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anno 2012 Quaderni della Sussidiarietà Interventi di Costantino Esposito Eugenio Mazzarella Franco Modugno Francesco Viola Dialogo intorno al volume Esperienza elementare e diritto di Andrea Simoncini, Lorenza Violini, Paolo Carozza, Marta Cartabia

Dialogo intorno al volume Esperienza elementare e diritto · Il coraggio di questi colleghi sta nel dire che il diritto non si ... persino il vuoto di relazione. ... ancora del tutto

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Abbiamo tanta strada da fareDibattito a partire dalla lettera di Julián Carrónpubblicata su la Repubblica del 1 maggio 2012

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Interventi di

Costantino Esposito Eugenio Mazzarella Franco Modugno Francesco Viola

Dialogo intorno al volume

Esperienza elementare e dirittodi Andrea Simoncini, Lorenza Violini, Paolo Carozza, Marta Cartabia

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Interventi di

Costantino Esposito Eugenio Mazzarella Franco Modugno Francesco Viola

Roma, Camera dei Deputati

Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto,

10 luglio 2012

Dialogo intorno al volume

Esperienza elementare e dirittodi Andrea Simoncini, Lorenza Violini, Paolo Carozza, Marta Cartabia

La Fondazione per la Sussidiarietà ha per obiettivo l’approfon-dimento culturale-scientifico e la diffusione di una visione della società basata sulla centralità della persona e sul principio di sus-sidiarietà, con particolare attenzione agli aspetti educativi con-nessi.Con questo obiettivo, la Fondazione svolge un’intensa attività di formazione, pubblicazioni, ricerca, convegni e seminari.I Quaderni della Sussidiarietà affrontano temi di attualità in modo rigoroso e critico cercando di andare oltre i luoghi comuni e le let-ture ideologiche.Questa pubblicazione si affianca alle altre curate dalla Fondazione, come la collana Punto di fuga, i Rapporti sulla sussidiarietà e il quadrimestrale Atlantide.

Coordinatore editoriale: Alberto SavoranaRedazione: Emanuela BelloniProgetto grafico: Maurizio Milani

©2012 Fondazione per la Sussidiarietà

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05 IntroduzioneCostantino EspositoDocente di Storia della filosofia, Università degli Studi di Bari

07 I diritti e il valore della personaEugenio MazzarellaDocente di Filosofia, Università degli Studi Federico II di Napoli

11 L’esperienza elementare dell’umano e il diritto contemporaneo

Francesco Viola Docente di Filosofia del diritto, Università degli Studi di Palermo

22 Esperienza elementare e “nuovi diritti” Franco ModugnoDocente di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Roma La Sapienza

Indice

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Il volume Esperienza elementare e diritto1 mostra la serietà, e anche la semplicità, con cui gli autori, esperti soprattutto di Diritto costituzionale, hanno cercato di seguire la fonte “altra” della loro scienza, che è il concetto di esperienza elementare: qualcosa che non si può risolvere nel diritto, ma senza la quale il diritto in qualche modo diviene non più intelligibile a se stesso. Ritengo che quella degli autori sia una scelta di grande coraggio, anche tenendo conto della nota dominante la teoria del diritto contem-poraneo di tipo positivistico, vale a dire il fatto di essere autofon-dativo. Il coraggio di questi colleghi sta nel dire che il diritto non si autofonda, e non è risolvibile in una mera procedura. Il diritto, fino a un certo punto, può autocostituirsi, ma ha biso-gno per sua esigenza interna di capire qual è il punto “altro” gra-zie al quale la scienza del diritto e il diritto stesso possono essere se stessi. Il nome di questo punto, che è altro, visto dall’interno del diritto è, nella prospettiva degli autori, “esperienza elemen-tare”. Non a caso, la prefazione di questo libro – che è stato realiz-zato grazie alla lungimiranza della Fondazione per la Sussidiarietà – è di Julián Carrón, colui che continua la guida del movimento di Comunione e Liberazione dopo la scomparsa di don Giussani; in questo testo introduttivo si esplicita l’esperienza elementare come il punto “altro” che i giuristi hanno cercato di recuperare dall’in-terno del diritto stesso. Esperienza elementare come stoffa dina-mica dell’io, per cui noi siamo costituiti di alcune esigenze insop-primibili, innanzitutto quella della giustizia. In che rapporto stanno il diritto e la scienza del diritto con questo punto “altro” che costituisce l’aspettativa fondamentale dell’espe-rienza umana? Di questo problema discuteremo oggi con Eugenio Mazzarella, Franco Modugno e Franesco Viola. Porrei la prima domanda a Eugenio Mazzarella. I diversi interventi di questo volume cercano di approfondire e di verificare quello che, nell’introduzione, è richiamato da Julián Carrón quando dice: «La riflessione giuridica discende direttamente dalla concezione di uomo che si ha»; nell’attuale trasformazione della teoria e delle pratiche giuridiche un’intera antropologia di riferimento sembra

Introduzione

Costantino Esposito

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inevitabilmente tramontare. E un’altra, anche se in maniera un po’ confusa e frammentaria, sembra imporsi: nella prima i diritti erano fondati, come è noto, sull’esistenza e sul valore della per-sona; ora, invece, la persona sembra essere il risultato dei diritti, cioè i diritti avrebbero una funzione demiurgica rispetto alla per-sona, che sarebbe il risultato della costruzione giuridico-culturale di questi diritti. Quali problemi e quali sfide pone questa nuova frontiera dell’antropologia filosofico-giuridica nel panorama con-temporaneo?

1 Andrea Simoncini, Lorenza Violini, Paolo Carozza, Marta Cartabia, Esperienza elementare e diritto, prefazione di Julián Carrón, Guerini e associati, Milano 2011.

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Il richiamo alla nota introduttiva di Julián Carrón al volume Esperienza elementare e diritto, in cui si dice che «la riflessione giuridica discende direttamente dalla concezione di uomo che si ha», coglie effettivamente un filo rosso dei testi di Simoncini, Violini, Carozza e Cartabia e insieme un loro comune problema. Dato per assodato il nesso tra antropologia e diritto, il modo in cui questo nesso oggi si presenta con forza nella stagione dei diritti umani – dove «la persona sembra essere il risultato dei suoi diritti», mentre deperisce l’istanza della fondazione dei diritti sull’esistenza e il valore della persona – esprime una peculiare ambiguità, perché è proprio un’antropologia della persona a soste-gno della riflessione giuridica che sembra venir meno. Questo perché, a chiedere questi diritti, più che la persona, è piut-tosto l’individuo, ma i diritti dell’individuo, così costruiti nel diritto, non sembrano conseguirne davvero la tutela come pure vorreb-bero. Non sembrano cioè riuscire a conseguire la tutela dell’indivi-duo nella sua identitaria matrice relazionale, già solo ad esempio il rispetto della cultura in cui è immerso o della cornice di credenze e valori di una fede religiosa e persino di una laicità conseguente, positiva e non meramente reattiva, laicista come si usa dire. Questa tutela dell’individuo nella sua identitaria matrice relazio-nale, o tout court comunitaria, è ciò che poi si è storicamente e concettualmente tradotto nell’idea di persona, come bilanciamento di autoriferimento e relazionalità nella struttura dell’umano; come bilanciamento dell’autoriferimento a sé, che costituisce l’identità individuale, e della relazionalità, in cui, e da cui, questo autorife-rimento emerge e si sostiene. Questo anche nella massima curva-tura verso il proprio “sé” (il proprio “interno”) dell’interiorità, sia questa curvatura egoica individualisticamente gestita in una iper-trofia dell’ego o persa a se stessa nel collasso autistico, che è col-lasso dell’identità come capacità di stare al mondo nel fuori di sé. Questo punto va rimarcato. L’interiorità porta sempre dentro di sé qualcosa del “fuori”, persino il vuoto di relazione. Anche il suo collasso relazionale (come attesta la psicopatologia) parla della relazionalità strutturante l’individuo, che è in-dividuum, diviso-

L’utilità della nozione di esperienza elementare

Eugenio Mazzarella

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in (qualcosa; ciò che gli è comune con gli altri), per essere indivi-sione posta in se stessa: persona. L’antropologia della persona ha una base ontologica autoconsistente nel concreto esserci dell’in-dividualità come coscienza di sé – intendendo con ciò il concreto modo con cui l’individuo come coscienza di sé viene e rimane a sé.Come Benveniste ha insegnato, risalendo il filo della lingua: “sé” è “swe”, radice linguistica indoeuropea, che esprime l’identificazione del gruppo, un noi intensivo, da cui emerge l’io, l’identità dell’io, e che funge da base – nel senso anche che lo resta sempre – di ogni processo di identificazione concreta e non astratto-definitoria, dell’io. Un insegnamento che ogni antropologia, e tanto più l’an-tropologia giuridica esposta di necessità al lessico astratto-defini-torio della formalizzazione del diritto positivo, dovrebbe sempre tenere a mente.Marta Cartabia segnala – con puntualità e acume – questo para-dosso della non consequenzialità del raggiungimento effettivo da parte del diritto della tutela della persona, per il tramite della sua “costruzione” nel diritto, a partire dalla richiesta dei suoi diritti come diritti di un individuo scorporato dal suo essere persona. L’assolutizzazione dei diritti che nasce dal disancorarli dal loro humus relazionale di godimento – e di “confinamento” morale – per agganciarli a un soggetto di diritti ridotto a pura volontà – volo ergo sum, e per essere voglio questo e quello e che mi si ricono-sca che posso volerlo – porta a una loro proliferazione che falsifica lo scopo della richiesta: l’equazione “più diritti=più giustizia” non funziona, non c’è in quest’ambito progresso per accumulazione. Oggi è un tema della riflessione giuridica, sottolinea la Cartabia, che «se non si vuole pregiudicare la credibilità stessa dei diritti umani universali, occorre contrastare questa tendenza all’uso inflazionistico dei diritti, mantenendo nell’ambito dei diritti umani universali solo che ciò che appartiene all’esperienza elementare di ogni persona umana». Solo un approccio del genere ci eviterà il corto circuito che l’irro-bustimento della tutela internazionale dei diritti individuali come aspirazioni o beni che devono essere riconosciuti a tutti gli uomini – del tutto auspicabile ben inteso – non venga contraddetto dalla critica alla universalità dei diritti (da una versione del relativismo culturale in ambito giuridico).

La ragionevolezza dei dirittiUna critica all’universalità dei diritti che trova le sue ragioni nell’in-capacità di diritti così generati – generati in sostanza nello spa-

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zio mentale di un iper-individualismo affermatosi nelle società occidentali – di rispettare l’humus culturale, religioso o più sem-plicemente il vincolo comunitario di ogni aspettativa individuale, senza che essa rechi pregiudizio a un’aspettativa di pari, o supe-riore, rango – individuale o collettiva – alla dimensione relazio-nale in cui emergono i diritti. Perché, in definitiva, quando chiedo un mio diritto, il rispetto di un mio diritto, chiedo sempre qualcosa a qualcuno, che l’altro si rispecchi nel mio diritto, il che almeno mi obbliga a rispecchiarmi in un suo eguale diritto, o quanto meno a tener conto della sostenibilità per lui del rispetto, del riguardo che gli chiedo del mio diritto. Ogni esigenza di diritto porta con sé un’esigenza di ragionevolezza dei diritti, e conseguentemente di buon uso della ragione come discorso pubblico che porta ai diritti e alla loro codificazione.Il ricorso alla nozione di esperienza elementare tematizzata da don Giussani come criterio esterno di giudizio di questa ragione-volezza, che attraversa un po’ tutti i contributi di questo volume – diffusamente discusso e problematizzato particolarmente da Simoncini –, è significativo, perché ci aiuta a vedere, a mio avviso, giusto il nesso tra antropologia e diritto, che la crisi della fonda-zione dei diritti nell’esistenza e nel valore della persona, più che crisi nel diritto, è crisi nella concreta esperienza giuridica, quale oggi si configura, per usare una fondamentale concettualizzazione di Capograssi, ancora del tutto funzionale a leggere il divenire del diritto e dei diritti. La crisi della fondazione dei diritti nell’esistenza e nel valore della persona, è crisi nell’esperienza giuridica stessa come nesso in fieri di esperienza antropologica e diritto, nell’esperienza che l’uomo fa di sé mentre, incontrando gli altri, incontra diritti e diritto: i diritti e il diritto codificato e che si codifica statualmente del suo tempo; una codificazione, quella statuale, per altro, che è solo una di quelle vigenti e ampiamente recessiva rispetto al passato a fronte di altre fonti del diritto. Il che, sia detto per inciso, non è di per sé un bene, se poi le codificazioni statuali recedono non per cedere il passo a rapporti sociali che vincolano ragionevolmente, in una logica di sussidiarietà, ma piuttosto recedono davanti a puri “codici” di mercato vigenti non perché democraticamente legitti-mati ma perché la loro forza si procura un diritto non altrimenti impugnabile che da una statualità sopranazionale, che da un lato sembra un ossimoro, dall’altro un ossimoro necessario. E che a ogni modo fatica a emergere, mentre sono ben emersi i nuovi diritti globali del mercato e della finanza.

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Nuovi scenariLa nuova domanda di “Stato” e di “regolazione statale” che Benedetto XVI nota nella Caritas in Veritate nasce più che da sog-gettivismi radicali che vi si pongono in coda, rectius da domande collettive che sono domande di comunità; e la funzione “moderna” dello Stato, di ascolto alla domanda di diritti individuali della per-sona e di riparo da un ancien régime fatto di status e privilegi, non ha poche ragioni per essere richiamata in servizio nel noveau régime di status e privilegi che ci sta facendo conoscere la globa-lizzazione, dove una lettura di scenario nel bene e nel male trova certo i tratti di un nuovo medioevo, ma deprivato dei tratti comu-nitari del medioevo storico e da cui farsi fascinare per un giudizio onesto sull’esperienza giuridica contemporanea resta a mio avviso complesso.Ma, per tornare all’esperienza elementare, voglio dire che, se l’e-sperienza elementare è quell’impronta interiore che, «nell’uni-versale paragone con se stesso, con gli altri, con le cose», vede l’uomo dotato «di un complesso di evidenze ed esigenze origi-nali» – bontà, giustizia, verità, felicità –, «talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende» (Giussani), è pro-prio quest’impronta, che è il cuore buono dell’uomo come persona degna, che sembra meno marcare il mondo di cui facciamo espe-rienza. Con una certa delusiva attitudine a leggere troppo emi-nenti i tratti nichilistici e relativistici del contemporaneo, attitu-dine che deriva da una crisi che è nella società – e si riflette nel diritto – di ciò che di meglio è storicamente emerso, prima ancora che nella riflessione antropologica, nella cultura come antropologia vissuta dell’Occidente greco-europeo-cristiano, nella connessione storico-spirituale Roma-Atene-Gerusalemme. È proprio la crisi della persona nella società, la mancanza di rispetto per le sue aspettative e le sue esigenze di bontà, giustizia, verità, felicità, che la spinge a chiudersi nel mondo “senza porte e finestre” di un iper-individualismo, dove la persona, che si avverte come dimidiata, crede di meglio proteggersi accampando a ogni piè sospinto diritti come individuo. Ma proprio per questo, mentre chiede al diritto diritti che come individuo abbandonato a se stesso la società non gli riconosce, e lo fa alzando la voce come capacità di farsi valere nelle sue pre-tese, è sempre una persona che si vorrebbe essere il risultato di questa richiesta di diritti individuali; è ancora il tessuto relazionale della persona che chiede di non essere del tutto sfibrato. In questo alzare la voce dell’individuo, quando non è l’arroganza di un egoi-

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smo indurito, che non ha dubbi, c’è sempre una richiesta di giusti-zia, e di giustizia come persona. La crisi della fondazione dei diritti nell’esistenza e nel valore della persona – altra volta risolta con la costituzionalizzazione della persona – poiché è crisi che si genera nella crisi antropologica del contemporaneo, non richiede solo la difesa di quella costituzionalizzazione (e del nocciolo imprescritti-bile di diritto naturale che vi è implicato), non richiede cioè solo il raccogliere una sfida nel diritto, ma prima ancora che si raccolga quella sfida sul terreno antropologico.

Il diritto come esigenza di giustiziaÈ su questo terreno che si tratta di far vivere innanzitutto l’espe-rienza elementare di cui parla don Giussani, nei vissuti rapporti sociali tra gli uomini; dove quest’esperienza elementare si fa leg-gere come esperienza originaria dell’umano in senso produttivo: come l’esperienza dove si origina l’umano dell’uomo, come l’uomo che amiamo, che ameremmo incontrare – cioè l’uomo che ama il prossimo suo come se stesso, denegando l’homo homini lupus che è l’altra strada che si può imboccare al bivio dell’incontro con l’u-mano; ed è qui che sorveglia con l’etica (e prima ancora la reli-gione) l’istituzione del diritto. Come scrive Giussani: «Le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano; l’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno». Il che, calato nel nostro discorso, viene a dire che il “buon diritto” non viene garantito solo dal diritto, da un esterno impositivo, ma da un’adesione interiore alle ragioni del diritto come esigenza di giustizia, che è infinita, ed è sempre misura, nel “cuore” dell’uomo, di ogni diritto.E tuttavia, per restare nello spazio della lotta per il diritto, a soste-nere il nesso che può avervi nel diritto positivo, nel diritto che si pone, a sostenere il ruolo che l’esperienza elementare di cui parla Giussani può giocare nel diritto, credo sia fondamentale oggi una qualche forma di riabilitazione, contro il positivismo giuri-dico, dell’istanza di giustizia germinativa del diritto naturale, oggi accentrata nel discorso sui diritti umani. Il recupero di questa fonte di giustizia che è nell’esperienza ele-mentare dell’uomo, a correggere anche la giustizia somministrata nei codici e amministrata nelle corti, mi sembra utile a impedire il declinarsi, e il declinare in ogni senso, del diritto positivo, del diritto posto e che si pone, come necessariamente deve essere, come positivismo giuridico; lo scadere della necessaria positività del diritto a positivismo giuridico; a impedire cioè la fallacia di una

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posizione del diritto che creda di essere autoconsistente nel suo porsi; autoposizione pura che creda di poter rispondere, una volta posta, solo a se stessa e non anche agli uomini che nella società la ragionano. In quest’istanza di “diritto naturale”, di aspirazione alla giustizia che si germina in cordibus, che l’esperienza elemen-tare può aiutarci a proporre al diritto che si fa, in fondo a togliere incertezza ai nuovi passi dei diritti umani ciò che è richiesto è un passo antico delle vie della giustizia: ancora una volta è la vita che si fa avanti, la vita che chiede giustizia e chiede al diritto di essere aiutata ad averla.

La domanda che vorrei porre a Franco Viola è questa: nel volume emerge una tesi forte, resa ancora più coraggiosa dalla comune appartenenza all’ambito della scienza costituzionale degli autori, e cioè che il cosiddetto “positivismo giuridico” porta in definitiva a contestare radicalmente l’idea che la giustizia costituisca il fonda-mento del diritto, affermando, invece, che il diritto, inteso come un ordine legislativo determinato dall’autorità dello Stato o di un legislatore, sia il fondamento della giustizia. Personalmente ho studiato come questa idea nasca già nel XVI secolo con Francisco Suárez ed è interessante vedere come si sia sempre di più affermata questa istanza della determinazione da parte del legislatore come una ragione sufficiente per la validità del diritto. Questo, però, contraddice un’evidenza elementare dell’esperienza umana, vale a dire la sua insopprimibile e irriducibile esigenza del giusto, del vero, cioè la legge che nasce dal cuore. Tu ti sei occupato a lungo della possibilità di ridire oggi il diritto naturale: secondo te, come si presenta tale questione all’interno dell’attuale dibattito filosofico-giuridico? Ed è possibile, ragione-volmente, tenendo conto delle istanze del nichilismo e del relativi-smo, riannodare questo rapporto fra diritto e giustizia a un livello fondamentale?

Costantino Esposito

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Vorrei qui esplorare in che modo il richiamo a un’esperienza ele-mentare dell’umano possa inserirsi nella problematica della teoria del diritto contemporaneo considerata nel suo complesso e non già in settori più circoscritti com’è quello del diritto costituzionale a cui soprattutto guardano gli autori del libro che qui si commenta1. Tutti riconoscono che il vero e proprio fine del diritto è la giusti-zia, anche se non di rado il diritto positivo fallisce questo obiet-tivo. Jeremy Waldron, ben noto costituzionalista americano, ha affermato che il diritto, ogni diritto, contiene in se stesso una pro-messa di giustizia, anche se le promesse non sempre vengono mantenute2. Sia i giuspositivisti sia (ovviamente) i giusnaturalisti sono d’accordo sul fatto che il fine del diritto è la giustizia. Il vero e proprio problema della filosofia e teoria giuridica di tutti i tempi, quindi anche di quella contemporanea, è se la giustizia sia una caratteristica interna o esterna al concetto di diritto. Il punto cen-trale è se noi possiamo formulare un concetto adeguato di diritto senza necessariamente chiamare in causa la giustizia, anche se poi si riconosce che un diritto pienamente realizzato deve anche essere giusto. L’essere giusto è qualcosa che si aggiunge dall’e-sterno al diritto, cioè che è bene sia presente, sicché la giustizia è una “virtù del diritto”3, oppure è qualcosa senza la quale lo stesso concetto di diritto è manchevole? Infatti, se la giustizia non appar-tenesse al concetto di diritto, allora esso di per sé potrebbe farne a meno (e ne fa a meno abbondantemente). Dal punto di vista dei rapporti tra giustizia e diritto, credo che si possano individuare tre principali linee di pensiero. La prima è quella vetero-positivista. Notoriamente essa è rappre-sentata dall’aforisma di John Austin quando ha affermato che una cosa è il diritto e un’altra il suo merito o demerito, cioè il giusto. In una parola, non abbiamo bisogno della giustizia per formulare il concetto di diritto. Questa linea di pensiero rivive oggi in quello che viene chiamato “giuspositivismo esclusivo”. Di fronte al diritto ingiusto non abbiamo che l’arma della disobbedienza che però sarà legittimamente punita. Il secondo orientamento sostiene, invece, che il concetto di diritto

L’esperienza elementare dell’umano e il diritto contemporaneoFrancesco Viola

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ha bisogno della giustizia, ma a partire da un certo momento in poi, cioè afferma che il diritto può sopportare di essere ingiusto, ma non gravemente o intollerabilmente ingiusto. Il diritto pale-semente ingiusto non è diritto vero e proprio. Qui nella sostanza, anche se in forma diversa, si ripropone la vecchia teoria del “minimo etico” al di sotto del quale il diritto diventa pura violenza. Questa concezione si è consolidata nella nota “formula Radbruch”, con cui si è potuto destituire di giuridicità l’aberrante legislazione nazista4. Tale formula è stata applicata dalla Corte costituzionale tedesca fino ai nostri giorni anche ai crimini della DDR. Nella teoria giuridica contemporanea è stata recepita da Robert Alexy, che può essere considerato come il maggiore filosofo del diritto dell’Eu-ropa continentale5. La difficoltà che vedo nei confronti di questa tesi è quella di stabilire il punto in cui la giustizia diventa elemento essenziale del concetto di diritto valido. Questo limite è partico-larmente difficile da stabilire nell’epoca dei diritti qual è la nostra. È vero che possiamo all’interno del sempre più vasto universo dei diritti distinguere i basic rights, cioè un nucleo di diritti stret-tamente indispensabili, dagli altri meno essenziali. Tuttavia, oggi quasi tutti i diritti, specie se riconosciuti o positivizzati, sono per-cepiti come essenziali. Non possiamo dire che il diritto alle ferie pagate sia un diritto di serie B o C quando è percepito dalle per-sone come inerente alla dignità umana. È facile applicare la for-mula Radbruch ai gerarchi nazisti o ai vopos, ma in una situazione di democrazia non totalitaria siamo divenuti ben più sensibili all’in-giustizia. Il terzo orientamento afferma che il concetto di diritto non sog-giace all’alternativa “tutto-o-niente”, ma si presenta come suscet-tibile di gradualità. Vi sono casi esemplari o paradigmatici in cui il concetto di diritto si realizza pienamente e vi sono casi in cui si realizza imperfettamente, pur conservando la giuridicità. Ma pos-siamo individuare i casi imperfetti solo se abbiamo presente il caso esemplare del diritto giusto. Questa tesi è diversa dalla pre-cedente, perché non prende le mosse dal diritto puramente valido, ma dal diritto giusto. Sappiamo di trovarci di fronte a un diritto imperfetto, perché abbiamo il concetto pieno di diritto. Ciò vuol dire che il concetto di diritto non è univoco, ma analogico, cioè si realizza in concreto in modo più o meno vicino al concetto para-digmatico di diritto giusto. Quest’idea è stata sviluppata da John Finnis e si basa su presup-posti ermeneutici, che già Aristotele aveva ben presente e che si ritrovano anche nel pensiero di Max Weber6. Si capisce così perché

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il diritto contenga in sé una promessa di giustizia e perché sia in certo qual modo manchevole quando non la mantiene. Di conseguenza, non si può dare del tutto torto al giuspositivi-smo quando si occupa del diritto imperfetto, che tuttavia è e resta valido, ma non si può dare del tutto ragione a esso quando elimina dal concetto di diritto il suo senso pieno. Del pari non si può dare del tutto ragione al giusnaturalismo quando considera un diritto valido ingiusto come non diritto e non gli si può dare del tutto torto quando difende un concetto pieno di diritto. Finnis arriva alla conclusione del tutto legittima che solo in una prospettiva giusna-turalista si può veramente difendere il giuspositivismo e chiama la sua una “teoria giusnaturalistica del diritto positivo”7. Il diritto è questione di gradi.

Come preservare un’elementare grammatica dell’umanoDopo aver delineato molto sommariamente le posizioni oggi in gioco sui rapporti fra diritto e giustizia, vorrei fare qualche consi-derazione in margine in quattro punti. 1. Innanzi tutto, senza dubbio il vetero-giuspositivismo è supe-rato dai fatti e non ci crede più nessuno, neppure gli stessi giu-spositivisti, anche se sono e restano abbarbicati alla loro casa di origine. Ma non è vero che per questo il giuspositivismo sia fuori gioco e non lo è proprio in ragione della natura controversa della legge costituzionale. Da una parte si tratta di una legge creata dall’uomo, cioè artificiale. Non si tratta certo di diritto naturale. Tuttavia questa legge è artificiale in un senso diverso dalle leggi ordinarie così come sono state pensate nella modernità e, in par-ticolare, nell’epoca della codificazione. Bisogna rendersi conto che c’è un artificio che è indipendente dalla natura e c’è un artificio che è uno sviluppo della natura o, meglio, una sua possibile rea-lizzazione. In questo senso la cultura è insieme artificiale e natu-rale, perché è una delle forme possibili di manifestazione della natura umana. Ora, la legge costituzionale è propriamente artifi-ciale in questo secondo senso, cioè è un prodotto culturale, come d’altronde ha ben messo in luce Häberle. Essa intende urbanizzare i valori fondamentali dell’umano, rendendoli capaci di dar forma alla convivenza civile di un determinato popolo. Ciò non vuol dire che la legge costituzionale abbia un carattere relativistico, perché le culture, nonostante le loro profonde differenze, comunicano tra loro proprio per il fatto di essere tutte interpretazioni della comune umanità. D’altronde è sotto gli occhi di tutti fino a che punto sia all’opera una

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progressiva convergenza fra tutte le costituzioni del nostro tempo. Se è così, allora è errato considerare la legge costituzionale come l’aggiunta di un gradino superiore alla tradizionale gerarchia delle fonti del diritto. Non si tratta di aggiungere una voce in più alla lista normativa, perché il rapporto fra legge ordinaria e legge costituzionale ha un carattere analogico. La legge costituzionale è una norma fondamentale della convivenza civile e non già diretta-mente un insieme di precetti che regolano la condotta dei conso-ciati. La legge costituzionale trova la sua collocazione tra il diritto naturale e il diritto puramente artificiale della legge ordinaria. A differenza del primo può essere ingiusta e, quindi, soggetta a cri-tica etico-politica. Ma, a differenza della seconda non si manifesta propriamente mediante regole di comportamento, ma mediante princìpi di azione, cioè orientamenti volti a realizzare valori che danno forma alla convivenza civile. Per questo, se il giuspositivi-smo vuole restare ancora in gioco, deve riconoscere questa dif-ferenza normativa strutturale fra regole e princìpi. I princìpi non indicano cosa fare, ma che bisogna rispettare determinati valori in tutto ciò che s’intende fare. Come ha notato Dworkin, alle regole si obbedisce, ma ai princìpi si aderisce. 2. La seconda considerazione discende direttamente dalla prima. Come ben ha osservato Zagrebelsky8, la sequenza “valori-prin-cìpi-regole” configura la struttura del diritto contemporaneo fino al punto da poter essere considerata come una sorta di trascenden-tale dell’ordinamento giuridico. I valori, singolarmente considerati, di per sé sono un’istanza assoluta che produce nella vita asso-ciata conflitti spesso irrisolvibili. Per questo si parla a ragione della “tirannia dei valori”. Affinché la convivenza civile sia possibile, i valori devono essere urbanizzati, cioè portati a dialogare fra loro. L’opera di positivizzazione li trasforma in princìpi, che – come s’è detto – non sono istanze assolute, ma orientamenti da tener pre-senti e da non disattendere nel loro nucleo essenziale. In tal modo essi possono concorrere tra loro nella formazione delle regole attraverso cui un ordinamento giuridico prende forma attraverso un processo culturale guidato dal principio di legalità. Ed allora dobbiamo concepire l’ordinamento giuridico non già come un sistema di norme già definite dalla legislazione, ma pro-priamente come un “ordinarsi” o un processo di mettere ordine fra le istanze presenti supportate dai princìpi costituzionali e la loro concretizzazione a opera del governo e della legislazione. In tal modo la regola giuridica va prendendo forma e raggiunge il suo compimento nell’opera della giurisdizione che partecipa a que-

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sto processo di determinazione progressiva fino alla specificazione della regola del caso concreto. Infatti, questo è il fine del diritto, cioè dare una risposta al caso concreto in termini di giustizia. 3. Questo processo di progressiva determinazione della regola è diventato particolarmente complesso nella società contempora-nea in ragione del pluralismo. Infatti la legge costituzionale, e con-seguentemente il sindacato di costituzionalità, contiene in sé giu-dizi di valore che sono rivolti alla valutazione del diritto positivo. Quando nella società è presente un elevato consenso sul modo di intendere i valori e di praticare i princìpi costituzionali, l’opera di ordinamento delle regole è senz’altro più agevole. Ma, quando questo consenso viene meno e si diffonde il pluralismo delle inter-pretazioni dei valori fondamentali, allora sorgono conflitti socio-politici che sono supportati dalle stesse disposizioni costituzionali o almeno appaiono esserlo. Il diritto provoca il dissenso che pure è chiamato a comporre. Questa è la situazione del nostro tempo e dobbiamo affrontarla a viso aperto. La stessa legislazione ordina-ria è un’interpretazione dei princìpi costituzionali sostenuta dalle maggioranze politiche, ma, siccome quest’interpretazione è con-troversa, essendo possibili altri modi di declinare gli orientamenti di valore, spesso la legge ordinaria porta dentro di sé il conflitto delle interpretazioni. Di conseguenza, questa incertezza e indeter-minatezza del dettato legislativo si trasferisce in sede giurisdizio-nale. Il giudice è gravato di compiti valutativi che aumentano la sua tradizionale discrezionalità e che richiedono giudizi morali per quanto governati dai princìpi dello Stato di diritto. Paradossalmente, questa nuova situazione determinata dal costi-tuzionalismo contemporaneo spinge il diritto molto di più verso la ragione e lo allontana sempre di più dal primato della volontà. Infatti, nel regime del pluralismo le decisioni debbono essere sup-portate da giustificazioni che tutti dovrebbero accettare, altrimenti lo stesso pluralismo sarebbe messo a tacere da un atto d’impe-rio. Ovviamente, le stesse giustificazioni sostenute dal principio di ragionevolezza sono controverse e restano sempre aperte alla revisione e alla pratica continua della deliberazione. Nel campo della ragion pratica non vi sono mai decisioni incontrovertibili o “razionali”, ma sempre “ragionevoli”, cioè dotate di una maggiore o minore probabilità di essere quelle più giuste, ma non già della certezza assoluta, anche perché spesso legate ai casi concreti, che a loro volta sono segnati da particolari circostanze e da conte-sti culturali specifici. In una democrazia le decisioni comuni sono sempre rivedibili.

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È ancora da notare che il progressivo avvicinamento del diritto positivo alla ragionevolezza non lo allontana soltanto dalla volontà imperiosa del sovrano che si autogiustifica, ma anche relativizza il ricorso al consenso sociale o al senso comune. La morale a cui il diritto si rivolge è sempre meno la moralità positiva, cioè quella basata sulle credenze diffuse, e sempre più moralità critica, cioè quella basata su giustificazioni in termini di ragionevolezza. Non già ciò che la gente pensa sia bene o male o, meglio, lecito o ille-cito fare, ma ciò che la gente dovrebbe pensare che sia bene o male o, meglio, lecito o illecito fare. Questa è una svolta quasi epocale per il pensiero giuridico e per la pratica del diritto. Un giu-dice costituzionale nei processi di ponderazione e di bilanciamento dei diritti si può trovare di fronte al problema di stabilire come dovrebbe essere interpretato il dettato costituzionale alla luce del principio di ragionevolezza. Egli non si appella alle convinzioni dif-fuse nella società, ma a come esso dovrebbe essere interpretato in termini di giustizia. La connessione fra diritto positivo e moralità critica è ormai sotto gli occhi di tutti. 4. Infine, dobbiamo chiederci in che senso l’idea di un’esperienza elementare dell’umano di tipo irriflesso, ma diffuso, s’inserisca armonicamente in questo contesto della pratica giuridica contem-poranea. Vedo la possibilità che essa svolga una duplice funzione, una pre-ventiva e una conclusiva. Innanzi tutto, si tratta di riconoscere il campo degli interlocutori del discorso pubblico che s’intrec-cia in una società pluralistica. Questi interlocutori devono avere una certa qual comunanza senza la quale non potrebbe realiz-zarsi l’intendere e il comprendere. L’esperienza elementare ci dice che questa comunanza si trova nella comune umanità. Il titolo per partecipare al discorso comune è quello di essere uomo, di aver parte nell’umano, espressione che preferisco a “umanità” che è foriera di pericolose entificazioni. Com’è possibile nelle condizioni attuali preservare ancora un’e-lementare grammatica dell’umano che favorisca il dialogo fra le differenze? Questo è un compito urgente che deve essere oggi affrontato in modo diverso dal passato. In assenza di ordinamenti comprensivi di valori bisogna promuovere la costituzione di oriz-zonti d’intesa fra quelle identità particolari che aspirano a visioni universali. Ciò è possibile in quanto questi mondi identitari lasciati a se stessi sentono ora di dover assolvere il compito di dare rispo-ste che trascendano i loro ristretti ambiti e si giustifichino in certo qual modo di fronte agli “altri” o ai diversi. Non si tratta più di

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essere accolti nella braccia di un ordinamento globale secondo la logica del riconoscimento, ma d’intessere dal basso una rete di relazioni sempre rivedibili ma sempre più ampie. Si tratterà di un diverso tipo di ordine non più gerarchico o assiomatico, ma “a rete”9, cioè un ordine dipendente dalla prassi o dettato dal corso di azione che s’intraprende. Conseguentemente questa rete d’iden-tità comprenderà in sé una molteplicità di ordini possibili dei valori e il loro conflitto risiederà soprattutto nel tipo di azione da com-piere. D’altronde, i valori realisticamente considerati non sono in verità come le stelle del cielo, ma sono pratiche sociali rivolte alla realizzazione di beni immanenti. V’è da ritenere che nelle pieghe di questo universo pluricen-trico, insieme complesso e confuso, si manifesti sempre più pres-sante l’esigenza di una grammatica comune della vita pratica, dico “grammatica” e non “linguaggio”, perché quest’ultimo è già com-promesso con le sue differenti articolazioni storiche. Alcuni indizi già lo dimostrano: primo fra tutti ovviamente i vari tentativi di codificazione dei diritti umani e il diffondersi del costituzionalismo, e poi quelli volti a determinare le ingiustizie più evidenti, a indi-viduare i crimini nei confronti dell’umanità, a sovvenire ai biso-gni più urgenti in seguito a catastrofi naturali o a carestie. Poca cosa – lo ammetto – e per di più spesso ambigua nelle intenzioni e nei significati. Ma l’importante è che prenda progressivamente corpo questa grammatica della giustizia internazionale. Ciò non significherà certo la fine dei conflitti di valori, perché con le stesse regole linguistiche si possono fare discorsi contrastanti, ma l’im-portante è che si possa stabilire quali sono i discorsi insensati. L’universalità è pertanto un obiettivo da raggiungere piuttosto che un principio di partenza e in questo senso è una questione di grado. È qualcosa da realizzare e da conquistare piuttosto che una condizione preliminare di validità. Non si tratta, dunque, di prendere le mosse dalla cultura più universale (foss’anche quella occidentale dei diritti dell’uomo) per uniformare a essa le cul-ture particolari. Quest’operazione ha occultato spesso un impe-rialismo culturale che ha calpestato in modo più o meno san-guinoso le identità personali e collettive. Ma, se si ammette che culture particolari possano comunicare, allora necessariamente si deve ammettere qualcosa di universale già intercorrente tra loro. Il “cattivo” universalismo è basato sulla deduzione dell’universale da un particolare; il “buon” universalismo è l’orizzonte d’intesa di almeno due particolari quand’essi sono capaci di universalizza-zione10.

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La seconda funzione dell’esperienza elementare dell’umano ha un carattere anti-individualistico. L’umano è un mondo di relazioni significative e non già un insieme scomposto di libertà e di pre-tese separate. Ognuno ha il diritto di avanzare le sue pretese e le sue richieste nella piazza della città, ma ha l’onere di mostrare che queste pretese e queste richieste s’inseriscono in un ordine in grado di custodire e implementare le relazioni umane fondamen-tali. Infatti, solo a queste condizioni la vita sociale è significativa per la vita buona di coloro che la abitano e non è intesa come un coacervo d’individui separati l’uno dall’altro o di tribù che s’igno-rano quanto più vivono vicine l’una all’altra. Di conseguenza chi propone di modificare quell’ordine delle libertà che s’è andato formato nella cooperazione sociale dovrebbe dimo-strare con buone ragioni che in tal modo le finalità della vita comune sono meglio intese e realizzate, che la dignità della per-sona nelle sue relazioni sociali significative è in tal modo meglio rispettata. Quando si mette al centro della vita politica unica-mente il principio dell’uguale considerazione e rispetto (come fa Dworkin), si rinuncia a dare rilevanza alle relazioni sociali signi-ficative e alle esigenze della cooperazione. La ricerca del bene comune richiede la disponibilità a sacrificare anche i propri punti di vista per il bene della comunanza senza cui non v’è né società né socialità. L’eguaglianza deve coniugarsi con le differenze richieste dall’ordine delle libertà.

1 A. Simoncini et al., Esperienza elementare e diritto, Guerini e Associati, Milano 2011.

2 J. Waldron, Does Law Promise Justice?, in Georgia State University Law Review, 17, 2000-2001, pp. 759-788.

3 J. Raz, The Rule of Law and Its Virtue, in Id., The Authority of Law, Clarendon, Oxford 1979, p. 211.

4 G. Radbruch, Statutory Lawlessness and Supra-Statutory Law (1946), in Oxford Journal of Legal Studies, translation of Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht by Bonnie Litschewski Paulson and Stanley L. Paulson, 26, 2006, n. 1, pp. 1-11.

5 R. Alexy, Begriff und Geltung des Rechts, II ed., Verlag Karl Alber, Freiburg i.B. 1994.

6 J. Finnis, Natural Law and Natural Rights, II ed., Oxford U.P., Oxford 2011.7 “A natural law theory of positive law”. 8 Cfr. G. Zagrebelsky, Diritto per: valori, princìpi o regole (a proposito della

dottrina dei princìpi di Ronald Dworkin), in Quaderni Fiorentini, 31, 2002, t. II, pp. 865-897.

9 Sulla differenza tra ordine a catena e ordine a rete rinvio al mio Autorità e ordine del diritto, Giappichelli, Torino 1987, pp. 373 ss.

10 Cfr. T. Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, trad. di A. Chitarin, Einaudi, Torino 1991, p. 17.

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È molto interessante pensare all’esperienza elementare come un “trascendentale storico”, quindi non come la condizione a priori del discorso, ma come l’accadimento in cui dà prova di sé questa rela-zionalità in senso critico. Uno dei punti di verifica più interessanti, e anche più delicati, nell’attuale ridefinizione della società dei diritti – come emerge anche dal libro di cui stiamo discutendo – risiede nella concezione stessa di una pluralità di diritti in una prospettiva relativizzante, non necessariamente relativistica, ma sicuramente multiculturale. La sfida più acuta sembrerebbe proprio quella che, in tale quadro giuridico, venga meno – o si ritenga impossibile – un criterio di giudizio critico, capace di attraversare tutte le differenze antropo-logiche, vale a dire, un riferimento comune all’esperienza elemen-tare. Ma senza questo riferimento unitario all’esperienza della per-sona, ai suoi bisogni, alle sue attese condivise, la cultura dei diritti e la stessa moltiplicazione dei diritti rischiano di trasformarsi in un mero problema di potere. Quindi, paradossalmente, più che una tutela personale dei diritti si rischia una nuova sistematizzazione della cultura al potere. Approfondiamo la questione, passando la parola a Franco Modugno, al quale chiedo di aiutarci a capire meglio il problema del criterio dell’esperienza elementare dentro la prolificazione dei diritti.

Costantino Esposito

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Diritto ed esperienza elementareVi sono due modi di intendere il rapporto tra l’esperienza elemen-tare di un’esigenza di giustizia e il diritto: quello di concepire la teoria della giustizia come esperienza elementare e quello di con-cepire l’esperienza elementare come (una) teoria (anzi una dot-trina) della giustizia. Nel primo caso, la teoria è diventata spi-rito, coscienza e cioè vita, nel secondo l’esperienza elementare è diventata formula e cioè la più patente contraddizione in termini.E infatti nella Prefazione di Julián Carrón si considera «molto per-tinente l’insistenza degli autori a non ridurre l’esperienza elemen-tare a dottrina – quale che ne sia la natura – a formula astratta da imporre meccanicamente alla realtà»1.Se l’esperienza elementare non è (non dev’essere) una dot-trina, essa può rappresentare però un punto di partenza e un metodo nella ricerca e nell’azione giuridica, poiché, come diceva Capograssi, «il diritto esiste e vive nella esperienza comune, come esperienza giuridica, la quale è come tale realizzata nell’azione ordinaria del soggetto»2. Tale è stato l’intendimento e il lavoro compiuto dai quattro giuristi autori del libro3.L’interesse del libro che si presenta sta proprio nel fondare il metodo su un essenziale chiarimento circa il diritto.Tutti abbiamo (credo) superato il pregiudizio semplificatore, ma semplicistico, della statalità del (di tutto il) diritto. La possibi-lità di spostare sull’«esperienza giuridica», sulle «azioni umane», «il punto di partenza alternativo» è suggerita e fondata su una diversa concezione della norma giuridica, che si trova ben espo-sta da Francesco Viola quando afferma che «le regole giuridi-che devono essere considerate come un complesso di ragioni per compiere determinate azioni o per astenersi da esse» e, con trasferimento ai diritti, quando pone la domanda: «per quali ragioni o giustificazioni qualcuno ha un diritto o si ritiene abbia un diritto?»4, perché «dal tipo di ragioni su cui si fonda il diritto discende la natura dei poteri che l’ordinamento giuridico attribui-sce, o dovrebbe attribuire al soggetto e dei doveri degli altri sog-getti»5. Ne consegue che la norma giuridica, implica, al tempo

Esperienza elementare e “nuovi” diritti

Franco Modugno

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stesso, la ragione e la libertà umana. Se la ragione insita nella norma (probabile o anche controvertibile) convince ad agire, la libertà umana risulta guidata dalla (ragione della) norma. Il rispetto della norma diviene in tal modo la ragione (o una delle ragioni) del comportamento umano.Ora, la nozione di esperienza elementare – osserva Simoncini – «aiuta a rispondere a questa domanda cruciale: perché l’uomo aderisce alle regole del diritto? Perché obbedisce al diritto?»6.Se l’esperienza elementare si declina come esigenza di giusti-zia, allora «si obbedisce al diritto perché, in fondo e nel suo com-plesso, lo si ritiene corrispondente a una esigenza di giustizia, cioè proporzionato allo scopo di fornire ragioni adeguate per organiz-zare gli uomini in maniera cooperativa e non conflittuale, e favore-voli al pieno sviluppo di ognuno»7.

Nuovo giusnaturalismo o giusrazionalismo?Si tratta di una riedizione del giusnaturalismo o giusrazionalismo, che dir si voglia?Non è così. Al proposito è stato ben sottolineato che, «men-tre […] il tema del diritto naturale sembrerebbe presupporre una nozione di natura [ma anche – aggiungerei – di ragione comune] sulla quale oggi è molto difficile trovare una reale condivisione, la nozione di esperienza elementare […] può consentire aperture interessanti»8. Soprattutto l’apertura del dialogo. Un dialogo che muova non già da una definizione oggettiva di “ciò che è giusto” bensì dall’espe-rienza della sua negazione.Come ricorda Simoncini, Gustavo Zagrebelsky illustra lucidamente questo concetto nel dialogo sulla giustizia con il cardinale Carlo Maria Martini: «Forse possiamo dire che la giustizia è un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia o, meglio, dell’aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva»9.La giustizia è dunque un valore. E, come tutti i valori, si esprime in un concetto dialettico: la giustizia è concepibile solo attraverso l’esperienza della sua negazione. E allora, se dall’idea (precon-cetta) di giustizia (tante nozioni quanti sono gli uomini) si va verso la divisione, sino al conflitto tra gli uomini, nell’esperienza dell’in-giustizia si può – e si finisce per – convenire.

Dal diritto in senso oggettivo al diritto in senso soggettivoMa l’interesse del libro non sta solo nell’aver mostrato il carattere

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euristico-metodico della nozione di esperienza elementare, ma soprattutto nell’avere tentato, per così dire, sul campo, la funzione di questa esperienza come base per un “dialogo”.La deriva “individualistica” che caratterizza la società contempora-nea e quindi la riduzione della “persona” a “individuo” ha condotto a una concezione dei diritti come «pretese assolute; pretese, cioè, alle quali non corrisponde alcun dovere del titolare della pretesa, ma solo il dovere assoluto di non interferenza da parte di tutti gli altri»10.Ora, se è vero che l’accentuazione dei diritti ha condotto a un significativo spostamento della primazia dal diritto in senso ogget-tivo al diritto in senso soggettivo, non è meno vero che si è così operata una artificiosa scissione tra il profilo della pretesa e quello del dovere (che invece convivono significativamente nelle dichiara-zioni costituzionali).Ciò non significa affatto che vi sia «necessaria correlatività tra diritti e doveri, cosa che renderebbe ridondanti i primi»; piuttosto, se i «doveri non sono originari, ma derivati dall’esistenza dei diritti e a essi riconducibili», significa invece che il riconoscimento di un diritto, ossia della validità di una ragione per la quale qualcuno ha un diritto «implica l’obbligo di apprestare i mezzi più congrui [tra cui l’obbligo] per la realizzazione e la tutela del diritto»11.

Due esperienze a confrontoNel dialogo tra Paolo Carozza e Lorenza Violini, quest’ultima osserva che nella tradizione cosiddetta continentale, vi è «un punto che in qualche modo noi non abbiamo mai superato», ossia che «la legge scritta […] è l’unica in grado di definire il contenuto dei diritti»; e che «quindi noi non abbiamo una concezione “origi-naria” dei diritti». L’uomo che «si concepisce come libero di fare tutto e ha nella legge l’elemento di regolamentazione della sua volontà» trova quindi nella legge il «potenziale nemico» della sua libertà12. Di rimando Paolo Carozza illustra efficacemente come, nella tradizione americana, dove «i diritti […] sono stati introdotti per proteggere l’esistenza dei diritti ritenuti fondamentali dalla società prima della Costituzione», «la Costituzione, la normatività, il catalogo dei diritti, rispondono a una certa realtà sociale preesi-stente che non è creata o generata dal diritto»13.D’altra parte, nella tradizione europea, la «“astrattezza” nel defi-nire i diritti fondamentali […] si giustifica in forza dell’esigenza [altrettanto elementare] di uguaglianza»14. Al tempo stesso, però, è possibile rilevare come «la nostra dottrina giuridica sia unanime

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nell’identificare nei diritti fondamentali un’idea “astratta” perché basata su una nozione astratta di libertà», alla Rousseau.Questo può essere un punto di incontro. Se «siamo in grado di renderci conto che l’esperienza giuridica non si riassume nella legge» e che essa «fa vedere il processo, i passaggi e cioè: c’è una realtà sociale – che si esprime in un caso – che il giudice risolve – che poi viene codificato ove necessario – e da lì si riparte col fenomeno dell’interpretazione», allora è possibile intrapren-dere «un percorso […] alla luce dell’esperienza elementare»15. L’esperienza elementare, insomma, ha sede – si realizza – nell’e-sperienza giurisprudenziale.Si tratta forse di un punto di convergenza fra tradizioni diverse, che può essere fondato «non sulla prevalenza di una tradizione sull’altra o sulla superiorità di una sull’altra, ma sull’ipotesi che entrambe poggiano su un criterio sottostante; quello che ci per-mette di dire: “ci sono certe cose da valutare, cogliere e apprez-zare nonostante il fatto che si possano anche identificare i vizi del sistema”»16.Tale criterio sottostante comune può anche definirsi «un princi-pio di ragione che giustifica la soluzione data» alla risoluzione di un caso, nell’ambito «di un confronto della realtà giuridica con la realtà dei fatti» in cui cioè «il caso e la norma generale trovano un elemento di sintesi». Questo però il dilemma: o soluzione giusti-ficata da un principio di ragione, o soluzione empirica presa sulla base di un «potere» che «è violenza e arbitrio»17.

L’itinerario di riflessione di Marta Cartabia sull’evoluzione dei diritti umani1. L’opzione relativistica e l’opzione universalistica.Nel saggio su Esperienza elementare, esigenze di giustizia e diritti umani, Marta Cartabia indica nella fine del secolo scorso (crollo del muro di Berlino e avvento della globalizzazione) il momento in cui ha luogo la collocazione effettiva dei diritti umani «in una dimen-sione sovranazionale, internazionale o globale»18.In precedenza, i «diritti fondamentali enunciati nelle Costituzioni nazionali» erano garantiti «contro ogni possibile manipolazione e abuso da parte di poteri interni ed esterni» allo «scopo di porre al centro della vita pubblica la persona umana e la sua dignità», unitamente al perseguimento dell’«obiettivo politico e culturale di preservare l’identità della polis, un’identità radicata nella storia e nella tradizione del popolo ed espressa nel suo atto fondativo: la Costituzione nazionale»19.

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Ora, invece, in questo «spostamento di fatto dei diritti individuali verso le istituzioni internazionali, si è sviluppata – con non pochi elementi di contraddizione – una corposa critica all’universalità dei diritti in nome del relativismo culturale»20.Gli esiti di entrambe le opzioni si sono rivelati, peraltro, «inaccet-tabili e poco convincenti»: l’opzione relativistica conduce al disco-noscimento della universalità dei diritti e alla riduzione dei diritti umani a diritti espressione della (sola) cultura occidentale; l’op-zione universalistica, per contro, conduce all’accettazione acritica di «tutte le espressioni dell’attuale prassi delle istituzioni interna-zionali»21.Nel saggio l’Autrice non manca di esemplificare le conseguenze dell’una e dell’altra opzione, motivandone l’inaccettabilità. La cri-tica radicale ai diritti umani impedirebbe di invocarli «per argi-nare e contrastare prassi tanto disumane quanto tutt’oggi diffuse in molti Paesi, l’opzione universalistica – espressione di «una cul-tura iper-individualistica», fondata sulla «libertà intesa come auto-nomia e autodeterminazione individuale», sull’«eguaglianza intesa come non discriminazione» e sul «ruolo neutrale delle istituzioni e del diritto» – condurrebbe alla incontrollata e acritica prolifera-zione di cosiddetti nuovi diritti22.Il dilemma sembrerebbe ineludibile: «o accettare in toto il pro-getto dei diritti umani, o metterlo radicalmente in discussione»23.Non è possibile forse una terza via?

2. Le direzioni per superare il dilemma tra opzione relativistica e opzione universalistica.In qual senso si può ricorrere alla “esperienza elementare”?Le direzioni indicate sono due: a. il ragionevole rapporto tra universalità e particolarità; b. la valorizzazione delle esigenze insite nella “esperienza elementare”.

a. Intanto «L’esperienza elementare è un aiuto a chiarire il rap-porto tra le culture specifiche e l’universalità dell’esperienza umana»24.Qui l’assonanza con la concezione dello storicismo dialettico (opposto allo storicismo relativistico e nichilistico di matrice nietzscheiana) secondo cui l’universale si trae dal particolare, anzi è nel particolare, è davvero innegabile.Conseguentemente, anche nei diritti umani «coesistono una dimensione universale e una dimensione storica, in cui si riflettono la tradizione e la coscienza più profonda di ciascun popolo»25. E la

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dimensione universale dei diritti umani è rivelata, per così dire, o, se si vuole, riassunta, nel concetto di dignità della persona, che si coglie attraverso la ragione, in virtù della quale è possibile, come pure è stato detto, «esaminare criticamente le convenzioni e le opinioni particolari alla luce dei bisogni e delle aspirazioni umane più universali»26.Così che l’esperienza elementare indica sia «un contenuto, perché dice dell’esistenza di esigenze ed evidenze universali che accomu-nano l’esperienza di ogni uomo», sia «un metodo, perché indica che al riconoscimento di tali evidenze ed esigenze si giunge attra-verso l’esame critico della propria esperienza: un giudizio su ciò che si prova»27. L’esperienza elementare, in questo modo, non è solo un criterio euristico, ma diventa pure una prassi riflessa dall’uso della ragione, una prassi ragionevole, che consente, come pure è stato molto ben detto, «di paragonare tutte le proposte morali o i giudizi e di aderire a quelli ritenuti corrispondenti»28.

b. Ma, nell’analisi del sintagma “esperienza elementare”, va posto altresì l’accento sull’aggettivo. In che senso è “elementare”?La risposta è duplice: sia nel senso di “innato e originario”, sia nel senso di “basilare, essenziale”, come esigenza di verità, di giu-stizia, e così via. E allora, a fronte della «proliferazione inces-sante di nuovi diritti che domina la prassi contemporanea dei diritti umani», l’esperienza elementare ci avverte che «tanto più si allunga la lista, quanto più le accuse di imperialismo occidentale in nome dei diritti umani trovano riscontro nella pratica reale e risul-tano fondate», poiché molti di essi rivelano quegli «aspetti parti-colari» che ne contraddistinguono la «diversità»29.Allora, come è stato detto molto bene, anziché «spostare il bari-centro della definizione e della tutela dei diritti umani presso le istituzioni europee e internazionali, relegando le istituzioni nazio-nali al ruolo di mera esecuzione di orientamenti maturati altrove, l’esperienza elementare suggerisce piuttosto di preservare uno spazio adeguato al pluralismo culturale e alle singole esperienze anche locali, come luogo dove ciascuna tradizione possa essere elaborata e sperimentata»30. Non gioca qui forse un principio tanto proclamato anche sul piano internazionale come il principio di sussidiarietà? 3. L’approfondimento del ricorso all’“esperienza elementare”.Il percorso intellettuale di Marta Cartabia si svolge, peraltro, in due fasi: in una prima, l’esperienza umana è quella «in cui si può

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riconoscere ogni essere umano, in ogni cultura, in ogni epoca e in qualunque contesto storico e culturale», ossia quella in cui l’espe-rienza elementare finisce per ridursi alla formazione di «una tavola minimale di “valori” onnicondivisi». Un rischio da evitare.Ma una ulteriore domanda si imponeva: «Quali sono i diritti vera-mente universali? Quali i contenuti di quella soglia minima ed ele-mentare di diritti che debbono spettare a tutti?». Quali contenuti, poi, quelli della «legge naturale classica» sottoposta già da tempo alla «critica giuspositivistica» che la concepisce come «un insieme di precetti morali e giuridici che si possono far derivare per via deduttiva e quasi meccanica dalla riflessione sulla natura umana: regole eterne e indisponibili, insensibili al variare del tempo e della storia»?31.L’«errore metodologico» si annidava proprio nel modo in cui si perveniva alla «definizione dei contenuti di quel nucleo intangibile di valori»32.L’esperienza elementare, invece, presenta e suggerisce un modo diverso di attingere «ciò che è universale», poiché, per un verso, «non può prescindere dal soggetto», da «un soggetto reale che vive a una data latitudine, in una certa epoca storica, in un deter-minato contesto sociale, politico e culturale, che è inserito nella trama di determinati rapporti, soffre di date debolezze, si imbatte in specifici problemi e circostanze»33. Per altro verso – e conse-guentemente – «universali non sono anzitutto i diritti o i valori [come tali], ma l’umano»34.Per questo, l’esperienza elementare «non ci fornisce un nuovo, diverso, minimale elenco di diritti umani universali o di valori morali onnicondivisi, ma chiama in campo un soggetto, capace di sottoporre a un incessante e inesauribile vaglio critico anche i cosiddetti diritti e valori universali, alla luce di criteri innati»35.L’esperienza elementare non è perciò una dottrina, tanto meno una teoria, come dicevo all’inizio, e come ancora vedremo, bensì un metodo, anzi la chiave di un metodo. L’esperimento che è stato proposto è il seguente: «Ci riconosciamo nell’immagine di persona che è presupposta da uno qualsiasi dei “nuovi diritti”»? o, invece, «il soggetto dei nuovi diritti è ridotto a “pura volontà”: ho il diritto a morire perché lo voglio; ho il diritto a cambiare sesso, perché lo voglio, ho il diritto ad avere un figlio, perché lo voglio»36, incondi-zionatamente. “Volo ergo sum”?«Questa volontà pura, astratta, isolata da ogni rapporto umano e incondizionata rispetto a qualunque circostanza, corrisponde dav-vero all’esperienza reale delle persone?»37.

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Esperienza elementare, dunque, come principio critico, oltre che come principio pratico, come direttiva per l’agire38.

4. Il pericolo della moltiplicazione dei diritti.L’esperimento o la domanda di cui si diceva poc’anzi ha condotto a una radicale critica del modo in cui sono stati, prevalentemente, intesi i diritti fondamentali negli ultimi anni del XX secolo e in que-sti primi anni del XXI secolo. L’odierna, «incontenibile espansione dei diritti umani» si manifesta principalmente in due direzioni (o tendenze): «a. l’assolutizzazione dei diritti; b. la loro proliferazione»39.Alla base della assolutizzazione dei diritti vi è la concezione indivi-dualistico-libertaria del diritto che si oppone a ogni sorta di limite. Alla base della proliferazione dei diritti vi è l’assunto, per nulla dimostrabile, dell’equivalenza: più diritti = più giustizia.

a. La libertà intesa come arbitrio è illusoria, poiché l’esistenza dell’individuo è fragile e contingente (è un’esistenza tra gli altri e nella natura, sottoposta ai condizionamenti e agli assalti degli uni e dell’altra). Come è stato detto, «i diritti assoluti sono un’illusione e un’illusione non poco dannosa»40. E lo stesso Voltaire aveva per tempo ammonito che «un diritto condotto troppo lontano diventa un’ingiustizia».b. Ogni nuovo diritto, in un ordinamento giuridico (quale che sia) entra nel bilanciamento complessivo con i “vecchi” diritti e ne comprime la portata41. Questo argomento, però, non esclude affatto che il bilanciamento sia necessario anche nei confronti dei “vecchi” diritti nelle loro reciproche relazioni, e quindi, per trasla-zione, nei confronti dei “vecchi” con i “nuovi” (che sono poi esplici-tazione dei primi). Molti altri argomenti contro l’equivalenza (più diritti = più giusti-zia) di carattere pragmatico sono stati addotti: il maggior numero dei diritti comporta un aumento delle controversie, con formazione di “arretrati” e ritardi di decisioni; «e, come si sa, giustizia ritar-data è giustizia denegata»42; i diritti “costano”, fino ad arrivare a un deprecabile “mercato dei diritti umani”; il maggior numero dei diritti aumenta i rischi di violazione dei diritti stessi delle persone, fino al punto della «negazione dei loro diritti in nome dei diritti stessi»43.La innegabile «differenza tra diritto e giustizia», ovvero «la spro-porzione strutturale tra l’infinita esigenza di giustizia e le limitate capacità degli strumenti del diritto positivo genera un differenziale

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che può diventare un potenziale», una risorsa, ossia «può essere generativa di tensione, energia, movimento, quando c’è un sog-getto sensibile a questa sproporzione»44.

5. Il fenomeno della “implacabile” moltiplicazione dei diritti indivi-duali in Europa.Nel saggio In tema di “nuovi” diritti45, Marta Cartabia esamina approfonditamente l’origine del fenomeno della «implacabile mol-tiplicazione dei diritti individuali che contrassegna l’esperienza giuridica dell’ultimo scorcio del XX secolo e il primo decennio del XXI»46, scandendo la distinzione tra l’«età dei diritti» propria del secondo dopoguerra e «l’età dei “nuovi” diritti», cosiddetti di terza o quarta generazione, per la definizione dei quali, per così dire, mi chiama in causa, asserendo che «nella dottrina italiana F. Modugno poneva il tema dei nuovi diritti proprio nei termini in cui poi sono stati sviluppati dalle giurisprudenze nazionali ed europee nel XXI secolo»47. Nell’illustrare i «nuovi assetti istituzionali nell’Europa dei diritti» e, in particolare, «l’apertura delle frontiere nazionali ai diritti euro-pei», si avverte che uno dei cambiamenti più significativi sta nel «fenomeno dell’apertura del catalogo costituzionale dei diritti fon-damentali alle influenze internazionali e, soprattutto, europee». Un’apertura che, da un lato, è segnata dall’abbandono, da parte sia della giurisprudenza, sia della dottrina, della «tradizionale dif-fidenza verso una interpretazione della Costituzione, e del suo art. 2 in particolare, come fattispecie aperta, capace cioè di generare “nuovi” diritti»; e, dall’altro, soprattutto, dal diritto europeo48.Ora, a parte le vicende dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, le modalità del rap-porto tra la Corte di giustizia comunitaria e la Corte europea dei Diritti dell’uomo, e «l’eventuale diritto all’ultima parola in caso di divergenze», sta di fatto che «il complesso sistema c.d. multili-vello in Europa che coinvolge le istituzioni nazionali, quelle dell’U-nione europea e quelle del Consiglio d’Europa, negli anni più recenti è stato oggetto di importanti evoluzioni tutte all’insegna di una più facile e formalizzata comunicazione tra i sistemi coin-volti»49.

6. I “casi esemplari” del “diritto al figlio” e del “diritto al matrimo-nio omosessuale”. Opportunamente, perciò, «per cogliere le caratteristiche di conte-nuto di questa “età dei nuovi diritti” conviene prendere le mosse

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dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, proprio perché essa sta diventando un’autorità capace di irradiare i suoi effetti capillarmente in tutto il continente»50.I «casi esemplari» sottoposti ad esame sono due e riguardano «il diritto al figlio» e «il diritto al matrimonio omosessuale».

a. A fronte di una legislazione (Austria, nella specie, ma anche Germania, Italia) che permette la fecondazione assistita se “omo-loga” (ossia nell’ambito della coppia genitoriale) e vieta quella “eterologa” (che utilizza un donatore esterno o ricorre alla mater-nità surrogata), la Corte europea dei diritti, in una decisione dell’aprile 2010, asserisce che la distinzione determina una discri-minazione (art. 14 Cedu) tra le coppie che soffrono di problemi di sterilità e una violazione del loro diritto alla vita privata e fami-liare (art. 8 Cedu, inteso come comprensivo del diritto ad avere un figlio).Dunque, «se la convenzione non contenesse, sia pure implicita-mente, il diritto ad avere un figlio, non si potrebbe neppure invo-care il principio di non discriminazione che – per giurisprudenza costante – non può mai essere invocato se non in combinato disposto con altro diritto protetto dalla Convenzione».Ed è allora tutto da dimostrare che il (nuovo) diritto ad avere un figlio, come diritto assoluto, possa desumersi dal diritto alla pri-vacy, ossia dal diritto al rispetto della vita privata e familiare. Si tratta, in altri termini, di stabilire se il cosiddetto diritto ad avere un figlio sia qualcosa di più di un mero permesso (o facoltà), que-sto sì riconducibile alla privacy (intesa come autodeterminazione o autorealizzazione)51.Più semplicemente – e correttamente – si potrebbe propriamente parlare di una «legittima aspettativa», più che di un vero e proprio «diritto ad avere (o a procurarsi) un figlio»52. Del resto la deci-sione della Sezione della Corte europea del 2010 è stata «supe-rata e ribaltata» dalla decisione della Grande Chambre del 3 novembre 201153. b. Nel secondo caso, concernente un preteso diritto al matrimonio omosessuale, sulla base del diritto di contrarre matrimonio e costi-tuire una famiglia (protetto dall’art. 12 Cedu), la Corte dei diritti, in una decisione del giugno 2010, esclude la violazione dell’art. 12, il quale, a differenza della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. (c.d. Carta di Nizza), riserva espressamente il diritto di contrarre matrimonio e costituire una famiglia a coppie eterosessuali.Come si osserva, «d’altro lato, la Corte suggerisce però che l’e-

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splicito riferimento a uomo o donna nell’art. 12 non impedisca agli Stati membri che lo desiderino di riconoscere il matrimonio omo-sessuale»54.Come è possibile ammettere quest’ultima opzione interpretativa? Esclusa l’applicazione dell’argumentum e contrario, sarebbe pos-sibile procedere a una interpretazione estensiva dell’art. 12? Se il diritto di formare una famiglia si scinde dall’esplicito riferimento all’uomo e alla donna come titolari del diritto di sposarsi (ossia si scinde, con l’argomento della dissociazione, il diritto a contrarre matrimonio dal diritto a formare una famiglia) è possibile non già riconoscere, sic et simpliciter, il matrimonio omosessuale, bensì considerare come “famiglie” anche le unioni omosessuali. E tali le riconosce la Corte di Strasburgo, ritenendole quindi protette dall’art. 8 che tutela, oltre alla privacy, anche la vita familiare55.D’altra parte, in relazione alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, si potrebbe sempre osservare che, se l’art. 12 ascrive alla (sola) coppia eterosessuale il diritto di sposarsi e di formare una “famiglia”, come può sorgere “altrimenti” una “fami-glia”, e come si fa a ritenere protette famiglie non eterosessuali dall’art. 8 Cedu che tutela la vita “familiare”?

7. Alcuni rilievi critici. Ora, si assume che «la “produzione” di nuovi diritti si radica in due matrici culturali precise. Il diritto alla vita privata e il principio di non discriminazione»56.E si asserisce che «si tratta delle stesse matrici culturali e giuridi-che che sono alla base di tutta la stagione dei diritti individuali di matrice liberal che ha segnato una intera epoca del costituzionali-smo americano»57.In questa ricostruzione c’è del vero. Ma non tutto mi pare condivi-sibile. Come si riconosce esplicitamente, il passaggio dalla cosid-detta prima concezione della privacy (protezione dell’interesse di ogni persona a “evitare rivelazioni di fatti personali”) alla cosid-detta seconda concezione (protezione dell’interesse di ciascuno alla “indipendenza nel prendere certe specie di importanti deci-sioni”), anche se nella giurisprudenza della Corte suprema ame-ricana può ricevere una data (caso Griswold v. Connecticut del 1965: annullamento di legge statale che proibiva l’uso dei con-traccettivi), è in realtà un passaggio graduale e non casuale. Non costituisce cioè un’arbitraria innovazione e non è detto che non se ne possa ricercare un ben diverso fondamento.Ma soprattutto mi sembra che si possa distinguere tra le matrici

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culturali di un certo (ma non il solo) modo di intendere e far valere i cosiddetti nuovi diritti e la configurazione giuridica dei diritti stessi. Non vi è dubbio cioè che, se le matrici culturali pos-sono essere ravvisate nella concezione individualistica della libertà come arbitrio del singolo, non è detto che la “libertà positiva” o lo stesso principio dell’“autodeterminazione” debbano necessaria-mente essere intesi in quanto riconducibili a tali matrici.E se pure può essere sostenuto che «oggi in tutto il mondo occi-dentale tutto ciò che ha a che fare con questioni “morali” o “eti-camente controverse” tende a essere dominato dal principio di autodeterminazione, il quale a sua volta genera tutta una serie di nuovi diritti individuali58; ovvero che, come già sottolineato una ventina di anni fa59, si diffonde sempre di più la versione libertaria dei diritti umani; non è affatto scontato asserire che «l’autonomia o l’autodeterminazione del singolo costituisce il meta valore domi-nante», un valore assoluto, e che «l’eguaglianza tende a tradursi e a ridursi a una forma di non differenziazione, meglio di “neutralità” giuridica»60.Anzitutto, il passaggio dal principio di autodeterminazione alla for-mazione dei “nuovi” diritti individuali non è affatto un passaggio immediato come lo sarebbe se ogni ordinamento giuridico (per es. il nostro art. 2 della Costituzione) riconoscesse una fonte indiscri-minata di nuovi diritti. Ciò non può significare, peraltro, che il fil-tro debba essere rappresentato necessariamente da modifiche dei “cataloghi” costituzionali o da puntuali interventi legislativi.Opportunamente si richiama sul punto «il noto dibattito ita-liano» tra chi «nega la possibilità di utilizzare l’art. 2 per ricono-scere nuovi diritti, in quanto a ogni nuovo diritto corrisponderebbe anche un nuovo obbligo giuridico» e coloro «che vedono invece nell’art. 2 una fattispecie idonea a recepire nuovi diritti che doves-sero maturare nella coscienza sociale». Ma proprio perché si nota, altresì, esattamente, che la mia posizione «si contraddistingue in quanto ritiene che nuovi diritti possano essere ricavati sul piano interpretativo a partire dal fondamento dei diritti costituzionali, individuato nel valore della libertà, sia in senso negativo (indipen-denza) sia in senso positivo (autonomia) dell’individuo»61, è discu-tibile poi asserire che «le recenti evoluzioni dei nuovi diritti nelle giurisprudenze europee, e di riflesso nazionali, danno ragione alla tesi, sostenuta diversi anni orsono da Franco Modugno, secondo la quale se si riconosce che il fondamento dei diritti costituzionali è la libertà, intesa come libertà positiva – cioè autonomia e auto-determinazione dell’individuo – è possibile, ma anche necessario,

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leggere le formule positive [dei singoli diritti costituzionali] come chiavi che aprono le porte di qualsiasi manifestazione di libertà»62.Aggiungevo però, per chiarire il rapporto tra libertà positiva e libertà negativa, che «se si suppone che il concetto di libertà assunto dalla Costituzione è quello della libertà positiva come auto-determinazione o autorealizzazione (autonomia) del singolo (che in tal modo si fa persona) in tutte le direzioni possibili (civili, etico-sociali, economiche, politiche), essa presuppone e anzi implica la dimensione negativa delle libertà, l’indipendenza dell’individuo da costrizioni, intrusioni o impedimenti che lo renderebbero (anche) incapace di qualsiasi autodeterminazione o autorealizzazione»63.E allora «i diritti fondamentali […] sono le forme essenziali, le strutture necessarie, le condizioni a priori della volontà libera dell’uomo, ossia di tutti i possibili comportamenti concreti»64.Ma questo è il punto. Sono forse le sole condizioni, per la determi-nazione e configurazione di “nuovi” diritti fondamentali?Nello stesso scritto precisavo che «l’enucleazione di c.d. nuovi diritti, ossia la deduzione lineare o trasversale di diritti impliciti, non possa andar disgiunta dal riconoscimento della loro inviola-bilità» ossia che «sono i diritti riconosciuti come inviolabili, ossia assunti come valori primari e principi supremi dell’ordinamento costituzionale, i soli idonei a consentire interpretazioni ed esplica-zioni evolutive della loro potenzialità normativa»65; e che «il deno-minatore comune di questo modo d’intendere l’inviolabilità […] [è] il riferimento, talora esplicito, talaltra leggibile in trasparenza nella giurisprudenza costituzionale, al patrimonio irretrattabile della persona umana intesa come totalità, ossia al principio supremo della libertà-dignità, in contrapposizione al tradizionale principio individualistico e liberale della libertà-proprietà»66. Come è stato esattamente rilevato ed esplicato, «ne consegue la configurazione di una duplice condizione perché sia possibile enu-cleare un “nuovo diritto”: a. la riferibilità di esso a un diritto enumerato riconosciuto come inviolabile (soltanto i diritti riconosciuti come inviolabili sarebbero idonei a consentire interpretazioni ed esplicazioni evolutive della loro potenzialità normativa); b. la riferibilità anche, a monte, al principio supremo di libertà-dignità»67.

8. Qualche conseguenza.In questa concezione, non può condividersi la tesi secondo la quale «i nuovi diritti, a differenza dei diritti scritti della

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Convenzione e in generale di tutte le Costituzioni sono diritti asso-luti, cioè nascono privi di limitazioni»68, per la semplice ragione che essi non possono non entrare, come pure esplicitamente si riconosce, nel «necessario bilanciamento con altri diritti individuali già protetti e che nella fattispecie concreta si trovino in compe-tizione»69 e – aggiungerei – con gli altri “nuovi diritti” già ricono-sciuti. E questa non può essere considerata un’eccezione, bensì la regola.Quanto al fattore di carattere istituzionale, anche la difficoltà di immaginare «come potrebbe un giudice elaborare limiti al nuovo diritto radicati in interessi generali senza fuoriuscire dai limiti isti-tuzionali della funzione giurisdizionale»70, non mi sembra affatto insuperabile, solo che si consideri che la funzione giurisdizionale (e soprattutto la funzione tipica delle supreme giurisdizioni costitu-zionali o internazionali) non può invece non tener conto (almeno) di quegli interessi generali che siano sostanzialmente recepiti in norme legislative, se non addirittura in norme costituzionali.Quanto al fattore di carattere contenutistico, se è vero che il prin-cipio di non discriminazione «tende a ostacolare la formulazione di limiti ai nuovi diritti»71, non è affatto scontato che esso possa essere linearmente desunto (come purtroppo accade spesso) dal principio di uguaglianza (che invece richiede trattamenti uguali per situazioni uguali, ma trattamenti ragionevolmente diversi per situazioni diverse) e che debba necessariamente interagire «con la privacy come sorgente di nuovi diritti»72. Appunto, nel ricordato caso della fecondazione assistita, il fatto che «ogni limitazione all’accesso alle tecniche della fecondazione assistita» possa «essere inteso come discriminazione nel godi-mento del diritto al figlio se si muove dal presupposto che le diffe-renze di fatto – i diversi tipi di sterilità nello specifico – non pos-sano mai riflettersi in differenze di diritto, neppure quando fosse necessario per la tutela di altri beni e interessi generali – quali l’i-dentità biologica dei figli, la prevenzione dell’uso commerciale del corpo o di parti di esso, la pratica eugenetica, e così via»73, costi-tuisce proprio un procedimento logico disinvolto, ma scorretto, che presuppone nei suoi passaggi assunzioni non dimostrate o comun-que sia fortemente opinabili. Del resto, non è forse un nuovo diritto (cosiddetto di quarta gene-razione) il diritto all’identità biologica, e più in generale a un patri-monio genetico non manipolato? E non è esplicazione della libertà personale, intesa come libertà fisio-psichica, il diritto all’identità personale74?

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9. Ripensare il fondamento della espansione dei diritti.La tendenza all’espansione del novero dei diritti, e quindi la forma-zione di “nuovi” diritti, non è necessariamente connessa alla con-cezione individualistico-liberale dei medesimi. Occorre spezzare il nesso.La “fonte”, per così dire, di nuovi diritti non è già necessariamente la concezione individualistico borghese della proprietà-libertà, bensì quella della libertà-dignità.Come si è in precedenza sottolineato, se l’individuazione di nuovi diritti «non può andar disgiunta dal riconoscimento della loro inviolabilità» e se il carattere dell’inviolabilità va riferito «al patri-monio irretrattabile della persona umana intesa come totalità ossia al principio supremo della libertà-dignità, in contrapposizione al tradizionale principio individualistico e liberale della libertà-pro-prietà»75, allora, com’è stato acutamente precisato, l’enucleazione di un “nuovo diritto” è sottoposta alla duplice condizione della «riferibilità di esso a un diritto enumerato riconosciuto come invio-labile»; e, soprattutto, alla «riferibilità […] al principio supremo di libertà-dignità»76.Per ciò che concerne il nostro sistema costituzionale, «il rinnovato rilievo così riconosciuto al “collante del valore personalista nella costituzione” sembra in grado di far emergere “le virtualità rac-chiuse in singoli diritti di libertà”77, fino al punto «di far emergere le virtualità racchiuse nei diritti di famiglia, consentendo di con-siderare il diritto alla procreazione come un diritto costituzionale “implicito”, peraltro non necessariamente collegato alla famiglia fondata sul matrimonio»78. Ma, dato che il cosiddetto diritto alla procreazione non può costituire causa di esclusione di altri diritti, proprio perché non necessariamente collegato alla famiglia fon-data sul matrimonio, e non desumibile da quest’ultimo, a maggior ragione non può desumersi dal diritto al rispetto della vita privata e familiare, così come quest’ultima non può implicarlo79. È piutto-sto una aspettativa indipendente tanto dall’una, quanto dall’altra; una libertà in senso debole (permesso o facoltà) cui è, tutt’al più, opponibile l’obbligo di non impedire l’esplicazione della libertà per-messa, ossia la libertà di procreare80.Ma allora il “diritto al figlio” può davvero considerarsi un vero e proprio diritto desumibile dall’art. 8 Cedu?Ora, se l’enucleazione di un nuovo diritto è condizionata dalla riferibilità al principio di libertà-dignità, è pienamente condivi-sibile l’“opinione separata” del giudice De Gaetano, secondo la quale «né l’articolo 8 né l’articolo 12 [diritto della coppia di for-

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mare una famiglia] possono essere interpretati come conferenti il diritto a concepire un bambino a qualunque costo». In definitiva, e in generale, «quali che siano i progressi della medicina e delle altre scienze, il riconoscimento dei valori e della dignità di ciascun individuo potrebbero richiedere il divieto di alcuni atti in nome dei valori inalienabili e della dignità intrinseca di tutti gli esseri umani. Tale divieto – come i divieti contro il razzismo, la discriminazione illegittima e l’emarginazione dei malati e dei disabili – non è una negazione dei diritti umani fondamentali ma un riconoscimento positivo e un progresso degli stessi».Sul piano poi del diritto comunitario, l’art. 6 TUE stabilisce che: «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Fallito il trattato costituzionale del 2004 che avrebbe incluso il testo della Carta dei diritti nella seconda parte della Costituzione europea, con il Trattato di Lisbona si è riconosciuto alla Carta dei diritti lo stesso valore giuridico dei Trattati81.A ciò si aggiunga la possibilità di adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (introdotta anch’essa dal Trattato di Lisbona). Anche qui, se «l’Unione come tale e le sue istituzioni non sono sottoposte formalmente ai diritti pro-tetti dalla Convenzione né alla giurisdizione della Corte europea di Strasburgo», è innegabile nei fatti che l’una e l’altra «da sempre esplicano una influenza molto significativa sulle istituzioni dell’U-nione, sia perché la Corte di giustizia comunitaria è molto attenta agli sviluppi della giurisprudenza della Corte dei diritti, sia perché i principi elaborati dalla Corte europea in via indiretta finiscono per risultare vincolanti anche sulle istituzioni europee»82.Ora, comunque sia, con riguardo tanto alla Carta dei diritti, quanto alla Cedu, appare «più corretto dire, ormai, che alcuni dei diritti ivi contemplati sono “nuovi” solo rispetto alle preesistenti costituzioni nazionali, ponendosi invece come diritti enumerati nella dimen-sione europea. Come diritti, cioè, pronti a esprimere nuove vir-tualità, dai quali sarà possibile enucleare – sempre alla luce del valore della dignità umana, espressamente assunto come centrale nel preambolo della Carta – diritti (ancor più) nuovi, emergenti dall’evoluzione sociale e riconducibili al “nuovo” fondamento posi-tivo costituito dalla Carta»83 nonché dalla stessa Cedu, secondo un procedimento logico-ermeneutico ineludibile se inteso nel suo “giusto” senso, ossia fondato sul principio di libertà-dignità.Non sembra dunque il processo di proliferazione di “nuovi diritti”

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ut sic, in sé preso – processo ormai inarrestabile e positivamente scandito – a costituire un attentato al valore della “giustizia”, comunque la si voglia intendere, ovvero a produrre nuova ingiu-stizia, ma sono l’esaltazione della concezione individualistico-liber-taria e il disconoscimento del principio fondamentale della dignità umana (e qui il riferimento all’esperienza elementare può essere veramente fecondo) a rappresentare i veri pericoli per la persona umana84.

Sul valore supremo della libertà-dignitàÈ il valore supremo della libertà-dignità che merita allora di essere precisato nei concorrenti aspetti. Una perspicua sintesi è oggi quella offerta da F. Viola85. Quale il rapporto fra i due termini? È la libertà un attributo della dignità, o viceversa? L’idea pure soste-nuta che la dignità venga «costruita come uno degli attributi della libertà» condurrebbe alla conseguenza che «la persona potrà invocare il rispetto della propria dignità […] mentre il principio di dignità non potrà a sua volta esserle opposto al fine di circoscri-vere la sua sfera di libertà»86. La dignità sarebbe stabilita dall’ar-bitrio del singolo. Al contrario, se la libertà viene intesa come un attributo della dignità, l’invocazione del rispetto della dignità sarà sufficiente a giustificare una limitazione della libertà.Se i diritti, in quanto manifestazioni della libertà sono molteplici (perché l’attività umana si esplica nelle più diverse direzioni), se pure essi sono, presi in sé, indivisibili, sono però ponderabili e interdipendenti. Non bisogna mai dimenticare, sul piano dell’ordi-namento positivo – dal quale il giurista deve muovere e al quale deve ritornare per saggiare la bontà delle sue opzioni – che i cosiddetti “nuovi” diritti non possono non essere che esplicazione o implicazione dei diritti enumerati. “Nuovi” diritti saranno o pre-supposti da questi ultimi (il diritto alla vita) o impliciti (i diritti di identità personale, al nome, all’immagine, all’identità sessuale) o trasversali (i diritti all’interiorità o libertà di coscienza, i diritti riconducibili al principio di laicità dello Stato).Se tutti i diritti, in generale, sono interdipendenti, essi sono altresì ponderabili e bilanciabili. E il criterio fondamentale di pondera-zione e di bilanciamento non può non essere la dignità umana.È stato qualche anno fa perspicuamente osservato che «la dignità possiede […] un plusvalore, in quanto è il cuore del principio per-sonalista che, assieme a quello egualitario, sorregge il grande edi-ficio del costituzionalismo contemporaneo»; o in altri termini «si innalza a criterio di bilanciamento di valori, senza che essa stessa

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sia suscettibile di riduzione per effetto di un bilanciamento», dal momento che «essa non è effetto di un bilanciamento, ma è la bilancia medesima»87, una bilancia non meccanica – aggiungerei – ma da usare secondo ragione (ragionevolmente).Certamente, il meta valore della dignità umana può declinarsi sia in una dimensione statica («come “dote”, che spetta all’indivi-duo come tale»88) sia in una dimensione dinamica (come “conqui-sta”, «come risultato da raggiungere, in forma di autodetermina-zione o autorealizzazione»89), allo stesso modo in cui si declina il concetto di “persona”. Ma le due dimensioni non sono incompati-bili. Com’è stato bene illustrato, «si potrà tollerare una differenzia-zione tra gli individui solo sul piano della dignità “acquisita”, frutto del merito o del demerito riscontrato nel processo di autodeter-minazione», mentre «la dignità “innata” resta sempre e comun-que, insuscettibile di essere condizionata dalle azioni o dalle man-cate azioni, il che vale non solo a evitare che la persona possa mai diventare cosa, implicando, tra l’altro, la proibizione di trattamenti inumani o degradanti, ma anche a negare la possibilità stessa di una completa privazione dei diritti, potendo la mancata conquista della dignità “acquisita” giustificare solo puntuali limitazioni, pro-porzionate alla gravità del comportamento tenuto»90 e tali da non compromettere del resto un processo di riconquista della dignità (non) “acquisita”91.Ma, com’è stato posto in evidenza, «l’aspetto forse più interes-sante che si trae dalla nostra giurisprudenza costituzionale è quello della connotazione del principio di libertà-dignità come pos-sibile fonte di “nuovi diritti”, da intendersi, questi ultimi, come diritti emergenti dall’evoluzione sociale, “per l’innanzi non contem-plati in quanto non (ancora) riconoscibili”. Diritti, dunque, “nuovi” rispetto al contenuto tradizionalmente riconosciuto ai diritti costi-tuzionalmente codificati di cui sono comunque espressione, svi-luppo»92. In una risalente giurisprudenza della Corte costituzionale questo indirizzo era stato esattamente colto e tenuto ben fermo con l’asserzione secondo la quale: «non esistono altri diritti fon-damentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti» (sent. n. 98 del 1979) (cor-sivo mio). E s’intende che la “conseguenza” può essere intesa nel senso lato comprensivo della presupposizione, della implicazione e della derivazione combinatoria. Questo assunto, di riferirsi in primo luogo ai diritti enumerati e tra essi a quelli ritenuti “invio-labili”, consente forse di avviare a soluzione per il giurista la que-stione del rapporto tra dignità umana e diritti. La stessa contrap-

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posizione tra dignità come «valore ontologico» e dignità come «valore acquisito o sociale», come «dotazione» o come «presta-zione», può trovare «un punto d’incontro» nel ritenere che «la dignità è qualcosa che insieme si ha e si deve conquistare»93.Per stabilire quali siano i diritti inviolabili, ossia immanenti al patrimonio irretrattabile della persona umana, è opportuno, anzi necessario, non solo sottoporre a esame critico, anche alla luce dell’esperienza elementare, i vari diritti che si vengono disordina-tamente e tumultuosamente affermando, ma soprattutto verificare se essi non si rivelino in contrasto con la dignità umana (intesa in senso oggettivo), dignità che sola rende possibile il superamento della nozione di “arbitrio” in quella di “libertà”, ossia del concetto di “individuo” in quello di “persona”.

1 J. Carrón, Prefazione, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare e diritto, Guerini e associati, Milano, 2011, p. 10.

2 G. Capograssi, Studi sull’esperienza giuridica, Maglione, Roma 1932, p. 19.3 Dalle «ipotesi di lavoro» di A. Simoncini, in A. Simoncini et al., Esperienza

elementare... cit., pp. 43 ss.; e da «L’esperienza elementare nel lavoro del giurista» di P. Carozza e L. Violini, Ibid., pp. 92 ss.; al rapporto tra «Diritti ed esigenza di giustizia» di M. Cartabia, Ibid., pp. 118 ss.

4 In F. Viola e G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, il Mulino, Bologna 2003, p. 15.

5 F. Viola, Diritti umani, in Enciclopedia filosofica, III, Bompiani, Milano 2006, § II.

6 A. Simoncini, Esperienza elementare e diritto: una questione «persi-stente», in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 35. Le risposte positive date a queste domande – pur contraddette dai casi non rari di devianza o a dirittura di ribellione – rimandano, comunque sia, a una ragione che è esterna (se non estranea) al diritto, poiché «il diritto, nono-stante questo sia oggi l’indirizzo dominante della riflessione teorico-filoso-fica, non si può ragionevolmente autofondare» (p. 37).

7 Ibid., p. 39 (corsivo mio).8 Ibid., p. 41.9 G. Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003.10 A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 62.11 F. Viola, Diritti umani... cit., § II.12 P. Carozza, L. Violini, Tradizioni giuridiche in dialogo. L’esperienza elemen-

tare alla prova della diversità, in A. Simoncini et al., Esperienza elemen-tare... cit., p. 87.

13 Ibid., p. 89.14 Ibid., p. 89.15 Ibid., p. 90.16 Ibid., p. 97.17 Ibid., p. 97.18 M. Cartabia, Esperienza elementare, esigenza di giustizia e diritti umani, in

A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 102.19 Ibid., p. 102.20 Ibid., p. 103. In particolare, il relativismo di cui qui si parla è frutto di un

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multiculturalismo “culturale”, ispirato a uno storicismo di matrice nietzsche-iana, secondo il quale «ogni definizione andrebbe “storicizzata”, ovverosia riferita al suo orizzonte interpretativo, in quanto tale non conoscibile» (A. Simoncini, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 45).

21 M. Cartabia, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 104.22 Ibid., p. 105.23 Ibid., p. 105.24 Ibid., p. 106. Ne Il senso religioso di don Luigi Giussani (Rizzoli, Milano

2010, p. 10 ss.) si legge il seguente passo: «Questa esperienza elementare è sostanzialmente uguale in tutti, anche se poi sarà determinata, tradotta, realizzata in modi diversissimi, apparentemente persino opposti».

25 M. Cartabia, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 107.26 M. Nussbaum, Coltivare l’umanità, carocci, Roma 1999, pp. 74 ss.27 M. Cartabia, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 108.28 A. Simoncini, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 22.29 M. Cartabia, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 109.30 Ibid., p. 111.31 Ibid., p. 113.32 Ibid., p. 113.33 Ibid., p. 114.34 Ibid., p. 114.35 Ibid., p. 115.36 Ibid., pp. 116 ss.37 Ibid., p. 117.38 L. Giussani, Il senso religioso... cit., pp. 8 ss.; M. Cartabia, in A. Simoncini

et al., Esperienza elementare... cit., p. 117; A. Simoncini, Introduzione, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., pp. 31 ss.; P. Carozza, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., pp. 78 ss.

39 M. Cartabia, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 120.40 M.A. Glendon, Rights Talk: The Impoverishment of Political Discourse,

Maxwell Macmillan, New York 1991, p. 45.41 M. Luciani, L’interprete della costituzione di fronte al rapporto fatto-valore.

Il testo costituzionale nella dimensione diacronica, in Diritto e società, Cedam, Padova 2009, pp. 20 ss.

42 M. Cartabia, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 123.43 G. Palombella, L’abuso dei diritti e la “rule of law”, in Abuse: the Dark Side

of Fundamental Rights, Eleven, Utrecht 2006, p. 5.44 M. Cartabia, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., pp. 126

ss.45 In Studi in onore di Franco Modugno, I, Editoriale Scientifica, Napoli 2011,

p. 626, nota 75.46 M. Cartabia, in A. Simoncini et al., Esperienza elementare... cit., p. 118.47 M. Cartabia, In tema di “nuovi” diritti, in Studi in onore... cit., p. 625, nota 2.48 Ibid., pp. 626 ss.49 Ibid., p. 682.50 Ibid., p. 633.51 Il punto è particolarmente intricato e delicato. Poiché, se nella giurispru-

denza internazionale e comunitaria non si distingue sbrigativamente tra diritti e facoltà (o permessi) che si reputano senz’altro inerenti ai diritti, pure non vi è dubbio che la materia della procreazione medicalmente assi-stita «è disciplinata in dettaglio in alcuni Paesi, in una certa misura negli altri e non in altri paesi» (n. 68), così che «la Corte ritiene che il margine di apprezzamento da accordare allo Stato convenuto deve essere ampio […]» e che tale «ampio margine di manovra dello Stato nel principio si estende

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sia per la sua decisione di intervenire nella zona e, una volta intervenuta, per le modalità che esso stabilisce, al fine di realizzare un equilibrio tra gli interessi in competizione pubblico e privato» (n. 69). E se anche «le diffe-renze negli approcci adottati dagli Stati contraenti non determinano, come tali, alcuna soluzione adottata da un legislatore accettabile», per cui ciò «non esime la Corte da un attento esame delle argomentazioni discusse nel processo legislativo» (ibidem), tuttavia il c.d. diritto alla procreazione non può ritenersi, ut sic, un diritto assoluto, pur rientrando nella «nozione di “vita privata” ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione», unitamente, «tra l’altro», al «diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altri esseri umani», al «diritto di “sviluppo personale”» o al «diritto di autodeterminazione in quanto tali» comprendendo (la vita privata) «elementi come nomi […], l’i-dentificazione di genere, orientamento sessuale e la vita sessuale, che rien-trano nella sfera personale tutelata dall’art. 8 […] e il diritto al rispetto per la decisione, sia di avere o non avere un figlio» (n. 58). V. pure infra § 13.

52 R. Chieppa, Fecondazione eterologa e Corte Europea C.E.D.U.: quali effetti vincolanti nel contrasto di interpretazione tra due decisioni ed altri profili processuali di costituzionalità, in corso di pubblicazione in Aa.Vv., La fecon-dazione eterologa tra Costituzione italiana e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Atti del seminario svoltosi il 2 aprile 2012 a Roma.

53 V. infra, nota 80.54 M. Cartabia, In tema di “nuovi” diritti... cit., p. 635.55 È opportuno ricordare che la Corte costituzionale italiana (sent. n. 138 del

2010) ha riconosciuto la piena discrezionalità del legislatore nella disci-plina delle unioni omosessuali che pure rientrano (come, del resto, anche le “unioni di fatto” che non risultano dall’esercizio del diritto di sposarsi) tra le “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost., in apparentemente analogo ordine di idee della decisione di Strasburgo, ma lasciando intendere però che non è la Corte stessa a poter considerare allo stesso modo le formazioni sociali di cui all’art. 2 e la “famiglia” («come società naturale fondata sul matrimo-nio») di cui all’art. 29 al. Cost.; e che forse una eventuale disciplina legi-slativa che riconoscesse giuridicamente le unioni omosessuali non sarebbe ancora sufficiente a rendere insindacabile la piena equiparazione dell’unione omosessuale alla famiglia.

56 M. Cartabia, In tema di “nuovi” diritti... cit., p. 636.57 Ibid., pp. 636 ss.58 Ibid., p. 637 ss., corsivo mio.59 Cfr. M.A. Glendon, Rights Talk... cit., pp. 48 ss.60 M. Cartabia, In tema di “nuovi” diritti... cit., p. 638.61 Ibid., p. 627, nota 4.62 Ibid., p. 638.63 F. Modugno, I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza costituzionale,

Giappichelli, Torino 1995, p. 10, primo corsivo mio.64 Ibid., p.10.65 Ibid., p. 107.66 Ibid., p. 107.67 M. Ruotolo, Appunti sulla dignità umana, in Studi in onore di Franco

Modugno... cit., IV, pp. 3163 ss.68 M. Cartabia, In tema di “nuovi” diritti... cit., p. 639.69 Ibid., p. 639.70 Ibid., p. 639.71 Ibid., p. 639.72 Ibid., p. 640.73 Ibid., p. 640.

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74 Sul primo punto va osservato che il divieto di pratiche eugenetiche e, in particolare, di quelle rivolte allo scopo di selezione delle persone è sta-bilito dall’art. 3 cpv. della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. Sul sec-ondo punto, occorre osservare che il diritto all’identità personale non può non implicare il diritto all’identità biologica, a sua volta desumibile dal dir-itto fondamentale alla salute. Di qui l’interrogativo: «Che accadrà al nato da fecondazione eterologa, quando avrà bisogno, dal punto di vista della salute e dello sviluppo, di conoscere gli aspetti di origine dei genitori (DNA, malat-tie ereditarie, predisposizione genetica a taluni rischi per la salute)?». Cfr. R. Chieppa, Fecondazione... cit., § 2.

75 F. Modugno, I “nuovi diritti”... cit., p. 107.76 M. Ruotolo, Appunti... cit., pp. 3163 ss.77 Ibid., p. 3164 e ivi citato P. Ridola, Diritti di libertà e costituzionalismo,

Giappichelli, Torino 1997, pp. 17 ss.78 M. Ruotolo, Appunti... cit., p. 3164 e ivi citata la sentenza n. 332 del 2000

della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittime le disposizioni che prevedevano l’assenza di prole come requisito per l’accesso ai corpi armati.

79 V. supra, § 10.80 La Corte internazionale dei diritti – si sa – ragiona sempre in termine di

“diritti”; non distingue diritti da aspettative, da permessi, da facoltà. Pure, nel ribaltare la decisione della 1a sezione della Corte del primo aprile 2010, la Grande Chambre nella decisione del 3 novembre 2011 e nel mantenere per fermo l’assunto che «il diritto di una coppia di concepire un bambino e di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per tale scopo rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 8 [Cedu], in quanto tale scelta è chiaramente un’espressione della vita privata e familiare» (n. 82), ricorda che «uno Stato può, fermo restando quanto disposto dall’articolo 8 della Convenzione, adottare una legislazione che regoli aspetti importanti della vita privata che non preveda un bilanciamento degli opposti interessi per ciascun caso specifico» e che «laddove tali importanti aspetti siano in gioco, l’adozione da parte del legislatore di norme di natura assoluta volte a promuovere la certezza del diritto non è incompatibile con l’articolo 8» (n. 110) (corsivi miei). Qui si va ben oltre il bilanciamento tra cosiddetti dir-itti. Vero è che la Corte non si esime dal rivolgere una raccomandazione al Parlamento austriaco, ma, quel che è più importante rilevare è che, a dif-ferenza della decisione della prima sezione, la Grande Chambre non ricol-lega affatto la possibile violazione del diritto di privacy (che nella specie nega) con il divieto di discriminazione (ex art. 14 Cedu), ritenendo che «la sostanza dei motivi di ricorso dei ricorrenti sia stata sufficientemente valu-tata nel quadro di esame delle loro affermazioni secondo l’articolo 8 della Convenzione»; il che equivale a dire che non vi è discriminazione se non vi è un diritto (sia pure implicito) protetto dalla Convenzione.

81 È vero peraltro che il riconoscimento di un effetto giuridicamente vincol-ante della Carta rappresenta soltanto, per così dire, la ratifica di un pro-cesso giuridico già in atto, poiché «è accaduto che, nonostante fosse priva di effettivo valore legale, la Carta dei diritti, una volta scritta, sia stata di fatto ripetutamente e diffusamente applicata dalle autorità giurisdizionali nazionali ed europee, acquisendo così sul piano dell’effettività un valore che dal punto di vista formale le mancava» (M. Cartabia, In tema di “nuovi” dir-itti, cit., p. 631).

82 M. Cartabia, In tema di “nuovi” diritti... cit., p. 631. Formalmente anzi il processo di adesione, prevedendo la decisione all’unanimità del Consiglio, l’approvazione del Parlamento europeo e l’approvazione di tutti gli Stati membri, ciascuno secondo le proprie regole costituzionali, presenta «una

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procedura forse ancor più rigida e complessa della revisione dei Trattati» (p. 632).

83 M. Ruotolo, Appunti sulla dignità umana... cit., p. 3167.84 Per dimostrare la sostanziale “bontà” della proliferazione di molti dei “nuovi

diritti”, anche di ultima generazione, è sufficiente scorrere rapidamente e superficialmente le previsioni della Carta dei diritti. Certo, l’uso indiscrim-inato del termine “diritto” può condurre a postulare una acritica assolutiz-zazione. E nelle specificazioni ivi compiute è difficile distinguere l’aspetto passivo del diritto (l’indipendenza da costrizioni, intrusioni o impedimenti) dall’aspetto attivo (l’autodeterminazione o autorealizzazione); così come sono proprio queste specificazioni, mai assolute, a consentire e a richie-dere il necessario, il ragionevole, bilanciamento tra di esse. La stessa dis-tinzione tra diritti civili e diritti sociali si relativizza. Vi sono diritti originari-amente concepiti come diritti di libertà civile che sono diventati ormai diritti a prestazione (per esempio il diritto all’informazione come accesso ai mezzi di comunicazione) e, per converso, diritti originariamente sociali che si atte-ggiano invece prevalentemente come diritti di difesa (per esempio il diritto alla salute o all’ambiente salubre). La distinzione fra diritti di libertà e dir-itti sociali non regge più. «La tendenza attuale va, dunque, verso una con-taminazione delle due categorie tradizionali e una considerazione globale dei diritti fondamentali, per cui non è tanto importante classificarli, ma piut-tosto intenderli come un corpo coeso di valori da rispettare integralmente» (F. Viola, Diritti... cit., § II), ma in modo differenziato.

85 F. Viola, Dignità umana...cit.86 G. Resta, La disponibilità dei diritti fondamentali e i limiti della dignità, in

Riv. dir. civ., 2002, p. 833.87 G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della per-

sona, Intervento al Convegno trilaterale delle Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma 1 ottobre 2007, § 2.

88 M. Ruotolo, Appunti sulla dignità umana... cit., p. 3137.89 Ibid., p. 3140.90 Ibid., pp. 3142 ss.91 Nella giurisprudenza delle “supreme” giurisdizioni sia nazionali, sia inter-

nazionali, le due declinazioni sono presenti e talora intrecciate. Marco Ruotolo ha svolto in proposito cinque riflessioni che meritano di essere qui riportate: 1): «l’autodeterminazione, che costituisce l’elemento qualificante della dimensione dinamica della dignità, non può giustificare la negazi-one della dignità “innata”, che ne è fondamentale presupposto» (ibid., pp. 3156 ss.). Esemplari le decisioni del Consiglio di Stato francese (ottobre 1995) che ha condannato la possibilità di utilizzare, come proiettili, sog-getti (pur consenzienti di assistere allo spettacolo) affetti da nanismo. La dignità ha qui valore oggettivo, inderogabile e indisponibile, «precondizione per accrescere la propria personalità» (ibid., p. 3145); 2) «la tutela della dignità “innata” (e del connesso diritto alla vita) è obiettivo imprescindi-bile dello Stato, che non può sacrificare la vita di soggetti innocenti in nome dell’esigenza di salvare un gran numero di vite umane» (ibid., p. 3157). È il caso della sentenza del Tribunale costituzionale tedesco (febbraio 2006) che ha dichiarato illegittima una norma della Legge sulla sicurezza aerea che autorizzava l’aviazione militare ad abbattere un aereo civile, dirottato da un commando terrorista e trasformato in arma impropria diretta con-tro la vita dei cittadini; 3) «La dignità “innata” si presta a tradursi in un dir-itto dell’uomo ad essere rispettato e riconosciuto come persona […] e, con specifico riferimento ai detenuti, in un diritto a condizioni di vita dignitose» (ibid., p. 3157). Esemplari la sentenza della Corte amministrativa feder-

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ale tedesca che aveva vietato la variante del gioco laser finalizzata a colpire bersagli umani; nonché della Corte di giustizia (ottobre 2004) che aveva approvato la precedente perché il rispetto della dignità dell’uomo «sem-bra riguardato come un vero e proprio diritto» (ibid., p. 3146) che giusti-fica una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà fondamentale garantita dal trattato quale la lib-era prestazione dei servizi; come pure la sentenza della Corte europea dei diritti sul sovraffollamento carcerario e sulle disumane condizioni della detenzione in carcere (luglio 2009); 4) «La dignità, riguardata come “con-quista” si lega alla possibilità di liberamente sviluppare la propria person-alità, che va particolarmente tutelata in ambito lavorativo […], che è in grado, nel gioco del bilanciamento, di limitare le libertà economiche […], che esige particolare rispetto sulle scelte di fine vita…» (ibid., p. 3157). Esemplari, rispettivamente, la decisione della Cassazione italiana (febbraio 2010) che ha riconosciuto il danno da demansionamento in favore di un aiuto anziano di un reparto ospedaliero che era stato di fatto estromesso dal primario da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l’eser-cizio delle mansioni cui era addetto, e così distruggendo la sua dignità pro-fessionale; la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco sull’apertura dei negozi la domenica e tutti i giorni festivi del periodo natalizio, ritenuta in contrasto con un minimo di protezione delle festività religiose e quindi della libertà religiosa (dicembre 2009); la pur discutibile e discussa sentenza della Cassazione italiana sul caso Englaro (ottobre 2007); 5) «dai principi della dignità umana e dello Stato sociale si può ricavare il diritto ad un’es-istenza dignitosa» (ibid., p. 3157). Il Tribunale costituzionale tedesco (feb-braio 2010) ha ritenuto che «la garanzia di un minimo vitale costituisce un diritto fondamentale rivolto ad assicurare a ciascuno una condizione materi-ale indispensabile per l’esistenza e la partecipazione alla vita sociale, cultur-ale e politica» (p. 3156) censurando quindi i livelli troppo bassi dei sussidi previsti dalla legge, inidonei ad assicurare un’esistenza degna ad ogni citta-dino.

92 M. Ruotolo, Appunti sulla dignità umana... cit., p. 3163; ultimo corsivo mio.

93 F. Viola, Dignità... cit., p. 2865.

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