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ANTROPOLOGIA CULTURALE prof.ssa Carla Pasquinelli sintesi integrate dei seguenti testi: - Carla Pasquinelli, Il concetto di cultura (dispensa) - Miguel Mellino, La critica post-coloniale - Carla Pasquinelli, Occidentalismi

[Dispense] Antropologia Culturale Appunti

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ANTROPOLOGIA CULTURALE

prof.ssa Carla Pasquinelli

sintesi integrate dei seguenti testi:- Carla Pasquinelli, Il concetto di cultura (dispensa)- Miguel Mellino, La critica post-coloniale- Carla Pasquinelli, Occidentalismi

Il contenuto di questi appunti è il risultato di una sintesi e rielaborazione di diversi testi. Come tale, non si tratta di un’opera di ingegno protetta da alcun tipo di copyright e ne è consentita la diffusione con qualsiasi mezzo, anche digitale. È assolutamente vietato, tuttavia, il loro utilizzo per fini di lucro ivi inclusa la diffusione via Internet su siti a pagamento e la vendita presso tipografie e fotocopisterie. L’Autore

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Il termine antropologia deriva dal greco antropos e logos, e significa “discorso sull’uomo”. Esistono diverse correnti di antropologia, che studiano lo stesso soggetto – l’uomo – benché con diversi approcci; le due principali sono:

Antropologia fisica; ha il proprio fondamento epistemologico nelle scienze naturali, e ritiene che la differenza tra gruppi umani sia innata.

Antropologia culturale; ha il proprio fondamento epistemologico nelle scienze sociali, e ritiene che la differenza tra gruppi umani sia acquisita.

LA SCOPERTA DELL’ALTRO.

La razza. Il termine razza è proprio della zoologia, essendo una categoria tassonomica (cioè classificatrice) usata per lo studio delle specie animali. Linneo fu il primo a classificare la specie umana sulla base di caratteri morfologici distintivi. Le categorie usate hanno denominazioni geografiche: Europeus albescens (europeo tendente al bianco); Americanus rubescens (americano tendente al rosso); Asiatiicus cuscus (asiatico scuro); Africanus niger (africano nero).A queste peculiarità somatiche si sono associate col tempo caratteristiche morali e mentali che secondo Gobineau, nel Saggio sulla disuguaglianza delle razze umana (1855), sono ereditarie e si trasmettono per via biologica. Oggi queste teorie non godono più di alcun credito: le differenze tra popolazioni derivano da caratteristiche esteriori influenzate il più delle volte da fattori ambientali piuttosto che genetici. Dopo la scoperta del DNA, si è notato che ogni popolazione umana possiede lo stesso corredo genetico, e la differenza sta solo nella struttura genetica (posizione dei geni e loro frequenza).

Il problema delle origini. La nascita dell’antropologia come disciplina è oggetto di dispute tra gli studiosi. Molti ritengono tuttavia che quello dell’origine sia un falso problema, nel senso che la designazione di un particolare momento storico come “origine” di qualcosa trova legittimazione solo a posteriori; inoltre, più che una data va indicato un periodo storico piuttosto ampio. Nell’antropologia, si rinasce che la scoperta dell’America, nel 1492, sia un evento chiave: è la data assunta dagli storici come inizio dell’età moderna, ma in antropologia è anche il momento in cui avviene per la prima volta l’incontro con altri popoli e culture, è il momento di rottura della visione monocentrica del mondo. Tuttavia, da questo momento in poi, occorreranno tre secoli prima che queste riflessioni sull’Altro portino alla nascita dell’antropologia come disciplina. Una disciplina è costituita da un oggetto, da alcuni concetti e da un metodo. Essi danno forma a un’unità discorsiva la quale può fregiarsi del termine “disciplina” nel momento in cui viene istituzionalizzata come campo di studio. Le discipline non creano i loro campi di significato, ma organizzano temi, argomenti, significati precedenti all’istituzionalizzazione della disciplina e quindi li formalizzano. Sicuramente le origini dell’antropologia vanno rintracciate nelle relazioni dei viaggiatori e dei missionari, e nei resoconti di conquistatori e colonizzatori. L’antropologia si forma attraverso successione di movimenti. Un primo movimento, di poco successivo alla scoperta dell’Altro, è quello in cui l’Altro viene pensato e

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rappresentato attraverso le categorie della cultura europea del tempo. Un secondo movimento consiste in una presa di distanza da questa interpretazione, nel riconoscimento della relatività e della storicità delle nostre categorie e dunque nell’adattamento o addirittura nel rifiuto di tali categorie. In effetti, come ha scritto Stuart Hall, non esiste un “mondo esterno” ontologico, indipendente dai nostri discorsi: il “là fuori” (“out there”) «è in parte costituto da come esso è rappresentato», e cioè acquisisce una configurazione a seconda del nostro peculiare modo di interpretarlo. Nell’antropologia ciò è facilmente verificabile: l’Altro è stato considerato in modi diversi a seconda della definizione usata; prima bestia, poi selvaggio, infine primitivo. Questo mondo esterno, insomma, non esiste al di fuori dei testi che lo hanno rappresentato. Tali testi sono di due tipi: i primi sono i materiali di prima mano elaborati sul posto, come giornali di bordo, relazioni missionarie, resoconti di viaggiatori; i secondi sono i testi “colti” scritti sulla scorta delle fonti di prima mano da intellettuali europei che hanno cercato di inserire l’Altro all’interno di categorie ideali e morali proprie del loro tempo e luogo.

L’invenzione dell’Altro. La scoperta dell’America permette di rompere una visione del mondo fino ad allora circoscritta all’Europa e a una piccola parte dell’Asia e dell’Africa, aprendo la nostra conoscenza a territori e popolazioni del tutto nuovi. I primi pionieri, messaggeri del nuovo mondo, appartengono a categorie sociali diverse: esploratori, conquistatori, missionari, viaggiatori. Ognuno con propositi diversi, ma accomunati dal gusto dell’avventura e soprattutto da un senso di alterità totale, di estraneità radicale, di smarrimento completo verso una realtà sconosciuta e imprevedibile. Todorov ha definito la scoperta dell’America come «l’incontro più straordinario della nostra storia», e questo perché mentre nell’esplorazione della Cina o dell’Africa c’era un senso del meraviglioso mitigato però dal fatto che di questi paesi, pur senza conoscerli, si era sempre saputo che esistessero, dell’America si ignorava persino la sua stessa esistenza. La difficoltà sta nel riuscire a rappresentare l’Altro a chi non l’ha visto ed è qui che avvengono i primi problemi. Cristoforo Colombo cerca di interpretare questi popoli nuovi attraverso categorie proprie della Bibbia, paragonando le nuove terre scoperte all’Eden. Con lui inizia l’invenzione dell’Altro, che di solito coincide poi con la sua dominazione attraverso strategie di assoggettamento. Il termine Altro è una convenzione discorsiva utilizzata dagli antropologi per indicare quelle popolazione del globo sviluppatesi al di fuori dell’Europa. L’interpretazione dell’altro avviene attraverso tre categorie fondamentali:

1. Categoria assiologica;2. Categoria prasseologica;3. Categoria epistemologica.

In tutti e tre i casi si ha sempre a che fare con forme di etnocentrismo, termine con cui si indica la tendenza di ogni popolo a proiettare su altri popoli i propri parametri di giudizio, rendendo dunque l’interpretazione dell’Altro sempre soggettiva.

La conoscenza epistemologica. L’interpretazione dell’Altro attuata da Colombo è un esempio di rappresentazione assiologica, dove prevale la

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tendenza a da una valutazione morale che in questo caso si associa all’identificazione del nuovo mondo con il paradiso terrestre, dunque come una terra migliore dove vive un’umanità incontaminata. Per descrivere l’Altro agli occhi degli abitanti del Vecchio Mondo, Colombo non può fare a meno di utilizzare le categorie proprie della cultura europea, facendo ricorso alla Bibbia, all’antichità greco-romana, all’antico Egitto, al mondo musulmano. Ma in questo modo non ci si limita a descrivere l’Altro, ma ad inventarlo, rapportandolo a categorie che non gli sono proprie. La rappresentazione etnocentrica dell’Altro porta a due esiti estremi: da una parte la sua inferiorizzazione, dall’altra la sua sublimazione nel mito del buon selvaggio.

La conoscenza prasseologica: conquista e genocidio. Pochi anni dopo la scoperta dell’America, inizia la fase di conquista. Fernando Cortez si impadronisce del Messico nel 1521, seguito da Francesco Pizarro che nel 1536 conquista il Perù. Quella attuata dai conquistadores è un esempio di conoscenza prasseologica: si cercare di conoscere e di capire l’Altro in virtù di un fine pratico, in questo caso quello della conquista e della sottomissione. E’ la guerra la prima forma di incontro tra Vecchio e Nuovo mondo. La vittoria sulle civiltà precolombiane fu facilitato dal fatta che questi popoli provarono verso gli invasori lo stesso senso di spaesamento provato dagli occidentali, con lo svantaggio di non riuscire a interpretarne compiutamente i codici comportamentali e i sensi d’azione. Ne La conquista dell’America, Tzvetan Todorov dimostra come l’imperatore Moctezuma si comportasse in modo simile a quello di Colombo nel cercare di interpretare l’Altro attraverso il propri sistema di credenze: invece di interpretare l’attacco di Cortez come un evento puramente umano, egli lo interpreta in base ai propri tradizionali riferimenti religiosi, ricorrendo alle profezie degli indovini di corte per capire l’identità e gli scopi dell’Altro. In entrambi i casi, quello di Colombo e di Moctezuma, ci troviamo di fronte a due casi di etnocentrismo, entrambi tesi a ricondurre la loro rappresentazione al passato, ricorrendo a presagi (Moctezuma) o a miti (Colombo). Il vantaggio di Cortez fu che egli riuscì a decifrare i codici di comunicazione autoctoni: la conquista del potere fu cioè possibile attraverso la conquista del sapere, attraverso l’utilizzo di “informatori” che permisero a Cortez, ad esempio, di riconoscere in battaglia i capi dal loro abbigliamento. Moctezuma non vi riesce, erra completamente nel cercare un contatto positivo con l’Altro: ad esempio, offre agli spagnoli quantità sempre maggiori di oro per convincerli a lasciare il paese, mentre invece così facendo li stimola sempre di più a restare. Il genocidio attuato dagli europei in America fu il più grande della storia umana: dei circa 80 milioni di abitanti che popolavano l’America agli inizi del ‘500, alla metà del secolo non ne rimasero che 10 milioni. Della loro cultura ci è rimasto ben poco proprio perché insieme alla conquista, gli europei imposero il dominio della propria cultura su quella autoctona. Bartolomeo de Las Casas, missionario domenicano, fu forse il più strenuo difensore dell’epoca nei confronti dei diritti degli indiani americani: egli fu forse l’unico a trattarli sempre su un piano paritario, criticando duramente la colonizzazione spagnola e permettendo così la nascita della cosiddetta leggenda nera riguardo i conquistadores, basata sull’accusa delle violenze da loro perpetrate.

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La conoscenza prasseologica: le missioni. L’incontro/scontro tra l’Occidente europeo e le popolazione amerinde si ebbe anche attraverso i missionari. Anche in questo caso abbiamo un’interpretazione dell’Altro attraverso la categoria prasseologica: scopo dei missionari era non la conquista dell’oro, ma quella delle anime, ossia in altre parole l’evangelizzazione dei popoli indigeni portando così il cristianesimo alla conquista del Nuovo mondo. Ma come i conquistadores si macchiarono del genocidio, i missionari commisero quello che in antropologia è definito etnocidio: lo sterminio sistematico della cultura di un popolo. Il primo ad aprire questa fase missionaria fu lo stesso Colombo, che nelle vesti di rappresentate dei cattolicissimi reali di Spagna scrisse in una lettera al papa Alessandro il proprio desiderio di diffondere il nome di Dio e la parola del vangelo in tutto l’universo. A Colombo seguirono agli inizi del Cinquecento i francescani, quindi i domenicani e infine i gesuiti, i più ferventi convertitori di anime: la Compagnia di Gesù fondata nel 1540 da Ignazio di Loyola propugnava infatti l’obbligatorietà del servizio in missione, preceduto da un’accurata preparazione. L’evangelizzazione è stata una forma violenta di acculturazione, cioè una forma violenta di imposizione della cultura dei conquistatori su quella delle popolazioni autoctone, giustificata dalla visione degli indiani d’America come gente “più vicina al demonio che a Dio”. L’etnocidio dei missionari riuscì però solo in parte: la nuova fede cattolica non sostituì infatti dal tutto le antiche credenze, e questo proprio grazie all’atteggiamento dei missionari: essi infatti da una parte propugnavano il cristianesimo come una dottrina totalmente nuova che necessitava una rottura totale con tutto ciò che era esistito in precedenza, e dall’altra cercarono il più possibile di rispettare le tradizioni indigene laddove le consideravano ininfluenti dal punto di vista religioso. Le conseguenze di ciò furono di due tipi: da una parte un processo di deculturazione, dall’altra l’affermazione di forme di sincretismo religioso pagano cattolico. Ne La visione dei vinti, Nathan Wachtel spiega come l’evangelizzazione fu un processo superficiale e per questo ancora più dannoso, perché «la società indigena destrutturata non trovò nel campo religioso nessun elemento positivo di riorganizzazione». Infatti il cristianesimo e le credenze indigene si fusero in un amalgama dove a dominare furono però le credenze indigene. A partire dal 1525 gli spagnoli iniziarono la distruzione sistematica dei luoghi di culto e del clero indigeno, portando le culture locali alla clandestinità e la continuazione delle pratiche religiose nelle ore notturne e in luoghi nascosti. Conquistadores e missionari erano soliti costruire deliberatamente chiese o croci su precedenti luoghi sacri indigeni, come atto di acculturazione forzata. Questo processo, paradossalmente, si scontrò con quello opposto attuato dagli indigeni, consistente nel camuffare i loro idoli e riti sotto un travestimento cristiano. Questa continua giustapposizione tra i due culti fu favorita dalla radicata credenza che il Dio cristiano agisse in favore dei soli spagnoli, mentre per gli indigeni valessero solo gli dei tradizionali. Ne La colonizzazione dell’immaginario, Serge Gruzinski porta alcuni esempi che confermano l’avvenuta giustapposizione tra le religiosi. Cita tra le altre cose l’azione degli indios per ritardare o anticipare le celebrazioni dei nuovi santi patroni imposti dai missionari per farle coincidere con le festività tradizionali proibite, permettendone così il recupero. Oppure la riproduzione dei glifi sui muri e le facciate delle chiese: essi sono

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rappresentazioni stilizzate di oggetti e azioni della cultura tradizionale indigena (scene di processioni, sacrifici, dei, animali), che riprodotti sui luoghi di culto cristiani stanno a significare sia una riappropriazione pagana di quei luoghi cristiani, sia una traduzione indigena di temi cristiani. Ciò ci fa riflettere su come l’acculturazione non sia mai un’imposizione a senso unico del più forte sul più debole, quanto un processo di fusione tra le culture.

IL SELVAGGIO NELLA COSCIENZA EUROPEA.

Le dispute teologiche. L’arrivo in Europa di notizie e relazioni riguardo le popolazioni del Nuovo mondo portarono alla terza fase di interpretazione dell’Altro, l’utilizzo della categoria epistemologica, il cui fine è la conoscenza dell’Altro. Il soggetto viene studiato su due piani diversi:

Empirico-descrittivo, che si limita al contatto con e alla descrizione dell’Altro.

Ideologico-teorico, che consiste nella riflessione sull’Altro e nella sua classificazione e collocazione nella propria visione del mondo.

Il primo problema sul piano ideologico-teorico riguardò lo status di esseri umani. Nel 1537 il papa Paolo III nella sua enciclica Sumblimus Deus risolse la questione affermano che «gli indiani sono veri uomini e non soltanto sono in grado di comprendere la fede cattolica ma desiderano in sommo grado di riceverla». Accertato ciò, si venne a creare un nuovo problema per la cultura cristiana, quello della salvezza eterna, ovvero della sorte delle anime degli indios – ammesso che l’avessero – visto che questi erano vissuti al di fuori dell’opera di redenzione di Cristo. Le categorie utilizzate in questa disputa teologica furono più o meno le stesse già risultate valide nella discussione tra i neoplatonici fiorentini riguardo la salvezza delle anime dei pagani dell’antichità, anch’essi vissuti fuori dalla grazia di Cristo. Il problema viene dunque risolto affermando che gli indios, come i pagani dell’antichità, possono accedere alla salvezza grazie al naturale impulso religioso dell’uomo e - in questo preciso caso - all’opera dei missionari. Lo storico Rosario Romeo ha giustamente notato come la Chiesa in questo facilitò la visione degli amerindi come esseri umani uguali a quelli europei, tutti indistintamente figli di Dio.

Montaigne e la mutevolezza dei costumi. Dopo l’interpretazione attuata dalla Chiesa, seguì quella della filosofia europea. I selvaggi americani fornivano ai filosofi un ottimo campo di prova per rivedere criticamente le varie teorie sulla società, l’uomo e la storia fino ad allora considerate valide. Michel de Montagne (1533-1592) dedicò allo studio dei selvaggi americani due capitoli dei suoi Saggi, rivalutandone l’umanità e l’intelligenza. Egli fu facilitato nelle sue teorie critiche dall’epoca in cui visse: il XVI secolo fu infatti un’epoca di profondi sconvolgimenti culturali, dalla fine del geocentrismo con l’affermarsi della rivoluzione copernicana alla conseguente critica del pensiero aristotelico fino ad allora dominante nella filosofia, passando poi per la scoperta del continente americano. Montaigne si rifà concettualmente allo scetticismo dell’antichità, partendo dal suo capostipite Sesto Empirico assertore del “dubbio universale”. Montaigne ritiene che non vi siano differenze di qualità tra l’uomo e l’animale, giungendo a mettere in dubbio l’antropocentrismo, l’idea di una centralità

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dell’uomo nell’universo, e con esso anche il ruolo della ragione, fino ad allora considerato strumento principale per la conoscenza perché fondato su principi universali, ma che secondo Montaigne è invece condizionato dalle consuetudini e dalle situazioni geografiche e storiche. Il concetto di costume è quello centrale nella sua filosofia relativista. Non esistono norme morali universali, valide cioè per tutte le culture. La morale è immanente alla consuetudine, e ciò significa che ogni società si dà una propria morale e un proprio sistema di leggi che la legittima sulla base di proprie abitudini e consuetudini. I popoli americani ne danno la dimostrazione più evidente che porta Montaigne a concludere che «non c’è niente di barbaro e di selvaggio in quei popoli». E lo dimostra chiaramente raccontando la sua personale esperienza alla corte del re di Francia, quando vi vennero condotti tre indios: il filosofo mette in risalto il loro stupore e la loro lontananza dal mondo occidentale, mettendo al contempo in ridicolo la pompa della corte reale e l’incomprensibile disuguaglianza tra ricchi e poveri nella società francese. E’ con Montaigne che comincia a delinearsi il mito del buon selvaggio derivante da una rivalutazione dei costumi degli Altri da una critica dei propri. Sulla base di questo relativismo dei costumi, il filosofo rivaluta lo stato di natura come stato primigenio dove può essere rintracciato l’ormai perduto principio unitario dell’uomo. I popoli americani sono selvaggi proprio come noi chiamiamo selvatici i frutti della natura, i loro comportamenti sono naturali diversamente dai nostri che sono stati alterati dall’artificio. Resta però centrale nella sua filosofia la relatività dei costumi che lo porta alla rivalutazione del selvaggio sulla base della tolleranza nei confronti delle consuetudini degli Altri, in base al fatto che «ognuno chiama barbarie quello che non è nei nostri costumi». Montaigne sfugge però a derive nichiliste, poiché il suo relativismo è usato come arma contro la società del proprio tempo: ad esempio la tolleranza verso il cannibalismo è un modo per denunciare la tortura pratica in Europa, visto che è più barbaro ferire e lacerare un corpo ancora sensibile, bruciarlo lentamente e farlo azzannare da cani e maiali piuttosto che arrostire e mangiare un corpo già precedentemente ucciso e quindi incapace di provare dolore. Il concetto chiave di Montaigne resta comunque quello della critica all’artificiosità e alla complessità dei costumi e delle abitudini europee rispetto alla semplicità di quelli dei selvaggi americani, che spiana la strada alle riflessioni di Rousseau.

Rousseau e lo stato di natura. Jean Jacques Rousseau (1712-1778) è, secondo Claude Lévi-Strauss, il padre fondatore dell’antropologia culturale per due motivi : l’aver per primo posto il problema dei rapporti tra natura e cultura e l’aver individuato l’oggetto proprio dell’antropologia distinguendolo da quello della filosofia : l’antropologia non studia gli uomini, per comprendere i quali bisogna «guardare vicino a sé», bensì l’uomo, per comprendere il quale «bisogna imparare a guardare lontano… osservare le differenze, per potere poi scoprire le proprietà». In merito al primo argomento, la tesi di Rousseau è che il binomio natura/cultura corrisponda a quello di uguaglianza/disuguaglianza, nel senso che l’uguaglianza esiste in natura dato che gli uomini sono uguali per nascita, mentre è la civiltà che li rende diseguali. Nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1755), Rousseau descrisse un ipotetico stato di natura dell’uomo, un’epoca di armonia e pacifica convivenza

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precedente la creazione dello Stato e la conseguente disuguaglianza degli uomini. Lo Stato, come scrive nel Contatto sociale (1762), nasce allorché tutti gli uomini stipulano un accordo – un contatto sociale appunto – attraverso cui tutti rinunciano alla libertà che godevano nello stato di natura per sottoporsi al controllo superiore dello Stato. Da questo momento in poi «la storia della civiltà non è che il progresso della disuguaglianza». Nella descrizione dello stato di natura, Rousseau dimostra una profonda conoscenza dei popoli del Nuovo mondo, che non tratta più alla stregua di primitivi ma come gruppi etnici ognuno con nomi propri e luoghi definiti; non c’è più traccia dello stupore delle descrizioni di Colombo, i popoli americani sono trattati con naturalezza e Rousseau è a conoscenza del loro ordinamento comunitario basato sulla proprietà in comune della terra e dei beni, che secondo il filosofo è alla base dell’armonia dello stato di natura. La nascita della proprietà privata è infatti alla base della disuguaglianza che si viene a creare successivamente. In realtà il filosofo non crede realmente nell’esistenza ontologica di un primordiale stato di natura dell’uomo, ma il concetto gli serve come mezzo di critica della società del suo tempo. In questo è simile a Montaigne, ma con la differenza che Rousseau non è relativista, anzi: le differenze sono elementi di disuguaglianza, le consuetudini sono elementi negativi che permettono all’arretratezza e al localismo di perdurare, le morali locali non esistono perché la legge morale è universale. Da qui possiamo comprendere la ragione della seconda affermazione di Lévi-Strauss, riguardo l’individuazione da parte di Rousseau dell’oggetto di indagine dell’antropologo: questi studia infatti l’uomo come concetto universale, laddove il filosofo – come Montaigne – studia la propria società, i propri costumi e la propria morale. L’analisi delle differenze deve invece, secondo Rousseau, portare l’antropologo a cogliere l’universale che si cela dietro di esse.

Il viaggio tra ‘700 e ‘800. Prima del XVIII secolo i viaggi venivano fatti per motivi commerciali o religiosi. Il viaggio più celebre, quello di Marco Polo, aveva un fine pragmatico. Il ’700 fu il secolo dei grandi viaggi, e da allora in avanti viaggiare diventò una moda. I valori dell’Illuminismo svilupparono questa moda: l’ampliamento delle conoscenze era infatti il motivo principale del viaggio, ispirato ai principi dell’Enciclopedie che si proponeva di allargare i confini della conoscenza umana grazie all’uso della ragione. Fu in questo secolo che iniziò la pubblicazione delle relazioni di viaggio, che ben presto diventarono un genere letterario di successo e furono usate da Diderot e D’Alambert nell’Enciclopedie per illustrare usi e costumi di popoli sconosciuti. La categoria di selvaggio fu estesa, con i grandi viaggi di esplorazione, agli indigeni delle isole del Pacifico e a quelli dell’Africa profonda e del lontano oriente. L’Oriente era già ben conosciuto all’Europa fin dal Medioevo, ma in quel periodo il viaggio in oriente assunse una nuova veste, quello di esplorazione, conoscenza e in molti casi evangelizzazione, attuata dai missionari. Come ha spiegato Edward Said in Orientalismo, è in questo periodo che avviene l’invenzione dell’Oriente da parte dell’Occidente, un’invenzione che ha permesso inoltre all’Occidente di costruire la propria peculiare immaginare in contrapposizione a quella dell’Oriente. I viaggi diventano presto imprese scientifiche, tese all’osservazione e alla raccolta dei dati. Il medico e filosofo Cabanis conia in questo periodo il

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termine antropologia per spiegare che lo studio dell’uomo va coniugato con quello dell’ambiente in cui vive. Il crescente interesse verso i popoli extra-europei deriva dalla situazione della società e della cultura del tempo, in rapido cambiamento: si cerca di scoprire le leggi che regolano il cammino dell’umanità attraverso l’analisi di popoli che hanno seguito cammini differenti.

La Société des Observateurs de l’Homme. Fondata in Francia nel 1799 e composta da medici, viaggiatori, storici, naturalisti, la Società si pose come programma quello di «dedicarsi alla scienza dell’uomo, esaminata sotto un triplice aspetto: fisico, morale, intellettuale». L’intento era quello di vagliare il vastissimo materiale resocontista raccolto nel corso degli ultimi secoli e quindi di realizzare uno studio comparato dell’uomo attraverso il confronto tra le numerose popolazioni. Il viaggio diventa un’impresa interdisciplinare, volta a far convergere interessi geografici, antropologici, sociologi. Joseph Marie De Géerando e Constanti-Franc Valney, membri della Società, realizzarono i primi celebri manuali di etnologia contenenti istruzioni per la raccolta del materiale, a cui va aggiunto anche quello del naturalista Linneo. Le principali istruzioni date riguardano l’evitare soggiorni brevi sul posto perché sono all’origine di rendiconti incompleti, l’imparare la lingua indigena, l’evitare pregiudizi, il riportare fatti e azioni dei nativi nel quadro del loro sistema di credenze. Molti risultati di questi viaggi furono poi vagliati da commissioni apposite, che spesso commissionavano anche precise inchieste sociologiche per conoscere le realtà locali. Ciò avveniva per scopi pratici, in primis la successiva colonizzazione di un posto. Il colonialismo favorirà la nascita dell’antropologia attraverso un forte desiderio di conoscenza dei popoli da amministrare, creando così un “nesso perverso” tra sapere e potere oggetto delle critiche dei post-colonial studies.

IL PASSAGGIO DAL SELVAGGIO AL PRIMITIVO.

La conoscenza dell’Altro, per tre secoli (dal ‘500 all’Ottocento), è stata filtrata da una mole di testi quali resoconti di viaggi, diari di conquista, relazioni di missionari, che hanno costruito una particolare unità discorsiva: il selvaggio. Nella seconda metà dell’Ottocento l’oggetto di studio della prima antropologia diviene la società primitiva. Fin dalla loro scoperta, gli Altri sono stati chiamati in modo diversi – bestie, barbari, selvaggi – sempre però tendenti a sottolineare l’inferiorità di questi popoli rispetto agli europei. Il passaggio dal selvaggio al primitivo è un passaggio-chiave: mentre il selvaggio è il protagonista di un ideale stato di natura che non ha riscontro nella civiltà occidentale, il primitivo è frutto della società, è anzi il primo gradino dello sviluppo della società e quindi può essere interpretato attraverso le nostre stesse categorie. Ancora Montaigne definiva i popoli americani privi di istituzioni e regole; i primitivi sono invece considerati ora non come un’accozzaglia di individui naturali ma come membri di una società, dotati di sistemi di regole e poteri che - seppur ‘primitivi’ - li governano.

L’evoluzionismo britannico: Darwin e Spencer. A favorire questo passaggio dal selvaggio al primitivo fu l’affermarsi di un indirizzo di pensiero particolare: l’evoluzionismo britannico. Esso si fece portatore di un’interpretazione del

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processo di civilizzazione dell’umanità per stadi successivi. In questo senso le società primitive, che le popolazioni americane rappresentano, non sono che il primo gradino di un processo teleologico destinato a portare la civiltà al suo acme rappresentato dalla società moderna europea, che pure è partita proprio da uno stadio primitivo. Con l’evoluzionismo assistiamo alla realizzazione di un nuovo nesso tra potere e sapere che legittimerà il colonialismo, interpretato come l’inevitabile affermazione del più forte e come tentativo di portare la modernità in popoli ancora primitivi, realizzando così un grande affresco narrativo celebrativo della Modernità occidentale. L’evoluzionismo nasce in geologia, allorquando le analisi delle rocce terrestri portarono gli studiosi a ritenere errata la cronologia biblica e a spostare la data dell’origine della Terra da alcune migliaia di anni fa a vari milioni di anni (allora di più non ci si spinse). Paleontologi e archeologi confermarono questa decisione e soprattutto portarono alla luce i primi dati empirici di una realtà non immutabile ma in costante cambiamento, in costante evoluzione. Nel 1859 Charles Darwin pubblicò L’Origine della specie acuendo lo scontro appena avviato tra creazionisti ed evoluzionisti ed eliminando ogni concezione finalistica dei fenomeni biologici. In realtà l’evoluzionismo che influì maggiormente sull’antropologia non fu tanto quello di Darwin quanto quello di Herbert Spencer. Egli era partito dal Saggio sulla popolazione (1798) di Mathus per giungere alla conclusione che l’evoluzione era progressiva, ossia tendente a una sempre maggiore complessità visto che in ogni situazione solo il più adatto sarebbe sopravvissuto. Diversamente da Dariwn, Spencer rimase un convinto assertore della teoria di Lamarck riguardo l’ereditarietà delle caratteristiche acquisite, che considerava più semplice rispetto alla teoria delle selezioni naturale darwiniana. Del resto, mentre per Darwin «l’evoluzione non implica una direzione o un progresso», Spencer resta convinto che l’evoluzionismo sia teleologico, e questa convinzione è stata ripresa dall’antropologia dei padri fondatori. La storia umana seguirebbe cioè un processo unilineare dal semplice al complesso, attraverso stadi di sviluppo fondati su tre tappe fondamentali: selvaggio, barbarie, civilizzato. Il progresso è insomma il motore dell’evoluzione umana, mentre per Darwin era l’assoluta casualità; l’ideologia insita nella teoria spenceriana è evidente: far apparire la supremazia dell’Occidente sul resto del mondo come il risultato naturale di una legge universale.

L’asse primitivo/moderno. L’importanza di un’unità discorsiva qual è la società primitiva sta anche nel fatto che essa permette di pensare l’idea stessa di società moderna. L’asse primitivo/moderno è cioè in primo luogo un’assunzione epistemologica, perché è tramite l’opposizione con il primitivo che il moderno può definire sé stesso e viceversa. Il primitivo in effetti implica nella sua definizione l’esistenza di stadi più evoluti e dunque di un apice evolutivo che va rintracciato nella modernità. L’antropologia, attraverso la conferma di quest’asse primitivo/moderno, permette dunque alla Modernità di rappresentare e legittimare sé stessa attraverso la definizione della propria negazione.

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CULTURA, CIVILTÀ, CIVILIZZAZIONE.

Cultura animi. Il termine cultura ha in antropologia un significato diverso da quello di uso corrente, con cui s’intende il patrimonio delle conoscenze e delle esperienze acquisite tramite lo studio. Il termine deriva dal verbo latino colere che in origine significava la coltivazione dei campi e che poi ha assunto un significato metaforico ad indicare la “coltivazione (cultura) dello spirito”. Questo uso del termine s’impone a partire dalla metà del XVII secolo, venendo a indicare un processo di formazione individuale molto simile ai concetti di paideia nell’antica Grecia e di cultura animi (“formazione dello spirito”) nella civiltà latina. Un diverso significato si afferma tuttavia nel XIX secolo nell’ambito delle scienze sociali: cultura viene qui a intendere una dimensione collettiva, un insieme di caratteri di una comunità. In questo senso “cultura” si avvicina a un termine simile, quello di civiltà che è un termine più antico di cultura ma deriva ugualmente dal latino: civis, “cittadino”, da cui civitas, “città-stato” e civilitas, “cittadinanza”.

Civilisation e Kultur . Il termine “civilizzazione” (civilisation) indica un processo intellettuale, morale e sociale di portata universale che tende a un progresso costante. Il concetto di “cultura” (kultur) ha invece un senso più limitato: sviluppatosi in Germania nel XIX secolo, questo termine è legato all’idea di appartenenza nazionale, di popolo e di nazione. In La civiltà delle buone maniere, Norbert Elias definisce meglio la differenza tra i due concetti. Quello di civiltà «attenua le differenze nazionali tra i popoli, accentua ciò che è comune a tutti gli uomini»; quello di cultura enfatizza invece «le differenze nazionali, le peculiarità dei gruppi». Dietro queste due categorie opposte, si può facilmente notare, stanno l’Illuminismo fondato sull’idea di progresso e cosmopolitismo da un lato (quello della civilizzazione) e il Romanticismo fondato sulla tradizione e rivolto al passato in cerca di radici dall’altro (quello della cultura). Il concetto di cultura domina il XIX secolo dei nazionalismi, per i quali la costruzione dello Stato-nazione è possibile solo riconoscendo o, se necessario, inventando un’anima popolare e un insieme di tradizioni ad essa legato. L’Illuminismo considerava le tradizioni popolari come “errori” dello spirito umano, mentre il Romanticismo le ha rivalutate come ciò che c’è di più autentico e puro in un popolo: il folklore, inteso sia come l’insieme delle “conoscenze del volgo” che come disciplina che studia le tradizioni popolari, ha contribuito a creare questa “narrativa della nazione”.

Popolo e dislivelli di cultura. Il principale rappresentante di questo recupero delle radici tradizionali dei popoli è stato il filosofo romantico Johann Gottfried Herder, sostenitore dell’esistenza di un’anima nazionale che si esprime nella poesia, nei canti, nelle fiabe, nei miti e nelle leggende. La ragione è per Herder il mezzo per recuperare e valorizzazione la tradizione, laddove per l’Illuminismo era invece il principale strumento di critica verso quei coacervi di folklore considerati retaggio di un’ingenua superstizione popolare. Lo studio delle tradizioni popolari, del folk, è invece per Herder fondamentale al fine di mettere in luce il carattere unico di ogni cultura, facendo della nazione il soggetto della

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storia umana. Egli coniò anche l’espressione “forme di vita” poi ripresa da Wittgenstein. Il termine folklore è stato invece coniato da William John Thoms nel 1846 per indicare l’insieme di costumi, abitudini, credenze, superstizioni, ballate, proverbi del tempo antico. Esso è dunque espressione di una differenza culturale di tipo verticale, sia cronologia (distanza epocale) che sociale (distanza di classe), è lo studio di quanto del “buon tempo antico” sia ancora presente in un popolo. Nel Novecento questa visione totalizzante di popolo come soggetto unitario della cultura popolare è stato messo in dubbio da numerosi studiosi. Ernesto De Martino, partendo dall’analisi delle Osservazioni sul folklore di Gramsci, ha in particolare criticato l’assunto romantico-risorgimentale di popolo come insieme delle classi subalterne rimaste ai margini della Storia e perciò oggetto di una particolare storia separata delle classi subalterne: riprendendo Croce, De Martino ha affermato che esiste una sola storia nazionale di cui non sono protagoniste le sole classi dominanti ma anche quelle popolari. Alberto Cirese ha introdotto quindi la nozione di dislivelli interni di cultura per rappresentare le diverse stratificazioni all’interno del concetto di popolo, in primis il conflitto tra cultura dominante e culture subalterne, che invece il concetto ottocentesco di popolo ha occultato.

LA FASE CONCRETA: IL RUOLO DI TYLOR.

Con la nascita dell’antropologia culturale, il termine cultura finisce per prevaler su quello di civiltà e civilizzazione. Il primo a favorire tale termine rispetto ai concetti precedenti è lo storico tedesco Gustave Klemm, vissuto nel XIX e i cui interessi etnologici ebbero una forte influenza sul pensiero di Tylor.

Il padre fondatore: Edward B. Tylor. Nel 1871 Edward Tylor pubblicò il saggio Primitive Culture in cui in apertura presentava la prima e più importante definizione sistematica del concetto di cultura. Grazie a questa definizione egli è divenuto per l’antropologia un padre fondatore o, per usare un termine di Clifford Geertz, un autore: qualcuno cioè che è riuscito a fondare una nuova unità discorsiva, divenendone il primo esploratore ma anche colui che aprirà la strada a tutti gli studi successivi, cioè una sorta di pioniere. Insieme alle sue opere, un autore come Tylor ha prodotto anche le regole per la formazione di altri testi a cui i successivi studiosi si dovranno attenere. Nel 1896 Tylor fu titolare della prima cattedra di antropologia culturale al mondo, offertagli dall’Università di Oxford. La sua celebre definizione di cultura è la seguente:

La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. Come si nota, T. mantiene in questa definizione anche il termine civiltà, che spesso è usato come sinonimo di cultura e altre volte invece è usato nel suo senso specifico diverso da quello di cultura. La cultura designa per T. due fenomeni distinti:

Cultura come soggetto storico dell’evoluzione umana;

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Cultura come particolare patrimonio collettivo di un gruppo umano.T. utilizza nel testo il termine civiltà per intendere il processo di evoluzione culturale dell’umanità che ha il suo fondamento nell’idea di Spencer di uno sviluppo unilineare dal semplice al complesso. Quando invece si discute di scenari più locali e ristretti, come quelli di una tribù o di un popolo, T. usa il termine cultura. A questo livello il riferimento non è Spencer ma Klemm che fu il primo a conferire al termine cultura il significato di insieme di costumi e credenze (non si dimentichi che Klemm era esponente del romanticismo tedesco e guardava con sospetto agli ideali illuministici insiti nel concetto di civiltà e civilizzazione). Nella definizione che T. dà di cultura, essa designa non un “dover essere” che si può rintracciare nel concetto di civiltà ma un modo di essere collettivo.

Cultura e natura. L’opposto di cultura, intesa nel senso tyloriano, è il concetto di natura. Essa è universale perché è la base dell’uguaglianza di tutti gli uomini, uguali appunto perché condividono lo stesso patrimonio genetico e lo stesso destino biologico. Se la natura è universale, la cultura è particolare; e non a caso T. enfatizza il ruolo dei costumi e delle abitudini nella sua definizione di cultura, rispetto alla definizione illuminista di insieme di conoscenze (artistiche, filosofiche, giuridiche): l’arte, la morale, sono universali, laddove i costumi sono quanto di più particolare e locale esista. Nella sua definizione, T. pone l’accento inoltre sul termine “acquisito” che rimanda sempre al rapporto di esclusione reciproca tra natura e cultura: la cultura non si trasmette per via genetica, non è ereditaria e tale per nascita (come per il patrimonio biologico), ma viene appresa, acquisita appunto, dagli individui nel corso della loro vita, soprattutto nelle prime fasi. Questa acquisizione è inconsapevole e si basa sull’interazione sociale, sull’imitazione e l’inferenza: in antropologia il termine che definisce questo processo è inculturazione. Clyde Kluckhohn esplica questa distanza da ciò che è ereditato biologicamente: la cultura è «il nostro patrimonio sociale, come contrapposto alla nostra eredità organica»; essa «costituisce quella parte del comportamento acquisito che si ha in comune con gli altri» membri di un gruppo sociale. Alfred Kroeber ne esplica la differenza rispetto all’istinto, laddove l’istinto è qualcosa di «inciso internamente» in quanto parte del proprio corredo genetico, mentre la cultura è qualcosa che viene dal di fuori.

L’insieme complesso e la fase concreta. Nella sua definizione T. introduce una nozione molto importante, quella cioè di insieme complesso. Tutti quegli elementi citati da T. – costume, arte, morale, credenze ecc. – non sono slegati gli uni dagli altri ma costituiscono una totalità organizzata tale per cui la cultura è un tutto diverso dalla somma delle parti che la compongono. Con questa definizione T. sembra voler sostantivizzare la cultura facendone qualcosa dotato di una propri realtà empirica; non è una supposizione errata vista la vicinanza di T. al positivismo, che lo porta a conferire alla “cultura” lo status di fatto sociale che Emile Durkheim teorizzerà poco più tardi. Nell’antropologa culturale sono state definite tre tipologie principali di definizione e classificazione di questo concetto, che delineano anche fasi distinte della storia dell’antropologia:

Fase concreta, fondata sui costumi;

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Fase astratta, fondata sui modelli; Fase simbolica, fondata sui significati.

Come si è visto nella definizione di T., la cultura nella fase concreta è caratterizzata dal concetto di costume: come il costume nel senso più comune del termine, anche la cultura si indossa ma non si può cambiare con la stessa facilità. Al contrario, la cultura è qualcosa di radicato e atavico, all’origine di fenomeni di lunga durata: le consuetudini, le mentalità, le credenze. La fase concreta è tale perché basata sull’assunzione di T. dei costumi come fatti sociali. Ispirandosi ai principi del positivismo, T. cerca di usare nell’analisi della cultura gli stessi strumenti usati con successo nel campo delle scienze naturali. Egli ritiene che anche l’agire umano è, come i fenomeni fisici, determinato da cause e leggi naturali. La difficoltà di fondo sta tuttavia nell’«enorme complessità del materiale empirico» e nell’«imperfezione dei metodi di osservazione» che rende assai improbabile il compito di riuscire a spiegare e prevedere i fenomeni umani. Anche perché T., da buon positivista, ignora la peculiarità delle scienze umane dove l’oggetto di studio è anche il soggetto che compie lo studio. Per riuscire nella sua analisi, T. usò il metodo comparativo, di cui fu grande cultore. Attraverso l’osservazione dei vari popoli e culture, egli cercò di costruire un sistema di classificazione universale dei fenomeni culturali sulla base delle somiglianze tra tratti e istituzioni delle diverse culture. Questa comparazione privilegiava ovviamente le uniformità a scapito delle differenze, cercando poi di disporle per stadi, «in ordine probabile di evoluzione»; diversamente da altri, tuttavia, T. corresse in parte gli inevitabili errori di questo approccio facendo ricorso – tra i primi nelle scienze sociali – a un approccio statistico: nel suo saggio sulle leggi del matrimonio e della discendenza (1899), egli studiò un campione di più di trecento società per giungere alle sue conclusioni. T. non può fare a meno di muoversi su un doppio binario: da una parte l’uso del metodo induttivo per studiare empiricamente gli scenari locali, dall’altra l’applicazione del metodo deduttivo per costruire lo scenario dell’evoluzione culturale che non può essere realizzato sulla sola scorta del materiale empirico troppo vasto per la sua portata. L’approccio comparativo fu inoltre una scelta obbligata: T. non fu un ricercatore sul campo, benché fosse assolutamente convinto dell’importanza di questo metodo di studio, e pur avendo trascorso un paio di anni in giro tra Stati Uniti, Messico e Cuba, egli si basò perlopiù su dati di seconda mano.

Sopravvivenze e stadi evolutivi. L’idea di T., come si è visto, è quella di una storia dell’umanità evoluiva, concepita come una successione di stadi culturali che procedono dal semplice al complesso in vista di un progresso costante. Questo processo è unilineare e universale, nel senso che la cultura è una sola, unica per tutta l’umanità, e le differenze tra culture non sono che stati diversi della sua evoluzione. Tutta l’umanità è quindi destinata a percorrere lo stesso cammino e passare per le stesse tappe. Alla base di questo assunto vi era una tesi, sostenuta dall’antropologo e grande viaggiatore Adolf Bastian, detta dell’unità psichica del genere umano. Sulla base dei numerosi studi compiuti, Bastian giunse alla conclusione che le straordinarie somiglianze tra popoli geograficamente lontanissimi potessero essere spiegate supponendo l’esistenza di idee innate, valide e comuni a tutta l’umanità, che definì strutture

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di pensiero elementari. In altre parole, non vi sarebbero differenze specifiche tra gli esseri umani riguardo la loro vita psichica. Questo concetto aveva di positivo una forte valenza antirazzista per l’epoca, essendo una confutazione implicita dell’esistenza di differenze innate tra i popoli. Da questa idea, T. formò la nozione di sopravvivenza per indicare quelle usanze, abitudini e credenze che sono residui di uno stadio evolutivo precedente e che permangono «in uno stadio della società diverso da quello in cui avevano la loro sede d’origine». Le sopravvivenze sarebbero quindi prove che aiutano l’antropologo a tracciare il corso che la civiltà ha effettivamente seguito, quasi come fossero fossili da cui gli studiosi possono ricostruire il processo evolutivo delle società umane. Non va tuttavia dimenticato che lo schema evolutivo di T. è però più una sorta di modello ideale che un effettiva realtà storica, come è invece quella ipotizzata da Lewis H. Morgan sulla base degli stadi di Comte che suddivide l’evoluzione della società in tre stadi – selvaggio, barbaro, civile. Ad ogni modo questo tipo di schema evolutivo tyloriano, pur conferendo pari dignità ai “primitivi” e ai “moderni” eliminando certi concetti razzisti come quelli di barbari e selvaggi, legittima una concezione della storia all’insegna del progresso in cui è forte l’impronta eurocentrica. Ponendo l’Occidente come modernità, e dunque come apice dell’evoluzione culturale, si riconosce a tutti gli altri popoli extra-europei uno status più basso di evoluzione. La cultura ha avvicinato i popoli, mentre l’idea di progresso li ha allontanati sulla base di una rigida gerarchia. Tale etnocentrismo è pienamente riscontrabile nella doppia negazione della storia e dell’alterità: la storia non è più intesa come un insieme di percorsi costruititi da eventi irripetibili e non riconducibili a leggi determinate, ma è vista come un percorso unitario che ha un fine, quello dell’evoluzione verso il complesso. L’alterità dei popoli extra-europei è negata nella sua specificità, poiché le uniche differenze contemplate sono quelle che si collocano su un asse verticale come varianti quantitative dell’evoluzione culturale. In questo modo, l’antropologia svolge un ruolo di primo piano nella costruzione della modernità. Il concetto di moderno, infatti, non si definisce da solo ma necessità di un termine di riferimento rispetto al quale definirsi per negazione. Proprio perché studia i popoli rimasti arretrati, insabbiati nelle tradizioni e dunque ancora primitivi, l’antropologia permette alla modernità di rappresentarsi attraverso la definizione delle società premoderne. La peculiarità della modernità sta infatti nel riclassificare rispetto a se stesso le epoche e le civiltà precedenti, orinandole e denominandole a partire dalla propria centralità: concetti quali “epoca primitiva”, “medioevo”, “sottosviluppo” e anche “post-modernità” ne sono gli esempi maggiori. Il concetto di cultura svolge un ruolo chiave in questo processo, essendo la categoria che rende pensabili le alterità rispetto alle quali il moderno si definisce per differenze. Alterità del passato, ma anche del presente: quelle rappresentate dalle società primitive al di fuori dei confini dell’Occidente. Il concetto di insieme complesso teorizzato da T. non è che un altro prodotto della modernità, laddove la modernità può essere definita come l’epoca in cui domina una ragione forte capace di costruire spiegazioni totalizzanti del mondo. La totalità strutturata rappresenta dall’insieme complesso tyloriano dimostra che ci troviamo di fronte alla proiezione di un paradigma della modernità sul mondo primitivo. Il concetto di insieme complesso è frutto della modernità, e nel

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momento in cui una cultura, per essere riconosciuta, dev’essere un insieme complesso, essa deve uniformarsi al modello espresso dalla modernità.

DALLA CULTURA ALLE CULTURE: IL RUOLO DI BOAS.

Agli inizi del Novecento le idee di evoluzione culturale e degli stadi di sviluppo universali divennero oggetto di forti critiche, venendo indicate come ostacoli alla conoscenza della pluralità delle culture. La critica più argomentata dell’evoluzionismo fu compiuta da Franz Boas.

Franz Boas: il particolarismo storico. Boas (1858-1942) era un giovane ricercatore di geografia quando entrò a far parte di una spedizione artica che lo condusse nella Terra di Baffin. Qui B. scoprì che il gruppo eschimese degli Inuit possedevamo una diversa serie di categorie cromatiche che influenzavano la loro percezione del colore dell’acqua del mare. B. giunse alla conclusione che persino le nostre percezioni sensoriali possono venire influenzate da fattori culturali. Partendo da questa considerazione, B. iniziò una serie di studi sull’interazione tra fattori geografici e culturali e poco dopo abbandonò la nativa Germania per trasferirsi negli Stati Uniti e iniziare una serie di studi etnografici sulle tribù indiane nordamericane. Tali studi portarono B. ad abbandonare l’assioma indistinto di cultura in favore dell’idea di una pluralità di culture influenzate – oltre che da fattori geografici – dai molteplici percorsi storici, dato che la Storia non segue un rigido schema evolutivo ma è costruita da un’infinita serie di percorsi. A queste conclusioni B. arrivò attraverso lo studio sul campo, che da quel momento in avanti divenne il fondamento non solo metodologico ma anche teorico dell’antropologia, smantellando le tesi tyloriane. Attraverso un enorme lavoro di ricerca, B. raccolse un quantità impressionanti di dati e informazioni riguardo la lingua, le usanze, i riti, le strutture sociali delle diverse tribù degli indiani d’america, dati che lo portarono a cogliere i particolari stili di vita che fanno di ogni cultura un’esperienza irripetibile altrove. Il suo studio sugli indiani non fu il primo, poiché era già stato compiuto da altri antropologi, il cui approccio spesso non fu solo scientifico: ad esempio l’antropologo evoluzionista Lewis Morgan, che studiò le tribù degli Irochesi, nel 1846 si schierò dalla loro parte nominandosi avvocato difensore in una causa giudiziaria intentata da un gruppo di speculatori bianche che volevano prendersi le loro terre. Ad ogni modo, il contributo più importante di B. fu l’introduzione dell’approccio detto particolarismo storico: esso è un procedimento induttivo fondato sull’osservazione empirica di un gruppo culturale ben localizzato e volto a metterne in luce le strutture sociali peculiari a partire dal suo specifico sviluppo storico. L’affermazione di B. secondo cui la cultura non esiste, ma esistono invece diverse culture, trova il suo fondamento proprio nell’idea che ogni gruppo etnico sia diverso da un altro per il carattere irripetibile della sua storia. Ciò lo porta a ritenere impossibile l’esistenza di stadi di sviluppo comuni a tutta l’umanità. Un altro importante contributo di B. all’antropologia è stato l’adozione del metodo idiografico contrapposto a quello nomotetico praticato dagli evoluzionisti e tendente a ricercare le leggi universali dell’agire umano. L’approccio idiografico deriva dallo storicismo tedesco e soprattutto dalle teorie di Wilhelm Dilthey: egli, in polemica col positivismo di Comte, esplicò per primo

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la distinzione tra scienze naturali e “scienze dello spirito” (oggi dette scienze storico-sociali o scienze umane), distinzione fondata sull’assoluta diversità del loro rispetto oggetto di indagine: un oggetto assolutamente indipendente rispetto al soggetto nelle scienze naturali, dove il mondo naturale è altro dal soggetto che è l’uomo; un’identità tra oggetto e soggetto nelle scienze storico-sociali dove l’oggetto, cioè il mondo storico-sociale, è – come affermava già Vico – opera del soggetto, cioè dell’agire umano. Lo studio delle scienze naturali si basa sul metodo nomotetico, sulla spiegazione degli eventi in base a leggi universali; le scienze dello spirito si basano sul metodo idiografico che permette di comprendere i significati irripetibili di ogni evento storico. La differenza centrale tra le scienze umane e quelle naturali sta nel fatto che le prime sono volte allo studio di ciò che è singolare, individuale (cfr. particolarismo storico), mentre le seconde studiano l’universale.

La critica dell’evoluzionismo e il relativismo culturale. Nella sua opera Limiti del metodo comparativo in antropologia (1896), B. smantella il paradigma dell’evoluzione unilineare proposta da Tylor. B. ritiene che non sia assolutamente provata la tesi secondo cui ogni popolo attualmente presente in uno stadio progredito della civiltà sia passato attraverso una serie di stadi di sviluppo identici per tutti e che possono essere desunti dall’analisi di tutti i tipi di cultura esistenti al mondo. B. afferma con convinzione che la sequenza dal semplice al complesso non è valida per tutti i fenomeni culturali: non lo è ad esempio per la lingua, o per l’arte, o per la religione. A dimostrazione di ciò, B. fa riferimento ai numerosi studi da lui effettuati sui linguaggi degli indiani d’america e nota come «molte lingue primitive sono complesse», perché le loro strutture grammaticali e le loro forme logiche sono molto più elaborate di quelle occidentali: «Le categorie grammaticali del latino, e ancor di più quelle dell’inglese moderno, appaiono rozze se paragonate con la complessità delle forme logiche che le lingue primitive conoscono». Riguardo la tesi dell’unità psichica del genere umano, B. la smonta attraverso la sua impostazione storicistica: la presenza di fenomeni simili in contesti culturali distanti può essere spiegata attraverso una connessione storica tra tali fenomeni. E’ probabile che questi fenomeni fossero acquisizioni culturali primitive risalenti a un periodo antecedente alla dispersione dell’umanità, o che si siano prodotte per contatti culturali diretti. Notando inoltre con che frequenza forme analoghe si sviluppino indipendentemente in piante e animali, B. afferma che «non c’è nulla di improbabile nell’origine indipendente di idee simili tra i gruppi umani più differenti». Uno dei meriti principali di B. è stato l’avere confutato il pregiudizio razzista. Nel suo La mente dell’uomo primitivo, B. dimostrò come non vi sia alcuna influenza sulla cultura da parte dei caratteri biologici ed esplicò la sua tesi già presente in tutti i suoi studi secondo cui le differenze tra gruppi umani sono dovute solo alla cultura e ai diversi percorsi storici e non alla razza. B. è stato anche il primo a introdurre il concetto di relativismo culturale che è del resto l’inevitabile approdo del particolarismo storico. Questa tesi si fonda sull’assunto secondo cui ogni cultura ha una sua unicità che la rende incomprensibile e impossibile da valutare a tutti coloro che non la studiano dal suo interno. Nato come correttivo dell’etnocentrismo (termine introdotto da William G. Sumner nel 1906), concetto che designa la tendenza a interpretare e

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giudicare le culture “altre” in base ai propri criteri, il relativismo culturale è poi divenuto per gli antropologi un ostacolo riguardo questioni etiche ed epistemologiche che si verranno a presentare più avanti.

Il concetto di cultura. Ne La mente dell’uomo primitivo (1911), B. elaborò una propria definizione di cultura. Essa è definita come «la totalità delle reazioni e delle attività intellettuali e fisiche che caratterizzano il comportamento degli individui che compongono un gruppo sociale – considerati sia collettivamente sia singolarmente – in relazione al loro ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del gruppo stesso, nonché quello di ogni individuo rispetto a se stesso». La cultura, continua B., «comprende anche i prodotti di queste attività» e soprattutto «i suoi elementi non sono indipendenti ma possiedono una struttura». Riguardo questa definizione, possono essere fatte alcune riflessioni. Innanzitutto, nonostante le sue varie critiche a Tylor, la sua definizione di cultura riprende da Tylor l’idea di totalità visto che anche per B. la cultura è un insieme di elementi che non sono indipendenti ma che possiedono una struttura: ritorna quindi il concetto di insieme complesso. Diversamente da Tylor, tuttavia, B. fa qui una distinzione tra due diversi aspetti della cultura: da una parte le reazioni e le attività comportamentali, dall’altra i prodotti di questa attività, cioè quella che potremmo definire la cultura materiale. Ciò che tuttavia spicca in questa definizione è la centralità riservata all’individuo: mentre nella definizione di Tylor l’individuo, inteso come “membro della società”, è un elemento passivo perché mero “portatore” della cultura, B. assume l’individuo nella qualità di soggetto capace di “attività” e “reazioni”.

Lingua, cultura, individuo e il ruolo di Sapir. Nel suo fondamentale Handbook of American Indian Languages (1911) in quattro volumi, B. fornì una documentazione unica sulla grammatica delle lingue degli Indiani d’America, molte delle quali oggi scomparse. La sua introduzione a quest’opera è stata considerata da molti esperti come uno dei testi più importanti della linguistica descrittiva e antropologica. B. ritiene che vi sia un collegamento tra lingua e cultura, ed anzi la conoscenza della lingua viene ritenuta indispensabile per la conoscenza di una cultura. Queste riflessioni derivano dalla stessa personale esperienza di B. Egli studiò numerose questioni, quali il legame tra lingua e razza, l’influenza dell’ambiente sulla lingua, i rapporti tra linguaggio e pensiero. Nella sua più tarda opera General Antrhropology (1938), egli sosterrò la tesi secondo cui le categorie grammaticali di una lingua impongono a chi le usa delle scelte obbligate allo stesso modo in cui i soggetti sociali sono condizionati dalle regole della propria cultura. B. non approfondì sistematicamente questo rapporto tra lingua e cultura, che fu invece ripreso da uno dei suoi allievi, Edward Sapir (1889-1939). Egli, insieme al linguista Benjamin Lee Whorf, ha studiato il modo in cui pensiero e percezione sensoriale sono determinati dal linguaggio, giungendo a formulare l’ipotesi secondo cui le forme grammaticali di una lingua arrivano a influenzare inconsapevolmente il modo in cui i parlanti di una determinata lingua percepiscono e conoscono il mondo. La cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf si basa su non poche parentele tra fenomeni linguistici e culturali:

1. Entrambe sono il prodotto della vita in società (cfr. fatti sociali);

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2. Entrambe sono diverse da una comunità all’altra;3. Entrambe vanno incontro a modificazioni nel corso della storia;4. Entrambe hanno senso solo per i membri del gruppo che le hanno

ricevute in eredità delle generazioni precedenti.Ciò porta Sapir ha confermare la tesi secondo cui sia la lingua che la cultura sono formate da «configurazioni convenzionali di significati». Questo non deve però portarci a dedurre che le categorie linguistiche siano espressione diretta dei lineamenti culturali, perché tra di loro non c’è null’altro che un’influenza reciproca. Altrimenti, spiega S., sarebbe impossibile capire la rapidità con cui la cultura si diffonde nonostante le differenze linguistiche. Sapir però rifiuta di considerare l’individuo come un portatore della cultura del suo gruppo, perché ciò presupporrebbe l’esistenza di un “comportamento standard” al quale l’individuo dovrebbe adeguare i proprio comportamenti. La cultura di un gruppo non è che l’insieme sistematico di tutte le configurazioni comportamentali che sono state acquisite, e questa cultura altro non è che un costrutto concettuale a cui gli individui fanno riferimento per interpretare il proprio e l’altrui comportamento.

LA FASE ASTRATTA: I DISCEPOLI DI BOAS.

La cultura come costrutto concettuale. Negli anni ’30 l’antropologia, con gli allievi di Boas, sposta la sua attenzione dai costumi ai modelli, sancendo l’inizio della cosiddetta fase astratta. L’oggetto della cultura viene circoscritto ai modelli normativi che regolano il comportamento degli individui all’interno di un gruppo sociale. Il concetto di cultura mantiene la sua connotazione di insieme complesso, anzi la accentua perché essa è garante di quella coerenza di cui ogni sistema normativo ha bisogno. Nella fase astratta, tuttavia, la cultura diviene un costrutto concettuale, in qualche modo separato dalle sue manifestazioni di abitudini sociali. Con questo passaggio, attraverso il quale la cultura perde il suo carattere oggettivo, il paradigma naturalistico non è più adatto al suo studio ed è necessario l’impiego di un paradigma più adeguato quale può essere quello della sociologia comprendente teorizzata da Max Weber. Questo passaggio non sarà però effettuato dagli antropologi, che pure avevano già accettato la differenza sancita da Boas tra scienze naturali e scienze sociali, ma dai sociologi, in particolare da Talcott Parsons. La particolarità della fase astratta sta proprio nel fatto che il concetto di cultura esercita ora la sua influenza più vistosa al di fuori dei propri confini disciplinari, e in particolare tra sociologi e psicologici interessati ad usare tale concetto per studiare i nessi tra società e individuo. In sociologia il contributo di Parsons è stato senza dubbio il più importante: egli fa della cultura un modello di valori capaci di orientare l’agire sociale e mettere in relazione l’individuo con il sistema sociale di cui è parte. Adam Kuper in un suo libro ha visto in Parsons il precursore dell’interpretazione della cultura come sistema di simboli che poi verrà ripresa in antropologia da Clifford Geertz. Nell’ambito della psicologia va sicuramente citato il movimento Cultura e personalità di cui il principale interprete fu Abram Kardiner: il concetto di personalità di base che sarebbe propria di ogni cultura è l’esempio emblematico di questa connessione tra psicologia e antropologia che darà poi vita alla cosiddetta etnopsicologia.

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Il Superorganico di Kroeber. L’eredità di Boas si è divisa in due filoni divergenti tra loro, il primo dei quali vede come principale interprete Alfred Kroeber e il secondo che ha in Ruth Benedict la maggiore esponente. Alfred Kroeber è noto tra le altre cose come l’autore de Il Superorganico (1917), tra le opere più criticate di tutta l’antropologia. La sua tesi afferma che la cultura costituisce un ordine di fenomeni autonomi e separati rispetto agli altri livelli in cui si articola la realtà: inorganico, organico, sociale, individuale. Kroeber riprende questa nozione da Herbert Spencer, il quale l’aveva coniata per definire un ordine di fenomeni distinti da quelli organici; tuttavia, mentre per Spencer i due ordini di fenomeni sono comunque legati l’uno all’altro, Kroeber rifiuta ogni possibile punto di contatto tra l’ordine biologico e quello socio-culturale. La diversità sta soprattutto nei diversi processi evolutivi: a livello biologico l’evoluzione avviene per sostituzione, laddove a livello socio-cultura avviene per accumulazione: «Il processo di sviluppo della civiltà è chiaramente un processo di accumulazione: si conserva il vecchio, malgrado l’introduzione del nuovo. Nell’evoluzione organica l’introduzione di caratteristiche nuove è possibile in genere soltanto mediante la perdita o trasformazione di organi o facoltà esistenti». Kroeber riprende dunque da Boas l’irriducibilità della cultura ai fenomeni biologici, ma non rifiuta la possibilità di scorgere delle uniformità, delle regolarità culturali nei gruppi che studia, soprattutto – come Boas – le popolazioni indiane, a cui dedica nel 1925 un libro sulle tribù della California. La nozione di modelli a cui Kroeber fa ricorso è però diversa da quella celebre usata dalla Benedict, che definiscono orientamenti psicologici della società paragonabili agli atteggiamenti delle personalità. Per Kroeber «il culturale è nella sua essenza non individuale». Le critiche a questa sua tesi riguardano soprattutto il rischio di conferire alla cultura un carattere oggettivo, ontologico, una realtà a sé. La tesi del superorganico ha tuttavia due grandi meriti: l’enfatizzare la discontinuità tra ordine naturale e ordine sociale, e il sottolineare l’autonomia dalla cultura, irriducibile a qualsiasi condizionamenti di fenomeni sia organici sia sociali e psichici. Quasi trent’anni dopo la pubblicazione della sua discussa opera, Kroeber sembra avere un ripensamento su questa sostantivizzazione della cultura teorizzata dal suo Superorganico: un ripensamento dovuto probabilmente alle molte critiche, che tuttavia egli attribuisce a un fraintendimento dovuto all’ambiguità dei termini da lui utilizzati. Ne Il concetto di cultura nella scienza (1949), egli specifica che i livelli distinti in cui sarebbe ripartita la realtà – inorganico, organico, superorganico – non rappresenterebbero delle entità ontologiche, ma degli “orizzonti di intelligibilità”, cioè dei diversi campi della realtà ognuno dei quali andrebbe studiato con metodologie diverse e interpretato attraverso diversi approcci epistemologici. Kroeber vuole cioè sottolineare l’autonomia scientifica e metodologica del concetto di cultura in antropologia rispetto ad altri ambiti, e torna così a sottrarre il concetto da una possibile sostantivizzazione e ricondurlo alla visione di costrutto concettuale.

I modelli di cultura della Benedict. Boas riteneva che si fosse dedicata poca attenzione al problema dei rapporti tra l’individuo e la sua cultura, cioè con la società in cui vive. Egli non riuscì ad approfondire la questione, che venne

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ripresa dalla sua allieva Ruth Benedict e da Abram Kardiner. Pur avendo formazioni diverse – Kardiner fu anche allievo di Freud, la Benedict si è laureata in letteratura inglese – entrambi cercarono nel corso dei loro studi una “testa di ponte” che collegasse l’individuo alla cultura della società di cui è parte. Kardiner la trovò nel concetto di personalità di base, mentre la Benedict la individuò nei modelli di cultura. Mentre la personalità di base di Kardiner sembra quasi costituire una realtà, il modello di cultura della Benedict è più che altro un ideltipo, benché lei abbia sempre negato la possibilità di classificare le culture per tipi essendo legata alle tesi di Boas riguardo l’irriducibilità di una cultura a un’altra. Nella sua opera più celebre, Modelli di cultura (1934), la Benedict ha messo a confronto quattro diversi popoli primitivi: gli Zuni, i Pima, i Kwakiutl e i Dobu. Influenzata forse dalla sua formazione letteraria, secondo cui le culture – come le poesie – vanno viste nella loro interezza, comprendendone le “forze dominanti”, la Benedict ha rintracciato in ognuna di queste culture una categoria derivata dalla psicopatologica (paranoici, megalomani, introversi) applicandovi inoltre la distinzione di Nietzche tra cultura apollinea e dionisiaca. La cultura in questo senso sarebbe quindi una sorta di personalità su vasta scala comune a tutti gli individui facenti parte di un determinato gruppo sociale. Il concetto di “modello di cultura” sta dunque a indicare l’insieme dei tratti e delle peculiarità che caratterizzano una determinata cultura, sancendone l’individualità rispetto a ogni altra. I tratti di per sé possono far parte di più culture, ma è la particolare configurazione di questi tratti a rendere unica ogni cultura. Le culture sarebbero come dei complessi integrati, cioè insiemi coerenti di pensieri e di azioni caratterizzati da certi scopi caratteristici che sono propri e non condivisi da nessun altro tipo di società. Nel 1944 la Benedict utilizzò questo approccio nel suo studio sugli immigrati giapponesi che vivevano negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, commissionato dal Servizio Informazioni Militari interessato a saperne di più sulla mentalità del nemico che stavano combattendo. L’alterità estrema che il Giappone ha sempre costituito agli occhi dell’Occidente fu in parte attenuata dalle ricerche della Benedict, che studiò appunto i modelli culturali che regolano l’esistenza dei giapponesi. Risultato di questo lavoro fu la sua celebre opera Il crisantemo e la spada (1946).

IL FUNZIONALISMO BRITANNICO E IL RUOLO DI MALINOWSKI.

Dopo Tylor, non emergono nel panorama dell’antropologia inglese figure di rilievo, ma prosegue una fervida attività di studio condotta dagli antropologi il più delle volte nei paesi colonizzati, attraverso l’uso di questionari da sottoporre alle popolazione indigene per meglio studiarle e attraverso le cosiddette suervey, ricognizioni etnografiche tra cui va ricordata la spedizione allo Stretto di Torres condotta nel 1898-99. Una vera rivoluzione etnografica si verifica però nel 1922, con la pubblicazione del libro di Bronislaw Malinowski (1884-1942) dal titolo Argonauti del Pacifico Orientale. Malinowki è stato insieme ad Alfred Radcliffe-Brown il maggiore esponente del funzionalismo britannico. Questa particolare scuola di pensiero è caratterizzata da una particolare attenzione all’analisi dei fattori che contribuiscono al mantenimento dell’equilibrio interno di una società, che appunto la teoria funzionalista

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concepisce come un organismo al cui funzionamento contribuiscono le sue varie parti. Questa visione del sistema sociale come una sorta di organismo vivente prevale soprattutto in Radcliffe-Brown (che la riprese dalle tesi di Emile Durkheim, il padre del funzionalismo in sociologia), il cui approccio è appunto definito antropologia sociale proprio per l’importanza centrale attribuita alla società. Diverso è l’approccio di Malinowski, il quale pur mantenendo una visione funzionalista pone al centro dei studi l’individuo e non la società.

Una teoria scientifica della cultura. Malinowski teorizza la sua nozione di cultura nel saggio postumo Una teoria scientifica della cultura (1944), anche se le conclusioni erano già presenti in nuce nella sua ricerca sul campo nelle Trobriand. Egli riprende l’interpretazione tyloriana della cultura come insieme complesso, ma ne accentua l’aspetto organicistico trasformandola in un “tutto integrato” in cui ogni singola parte contribuisce al funzionamento dell’insieme. Malinowki ritiene che ogni cultura sia costituita dall’insieme di risposte che la società dà ai bisogni universali degli esseri umani. Tali bisogni sono di due tipi: alla base vi sono in bisogni umani universali (basic needs), come il mangiare, il dormine, il riprodursi e a cui ogni cultura fornisce proprie peculiari risposte; la soddisfazione dei bisogni primari crea quindi bisogni secondari o derivati come l’organizzazione politica ed economica che nascono dalla necessità di ogni società di mantenere la propria coesione interna. C’è infine un terzo tipo di bisogni, bisogni di carattere culturale, come le credenze, le tradizioni, il linguaggio. A tutti questi livelli di necessità umane, ogni cultura dà risposte coerenti alla propria natura. Su queste premesse, come ha notato James Clifford, Malinwski ha potuto basarsi sull’analisi di un singolo aspetto della cultura di un popolo per capire l’insieme complesso di cui questo aspetto è parte. L’approccio di Malinowski rende quindi possibile giungere al tutto attraverso una o più delle sue parti. La figura retorica della sineddoche è perfettamente in grado di spiegare questo approccio: la parte è concepita infatti come una “versione in scala” o come una “cifra analogica” del tutto.

La ricerca nelle Trobriand e il Kula. Malinowski, di origine polacca, aveva studiato antropologia a Londra e nel 1914 era in Australia per un congresso quando scoppiò la Guerra mondiale. Essendo, come polacco, cittadino dell’Impero austro-ungarico e dunque nemico per gli inglesi, egli fu trattenuto in Australia ma le autorità locali gli permisero di compiere alcune ricerche etnografiche e per tale motivo Malinowski passò due anni nelle Isole Trobriand in Melanesia, per studiarvi la cultura indigena. L’analisi di tale cultura non riguardò tutti i suoi aspetti, poiché Malinowski si concentrò su uno in particolare, il kula. Esso è una forma di scambio cerimoniale che consiste in periodiche spedizioni su canoe che ogni gruppo organizza per andare a fare visita alle comunità delle altre isole, con cui vengono scambiati doni. Lo scambio simbolico si basava su due tipi di doni: collane di conchiglie rosse, dette spulava, venivano scambiate con braccialetti di conchiglie bianche, dette mwali. A questo si aggiungeva un baratto informale detto gimwali con cui venivano scambiati oggetti d’uso di ogni topologia. Più tardi Marcel Mauss, allievo di Durkheim e come lui funzionalista, avrebbe definito un fenomeno come questo – quello, cioè, dello scambio tra due società – un fatto sociale

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totale, perché coinvolgendo molteplici aspetti culturali di una società permette di avere una visione complessiva della cultura di quel gruppo. In effetti il kula aveva la capacità di coinvolgere vari aspetti della vita locale: dalla costruzione delle canoe alla preparazione dei doni fino alla celebrazioni dei riti sacri che accompagnavano la cerimonia. Malinowski, da funzionalista quel egli era, cercò soprattutto di comprendere la funzione svolta da questa istituzione. Egli giunse alla conclusione che il kula serviva come meccanismo di attivazione di determinate forme di solidarietà sociale: grazie al kula si contribuiva fare legare le persone attraverso una serie di obblighi e sulla base di un principio di collaborazione.

L’osservazione partecipante. Con il suo studio nelle Trobriand, Malinowksi ha spianato la strada a un metodo d’indagine divenuto fondamentale nell’antropologia: l’osservazione partecipante. L’antropologo, che fino ad allora raccoglieva dati empirici attraverso un’analisi il più oggettiva possibile consistente perlopiù in interviste agli indigeni, è spinto ora al coinvolgimento diretto nella vita della comunità studiata. Quando giunse nelle Trobriand, Malinowski piantò la sua tende al centro del villaggio in modo da essere calato perfettamente nella realtà che avrebbe dovuto studiare. L’antropologo deve vivere a contatto diretto con gli indigeni, in prims imparando la loro lingua così da poter avere contatti diretti e non mediati da informatori. La metodologia dell’osservazione partecipante, di cui Malinowski è stato il pioniere anche se non ha coniato lui il termine (si ignora di chi sia la paternità), è divenuta nel tempo un punto di riferimento nell’antropologia, quasi un rito d’iniziazione per ogni antropologo. Il termine è quasi un ossimoro, perché in base al senso comune l’osservazione e la partecipazione sono due concetti alternativi. In realtà il termine vuol significare in pratica il prendere parte in maniera diretta alla vita di una comunità, di condividere dall’interno la cultura del gruppo che si studia. E’ necessario, come scrisse Malinowski, cogliere il punto di vista dei nativi.

IL RELATIVISMO CULTURALE.

Intorno agli anni ’50 del Novecento il concetto di cultura, giunto all’apice della sua affermazione, inizia un rapido declino nell’ambito dell’antropologia. A farlo uscire da questa fase sarà più tardi Clifford Geertz, ma inevitabilmente in questo periodo l’idea di cultura entra in un periodo di latenza a causa di due eventi di grande portata nel campo antropologico che contribuiscono a smantellarne la pretesa di scientificità e obbiettività. Il primo evento è l’affermazione del relativismo culturale che porterà gli antropologi (ma anche i filosofi) a porsi su sue diverse posizioni, quella dei relativisti e quella degli universalisti. Il secondo evento è la pubblicazione postuma dei diari di campo di Malinowski voluta dalla vedova del celebre antropologo nel 1967. Malinowski aveva giustamente tenuto privatissimi tali diari, prevedendone l’effetto negativo che avrebbero causato nella comunità scientifici. La rivelazione delle sue forti insofferenze verso gli indigeni delle Trobriand, del fastidio e della frustrazione continuamente provati nel corso dello studio, provarono un crollo della reputazione di Malinowski e del ruolo

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dell’osservazione partecipante. L’idea di uno studioso oggettivo viene meno, e la lettura dei diari – più che provocare disagio a causa delle parole forti che spesso l’autore usa nei confronti degli indigeni – crea un forte senso di smarrimento epistemologico dovuto alla scoperta dell’impossibilità di uno studio oggettivo e avalutativo da parte dell’antropologo.

Il relativismo etico. Con il termine relativismo culturale s’intende la tesi secondo la quale ogni cultura possiede un proprio sistema di razionalità e che pertanto tutte le sue manifestazioni hanno senso solo all’interno di tale contesto, solo cioè facendo proprio questo sistema peculiare di coerenza e razionalità. Due sono gli aspetti prevalenti del relativismo culturale: il relativismo etico e il relativismo cognitivo. Il relativismo culturale affonda le sue radici nel particolarismo storico di Boas, laddove egli teorizzò l’esistenza non di una cultura in senso universale ma di una pluralità di culture ognuna assolutamente peculiare e incomparabile con qualsiasi altra. Il primo vero teorico del relativismo può essere considerato William G. Sumner con il suo Folkways (1906) in cui per la prima volta compara il termine etnocentrismo. La cultura secondo Sumner è costruita dai folkways, cioè costumi collettivi che sono il prodotto della funzione adattativi della cultura e che sono specifici per ogni gruppo sociale. L’etnocentrismo condurrebbe secondo Sumner a rafforzare i folkways, considerati da ogni gruppo come superiori a quelli di qualsiasi altro. Melville Herskovits riprese le implicazioni relativiste della tesi di Sumner nel suo Man and his Works (1948), secondo cui la realtà è definita dai diversi simbolismi degli innumerevoli linguaggi dell’umanità, e quindi ogni lingua propria di una cultura definisce una realtà diversa. Herskovits si rende conto che la visione relativista permette di considerare valido ogni sistema di norme, poiché ogni sistema normativo ha valore per la società la cui cultura si modella su di esso. La tesi di Herskovits è dunque orientata prevalentemente a enfatizzare il valore della tolleranza e del rispetto, ma lo studioso sa che il lato oscuro di questa tesi è quella di una deriva nichilista che potrebbe portare alla negazione di ogni codice etico universale. Pertanto Herskovits giunge alla tesi secondo cui esistono valori umani validi presenti in tutte le culture, i cosiddetti universali, che sono alla base di tutte le culture e che possono essere individuati estraendoli per induzione dalle variazioni culturali. Ad essi si oppongo gli assoluti che sono convenzioni e come tali sono fissi e unici per ogni cultura.

Il relativismo cognitivo. L’opera che dà inizio al dibattito sul relativismo cognitivo è Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande pubblicato nel 1937 da Edward Evans-Pritchard sulla base di una serie di ricerche condotte dall’antropologo tra il 1926 e il 1930 sulla stregoneria e le pratiche divinatorie degli Azande, popolazione situata tra il Sudan e il Congo. Un primo approccio al problema delle credenze superstiziose attuato da Evans-Pritchard è di tipo funzionalista: egli ritiene che magia e divinazione siano forze coesive del sistema sociale. Il secondo tipo di approccio è quello più importante: egli fa notare come il sistema di credenze e pratiche magiche abbia una sua coerenza interna, in quanto legato a un tessuto di connessioni logiche e disposte in modo tale da non contraddire mai troppo l’esperienza. Insomma, il sistema di

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credenze degli Azande avrebbe una struttura logica: una volta stabiliti alcuni postulati, risultato valide le conclusioni. Evans-Pritchard fa questo semplice esempio: «La stregoneria provoca la morte. Perciò la morte costituisce prova di stregoneria e gli oracoli confermano che fu proprio la stregoneria a provocarla. La magia serve quindi a vendicare la morte». Utilizzando un altro esempio, se gli Azande affermano che una determinata danza può provocare la pioggia, essi saranno attenti ad applicarla sono nella stagione delle piogge e non in quella secca in modo da avere una certa sicurezza che al fenomeno magico corrisponda il fenomeno meteorologico. Ciò non avviene con un calcolo razionale, ma secondo tradizioni particolari che ad esempio impediscono agli Azande di effettuare la danza della pioggia nella stagione secca. Come ha scritto Evans-Pritchard: «Nella terra degli Azande un’idea mistica segue un’altra con la stessa ragionevolezza con cui un’idea del senso comune ne segue un’altra presso di noi»; ciò assicura la razionalità e la logica di questa cultura, perché anche se i ragionamenti si basano su premesse errate essi mantengono la propria coerenza interna. In The Idea of Sociale Science (1953), il filosofo britannico Peter Winch affrontò per la prima volta in termini teorici il problema posto da Evans-Pritchard, laddove afferma che per comprendere culture “altre” è necessario sospendere le nostre categorie cognitive che ci impediscono di comprendere appieno il sistema di credenze e valori di una comunità. La posizione relativista ritiene che non esista una razionalità universale con la quale valutare le diverse culture, visto che la razionalità è solo interna a ogni sistema di credenze; la posizione universalista cerca invece una razionalità oggettiva che possa costituire una “testa di ponte” interculturale. Winch resta ancorato al relativismo cognitivo introdotto da Evans-Pritchard, essendo infatti dell’idea che nella ricerca etnografica sia sbagliato far ricorso a criteri universali di coerenza logica, dal momento che ogni società possiede un proprio sistema di regole e significati condivisi che conferiscono senso a tutti i discorsi, i comportamenti e le pratiche dei suoi membri, assicurandone una razionalità interna. In altre parole, la logica e l’epistemologia dell’antropologo occidentale dipende dalla nostra peculiare forma di vita (per dirla alla Wittgenstein) e non possono essere estese ad altri contesti. Gli universalisti tentano invece di ristabilire un nucleo epistemologico comune a tutti gli uomini tale per cui sia possibile confermare l’esistenza di una qualche forma di razionalità condivisa da tutte le diverse culture umane. Il rischio del relativismo resta quello di tendere a una sostantivizzazione delle culture, viste come universi chiusi e incomunicabili tra loro.

LA FASE SIMBOLICA: IL RUOLO DI GEERTZ.

Anti-anti-relativismo. In questo clima di disinteresse verso il concetto di cultura si giunge alla terza fase dell’antropologia cultura, la fase astratta, dove a contare sono ora i significati. La cultura è paragonata a “ragnatele di significati”, cioè a strutture di significati socialmente stabilite attraverso le quali le persone conferiscono senso alle loro azioni. La fase astratta parte dalle fondamentali premesse di Max Weber e si afferma in antropologia a partire dagli anni ’70 in America con Clifford Geertz che è il fondatore della cosiddetta antropologia interpretativa. Erede del particolarismo storico di Boas e del suo

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approccio idiografico basato sulla comprensione dei significati, Geertz afferma che la cultura è sempre locale (local knowledge) e l’antropologo deve rifiutare tentazioni universalistiche e tenere conto delle peculiarità di ogni cultura. Un approccio che molti antropologi rifiutano, secondo Geertz, per paura «di perdersi in un turbine di relativismo culturale tanto convulso da privarli di ogni possibile solido punto di riferimento». Geertz a riguardo si definisce un anti-anti-relativista: non questa definizione vuole dire non di essere a favore del relativismo, ma contrario agli antropologi universalisti che tentano di rintracciare una conoscenza e una morale oggettive e universali. Geertz non è infatti un relativista convinto, estremo: ritiene che l’Altro sia perfettamente conoscibile, senza fare riscorso «a pretese di capacità straordinarie di annullare il proprio sé e cose simili» per arrivare a capire una cultura aliena. Al contempo ritiene che lo studio delle peculiarità culturali ci permetta di rintracciare, forse per induzione, «alcune delle rivelazioni più istruttive su che significa essere genericamente umani».

Local knowledge. Il compito dell’antropologo, sostiene Geetz, consiste nel cogliere il punto di vista del nativo e decifrare i significati che questi conferisce alle sue azioni. Per tale motivo la sua prospettiva definita interpretativa. I significati non sono soggettivi o privati, bensì intersoggettivi e pubblici perché sono un prodotto sociale, un fatto sociale e come tali condivisi da tutti i membri di una cultura. Al di fuori di essa, quei significati non avrebbero senso. L’antropologo deve accettare l’idea che il centro dell’interpretazione di una cultura sta nell’interazione tra l’osservatore e l’osservato, dove l’osservatore – l’antropologo – deve cercare di avere accesso a quelle strutture di significati comuni agli appartenenti della cultura che cerca di studiare. La pratica etnografica deve basarsi su una thick description, una descrizione densa (termina coniato dal filosofo inglese Gilbert Ryle), consistente nello scoprire le strutture di significato degli attori sociali e nel ricostruire il contesto entro cui i loro comportamenti assumono una intelligibilità. Egli usa l’esempio di Ryle di due ragazzi che contraggono rapidamente la palpebra dell’occhio destro: un’azione che si presta a molteplici interpretazioni che l’antropologo deve vagliare prima di poter comprendere il significato appropriato.

Il circolo ermeneutico. La principale novità di Geertz sta nell’affermazione secondo cui non esiste alcun distacco tra osservatore e osservato, bensì esiste una circolarità ermeneutica tra l’antropologo e l’oggetto della ricerca, una relazione di influenza reciproca dove ciascuno è «produttore di significati» e quindi influenza l’altro. A corroborare questa posizione fu la pubblicazione postuma dei diari di Malinowski nel 1967, che fece crollare «il mito dello studioso sul campo simile al camaleonte, perfettamente in sintonia con l’ambiente esotico che lo circonda». Piuttosto che parlare di un problema di ordine morale, Geertz si concentra sul problema epistemologico posto dai diari: essi pongono infatti in discussione la possibilità stessa della conoscenza antropologica, nel momento in cui si introduce una scissione tra comprendere e partecipare. L’osservazione partecipante, insomma, non è più possibile; e tra il verstehen, cioè il comprendere, e l’einfulhen, ossia il partecipare, Geertz sacrifica il primo in favore del secondo, in favore di ciò che il filosofo

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ermeneutico tedesco Wilhem Dilthey aveva appunto chiamato circolo ermeneutico. Esso consiste nel passaggio continuo «dal tutto concepito attraverso le parti che lo rendono attivo alle parti concepite attraverso il tutto che le motiva». Si può dire che sia un superamento sia della prospettiva di Malinowski secondo cui è sufficiente studiare un singolo aspetto di una cultura per capirla nella sua interezza, sia della prospettiva di Boas nell’accezione datagli dalla Benedict secondo la quale la cultura può essere compresa solo attraverso una visione d’insieme. Egli fa l’esempio del baseball: per capire il gioco bisogna sapere cosa sia una mazza, un colpo, un’inning, un giocatore esterno, una schiacciata, un lancio ad effetto; ma bisogna anche sapere che cos’è in generale il baseball, quale sia il suo scopo, così che le singole parti acquistino un significato.

Il combattimento dei galli a Bali. La tesi di Geertz riguardo l’osservazione partecipante è che per mettersi dal punto dei nativi non serve partecipare ma basta essere accettati. Per dare un esempio pratico di questo suo approccio, egli racconta un evento capitatogli nel suo studio della cultura indigena di Bali. In realtà questo esempio è piuttosto debole, perché più che mostrare la capacità di essere accettati sembra dimostrare ancora una volta l’importanza della partecipazione, cioè dell’adeguamento al comportamento dei nativi. Dopo dieci giorni trascorsi in un villaggio di Bali senza essere riuscito a stabilire rapporti con i nativi, egli si recò insieme alla moglie a un combattimento di galli, un’usanza locale tradizionale proibita però dalla legge. Quando nel bel mezzo dell’incontro irruppe la polizia, si scatenò un fuggi fuggi generale. Geertz e la moglie decisero di adeguarsi agli altri e correre anch’essi: giunsero insieme ad un altro fuggiasco all’entrata di un casale, lo seguirono al suo interno e qui scoprirono che la moglie del loro compagno di fuga aveva preventivamente preparato una tavola apparecchiata con delle tazze di tè. Tutti si sedettero al tavolo e iniziarono a sorseggiare con indifferenza il tè, così che quando giunse la polizia essi riuscirono con questo stratagemma a beffarli. Il giorno dopo Geertz scoprì che l’intero villaggio ora si era aperto verso di lui, essendo diventato il centro dell’attenzione e della cordialità della comunità. Questo esempio è da lui citato a conferma dell’importanza di essere accettati. In realtà si nota come non ci sia poi alcuna differenza con la partecipazione di cui parlava Malinowksi. Più probabilmente Geertz aveva frainteso il metodo dell’osservazione partecipante di Malinowski, e sulla base di questo misunderstanding ha costruito in opposizione il metodo dell’accettazione: Geertz riteneva infatti l’assunto dell’osservazione partecipante di Malinowski una sorta di “afflato emozionale” nei confronti del nativo, una sorta cioè di empatia che invece non era nelle intenzioni di Malinokwski per il quale il partecipare altro non è che un metodo d’indagine che dev’essere il più possibile oggettivo, e consistente nel cercare di partecipare il più possibile alla vita dei locali.

La cultura come concetto semiotico. Geertz crede sia giunto il momento di ripensare il concetto di cultura tyloriano, in primis eliminando quella nozione di insieme complesso che ormai «ha raggiunto il punto in cui rende oscuro molto più di quanto riveli». Quello che Geertz propone è un concetto di cultura più

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ristretto a partire dal quale è possibile ripensare l’intero assetto dell’antropologia. In realtà Geertz non dà una definizione a questo suo concetto di cultura che raramente viene teorizzata in maniera diretta. Una delle definizioni più accurate si basa sull’assunto di Max Weber secondo cui «l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto», e afferma che la cultura consiste proprio in queste ragnatele di significati e la sua analisi - cioè l’antropologia - non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, «ma una scienza interpretativa in cerca di significati». La cultura sarebbe quindi essenzialmente un concetto semiotico, poiché va vista come un testo, scritto dai nativi, che l’antropologo deve sforzarsi di interpretare pur non potendo prescindere dall’interpretazione dei nativi. Il sapere dell’antropologo consisterebbe quindi in interpretazioni di interpretazioni. E se interpretare significa, per Geertz, “imporre un ordine”, quest’ordine resta sempre un ordine a livello locale e il sapere dell’antropologo resta sempre un sapere locale, una local knowledge. Nell’introduzione suo fondamentale Interpretazione di culture (1973) egli espone i principi direttivi della teoria interpretativa della cultura, ma subito mette in guardi dai rischi di un eccessivo “interpretazionismo”: il suo vizio è che tende a resistere a qualsiasi articolazione concettuale, a qualsiasi valutazione di tipo sistematico. Basata solo sull’interpretazione, questo approccio rifiuta qualunque tentativo di esprimere un concetto in termini diversi dai propri. Va infine tenuto conto che l’interpretazione dell’antropologo resta un’interpretazione “di secondo grado”, spiegata da Geertz con la metafora di chi si sforza di leggere sopra le spalle di quelli a cui la cultura appartiene di diritto. Le interpretazioni dei nativi sono condivise, hanno un carattere pubblico, sociale, laddove le interpretazioni dell’antropologo non possono che essere soggettive e influenzate dalla propria cultura, preparazione, sensibilità. Egli compie una distinzione tra i concetti vicini all’esperienza, per indicare l’approccio interpretativo dei nativi, e i concetti distanti dall’esperienza per intendere invece l’approccio degli antropologi. Resta comunque una certa contraddittorietà nella visione che Geertz ha della cultura, a volte definita come insieme di significati, altre volte con la classica definizione di insieme di costumi, o di modelli di comportamento. A volte essa è una costruzione dell’antropologo, altre volte sembra essere un dato oggettivo e indipendente, come si può osservare nella sua distinzione della cultura marocchina tra una cultura come fatto naturale e una cultura come entità teorica. Ancora, nonostante la critica verso il concetto tyloriano di cultura inteso come insieme complesso, egli ne fa più volte ricorso come quando fa notare che il comportamento peculiare dei giavanesi e dei balinesi «non è un’usanza isolata, ma fa parte di un modello totale di vita sociale». Infine va notata una certa vicinanza al concetto di modelli culturali teorizzato dalla Benedict, osservabile in un suo passo in cui scrive che «è attraverso i modelli culturali, agglomerati ordinati di simboli significanti, che l’uomo dà un senso agli avvenimenti che vive», anche se questa definizione più che alla Benedict rimanda a Parsons, di cui Geertz fu allievo e che appunto aveva fatto della cultura il punto di contatto tra la società e l’individuo. Si può osservare che l’ambivalenza faccia parte della teoria di Geertz; un’ambivalenza che forse non deriva da incertezze personali, ma da un desiderio di dare visibilità a un momento di crisi della disciplina in cui si fronteggiano paradigmi opposti in lotta tra loro. Sembra che la teoria di

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Geertz infatti sia a metà strada tra un sapere locale e relativizzato e un desiderio di rintracciare paradigmi forti e universali.

L’IO NARRANTE E IL RUOLO DI CLIFFORD.

La cultura come testo. Con l’opera di James Clifford l’antropologia entra nella sua fase postmoderna e decostruzionista. Il concetto di cultura viene definitivamente messo da parte, e il vero oggetto dell’antropologia è l’antropologo stesso, o meglio il suo io narrante. Questa rivoluzione era già nell’aria con Clifford Geertz e la sua attenzione alla descrizione dell’Altro attuata dall’antropologo, ma con Clifford l’altro diventa la rappresentazione antropologica stessa. Clifford privilegia quindi nell’antropologia la sola parte che finora è stata perlopiù ignorata, quella cioè della scrittura e della costruzione del testo attuata dall’antropologo nel suo studio. E’ lì che avviene la costruzione dell’altro, che dipende dai dispositivi testuali e dalle strategie retoriche adottate. La scrittura etnografica secondo Clifford è determinata da:

1. il contesto;2. la retorica, cioè da specifiche convenzioni espressive;3. le istituzioni, poiché la scrittura è influenzata da particolari discipline e

destinatari;4. il genere letterario, solitamente distinguibile da un romanzo o un

resoconto di viaggio;5. la politica;6. la storia.

Queste variabili determinano quindi la produzione di testi che Clifford definisce altresì finzioni etnografiche, intendendo con questa espressione non che una etnografia è falsa, bensì che è stata costruita, fabbricata a tavolino e come tale è parziale perché inevitabilmente basata sulla selezione e l’esclusione. Tutto questo perché, secondo Clifford, non esiste un elemento preesistente alla scrittura come la cultura, che è semplicemente una finzione etnografica. Nella sua opera principale, Scrivere le culture (1986), Clifford teorizzava queste idee attuando una critica dell’oggetto di studio classico dell’antropologia – il primitivo, l’esotico – e rendendo il testo l’unica cosa che conta, mentre la cultura è ridotta a una true fiction, una finzione reale, una costruzione dell’antropologo.

Scenari postmoderni. Clifford introduce la corrente postmoderna in antropologia. Non va dimenticato che il concetto di cultura è legato a doppio filo alla modernità e come tale non può non essere coinvolto in questa critica decostruzionista. Se il postmoderno, come ha detto Francois Lyotard, è caratterizzato dalla fine delle grandi narrazioni, allora la cultura, che è stato lo strumento delle grandi narrazioni attraverso le quali la modernità ha messo in scena l’Altro, è il primo oggetto della critica postmoderna. Il concetto di cultura come insieme complesso è rifiutato, perché tale insieme non può più essere oggetto diretto di esperienza ma non è altro che un artificio costruito dall’antropologo. Sicuramente tra i meriti di Clifford sta quello di aver svelato i particolari artifici narrativi proprio dell’etnografia, dall’uso della terza persona al riscorso al genere maschile per indicare gruppi umani: accorgimenti retorici che depurano l’esperienza sul campo dell’antropologo da elementi soggettivi e la

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incanala in una serie di sterili convenzioni espositive. Tuttavia il difetto di Clifford sta nell’aver reso questo difetto dell’antropologia un pregio, legittimandolo, affermando che la riduzione dell’Altro a un testo etnografico, lo spostamento dell’oggetto antropologico dall’altro all’io narrante è positiva. Non si può fare a meno di rivedere nuovamente apparire una forma estrema di etnocentrismo, che paradossalmente ricompare all’interno di una delle tesi più relativiste mai tratteggiate. L’Altro viene infatti ridotto a una mera proiezione dell’osservatore, è una semplice costruzione basate sulle categorie cognitive proprie e del tutto indifferente alle peculiarità dell’Altro. Clifford sembra proporre come soluzione un’antropologia dialogica dove il testo non è più solo un prodotto dell’antropologo ma il frutto di un incontro tra osservatore e osservato; questa soluzione appare tuttavia difficilmente applicabile viste le rigide premesse poste da Clifford.

Contro la cultura. E’ paradossale che la crisi attuale del concetto di cultura derivi dagli stessi elementi ma sulla base di un paradigma diametralmente opposto rispetto a quello che provocò la crisi dell’antropologia agli inizi del secolo scorso. Il passaggio dal paradigma naturalistico a quello comprendente si basava infatti sulla sorprendente scoperta della peculiarità dell’oggetto dell’indagine antropologica, che coincideva appunto col soggetto. La crisi attuale si fonda sempre sul rapporto soggetto/oggetto, ma è dovuta alla constatazione della loro irriducibilità. La crisi odierna è dovuta al fallimento del paradigma comprendente, e al passaggio che appare necessario verso un paradigma interpretativo che delega all’osservatore il compito di rendere possibile l’esistenza stessa dell’osservato. Il paradigma postmoderno sembra condannare l’antropologia alla fine delle grandi narrazioni dell’Altro e a un sapere locale che trova in se stesso le proprie categorie interpretative. In realtà ciò non è del tutto vero. Nella ricerca sul campo il concetto di cultura continua ad essere un punto di riferimento imprescindibile che dà senso alle osservazioni empiriche. Ecco perché secondo Ernest Gellner la cultura non sarebbe ormai che un “preconcetto”, un retaggio della prima antropologia ancora valido alla sua periferia, magari in alcuni settori della ricerca empirica, ma del tutto sorpassato nella riflessione teorica. Molto più critica la tesi di Lila Abu-Lughod secondo la quale la cultura è stata lo strumento con cui l’Occidente ha costruito l’Altro, e lo ha fatto irrigidendo le differenze e orinandole gerchicamente al punto tale che la cultura ha ormai preso il posto del vecchio concetto di razza nel legittimare la discriminazione e l’inferiorizzazione degli altri. Per questo Abu-Lughod ha proposto di abbandonare il concetto di cultura nell’antropologia. E’ difficile tuttavia credere che una disciplina possa fare a meno delle proprie categorie fondative senza rischiare di scomparire essa stessa.

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La critica post-colonialedi Miguel Mellino

Nella sua Introduzione, Miguel Mellino sottolinea la particolarità degli studi post-coloniali: nell’epoca di «totalitarismo (neo)liberale» degli anni Novanta è significativo che molti studiosi tornino ad insistere sul ruolo del colonialismo e dell’imperialismo nella costruzione del mondo contemporaneo: è necessario non dimenticare né rimuovere dalla storia gli «altri olocausti» provocati dall’imperialismo bianco liberal-democratico. Il prefisso post di postcolonialismo ha una valenza metaforica che si ricollega al postmodernismo. Come per il postmoderno il prefisso post sta ad indicare l’impossibilità di superare il paradigma della modernità, ma solo di poterlo “aggiornare”, il “post” di postcoloniale vuole intendere l’impossibilità di un superamento del colonialismo, ancora oggi persistente nel mondo globale contemporaneo aggiornatosi nella versione di un neocolonialismo che ha seguito di pari passo il processo di decolonizzazione formale. Una definizione di postcolonialismo può essere quindi quella di «un insieme di pratiche discorsive di resistenza al colonialismo, alle ideologie colonialiste e alle loro forme contemporanee di dominio e di assoggettamento». Mellino cita la critica di Peter Hulme all’opera Cultura e imperialismo (1993) di Edward Said. In esso Said analizzava soltanto l’accezione europea di colonialismo, concentrandosi sull’imperialismo francese e inglese nell’area africana e asiatica. Hulme ritiene che oggi si debba concentrare l’attenzione sul neoimperialismo rappresentato dagli Stati Uniti e sul suo ruolo egemone nell’area dell’America Latina, senza dimentica che gli Stati Uniti sono stati a loro volta frutto del colonialismo europeo. Analisi come quella di Hulme, afferma M., sono ancora scarse rispetto al prevalere di una teoria postcoloniale «anglo(euro)centrica». Addirittura nell’ambiente sudamericano gli studi postcoloniali vengono avvertiti come una forma perversa di imperialismo culturale piuttosto che come un processo critico.

POSTCOLONIALE TRA DECOLONIZZAZIONE E POSTMODERNO.

Postcoloniale e decolonizzazione. Secondo l’intellettuale marxista Aijaz Ahmad, professore di Scienze politiche alla York University dell’Ontario, benché viviamo in un periodo postcoloniale non tutti gli intellettuali né tutte le teorie di questo periodo sono postcoloniali. Per esserlo, devono al contempo esseri postmoderni e principalmente decostruzionisti. C’è quindi un collegamento inscindibile tra postcolonialismo e postmodernismo. Mellino nota che alla base di queste problematiche c’è una ambiguità epistemologica fondamentale nel termine postcoloniale, frutto del conflitto tra due accezioni: l’accezione letterale e l’accezione metaforica del termine. A livello letterale, il concetto di postcoloniale indica un nuovo stadio storico successivo alla decolonizzazione. Tale concetto, secondo Stuart Hall, ci può infatti aiutare a descrivere la trasformazione necessariamente non uniforme del mondo dall’età dell’impero a quella della post-decolonizzazione. Inoltre può essere utile per comprendere i

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nuovi rapporti di potere venutisi a creare, poiché la decolonizzazione come la colonizzazione «ha segnato le società colonizzatrici altrettanto profondamente di quelle colonizzate». Tuttavia risulta come questa lettura storico-cronologica del termine si presti ad ambiguità, soprattutto considerando che presuppone una fine del colonialismo difficilmente verificabile. Per definire un periodo è necessario individuare un suo inizio e possibilmente una sua fine. Una simile categorizzazione è difficilmente applicabile per l’epoca coloniale. Se per colonialismo intendiamo «la conquista, il possesso e il controllo diretto di territori appartenenti ad altri popoli o gruppi sociali definiti a partire da tale situazione come colonie», allora il fenomeno coloniale non è circoscrivibile agli ultimi quattro secoli ma è applicabile all’antica Grecia, all’impero romanzo, a quello azteco e così via. Definire quindi un periodo come postcoloniale è ancora più difficile. Tuttavia M. suggerisce di compiere una distinzione tra il colonialismo dell’età moderna e quello precedente: i colonialismi pre-moderni erano pre-capitalistici, mentre il colonialismo moderno «aveva come spinta propulsiva la nascita e lo sviluppo del capitalismo commerciale prima e industriale poi». Tale tipo di colonialismo non si è limitato all’estrazione di beni, tributi e ricchezze dalle nazioni conquistate ma ha prodotto una ristrutturazione delle strutture economiche e socio-politiche interne a quei paesi. Da questo punto di vista si può quindi definire postcoloniale l’età successiva al processo di decolonizzazione formale avvenuto nella metà del XX secolo. In quest’ottica gli autori australiani di The Empire Writes Back (1989) definiscono postcoloniali quei paesi la cui produzione letteraria recente si caratterizza per una tensione con il sistema coloniale e l’imperialismo europeo. In questo senso le letterature dell’Australia, del Bangladesh, del Canada, dell’India, della Malesia, del Pakistan, di Singapore sono tutte letterature postcoloniali. In comune hanno cioè il presupposto di essere «emerse nella loro forma attuale dall’esperienza della colonizzazione e si sono affermate proprie in tensione con il potere imperiale». Come ha fatto notare Edward Said nel già citato Cultura e imperialismo, l’idea dell’impero e della sua egemonia sulle colonie va interpretato come metadiscorso, come cioè un discorso onnipresente nelle pratiche culturali del periodo essendo alla base della dominazione coloniale stessa, che nel 1914 aveva portato l’Europa a controllare circa l’85% della terra. Citando Joseph Conrad, Said scriveva che «l’esistenza dell’imperialismo dipendeva anche dall’idea di avere un impero», e quindi era inseparabile da determinate concezioni del mondo e dell’altro. E poiché molte di queste concezioni sono ancora oggi valide non solo nei paesi ex colonizzati, ma anche nelle ex madrepatrie (razzismo, lotte tra gruppi etnici), allora il concetto di postcoloniale come superamento del colonialismo rischia di diventare un concetto falsamente celebrativo se non ideologico. Tanto più che oggi molti paesi – l’India, l’Argentina, Haiti, l’Algeria – sono diventati postcoloniali di fatto (cioè indipendenti) e neocoloniali allo stesso tempo, soggetti cioè all’influenza politica ed economica dell’Occidente.

Breve excursus storico: la radica letteraria del postcolonial studies. Cercando di rintracciare le origini del concetto di postcoloniale, M. nota che l’espressione iniziò la sua diffusione negli anni Sessanta all’interno della sociologia dello sviluppo, stando a indicare un campo di studi teso alla

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comprensione e all’analisi delle cause dell’arretratezza socio-ecomonica delle società del terzo mondo. In quest’ambito tuttavia il «decorso particolare del processo di decolonizzazione» portò presto alla sostituzione del termine postcoloniale con quello di neocoloniale. Il termine ritorna nell’ambito della letteratura, in particolare nell’ambito di una specifica sottodisciplina degli engish studies nota come letterature del Commonwealth e consistente nell’indagine della produzione letteraria inglese di autori non inglesi appartenenti al Commonwealth britannico. Nel congresso di Leeds del 1964 si pose l’accento sul «rapporto tra la lingua inglese, in quanto strumento politico di controllo, e le diverse tradizioni letterarie nazioni». La decolonizzazione portò ad eliminare l’etichetta ora obsoleta di “letterature del Commonwealth”, che fu sostituita con quella di New Literatures. L’oggetto di indagine diveniva ora principalmente il «problema dell’identità culturale in società sconvolte nella loro continuità storica dall’irruzione del colonialismo e quindi della modernità occidentale». Il fallimento dei progetti di modernizzazione ed emancipazione dei paesi del “terzo mondo”, ormai evidente alla fine degli anni Ottanta, portò in quello stesso periodo al tramonto delle denominazioni “Commonwealth literatures” o “New literatures” in favore di quella di Postcolonial Literatures, a sottolineare l’area di competenza rivolta alla «comprensione, analisi e approfondimento degli effetti culturali della colonizzazione sulle società colonizzate».

Intermezzo: il (quasi) silenzio di Said. Nell’ambito dei postcolonial studies riveste un ruolo di rilievo la pubblicazione nel 1978 di Orientalismo di Edward Said. L’autore, tuttavia, non si è mai riconosciuto appieno in questa corrente di studi. Egli ne critica infatti l’eccessivo accademismo e le varie derive di questo ambito di studi, che dall’analisi del disagio del colonizzato nei confronti delle categorie interpretative impostegli dal colonizzatore è passato in molte occasioni a sottolineare il disagio e l’angoscia del colonizzatore stesso. Soprattutto, egli ha sempre sottolineato che l’imperialismo e la violenza imperialista sono fenomeni storici, non semplici fenomeni discorsivi o epistemologici, come affermano invece i decostruzionisti e i postmodernisti. La violenza imperialista non fuoriesce solo «dai romanzi di Kipling o dalla filosofia di Hegel, ma soprattutto dai fucili e dai cannoni degli eserciti coloniali». L’intellettuale postcoloniale, secondo Said, non dovrebbe limitarsi all’indagine a livello accademico, ma dovrebbe soprattutto impegnarsi politicamente contro i soprusi e le violenze che studia. M. ammette che, malgrado alcune eccezioni, la critica postcoloniale «fatichi molto ad uscire dai circoli letterari» e la causa sarebbe da rintracciare nella «difficoltà a instaurare un dialogo più aperto con il marxismo» e con quei settori della sociologia e dell’antropologia che oltre all’analisi teorica valorizzano la ricerca sul campo e l’etnografia. Robert Young in Postcolonialism: An Historical Introduction (2001) è uno dei pochi ad aver tentato di far uscire la critica postcoloniale dagli ambienti accademici sviluppandone il concetto su «un asse politico ed epistemologico decisamente più radicale». Egli riconosce infatti che ancora oggi una buona parte del mondo subisce le violente conseguenze dell’idea di uno sviluppo sulla base della modernizzazione occidentale. Young tenta cioè di saldare il postcolonialismo con le esperienze del terzomondismo politico e dell’anti-imperialismo marxista, proponendo addirittura di rinominare la critica postcoloniale come “critica

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tricontinentale”. Questo termine si richiama alla Grande Conferenza Tricontinentale che si tenne nel 1966 all’Avana e «che ha dato inizio alla prima alleanza globale di popoli di tre continenti contro l’imperialismo». Secondo Young la fondazione giornale La trincontinental è da vedere come l’atto di nascita del postcolonialismo, o meglio del tricontinentalismo. Ancora, nel più recente Postcolonialism: A Very Short Introduction (2003) Young propone un dialogo tra la critica postcoloniale e i movimenti anti-globalizzazione, attraverso una “politica transnazionale dal basso”. Young invita a vedere negli eventi più recenti, come il conflitto in Iraq o lo sbarco dei marines americani e francesi ad Haiti, le evidenti connotazioni postcoloniali. M. ritiene che il lavoro da fare sia però ancora lungo, soprattutto riguardo il forte sospetto di molti autori postcoloniali verso il marxismo: Said in molti punti della sua opera lo associa all’orientalismo, e Young lo vede come «una delle tante forme di violenze epistemologica occidentale nei confronti dei popoli del resto del mondo».

Critica postcoloniale e decostruzione della modernità occidentale. Molti anni prima di Said, Franz Fanon sostenne che l’Europa «è letteralmente una creazione del Terzo Mondo» nel senso che a sostenere la sua potenza fu la ricchezza materiale e la forza lavoro delle colonie. Anche se Fanon fu il precursore della critica postcoloniale, resta assolutamente di primo piano il ruolo avuto da Said nell’ampliamento di queste tesi, attraverso l’uso della riflessione filosofica di Michel Focault sul rapporto tra produzione di conoscenza ed esercizio del potere e la riflessione sul ruolo avuto dalla letteratura nei processi epistemologici. L’obiettivo di Orientalismo non era tanto la critica alla falsa nozione di Oriente nell’immaginario occidentale, quanto criticare l’idea di Occidente «minando alla base la legittimità dei sui criteri di rappresentazione». Said invitava a «prendere molto sul serio» l’idea di Giambattista Vico secondo cui gli uomini sono gli artefici della loro storia, mostrando come Oriente e Occidente sono due categorie prodotte dalle «energie mentali e intellettuali dell’uomo», e che si rispecchiano vicendevolmente. Riprendendo Focault, Said ritiene che qualsiasi classificazione e definizione dell’altro non risponda ad alcun criterio di oggettività ma sia piuttosto riconducibile alle «procedure discorsive di un particolare sistema ideologico o politico» (anche se, va detto, Said difende l’indipendenza di pensiero dei vari autori orientalisti, diversamente da Focault secondo cui le singole manifestazioni letterarie non hanno una propria originalità ma sono solo variazioni sul tema centrale). L’orientalismo e il colonialismo vanno per Said considerati quindi non solo come fenomeni storico-politici ma anche come discorsi finalizzati alla produzione di determinate immagini e stereotipi «funzionali sia alla creazione di una cultura o identità occidentale, sia alla sua egemonia o dominio sul resto del pianeta». L’orientalismo secondo Said altro non è stato che «un movimento scientifico il cui corrispondente nel mondo della politica empirica era l’accumulazione e l’acquisizione coloniale dell’Oriente da parte dell’Europa». In Cultura e imperialismo, Said sottolinea come il colonialismo abbia avuto un ruolo chiave nella storia dell’umanità, osservando come l’idea della “missione coloniale” abbia contribuito alla costruzione del paradigma della modernità occidentale e alla creazione dell’idea una cultura europea diversa dalle altre culture considerate primitive, arcaiche o selvagge. Attraverso la definizione dell’altro,

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l’Occidente ha quindi potuto riaffermare la propria immagina di superiorità. Gayatri Spivak ritiene che su questa base non si più studiare la letteratura britannica dell’Ottocento e della prima metà del Novecento senza tenere conto del colonialismo. L’idea del progetto imperialista inglese volto a civilizzare le zone primitive del pianeta rappresenta secondo Spivak uno dei tratti costituivi della englishness, cioè dell’identità nazionale britannica, e come tale traspare nelle numerose opere inglesi di quel periodo. Sempre su questa base, Spivak ha poi sottolineato come i sistemi di autorappresentazione della teoria sociale moderna vanno compresi attraverso il dialogo/incontro/scontro tra l’Occidente e l’alterità culturale. Il movimento postmoderno dell’antropologia ha fatto proprie queste tesi focalizzando il carattere «storicamente situato e testualmente costruito del sapere etnografico», mettendo in luce «i legami esistenti tra la cultura o la mentalità colonialista e i criteri di rappresentazione dominanti in quel periodo». Postcoloniale quindi, come postmoderno, sta ad intendere per Spivak una presa di distanza e se possibile un superamento nei confronti dei criteri di rappresentazione e valutazione tipici della teoria sociale moderna. Come la teoria postmoderna – affermava Jean-Francois Lyotard – ha portato alla luce il carattere mitologico della grandi narrazioni della modernità, la terrai postcoloniale critica quindi i miti del colonialismo occidentale e dei suoi sistemi di rappresentazione de Sé e dell’Altro. Questa è l’interpretazione metaforica del concetto di postcoloniale, contrapposta all’interpretazione letterale. La critica postcoloniale si coniuga perfettamente con la teoria postmoderna e, come ha fatto notare Young, con il post-strutturalismo, in quanto critica delle grandi teorie e delle grandi narrazioni della modernità occidentale. Per la critica postcoloniale la dissoluzione dell’Occidente non è però semplicemente un superamento o un distacco netto dal passato coloniale e dunque dalla modernità occidentale che l’ha reso possibile, ma allude anche a una continuità con quel processo storico. L’obiettivo è quello di mantenere viva la memoria del colonialismo in quanto fenomeno centrale della storia per la comprensione della realtà sociale, economica, culturale e politica odierna.

LA CONFIGURAZIONE DEI POSTCOLONIAL STUDIES.

Anticolonialismo e teoria sociale: il ruolo di Fanon. Negli anni Cinquanta la critica al colonialismo era dominata dagli approcci derivanti dal marxismo e della teoria fanoniane. Secondo il marxismo, il colonialismo occidentale è uno stadio necessario nello sviluppo del capitalismo: Marx considerava il colonialismo come una «precondizione brutale» per la futura liberazione della società non-europee. Frantz Fanon, medico e psicanalista franco-algerino di formazione filosofica, criticava la visione marxista dell’ideologia coloniale razzista come mera sovrastruttura, cioè come un effetto dello sfruttamento economico: tale interpretazione non spiegava ad esempio perché la demarcazione tra ricchi e poveri nelle colonie africane coincidesse con quella tra bianchi e neri. La divisione della società coloniale non si basava sulle classi, come voleva il marxismo, ma sulla razza; di conseguenza il razzismo non è una sovrastruttura ma anzi «l’infrastruttura economica è pure una sovrastruttura. La causa è conseguenza: si è ricchi perché bianchi, si è bianchi perché ricchi. Perciò le analisi marxista devono essere sempre ampliate ogni volta che si

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affronta il problema coloniale». Ciò che Fanon ha qui fatto per primo, anticipando tutta la critica postcoloniale, è l’aver messo in evidenza l’importanza della rappresentazione nel processo sociale, cioè la centralità dell’ideologia per la costruzione delle identità collettive e individuali. Fanon è quindi partito da questo presupposto per andare ad analizzare gli prodotti dall’ideologia coloniale sui nativi. Contrariamente alle teorie psicoanalitiche tradizionali, egli dimostrò come le patologie psichiche frequenti tra i membri di società colonizzate non erano dovute tanto alla loro incapacità di adeguarsi agli effetti della modernizzazione, quanto all’ideologia razzista dominante: denigrando e ridicolizzando le pratiche culturali locali, tale ideologia «inculcava nei colonizzati il desiderio di diventare a tutti i costi bianchi». In questo senso un primo passo verso il riscatto culturale e politico dell’uomo nero è rappresentato dalle negritudine, concetto promosso da vari movimenti politici e culturali presenti nelle colonie ed ex-colonie inglesi tendente ad esaltare «il possesso da parte dei discendenti da antenati africani di tratti e caratteristiche particolari che li rendevano diversi dai bianchi». L’obiettivo era quello di rivalutare la specificità culturale delle popolazione nere ridando ai loro rappresentanti la dignità sottrattagli dal colonialismo razzista. Tale concetto fu poi enfatizzato in Occidente da Jean-Paul Sartre con il suo saggio Orfeo negro (1948), introduzione alla prima raccolta di poesie dell’Africa nera pubblicata in Francia. Egli interpretò la negritudine nel quadro della dialettica hegelo-marxista come momento di negazione della tesi della supremazia dei bianchi. Da fine ultimo, la negritudine diventava così mezzo verso la sintesi storica della progressione dialettica rappresentata dalla «positività oggettiva del proletariato». Fanon fu molto contrariato dall’interpretazione di Sartre, che vedeva la negritudine come mero passaggio dialettico. Egli scrisse: «Non sono qualcos’altro in potenza, sono pienamente quello che sono». In realtà va precisato che la negritudine per Fanon e per Aimé Césaire non consiste nella mera riscoperta di un’africanità pre-coloniale come espressione di un ethnos trascendente o naturale. Questa visione essenzialista era respinta da Fanon che anzi ne vedeva il rischio di un nuovo imperialismo e di una nuova oppressione esercitati questa volta dalle nuove élite locali al potere. James Clifford mette in luce l’ant-essenzialismo di Césaire: «La negritudine non è tanto un fatto o una condizione permanente da scoprire e disegnare, quanto piuttosto una creazione storica, un’operazione linguistica». Dagli anni Sessanta in avanti il concetto di negritudine ha influenzato i balck studies americani, costituitisi negli Stati Uniti già nei primi anni del Novecento con lo sviluppo dei Back to Africa Movements. Alcuni intellettuali neri, tra cui il più noto fu Marcus Garvey – esponente del movimento nazionalista giamaicano – stimolarono la nascita di studi finalizzati alla conoscenza e diffusione della cultura afroamericana, allo scopo di rivalutarla.

Il ’68 e la crisi dell’Illuminismo: la spinta postmoderna. La crisi delle contestazioni del 1968, caratterizzata da una profonda critica verso i principi dell’Illuminismo, può essere letta come l’avvio di un processo di forte autocritica dell’Occidente. Numerosi sono i legami tra il ’68 e il poststrutturalismo francese, rappresentato da autori quali Roland Barthes, Michel Focault, Jacques Derida, Jean Baudrillard e Jean-Francois Lyotard. Prima influenzati e poi fortemente critici verso il formalismo della linguistica strutturalista, i filosofi

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poststrutturalisti sono stati tra i principali interpreti di quello che è stato definito “sessantotto pensiero”. Esso è un idealtipo, un modello di comprensione della particolare realtà storica del ’68, caratterizzato da presupposti epistemologi essenziali quali la fine della filosofia, la morte del soggetto e dell’idea di verità oggettiva, l’anti-essenzialismo, lo storicismo e uno spiccato anti-umanesimo. Come ha fatto notare tra gli altri David Harvey nel suo La crisi della modernità, la violenta critica della ragione, della scienza e della tecnica portata avanti del sessantotto pensiero ha prodotto una delegittimazione dei principi illuministici e delle categorie interpretative che si rifacevano allo spirito illuminista. Il ’68 rappresentò l’apice del movimento critico verso la dialettica dell’Illuminismo, le cui radici vanno rintracciare nella fenomenologia di Nietzsche e di Heidegger come nelle tesi forti della scuola di Francoforte, in particolare quelle sviluppate da Adorno, Horkheimer e Marcuse. Secondo Harvey, lo spirito anti-modernista della controcultura americana degli anni Sessanta fu la base di partenza per lo sviluppo del paradigma postmoderno. Il passaggio dal modernismo illuminista al postmodernismo è definito da Harvey, citando Raymond Williams, un mutamento nelle strutture del sentire, cioè l’affermazione di un diverso modo di concepire i fenomeni impostosi nell’architettura come nella filosofia, nella letteratura come nell’arte figurativa. I postmoderni respingono le metanarrazioni totalitazzanti come i grandi paradigmi interpretativi di Freud o di Marx in favore di una pluralità di «formazioni discorsive» (come è in Focault) o di «giochi linguistici» (come è in Lyotard). Uno dei maggiori pregi del postmodernismo è stato infatti la critica all’imperialismo della modernità illuminista che si arrogava «il diritto di parlare per gli altri con una solva voce», permettendo invece ora il diritto all’autorappresentazione di ogni gruppo sociale. Focault attuò anche una critica al concetto classico di intellettuale proposto tra gli altri anche da Marx e Sartre: espressione tipica del sapere, l’intellettuale pretende di parlare in nome degli altri per mezzo delle proprie idee; a questo intellettuale “universale”, Focault contrappone la figura dell’intellettuale “specifico” il cui compito non è quello di essere il portavoce dei gruppi sociali oppressi ma quello di aiutare tali gruppi sociali a esprimersi con la propria voce, ad autorappresentarsi.

Dalla teoria anticolonialista alla critica postcoloniale. Vicine alle tesi di Fanon possono essere lettere le prime ricerche del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham (CCCS). Stuart Hall, che ne è stato direttore dal 1969 al 1979, definì la fase iniziale del CCCS come dominata dal paradigma culturalista, concentrata cioè sulla cultura come “forza attiva di significato” piuttosto che analizzando le condizioni strutturali della sua produzione. La pubblicazione di The Empire Strikes Back: Race and Racism in 70s Britain (1982) porta a una nova fase del CCCS. La cultura viene opra considerata non più come un insieme di pratiche comuni e significati condivisi, ma come differenza. Sulla cultura come differenza si basa in effetti l’analisi dell’opera, che consiste in una serie di saggi accomunati dalla problematica del concetto di razza e di razzismo nei paesi ex-coloniali e nella stessa Gran Bretagna. Il ritorno del razzismo nella società britannica viene visto come il risultato da una parte del declino politico ed economico inglese e dall’altra della presenza di numerose comunità di immigrati neri nella ex-madrepatria. Il volume

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riproponeva dunque la centralità delle categorie di etnia e razza a livello di rappresentazioni discorsive: definire certi gruppi sulla base di queste categorie porta a delle conseguenze pratiche nella vita di tutti giorni. Un’altra opera chiave per lo sviluppo dei postcolonial studies è stato Europe and its Others, prodotto di due conferenze tenute nell’Università dell’Essex nel 1982 e nel 1984. Esso ha rappresentato il primo tentativo di formare una teoria del discorso coloniale come specifico campo di studi. L’opera approfondisce l’estensione del concetto focaultiano di discorso effettuata da Said in Orientalismo, concetto che in Focault sta ad indicare «un sistema di enunciati, tramutati in significati, attraverso cui gli individui percepiscono, apprendono e classificano la realtà sociale». Focault non aveva considerato il modo in cui le pratiche discorsive influenzano le culture coloniali, pecca che Said colma attraverso appunto il suo celebre saggio. In Europe and Its Others, Gayatri Spivak chiama alterizzazione (othering) il processo attraverso il quale l’Occidente ha costruito i suoi “altri” e quindi specularmente la propria identità. Si tratta di un processo dialettico perché «stabilisce la superiorità del colonizzatore nello stesso momento in cui fissa i connotati socioculturali dei colonizzati». Il discorso coloniale, scrive Homi Bhabba nel suo saggio in Europe and Its Others indica «quel complesso di segni, simboli e pratiche che hanno in qualche modo organizzato l’esistenza, l’esperienza e la riproduzione sociale all’interno del mondo caratterizzato dalla dominazione colonialista». Il potere colonialista si sarebbe quindi consolidato proprio attraverso queste pratiche discorsive che hanno enfatizzato l’idea di una superiorità dell’Europa rispetto al resto del mondo, tale per cui l’Europa avrebbe avuto il compito umanitario di modernizzare quei paesi. Nel successivo The Other Question (1994), Bhabba approfondisce questo tema scrivendo: «L’obiettivo del discorso coloniale è creare un’immagine dei colonizzati come popolazione composta da tipi degenerati in base alle loro origini razziali, per poter in tal modo giustificare la conquista e fondare dei sistemi di amministrazione ed istruzione». Le rappresentazioni coloniali, afferma Bhabba, sono pervasi da quello che Fanon chiamava “un delirio manicheo”, una logica dicotomica che raffigura il sé e l’altro da sé come delle essenze contrapposte. Nel saggio I luoghi della cultura, Bhabba vede il paradosso implicito nella costruzione ideologica (stereotipa) dell’altro: «Lo stereotipo è una forma di conoscenza e identificazione che oscilla fra ciò che “è al suo posto”, già noto, e qualcos’altro, che deve essere impazientemente ripetuto… come se l’essenziale doppiezza dell’asiatico o la bestiale licenziosità sessuale dell’africano, che non ha certo bisogni di prove, non possano davvero mai essere provate all’interno di un discorso». Lo stereotipo coloniale è da Bhabba assimilato al feticcio freudiano: esso tenta in modo ossessivo di comare un vuo incolmabile, o in atre parole il suo scopo è quello di «suturare la ferita provocata dal trauma di un’identità infondata, in questo caso quella occidentale». L’aspetto feticistico del discorso coloniale non è dato da un significato nascosto (come il sesso nello schema di Freud), ma da un elemento ben più visibile: il colore della pelle, quello che Fanon chiama “lo schema epidermico”. In realtà, dimostra Bhabba nel suo saggio Segni premonitori, il discorso coloniale non esce vincitore dalla lotta con le inevitabili resistenze dei nativi: analizzando il processo di ibridazione subito dalla Bibbia nella trasmissione nell’India coloniale, egli dimostra che l’acculturazione forzata

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applicata dal colonialismo è andata fondendosi con la cultura natica creando un sincretismo che Bhabba chiama mimicry: è un termine che indica il fenomeno di “brutta copia” o di parodia che fuoriesce dal tentativo dei nativi di imitare i comportamenti dei colonizzatori, influenzati da questi ultimi. Il concetto di mimicry dimostra l’assunto di Focault secondo il quale nessun sistema di potere, per quanto pervasivo possa essere, funziona in modo perfetto annullando le resistenze interne. Robert Young dà a questo concetto la definizione di inconscio coloniale, nel senso che non c’è una forme di resistenza “vera e propria” ma una resistenza inconscia. Bhabba rovescia qui il concetto di egemonia culturale di Fanon: egli riteneva che l’acculturazione forzata attuata dai colonizzatori bianchi spingesse i neri verso l’annichilamento e il rafforzamento del potere coloniale; Bhabba ritiene invece che il processo di mimicry finisca per destabilizzare le stesse dinamiche dei discorsi coloniali, ed è per questo motivo che scopo della critica postcoloniale deve essere il recupero dell’identità dei colonizzati. Identità, come sottolinea anche Spivak, che non rintracciata attraverso un approccio romantico in un passato puro e autentico predente all’esperienza coloniale, ma solo nel periodo successivo alla colonizzazione. Spivak definisce lo spazio d’azione dei postcolonial studies “spazio catacretico”, cioè focalizzato sul recupero da parte dell’indigeno dei significati altrui rintracciando in essi i segni della propria identità. Mary Louise Pratt, docente di Letterature comparate alla New York University, utilizza il concetto di transculutrazione coniato dal teorico cubano Fernando Ortiz per descrivere il processo dinamico di incontro tra diverse culture; ella cioè respinge la visione statica di un incontro tra culture caratterizzato dai processi classici di acculturazione e deculturazione, improntati a una visione passiva del concetto di cultura. Bisogna focalizzare l’attenzione sulle zone di contatto tra le diverse culture e studiare le forme di sincretismo che ne fuoriescono. Spivak ha dedicato al tema del recupero dell’identità subalterna nella storia alcuni saggi tra o quali Can the Subaltern Speak e Deconstructing Historiography. Il vero subalterno è per lei la donna del terzo mondo, un (s)oggetto silenzioso che non ha mai potuto dire la propria ma ha subito la definizione da parte degli altri. Il rituale del sati indiano – il suicidio delle vedove sul rogo del marito – ne è l’esempio più clamoroso: le donne sono sottoposte al volere di una società patriarcale che le imbavaglia. La third world woman è una subalterna tra i subalterni. Negando tuttavia il ruolo e l’azione dei subalterni nei paesi coloniali, secondo alcuni critici tra i quali Benita Parry la Spivak finisce per riproporre una visione della storia molto simile a quella colonialista, soprattutto nell’uso del concetto di nativo che è stato oggetto di numerose critiche da parte degli studiosi postcoloniali. Spivak, del resto, ha sempre criticato i moti indipendenti e nazionalisti dei paesi coloniali, da lei considerati come prodotti della colonizzazione. Molte di queste tesi possono essere rintracciare nei lavori dei Subaltern Studies indiani, una scuola di pensiero diretta da Ranajit Guha. Egli dimostra come il colonialismo tendeva a ridurre al silenzio i segni di protesta e di rivolta delle classi subalterne, riducendoli a casi patologici di fanatismo o a fenomeni naturali. Guha fa l’esempio della rivolta dei Santal del 1855, interpretata dalla storiografica coloniale dal punto di vista dalla cultura egemone, ignorando le ragioni strutturali della rivolta. Compito dei Subalter Studies è quello di consentire a tutte queste classi subalterne di riavere la

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propria voce, analizzando gli episodi di resistenza al colonialismo. Dipesh Chakrabarty, docente di South Asian Studies and History all’Università di Chicago e tra i più noti membri del gruppo, fa un esempio molto semplice per indicare la persiste subalternità del terzo mondo all’Europa nell’interpretazione storiografica: «Gli storici del Terzo Mondo sentono il bisogno di fare riferimento a opere sulla storia europea; gli storici europei non sentono alcun bisogno di contraccambiare… I “grandi” e i modelli professionali dello storico sono sempre, almeno culturalmente, europei». Obiettivo degli storici postcoloniali, secondo Chakrabarty, dovrà essere quello di provincializzare l’Europa.

L’etica postcoloniale e lo spirito del tardo-capitalismo. Il 1973 è considerato da molti studiosi come la data simbolo di una cesura epocale nella storia del capitalismo. La prima recessione postbellica e la fine del sistema di Bretton Woods sono i simboli di un passaggio dal capitalismo fordista-keynesiano, «incentrato principalmente sulla crescita continua della produzione industriale sotto l’egemonia dello Stato-nazione», al un capitalismo globale e flessibile noto come postfordismo. In realtà in questa nuova società globalizzata non è rintracciabile quel declino della sovranità economica degli Stati-nazione e quella libera fluttuazione di monete e beni di cui alcuni teorici parlano. I sempre più rigidi controlli e divieti verso gli immigrati sono il simbolo, secondo Mellino, della persistenza della barriere e dei confini statali e regionali. Più che di crisi dello Stato-nazione si dovrebbe quindi parlare di una sua ristrutturazione come effetto delle trasformazioni indotte dalla globalizzazione. David Harvey ritiene che anzi il ruolo dello Stato resti ancora fondamentale, perché se è vero che il mercato capitalistico ha un aspetto intrinsecamente anarchico e instabile, va detto anche che esso deve sempre mantenere una certa “coerenza” interna. In questa tesi Harvey si rifà alla scuola regolazionista secondo la quale il successo dei diversi regimi di accumulazione che si succedono nella storia del capitalismo – cioè la capacità dei capitalisti di ottenere un profitto della loro attività – dipende dagli ordinamenti istituzionali che regolano il rapporto tra aziende e lavoratori. Il regime di accumulazione flessibile odierno (cioè il postfordismo) non può nel suo funzionamento prescindere dall’azione regolatrice degli Stati nazionali. Il problema sta piuttosto secondo Harvey nel fatto che si sono aperte «aree di conflitto fra gli stati e il capitale transnazionale, minando i facili compromessi fra governo e grande capitale tipici dell’era del fordismo». Lo Stato deve infatti sia regolamentare il capitalismo in funzione dei propri interessi nazionali, sia lavorare per mantenere un buon clima economico internazionale. Sulla stessa posizione si allinea anche Saskia Sassen nel suo Globalisation and Its Discontents (1998). La globalizzazione tende infatti a estendere l’economia al di là delle frontiere dello Stato-nazione e i mercati globali della finanza operano oggi «sotto un ombrello regolamentativo che non è centrato sullo stato, ma sul mercato». Ciò ha quindi portato una trasformazione delle funzioni dello Stato-nazione, che ha perso poteri da una parte ma li ha incrementati dall’altra: ad esempio, nonostante i movimenti migratori siano fenomeni transnazionali, è lo stato ad avere sempre l’ultima parola su chi entra nei confini nazionali. Arif Dirlik, docente di Storia e Antropologia culturale e direttore del Center for Critical Theory and Transnational Studies dell’Università dell’Oregon, ritiene che il paradigma

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postcoloniale trovi la propria legittimità proprio in questa nuova fase del capitalismo globale: i temi del declino dello Stato-nazione, del cosmopolitismo, della delocalizzazione e dell’ibridazione che sono al centro della riflessione postcoloniale sono anche gli stessi temi riscontrabili in questa epoca di postfordismo. E’ da questa constatazione che Dirlik accusa i postcolonial studies di essere una semplice forma ideologica nel senso marxiano del termine, una descrizione della realtà strutturale contemporanea imposta dalle élite accademiche occidentali. Tanto più che i principali interpreti di queste teorie – Spivak, Bhabbha, Chakrabarty – si sono formati in università occidentali e si definiscono come autori cosmpoliti e privi di legami nazionali, cosa che secondo Dirlik li porta a definire e quindi costruire dalle proprie definizioni una realtà che si conformi al loro modo di essere, una realtà transnazionale e postcoloniale. Stuart Hall contesta la visione di Dirlik di una critica postcoloniale come ideologia del tardo-capitalismo, ma riconosce che una lacuna dei postcolonial studies è proprio la «mancanza di un’adeguata riflessione… dei legami tra pensiero e mondo storico-sociale», e questo proprio perché gli studi postcoloniali sono nati come reazione al paradigma marxista economicista e teleologico, andando però incontro a derive pericolose in cui il ruolo dell’economia nella storia è stato del tutto cancellato. Diversamente, come nota di nuovo Dirlik nella sua polemica con il progetto dei Subaltern Studies indiani, l’errore principale nella critica verso l’ideologia occidentale sta nel non considerare il capitalismo come il suo aspetto fondamentale e come l’elemento di maggiore presa nel mondo; senza considerare questo, «non si riesce a spiegare perché, in contrasto con altri etnocentrismo regionali o locali, questo particolare etnocentrismo è stato capace di definire la storia globale moderna come aspirazione universale e finalità di tale storia».

Il paradigma postcoloniale e la crisi della “teoria dei tre mondi”. Coniata negli anni Cinquanta dal teorico francese Alfred Sauvy, l’espressione “terzo mondo” andò subito incontro a un’enorme fortuna: esso indicava quell’insieme di stati che si ponevano in contrapposizione al modello bipolare USA-URSS della Guerra fredda e alla loro visione imperialista del mondo. La crisi di questo modello è stato un elemento di grande rilievo per la nascita del paradigma postcoloniale. Il fallimento del progetto tricontinentale – che dimostrò come non tutti i paesi del terzo mondo fossero necessariamente alleati tra loro –, gli insuccessi della modernizzazione in molti di questi paresi e il successivo crollo dell’Unione sovietica confermarono l’esistenza di una realtà globale ben più complessa di quella teorizzata dal paradigma terzomondista. Da questi elementi crisi è scaturito il paradigma postcoloniale che ha posto l’accento sulle differenze e le soggettività locali e sulle resistenze dei paesi ex-coloniali verso la modernizzazione e la visione occidentale del mondo. Ciò porta a un’importante considerazione a cui giungono gli autori postcoloniali: il nazionalismo anticolonialista è fallito per due motivi: da una parte non è riuscito a portate a termine il punto centrale del suo programma, cioè la modernizzazione della società decolonizzate; dall’altra, imperniandosi sul valore della propria identità e sulla rigida contrapposizione noi/altri non ha fatto altro che riproporre la struttura dicotomica di quel pensiero colonialista che avevano messo sotto accusa, «diventando per questo motivo esso stesso fonte di

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ulteriori violenze, separatismi, sessismi e intolleranze». Tali movimenti, lungi dall’aver costruito vere e proprie “comunità immaginate” (un’espressione di Benedict Andersons), hanno solo sostituito un’élite dominante con un’altra, e alcuni studi recenti hanno giustamente dimostrato le pesanti responsabilità della geopolitica coloniale nell’uso distorto del concetto di etnia presso i nativi, che ha portato a inauditi genocidi come in Ruanda dove due etnie inesistenti ma costruite a tavolino dal precedente governo coloniale – Hutu e Tutsi – si sono massacrate vicendevolmente. Anthony Appiah, filosofo dell’Università di Princeton (USA), ha notato come la letteratura africana postcoloniale sia stata influenzata dall’insuccesso del progetto nazionalista. L’élite intellettuale africana postcoloniale è da lui definita intellighentsia compradora – espressione usata dai portoghesi nei confronti delle borghesie locali delle proprie colonie che svolgevano un ruolo di intermediazione tra l’impero e la colonia – perché mediatrice del “commercio culturale” tra Europa e Africa. Questi intellettuali sono dominati dagli stili e dalle mode occidentali e la cosa paradossale è che mentre agli occhi degli occidentali essi rappresentano l’africanità, agli occhi degli africani essi vengono identificati per l’occidentalismo che diffondono e pr l’immagine dell’Africa che hanno inventato per il resto del mondo. Obiettivo di questi letterati era precedentemente quello di inventare una tradizione che unisse il popolo nella lotta al colonialismo e fungesse da base per la costruzione di uno Stato-nazione sul modello occidentale. Uno dei primi esempi di romanzo postcoloniale è Le devoir de violence (1968) di Yambo Ouologuem, nel quale l’esaltazione di un’identità nazione pura e autentica «è vista come una nuova forma di mistificazione o di alienazione che non fa che rafforzare la posizione dei nuovi gruppi dominanti nell’era della post-indipendenza». Il romanzo adotta uno stile post-realista rifiutando i canoni del realismo letterario precedente. E’ l’anti-essenzialismo, cioè «il rifiuto del presupposto epistemologico secondo cui le diverse forme dell’identità socioculturale non sarebbero altro che l’espressione di un qualche attributo etnico innato», l’imperativo etico della critica postcoloniale.

LA TEORIA POSTCOLONIALE COME CRITICA CULTURALE.

Uso epistemologico e uso ontologico della nozione di postcoloniale. La domanda che si pone Mellino in questa parte del saggio è quale apporto può fornire la critica postcoloniale per l’analisi della società globale contemporanea. Mellino nota che il ricorso alla parola postcoloniale nella teoria sociale corrente sembra avere due diverse valenze:

Di tipo epistemologico in espressioni come società postcoloniale o postcolonialismo, in cui il termine viene proposto come modello di interpretazione della realtà storica contemporanea.

Di tipo ontologico in espressioni come critica postcoloniale o teoria postcoloniale, che sembrano rimandare a una decostruzione dei principi dell’identità moderna occidentale e una riaffermazione di una nuova identità.

Mellino osserva che la seconda accezione del termine sembra prelevare sulla prima. Il concetto di postcoloniale sembra servire non tanto a stimolare una comprensione della realtà storico-sociale contemporanea quanto a ribadire «in

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modo ossessivo» una particolare filosofia del soggetto, «e cioè a proporre un certo tipo di riflessione sulle identità singole e collettive». Secondo Mellino l’uso in senso ontologico della nozione di postcoloniale ha una finalità ideologico-politica: quella di un richiamo al multiculturalismo «fondato sull’idea delle identità deboli» contro rigurgiti razzisti, di assolutismo etnico o di richiamo nativista a una presunta purezza etnica naturale.

Travelling cultures. Nel saggio Travelling cultures di James Clifford, contenuto nella raccolta Roots a cura dello stesso autore, egli propone un’etnografia della cultura come rapporti di viaggio, consistente cioè nel delocalizzare i processi culturali oggetto dell’analisi antropologica e non solo. Pensare le culture in quanto travelling cultures (appunto “culture in viaggio”) non significa esclusivamente – come ritiene una parte dell’attuale antropologia – che il sapere etnografico si costituisce nella pratica del viaggio e quindi nel dialogo tra soggetti e universi culturali diversi, ma vuol dire piuttosto concepire le culture come fenomeni in perenne movimento, frutto di incontri e fusioni, conflitti e resistenze tra ciò che è “dentro” (il locale) e ciò che è “fuori” (il globale). A questa considerazione va poi aggiunta la notevole spinta proveniente dai sempre più numerosi studi sulla cultura delle diaspore e su quelle delle comunità transnazionali (ebrea, afroamericana, islamica, curda, armena). Esse rappresentano le travelling cultures per eccellenza. In realtà Mellino nota che questa idea di Clifford non è del tutto nuova nel pensiero antropologico; la sua novità sta soprattutto «nell’estensione della categoria di travelling cultures anche alle culture delle società occidentali». Il configurarsi delle culture moderne occidentali e dei suoi prodotti non può infatti per Clifford essere compreso «senza prendere in considerazione i loro rapporti storici con l’esotico, il primitivo, il pre-moderno, il tradizionale». Questa tesi di Clifford è stata adottata dai principali esponenti della critica postcoloniale, per i quali come abbiamo già visto ad esempio il concetto di Englishness non può essere compreso senza considerare i rapporti storici tra l’ex impero e le sue colonie. Per tale motivo anche la cultura “nazionale” inglese altro non è che una travelling culture, «un prodotto storico dell’incontro tra ciò che risiede e ciò che viaggia». Clifford propone di tradurre questa nozione anche come “cultura translocale”, in cui è forse anche più forte il concetto di critica a quella pratica discorsiva che Arjun Appadurai ha chiamato “congelamento metonimico dei nativi”, e che consiste nella reificazione ed essenzializzazione delle culture locali le quali si rifanno a un’ipotetica identità etnica o nazionale per reagire alle inevitabili influenze culturali esterne. Nel mondo postcoloniale, afferma quindi Clifford, ogni identità culturale è decentrata, dislocata ma soprattutto “infondata” nel senso che non è reale ma immaginata, è più in potenza che in atto.

Il discorso postcoloniale tra complicità e critica. Secondo Linda Hutcheon, il movimento postmoderno esprime sia complicità che critica nei confronti delle strutture di potere della realtà socio-politica contemporanea. Esso da una parte «celebra le convenzioni e l’ideologia delle forze sociali e culturali domanti», dall’altra al contempo le critica proprio perché la peculiarità del pensiero postmoderno sta nel mettere in discussione i valori e i sistemi di rappresentazione della cultura di cui fa parte, in base all’assunto che solo

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mettendo in questione la realtà essa può essere pienamente compresa. La Hutcheon e i critici come lei vedono nella critica postmoderna una finalità ideologico-politica: il compito del postmodernismo non sta tanto nel comprendere le tendenze sociali in atto, quando ad attaccare quei discorsi funzionali al mantenimento delle strutture di potere vigente.

La costruzione del (s)oggetto postcoloniale. L’invito di Clifford e degli altri teorici postcoloniali a considerare le culture come travelling cultures comporta il ricorso a tre presupposti teorici fondamentali attraverso cui la critica postcoloniale costruisce il proprio (s)oggetto: decostruzione, anti-essenzialismo, ibridazione. La decostruzione nell’ambito critica postcoloniale ha come principiale obiettivo il de-naturalizzare ogni forma di identità culturale e di enfatizzare al contempo la relatività delle culture. Come scrive Stuart Hall, l’identità non è un fatto compiuto ma un fenomeno sempre in “produzione”, cioè come un processo eternamente in atto. Per tal motivo le rappresentazioni e le “narrazioni” attraverso cui si esprimono le identità culturali altro non sono che “miti”, «discorsi che tendono a naturalizzare sistemi di significato che sono in realtà arbitrari, frutto della storia e dell’agire dell’uomo». Homi Bhabha parla di sradicamento culturale per descrivere gli effetti prodotti dall’irruzione della modernità nelle società non occidentali durante il colonialismo, effetti di destrutturazione delle identità culturali locali. Le nuove culture sono oggi transnazionali «perché i discorsi postcoloniali contemporanei traggono origine da specifiche storie di spostamenti e violente sostituzioni culturali» (ad esempio la tratta degli schiavi africani in America). Salman Rushdie è ben conscio del fatto che tutti coloro che come lui si trovano ad essere esuli, espatriati o emigrati provano verso la patria d’origine un forte desiderio di riappropriazione. Ma lo scrittore invita a non voltarsi indietro, a non creare “fictions invisibili”, o nel suo caso “Indie della mente”. Di qui si giunge al concetto di traduzione avanzato da Bhabha, la ricerca incessante da parte dei soggetti di un’identità culturale che dia senso alla propria esistenza nel mondo. In realtà è anche vero che ogni traduzione è al contempo un’interpretazione che implica una distanza dal discorso originario. Il concetto di decostruzione si coniuga con quello di anti-essenzialismo. L’approccio essenzialista tende ad attribuire alle culture alcuni caratteri specifici che le definiscono in quanto tali; l’appartenenza culturale dei soggetti può essere quindi stabilita in base al possesso o meno delle caratteristiche ritenute essenziali al gruppo in questione. Questo approccio ritiene in pratica che una cultura sia caratterizzata da una sostanza, una proprietà essenziale innata che resta radicata «nonostante l’azione disgregante e corruttrice del tempo e della storia». Questa tesi non può che essere oggetto di una forte critica da parte dei teorici postcoloniali: essenzializzare equivale in effetti a “deificare” le culture, a renderle immutabili, statiche, laddove la critica postcoloniale ne enfatizza invece in carattere translocale. L’approccio essenzialista serve solo a legittimare le pratiche di assolutismo etnico e di nazionalismo su cui hanno fondato il proprio potere molti governi dei paesi ex-coloniali. Come ha scritto Arjun Appadurai, se la cultura viene vista come una “sostanza fisica”, essa «comincia allora a puzzare di qualche varietà di biologismo, inclusa la razza, che abbiamo sicuramente superato come categorie scientifiche». Il problema dell’essenzialismo si ritrova negli English

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Cultural Studies che hanno tentato di diffondere un’idea di cultura nazionale inglese etnocentrica, ma anche negli Afro American Cultural Studies che hanno tentato di rintracciare la specificità di una cultura afroamericana che non esiste di per sé. In The Black Atlantic, Paul Gilroy introduce il concetto di Atlantico nero: l’Atlantico sarebbe stato il luogo di creazione di una cultura nera diasporica frutto della tratta dei neri. La cultura venutasi a creare sarebbe del tutto transnazionale, irriducibile a qualsiasi tradizione nazionale o a base etnica. Gilroy propone dunque le culture dell’Atlantico nero come travelling cultures, cioè come «il prodotto di scontri, incontri, viaggi, fusioni e resistenze». Il mare, i porti, i marinai e le navi sono per Gilroy dei “micro-sistemi di attraversamento dei confini e di ibridazione politica e linguistica”. Infine, va considerato il concetto di ibridazione. La critica postcoloniale pone l’ibridazione come principio costitutivo delle culture, utilizzato come strumento di critica ai discorsi sulla purezza culturale e sull’assolutismo etnico. Nel suo Cultural Identity and diaspora (1990), Stuart Hall studia la formazione dell’identità giamaicana. Essa deriva dall’ibridazione tra tre tipi di culture diverse: africana, europea e americana. L’identità africana è più immaginaria che reale, l’Africa immaginata dai giamaicani assomiglia alla “patria della mente” di cui parla Rushdie, è insomma un’africanità sentita come appartenenza simbolica. L’identità europea è ben più palpabile, perché è stata presente per tutto il periodo coloniale e l’attuale identità è nata in contrapposizione a questa. La presenza americana è infine ciò che ha reso l’identità giamaicana diasporica, coniugandola con la diaspora degli arawaks delle isole, con quella degli schiavi africani, con i flussi migratori postbellici di andata e di ritorno tra la Giamaica e alcuni dei paesi centrali (USA, Gran Bretagna, Francia, Olanda). La cultura giamaicana è quindi assunta da Hall come la cultura ibrida per eccellenza, che non ricerca improbabili essenze andate perdute ma trae la propria identità propria dal sincretismo culturale e della creolizzazione dalla quale è scaturita. Le culture ibride, multisituate, possono secondo Hall essere l’emblema di un nuovo cosmopolitismo.

Tra etnografia della società globale e apologia delle culture “deboli”. Nei Miti d’oggi, Roland Barthes parla di “segni sani” di “segni malati” della cultura odierna; i segni sani sono quelli che riconoscono la contingenza e la parzialità della cultura, mentre i segni malati vedono nella cultura dei dati di fatto, qualcosa di ovvio e naturale. La critica postcoloniale ha utilizzato queste categorie nelle sue tesi: le travelling cultures, le patrie immaginarie, le culture diasporiche sono identità culturali sane, mentre quelle che si rifanno al nazionalismo, al razzismo e al fondamentalismo sono indubbiamente “malate”. Il postcolonialismo tende quindi a creare un nuovo cosmopolitismo basato su quelle che Mellino definisce culture deboli, culture prive di fondamenta, teorizzate da quegli autori postcoloniali che hanno subito sulla propria pelle il trauma della dispersione e dello sradicamento. La società globale contemporanea, con le sue tendenze al decentramento e alla transnazionalizzazione, può favorire il configurarsi di queste identità deboli. Tuttavia, il processo di globalizzazione comporta nel contempo gravi rischi opposti ai benefici. Anthony McGrew ha rintracciato i cinque effetti principali

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della globalizzazione, visti dal duplice aspetto di fenomeni positivi e negativi, di segni sani e segni malati:

1. Universalizzazione/particolarizzazione; la globalizzazione da un lato incoraggia l’universalità, dall’altra rischia di favorire un eccessivo particolarismo etnico-culturale come reazione da parte delle identità locali.

2. Omogeneizzazione/differenziazione; la globalizzazione tende da una parte a creare un’omogeneità culturale, dall’altra inevitabilmente si fonde con le particolarità locali creando nuove differenze.

3. Integrazione/frammentazione; la globalizzazione crea da un lato nuove comunità e organismi transnazionali, dall’altro divide e frammenta le comunità presenti all’interno dello Stato-nazione.

4. Centralizzazione/decentramento; la globalizzazione provoca da una parte una concentrazione del potere, dall’altra inventiva movimenti di resistenza e quindi tendenze al decentramento.

5. Giustapposizione/sincretizzazione; la globalizzazione, nel mettere a contatto e sovrapponendo diversi stili di vita, rafforza da un lato confini e pregiudizi culturali tra i gruppi, dall’altro dà luogo a idee e valori ibridi o socialmente condivisi.

Come molti studiosi hanno sottolineato, la somiglianza tra critica postcoloniale e globalizzazione è forte: entrambi enfatizzano la flessibilità, i transnazionalismi, la mobilità e gli ibridismi. Ecco perché alcuni critici ritengono che per tale motivo i postcolonial studies possono apparire complici o intrecciati con la logica del capitalismo globale. Mellino non propone certo un ritorno alla logica degli Stati-nazione, che anzi mai come ora hanno dimostrato il loro fallimento, ma vuole sostenere come una lotta seria all’imperialismo non può fare a meno di coniugare cosmopolitismo e deglobalizzazione. Samir Amin sostiene la necessità di un nuovo universalismo controegemonico basato sulla costituzione di grandi aree regionali - America Latina, Africa, mondo arabo, Sudest asiatico, Europa – fondate però su «alleanza popolari e democratiche che costringano il capitale a piegarsi alle proprie esigenze». La deglobalizzazione sostenuta da Mellino, Amin e molti altri critici postcoloniali non va intesa quindi «come sinonimo di chiusura o di arroccamento» ma come «la metafora o lo strumento di un’altra globalizzazione». E cita Walden Bello, principale fautore del termine, secondo cui deglobalizzazione significa «non lasciare le decisioni strategiche al mercato, ma renderle soggette a scelte veramente democratiche, sottoporre il privato al pubblico e lo stato ad un costante monitoraggio della società civile»; ciò che vogliamo, scrive Bello, «è re-introdurre l’economia nella società anziché continuare ad avere società trascinate dall’economia».

L’ORA DELLE DIASPORE.

Nuovi nazionalismi in fermento o de-nazionalizzazione? La nozione di diaspora è divenuta negli ultimi anni oggetto di grande attenzione all’interno dei migration studies. Il termine, strettamente legato alla storia del popolo ebraico, è ora usato per comprendere l’esperienza di numerosi gruppi etnici contemporanei. Paul Gilroy in There Ain’t no Black in the Union Jack (1987) usa il concetto di diaspora per lo studio della culture della black britan, i neri inglesi,

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culture sincretiche, ibride, di cui bisogna impedire una deriva verso forme di assolutismo etnico. Diaspora è per Gilroy sinonimo di “cosmopolitismo”. Famule Huntigton nel suo Lo scontro delle civiltà dà una definizione ben diversa di diaspora. La sua tesi è che il periodo successivo alla caduta del muro di Berlino è stato caratterizzato da guerre di faglia tra gruppi etnici diversi e diverse “civiltà” (in particolare la Bosnia, i conflitti nell’ex URSS). Le diverse diaspore dei gruppi in lotta hanno avuto in queste guerre un ruolo chiave, «sia nell’appoggio economico e militare alle parti in causa, sia nella pressione politica esercitata sugli Stati di residenza». Egli cita come esempio le pressioni esercitate dalle comunità bosniache in Turchia e da quelle croate in Germania e USA durante la guerra in Iugoslavia. Mellino critica le tesi di Huntigton, bollando il suo approccio come «conservatore, reazionario, etnocentrico» e anti-islamico, ritenendo che il suo concetto di civiltà «reificante, essenzialista, totalitario, determinista» è lontano anni luce dalla definizione che di esso danno antropologi e sociologi. In questa visione le diaspore non sono emblema di un “cosmopolitismo emergente”, ma espressione di una cultura essenzialista e intransigente. Huntigton e molti studiosi vicini alle sue tesi temono che la persistenza di comunità etniche non assimilate potrebbe portare a un aumento indiscriminato dei conflitti etnici all’interno del territorio nazionale, senza contare che l’attuale trend porterebbe i bianchi occidentali americani entro il 2050 a divenire minoranza nel paese. L’immigrazione potrà divenire un fenomeno positivo, secondo loro, solo se la priorità andrà a persone capaci e qualificate e se i nuovi immigrati e le loro famiglie verranno assimilate alla cultura del paese ospitante. Secondo Huntigton, l’America avrebbe problemi a soddisfare la prima condizione, l’Europa la seconda. Mellino nota come la tesi della guerra di faglia abbia qualcosa in comune con quelle di una studiosa di ben altra formazione, Benedict Anderson. Ella scrive infatti che le nuove forme di globalizzazione stanno dando origine a «una nuova e virulenta forma di nazionalismo» che chiama nazionalismo di lunga distanza; tale nazionalismo non è più legato materialmente alla propria terra d’origine, ma anzi molti dei più ferventi nazionalisti sono quelli che abitano in altri posti de mondo: «Molti dei più veementi nazionalisti sikh sono australiani; molti dei più oltranzisti nazionalisti croati sono nati in Canada; molti dei più ferventi nazionalisti algerini sono francesi e molti dei nazionalisti cinesi del giorno d’oggi sono americani». Le diaspore contemporanee possono essere assimilate a ciò che Arjun Appadurai chiama nazionalismo di Troia, nazionalismi cioè che possono esprimere forme di lealtà alternative a quelle dello Stato-nazione e forme di appartenenza diverse da quelle promosse dello Stato moderno. Tali nuovi nazionalismi non sempre hanno l’obiettivo di creare nuove identità territoriali, e quando si rassegnano all’idea di un’esistenza transnazionale possono secondo Appadurai svolgere un ruolo positivo nella creazione di società cosmopolite e progressiste. Diversamente della classica interpretazione delle diaspore come comunità nazionali de-territorializzate, come tali legate al modello dello Stato-nazione, secondo Appadurai proprio il ruolo dello Stato-nazione è il più pericoloso: essenzializzando e reificando le comunità etniche, essi rischiano di trasformare questi nazionalismi di Troia da cosmopoliti a ultranazionalisti violenti e reazionari.

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Diaspora ovvero la crisi dell’identità americana. Il rinnovato interesse per il concetto di diaspora è secondo Mellino dovuto alla ricomparsa nella società americana di una forma di “eticità bastarda” (termine della Anderson), di forme di appartenenza etniche transnazionali tra le comunità di immigrati. Tale fenomeno ha messo in crisi l’ideologia del Melting Pot, il progetto di americanizzazione degli stranieri in America, e viene visto come preoccupazione dall’establishment politico come segno di declino dell’unità nazionale. Nel 1965 venne varato l’Immigration and Nationality Act che abolì le quote su basi nazionali nella selezione dei flussi migratori (tot immigrati dalla Russia, tot dall’Italia, tot dalla Cina). L’obiettivo della riforma era favorire l’arrivo di immigrati appartenenti a gruppi etnici già presenti negli USA, ma invece provocò un mutamento radicale nella composizione dei flussi: invece degli attesi europei arrivarono consistenti ondate di sudamericani, caraibici, messicani e asiatici. Il Melting Pot cominciò dagli anni Settanta ad andare così in crisi. Al concetto di immigrato, che allude a una condizione transitoria precedente alla definitiva integrazione, si sostituisce quello di minoranza etnica, che sottintende il fallimento dell’assimilazione culturale. La particolarità di questo termine è che esso si inscrive all’interno del paradigma dello Stato-nazione, poiché si è minoranza sono in riferimento a un’entità politica maggiore. Nel 1976 John Armstrong pubblica sull’American Political Science Review un articolo dal titolo Mobilized and Proletarian Diasporas, in cui afferma la necessità di usare il concetto di diaspora per descrivere la realtà americana contemporanea: il termine definirebbe una collettività etnica priva di base territoriale all’interno di una certa entità politica. Le diaspore sono di due tipi:

Le diaspore proletarie indicano quelle comunità etniche che occupano gli strati socioeconomici più bassi della società in cui risiedono;

Le diaspore mobili sono quelle meglio inserite nella società ospitante, e i cui membri dispongono di occupazioni e competetene più qualificate.

Nella raccolta di saggi a cura di Gabriel Shaffer Modern Diasporas in International Politics (1986) Mellino riscontra invece una forte preoccupazione verso i fenomeni di diaspora. In uno di questi saggi si usa il concetto di diaspore incipienti per evidenziare da una parte il fallimento del progetto di integrazione e assimilazione culturale portato avanti dallo Stato-nazione, dall’altro la persistenza in questi gruppi di un altro grado di attaccamento alla propria madrepatria. Un’idea contraria all’idea comune di diaspore come pericolo per l’unità interna e le strategie di politica estera americane è stata esposta dal politologo Yossi Shain. Il timore di una balcanizzazione della società, cioè di una sua provincializzazione e conseguente perdita di unità nazionale, è dominante nella società americana post-guerra fredda. Shain ritiene invece che le diaspore americane possano essere utili nell’esportazione degli ideali democratici americani nei paesi d’origini, divenendo così marketers of the American creed. Esempi come l’impegno della comunità afro-americana contro l’apartheid in Sudafrica o degli haitiani e filippini presenti negli USA contro i governi dei loro paesi, senza considerare il ruolo che le diaspore arabe ed ebraiche in America potrebbero avere nella soluzione del conflitto mediorientale, corroborano la tesi di Shain.

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L’impero colpisce ancora: la Gran Bretagna postcoloniale. Nel già citato There Ain’t no Black in the Union Jack, Paul Gilroy propone il concetto di diaspora per lo studio dell’identità dei neri inglesi contro il nazionalismo culturale nero nato come risposta all’ideologia dell’assolutismo etnico promossa dal razzismo differenzialista britannico dominante nel periodo thatcheriano. L’obiettivo dei conservatori inglesi dell’epoca era quello di ricostruire nella società britannica un sentimento di unità nazionale che trascendesse gli interessi particolari delle singole classi, come risposta alla crisi della britishness conseguente alla perdita dell’impero, alla progressiva decadenza economica e alla presenza di sempre più numerose comunità di stranieri all’interno del Regno Unito. I neri venivano presentati in quest’ideologia come soggetti esterni alla comunità nazionale. Frutto di questo processo ideologico è oggi una società che non appare più strutturata in classi ma in razze. Riprendendo Frantz Fanon, Gilroy nota come il razzismo non va più visto come semplice sovrastruttura dei rapporti di produzione capitalistici, ma come la base della società britannica contemporanea. L’appartenenza di classe viene oggi vissuta come appartenenza razziale. Tuttavia questi discorsi sull’essenzialismo razziale sono secondo Gilroy superficiali, tanto più che tra le comunità giovanili britanniche, soprattutto in quelle dei ghetti, sono venuti a crearsi movimenti urbani di chiara composizione multirazziale. I neri britannici, conclude Gilroy, devono rappresentarsi come membri di una diaspora, la cui identità non può prescindere dalla vicissitudini delle comunità nere afro-americane e afro-caraibiche.

Genealogia delle controculture postcoloniali. Mellino sintetizza in sette punti le idee di GIlroy sulla diaspora presenti nelle sue varie opere.

1. Privata dei connotati nazionalistici, la nozione di diaspora può risultare di grande utilità nella comprensione della società contemporanea transnazionale;

2. Il concetto di diaspora descrive una rete relazionale di rapporti originate sia da dispersioni forzate che da espatri ed emigrazioni involontarie;

3. Il termine non significa soltanto movimento e non va quindi confusa con termini come nomadismo;

4. La coscienza diasporica non è fondata sull’appartenenza a un territorio comune ma su un’appartenenza fondata sulla memoria e il ricordo;

5. Le diaspore sono in opposizione alla forma politica della cittadinanza moderna, e da questo punto di vista lo Stato-nazione «rappresenta il mezzo istituzionale per porre fine all’esperienza diasporica, sia attraverso l’assimilazione, sia attraverso il ritorno a una terra originaria»;

6. Se esiste la possibilità di un facile ritorno al luogo d’origine, il sentimento diasporico prendere i connotati di un semplice esilio temporaneo;

7. Il concetto di diaspora è il perno centrale di ciò che Gilroy chiama ecologia sociale dell’identità culturale, di un nuovo modo di concepire le appartenenze culturali.

La nozione di diaspora, conclude Gilroy, è insomma il concetto cardine di una genealogica alternativa dell’identità culturale, dove il termine genealogia assume un significativo eminentemente foucaultiano: è «il presente che riordina e dà senso al passato e non viceversa: nessuna essenza può plasmare o

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determinare il divenire, la storia stessa dissolve ogni pretesa di discontinuità o finalità teleologica».

COSMOPOLITISMI DAL VOLTO UMANO.

Una nuova sensibilità cosmopolita. L’uso del termine cosmopolitismo all’interno dei postcolonial studies consisteva nella “proiezione normativa” di alcune affermazioni quali l’agonia dello Stato-nazione, la condizione di ibridazione dei gruppi contemporanei, la multi-appartenenza di diverse culture. Solo più tardi si è pensato di definire meglio questo importante concetto. Innanzitutto il cosmopolitismo è diventato nel mondo contemporaneo un concetto-chiave: oggi, affermano numerosi sociologi, siamo tutti cosmopoliti grazie alla transnazionalizzazione dei flussi mediatici che ci permette di entrare in contatto con le altre culture. Nel Manifesto cosmopolitico (2000), Ulrich Beck scrive: «Il Manifesto comunista venne pubblicato 150 anni fa. Oggi, all’inizio di un nuovo millennio, è tempo di pubblicare un Manifesto cosmopolitico. Il manifesto comunista si incentrava sul conflitto di classe. Il Manifesto cosmopolitico si incentra sul conflitto e sul dialogo transnazionale-nazionale che devono essere esplicitati e organizzati. Quale deve essere l’oggetto di questo dialogo globale? Gli obiettivi, i valori e le strutture di una società cosmopolitica. La possibilità di una democrazia nell’era globale». Beck e gli autori a lui vicini si mantengono ancora legati alla concezione illuminista-kantiana di cosmopolitismo, dove il cosmopolita è il “cittadino del mondo”. Mellino la ritiene nient’altro che un’utopia, finché essa non affronterà problemi come l’aggressivo unilateralismo americano, le crescenti disuguaglianze dell’attuale ordine economico mondiale, il proliferare di fondamentalismo religiosi e soprattutto il neocolonialismo. I postcolonial studies hanno dunque sostenuto sempre più l’importanza del cosmopolitismo come alternativa etica e politica ai particolarismi culturali e razziali promossi dalle destre conservatrici e liberali e da una parte delle sinistre istituzionali. Su questa base Appadurai spinge antropologi e sociologi a lavorare in favore di un cosmopolitismo etnografico che studi le forme culturali cosmopolite del mondo contemporaneo senza farsi influenzare dall’autorità dell’esperienza occidentale e dai suoi modelli.

Il cosmopolitismo classico. Mellino ripercorre i significati del cosmopolitismo classico tradizionale. Il termine cosmopolita deriva dal greco kosmos (mondo) e polis (città) e la sua origine viene fatta risalire a Diogene il Cinico il quale si considerava appunto un “cittadino del mondo”. Il cosmopolitismo illuminista-kantiano si basa su tre aspetti:

1. Il distacco dai condizionamenti culturali;2. L’apertura ad uno spiccato relativismo culturale;3. Il credo nell’esistenza di un’umanità universale.

Come scrive Ulf Hannerz ne La diversità culturale, il cosmopolita riconosce l’appartenenza, il coinvolgimento e la responsabilità locale e sa integrare questi più ampi interessi nelle pratiche della vita quotidiana. Il cosmopolitismo «è in primo luogo un orientamento, una volontà di interagire con l’Altro; esso prevede un’apertura intellettuale ed estetica verso esperienza culturali divergenti, una

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ricerca di contrasti più che di uniformità». Hannerz propone una distinzione tra locali e cosmopoliti: entrambi hanno un comune interesse alla sopravvivenza della diversità culturale, i locali perché la diversità permette di loro di restare incollati alle rispettive culturali, i cosmopoliti perché ritengono che preservare le diverse culture sia un valore fondamentale. Egli critica coloro secondo i quali grazie allo sviluppo dei media siamo tutti cosmopoliti: il cosmopolitismo applicato in casa propria è infatti un controsenso. Molti studiosi criticano questo cosmopolitismo proposto da Hannerz perché apolitico, o meglio reazionario: esso non farebbe altro che con la presta di oggettività maschera il fatto di essere sempre un punto di vista situato e come tale del tutto soggettivo.

I cosmopolitismi dal volto umano. L’espressione proposta da Mellino di “cosmopolitismi dal volto umano” sta ad esprimere non tanto un giudizio di valore quanto un tentativo di costruire intorno a questo termine una pratica politica e antropologica alternativa, «più progressista di quella corrente o dominante». Ad esempio, Charles Taylor nel suo La politica del riconoscimento (1998) avanza l’idea di un approccio presuntivo alla diversità culturale. Il fatto di considerare tutti gli esseri umani uguali nei diritti civili e politici indipendentemente dalla razza o dalla cultura induce a ritenere che tutte le culture abbiano pari dignità e valore. L’approccio presuntivo, che si può riscontrare solo nella pratica, non chiede una serie di giudizi di uguale valore «perentori e in autentici», ma l’apertura a un tipo di studio culturale comparativo capace di spostare i nostri punti di vista in favore di un diverso multiculturalismo «(post)universalista», fondato sulle politiche della differenza. Questo tipo di cosmopolitismo dal volto umano deve, secondo Mellino, tendere a:

1. La ricerca di un cosmopolitismo non elitario;2. Un cosmopolitismo non riconducibile all’esperienza Occidentale quindi

non-etnocentrico;3. La definizione di soggetti e/o culture cosmopolite da non intendere in

contrapposizione ai locali, ai nativi e ai non-occidentali;4. Una nozione meno idealista di quella illuminista;5. Un cosmopolitismo post-universalista che non contrapponga il

particolare all’universale e non sopprima la differenza in favore delle presunte somiglianze.

Nel volume Public Culture dedicato alla questione del nuovo cosmopolitismo, gli autori partono dall’idea che definire il cosmopolitismo è un atteggiamento anti-cosmopolita, perché in quanto concetto storico il cosmopolitismo va concepito come una nozione aperta che non può essere definita a priori. Homi Bhabha focalizza l’attenzione su quelli che definisce cosmopolitismi vernacolari; in realtà, il cosmopolitismo postcoloniale contemporaneo non si basa sui concetti occidentali della razionalità, dell’universalismo e del progresso ma i cosmopoliti di oggi sono piuttosto in massima parte le vittime della modernità, soggetti e culture subalterni: rifugiati, profughi, migranti, esuli, espatriati. Il multiculturalismo liberale occidentale è incapace di comprendere tale nuova forma di cosmopolitismo, poiché riconosce le differenze culturali soltanto quando vengono definite da appartenenze nazionali. Il cosmopolitismo di oggi, in sostanza, deve «impegnarsi nella costruzione di un universalismo che riconosca altri universalismi», di cosmopolitismi aperti all’esperienza delle altre

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storie e culture. Dev’essere un cosmofemminismo, cioè deve mettere in evidenza il fatto che tutti gli universalismi sono situati, soggettivi. Nel saggio Mixed Feelings (1998), James Clifford si pone sulla stessa linea nel definire ciò che chiama cosmopolitismo discrepante. In pratica egli invita gli antropologi a studiare non solo “villaggi” o “nativi”, ma anche le diverse esperienze locali di “sradicamento” e di “ibridazione” da cui trae origine un cosmopolitismo locale, vernacolare appunto. Il cosmopolitismo discrepante di Clifford si caratterizza per sette punti centrali:

1. E’ contrario a qualsiasi tipo di assolutismo etnico;2. Sta a significare “affiliazioni molteplici”, cioè su ibridismi e

transnazionalismi piuttosto che essere improntato su nozioni essenzialista di cultura;

3. Mantiene il diritto alla differenza;4. Rappresenta una forma di contrattazione, piuttosto che di

trasformazione sistematica: è infatti legato al bisogno di sopravvivenza locale;

5. Le differenze culturali – di genere, etniche, di razza – non possono essere superate, ma bisogna articolarle in una nuova sintesi progressista socialista;

6. Si basa sulle politiche dell’identità e rifiuta gli ideali astratti e universalisti del cosmopolitismo illuminista;

7. Ogni identità viene intesa come tradotta e “multisituata”, quindi si basa su culture diasporiche.

Egli si rifà al glocalismo etico teorizzato da John Tomlinson, “glocalismo” e non “globalismo” o “localismo” perché è un cosmopolitismo non più basato sull’opposizione binaria globale-locale ma è un universalismo che non esclude la dimensione locale. Esso si caratterizza per la percezione del mondo come luogo di “innumerevoli altri culturali”: il cosmopolitismo deve saper cogliere il pluralismo delle culture e deve sapere riflettere su sé stesso comprendendo di proporre un punto di vista situato dove gli universali che crede tali altro non sono che abitudini particolari. Il cosmopolita proposto da Tomlinson è capace di vivere nel globale e nel locale allo stesso tempo, anche perché il cosmopolita non può vivere entro i confini di un orizzonte morale così lontano da divenire astratto ma nell’ambito della loro vita quotidiana devono capire che il mondo più vasto influisce sul loro mondo della vita locale e viceversa. Secondo Bruce Robbins, esistono due modi di intendere il cosmopolitismo: il primo quello classico illuminista, è distaccato da ogni appartenenza culturale o nazionale ed orientato a un obiettività ideale; il secondo è quello che intende il cosmopolitismo come appartenenze molteplici: essere cosmopoliti non significa non appartenere a nessuna cultura, ma appartenere un po’ a tutte le culture.

Conclusione: cosmopolitismi antagonisti o cosmoimperialismi. Nel saggio di Paul Rubinow incluso nella raccolta Writing Cultures (1986), egli propone un cosmopolitismo critico. Esso si basa su una doppia valorizzazione: quella dell’eticità e della comprensione: tale cosmopolitismo è sospettoso verso i poteri sovrani e le verità universali, e al contempo attento e rispettoso nei confronti della differenza, che però cerca di non essenzializzare. Molti studiosi

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oggi ritengono che l’universalismo sia un orizzonte mai del tutto raggiungibile, uno sforzo costante «imperniato sull’insurrezione e la resistenza di gruppi e soggetti subalterni all’universalismo fittizio o normalizzante impugnato dai vari regimi di potere». Mellino si pone a conclusione una domanda a cui tenta di rispondere: il dispiegamento di questa nuova prospettiva cosmopolita basata sulla differenza può bastare a dar vita a movimenti translocali di resistenza al capitalismo globale e all’imperialismo? Molti critici marxisti affermano infatti che i postcolonial studies si sono concreati troppo sulle differenze culturali e molto poco sui fenomeni dello sfruttamento economico e dell’imperialismo. Mellino ritiene che a favorire ciò sia stata anche la posizione di Edward Said, molto critica verso «le descrizioni delle nuove forme assunte dall’imperialismo», che apparirebbero «innegabilmente deprimenti anche all’occhio meno smaliziato». Secondo Mellino, tuttavia, il postcolonialismo ha avuto il merito di aver rovesciato il cosiddetto sofisma di Talmon (dallo storico ed economista Jacob Talmon) secondo cui al comunismo come incarnazione stessa del totalitarismo si opporrebbe un mondo liberale rappresentato dall’Inghilterra e dagli USA: tale sofisma ha sempre taciuto sul problema delle colonie, dove il liberismo propugnato da questi paesi improvvisamente scompare. E Mellino cita anche fenomeni che ci ricordano lo stato d’eccezione in cui viviamo: Guantanamo, Abu Ghraib, le leggi xenofobe anti-immigrazione, le leggi anti-terrorismo. Mellino critica la tesi di Said in merito, e cita Robert Young il quale fa notare come il “vecchio” anti-imperialismo non sia morto con il crollo del muro di Berlino, ma può ancora offrirci gli strumenti validi nella lotto contro il nuovo universalismo imperialista che per Mellino e Young ha il proprio epicentro a Washington. Quello americano è un cosmoimperialismo basato sull’idea che «la scelta che ci sta davanti oggi non è quella fra una cultura occidentale repressiva e un paradiso multiculturale, ma quella fra cultura e barbarie».

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Occidentalismia cura di Carla Pasquinelli

Carla PasquinelliOCCIDENTALISMI

«Occidentalismo è una parola segnata dalla violenza», una violenza che sfugge alla nostra attenzione ma si ripresenta quotidianamente in comportamenti e modi di essere. Nel libro di Arundhaty Roy, Il dio delle piccole cose, si può osservare un segno di questa violenza: Ammu, una donna divorziata di alta casta protagonista del libro, a seguito di una relazione con un intoccabile è stata emarginata dalla società. Quando ella si reca a una stazione di polizia per denunciare un fatto che la polizia non ha alcun interesse a chiarire, l’ispettore Thomas Mathew le dice che se ne può tornare a casa e le batte gentilmente lo sfollagente sui seni. L’ispettore Mathew è la metafora dello sguardo che l’Occidente ha rivolto alle altre culture, «per rispecchiarsi nell’immagine deformata del proprio dominio». I postcolonial studies hanno contribuito a dimostrare come quello sguardo sia stato il simbolo della violenza epistemologica occidentale su cui il colonialismo ha fondato parte del proprio dominio. Tale violenza epistemologica è il frutto dell’interazione di due paradigmi forti della modernità, quello dello Stato-nazione e quello delle scienze sociali e della teoria della modernizzazione.

Le rappresentazioni delle altre culture sono così state costruite a partire dalla centralità del nostro sguardo secondo un sistema di classificazione che ha contrapposto il noi agli altri, il colonizzatore al colonizzato: una costruzione discorsiva, quella dell’Altro colonizzato, che ha permesso anche la comprensione del Noi: un Noi superiore, sviluppato, moderno che si può definire solo in rapporto a un Altro. Questa tesi è stata per primo sviluppata da Edward Said nel suo Orientalismo: senza la costruzione del concetto di Oriente la cultura europea non avrebbe potuto crearsi una propria identità: «Fuori dalle nostre teste e dai nostri libri l’Oriente non esiste, non più dell’Occidente», perché entrambi sono una nostra invenzione, non sono qualcosa di esistente a livello ontologico ma solo a livello di pensiero. L’Orientalismo ha portato a due effetti: da una parte ha reso superfluo l’Oriente, perché la sua immagine in ultima analisi è costruita e dipende dall’Occidente, dall’altra ha permesso all’Occidente di costruire se stesso: l’identità culturale moderna occidentale dipende infatti dalla nostra particolare percezione degli altri non europei, dalle nostre immagini di un oriente esotico o di un’Africa nera e primitiva. Questa è la violenza epistemologica dell’Occidentalismo: «l’aver fatto dell’Altro lo specchio rovesciato di sé», cancellando ogni valore alle identità dei popoli extra-europei che non servisse a rinforzare l’identità occidentale.

Oggi il termine Occidentalismo sta diventando una «parola esplosiva»: c’è chi ne rielabora il significato in favore di una logica dello scontro di civiltà,

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semplificandone i significati ed estremizzandoli, come accade in Occidentalism: the West in the eyes of its enemies di Ian Buruma e Avishai Margalit: essi propongono una visione dell’Occidente fondata sulla demonizzazione dei suoi principali valori (libertà, democrazia, progresso). Occidentalismo diviene così un’altra versione dell’anti-americanismo estesa anche all’Europa. Un’altra interpretazione del concetto è una sorta di «versione globalizzata» del fardello dell’uomo bianco, riproposta ad esempio da Marcello Flores il quale rileggendo Said ha fatto notare che l’Occidentalismo modifica sia la vita di chi è governato sia quella di chi governa, e il fatto che molti occidentali – come Conrad – abbiano denunciato gli orrori del colonialismo riscatta in parte gli standard morali dell’Occidente. Una parte più significativa delle interpretazioni ha basato lo studio dell’Occidentalismo sull’epistemologia, sottolineando come il dominio dell’Occidente sul resto del mondo non sia avvenuto solo tramite la vicenda del colonialismo ma permanga ancora oggi attraverso la produzione di certi discorsi sull’altro – riconducibili a più discipline – attraverso cui l’Occidente ancora oggi parla dell’Altro, anzi parla “al posto dell’altro”, per ridurlo, come ha scritto Ian Chambers, alla tirannia del medesimo. La critica postcoloniale, che si riconosce in questa interpretazione, rifiuta l’idea proposta da Buruma e Margalit secondo i quali l’Occidentalismo sarebbe una costruzione esterna all’Occidente, ma ritengono invece che essa ne abbia caratterizzato l’esistenza, da una parte fungendo da ideologia alla base del colonialismo e dall’altra costruendo l’identità dei colonizzati e dei colonizzatori. Le interpretazioni sull’Occidentalismo possono quindi essere divise in due diverse posizioni: quella che vede l’Occidentalismo come deriva dell’Occidente, e quella che lo vede come male assoluto «che alberga al suo centro», che ne è cioè sempre stato parte integrante. Il punto di divisione tra queste due posizioni sta nella critica dell’Illuminismo e della razionalità occidentale che ha proposto, e che attraverso l’idea teleologica di progresso ha diviso il mondo tra un Occidente moderno e un Altro primitivo: la prima posizione ritiene il colonialismo un antagonista dell’Illuminismo, la seconda posizione ritiene che il colonialismo ne sia stata la massima espressione.

In seguito alla parabola del nazismo, che ha dimostrato il lato oscuro della razionalità occidentale e ha portato nel cuore dell’Europa quelle pratiche di genocidio e di violenza epistemologica verso l’Altro compiute lontano da occhi indiscreti nelle colonie africane, il nostro modo di vedere l’Occidente è in parte cambiato. A ciò hanno contribuito tutte quelle culture che si sono emancipate dal dominio coloniale e hanno intrapreso con successo nuove strade di sviluppo, dimostrando che la teoria della modernizzazione come processo universale è obsoleta e che l’Europa non è altro che una «piccola zona rosa raffigurata lassù in alto a sinistra» nella carta geografica.

Ian ChambersCARTOGRAFIA DEL PROGRESSO

Chambers apre il suo saggio con una citazione tratta dalla Critica della ragion pura di Immanuel Kant: «Il nostro secolo è particolarmente il secolo della ragione alla quale tutto deve sottomettersi». Chambers vede in questa

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affermazione l’espressione di un nesso sapere-potere tipico dell’Illuminismo, basato sulla visione teleologica del progresso al cui apice era posto l’Occidente, detentore del potere «di decidere a chi, e quando, estendere l’illuminismo» e capace di imporre una visione della realtà in cui il resto del mondo «è invitato a svilupparsi, a superare il suo “sottosviluppo” per raggiungere i criteri universali che rispecchiano e rispettano il progresso dell’Occidente». Come ha scritto Amitav Ghosh: «L’Illuminismo è la base essenziale per il vero razzismo», perché nel momento in cui pone l’Occidente come massima espressione del progresso designa anche l’Altro come sottosviluppato e inferiore.

Chambers cita la copertina di una quaderno per le scuole elementari durante il fascismo, in cui sono ritratti due bambini, uno bianco e uno nero, che salutano la bandiera italiana in una località chiaramente africana. L’immagine fa il paio con quella del soldato nero che saluta la bandiera francese analizzata da Roland Barthes in Miti d’oggi: esse dimostrano il ruolo centrale avuto dallo spazio coloniale nella realizzazione dello spazio domestico, il ruolo dell’Altro per la costruzione del Noi. Chambers fa sua la proposta foucaultiana di una ontologia del presente: la storia della modernità occidentale va rivista non per essere cancellata ma per essere riletta nella “luce offesa” di chi è stato escluso, non dimenticando infatti che la conoscenza storica «resta inseparabile dal mondo in cui interpretiamo» e rappresentiamo il mondo. La scrittrice algerina Assia Djebar sottolinea lo «slittamento storico» dal corpo dell’algerino colonizzato torturato dal colonizzatore francese al corpo dell’algerino de-colonizzato ma ancora torturato dal governo ora al potere. L’Algeria da stato ex-coloniale è diventato uno Stato di emergenza dove la violenza è legittimata in nome della nazione, un’idea derivante dall’eredità europea. La lunga «notte del colonialismo» continua quindi ancora oggi, dall’invasione dell’Algeria a quella dell’Iraq, dalla conquista coloniale dell’Etiopia e dell’Eritrea alla loro martoriata situazione attuale. Un prodotto dell’imperialismo europeo scaturito da quell’umanesimo occidentale che trova la propria legittimità nell’Illuminismo. L’umanesimo, scrive Chambers, è una formazione storica, culturale e politica «che nega altre possibilità attraverso la conferma continua della soggettività occidentale in ogni angolo del pianeta». Come però nota Chambers, è vero che l’Occidente è «diventato il mondo», ma i suoi concetti e le sue istituzioni non sono più di sua proprietà: il concetto di Stato-nazione è stato adottato da tantissime culture ex coloniali causando la tragedia africana contemporanea; la letteratura in lingua inglese, francese e spagnola è stata adottata dalle élite intellettuali locali divenendo luoghi in cui si produce l’ibridità e la creolité. Quelli che una volta l’antropologia, la storia, la letteratura ha prodotto come oggetti, ora diventano soggetti storici «che osano guardarci, riscriverci e sondarci spesso negli stessi linguaggi». Non va tuttavia dimenticato che questi soggetti sono parte di un’identità che non c’è, di un’Africa inventata che è stata creata dai testi europei. Il cuore di tenebra di cui parlava Conrad è tutto qui, nel nostro modo di oscurare la centralità dell’esperienza coloniale e imperiale «per rendere “altro” il resto del mondo come riserva economica, politica e culturale per la realizzazione della modernità e del nostro progresso».

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Il problema del discorso critico sull’Occidentalismo, nota quindi Chambers, deriva non solamente dalla problematicità dell’oggetto del discorso ma anche del soggetto che lo articola. L’antropologia culturale ha tentato di risolvere questo problema, la storiografia contemporanea no. Essa rifiuta una critica che metterebbe in crisi la propria configurazione, basata sull’empirismo e la neutralità oggettiva garantita da protocolli “scientifici”: mettere in discussione quegli stessi criteri alla base dell’analisi storiografica significa mettere in discussione la stessa disciplina. Stessa cosa avviene per il discorso economico, che è qualcosa di costruito dagli economisti così come il discorso storiografico è stato costruito dagli storiografi. L’economia deriva dalle teorie di Smith e di Ricardo, basate sulle logiche del progresso e dell’accumulazione. Ma, afferma Chambers, «non è scritto da nessuna parte che questo è l’unico modo per articolare la questione dell’economia, o quella della storia». Egli ritiene che la verità in tali discorsi non sia nella neutralità del racconto ma nella rivelazione delle ingiustizie che essa invece nasconde o addirittura legittima. Mettere in luce questi aspetti rimossi significa anche mettere in luce quella dimensione rimossa e negata di noi stessi, rimossa dalla modernità occidentale che ci ha spinti a riflettere la nostra immagine in ogni angolo del mondo. Come giustamente si rende conto Chambers, probabilmente nessuno è disposto a compiere un tale passo: esso significherebbe smettere di parlare dell’Altro e al posto dell’Altro, significherebbe porsi eternamente all’ascolto. Tuttavia, riconoscere questa situazione ha comunque un qualche risultato: quello di «aprire la porta a una prospettiva in cui le pretese universalistiche dell’Europa si rivelano provinciali rispetto alla complessità storico-culturale che esse vogliono spiegare e gestire».

Dipesh ChakrabartyL’ARTIFICIO DELLA STORIA

E’ stato detto che il progetto postcoloniale dei Subaltern Studies è il primo tentativo fatto dagli indiani di riappropriarsi della capacità di rappresentare se stessi nella storia. Dipesh Chakrabarty, direttore del centro dei Subalter Studies, espone in questo saggio le ragioni del progetto indiano contro l’artificio della storia creato dall’Occidente. La Storia a livello accademico è infatti ancora oggi dominata dall’Europa, «sovrano di tutte le storie», anche di quelle dei paesi extra-europei che tendono ad essere rappresentate come mere variazioni di una grande narrazione che è la storia d’Europa. Chakrabarty precisa che con termini come “Europa” o “India” egli intende concetti iperreali, cioè figure dell’immaginazione piuttosto che soggetti geografici. C’è un sintomo molto diffuso della subalternità delle storie non-occidentali a quella europea: gli storici del Terzo mondo «sentono il bisogno di fare riferimento a lavori di storia europea, mentre gli storici europei non sentono affatto l’obbligo di ricambiare tale interesse». Questo problema non riguarda solo gli storici ma è presente anche negli studi letterari: Chakrabarty cita un commento tratto da un testo sul postmodernismo riguardo Salman Rushdie, il quale scrive che le sue ispirazioni «provengono da un lato da leggende, film e opere letterarie indiane e, dall’altro, dall’Occidente – Il tamburo di latta, Tristram Shandy, Cento anni di solitudine e

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così via». SI può notare come l’autrice del commento citi in dettaglio sono i riferimenti occidentali e non quelli indiani. Questa ignoranza asimmetrica non deriva da un servilismo culturale, ma da un condizionamento teorico molto più profondo. Le grandi teorie sociali universali elaborate dall’Occidente, capaci a detta dei loro ideatori di descrivere gli sviluppi dell’umanità anche se basate su un’assoluta ignoranza delle realtà empiriche, sono generalmente considerate utili dai popoli extra-europei per comprendere le proprie società nonostante queste teorie siano del tutto ignoranti nei loro confronti. Questo paradosso si basa sull’assunto di fondo secondo cui le diverse realtà empiriche altro non faranno che rafforzare un’ossatura teorica basata appunto sull’idea di Europea. Edmund Husserl argomentava questa tesi nel 1935: egli sosteneva che la differenza fondamentale tra le filosofie orientali e la filosofia per eccellenza – quella occidentale – stava nella capacità di quest’ultima di elaborare intuizioni teoriche assolute e universali, laddove le prime hanno una natura pratico-universale e quindi “mitico-religiosa”. Ad esempio, la tesi di Marx secondo cui la Storia umana può essere letta alla luce della categoria di capitale, dando quindi origine a categorie come borghese, pre-borghese, capitale- pre-capitale, si rifà proprio alla tesi secondo cui la Storia può essere teoricamente comprensibile a partire da concetti universalmente validi.

Il volume Modern India di Sumit Sarkar, membro del progetto dei Subaltern Studies, si apre con la seguente affermazione: «I circa sessant’anni che separano la fondazione delll’Indian Nation Congress nel 1885 e il conseguimento dell’indipendenza nell’agosto 1947 hanno assistito a quella che è probabilmente la più grande transizione nella lunga storia del nostro paese. Una transizione, tuttavia, che rimane da molti punti di vista dolorosamente incompleta. “Dolorosamente incompleta” perché molte aspirazioni sono andate disilluse, tra cui quella di una «completa trasformazione borghese e di un riuscito sviluppo capitalistico». Anche nella prefazione al primo volume dei Subaltern Studies si cita il «fallimento storico della nazione di ricostituirsi, fallimento dovuto all’inadeguatezza della borghesia così come quella della classe operaia». Chakrabarty denuncia questa tendenza a leggere la storia indiana in termini di mancanza e inadeguatezza nei confronti di un modello, quello della modernizzazione, che è prettamente occidentale. La tendenza era presente già all’origine della dominazione coloniale, «in quanto l’indigeno non era mai all’altezza di ricevere» una cittadinanza. In quest’ottica la dominazione britannica fu un “periodo necessario” per preparare la società indiana a ricevere i “doni” dello Stato-nazione e della cittadinanza. Anche oggi la parola anglo-indiana comunalismo si riferisce a coloro che non sono ritenuti all’altezza degli ideali della cittadinanza. Chakrabarty cita una poesia scritta in inglese apparsa nel 1842 sulla rivista di Calcutta The Literary Gleaner in cui uno studente bengalese di diciotto anni scriveva delle «gloriose rive dell’Inghilterra». L’autore di questa poesia è diventato uno dei più grandi poeti indiani, e come molti altri ha abbandonato lo «spregevole sogno» di essere europeo. Del resto, lo stesso Ghandi scriveva in un suo libro che il progetto dei nazionalisti indiani di avere più ferrovie, una medicina moderna e un diritto borghese equivaleva ad avere «il dominio inglese senza gli inglesi».

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La Costituzione indiana afferma che oggi tutti gli indiani sono “cittadini”, in base a una definizione classicamente liberale di cittadinanza. Secondo Chakrabarty questo non è che un mito, perché se un individuo moderno vive la propria vita pubblica/politica attraverso la cittadinanza, dovrebbe avere anche un sé privato, interiorizzato e che traspare in lettere, diari, autobiografie: l’individuo borghese nasce infatti con il concetto di privacy, dove si concretizza un sé privato che però è sempre orientato a un pubblico. Nella società indiana non c’è traccia del sé privato. Ad esempio, nell’acclamata e monumentale autobiografia dell’intellettuale indiano Nirad Chaudhuri solo un piccolo paragrafo su 1500 pagine è dedicato alla descrizione sua prima notte di nozze: in esso egli cela l’intimità con caste dissolvenze letterarie, e in qualche pubblico il sé pubblico traspare anche qui a scapito del sé privato. Nella sua autobiografia Chaudhuri si sforza sempre di essere moderno, ma egli non rappresenta mai nei suoi scritti l’altra faccia del cittadino moderno, il sé privato.

La storia dell’individuo moderno in India presenta troppe contraddizioni per sottoporsi a una narrazione emancipativi in cui ad esempio si bollano le famiglie patriarcali allargate come primitive e quelle mononucleari come moderne. Chakrabarty riporta come esempio l’autobiografia di Ramabai Ranade, moglie di un celebre riformatore del XIX secolo, M.G. Ranade. Ella lottò contro il vecchio ordine patriarcale della famiglia allargata e in favore del nuovo “patriarcato” del matrimonio fondato sulla coppia, considerato come la forma più civile di legame matrimoniale. Tra i principali oppositori verso le idee di Ranade, che seguì anche il marito nelle sue campagne politiche partecipando a manifestazioni e discussioni pubbliche, c’erano gli stessi membri della famiglia di Ramabai che parlavano però sia a difesa del vecchio istituto della famiglia allargata patriarcale sia però a favore del proprio senso di autostima e di lotta femminista, secondo cui Ramabai comportandosi in questo modo si piegava alla volontà degli uomini. Insomma, la storia della “emancipazione” indiana è basata su mille contraddizioni che gli storici nascondono o negano al fine di ricondurre la vicenda indiana nella «marcia universale… della cittadinanza, dello Stato-nazione e dei temi dell’emancipazione umana elaborati nel corso dell’Illuminismo europea e oltre». Del resto, il soggetto della storia “indiana” è diverso da quello che propone la Storia europea. Chakrabarty cita un episodio accaduto nel 1946, quando Calcutta era sconvolta dagli scontri tra indù e musulmani a causa dell’imminente divisione del paese in India e Pakistan. Ghandi, che era in città, digiunava contro il comportamento del suo popolo. Ebbene, le moglie e le madri di famiglia cominciarono a seguire il suo esempio e a non mangiare e a non cucinare. Secondo Gayatri Spivak, questo esempio dimostra un senso della comunità in cui si mescola il senso di appartenenza alla nazione e il senso di appartenenza alla famiglia (intesa nel senso allargato). Il soggetto della storia indiana è dunque originale, particolare, diversa da quello del “popolo indiano” che la storia occidentale rappresenta, diviso in due tra un’élite modernizzane e un mondo contadino ancora-da-modernizzare. Secondo Chakrabarty, finché si opera entro il discorso della Storia accademica, non sarà possibile fare a meno della «profonda collusione tra la “stroria” e la/le narrazione/i moderna/e della cittadinanza, del pubblico e del privato borghesi e dello Stato-nazione». Del resto, come mai oggi tutti i paesi del mondo devono

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studiare una disciplina chiamata “storia” di cui facevano tranquillamente a meno fino al XVIII secolo? La causa è riconducibile all’«imperialismo europeo»: l’economia e la storia corrispondo alle «due istituzioni più importanti che l’emergere (e più tardi l’universalizzarsi) dell’ordine borghese ha dato al mondo: il modo di produzione capitalistico e lo Stato-nazione».

Per abbattere questa Storia universalista e imperialista, Chakrabarty propone di provincializzare l’Europa. Questo progetto non consiste nel rifiuto semplicistico della modernità, dei suoi valori liberali, della ragione e delle grandi narrazioni. Non è quindi un progetto di relativismo culturale. Il punto non è infatti dimostrare che il razionalismo illuministico «è sempre irragionevole in sé», ma dimostrare che la sua “ragione” non è sempre chiara per tutti. Il progetto di provincializzare l’Europa deve tendere a riconoscere che l’uso dell’aggettivo “moderno” da parte dell’Europa è divenuto uno strumenti di imperialismo all’interno della storia globale, e che alla costruzione del concetto di “modernità” hanno contribuito anche i nazionalismi del Terzo mondo «in quanto ideologie moderniste per eccellenza». Per tale motivo il progetto di provincializzare l’Europa non può essere un progetto nazionalistico: «L’idea è di inscrivere nella storia della modernità le ambivalenze, le contraddizioni, l’uso della forza e le tragedie e le ironie che la riguardano». Le storie occidentali minimizzano infatti le violenze perpetrate come strumenti della vittoria del moderno. Egli fa un esempio riguardo la storia della medicina moderna. In un saggio di David Arnold sulla storia delle prigioni in India si dimostra come le prime ricerche pionieristiche sulle statistiche mediche siano state compiute nelle carceri delle colonie; e negli anni Settanta la campagna contro il vaiolo realizzata in India fu attuata con metodi violenti di coercizione fisica per somministrare il vaccino anche ai contadini più restii, in virtù dell’ideale filantropico di scacciare il vaiolo dal pianeta. Chakrabarty riconosce che questo progetto di provincializzare l’Europa non è attuabile all’interno delle istituzioni accademiche, è una politica della disperazione. Tuttavia, egli sostiene la necessità di una storia «che renda deliberatamente visibile, all’interno della struttura delle proprie forme narrative, le proprie strategie e pratiche repressive».

Franco MazzeiLA VIOLENZA EPISTEMOLOGICA NELL’ORIENTALISMO

L’Orientalismo come settore specifico di studio nasce agli inizi del XVII secolo ed è da subito possibile identificarne due contrapposti approcci metodologici entrambi caratterizzati da forme di etnocentrismo: quello dell’etnocentrismo dal di dentro rappresentato dal missionario gesuita Matteo Ricci che per capire la Cina indossa l’abito del letterato confuciano, e quello dell’etnocentrismo dal di fuori in cui l’osservatore occidentale interpreta l’Oriente attraverso le proprie categorie che ritiene universali. Il termine Orientalismo nasce in Francia negli anni ’30 del XIX secoli ed ha assunto diverse accezioni: quella derivata da Said che vede l’Oriente come un’invenzione occidentale «il cui obiettivo è rafforzare e giustiziare il potere occidentale sull’Oriente», o quella più ampia utilizzata tra gli altri da Clarke che indica la varietà dei diversi atteggiamenti assunti in Occidente verso le culture dell’Asia. I due approcci nell’ambito dell’antropologia

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sono definiti come approccio emico e approccio etico, sulla base di una dicotomia presa in prestito dall’antropologia linguistica che deriva dall’opposizione fonetico/fonetico (“fonetico” si riferisce a un sistema universale di descrivere i suoni dei vari linguaggi del mondo, “fonetico” si riferisce a un sistema particolare di suoni di una determinata lingua). Gli studiosi che seguono l’approccio emico ritengono che ciascun sistema culturale vada analizzato nella sua specificità, mentre l’approccio etico è tendenzialmente universalistico e secondo alcuni caratterizzato da connotazioni di imperialismo culturale. Mazzei in questo saggio riassume il suo studio attuato attraverso questi approcci metodologici della transizione del Giappone dal periodo Tokugawa al periodo Meji, cioè la risposta giapponese alla sfida occidentale. Egli fa alcune riflessioni sull’utilità di tre paradigmi – particolaristico, liberale e marxista – usati per interpretare questa fase storica.

Il paradigma particolaristico pone l’accentro sull’eccezionalità dell’esperienza storica del Giappone rispetto alle analoghe esperienze occidentali. I missionari gesuiti che nel XVI secolo giunsero in Cina, la descrissero molto diversa dall’Europa ma tutto sommato comprensibile. La modernità occidentale, anzi, riuscì a ricondurre la realtà cinese al proprio paradigma interpretativo. Più tardi Karl Marx formulò l’ipotesi un modo di produzione asiatico diverso da quello occidentale che in effetti si confà al modello economico della Cina confuciana e in parte a quello giapponese. Proprio da questa tradizione di «statalismo burocratico di ispirazione confuciana» su cui si basa il modo di produzione orientale è scaturito il modello dello Stato sviluppista che attualmente caratterizza l’industrializzazione dl Giappone, delle Quattro Tigri (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong) e della stessa Cina. La concezione opposta, quella taoista anti-statalista, è invece curiosamente alla base del pensiero del liberalismo economico europeo: Francois Quesnay scrisse nel 1767 il trattato Le despotisme de la Chine dal quale fu tratto tra le altre cose il concetto di laissez-faire che era la tradizione francese del wu-wei (“non agire”) taoista. Diversamente da quanto accaduto in Cina, i missionari gesuiti recatisi in Giappone trovarono il paese del Sol Levante assolutamente incomprensibile. Una delle cose più difficili da comprendere per loro era la pluriaffiliazione religiosa dei giapponesi: nel suo Saggio sui costumi (1756), Voltaire vide nella coesistenza pacifica di dozzine di religioni il segno della “tolleranza” giapponese, tesi oggi screditata: pur essendo molto attento alle diversità culturali esterne, il Giappone è sempre stato poco tollerante verso la diversità all’interno del gruppo (nelle famiglie e nelle aziende i membri sono costretti ad assumere comportamenti conformistici). Proprio l’eccezionalità della cultura giapponese sarebbe secondo alcuni alla base del successo di questo paese in campo economico dal secondo dopoguerra ad oggi, e rappresentato dalla letteratura detta nihonjinron, centrata sulle caratteristiche della “giapponesità”. Nell’approccio particolaristico si riscontra dunque un metodo emico di interpretazione dell’altro, attraverso il quale lo studioso cerca di spogliarsi delle proprie categorie analitiche per adottare quelle dell’osservato: il pericolo di ciò sta nell’essenzialismo della cultura che si studia.

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Le altre due prospettive, quelle del paradigma marxista e del paradigma liberale, sono invece caratterizzate da un approccio etico «che percepisce l’Oriente come qualcosa da ridurre a una forma (immatura, parziale, derivata) dell’Occidente». Si tratta quindi di un etnocentrismo dal di fuori che ha come risultato negativo una violenza epistemologica. La differenza principale tra le due scuole non si basa solo sulla prospettiva filosofico-ideologica, ma soprattutto sulla diversa concezione del “sottosviluppo”. Per i teorici liberali il sottosviluppo è una condizione della pre-modernità derivante dalla mancata integrazione di un paese nella rete del commercio internazionale dovuta probabilmente all’ostilità delle élite locali. Per i marxisti il sottosviluppo è una funzione strutturale del capitalismo contemporaneo, «per il cui sviluppo è necessario lo sfruttamento della periferia». Secondo la tesi liberale, con la Restaurazione Meji si avviò il processo di adeguamento del Giappone alla modernità occidentale. Questa tesi di una modernizzazione come processo universale è oggi fuori moda, ma recentemente è stata ripresa e modificata da studiosi come Ronald Dore e Samuel Eisenstadt: per quest’ultimo la modernizzazione del Giappone presenta alcuni paradossi: il primo è che questo processo si è verificato in una civiltà non assiale, intendendo con civiltà assiali (espressione coniata da Karl Jaspers) quelle nate intorno al VI secolo a.C. ai quattro estremi del mondo abitato: Grecia, Israele, Cina, India; il secondo, che deriva dal primo, è che questo processo è notevolmente della sua versione originaria occidentale. Eisenstadt teorizza dunque l’esistenza di modernità multiple – come quella giapponese – derivante dalla fusione di un processo universale come quello della modernità occidentale con un fenomeni locali come la cultura giapponese.

Abbandonata dunque la dicotomia etico/emico, visto come entrambi gli approcci vanno incontro a derive nefaste, va adottata una prospettiva bidimensionale nello studio del mutamento giapponese, già anticipata da Eisenstadt: essa è chiaramente espressa nello slogan dei riformatori Meji wakon-yosai, fusione di valori tradizionali (wakon) e conoscenze tecniche occidentali (yosai). L’altro, per il Giappone, è sempre stato in effetti considerato superiore dal punto di vista strumentale ma non in quello culturale: dalla Cina il Giappone imparò «a leggere, a scrivere e anche a pensare», dall’Occidente il Giappone ha adottato le tecnologie e il metodo di produzione capitalistico, senza perdere di vista i propri valori. Proprio il particolarismo culturale giapponese consente a questa cultura di «tradizionalizzare il nuovo senza radicalizzare il cambiamento». Molti studiosi hanno visto nel modello giapponese l’espressine di una società postmoderna, per prima capace di superare il concetto occidentale di modernizzazione universale e creare una modernità sui generis: essa è una società postmoderna che non è mai stata moderna, ma ha mantenuto inalterate le istituzioni della tradizione senza farle apparire come “residui feudali” da cancellare. Come diceva Ronald Dore, dobbiamo prendere il Giappone sul serio: mettere in discussione le grandi narrazioni della modernità e i grandi paradigmi occidentali, smettere di cercare un’”ultima verità” e usare l’approccio emico per accrescere le nostre comprensione delle realtà “altre” e l’approccio etico per rilevarne l’appartenenza ad un’unica umanità. E’ opportuno, conclude Mazzei, seguire un approccio ermeneutico che miri alla «fusione di orizzonti

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concettuali diversi» (Gadamer), cercando di comprendere la diversità dal di dentro usando «un’epistemologia più interpretativa che non rigidamente esplicativa».

Alessandro TriulziLO SGUARDO COLONIALE

Triulzi apre il saggio con un estratto dal saggio La pelle giusta, ricerca condotta dall’antropologa Paola Tabet sulle rappresentazioni che i bambini italiani hanno degli altri, condotta su un ampio campione di classi elementari dal 1991 al 1994. L’estratto è un commento di un bambino di prima elementare di Cagliari che scrive: «Quella pelle nera e strana… è troppo scura ma io ho paura di quella pelle scurissima perché è scurissima». Triulzi ritiene che esista nell’inconscio di questi bambini un coacervo di immagini razziste che vengono indotte dai comportamenti spesso inconsapevoli degli adulti. Da questo spunto, Triulzi compie alcune riflessioni basate sulla collezione fotografica della Società africana d’Italia, ospitata all’Università “L’Orientale”. Le ricerche hanno mostrato come all’origine del nostro modo di vedere l’altro africano vi sia una tendenza alla disumanizzazione dell’altro, a partire dalla negazione della sua individualità e titolarità di diritti umani. Lo sguardo occidentale sull’altro è sempre stato connotato, come scrive Tzvetan Todorov ne La conquista dell’America, da un «miscuglio di autoritarismo e di condiscendenza».

Ancora oggi, nota Triulzi, noi ci definiamo come “noi” opposti agli “altri”, in base ad esempio all’essere abitanti del Nord o del Sud mondo. Non soltanto questa definizione dicotomica è un forte elemento di identità collettiva, ma ha in sé un forte senso rispettivamente di superiorità e subordinazione. Questa differenza nord-sud si basa su una serie di parametri di produzione di ricchezza che il Terzo Rapporto sullo sviluppo umano elaborato dalle Nazioni Unite nel 1992 mostra graficamente con una coppa di champagne senza stelo, in cui la parte alta rappresenta il quinto più ricco della popolazione mondiale che produce e consuma l’82,7% del reddito totale mondiale; alla base della coppa c’è il quinto più povero della popolazione mondiale che sopravvive con solo 1/4 della ricchezza mondiale. In totale, i 4/5 della popolazione sopravvivono con circa il 15% del reddito globale. A questa disparità economica si aggiunge una serie di giudizi di valore in base ai quali la parte economicamente più povera del mondo è ritenuta arretrata a livello di civiltà e progresso, “sottosviluppata”. Lo sguardo coloniale, afferma dunque Triulzi, deriva da un rapporto di dominazione: ieri come oggi una parte dell’umanità minoritaria ma ricca e tecnolgizzata si ritiene superiore a un’altra parte che, pur maggioritaria, viene vista unicamente nella sua dimensione di povertà e arretratezza. La parte minoritaria si autoinveste dunque della missione di civilizzazione dell’altra parte del mondo, di assimilazione al proprio modo di essere. Questa missione inizia con la sua fase più brutale, quella della tratta degli schiavi neri dell’Africa, a cui segue la creazione degli imperi coloniali al fine di pilotare le società tradizionali verso i traguardi della modernità e del progresso, «sotto le sembianze del buon consigliere (protettorati), del padre padrone (colonie e possedimenti) e del colono-migrante (colonie di popolamento).

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Ma in realtà, nota Triulzi, esiste un nord nel Sud, e un sud nel Nord (come si può notare in Italia), e zone grigie in cui Nord e Sud si incontrano e si confondono. In effetti, Nord e Sud non sono che categorie di giudizio più che realtà territoriali. Cercare di applicare a queste realtà geografiche le categorie di “modernità” (Nord) e “tradizione” (Sud) vuol dire imporre all’85% della coppa la volontà del 15%. Questa costruzione binaria delle identità (“noi/loro”, “nord/sud”) è andata incontro a diversi mutamenti. Ad esempio, l’immigrazione globale degli anni Novanta ha messo quotidianamente l’Occidente a confronto con l’alterità presente ora sotto casa. Il sistema percettivo razzista riaffiora dopo la caduta del muro di Berlino e la moltiplicazione dei flussi migratori. Ma purtroppo ci si dimentica spesso, scrive Triulzi, che i 20 milioni di immigrati attualmente presenti in Europa sono molto meno dei 40 milioni di europei (di cui 8 milioni di italiani) che nel XIX secolo e nei primi decenni del XX emigrarono nelle Americhe, in Australia, in Canada e nelle colonie. Oggi la realtà sembra esseri rovesciata, ma così non è: l’incontro con l’altro avveniva durante il colonialismo negli spazi stessi degli ex-colonizzati, mentre ora avviene negli spazi metropolitani. Ma ancora oggi al forza lavoro di questi immigrati ex-colonizzati viene sottopagata e sfruttata come all’epoca delle colonie al fine di arricchire l’Europa e l’Occidente. Il neo-razzismo odierno è il frutto della decolonizzazione incompiuta, frutto dell’inversione di flussi madrepatria-colonia che ha provocato in noi una forte crisi di identità e di rifiuto della diversità.

Triulzi ritiene che Napoli e il Meridione d’Italia siano luoghi privilegiati di elaborazione di clichè «sull’alterità interna della penisola». Nell’Ottocento il Sud viene rappresentato come il “cuore di tenebra” dell’Italia postunitaria, quello che i gentiluomini del Grand Tour settecentesco «avevano considerato come il paese dell’incognito, dominato da leggende di briganti, ingombro di oscure foreste, funestato da terribili epidemie». E l’opinione comune straniera paragonava i mendicati e i bambini questuanti napoletani agli abitanti di un qualsiasi villaggio africano. Il Mezzogiorno è dunque l’oggetto di una rappresentazione stereotipata dell’altro, la Napoli fotografata di fine Ottocento «è più “immaginata” che ritratta, più “inventata” che descritta, una singolare Napoli rosa-confetto, costantemente “in posa”». La fotografia ignora le industrie e i cambiamenti sociali, ma rappresenta solo una città selvaggia prima di classe dirigente e di intellettuali. I suoi abitanti solo residui storici di un primitivismo che la civiltà e il progresso spazzeranno via.

L’Altro africano è oggetto di rappresentazioni più violente. Negli anni settanta e ottanta del XIX secolo, essi sono oggetto di “zoo umani” esposti in occasione di mostre ed esposizioni coloniali, per mostrare dal vivo la diversità culturale e razziale. Più tardi gli africani sono oggetto di rappresentazioni fotografiche che vengono diffuse tra le masse occidentali per convincerle «che l’espansione oltremare era un dovere di civiltà». L’altro diviene quindi oggetto di una classificazione in tipi razziali, come quella voluta da T.H. Huxley, presidente della Ethnological Society di Londra che richiedeva una serie di fotografie a figura intera, senza abiti, frontalmente e di profilo, con a fianco alla figura un

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metro lineare che permettesse al pubblico di percepire tutti i dettagli anatomici del soggetto. La fotografia coloniale «appare qui in tutta la sua esemplare metafore della rappresentazione del potere», attraverso una definizione dell’altro tesa a dominarlo. In Italia, giunta in ritardo nell’impresa coloniale, le definizioni dell’altro erano attuate applicandovi i clichè usati precedentemente nell’invenzione dell’altro “interno”, e servivano ora «a esorcizzare l’immagine dell’altra Italia, quella ancora contadina, agreste, meridionale, l’Italia “cafona” di capre e lazzaroni». L’Africa coloniale è ritratta con le stesse categorie usate nella rappresentazione della Napoli del Grand Tour, entrambe abitate da donne dissolute, uomini oziosi o feroci. Un’Africa inventata per legittimarne il dominio.

Fabio DeiANTROPOLOGIA E GENOCIDIO

Dei inizia la sua trattazione discutendo dell’importanza del passaggio, all’interno dell’antropologia, dalla posizione naturalista e oggettivista alla posizione ermeneutica e interpretativa, introdotta da Clifford Geertz con il suo Interpretazione di culture (1973). I sostenitori, come Dei, di questo approccio, lo hanno sempre considerato “di sinistra” o “progressista” sul piano filosofico ed etico-politico, laddove il naturalismo «tenderebbe ad assolutizzare acriticamente le categorie dell’Occidente, e, almeno implicitamente, ad appoggiarne e giustificarne le pratiche di dominio. Nell’ambito odierno dei cultural studies e dei postcolonial studies, l’approccio ermeneutico è diventato oggetto di critiche in base al presupposto che esso sarebbe nient’altro «che l’ultimo e più raffinato strumento che il sapere-potere occidentale impiega per controllare e neutralizzare il potenziale politico della diversità – in ultima analisi, per dominare l’Altro». Questa linea di ripensamento critico s’intreccia, secondo Dei, con un altro filone molto recente di studi in antropologia, quello sulla violenza di massa.

Dei elenca i principi fondamentali dell’approccio interpretativo:1. La comprensione antropologia consiste nell’incontro tra sistemi di

significato;2. Essa non produce leggi o spiegazioni causali;3. Le “nostre” e le “loro” categorie interpretative vengono entrambe

mutate dal processo di comprensione;4. Questo processo presuppone la soggettività del ricercatore, mettendo

fine alla finzione dell’oggettività;5. La comprensione non è data da regole metodologiche ma da strategie

pratiche;6. Queste strategie pratiche hanno un carattere retorico e letterario.

In Italia l’antropologia interpretativa è andata sviluppandosi a partire dall’eredità antinaturalista di Ernesto de Martino e dalla corrente della scrittura etnografica che ha il suo manifesto nel volume Scrivere le culture (1986). In tale opera si sviluppa un’analisi di due dimensioni finora non problematizzate della tradizione etnografica: la poetica, cioè le strategie retoriche usate dall’antropologo, e la politica, cioè le relazioni di potere al cui interno avviene l’incontro etnografico. Nonostante il volume cerchi di tenere insieme i due

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termini, è evidente che se si vogliono svelare i reali rapporti di potere all’interno dell’incontro etnografico è necessario descriverli con un linguaggio reale ed effettivo, tralasciando «l’affermazione postmoderna della natura finzionale e letteraria di ogni rappresentazione». Insomma, tra poetica e politica il ruolo centrale ce l’ha la politica, diversamente da ciò che vuole l’approccio ermeneutico che si basa sulla poetica e le strategie discorsive. Ritorna così il concetto di ideologia nell’accezione marxiana del termine, di discorsi tesi a legittimare una realtà esistente occultandone le contraddizioni. L’antropologia critica nata in contrapposizione a quella ermeneutico-interpretativa ritiene che le “finzioni” dell’antropologo non sono strumenti necessari per la comprensione dell’Altro, ma «manifestazioni fantomatiche del potere»: compito dell’antropologia critica «è costruire una rappresentazione oggettiva dei rapporti di potere che smascheri delle finzioni».

Dei passa quindi ad affrontare il problema partendo da “una seconda angolatura”, quella del tema della violenza e del conflitto nell’antropologia. E’ paradossale, afferma Dei, che questi temi siano stati perlopiù ignorati dall’antropologia classica, nonostante siano stati ben presenti nel rapporto con l’Altro e mentre l’antropologia lo assumeva come oggetto di studio esso era al contempo «oggetto di politiche di dominio caratterizzate da un contenuto estremo di violenza». Paradossale è che l’antropologia non si sia mai interessato neanche ai genocidi verificatisi nel cuore stesso dell’Occidente, nonostante questi coinvolgessero categorie quali la diversità razziale e culturale che sono gli oggetti per antonomasia dell’antropologia. L’antropologia classica ha considerato questi eventi come inevitabili “effetti collaterali” del processo di civilizzazione. Recentemente questa tendenza si è invertita: il volume collettivo Fieldwork under fire. Contemporary studies of violence and survival (1995) vede nella violenza l’antitesi delle forme ordinate di cultura fino studiate, proprio perché il suo effetto è la rottura dell’ordine culturale e dei legami sociali. Ma descrivere il “puro terrore” non è certo facile per l’antropologo in cerca di significati. Del resto, come si è scritto riguardo le rappresentazioni della Shoah, «una volta “risolto” nella narrazione, l’evento violento sembra perdere la sua particolarità», perché la narrazione per sua natura impone una coerenza che stona con il concetto disordinato e caotico di violenza. E’ difficile per l’antropologo sia mantenere un distacco teorico dall’oggetto di studio, sia stabilire con esso un rapporto empatico.

Al contempo, il ruolo della violenza di massa e del genocidio nella storia contemporanea ha prodotto alcune riflessioni sulla modernità: la Shoah mette in crisi in concetti di universalità delle norme morali e dei diritti umani e l’idea di un processo di civilizzazione verso la modernità. Primo Levi in Se questo è un uomo (1992) ha visto nei lager una sorta di esperimento antropologico. Su questa base non pochi studiosi hanno visto nel genocidio un fenomeno eminentemente moderno, a partire da Hannah Arendt fino alle tesi radicali di Zygmunt Barman in Modernità e olocausto. Il genocidio per la sua realizzazione avrebbe infatti bisogno di strumenti – armi, sostanze chimiche, ferrovie – e di un’amminisrazione legale-razionale, tutti elementi tipi della modernità. Se si tiene conto poi che il genocidio si basa sull’ideale illuministico della creazione di

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una società perfetta e di un ordine nuovo, allora si nota come genocidio e modernità siano legati a doppio filo tra loro. La tesi che Dei sviluppa è che la costruzione delle differenze su cui si basa il genocidio non è semplicemente il frutto di un sentimento etnocentrica, quando una conseguenza delle politiche dello Stato-nazione e delle ideologiche lo accompagnano, come il razzismo che è sintesi di nazionalismo e positivismo. Lo Stato tende infatti a assolutizzare l’omogeneità interna e reificare le differenze esterne. Come ha dimostrato Arjun Appadurai, la violenza esercitata sui corpi nel genocidio è l’altra faccia della costruzione dell’identità nazione e razziale laddove tenta di «inscrivere nell’ordine dei corpi una differenza classificatoria», di marchiare la diversità sui corpi stessi. Appadurai fa una sorta di analogia tra il massacro fisico e il censimento anagrafico, anch’esso teso a classificare le differenza: un’analogia inquietante che ci ricorda il legame con la modernità e anche con la democrazia. Alcuni, come Lila Abu-Lughod in Writing against culture, hanno affermato che la stessa antropologia, con i suoi concetti di “cultura”, “identità”, “differenza”, è stata complice nel processo di discriminazione dei gruppi umani. Ancor di più, il discorso antropologico sulle culture nasconde la realtà del potere e la violenza insita nella differenziazione; la violenza si manifesta non solo nella distruzione dei confini, ma anche nella loro costruzione attuata dagli Stati-nazione: attraverso la costruzione dei confini, lo Stato genera la differenza. Considerando tutti questi elementi, il problema che viene posto è se «c’è continuità o discontinuità fra le pratiche normali e quotidiane tramite cui lo Stato-nazione controlla le menti e i corpi dei suoi cittadini, e le pratiche straordinarie del genocidio e della violenza di massa». Le prigioni, gli ospedali psichiatrici, le amministrazioni coloniali sono i luoghi in cui ricompare la classificazione dell’altro e, in base a tale classificazione, la sottomissione del diverso. Sono tutte, come ha scritto Erwing Goffman in Asylums (1961), delle istituzioni totali come i lager. Dobbiamo dunque vedere la Shoah non come una «inspiegabile falla nella modernità occidentale», ma come il suo frutto. Secondo l’antropologa americana Nancy Scheper-Hughes, nella nostra specie sarebbe insita una capacità genocida, riscontrabile a livello di “normalità” nelle espressioni di esclusione sociale, deumanizzazione, depersonalizzazione. L’antropologia critica a cui Scheper-Hughes appartiene considera un problema secondario quello delle circostanza che rendono la potenzialità genocida in atto concreto. La teoria liberale e hobbesiana della politica ne farebbe il problema centrale, mentre la teoria critica crede che non via sia alcuna discontinuità tra la società liberale e capitalistica e quella totalitaria.

Dei ritiene che l’antropologia critica, pur rappresentando un contributo importante alla comprensione della violenza politica ed etnica nel mondo contemporaneo, presenta alcune difficoltà nelle sue conseguenze. In primo luogo, egli non è molto convinto riguardo la liquidazione del concetto di cultura, considerato una mera copertura ideologica del dominio dello Stato-nazione. Il riconoscimento della differenza culturale non implica infatti necessariamente i processi di essenzializzazione e naturalizzazione alla base dei genocidi, e il rifiuto della differenza nasconde una nozione universalistica di umanità che ha legami molto forti con le idee illuministiche di una ragione assoluta. Piuttosto, bisognerebbe accettare l’invito di Clifford Geertz a

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ricostruire il linguaggio della politica e dell’economia alla luce di una sensibilità per le differenze culturali. Riguardo il concetto di potere, l’idea di una società priva di potere è inattuabile perché nulla nella nostra vita è avulso da contesti di potere, ma il problema sta nel distinguere fra un potere migliore e uno peggiore, fra un potere genocida e uno che non lo è. L’antropologia critica sbaglia poi a non andare in cerca di quelle condizioni che risvegliano le potenzialità genocide dell’uomo. Ha buone ragioni per rifiutare la dicotomia troppo netta democrazie liberali/totalitarismi, ma «minimizzando le differenza in funzione anti-liberale, rischia di privarsi di strumenti di discriminazione etica e politica e di cadere in una indistinta e quasi caricaturale denuncia del moderno Stato occidentale». In effetti, la stessa Hannah Arendt ad esempio vedeva il potere e la violenza come due concetti antitetici, laddove la violenza subentra in uno Stato nel momento in cui si indebolisce il suo potere di diritto. Un’altra critica riguardo la visione dell’approccio ermeneutico come un tentativo di cancellare la realtà e la verità. Dei nota come il negazionaismo, parte integrante dei genocidi del Novecento, si basi invece proprio su minuniziose procedure e perizie tecniche basate sui fatti a scapito delle interpretazioni. «Un’adesione troppo stretta ai fatti ci fa perdere il senso del nostro rapporto con la storia», mentre lo scetticismo nei confronti di verità oggettive e assolute «spinge nella direzione di una maggiore apertura e di una più rigorosa attenzione critica verso i dati empirici». Infine, Dei difende l’antropologia culturale, la quale non ha certo «sempre mantenuto il ruolo di mosca cocchiera del nazionalismo e dell’imperialismo». L’antropologia culturale non ha rappresentato solo complicità col potere, ma anche resistenza e riconoscimento: non va dimenticato che è stata l’antropologia culturale «a fare della lotta all’etnocentrismo un programma etico e scientifico; in contesti storici che tendevano ad elevare muri, è stata l’antropologia che si è sforzata di gettare ponti; in contesti che perseguivano il dominio puro, l’antropologia si è posta l’obiettivo della comprensione». Insomma, si chiede in conclusione Dei, è più vicina alla logica dello sterminio l’ideologia herderiana che insiste sulle differenze, o quella hegeliana che insiste sull’unicità della ragione? Ritorna il tema classico delle origini del totalitarismo, se esso sia prodotto dell’eredità illuministica o romantica. Per andare a cercare quel contiuum genocida presenta nella nostra società c’è insomma bisogno «di una filosofia politica un po’ più complessa rispetto al generico discorso sul “potere” e sul modello caricaturale di Stato-nazione su cui si fonda certa critical anthropolgy».

Ugo FabettiFRONTIERE, METAFORE, VIOLENZA

Fabietti esplora alcune implicazioni dell’uso metaforico della nozione di frontiera in antropologia. “Frontiera” definisce certe particolari zone di contatto e al contempo di separazione tra mondi culturali, in particolare tra l’Occidente e l’Altro. Fabietti stesso ha compiuto ricerche nel Baluchistan pakistano, una regione da sempre definita “di frontiera”, come del resto traspare proprio nel titolo del lavoro Etnografia della frontiera (1997) dedicato a questa ricerca. Una regione a cavallo tra il Medio Oriente e l’Asia meridionale, ricca di suggestioni coloniali e letterarie che il concetto di frontiera esplica perfettamente. Il

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Beluchistan è stato per un interno secolo l’estremità occidentale dell’impero anglo-indiano, una “zona di contatto” tra più mondi, un’area contesa tra la Gran Bretagna, la Persia (poi l’Iran), la Russia zarista. Anche se oggi sono cambiati tempi ed attori, il Beluchistan non si scrolla di dosso la sua aria di frontiera. Frontiera forse provvisoria, che segna la massima espansione dell’impero politico, economico e culturale britannico. Frontiera come “fronte” che separa da un’alterità. Nel modello “Robinson Crusoe”, frontiera sta ad indicare una distanza a al tempo stesso un controllo e dominio dell’altro (rappresentato da Venerdì, il selvaggio del romanzo che appare come un “altro” assoluto). Nel modello “Gesuiti in Cina”, frontiera sta per “zona di contatto” in cui si instaurano relazioni di tipo comunicativo tra diverse realtà e ambiti di significato.

L’antropologia per sua stessa natura aspira a rompere le barriere, a uscire dalle certezze della cultura per conoscere l’Altro. L’antropologia è dunque un sapere di frontiera, che rimette in discussione gli assunti, gli schemi e le categorie della cultura di cui è parte. Tuttavia, nota Fabietti, l’antropologia condivide con la cultura che l’ha generata una forma di conoscenza che implica necessariamente un’attitudine alla violenza, nel momento in cui non può fare a meno di «ricondurre l’altro all’orizzonte culturale di cui essa è espressione». La stessa immagine della frontiera, nella sua accezione estrema, è associabile a una pratica impositiva: quella degli Stati-nazione, che hanno assegnato a una miriade di realtà sociali, politiche, religiose, etniche, di confini che esse non sentivano proprie, causando il dramma attuale dell’Africa. Quest’imposizione di frontiere a etnie che prima non ne avevano necessità fu il risultato di una proiezione delle categorie eurocentriche su realtà ben diverse. Frederik Barth ha dedicato lunghi studi all’idea di confine e alla sua «funzione di dispositivo di produzione della differenza culturale». L’idea che abbiamo di confine come di una linea demarcatoria deriva dalla nostra concezione della proprietà del suolo: l’idea di un appezzamento di terra delimitato da un recinto, all’interno del quale tutto ciò che c’è appartiene a un individuo, viene proiettato su scala molto più ampia creando i confini dello Stato-nazione. Tale idea è stata poi proiettata a culture e gruppi sociali altri. Sbagliamo tuttavia a credere che, laddove non esista la nozione di confine come linea di demarcazione, non ci sia neanche l’idea di separazione. BArth fa l’esempio di basseri, pastori transumanti dell’Iran centro-meridionale, che possiedono il concetto di proprietà di un campo ma non rappresentano i suoi confini sotto forma di recinti o linee tracciate sul terreno, ma sulla base di specifiche configurazioni ambientali, sociali, politiche ed economiche che permette a un gruppo di definirsi come diverso da un altro. Nello stesso Baluchistan, scrive Fabietti, non esiste una forma di proprietà agricola della terra, ma una proprietà che deriva dall’acqua attraverso un concetto difficilmente comprensibile ai nostri occhi, quello del tempo di scorrimento dell’acqua all’interno di un determinato canale: la terra che appartiene a un contadino è quella irrigata dall’acqua di quel determinato canale.

In conclusione, afferma Fabietti, l’antropologia deve approfondire il concetto di frontiera come metafora per plasmare la distinzione tra “noi” e “loro”, tra il West e il Rest.

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Gino SattaCOLONIALISMO 2.0

In un articolo del 7 aprile 2003 sull’Observer, Robert Cooper sosteneva la necessità di «un nuovo imperialismo liberale» che metta ordine nel caos di un mondo globalizzato post-11 settembre. Dopo la fine dei grandi imperi coloniali nella seconda metà del XX secolo, scrive Cooper, sono emerse due nuove formazioni statali: da una parte gli Stati postmoderni costruititi dalle ex-madrepatrie degli imperi coloniali, che hanno abbandonato desideri di dominio e conquista, sono interdipendenti tra loro dal punto di vista politico ed economico (tanto che i loro confini hanno gradualmente perso rilevanza), hanno rifiutato l’uso della forza per la soluzione delle controversie; dall’altra parte gli Stati pre-moderni costituiti dalle ex colonie, dove i governi non sono capaci di assicurare il monopolio della violenza weberiano e si combatte una hobbesiana guerra di tutti contro tutti. Gli Stati postmoderni, ritiene Cooper, non possono avere con quelli pre-moderni lo stesso rapporto che essi hanno tra di loro: «Tra di noi operiamo sulla base delle leggi e della cooperazione… Ma quando abbiamo a che fare con Stati del tipo più all’antica dobbiamo tornare ai più rozzi metodi di un’era precedente: la forza, l’attacco preventivo, l’inganno». Gli Stati postmoderni devono intervenire in quelli pre-moderni non in virtù di obsolete volontà di dominio, ma per assicurare la loro sicurezza e l’ordine mondiale. E’ facile rivede in queste tesi una nuova versione del fardello dell’uomo bianco, poiché propone ancora un mondo in cui le varie società vengono ordinate in sequenza temporale al cui punto più alto si trova l’Occidente. L’idea di un nuovo imperialismo, ad ogni modo, non è nuovissima: l’idea di un Impero americano che crei un nuovo ordine coloniale sulla base dei diritti umani, della democrazia e dello sviluppo economico è presente negli ambienti politologici americani da molti anni, anche perché si stanno sviluppando nuove argomentazioni intellettuali che possono legittimare quest’approccio. Come ha scritto David Chanderl, l’articolo di Cooper scandalizza più per i toni da realpolitk che per le tesi avanzate che non sorprendono più di tanto. Oggi queste tesi sono infatti molto di moda, ma vengono ammantate sotto la copertura della necessità di un’uguaglianza della dignità umana, della necessità di prevenire abusi dei diritti umani, del compito di sostenere la democratizzazione di nazioni incapaci di farlo autonomamente. Chandler suggerisce la tesi che il nuovo colonialismo fondi la propria legittimazione su una retorica postmoderna dei diritti umani e della cittadinanza cosmopolita, una legittimazione che non viene solo dagli ambienti della destra americana ma anche da quelli più liberal e dagli alleati europei. Questo nuovo colonialismo è chiamato da Satta non “neocolonialismo” ma colonialismo 2.0 «alla maniera delle major releases dei programmi informatici».

E’ opinione comune, nell’attuale dibattito sulla globalizzazione, che vi sia oggi una crisi dello Stato-nazione: la sua sovranità è erosa dall’altro, dagli organismi sopranazionali, e dal basso, dal diffondersi di identità vocaliste. Satta si chiede se questi discorsi sulla crisi dello Stato-nazione non nascondano «il formarsi di un nuovo ordine politico-economico puramente basato sui rapporti di forza tra nazioni forti e nuove colonie». Ad esempio, le guerre umanitarie

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dimostrano che la sovranità nazionale non è messa in discussione in generale ma solo per quegli Stati «che non hanno la forza di poterla affermare o difendere di fronte alle offensive politiche e militari degli Stati forti». La sovranità nazione americana, infatti, lungi dall’essere entrata in crisi, si è espansa al punto da ripristinare persino il diritto di muove guerra a propria discrezione, funzione che era stata ceduta a istituzioni internazionali come l’ONU. Insieme al concetto di Stato-nazione, sembra essere entrato in crisi anche quello della cultura, intimamente legato al concetto di nazione in base all’equazione lingua=cultura=nazione. I tentativi di ripensare questo concetto si sono mossi su due distinti livelli: da un lato hanno cercato di dare risposte alla necessità di ripensare i concetti di identità in un mondo globalizzato, dall’altro hanno cercato di costruire nuove identità non essenzialiste in base alla critica di un particolare modo modernista di concepire l’identità. In Modernity at large, Arjun Appadurai tenta di descrivere la trasformazione del concetto di identità nel mondo globalizzato; un tentativo non molto riuscito, ritiene Satta, non perché non esista un mondo globalizzato ma perché Appadurai generalizza una condizione particolare, senza considerare le tante diversità all’interno del processo di globalizzazione. Il dibattito intorno all’abbandono del concetto di cultura è la spia di un nuovo pensiero post-strutturalista ormai dominante anche in antropologia. Il concetto di cultura appare non solo compromesso, ma addirittura controproducente con la sua tendenza a concettualizzare, a stabilizzare a scapito delle differenze, delle incoerenze, delle instabilità. La cultura tenderebbe a essenzializzare le differenze, «avvicinandosi così negli effetti al vecchio concetto di razza». Ma, rileva Satta, come la crisi più immaginata che reale dello Stato-nazione rischia di favorire una logica in cui vale solo il diritto del più forte, l’eventuale sparizione dall’antropologia dell’alterità a vantaggio delle differenze «rischia di ridurre il cosmopolitismo a una maschera dell’espansionismo culturale dell’Occidente». Con ciò, Satta non vuole dire che «le politiche postcoloniali dell’identità» siano complici del nuovo colonionalismo, ma vuole far notare come queste tesi rischiano di piegarsi a usi politici perversi che ne invertono il senso, trasformandoli «in strumenti per produrre barriere e confini invalicabili». Si sta infatti affermando un nuovo universalismo che cancella l’alterità, e trasforma la differenza semplicemente in una forma di distanza dall’Occidente: si tende cioè a universalizzare una particolare forma culturale ritenuta pluralista, tollerante, aperta, democratica, in base alla quale le altre culture vengono stigmatizzate «in quanto non disponibili a riconoscersi nella supremazia dell’Occidente, o tollerate con condiscendenza se considerate compatibili».

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