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1 Dispensa di diritto civile I diritti reali A cura di Francesco Caringella

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Dispensa di diritto civile

I diritti reali

A cura di

Francesco Caringella

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I diritti reali

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Indice

1. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 28 marzo 2014, n. 7305: rapporti tra

azione petitoria e possessoria

2. Tribunale Santa Maria Capua Vetere, 28 novembre 2013: art. 2645 ter c.c. e

destinazione traslativa

3. Tribunale Reggio Emilia, ordinanza 12 maggio 2014: inammissibilità di un negozio

destinatorio puro

4. Tribunale di Roma, sentenza 10975 del 2013: inammissibilità della costituzione del

vincolo di destinazione ex art. 2645 ter mediante testamento.

All. 1

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Selezione giurisprudenziale

1. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 28 marzo 2014, n. 7305: rapporti tra

azione petitoria e possessoria

Motivi della decisione

L'eccezione di inammissibilità del ricorso - sollevata dal resistente nel presupposto che la firma della procura in calce all'atto sia stata autenticata soltanto da uno dei due difensori di G.M., non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori - va disattesa, poichè la certificazione di autografia è sottoscritta invece da entrambi gli avvocati nominati dal ricorrente.

Con il motivo addotto a sostegno dell'impugnazione G. M. deduce che la propria domanda è stata arbitrariamente immutata dalla Corte d'appello da personale in reale, per l'incongrua ragione del carattere petitorio delle difese che ad essa erano state opposte in via riconvenzionale da V.P..

Nella materia cui si riferisce la censura formulata dal ricorrente la giurisprudenza di legittimità non sempre è stata univoca, sicchè nel suo ambito si sono verificati contrasti, per la cui composizione la causa è stata assegnata alle sezioni unite.

Unanimemente si riconosce che le azioni di rivendicazione e di restituzione sono accomunate dallo scopo pratico cui entrambe tendono - ottenere la disponibilità materiale di un bene, della quale si è privi - ma si distinguono nettamente per la natura, poichè all'analogia del petitum non corrisponde quella delle rispettive causae petendi: la proprietà per l'una, un rapporto obbligatorio per l'altra. La prima è connotata quindi da realità e assolutezza, la seconda da personalità e relatività. Nella rivendicazione la ragione giuridica e l'oggetto del giudizio coincidono, identificandosi nel diritto di proprietà, di cui l'attore deve dare la c.d. probatio diabolica, dimostrando un acquisto del bene avvenuto a titolo originario da parte sua o di uno dei propri danti causa a titolo derivativo (acquisto che per lo più deriva dall'usucapione, maturata eventualmente mediante i meccanismi dell'accessione o dell'unione dei possessi). Nel caso dell'azione di restituzione si verte invece su una prestazione di dare, derivante da un rapporto di carattere obbligatorio.

Ciò stante, sono due le questioni su cui si sono delineati contrasti nella giurisprudenza di questa Corte: se le difese di carattere petitorio opposte a un'azione di rilascio o consegna comportino la trasformazione in reale della domanda che sia stata proposta e mantenuta ferma dall'attore come personale; se sia inquadrabile nell'una o nell'altra specie l'azione esercitata nei confronti di chi non accampa alcun titolo a giustificazione della disponibilità materiale del bene oggetto della controversia.

L'incidenza delle ragioni dominicali fatte valere dal convenuto era stata inizialmente limitata - con le sentenze 17 novembre 1977 n. 5027, 20 novembre 1979 n. 6061, 22 gennaio 1980 n. 518, 12 maggio 1980 n. 3126, 2 febbraio 1982 n. 613 - alla distribuzione della competenza per valore tra il pretore e il tribunale. Successivamente si è tuttavia affermato - con le sentenze 26 settembre 1991 n. 10073, 2 giugno 1998 n. 5397, 30 giugno 1998 n. 6403, 19 maggio 2006 n. 11114 - che tali difese hanno anche l'effetto di modificare in azione di rivendicazione quella di restituzione esercitata dall'attore e se ne è desunto che egli viene quindi ad essere gravato dell'onere di fornire la probatio diabolica, per poter ottenere il rilascio o la consegna del bene.

Che dal vanto del convenuto possano derivare conseguenze di tal genere, è stato invece negato con le sentenze 9 settembre 1998 n. 8930, 12 ottobre 2000 n. 13605, 27 febbraio 2001 n. 2908, 26 febbraio 2007 n. 4416, 27 gennaio 2009 n. 1929, 23 dicembre 2010 n. 26003, 17 gennaio 2011 n. 884.

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Tra questi due orientamenti, ritiene il collegio che debba essere seguito il secondo, stante la sua coerenza con i basilari principi di disponibilità e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che riservano alle parti la formulazione delle loro richieste, la deduzione delle relative ragioni, l'allegazione dei fatti su cui esse si fondano, mentre vietano al giudice di pronunciare al di fuori o oltre i limiti delle domande come effettivamente proposte. Il destinatario di un'azione personale di restituzione, pertanto, può bensì contrastarla con eccezioni o domande riconvenzionali di carattere petitorio, senza tuttavia che ciò dia luogo a una mutatio o emendatio libelli, che non sono consentite neppure all'attore, se non nei ristretti limiti stabiliti dall'art. 183 c.p.c.. La domanda di restituzione, in ipotesi, sarà allora respinta non perchè la probatio diabolica non sia stata data dall'attore, ma ove sia stata fornita dal convenuto, il quale con le sue deduzioni se ne era accollato l'onere, proponendo, egli sì, in via riconvenzionale, un'eccezione o azione di carattere reale. Dal piano dei diritti relativi di natura obbligatoria, sul quale l'interessato ha inteso porre la sua pretesa, questa non può dunque essere dislocata, per iniziativa altrui, nel campo dei diritti assoluti di natura reale, con la conseguenza di addossare all'attore, tra l'altro, un compito probatorio particolarmente pesante, per assolvere il quale egli non era tenuto ad approntarsi. L'argomento che (unicamente) viene posto a fondamento della tesi della trasformazione della domanda - dovere il giudice "decidere sulla sussistenza del diritto di proprietà vantato da una parte e negato dall'altra" - non è dunque congruente con la conseguenza che si pretende di trame.

Resta comunque salvo il potere del giudice di dare della domanda l'esatta qualificazione giuridica, eventualmente in difformità da quella prospettata dalla parte, ma sempre alla stregua dei fatti allegati, delle ragioni esposte, delle richieste formulate.

E' appunto sul tema della qualificazione giuridica delle domande di rilascio o consegna di un bene, che si è delineato nell'ambito della giurisprudenza di legittimità l'ulteriore contrasto da risolvere.

Il possibile fondamento delle azioni personali di restituzione è stato generalmente ravvisato con le sentenze 11 luglio 1981 n. 4507, 7 gennaio 1983 n. 120, 8 luglio 1983 n. 4589, 28 gennaio 1985 n. 439, 30 novembre 1987 n. 7162, 26 giugno 1991 n. 7162, 19 luglio 1996 n. 6522, 19 febbraio 2002 n. 2392, 4 luglio 2005 n. 14135 - nell'invalidità oppure nell'esaurimento, per risoluzione, per rescissione, per esercizio della facoltà di recesso, per decorso del termine di durata e così via, del rapporto di natura obbligatoria in base al quale il convenuto aveva conseguito la detenzione del bene.

Ma talvolta, in alternativa a queste ipotesi - con le sentenze 5 aprile 1984 n. 2210, 12 ottobre 2000 n. 13605, 27 febbraio 2001 n. 2908, 10 dicembre 2004 n. 23086, 26 febbraio 2007 n. 4416, 23 dicembre 2010 n. 26003, 24 luglio 2013 n. 17941 - è stato inserito nel novero dei presupposti delle azioni di cui si tratta anche quello dell'assoluta iniziale insussistenza di qualsiasi titolo giustificativo della disponibilità materiale della cosa da parte del convenuto.

L'opposto principio è stato enunciato con le sentenze 4 luglio 2005 n. 14135 e 14 gennaio 2013 n. 705, secondo cui non è azione di restituzione ma di rivendicazione quella "con cui l'attore chieda di dichiarare abusiva ed illegittima l'occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, con conseguente condanna dello stesso al rilascio del bene ed al risarcimento dei danni da essa derivanti, senza ricollegare la propria pretesa al venir meno di un negozio giuridico, che avesse giustificato la consegna della cosa e la relazione di fatto sussistente tra questa ed il medesimo convenuto".

A quest'ultimo indirizzo occorre aderire, poichè l'azione personale di restituzione, come già dice il nome, è destinata a ottenere l'adempimento dell'obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall'attore al convenuto, in forza di negozi quali la locazione, il comodato, il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l'azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna viene chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione, poichè il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante

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la probatio diabolica. La tesi opposta comporta la sostanziale vanificazione della stessa previsione legislativa dell'azione di rivendicazione, il cui campo di applicazione resterebbe praticamente azzerato, se si potesse esercitare un'azione personale di restituzione nei confronti del detentore sine titulo.

Alla luce dei suesposti principi, il ricorso risulta infondato.

(omissis)

2. Tribunale Santa Maria Capua Vetere, 28 novembre 2013: art. 2645 ter c.c. e destinazione

traslativa

OSSERVA

3. Con il secondo motivo di opposizione l’esecutato ha dedotto l’inammissibilità/nullità della presente procedura

espropriativa sul presupposto che essa investirebbe beni immobili sui quali graverebbe in realtà un vincolo di

destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter cod. civ. trascritto in data antecedente alla trascrizione del pignoramento

(segnatamente, il vincolo di cui all’ “atto di destinazione di beni per la realizzazione di interesse meritevole di

tutela ai sensi dell’articolo 2645-ter del codice civile” stipulato per atto pubblico del 5.7.2013 e trascritto in data

8.7.2013).

Al riguardo, l’opponente ha richiamato la previsione dell’art. 2645-ter, ultimo periodo, cod. civ., disposizione in

forza della quale “i beni conferiti e i loro frutti … possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto

previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo”.

L’opponente ha quindi eccepito, da un lato, come nel caso di specie il vincolo di destinazione sarebbe comunque

opponibile al creditore pignorante ai sensi dell’art. 2915, primo comma, cod. civ. per essere stato trascritto in data

antecedente alla trascrizione del pignoramento, nonché, dall’altro lato, come i crediti posti a fondamento

dell’intrapresa esecuzione non rientrerebbero nel novero di quelli contratti per il perseguimento del fine di

destinazione (con conseguente impossibilità per il creditore estraneo di domandare il soddisfacimento coattivo

sui beni vincolati).

3.1. Al riguardo, è opportuno premettere che – nella delibazione della doglianza spiegata dall’odierno opponente

– non appare fuor luogo muovere anzitutto dall’analisi delle caratteristiche dell’atto di destinazione stipulato nel

caso di specie: occorre infatti verificare se lo schema negoziale concretamente utilizzato possa essere ricondotto

al modello normativo di cui all’art. 2645-ter cod. civ. e se quindi esso possa giovarsi della disciplina sostanziale ivi

dettata.

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Nel caso di specie si è in presenza di una c.d. “auto-destinazione” a carattere unilaterale: con l’atto pubblico

del 5.7.2013 L. A. – in veste di “conferente” – ha costituito un vincolo su una serie di beni immobili in sua

titolarità al fine di assicurare la cura e l’assistenza della madre (persona dichiarata disabile e “beneficiaria” della

destinazione), segnatamente mercé la finalizzazione dei detti beni e dei relativi frutti allo scopo di garantire alla

persona beneficiaria “una esistenza sorretta da dignità, autonomia personale e sociale e di vita relazionale” (cfr.,

in particolare, l’articolo 4 dell’atto del 5.7.2013).

L’atto in questione presenta quindi i connotati della c.d. “auto-destinazione” (o destinazione “pura”).

Invero, la destinazione dei beni al perseguimento della finalità meritevole di tutela ha avuto luogo (non

già attraverso il trasferimento a terzi e la contestuale istituzione del vincolo di destinazione, bensì) attraverso la

separazione patrimoniale operata dallo stesso titolare dei beni: il soggetto conferente (peraltro, unico

soggetto costituito al momento della stipula dell’atto) ha conservato la piena titolarità dei beni, i quali sono

stati tuttavia vincolati al perseguimento della finalità indicata mercé la creazione di una sorta di

patrimonio separato (cfr., sul punto, gli artt. 1 e 4 dell’atto del 5.7.2013 ed in particolare l’art. 4 laddove si

prevede che “gli immobili, oggetto del presente atto, con la trascrizione del vincolo, divengono, quindi, agli

effetti di legge, separati dal restante patrimonio del Conferente. Le porzioni immobiliari oggetto di destinazione

ed i relativi frutti, nonché le pertinenze e gli eventuali ampliamenti ed accessioni, saranno amministrati e

dovranno essere impiegati dallo stesso conferente fino allo scioglimento del vincolo per la realizzazione del fine

di destinazione e per il conseguimento dello scopo cui sono destinati”).

3.2. Le considerazioni ora svolte inducono allora a verificare se l’atto in questione sia sussumibile nel genus

di cui all’art. 2645-ter cod. civ. e se pertanto la relativa trascrizione sia idonea a produrre gli effetti di cui

alla mentovata disposizione (ivi compresa la limitazione dell’espropriazione forzata sui beni vincolati ai soli

debiti contratti per il fine di destinazione).

Il che induce, inevitabilmente, all’esegesi dell’art. 2645-ter cod. civ.

Al riguardo, è noto come la disposizione in esame – in ragion della collocazione nell’ambito del Libro VI ed in

particolare delle disposizioni relative alla trascrizione – abbia posto anzitutto un problema di carattere

sistematico: se essa debba qualificarsi come “norma sulla fattispecie” o come “norma sugli effetti”, se cioè essa

abbia determinato la tipizzazione nel nostro ordinamento di un vero e proprio negozio di destinazione (inteso

quale fattispecie sostanziale tipica la cui causa si incentrerebbe sul vincolo e sulla meritevolezza degli interessi

perseguiti con la destinazione dei cespiti), oppure se si sia limitata a disciplinare piuttosto l’effetto riferibile ad

una pluralità di negozi tipici o atipici (effetto caratterizzato da un vincolo di scopo opponibile ai terzi e, in

particolare, ai creditori estranei).

Nondimeno, ritiene questo giudice che l’impostazione del problema nei termini (inevitabilmente semplificati)

sopra riferiti non sia in grado di fornire un effettivo contributo alla risoluzione delle concrete questioni nascenti

dall’applicazione pratica dell’art. 2645-ter cod. civ.: invero, anche la configurazione di tale disposizione quale

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“norma sulla fattispecie” (e non mera “norma sugli effetti”) non esclude – ma anzi postula – la necessità che di

quella fattispecie siano pur sempre delineati i contorni.

Orbene, atteso che la situazione dedotta nel caso di specie si origina da un atto avente i caratteri della c.d. “auto-

destinazione” a carattere unilaterale, appare preferibile seguire una diversa prospettiva: occorre cioè verificare

se la disposizione dell’art. 2645-ter cod. civ. riconosca sul piano sostanziale la possibilità dell’auto-

destinazione unilaterale.

In altri termini, occorre chiarire se – con le modalità e per il perseguimento delle finalità di cui all’art. 2645-ter

cod. civ. – un soggetto possa dar luogo in via unilaterale alla “segregazione” o “separazione” del

proprio patrimonio, scindendo la (tendenzialmente) unitaria massa che lo compone in masse distinte

aventi carattere autonomo.

3.3. Ritiene questo giudice che la risposta al quesito debba essere negativa.

3.3.1. Al riguardo, non si ignora come il fenomeno della separazione patrimoniale nei termini dianzi descritti sia

già presente nell’ordinamento giuridico. Basti pensare al caso classico del fondo patrimoniale (artt. 167 – 171 cod.

civ.), laddove il legislatore abilita in buona sostanza i coniugi (od un terzo) alla creazione di un patrimonio

separato destinato al soddisfacimento dei bisogni della famiglia (patrimonio parzialmente insensibile alle pretese

esecutive dei creditori “estranei”: cfr. l’art. 170 cod. civ.). Si pensi, altresì, alla riforma del diritto societario con la

previsione della possibilità di creazione – in seno alla società – dei patrimoni destinati ad uno specifico affare

(artt. 2447-bis – 2477-decies cod. civ.), nonché, prima ancora, al fenomeno dei fondi di previdenza ed assistenza

di cui all’art. 2117 cod. civ.

Nondimeno, il fenomeno in questione si inserisce pur sempre in un contesto normativo caratterizzato dal

principio generale della responsabilità patrimoniale (di cui all’art. 2740, primo comma, cod. civ.), principio in

relazione al quale le limitazioni a tale responsabilità (nei casi previsti dalla legge in forza del rinvio di cui all’art.

2740, secondo comma, cod. civ.) si pongono comunque in termini di un’eccezione alla regola generale. Del che è

espressione, da un lato, il carattere pacificamente tassativo delle ipotesi di limitazione alla responsabilità

patrimoniale generale, nonché, dall’altro lato, la circostanza per cui l’impianto normativo del codice civile è

(ancora) legato all’idea della “soggettività” giuridica quale centro unitario di imputazione patrimoniale (come ben

dimostra il fenomeno delle società di capitali e delle associazioni e fondazioni).

La configurazione della disciplina dell’art. 2740 cod. civ. nei termini sopra descritti (ed in particolare la

sussistenza di un rapporto “regola-eccezione”: cfr., sul punto, Cass. 28 aprile 2004, n. 8090) comporta, in via del

tutto consequenziale, anzitutto, che l’individuazione delle fattispecie limitative della responsabilità patrimoniale

debba aver luogo con sufficiente grado di certezza, atteso che, in difetto o comunque in caso di dubbio, non

potrà che trovare applicazione la regola di carattere generale che si pretenderebbe derogata (ovvero, quella della

responsabilità); nonché, in secondo luogo, che l’interpretazione delle disposizioni limitative della responsabilità –

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in quanto derogatorie rispetto al principio generale e quindi con carattere eccezionale – deve effettuarsi pur

sempre in termini restrittivi.

In altri termini, se è vero che la separazione patrimoniale può costituire (quanto meno in astratto) un mezzo

efficiente di allocazione delle risorse e di razionalizzazione dei rischi (come è stato evidenziato in dottrina) e

quindi rappresentare, sotto tale profilo, uno strumento eventualmente da potenziarsi – in una prospettiva de jure

condendo – rispetto al meccanismo classico della responsabilità patrimoniale generale di cui all’art. 2740 cod.

civ., è altrettanto vero che – de jure condito – tale fenomeno non può non tener conto del sistema complessivo

vigente, sistema nel quale il principio dell’art. 2740 cod. civ. continua a presentarsi nei termini di una regola di

carattere generale, con le conseguenze per l’interprete già sopra evidenziate.

3.3.2. Le considerazioni che precedono delineano la cornice metodologica alla luce della quale verificare la

portata precettiva dell’art. 2645-ter cod. civ. in riferimento al fenomeno della “auto-destinazione” a carattere

unilaterale. Esse rappresentano quindi il necessario punto di riferimento ove si consideri che – per consenso

pressoché unanime degli interpreti – la formulazione della disposizione in questione presenta a tal punto lacune

da “sconfinare decisamente nell’insufficienza e nell’ambiguità” (nelle parole di autorevole dottrina).

In tale contesto, osserva questo giudice come, sotto il profilo testuale, l’art. 2645-ter cod. civ. presenti

rilevanti indici che depongono in senso contrario alla possibilità della c.d. “auto-destinazione”

patrimoniale a carattere unilaterale.

A questo riguardo, deve in primo luogo rilevarsi che – come già evidenziato da parte della giurisprudenza di

merito – “le parole “conferente” e “beni conferiti” contenute nell’art. 2645-ter cod. civ. presuppongono

un’alterità soggettiva (e, quindi, un trasferimento) dal conferente ad un altro individuo, fattispecie incompatibile

con un atto unilaterale” (Trib. Reggio Emilia 7 giugno 2012). In tale prospettiva, infatti, si è osservato come il

verbo confero (da cui l’italiano “conferire”) derivi da cum-ferre, per cui le espressioni sopra riportate richiedono,

dunque, un atto traslativo (ferre) compiuto tra soggetti distinti. Parimenti, si è sottolineato come quando la legge

si riferisce ai “conferimenti” del diritto societario (artt. 2253, 2343 ss., 2440 cod. civ.) o al conferimento per la

costituzione di fondi di garanzia (art. 2548 cod. civ.) od al conferimento negli ammassi (art. 837 cod. civ.) od

ancora al verbo “conferire” impiegato dalle norme in tema di collazione (artt. 737, 739, 740, 751 cod. civ.) è

sempre con riguardo a trasferimenti di beni tra soggetti diversi.

In secondo luogo, poi, non va trascurato come l’art. 2645-ter cod. civ. attribuisca il potere di agire per la

realizzazione degli interessi di cui al vincolo di destinazione non solo a qualsivoglia interessato, ma

anche al conferente stesso: poiché non è logicamente possibile ipotizzare che il conferente convenga in

giudizio se stesso, a meno di non voler ridurre il richiamo a mero flatus vocis si deve giocoforza concludere

che la norma dà per scontato l’intervento di un soggetto diverso, a cui il diritto sul bene vincolato è trasferito,

escludendo in tal modo la possibilità che la destinazione abbia luogo per volontà unilaterale auto-impressa da

parte del proprietario dei beni da costituirsi in patrimonio separato.

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Nello stesso senso depone poi la medesima disposizione nella parte in cui consente ai terzi interessati di agire

per l’attuazione della finalità dell’ “atto di destinazione” anche dopo la morte del “conferente” (come si

ricava dalla previsione della legittimazione ad agire “anche durante la vita del conferente stesso”) e, dunque,

necessariamente contro soggetti diversi dal conferente: non v’è dubbio che costoro non possano che essere

coloro ai quali il bene sia stato trasferito.

Né può svilirsi il dato testuale della disposizione di legge e degradarsi il richiamo al soggetto “conferente” a mero

lapsus del legislatore (il quale avrebbe in realtà inteso riferirsi più correttamente al “disponente”). Se è vero infatti

che la tecnica di redazione legislativa degli atti risulta di frequente non del tutto adeguata, è altrettanto vero che

una tale impostazione finisce in realtà per presupporre proprio quel risultato (la possibilità dell’auto-destinazione

unilaterale) che sarebbe invece da verificarsi alla luce del dato di legge.

3.4. In tale prospettiva, dunque, nella misura in cui il dettato legislativo dell’art. 2645-ter cod. civ. è inidoneo a

supportare con sufficiente grado di certezza l’ammissibilità dell’auto-destinazione unilaterale, deve ritenersi – alla

luce delle premesse metodologiche sopra indicate – che la separazione patrimoniale non possa trovare

ingresso nei termini anzidetti (ovverosia, si ribadisce, nella forma dell’auto-destinazione unilaterale).

In altri termini ed in via riassuntiva, nel momento in cui si prenda atto dell’inserimento della fattispecie

dell’art. 2645-ter cod. civ. in un “sistema” caratterizzato pur sempre dal principio generale della

responsabilità patrimoniale illimitata (principio posto a presidio della tutela del credito) e dal carattere

eccezionale delle fattispecie limitative di tale responsabilità, risulta inevitabile che la relativa

interpretazione abbia luogo in coerenza con tale “sistema”, nel senso cioè che occorrerà privilegiarsi

un’interpretazione “sintonica” piuttosto che “distonica” rispetto al riferito sistema.

Orbene, da un lato, si è visto come la formulazione letterale dell’art. 2645-ter cod. civ. deponga per

un’interpretazione limitata alle sole ipotesi di destinazione c.d. traslativa e non anche a quella della auto-

destinazione meramente unilaterale.

Dall’altro lato, non v’è dubbio che una diversa impostazione avrebbe portata “eversiva” del principio della

responsabilità patrimoniale illimitata di cui all’art. 2740 cod. civ. (sol che si pensi al blando limite – richiamato

dallo stesso art. 2645-ter cod. civ. – nascente dal concetto di meritevolezza degli interessi di cui all’art. 1322,

secondo comma, cod. civ., per come tradizionalmente interpretato dalla dottrina e giurisprudenza).

3.5. In conclusione, per tutte le ragioni sopra evidenziate, l’atto di destinazione stipulato in data 5.7.2013

dall’odierno opponente deve ritenersi inidoneo a produrre un effetto di separazione patrimoniale opponibile ai

creditori ai sensi dell’art. 2645-ter cod. civ.

(omissis)

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3. Tribunale Reggio Emilia, ordinanza 12 maggio 2014: inammissibilità di un negozio

destinatorio puro

(omissis)

L’istanza di sospensione è però stata rigettata dal G.E., ed avverso detto provvedimento il debitore esecutato ha

interposto il presente reclamo;

- ritenuto che, come noto l’articolo 2645 ter c.c., introdotto dall’articolo 39 novies del D. L. n. 273/2005 convertito

con modificazioni nella L. n. 51/2006, ha previsto che, con atto soggetto a forma pubblica e trascrivibile ai fini di

rendere opponibile ai terzi di vincolo, è possibile destinare beni immobili o mobili registrati alla “realizzazione di

interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi

dell’articolo 1322 secondo comma”, potendo in tal caso i beni vincolati essere esecutivamente aggrediti solo per debiti

contratti per lo scopo di destinazione.

Nel caso che qui occupa, S., in un immobile già di sua proprietà, ha apposto un vincolo di destinazione

finalizzato al “soddisfacimento delle esigenze abitative ed in genere ai bisogni del nucleo familiare”, individuando il termine

finale al momento del compimento del quarantesimo anno di età della figlia.

Pertanto, argomentando che il debito per cui si procede esecutivamente, avendo natura professionale, non può

essere ricondotto alle esigenze abitative ed ai bisogni del nucleo familiare, S. deduce l’impignorabilità del bene

oggetto di esecuzione e si oppone quindi alla stessa;

- considerato che, pur se pregevolmente argomentata, la tesi del reclamante non può essere accolta.

Si osserva infatti che, in assenza di pronunce della Suprema Corte sul punto, la maggioritaria tesi

giurisprudenziale di merito ha ritenuto che l’art. 2645 ter c.c. non riconosce la possibilità dell’autodestinazione

unilaterale di un bene già di proprietà della parte, tramite un negozio destinatorio puro.

Diversamente opinando, infatti, verrebbe scardinato dalle fondamenta il sistema fondato sul principio, codificato

dall’art. 2740 c.c., della responsabilità patrimoniale illimitata e del carattere eccezionale delle fattispecie limitative

di tale responsabilità, atteso che, in forza di una semplice volontà unilaterale del debitore, una porzione o financo

l’integralità del suo patrimonio, sarebbero sottratti alla garanzia dei propri creditori.

Pertanto, la portata applicativa della norma, da intendersi come sugli effetti e non sugli atti, deve essere

interpretata in senso restrittivo, e quindi limitata alle sole ipotesi di destinazione traslativa collegata ad altra

fattispecie negoziale tipica od atipica dotata di autonoma causa (in questi termini, cfr. Trib. Santa Maria Capua

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a Vetere ord. 28/11/2013, Trib. Trieste dec. 7/4/2006; per questo Tribunale, cfr. poi Trib. Reggio Emilia

dec. 27/1/2014, dec. 26/11/2012, dec. 22/6/2012, ord. 23/3/2007).

Tanto basta per disattendere la tesi del reclamante, atteso che egli ha autoimposto un vincolo di destinazione a

un bene già in sua proprietà, tramite un negozio destinatorio puro, ciò che, come detto, non è ritenuto possibile.

In ogni caso e comunque, anche a volere in mera ipotesi diversamente opinare, e ritenere quindi in linea teorica

ammissibile il negozio destinatorio puro, così accedendo ad una tesi minoritaria e più liberale pur sostenuta

giurisprudenza, non sarebbe comunque revocabile in dubbio la necessità di un penetrante scrutinio, previsto

peraltro dalla stessa norma con l’inciso “meritevoli di tutela” e con il richiamo all’art. 1322 comma 2 c.c., sulla

meritevolezza del negozio: è infatti pacifica opinione che, per affermare la legittimità del vincolo di destinazione,

non basta la liceità dello scopo, occorrendo anche un quid pluris integrato dalla comparazione degli interessi in

gioco, ed in particolare dalla prevalenza dell’interesse realizzato rispetto all’interesse sacrificato dei creditori del

disponente estranei al vincolo (cfr. App. Trieste, sent. n. 1002/2013).

Invero, come ha correttamente evidenziato il G.E., si osserva che il Legislatore, in chiave evidentemente

riequilibrativa rispetto alle possibilità concesse con il vincolo di destinazione, ha subordinato l’efficacia dello

stesso ad un riscontro di meritevolezza in concreto dell’assetto di interessi perseguito dalla parte; e tale riscontro

deve essere particolarmente penetrante, proprio in ragione delle potenzialità lesive, nei confronti dei creditori, del

vincolo unilateralmente apposto.

Ciò posto e venendo al caso concreto, pur risultando il fine di fare fronte ai bisogni della famiglia astrattamente

meritevole di tutela, la parte avrebbe dovuto chiaramente indicare, in concreto, le ragioni che l’hanno indotta ad

optare per quella tipologia di vincolo, evidenziando i motivi per i quali la separazione patrimoniale costituisca

l’ultimo, o comunque il migliore od il più indicato, strumento per garantire al nucleo familiare quel minimo di

tutela che l’ordinamento le riconosce.

Invece, il vincolo per cui è processo si è limitato a destinare l’immobile “al soddisfacimento delle esigenze abitative ed in

genere ai bisogni del nucleo familiare”, perdippiù individuando il termine finale con il compimento del quarantesimo

anno di età della figlia. Quindi, per un verso può ritenersi che la destinazione di un immobile abitativo a

soddisfare le esigenze abitative della famiglia, costituisca una tautologia; per altro verso, l’ulteriore fine del

soddisfacimento “in genere” dei bisogni della famiglia, si appalesa del tutto generico ed inidoneo a chiarire gli

specifici bisogni tutelati e le ragioni per cui una simile necessità è sorta; da ultimo, il termine finale del

compimento del quarantesimo anno di età della figlia appare oggettivamente irragionevole, e come tale

lumeggiante un intento fraudolento nei confronti dei creditori, posto che l’autosufficienza di un figlio, e

conseguentemente l’obbligo di mantenimento, è presumibilmente raggiungibile ben prima dei quarant’anni.

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Consegue, in conclusione, che pur volendo in ipotesi ritenere astrattamente ammissibile l’autoimposizione di un

atto di destinazione su di un bene già in proprietà, in ogni caso l’atto di destinazione realizzato dal reclamante

non sarebbe comunque idoneo a superare il rigoroso vaglio di meritevolezza dei fini comunque prescritto dall’art.

2645 ter c.c.;

- considerato che, tanto premesso, il reclamo va rigettato, rimanendo assorbita l’ulteriore difesa dei convenuti in

ordine all’asserita riconducibilità ai bisogni della famiglia del debito contratto, sul presupposto che anche le

obbligazioni nascenti dall’attività imprenditoriale e professionale possono rientrare in tale nozione.

La complessità e la novità della questione trattata, relativa all’interpretazione di una norma non ancora oggetto

dello scrutinio della Suprema Corte, integrano i motivi che, ex art. 92 comma 2 c.p.c., giustificano l’integrale

compensazione tra le parti delle spese di lite.

P.Q.M.

visto l’art. 669 terdecies c.p.c.,

rigetta il reclamo;

compensa integralmente tra le parti le spese di lite.

Così deciso nella Camera di Consiglio del 8/5/2014.

4. Tribunale di Roma, sentenza 10975 del 2013: inammissibilità della costituzione del

vincolo di destinazione ex art. 2645 ter mediante testamento.

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