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1 Francesco Lamendola Di tanta ira son capaci i Celesti? «Tantene animis caelestibus irae?» («Di tanta ira son capaci i Celesti?»), chiede Virgilio, quasi smarrito, nel proemio all’«Eneide», con riferimento al rancore implacabile con cui Giunone, la regina degli dèi, perseguita gli esuli Troiani. Giunone protegge Cartagine e sa che dai Troiani nascerà la stirpe romana, da cui Cartagine verrà distrutta; lo sa, perché è cosa voluta dal Fato, e al Fato neppure gli dèi possono opporsi; tuttavia si sfoga a perseguitare Enea, sì che, se non può impedirgli di raggiungere la foce del Tevere, vuole almeno che ogni passo in direzione dell’Italia, ogni giorno che avvicina l’eroe alla fondazione di una nuova città, erede della patria distrutta, sia da questi pagato ad un prezzo terribile, sia scontato con infiniti dolori e sofferenze. Giunone è impossibilitata a fermare Enea; lo sa bene, pur essendo la moglie di Giove, la signora dell’Olimpo; lo sa, e ne soffre; lo sa e morde il freno, schiuma di rabbia, freme d’indignazione e d’ira impotente. Non lo fermerà, ma gli renderà amara la vita; gli renderà amaro l’arrivo nella nuova sede; gli renderà amara ogni tappa del suo fatale peregrinare: l’amore per Didone si risolverà in tragedia; l’amicizia con Evandro costerà la vita al figlio di lui, Pallante; il fidanzamento con Lavinia, causerà una guerra feroce coi Latini e un grave dissidio nella casa stessa del futuro suocero, Latino, culminato nel suicidio della sua sposa, la regina Amata, e nel dramma di Lavinia, già promessa a Turno, che vedrà il suo fidanzato cadere proprio sotto il ferro di Enea. E ancora, la madre di Eurialo, che vedrà lo strazio del figlio, caduto insieme a Niso nella sortita notturna nel campo nemico; e tante altre donne, madri e spose, che resteranno vedove, nell’uno e nell’altro schieramento; e perfino l’empio tiranno Mezenzio, che avrà il dolore lacerante di veder morire, per mano di Enea, il suo diletto figlio Lauso, tanto migliore di lui, che generosamente aveva cercato di fare scudo all’indegno padre con il suo stesso corpo. Quanti dolori, quante separazioni, quanti rancori a causa dell’odio di Giunone per Enea e per i suoi compagni. E che dire di Didone, della bella, dolce, umanissima Didone, che dimentica ogni cosa per amore di Enea: i suoi doveri di regina, la fedeltà giurata al defunto marito Sicheo; e che da ultimo, abbandonata senza tanti complimenti, sceglie di uccidersi con le sue stesse mani, non senza prima aver lanciato una terribile maledizione contro il principe troiano? Dunque: di tanta ira son capaci i Celesti? Sono dunque capaci di odiare come gli uomini e perfino più degli uomini, loro che non conoscono vecchiaia né morte; loro che secondo Lucrezio - vivono beati negli “intermundia”, ma che devono, anch’essi, piegare la fronte dinanzi al Fato, e rassegnarsi alla sua imperiosa necessità, così come Zeus in persona aveva dovuto rassegnarsi, nell’«Iliade», alla morte in battaglia del figlio Sarpedonte, presso le spiagge di Troia? Gli dèi, per Omero, possono tutto: ma non possono opporsi al Fato; e così per Virgilio. Ma Virgilio ne resta sbigottito; il suo animo pio pare che non riesca a rassegnarsi all’idea di una religione così impietosa, alla crudeltà degli dèi nei confronti degli uomini, specialmente se puri di animo e rispettosi della patria, della famiglia, dei Celesti. Come è il caso di Enea, che, per molti aspetti, sembra più un sacerdote che un guerriero, e non c’è spiaggia ove non abbia innalzato un altare e ove non abbia rivolto una fervida preghiera; Enea che, appena fa un sogno, si sforza d’interpretarlo alla luce della volontà divina; che è sempre giusto, umano, pietoso con tutti, anche con i nemici; che ha compassione dei giovani destinati alla morte in battaglia, che ha una viva devozione filiale per il vecchio Anchise, in onore del quale farà tenere dei solenni giochi funebri, durante la stanza in Sicilia; che sarà giudicato degno, lui vivo, nel regno dell’Ade, guidato dalla Sibilla Cumana, per incontrare lo spirito del padre suo e per apprendere i destini e la futura grandezza della stirpe che da lui avrà origine in terra italica.

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Francesco Lamendola

Di tanta ira son capaci i Celesti?

«Tantene animis caelestibus irae?» («Di tanta ira son capaci i Celesti?»), chiede Virgilio, quasi

smarrito, nel proemio all’«Eneide», con riferimento al rancore implacabile con cui Giunone, la

regina degli dèi, perseguita gli esuli Troiani.

Giunone protegge Cartagine e sa che dai Troiani nascerà la stirpe romana, da cui Cartagine verrà

distrutta; lo sa, perché è cosa voluta dal Fato, e al Fato neppure gli dèi possono opporsi; tuttavia si

sfoga a perseguitare Enea, sì che, se non può impedirgli di raggiungere la foce del Tevere, vuole

almeno che ogni passo in direzione dell’Italia, ogni giorno che avvicina l’eroe alla fondazione di

una nuova città, erede della patria distrutta, sia da questi pagato ad un prezzo terribile, sia scontato

con infiniti dolori e sofferenze.

Giunone è impossibilitata a fermare Enea; lo sa bene, pur essendo la moglie di Giove, la signora

dell’Olimpo; lo sa, e ne soffre; lo sa e morde il freno, schiuma di rabbia, freme d’indignazione e

d’ira impotente. Non lo fermerà, ma gli renderà amara la vita; gli renderà amaro l’arrivo nella nuova

sede; gli renderà amara ogni tappa del suo fatale peregrinare: l’amore per Didone si risolverà in

tragedia; l’amicizia con Evandro costerà la vita al figlio di lui, Pallante; il fidanzamento con

Lavinia, causerà una guerra feroce coi Latini e un grave dissidio nella casa stessa del futuro

suocero, Latino, culminato nel suicidio della sua sposa, la regina Amata, e nel dramma di Lavinia,

già promessa a Turno, che vedrà il suo fidanzato cadere proprio sotto il ferro di Enea. E ancora, la

madre di Eurialo, che vedrà lo strazio del figlio, caduto insieme a Niso nella sortita notturna nel

campo nemico; e tante altre donne, madri e spose, che resteranno vedove, nell’uno e nell’altro

schieramento; e perfino l’empio tiranno Mezenzio, che avrà il dolore lacerante di veder morire, per

mano di Enea, il suo diletto figlio Lauso, tanto migliore di lui, che generosamente aveva cercato di

fare scudo all’indegno padre con il suo stesso corpo.

Quanti dolori, quante separazioni, quanti rancori a causa dell’odio di Giunone per Enea e per i suoi

compagni. E che dire di Didone, della bella, dolce, umanissima Didone, che dimentica ogni cosa per

amore di Enea: i suoi doveri di regina, la fedeltà giurata al defunto marito Sicheo; e che da ultimo,

abbandonata senza tanti complimenti, sceglie di uccidersi con le sue stesse mani, non senza prima

aver lanciato una terribile maledizione contro il principe troiano?

Dunque: di tanta ira son capaci i Celesti? Sono dunque capaci di odiare come gli uomini e perfino

più degli uomini, loro che non conoscono vecchiaia né morte; loro che – secondo Lucrezio - vivono

beati negli “intermundia”, ma che devono, anch’essi, piegare la fronte dinanzi al Fato, e rassegnarsi

alla sua imperiosa necessità, così come Zeus in persona aveva dovuto rassegnarsi, nell’«Iliade», alla

morte in battaglia del figlio Sarpedonte, presso le spiagge di Troia? Gli dèi, per Omero, possono

tutto: ma non possono opporsi al Fato; e così per Virgilio.

Ma Virgilio ne resta sbigottito; il suo animo pio pare che non riesca a rassegnarsi all’idea di una

religione così impietosa, alla crudeltà degli dèi nei confronti degli uomini, specialmente se puri di

animo e rispettosi della patria, della famiglia, dei Celesti. Come è il caso di Enea, che, per molti

aspetti, sembra più un sacerdote che un guerriero, e non c’è spiaggia ove non abbia innalzato un

altare e ove non abbia rivolto una fervida preghiera; Enea che, appena fa un sogno, si sforza

d’interpretarlo alla luce della volontà divina; che è sempre giusto, umano, pietoso con tutti, anche

con i nemici; che ha compassione dei giovani destinati alla morte in battaglia, che ha una viva

devozione filiale per il vecchio Anchise, in onore del quale farà tenere dei solenni giochi funebri,

durante la stanza in Sicilia; che sarà giudicato degno, lui vivo, nel regno dell’Ade, guidato dalla

Sibilla Cumana, per incontrare lo spirito del padre suo e per apprendere i destini e la futura

grandezza della stirpe che da lui avrà origine in terra italica.

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Hanno scritto Rosa Castellaro e Carmelo De Leo (in: «La lingua che scriviamo», Torino, S.E.I.,

1984, 1987, pp.194-96):

«Fin dai tempi più lontani gli uomini hanno sentito la necessità di ipotizzare degli esseri superiori

che potessero spiegare l’origine del mondo, le grandi energie della natura, il significato delle

vicende umane e il destino dell’uomo dopo la morte.

Sono nati così gli dèi, che affidati, per così dire, alla sola immaginazione degli uomini, sono stati

concepiti numerosi, uno per ogni divinità o realtà particolare, maschi e femmine, spesso imparentati

fra di loro, sensibili ai sentimenti e alle passioni sperimentate dagli uomini, in tutto simili agli

uomini, ma potenti e immortali abitatori dell’Olimpo, soggetti soltanto al fato universale e

ineluttabile.

Virgilio nel primo libro del’”Eneide” ne presenta un campionario significativo e interessante.

Giunone, moglie del sommo Giove, sconvolta dall’ira e dalla gelosia, perseguita i Troiani, esuli

dalla città incendiata, e va a chiedere l’aiuto di Eolo, custode dei venti e delle tempeste, al quale

promette in sposa la sua bellissima ninfa, Deiopea, in cambio di una terribile tempesta, che

sconvolga il mare e distrugga completamente le navi troiane fino a far affogare Enea e i suoi

compagni.

Nella sua irata decisione prende esempio dalla dea Minerva, che già s è vendicata dell’offesa di

Aiace d’Oileo, reo di aver abusato della sua profetessa cassandra, fulminandolo in mare durante il

viaggio di ritorno in patria insieme ai suoi compagni greci; non può infatti, lei, la più potente dea

dell’Olimpo, sopportare la prospettiva di un umiliante insuccesso, che potrebbe screditarla presso i

suoi fedeli, i quali sarebbero indotti a diradare i loro omaggi sacrificali presso i suoi altari.

Nettuno, il dio del mare, rivendica il suo incontrastato dominio sul mare e impone ai venti di

ritirarsi, minacciando di castigarli col suo terribile tridente.

Venere, madre amorosa di Enea, alla prima occasione con e lacrime agli occhi rimprovera a Giove

le sue mancate promesse di protezione e di successo al viaggio del figlio, esemplare nella pietà

verso gli dèi eppure perseguitato così ferocemente, ottenendone un bacio di incoraggiamento e la

rinnovata promessa del destino felice di Enea, nel quale sarà coinvolta Roma e l’illimitata

grandezza dell’Impero romano. Anche Giunone, promette Giove si calmerà, cambierà

atteggiamento e proteggerà i Romani, dominatori del mondo.

Coe madre premurosa e tenera si impegna quindi a guidare il figlio nella terra di Libia,

procurandogli u0paccogliebza festosa da parte della regina Didone e l’amore appassionato di lei.

Giove, nel colloquio con Venere, incarna l’ideale del padre affettuoso e premuroso insieme a quello

del dio del cielo e della terra maestoso e umanissimo, che si commuove alle sventure degli umili,

riuscendo ad equilibrare dall’alto del suo potere e prestigio le passioni e le cattiverie degli altri dèi,

per fare prevalere la giustizia e il destino di cui in qualche modo è custode ed esecutore.

Enea, oggetto di tanta feroce persecuzione e di così appassionata difesa e protezione, sembra un dio

più grande rispetto agli dèi veri, delle cui passioni è vittima innocente; non è lui il responsabile

degli errori, delle vendette, delle insidie, delle astuzie, dei comportamenti delle divinità, ne è invece

l’oggetto paziente e pio che farà gridare a Virgilio la famosa accusa: “Di tanta ira sono capaci i

Celesti?”.Virgilio, che pur presenta questi dèi, ne è scontento e sembra quasi auspicare, attraverso la

figura della maestà serena e pacificatrice di Giove, una diversa concezione della divinità.

Noi sappiamo che la storia quasi immediatamente risponderà alla insoddisfazione del poeta,

mediante la manifestazione della benignità del Dio unico attraverso l‘incarnazione di suo Figlio,

Gesù Cristo. Il dio cristiano infatti è dio di pace e di amore che non perseguita gli uomini, ma li

tratta tutti come figli suoi fino a dare la propria vita per la loro salvezza.»

Virgilio, come tutti gli spiriti nobili e pensosi, era ossessionato dal problema del male, e

particolarmente dal male che colpisce gli innocenti. Non poteva rassegnarsi all’idea di una divinità

più crudele, più meschina - nel suo odio - degli esseri umani che essa va perseguitando.

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Di fatto, la religione greco-romana non era mai stata tale da assicurare un orizzonte di serenità e di

autentica speranza ai suoi fedeli; sempre, in essa, l’elemento del capriccio, della imprevedibilità e

della vendicatività dei Celesti aveva predominato. Emblematico dello stato di insicurezza in cui gli

uomini vivevano è il bassorilievo del Museo Archeologico di Aquileia, che mostra un “cacator”, un

lordatore di luoghi sacri, fulminato da Zeus: l’uomo antico viveva nel terrore di infrangere qualche

norma divina, qualche divieto sconosciuto; come Atteone che, per errore, vide Artemide bagnarsi

nuda nel fiume e venne perciò trasformato in cervo, finendo sbranato dai suoi stessi cani.

Fu per questo, in ultima analisi, che le religioni di origine semitica - i culti di Attis, di Cibele, di

Iside, di Mitra – finirono per penetrare a poco a poco nella società romana e per soppiantare il

paganesimo classico; essi offrivano ciò che questo non era in gradi di offrire: una prospettiva di

salvezza, in quella che lo storico Eric R. Dodds ha giustamente definito “un’epoca di angoscia”.

Non si limitavano a prescrivere una serie di riti e di cerimonie, ma facevamo appello alle zone più

profonde dell’anima; e non si limitavano a un distacco più o meno benevolo, ma sovente sospettoso,

bensì promettevano la beatitudine nell’altra vita, in cambio di una adesione totale e incondizionata

da parte dei fedeli.

Inoltre la religione greco-romana, come tutte le religioni dei popoli indoeuropei, si muoveva entro

un tempo ciclico, e l’uomo insieme ad essa; ciò assicurava l’idea della ripetizione, del ritorno

dell’uguale, della sostanziale permanenza dei cicli cosmici. Il cristianesimo, religione semitica,

porterà nel politeismo greco-romano l’idea del tempo lineare e progressivo, ossia l’idea finalistica

della storia: l’uomo e il mondo non si muovono eternamente in cerchio su se stessi, ma procedono

verso una meta, verso una rivelazione decisiva, che porrà fine ai tempi della storia.

La sensibilità religiosa di Virgilio, che è stata definita pre-cristiana o “naturalmente” cristiana (si

veda la quarta Ecloga delle «Bucoliche»), si muove in quella terra di nessuno che è costituita dagli

ultimi due secoli prima di Cristo e dai primi due secoli dopo Cristo: l’età di Lucrezio, di Cesare, di

Cicerone, di Augusto: un tempo in cui i vecchi dèi greco-romani sono di fatto morti, o regrediti al

livello di spauracchi per le vecchiette, ma i nuovi non si sono ancora affermati. Anche la morale è

come sospesa in un Limbo, in una tenue luce crepuscolare: è in questa fase che Lucrezio, sulla

scorta di Epicuro, formula la dottrina secondo la quale gli dèi vivono beati e impassibili negli spazi

celesti: la loro dignità è ripristinata, contro l’eccessivo antropomorfismo omerico e classico; ma, in

compenso, gli uomini, se non hanno nulla da temere dalla loro collera, non hanno neppure niente da

sperare dalla loro benevolenza. Si tratta, evidentemente, di un ateismo pratico: che siffatti dèi

esistano, oppure no, per gli esseri umani ciò non fa alcuna differenza.

Lo sgomento di Virgilio davanti all’ira di Giunone, ira tanto più ingiusta quanto più Enea è un

“pius”, deve essere collocato in questa complessa cornice culturale e spirituale. Il suo sgomento

scaturisce da una sensibilità religiosa molto profonda, che non può trovare risposta alle sue

domande nel quadro del politeismo greco-romano e che già sente, più o meno consapevolmente, il

fascino delle religioni orientali di salvezza, senza però possedere ancora un preciso quadro di

riferimento e, quindi, senza riuscire a placare la propria ansia esistenziale, la propria insicurezza

davanti al mistero del male.

È nella natura umana farsi delle domande sulla vita e sulla morte, sul senso del proprio destino

terreno e di quello, eventualmente, ultraterreno. Virgilio, anche sulla scorta di suggestioni orfico-

pitagoriche (come si vede chiaramente nel sesto libro dell’«Eneide», quello della discesa di Enea

nell’Averno) cerca, come sa e come può, di impostare il problema e ci mostra il suo pio eroe

disperatamente affannato a interrogare il Cielo, per comprendere quale sia quel senso, quale sia il

suo destino e quello del suo popolo errante. Il vagare di Enea da un lido all’altro, da un’isola

all’altra, da un soggiorno all’altro, ora ospite benevolmente accolto, ora combattuto come un

invasore, è simbolo di una eterna condizione umana, quella dell’”homo viator”, dell’uomo

pellegrinante sulla Terra, alla ricerca di un orizzonte di speranza, di una certezza soprannaturale alla

quale ancorare il proprio destino e in cui trovare un significato al proprio soffrire.

In ciò consiste la grandezza immensa di Virgilio, la sua perenne contemporaneità: egli è il fratello

ideale di tutti gli uomini che s’interrogano, cercano, soffrono, sperano, lo sguardo rivolto in alto…