche leggi: senza verso, non senza ritmo (p. 126); sicome con la

stessa materia un concertato o sconcertato palagio: così co' medesimi piedi una sonora o dissonante Periodo

puoi tu comporre (p. 154); ambe restasser vinte e vincitrici (p. 188); o per troppa inavvertenza, o per troppa

avvertenza (ib.); morire il Latino, e nascere l'Italico idioma (p. 240); l'Ironia è Metafora di due faccie, che

par lodare, e biasima; concedere, e niega; ingrandire et appiccolisce; ammirare e dispregia; dire e disdice (p.

387-8).

3.2. Legate da diverso rapporto sintattico: le cose mute parlano, le insensate vivono, le morte risorgono (p.

2); co' suoi esempli; che son chiari lumi delle oscure teoriche (p. 16); e dagli Schiavi fur portate le Arti

Liberali (p. 52); la verità per sé amara [...] si raddolcisca (p. 59); quelle Menti immortali simbolicamente

ragionar co' Mortali (p. 66); il Verbo Divino, solo Oracolo della verità; impose eterno silenzio a molti

Oracoli mentitori (p. 67); contemplando il finto Figlio nel vero; trasse da quelle ossa morte tante vivezze (p.

90); per gola di più grande acquisto, perdono l'acquistato (p. 102); e di mezzo all'orror nasce il diletto (p.

157); con le morte consonanti fa risuonar le vive (p. 167); ogni cosa ha detto col suo tacere (p. 211);

ritornato ci paia di morte a vita (p. 233); trovò in quel Monte la caduta vicino alla salita (p. 241); pose ogni

diligenza nel parer di scrivere senza diligenza (p. 242); di Femine li fa

Mascoli (p. 250); trovando in cose dissimiglianti la simiglianza (p. 266).

3.3. Ossimoro: liberalmente scarsa (p. 28); copertamente scoperte (p. 60); immortal Morte (p. 62);

scioccamente sapiente (ib.); quel Reo innocente (p. 69); discordia concorde (p. 164); quella scomposizione

è composta (p. 18); quel disconserto è consertato (ib.); amata nimica, e odiata ospite (p. 241); seriamente

ridicolo (p. 295); l'oculato Cieco di Adria (p. 428); avaramente liberale (p. 429); in maniera sordidetta senza

sordidezza (p. 435); immodestamente modesti (p. 592); quel Re, non ancor Re (p. 655).

A volte, le antitesi si prolungano per parecchie righe: più che una scomposizione analitica, è utile in

questi casi uno sguardo d'insieme a qualche pezzo (avverto che essi compaiono soprattutto nel Trattato de'

Concetti predicabili):

"Li rotanti e rotati Globi de' Cieli, rapitori e rapiti: il Sole, core del Mondo: le inestinguibili faci delle

Stelle fisse e pellegrine; spettatrici e spettacolo de' Mortali: le stellate Imagini misuratrici delle Stagioni.

Augi et Apogei; seggia sovrana de' Pianeti negli error lor non erranti: l'Aura Eterea: le salubri e benigne

Influenze degli Asterismi, su i perni dell'uno e dell'altro Polo immobilmente moventisi: la Luna, fermaglio e

fibbia dell'un Mondo, e dell'altro. Gli Elementi inferiori, nel reciproco scambiamento loro immortalmente

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mortali: i Misti Corpi da loro, e di lor generati. La Sfera delle fiamme: l'Aereo tratto, palestra de' Venti, e

delle Nuvole: spirabili e spiranti Aure: Meteoriche Impressioni: Iride Paciera degli Aerei duelli: Zefiri padri,

e Rugiade nutrici de' Vegetabili", etc. (p. 155-6).

Il Tesauro mostra una predilezione particolare per quella forma speciale dell'antitesi che è il chiasmo,

particolarmente nella sua variante complicata (o antimetatesi):

4. Chiasmo (unifico il chiasmo piccolo e quello grande):

4.1. Chiasmo semplice: dividendo con Isocrate questa gloria; ch'egli seppe insegnare, non praticare: et

Isocrate praticare, non insegnare (p. 3); per far della terra un Cielo, scuota le Stelle di Cielo in terra (p. 73);

a' modesti Giudici saria paruta villania troppo immodesta (p. 123); quantunque la Prosa non abbia un

numero certo: ell'ha però un certo Numero (p. 145); nel presente son grati, ingrati nel passato (p. 257);

Forma immortale in mortal Corpo (p. 156); piccol Mondo, cui serve il Mondo grande (ib.); con la pietosa

voce ingannatrici spietate (p. 157); incominciarono i Grechi Schiavi ad insegnar la Lingua Latina a' Liberi

Latini (p. 238); piena sempre, e sempre vuota di abitatori (p. 241); con diletto maggiore un publico lutto (p.

428); Donnadragone, o Dragodonna (p. 515); ne' Concetti richiede maggior vivezza che l'Oratoria, e minor

che la Poesia: e nello stile un minor Metro che la Poesia; e maggior che l'Oratoria (p. 595); significando

pensieri nobili con ignobilissimi ordigni (p. 645).

4.2. Chiasmo complicato (antimetatesi) (non distinguo tra la variante sintattica e quella semantica): Sicome

le Metafore sono Imagini: così le Imagini son Metafore (p. 12); quasi o le Api dagli Uomini, o gli Uomini

dalle Api apprendessero il Melificio (p. 6); parole dipinte, over pitture parlanti (p. 18); scrivere parlando, e

parlar scrivendo (p. 23); Marito dell'adultera, adultero della Moglie (p. 21); le Parole son Cenni senza

movimento; e i Cenni son Parole senza romore (p. 24); favellasser tacendo, e tacessero favellando (p. 25);

per forza dell'arte, pareano i sassi cambiati in Donne: e per forza del Dolore, parean le Donne cambiate in

sassi (p. 33); imparavano a trastullar nella guerra, mentre che guerreggiavano ne' trastulli; (p. 56); Roma

dunque fia il capo di Toscana, e non Toscana di Roma (p. 72); sicome le Arguzie de' Poeti si chiaman fiori:

così i Fiori della Natura, si chiamano Arguzie (p. 73); io non so se allora il Sole si specchiasse in Augusto, o

Augusto nel Sole (p. 75); per ricrearmi co' vostri sollazzi; o per sollazzarvi con la mia morte (p. 84); fanno

incredulo chi non le vede; et a chi le vede, fan creder l'incredibile (p. 88); nel vero la favola, e la verità nel

fabuloso (ib.); con tanta vivezza delle Statue; e tanto stupor de' riguardanti; che i riguardanti paiono statue; e

le statue riguardanti (p. 89); il tesoro rubò il ladro, e non il ladro il tesoro (p. 92); rapirono le Muse in

Parnasso, anzi che dalle Muse fossero essi rapiti (p. 93); i Matti son di bellissimo ingegno: e gli 'ngegni più

sottili [...] son più proclivi ad ammattire (p. 93); l'Esercizio senza grande ingegno, che un grande Ingegno

senza esercizio (p. 96).

Limito alle prime cento pagine del trattato l'esemplificazione dell'antimetatesi poiché ritengo che il

materiale addotto da una parte sia sufficientemente rappresentativo delle casistiche elencate, dall'altra

convinca della intensità con la quale il Tesauro ricorre alla figura. Una simile insistenza - che si comunica,

per una sorta di osmosi, anche alla critica, la quale evidentemente trova nel chiasmo complesso un'efficace

modello caratterizzante, per (involontaria?) mimesi, l'oggetto della trattazione - richiede un tentativo di

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spiegazione che superi le consuete e logore lagnanze sulla facilità di costruzione e sulla sicurezza di effetto

della figura50. Mia opinione è che nel Cannocchiale aristotelico il ricorso ad essa si giustifichi all'interno

della più generale e onnicomprensiva impalcatura antitetica del trattato: infatti, l'antimetatesi è una sorta di

illimpidimento ed enfatizzazione dell'antitesi, una antitesi al quadrato, nel senso che essa funziona come

moltiplicatore di quel rapporto di opposizione semantica tra due entità linguistiche che dell'antitesi è la base.

Ciò è particolarmente evidente in quegli esempi (non a caso, più numerosi) in cui la coppia di partenza è già

antitetica o addirittura ossimorica - favellassero tacendo e tacessero favellando -; ma anche laddove non è

così si instaura inevitabilmente una opposizione non solo tra il primo e il secondo sintagma, ma anche, in

virtù dell'inversione (sintattica o semantica), tra l'uno e l'altro membro del binomio (e il ricorso al chiasmo

instaura anche un'antitesi di posizione): quasi o le Api dagli Uomini, o gli Uomini dalle Api apprendessero il

Melificio.

Insomma, per dirla con la formula usata dal Pozzi per sintetizzare il principio-guida dello schema narrativo

dell'Adone, "il corrispettivo di ogni cosa ne è anche l'opposto"51. E' così uscito dal cappello, come per un

gioco di prestigio, il poema che più di ogni altro viene evocato quando si parla del Cannocchiale aristotelico,

quasi che, nonostante il trentennio che li separa, quest'ultimo stia alla trattatistica come il primo alla poesia.

Non mancano ragioni per così dire esterne a giustificazione dell'accostamento, a partire dal notissimo elogio

che il Tesauro fa della "Sirena Marina"52, per continuare con le frequenti citazioni, anche solo biografico-

aneddotiche, di cui lo onora (pp. 173, 243, 245, 246-7, 272, 295, 307, 313, 314, 360, 366, 406, 412): esse

sono tanto più significative in un'opera parca di nomi contemporanei e rivelano una lettura attenta e

smaliziata, come laddove si individua nelle Dionisiache di Nonno una fonte del Marino53. L'accertamento

di questa predilezione del letterato torinese per il poeta napoletano viene a giustificare una persistente

tradizione che vede nel Marino l'inauguratore e il massimo esponente del concettismo o secentismo o,

appunto, marinismo, e nel Cannocchiale aristotelico la massima celebrazione - stampata un po' tardi , oltre la

metà del secolo, ma riportabile, secondo il Raimondi, al terzo decennio del Seicento54 - di questa poetica.

Ora che i primi sospetti del Pozzi sono stati confermati dalle esemplari analisi della Colombo e del Besomi,

che hanno ridotto il ruolo del Marino a quello semmai di raccoglitore, e più nell'Adone che nelle opere

precedenti, di una sorta di media del concettismo, mozza delle punte ad esempio di un Casoni o di un

Grillo55, si tratta di reimpostare il problema dei rapporti tra il trattato del Tesauro e il poema del Marino.

Reimpostarlo anche, se necessario, per negare l'esistenza di qualsiasi legame; certo, tanto per cominciare,

per revocare in dubbio la pertinenza della trattazione del "concetto" o "argutezza" o "metafora" che dir si

voglia quale punto di raccordo tra le due opere: da questo angolo visuale, il Cannocchiale aristotelico

sembra assai più adatto a giustificare l'enigmistica di un Casoni o ad annunziare l'estremistica ondata tardo-

barocca di un Frugoni o di un Lubrano.

Altro è il terreno sul quale bisogna muoversi: non quello prevalentemente dissodato - nei solchi tracciati

dal Croce, ma rimasti sostanzialmente sterili - della metaletteratura, ma quello, appena delimitato dal Pozzi,

della letteratura (o, per lo meno, della retorica), poiché si dimentica spesso che il vantaggio del

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Cannocchiale aristotelico rispetto ai trattati del Peregrini o della Sforza Pallavicino non è certo concettuale,

ma stilistico, come prova anche il fatto che, invariabilmente, siano citati quei passi in cui la riflessione

teorica si accompagna ad un innalzamento di tono della scrittura56. Si tratta, naturalmente, di valori letterari

diversi da quelli oggi in voga e, soprattutto, distribuiti nel testo ad intermittenza, con intervalli anche larghi:

ciò non toglie che il Cannocchiale aristotelico possa essere considerato opera di retorica almeno allo stesso

titolo per cui la si considera opera di metaretorica. Se ci si trasferisce su questo piano, le somiglianze con

l'Adone si infittiscono: e si tratta di concordanze di non poco conto, in quanto investono la struttura

dell'opera. Non può non colpire, ad esempio, il fatto che le accuse di sproporzione e di gigantismo mosse

dallo Stigliani al poema del Marino - "vastissimo gigante, ch'abbia in corpo una ossatura nana", "rana, che

cammina sui trampoli"57 - si attaglino perfettamente anche al trattato del Tesauro, le cui digressioni sui vari

argomenti, come abbiamo visto, esorbitano in continuazione dall'intelaiatura aristotelica che dovrebbe

garantirle: un po' come nell'Adone la favola dell'amore di Venere per il giovanetto cipriota è continuamente

messa in crisi da indugi descrittivi o da narrazioni secondarie. E ancora, per restare alle coincidenze più

macroscopiche, quella sorta di poema dopo il poema, o fuori dal poema, che è secondo il Pozzi il ventesimo

canto dell'Adone, pare corrispondere alla posticcia appendice degli ultimi quattro capitoli (XV-XVIII) del

trattato, apparentemente non previsti dal piano dell'opera (come ho già ricordato alla nota 25). Ma

soprattutto, come si è cercato di dimostrare, il Cannocchiale aristotelico si regge su una struttura antitetica -

esibita già nel titolo, così come L'Adone dichiara in limine il proprio "senso verace", identicamente

antitetico: "Smoderato piacer termina in doglia" - operante a tutti i livelli: da quello macrostrutturale

dell'impalcatura concettuale, dove il ricorso alla retorica come chiave interpretativa del reale consente di

trasformare le contraddizioni più spinose in più mansuete antitesi, a quello linguistico-stilistico, dove

l'antitesi, nelle sue varie forme, è tra le figure dominanti. Ed è assai interessante notare, a questo proposito,

che, benché le antitesi possano investire più di due membri (ad esempio con la regressio58), nel

Cannocchiale aristotelico questa modalità non si dia o sia comunque estremamente rara (non ne ho

rintracciato alcun esempio: ma il testo è troppo lungo perché mi senta di escludere una distrazione): in tutte

le sue occorrenze l'antitesi si conferma figura a due fuochi - che trova il proprio potenziamento ed

illimpidimento nell'antimetatesi - e il trattato tesauriano si conferma opera costruita sull'andirivieni tra un

polo e l'altro susseguente all'impossibilità (alla incapacità) della scelta. Che è poi la stessa caratterizzazione

dell'Adone offerta dalla splendida lettura del Pozzi, sfociante infine nel ricorso alla figura geometrica

dell'ellisse59: e se per il Marino valgono gli esempi figurativi del Bernini e del Borromini, come non

pensare per il Tesauro - pur non negando l'influsso di quei grandi precedenti - alle opere di cui il Guarino,

pochi anni dopo, ornerà la capitale dei Savoia60? Come referente ideologico della costruzione ellittica

elaborata dal Tesauro può benissimo valere quello addotto dal Pozzi per il Marino, cioè "l'irrisoluzione

dell'uomo seicentesco di fronte ai due modelli cosmici contraddittori, tolemaico e copernicano"61; o forse

meglio, generalizzando, tra il mondo vecchio e il mondo nuovo. E anche per la figura retorica che sta alla

base del Cannocchiale aristotelico possiamo richiamare in causa Giovan Battista Marino, a proposito del

17

quale i curatori delle Rime marittime si chiedono (ma è domanda retorica, ovviamente), quale sia il

"significato di questa disposizione rigorosamente simmetrica di elementi antitetici all'interno di un sistema

chiuso. Rivela la relatività delle cose? Mostra come siano cangianti e suscettibili di mutamenti estremi i fatti

della vita? Allude al piacere che si capovolge facilmente in dolore, e viceversa?"62. Tutto questo,

certamente: ma, nel Tesauro, spogliato dell'aspetto drammatico che, tutto sommato, conserva nel poeta

napoletano e spostato sul versante del compiaciuto gioco intellettuale. Con, in più, un aspetto che è

segnalato con chiarezza dal frequente ricorso all'antimetatesi: la coscienza del passaggio in atto da un mondo

ordinato gerarchicamente, un cosmos, ad un caos ingovernabile che si sottrae ad ogni tentativo assiologico,

in cui non resta che limitarsi ad accostare gli elementi antitetici senza né comporre il contrasto né scegliere

tra uno di essi: "così era già invilita la nobiltà, o nobilitata la viltà" (p. 577). La cosmologia aristotelico-

tolemaica è già caduta senza che quella copernicana abbia potuto prenderne il posto, almeno nella coscienza

comune63: se il punto di osservazione dell'universo da assoluto si è fatto relativo, non stupirà che le cose

mutino al cambiare di esso - "parendo verso ai prosatori, e prosa a' versificatori" (p. 126) - e nemmeno,

quindi, che il Cannocchiale aristotelico possa tematizzare indifferentemente l'argutezza o l'impresa solo

mutando sottotitolo o permanere nella sua costitutiva irresolutezza tra arguzia e metafora.

Dunque, la vulgata opinione della parentela tra il Cannocchiale aristotelico e l'Adone si dimostra fondata:

non però sul piano di una generica predilezione, là teorica, qui pratica, per l'arguzia o il concetto o la

metafora, bensì su quello di una vera e propria omologia tra le due opere. Ciò da una parte depone a favore

della lucidità di penetrazione dei meccanismi testuali posseduta dal Tesauro, dall'altra getta luce riflessa

sull'Adone, confermando che i segreti costruttivi di esso investono più il macrotesto che il microtesto, più la

dispositio che l'inventio o l'elocutio. Si legittima così, per questa inedita via, l'assunzione del Cannocchiale

aristotelico a paradigma della letteratura barocca: non tanto a motivo della riflessione teorica che esso

propone, come si è continuato a ritenere, quanto grazie alla struttura ad ellisse che la veicola; non per la

sostanza del contenuto, ma per la forma in cui il contenuto è versato: insomma, non grazie alle trovate

dell'inventio o ai fuochi d'artificio dell'elocutio, ma grazie ai mezzi della dispositio.

Le considerazioni ora esposte non sono prive di conseguenze in ordine sia al problema della datazione del

Cannocchiale aristotelico sia al fatto della sua straordinaria fortuna editoriale (almeno quattordici stampe tra

il 1654 e il 170264). Il Raimondi propone di retrodatare la genesi dell'opera al terzo decennio del secolo,

quando si incontrano, rafforzandosi a vicenda, il clima culturale del pieno marinismo e l'esperienza

biografica dell'insegnamento di retorica nelle scuole dei Gesuiti; e i raffronti testuali tra il Cannocchiale

aristotelico e i Panegirici sacri convincono senz'altro del fatto che il Tesauro avesse già da allora pronti sul

proprio scrittoio molti dei materiali poi travasati nell'opera maggiore. Ma una così acuta individuazione dei

segreti compositivi dell'Adone e la loro riproposta, simile nella diversità, nell'organismo del trattato, va ben

al di là di una semplice adesione da critico militante: si tratta di una operazione assai più complessa che non

la pressoché meccanica reimmissione in una nuova compagine testuale di brani già scritti o di argomenti già

esaminati e che mi sembra richiedere una meditazione ed un impegno molto più lunghi e diuturni di quelli

concessi al Tesauro in anni che lo videro quasi interamente assorbito prima dal servizio religioso nell'ordine

18

gesuita, poi da quello politico al principe Tommaso di Savoia Carignano, con l'appendice, al ritorno dalle

Fiandre e alla fine della guerra civile piemontese, della stesura e pubblicazione dei Campeggiamenti. Dal

1646 al 1654, silenzio, fino alla stampa appunto del Cannocchiale aristotelico: come non pensare, allora, che

il Tesauro si fosse assunto un impegno ben più gravoso della semplice rielaborazione di temi ed argomenti

affrontati trent'anni prima65? In realtà, tanto tempo non era passato invano: tornando alla proprie carte, il

Tesauro si distacca con un colpo d'ala dalla trattatistica contemporanea e concepisce un'opera che riproduca,

con i mezzi della retorica, le caratteristiche del barocco quali egli le aveva scoperte nell'opera più

rappresentativa della media di esso, l'Adone66. Di qui deriva la straordinaria fortuna del trattato nell'età

ad esso contemporanea e l'udienza che continua a ricevere nella nostra, che è stata recentemente definita

"neobarocca": con la propria struttura il Cannocchiale Aristotelico parlava agli uomini del Seicento nella

loro stessa lingua, fatta di contraddizioni tra vecchia e nuova scienza, tra la cosmologia tolemaica e quella

contemporanea, tra docere e delectare, tra tradizione e innovazione, tra antichi e moderni ... Insomma, tra il

vecchio mondo e il mondo nuovo recentemente scoperto, in un tempo in cui né l'uno né l'altro riuscivano a

prendere decisamente il sopravvento e ad imporre o reimporre i propri codici interpretativi. Dietro il velame

di un ennesimo trattato di retorica, apparentemente obsoleto, il Cannocchiale Aristotelico nasconde la

modernità del così seicentesco principio di irresoluzione tra due realtà contraddittorie, retoricamente

tradotto nell'antitesi.

Pierantonio Frare

19

NOTE

1) Le citazioni sono tratte da IL | CANNOCCHIALE | ARISTOTELICO | O sia Idea | DELL'ARGVTA ET

INGENIOSA ELOCVTIONE | Che serue à tutta l'Arte | ORATORIA, LAPIDARIA, ET SIMBOLICA |

Esaminata co' Principij | DEL DIVINO ARISTOTELE | Dal Conte e Caualier Gran Croce | D. EMANVELE

TESAVRO | PATRITIO TORINESE. | Quinta Impressione. IN TORINO, M.DC.LXX. | Per Bartolomeo

Zauatta. Con licenza de' Superiori. Titolo a parte, nella trascrizione distinguo u da v, elimino l'h

(pseudo)etimologica quando non abbia funzionalità diacritica e riconduco all'uso moderno gli accenti, gli

apostrofi (ma non le apocopi) e la divisione delle parole; trascrivo con e (et davanti a vocale) sia et sia &,

con -zi- o -ci- (a seconda dei casi) i nessi -ti-, -tti-, -ci- seguiti da vocale e con i la j . Riproduco invece

fedelmente la varietà di caratteri tipografici della stampa, cui il Tesauro pare aver affidato il raggiungimento

di particolari effetti visivi (cfr. Giovanni POZZI, La parola dipinta, Adelphi, Milano 1981, p. 157).

2) Debitamente citata dal Tesauro alla nota 125: "Translatio est nominis alieni illatio", con il rimando ad

Ar. Poet. c. 20 (21 nelle edizioni moderne; le citazioni in italiano da ARISTOTELE, Opere. 10. Retorica.

Poetica, tradotte rispettivamente da Armando Plebe e Manara Valgimigli, Laterza, Bari 1988 [19731]). Si

impone qui in tutta la sua urgenza il problema di stabilire quale testo aristotelico abbia avuto tra le mani il

Tesauro. Al Friedrich spetta la presa di posizione più recisa che io conosca: egli nota che le citazioni in

margine "concordano quasi completamente con l'edizione latina di Aristotele con commento del gesuita

Sylvestris Maurus. Questa, a dire il vero, fu pubblicata a Roma solo nel 1688, ma si basa su parecchie

edizioni precedenti che si trovano nella lista di edizioni di Th. Buhle, Aristotilis Opera, I, 1791, pag. 231.

Una di esse deve essere abbastanza simile al testo del Maurus, come mostrano le citazioni del Tesauro.

Quale sia non è stato possibile stabilirlo. Il problema meritava comunque un'indagine, perché, come si

deduce anche dalle citazioni del Tesauro, la traduzione in latino che abbiamo ora preso in esame travisa

spesso in senso manieristico gli originali greci della Retorica e della Poetica. - Aggiunta 1973: In un nuovo

lavoro (G. BREITENBURGER, Die Rezeption des aristotelischen Begriffs der Metapher in den Poetiken

der italienischen Renaissance, Tesi di laurea, Freiburg 1971, p. 65) è stata avanzata l'ipotesi che il Tesauro

abbia letto la traduzione latina della Retorica aristotelica scritta da G. Trapezun [zio] (1523)" (Epoche della

lirica italiana. Il Seicento, Mursia, Milano 1976, p. 83n.; ed. orig. 1964).

"Una verifica" compiuta dal Della Terza "su campioni di traduzioni della Retorica che il Tesauro potrebbe

aver avuto sotto gli occhi: i Rhetoricorum Aristotelis libri tres interprete Hermolao Barbaro. Commentaria in

eosdem Danielis Barbari che sono del 1544 e M. Antonii Maioragii in tres Aristotelis libros de Arte

rhetorica che è del 1572 non ha dato risultati del tutto certi circa il testo o i testi latini che il Tesauro

privilegia nella sua discussione. Non è del tutto impossibile che egli mettesse del suo nelle traduzioni

abbozzate per il commento e si lasciasse volentieri trasportare dal suo senso e gusto della forma latina"

(Dante DELLA TERZA, Le metafore del Tesauro, in AA. VV., Simbolo, metafora, allegoria, a c. di

Gianfranco FOLENA, Liviana, Padova 1980, pp. 177-89, a p. 185; e in Forma e memoria. Saggi e ricerche

sulla tradizione letteraria da Dante a Vico, Bulzoni, Roma 1979, pp. 222-36).

20

Un aiuto alla ricerca dovrebbe venire dal fatto che il Tesauro adotta la moderna partizione in capitoli , sia

pure con qualche eccezione: ad esempio, le note 125, 128 e 148 rimandano a Poetica 20 anziché 21; la nota

141 a Retorica III 3 anziché III 2; la 131 e la 144 rispettivamente a Retorica II 29 e III 25, che contano l'uno

ventisei capitoli, l'altro diciannove (ho limitato la ricerca al capitolo Della metafora semplice e delle

specifiche sue differenze: pp. 280-305). Naturalmente, non si può escludere l'errore di stampa, anche se essi

sono molto rari, almeno nel testo.

3) Retorica III 10 1410b 9.

4) Ib. III 10 1410b 13.

5) Paul RICOEUR, La metafora viva, Jaca book, Milano 1981 (ed. orig. 1975), pp. 46-8.

6) Ezio RAIMONDI, La nuova scienza e la visione degli oggetti, "Lettere italiane", XXI, 3 (lug.-set.

1969), pp. 264-305; poi con il titolo Verso il realismo, in Il romanzo senza idillio. Saggio sui "Promessi

sposi", Einaudi, Torino 1985 (19741), pp. 3-56.

7) Nel trattato giovanile sulle imprese, il Tesauro censisce invece solo tre tipi di metafora: quelle che "da

equivocazione si traggono" (cioè, "quando per convenzione si prende un soggetto per l'altro o vero un

equivoco per l'altro"), quelle di attribuzione e infine quelle di somiglianza o proporzione, divise in metafora

da specie a specie e da genere a genere (Emanuele TESAURO, Idea delle perfette imprese esaminate

secondo gli principii di Aristotele, Testo inedito a c. di Maria Luisa DOGLIO, Olschki, Firenze 1975, pp.

50-5).

8) Si estende qui alla sfera concettuale quella declinazione secentesca dell'ut pictura poesis, basata sulla

comunanza dell'"immagine" alle due arti, che nella giurisdizione retorica aveva già beneficiato della

suggestiva applicazione delle "tavole metriche", dove viene espressamente postulata una corrispondenza

biunivoca tra le sfere sensoriali della vista e dell'udito: "Or da questi esemplari, e da queste tavole metriche,

puoi tu fare, accorto Leggitore, una novella e profittevole osservazione; che tutte le Periodi, le quali formano

la Tavola metrica più bella, e con più belle proporzioni dipinta in carta; sicome più appagano l'occhio a

vederle; così riescono all'orecchia più armoniose e gradite: servendo l'uno e l'altro senso al senso Commune;

e questi all'Animo, composto di proporzioni, e d'armonia. E per contrario, quanto la Tavola è più imbrogliata

al vedere; tanto più dura sarà la Periodo ad udire" (p. 200).

9) Poetica 21 1457b 8-10. Retorica III 10 1411a 1.

10) P. RICOEUR, La metafora viva, cit., analizza la parentela tra la concezione aristotelica di metafora e

quella di proverbio, iperbole ed enigma, motivando così non solo certe affermazioni dello Stagirita ("anche

le iperboli che hanno successo sono metafore": Retorica III 11 1413a 21), ma anche la istituzione, sulla base

di esse, di alcune delle metafore tesauriane (p. 37n.). Si veda anche il fondamentale Guido MORPURGO-

TAGLIABUE, Linguistica e retorica di Aristotele, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1967, pp. 287-98.

11) Rispetto a Poetica 21 1457b 8-10 c'è anche una inversione gerarchica, in quanto le metafore di

proporzione (da genere a genere e per analogia) prendono il primo posto a scapito di quelle di attribuzione

(da genere a specie e viceversa). Ciò si spiega con l'affermazione di Retorica III 10 1411a 1-2: "Dei quattro

tipi di metafora hanno successo soprattutto quelle che si svolgono secondo proporzione". Essa è all'origine

21

di una tradizione sbozzata dal Morpurgo-Tagliabue (Linguistica e stilistica cit., p. 267 e n.) e nella quale si

inserisce anche il Tesauro, sia nel caso appena esaminato sia quando afferma, ad esempio, che "La

Metafora di Proporzione, è più perfetta di qualunque altra Metafora" (p. 638).

12) A dire il vero, il Friedrich (Epoche della lirica italiana cit., p. 113) sostiene che "la dottrina sulle

metafore del Tesauro [...] segue la suddivisione tradizionale dei tipi-base metaforici in tre generi e otto

specie": ma né lo studioso cita fonti a sostegno né io ho trovato precedenti nella trattatistica. 13) Mario

ZANARDI, La metafora e la sua dinamica di significazione nel "Cannocchiale Aristotelico" di Emanuele

Tesauro, "Giornale storico della letteratura italiana", CLVII 499 (III trim. 1980), pp. 321-68, alle pp. 340-2.

14) Mi limito a due citazioni, una per ciascuna tendenza: il Tesauro è "plus aristotélicien que le mai^tre lui-

me^me" (Pierre LAURENS, "Ars ingenii": la théorie de la pointe au dix-septième siècle (Baltasar Gracián,

Emmanuele Tesauro), "La licorne", 3 (1979), pp. 185-213, a p. 207); all'opposto, Helmut HATZFELD,

parlando di Gracián, sostiene che egli "does not need, like Tesauro, more or less spurious passages from

Aristotle's Rhetorics and Poetics to bolster up his non-Aristotelianism by marginal references to Aristotle"

(Three National Deformations of Aristotle: Tesauro, Gracián, Boileau, "Studi secenteschi", II [1961], pp. 3-

21, a p. 4).

15) Giovanni POZZI, Note prelusive allo stile del Cannocchiale Aristotelico, "Paragone", IV 46 (ottobre

1953), pp. 25-39, alle pp. 29-30.

16) Al passo citato si può affiancare il seguente: "Poiché dunque con l'esempio dell'Istrice del re Luigi, e

con le Regole di Aristotele, abbiamo stabilita la Diffinizion della Perfettissima Impresa: restaci per

chiudimento, di esaminar con l'istessa Diffinizione, le Imperfezioni delle più celebrate Imprese di

grandissimi personaggi; anzi dell'Istrice stesso" (p. 685).

17) E. TESAURO, Idea delle perfette imprese cit., p. 38.

18) G. POZZI, Note prelusive cit., p. 3.

19) Ma solo a partire dalla stampa del 1663: il fatto sarà discusso più avanti.

20) Giuseppe CONTE, La metafora barocca. Saggio sulle poetiche del Seicento, Mursia, Milano 1972, che

meglio di tutti ha notato l'oscillazione, ha anche ritenuto di comporla identificando tra loro metafora ed

argutezza (pp. 143-56): ma il tentativo approda ad una serie di affermazioni tutte vere ma nessuna, mi pare,

valida per l'intero trattato. Deve essersene accorto anche il Conte, che ricorre spesso a distinguo e

precisazioni ("argutezza e Metafora tendono a coincidere: però l'argutezza nomina preferibilmente non

operazioni ma esiti": p. 144; "In ogni caso, [se] nel concetto di artificio i due concetti coincidono e mostrano

poi via via la loro intima parentela, non pertanto rinunciano ad una loro autonomia": p. 152) tanto inevitabili

quanto cogenti a ricercare ad altri livelli la soluzione dell'aporia.

21) O anche, prodotto di una proliferazione sinonimica al cui fascino il Tesauro non riesce a sottrarsi,

"argutezza perfetta": ma il ricorso all'aggettivo detecnicizza il sostantivo, trasferendolo in una sfera

semantica che non è più quella in cui si muoveva in precedenza.

22) P. RICOEUR, La metafora viva, cit., pp. 20-1.

23) Tommaso STIGLIANI, Dello Occhiale, Carampello, Venezia 1627, p. 86.

22

24) P. LAURENS, "Ars ingenii": la théorie de la pointe cit., p. 185: "le titre meme de l'ouvrage de Tesauro

indique qu'au-delà de Quintilien et de Cicéron, c'est à Aristote principalement que la spéculation moderne

entend se rattacher".

25) Bastino due soli esempi, operanti il primo a livello di organizzazione macrotestuale, il secondo su

un'estensione assai più ridotta. Giunto alle soglie del quattordicesimo capitolo, il Tesauro lo indica

chiaramente come "ultimo" (p. 610): ma ad esso ne seguiranno, a sorpresa, altri quattro. Allo stesso modo,

dopo aver dichiarato che l'impresa migliore è quella fondata sulla metafora di proporzione (p. 637), precisa

"che se alla Impresa di PROPORZIONE si aggiugne quella di ATTRIBUZIONE, tanto sarà più arguta" (p.

638) ed ancor più se ad esse si somma l'ipotiposi, come veniamo a sapere a p. 639.

26) E si vedano anche le pagine 27, 29, 30, 42, 43, 50, 51.

27) Descritta e discussa da Mario RIGONI, Il Cannocchiale e l'idea, "Comunità", XXXII, 179 (apr. 1978),

pp. 337-52.

28) Cfr. Il cannocchiale aristotelico, pp. 634 e 685: " Poiché dunque con l'esempio dell'Istrice del Re Luigi,

e con le Regole di Aristotele, abbiamo stabilita la Diffinizione della Perfettissima Impresa: restaci per

chiudimento, di esaminar con l'istessa Diffinizione le Imperfezioni delle più celebrate Imprese di

grandissimi Personaggi; anzi dell'Istrice stesso. Che sarà un discoprir col CANNOCCHIALE

ARISTOTELICO le macchie nel Sole" (p. 685). Si noti che qui si registra, salvo errore, la prima ed unica

apparizione del sintagma eponimo dell'opera.

29) Si apre qui l'intricato contenzioso relativo alla credibilità da attribuire alle dichiarazioni del Tesauro,

anche se, in effetti, il paziente lavoro di scavo della Doglio, che ha portato, a tacer d'altro, al ritrovamento

dell'Idea della perfette imprese "rende piuttosto veridico il sospetto che il Tesauro fosse piuttosto cattivo

massaio dei propri scritti" (D. DELLA TERZA, Le metafore del Tesauro, cit., p. 183) e quindi induce ad

accreditarlo della reale stesura delle opere annunciate.

30) E che Mario ZANARDI, Sulla genesi del "Cannocchiale aristotelico" di Emanuele Tesauro, "Studi

secenteschi", XXIII (1982), pp. 3-61 (a p. 11) e XXIV (1983), pp. 3-50, ritiene primo nucleo dell'opera

maggiore.

31) Cfr. Denise ARICO', Il Tesauro in Europa. Studi sulle traduzioni della Filosofia morale, CLUEB,

Bologna 1987: "Nel breve spazio di un anno, tuttavia, il testo si presentò con un volto assolutamente nuovo

[...]; e, a ben guardare, lo scrittore stesso sembra aver controllato questa polivalenza strutturale, ridefinendo

di continuo la propria immagine nei confronti dell'opera e quella dell'opera verso l'epoca stessa" (p. 9); e

vedi anche le pp. 32 e 113.

32) "Se tu volessi fabricare una Impresa sopra questo Libro, potrestù pingere apunto un Libro aperto, che

ad altri insegna quel ch'ei non sa" (Cannocchiale Aristotelico, p. 74O): suggerisce una omologazione del

sintagma al notissimo "opera aperta" la Doglio in E. TESAURO, Idea delle perfette imprese cit., p. 6.

33) Dove andrà notata anche l'introduzione dell'Oratoria e soprattutto, per quanto ci riguarda, l'inversione

tra arte simbolica e arte lapidaria, certo conseguenza del declassamento dell'impresa, dal 1663 in poi, a

comprimaria, ma riflettente, comunque, il fatto che anch'esse, nel testo, sono alternativamente assunte come

23

argomento principale della trattazione, senza che l'irresolutezza venga sciolta in modo definitivo a favore

dell'una o dell'altra. La differenza di titolazione è notata anche da Mario ZANARDI, Vita ed esperienza di

Emanuele Tesauro nella Compagnia di Gesù, "Archivum Historicum Societatis Jesu", XLVIII, 83 (ian.-iun.

1978), pp. 3-96, a p. 41n., che successivamente (Sulla genesi del "Canocchiale aristotelico" cit., I, p. 10) la

spiega come un recupero della "componente teorica generale dell'opera" rispetto ad una iniziale insistenza

sulle imprese nella loro qualità di "principale applicazione della teoria dell'argutezza". 34) Cfr. Maria Luisa

DOGLIO, Una "apologia" inedita di Emanuele Tesauro: "L'Italia vindicata", "Lettere italiane", XXIX 1

(gen.-mar. 1977), pp. 59-69, a p. 67.

35) H. FRIEDRICH, Epoche della lirica italiana cit., p. 125n.

36) Luciano ANCESCHI, Le poetiche del Barocco letterario in Europa, in AA. VV., Momenti e problemi

di storia dell'estetica, Marzorati, Milano 1958, pp. 435-546, a p. 485.

37) Ezio RAIMONDI, Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Ristampa aggiornata, Olschki,

Firenze 1982 (in particolare Introduzione 1981. Dalla metafora alla teoria della letteratura, pp. V-LXXV);

G. CONTE, La metafora barocca, cit.

38) Sul significato dell'antitesi nella poesia del Seicento, ed in quella del Marino in particolare, è d'obbligo

il rinvio a Carlo CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta. Barocco e antibarocco nella poesia italiana,

Mondadori, Milano 1940, pp. 54-7.

39) Guido MORPURGO TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, in AA. VV., Retorica e barocco. Atti del

III Congresso internazionale di studi umanistici (Venezia, 15-18 giugno 1954), a c. di Enrico CASTELLI,

Bocca, Roma 1955, pp. 119-95, a p. 193.

40) Giuseppe CONTE, Retorica e logica nell'estetica barocca, "Sigma", VII, 25 (mar. 1970), pp. 54-71, a p.

54; vedi anche E. RAIMONDI, Introduzione 1981 cit. e Andrea BATTISTINI, I manuali di retorica dei

Gesuiti, in AA. VV., La "ratio studiorum". Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra

Cinque e Seicento, a c. di Gian Paolo BRIZZI, Bulzoni, Roma 1981, pp. 77-120, a p. 105. Si noti che pure il

titolo dell'opera di Gracián nasconde un ossimoro, come ha visto acutamente il LAURENS, "Ars ingenii": la

théorie de la pointe cit., p. 194): "'Arte de ingenio': le titre à lui seul est prodige, puisqu'il unit, dans ce

monstre linguistique qu'est l'oxymore ou le thauma, le deux concepts réputés antagonistes de l'ars e de

l'ingenium". 41) August BUCK, Emanuele Tesauro e la teoria del barocco nella letteratura, "Ausonia",

XXVIII 3-4 (mag.-ago. 1973), pp. 9-25, a p. 19 (si tratta della traduzione italiana, a c. di Salvatore

PERSICHINO, della introduzione alla ristampa in facsimile dell'edizione torinese 1670 del Cannocchiale

Aristotelico, a cura di August BUCK, presso l'editore Gehlen, Bad Homburg v. d. H. - Berlin - Zürich 1968).

42) Giovanni POZZI, Note prelusive allo stile cit.

43) E vedi anche le pp. 205, 619, 668-9. Sul "mirabile" vertono le pagine dedicate al Tesauro da Alberto

ASOR ROSA, La lirica del Seicento, Laterza, Bari 1979, pp. 92-7.

44) Cannocchiale Aristotelico, p. 456, dove l'incipit suona Pace non trovo, e non so chi fa guerra. Ha

discusso da par suo questa traduzione Ezio RAIMONDI, Un esercizio petrarchesco di Emanuele Tesauro, in

Letteratura barocca cit., pp. 77-94. Come è prevedibile, il sonetto (Rerum vulgarium fragmenta, CXXXIV) è

24

uno dei testi su cui poggia la fortuna del Petrarca nel Seicento: lo troviamo anche nella Topica poetica di G.

A. GILIO, proprio come esempio al lemma Antitheton (citato da Carlo OSSOLA, Apoteosi ed ossimoro.

Retorica della "traslazione" e retorica dell'"unione" nel viaggio mistico a Dio: testi italiani dei secoli XVI-

XVII, "Rivista di storia e letteratura religiosa", XII (1977), 1, pp. 47-103: p. 96; anche in AA. VV., Mistica e

retorica, a c. di F. BOLGIANI, Olschki, Firenze 1977).

45) G. MORPURGO TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, cit., p. 185. 46) Come era già stato

anticipato a p. 130: "Ma questa Figura [l'antitesi], perché partecipa di due Generi: cioè ARMONICO, et

INGEGNOSO: ad altro agio tornerà a filo".

47) Vedi anche Heinrich LAUSBERG, Elementi di retorica, il Mulino, Bologna 1968 (ed. orig. 1949),

almeno per il chiasmo (il quale però è uno dei mezzi di intensificazione semantica dell'antitesi: p. 213): esso

appartiene all'ordo artificialis, elemento della dispositio interna (pp. 41-5) ed è un mezzo della dispositio che

esprime l'antitesi.

48) G. MORPURGO TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, cit., p. 127. Il rapporto stabilito dallo

studioso tra parti della retorica e fini del discorso può essere ulteriormente esteso, seguendo le indicazioni

del Cannocchiale aristotelico, e sintetizzato nella seguente griglia:

Inventio movere affetti figure patetiche affetto Dispositio docere persuasione figure armoniche

senso Elocutio delectare elocuzione figure ingegnose intelletto. 49) H. LAUSBERG, Trattato di

retorica letteraria, cit., pp. 209-18.

50) Sull'antimetatesi si veda Augusta LOPEZ-BERNASOCCHI, Una forma particolare di artificio retorico:

l'antimetatesi, esemplificata sullo "Stato rustico" di Gian Vincenzo Imperiale, "Lettere italiane", XXXIV, 2

(apr.-giu. 1982), pp. 215-25, con bibliografia; ad essa si potrà opportunamente aggiungere Georg WEISE, Il

motivo stilistico dell'antitesi nell'arte e nella letteratura del manierismo e del barocco ("Atti e memorie

dell'Accademia toscana di Scienze e Lettere La Colombaria", XXXIX [1974], pp. 69-86 [più tavv. I-V], che

rintraccia l'antimetatesi -definita empiricamente come "inversione tautologica" (p. 81) - già nella produzione

dell'Aretino.

Tra i critici, ricorre a questa figura, molto rara nella prosa contemporanea (ma si veda almeno la rilevante

eccezione di Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo), il MORPURGO-TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco,

cit., p. 144 ("il piacere di apprendimento si è convertito nell'apprendimento di un piacere"), riecheggiato dal

CONTE, La metafora barocca, cit., p. 99 ("esiste - aristotelicamente - il piacere di apprendere, ed esisterà

allora - pendant barocco - l'apprendimento del piacere").

51) Riporto il passo in questione nella sua interezza, anche per far notare come l'intrecciarsi delle funzioni

narrative che segnano l'inizio e la fine del poema mariniano dia vita proprio ad un'antimetatesi: " Il principio

che ha guidato l'autore nella confezione di un così inconsueto schema narrativo può essere così formulato: il

corrispettivo di ogni cosa ne è anche l'opposto. Il racconto inizia allo stesso modo come finisce, con un

danneggiamento e un trasferimento (bellamente disposti a chiasmo), ma tutto vi è diverso, perché all'inizio è

Adone che si trasferisce, alla fine Venere; Adone entra e Venere esce; il danneggiamento del § 1 produce

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amore e quello del § 15 morte (ma è la stessa macchina che è responsabile dei due esiti diversi, la freccia di

Cupido)" (Giovan Battista MARINO, L'Adone, a c. di Giovanni POZZI, Mondadori, Milano 1976, II, p. 41).

52) "Chi più dilicato nella Lirica, e nella Prosa, che la Sirena Marina? che quantunque da' Toscani non si

annoveri fra gli Autori, come l'Ariosto; nel qual veramente risplendono tratto tratto molte scintille della

Dialetto Boccaccesca: si è nondimeno, che il Marini componeva con arte e studio maggiore: né mai non

iscriveva una paroluzza, un articoletto; che non ne avesse reso alta ragione" (p. 243).

Imposta un confronto tra il Marino delle Dicerie Sacre e il Tesauro prosatore lo ZANARDI, Sulla genesi

del "Cannocchiale aristotelico" cit., I, pp. 49-56.

53) "Nel qual genere, ingeniosissimo è il Nonnio nelle sue Dionisiache: libro leggierissimo nel suggetto;

ma di ogni arguta Riflession fioritissimo: donde il Marini copiò gli suoi più vivaci e concettosi

componimenti: e principalmente apprese quelle sue singolari vivezze" (p. 412).

54) E. RAIMONDI, Una data da interpretare, in Letteratura barocca cit., pp. 51-76.

55) Giambattista MARINO, Dicerie sacre e Strage degli Innocenti, a c. di Giovanni POZZI, Einaudi,

Torino 1960, pp. 15-8 e, più recisamente, p. 462; Carmela COLOMBO, Cultura e tradizione nell'Adone di

G. B. Marino, Antenore, Padova 1967, in particolare a p. 146; Ottavio BESOMI, Ricerche intorno alla

"Lira" di G. B. Marino, Antenore, Padova 1968. Per il Casoni, si veda Marco CORRADINI, La ricerca

metaforica di Guido Casoni, "Aevum", LXI 3 (1987), pp. 503-16.

56) Vedi, da ultimo, Alberto ASOR ROSA, La lirica barocca, cit., pp. 92-7.

57) T. STIGLIANI, Dello Occhiale, cit., p. 37.

58) H. LAUSBERG, Trattato di retorica letteraria, cit., pp. 213-4. E si vedano i casi di "opposizione in

trinomio" censiti nell'Orchi da Giovanni POZZI ( Saggio sullo stile dell'oratoria sacra nel Seicento

esemplificata sul p. Emmanuele Orchi, Institutum Historicum Ord. Fr. Min. Cap., Romae 1954, pp. 65-6) e

quelli di antimetatesi a "sei membri" rintracciati dalla LOPEZ-BERNASOCCHI nello Stato rustico

dell'Imperiali (Una forma particolare di artificio retorico cit, pp. 223-4).

59) Che non è altro che la dilatazione della figura geometrica che meglio di ogni altra può emblematizzare

la letteratura del Rinascimento, cioè il cerchio. Riceve così conferma l'ipotesi storiografica di Enzo Noè

GIRARDI, Il Seicento come momento centrifugo della letteratura rinascimentale, "Atti del VII Congresso

dell'Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana" (Bari 31 marzo - 4 aprile 1970),

pp. 277-89 (poi in Saggi di letteratura italiana, Vita e pensiero, Milano 1974, pp. 123-33). Per questa

problematica, ovvio il rimando al classico Jean ROUSSET, La letteratura dell'età barocca in Francia. Circe e

il pavone, il Mulino, Bologna 1985, che attorno al nucleo fondamentale del 1954 raccoglie saggi del 1976 e

del 1981.

60) A dire il vero, Andreina GRISERI vede nel Guarini una sorta di anti-Tesauro (Le metamorfosi del

Barocco, Einaudi, Torino 1967, pp. 179ss.): presa di posizione che ha suscitato però qualche riserva, tra le

quali quella di Manfredo TAFURI, Retorica e sperimentalismo. Guarino Guarini e la tradizione manierista,

in AA. VV., Guarino Guarini e l'internazionalità del Barocco. Atti del Convegno internazionale promosso

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dall'Accademia delle scienze di Torino (30 settembre - 5 ottobre 1968), Accademia delle scienze, Torino

1970, I, pp. 667-704, a p. 686.

61) G. MARINO, L'Adone, cit., II, p. 81.

62) Giovan Battista MARINO, Rime marittime, a cura di Ottavio BESOMI, Costanzo MARCHI e

Alessandro MARTINI, Panini, Modena 1988, p. 13.

63) G. CONTE, La metafora barocca, cit., p. 168: "Il sistema di Tesauro è in partenza sistema aristotelico:

tutta la forza delle evasioni e delle deviazioni sospende il sistema aristotelico, ma non è in grado di produrne

uno nuovo".

64) Pasquale TUSCANO, Appunti sulle prime stampe del "Cannocchiale aristotelico" di Emanuele

Tesauro, "Giornale storico della letteratura italiana", CLIV (IV trim. 1977), pp. 562-77, a p. 563.

65) Anche Luigi VIGLIANI, Emanuele Tesauro e la sua opera storiografica, "Fonti e studi di storia

fossanese", CLXIII (1936), pp. 205-77, ipotizza "che la preparazione di questo libro [il Cannocchiale

Aristotelico] sia costata al Tesauro un certo sforzo; poiché negli anni che vanno dal 1646 al 1653 non consta

che altro abbia prodotto di nuovo" (p. 238).

66) La messa all'Indice dell'Adone, congiunta allo stato ecclesiastico (prima gesuita, poi dal 1635 prete

secolare) del Tesauro, parrebbe costituire una serie obiezione all'ipotesi ora proposta, tanto più che di tante

citazioni del Marino una sola riguarda il poema, ed è inserita in un contesto che pare giustificarne la

condanna ("Et il Marini dicea, che ADONE era stato impiccato dopo morte: perché il suo Poema intitolato

l'ADONE, era stato sospeso. Ma Papa Urbano: disse, che apunto quell'ADONE era pasto da Porci:

argutamente alludendo alla favola di Adone e del cinghiale": pp. 366-7). Ma, pur in assenza di citazioni

esplicite, il florilegio di esempi proposto dal Tesauro non pare immune dalla lettura del poema (ed una

ricerca in questo senso sarebbe, credo, tanto faticosa per l'ampiezza dei due testi quanto feconda di risultati).

Inoltre, la biografia del Tesauro stesa dallo Zanardi mostra bene quanto egli fosse uomo (e prete) da sfidare

ben altri divieti che non quello della lettura di un'opera il cui autore era, per di più, amico e corrispondente

del prorio fratello maggiore Ludovico (che prese più volte le difese di Emanuele contro lo stesso generale

dell'ordine dei Gesuiti): cfr. M. ZANARDI, Vita ed esperienza di Emanuele Tesauro cit.